domenica 27 dicembre 2009

l’Unità 27.12.09
Conversando con Luce Irigaray Filosofa
«L’evoluzione è il compito dell’Homo Sapiens E se ricominciassimo?»
intervista di Maria Teresa Paalieri

Luce Irigaray per una decina d’anni, tra metà anni Ottanta e metà dei Novanta, è stata per l’Italia una presenza familiare: è stata un’interlocutrice di spicco, in quell’epoca, del «femminismo istituzionale» praticato dalle donne del Pci, poi del Pds. In quella stagione potevamo dialogare con il suo pensiero di quegli anni sono testi come Io tu noi. Per una cultura della differenza, Amo a te, Essere due, La democrazia comincia a due vedendolo come un orizzonte radicale non solo desiderabile ma anche praticabile. Oggi no. Nel corso del soggiorno romano, in cui ha incontrato il pubblico alla Fondazione Basso e a Romatre, abbiamo parlato con Irigaray del suo libro più recente, Condividere il mondo (come molti altri edito da Bollati Boringhieri). E, parlando con lei, l’effetto su di noi è stato questo: ci siamo ricordate che esistono luoghi dove la civiltà sussiste e dove si può perfino riflettere su come migliorarla. Questo ci dice con cruda chiarezza in quale buco nero noi l’Italia di Berlusconi e della Lega siamo invece caduti. Ecco, alla fine di questo annus horribilis, parliamo con Luce Irigaray e ci sentiamo «in viaggio all’estero».
Condividere il mondo riprende alcuni dei temi-chiave della filosofa francese: l’altro e l’alterità, la differenza tra i generi e le identità sessuate, l’uomo e il suo rapporto con la madre e la conseguente fondazione di un Logos e una civiltà basati, anziché su coesistenza e amore, su conflitto e opposizione. Però qui lo fa alla luce di alcune urgenze della nostra epoca. «Oggi dobbiamo tornare alla questione “che cos’è l’essere umano”? In che modo si distingue dagli altri esseri viventi? Siamo arrivati a un punto tale che dobbiamo ricominciare da qui. L’umanità è la specie vivente che ha più possibilità di perdersi. Dobbiamo tornare alla nostra realtà di umani e, da qui, riprendere il compito che ci è dato: continuare l’evoluzione. Come possiamo governare il mondo, anziché dominarlo?» si chiede Irigaray.
«Continuare l’evoluzione» è un bell’obiettivo. Per l’Homo e la Foemina Sapiens quali potrebbero essere le prossime tappe? «Per esempio la cosiddetta liberazione della donna. O la globalizzazione. Ma siamo a un limite: tutto può andare contro l’evoluzione umana, se non stiamo attenti a usarlo in suo favore. La globalizzazione, con il conseguente multiculturalismo, ci aiuterà a trovare un paradigma che ci faccia crescere oppure ci farà assestare su un consenso verso il basso? Oggi, poi, la vita stessa è a rischio, non solo come futuro del pianeta e del vivente, ma come futuro dell’umano in quanto tale. In Francia ogni giorno la televisione parla di specie condannate alla scomparsa, animali, piante. Nessuno dice però che è l’umanità stessa che scompare: abbiamo perso energia, capacità di anticipare il futuro, capacità
di pensare. Si parla piuttosto di pandemie, di apocalisse. Ma questo vuole pur dire che c’è il sentore di un pericolo». In «Condividere il mondo» lei nota che oggi nel pianeta i conflitti sono tra «Assoluti». Pensa agli integralismi religiosi?
«La radice dei conflitti sembra economica, ma, ciecamente o chiaramente, essi vengono promossi in nome di un Dio e di una concezione dell’Assoluto su cui si fonda la comunità. Il modo di concepire l’Assoluto non è lo stesso in tutte le comunità, perciò i conflitti ci sono e continueranno a esserci. L’Assoluto è la cosa più difficile da interrogare». L’Assoluto è per definizione un dio? O ne esistono anche nelle nostre società secolarizzate?
«Può essere l’ideale platonico del Bene, del Buono, del Vero. Può essere un’ideologia. Cambiando registro, può essere un idolo incarnato, un dittatore. Ora, io penso che se un intellettuale, dopo la caduta degli idoli, non propone nuovi modelli per il futuro dell’umanità, diventa un complice. L’umanità, caduti gli idoli, manca di trascendenza, ma trascendersi fa parte dell’umano. Dobbiamo riprendere questo cammino attraverso cose radicalmente semplici ed umane, per esempio costruire un futuro, o il rapporto con l’altro in quanto differente. Dopo la caduta degli Assoluti che cementavano una comunità non si può lasciare che tutto si disfi, non si può restare fermi alla distruzione, bisogna creare nuovi valori. È importante continuare a sfidare i valori del passato, per esempio a livello sessuale, ma si devono trovare, anche, nuove modalità di rapporto».
In Italia è allo sfascio che siamo fermi: i «nuovi valori» in crescita sono il razzismo, la mercificazione della sessualità e una specie inquietante di neo-sessismo, promossi dal livello più alto, da chi ci governa. Lei, quando parla di nuovi valori, a cosa pensa?
«Al rispetto dell’alterità dell’altro. Che sia un compagno, una compagna, un figlio, uno straniero. Rom, donne, il problema è questo: la mancanza di rispetto per l’altro. L’altro umano viene considerato in modo quantitativo: io, che sono sopra di te, posso decidere per te. Tu, in un modo o in un altro, sei il mio schiavo o il mio debitore».
La globalizzazione ha rivoluzionato alcune nostre coordinate. Lei nel suo saggio affronta quelle di «lontano» e «vicino». È lì che nasce il rigetto dello straniero?
«Io suggerisco di sostituire l’intimità alla familiarità. Familiarità significa condividere abitudini, costumi, senza essere attenti all’altro. Ma dentro di noi c’è un nocciolo più intimo che ci è ancora nascosto. È l’incontro con l’altro che può rivelarci a noi stessi. Il rispetto per l’altro riapre il nostro orizzonte, ci chiama più lontano. Ma questo lontano è anche dentro di noi, è l’intimo che non conosciamo. E se questo ci è ancora precluso è perché siamo vissuti in una cultura che ha privilegiato la vista sul tatto. La carezza può servirci a dominare l’altro, ma anche a rivelarci reciprocamente. Invece, secondo lo stesso Sartre, nella nostra cultura la carezza serve ad assopire per dominare, anziché a risvegliare il desiderio e l’amore per poterli condividere. Il tatto può essere fisico, ma anche psichico o spirituale. Si dice “quella persona ha tatto”, cioè ha sensibilità, rispetto... La familiarità è riduzione a cosa: tu fai parte del mio paesaggio, delle mie abitudini. E quando arriva lo straniero, va tutto all’aria. Accettiamo lo straniero finché ci porta qualcosa in più. Quando invece turba la nostra familiarità, lo rigettiamo. Abbiamo curiosità per lo straniero quando lo vediamo nel suo paese, ma quando viene qui e ci chiede di cambiare le nostre abitudini, allora no. Anche il desiderio, quando si ferma alla familiarità senza rispetto per l’intimità dell’altro svela qualcosa di davvero problematico. E questa è la storia della sessualità occidentale: usare il familiare anziché condividere l’intimità».
Lei pratica yoga e ha soggiornato in India. Lì ha notato differenze, su questi piani? «Non ho ricevuto, con lo yoga, insegnamenti sulla differenza tra i sessi, e questo glielo rimprovero. Ma le donne, lì, sono dee. Nessuno si permetterebbe di trattare una donna, anche povera, in India, come si fa qui. Forse è perché nel loro pantheon ci sono delle divinità femminili». Il rapporto con l’altro è un problema squisitamente occidentale?
«Credo che, alla culla della nostra civiltà, i filosofi presocratici abbiano ripreso alcuni valori dalle tradizioni orientali ma che, poco alla volta, vi abbiano sostituito dei valori propriamente maschili, come il dominio, la tecnocrazia e la competitività. Bisogna ricominciare dal due anziché dall’uno: due generi, non uno che li comprende entrambi. Nella Grecia arcaica esisteva la forma duale e la via mediana nei verbi, Omero per esempio la usa, poi scompare. C’è stato un crocevia in cui è stata imboccata la strada sbagliata. Da lì bisogna ricominciare».❖

La biografia
1974, lo scandalo di «Speculum» Da Freud alla sua filosofia
Luce Irigaray (1930), filosofa, ha interessi multidisciplinari che le provengono da studi, oltre che in filosofia, in psicologia, letteratura, linguistica, e dalla formazione psicoanalitica. Nata in Belgio, dai primi anni ‘60 vive a Parigi. Già membro dell’École freudienne diretta da Jacques Lacan, nel 1974 ne viene espulsa per la pubblicazione di «Speculum, l’altra donna», denuncia del fallocentrismo, e perde l’insegnamento all’Università di Vincennes. Protagonista del pensiero della differenza, dai primi anni ‘80O direttore di ricerca al Cnrs, è stata insignita della laurea honoris causa dall’università di Londra.

l'Unità 27.12.09
Il partito dell’amore
di Vittorio Emiliani

Assimilare atti differenti compiuti da due differenti persone in cura da anni per disturbi mentali col fine di costruirci sopra un’unica “teoria della violenza” prodotta dal clima politico sembra davvero un’ardua e mistificante impresa. Vi accenna lo stesso presidente del Consiglio che compare “in voce”, ogni giorno ormai, dalla sua villa di Arcore, alla radio, alla tv, nei Tg quando al Tg1 dell’altra sera parla di «odio che rende violente contro l’avversario politico le menti più fragili». Stringe subito l’acrobatica connessione il tg della Rai mettendo sullo stesso piano di «prodotti dell’odio politico» il lancio folle di Massimo Tartaglia contro Berlusconi e il tentativo della svizzera Susanna Maiolo di toccare Benedetto XVI. Due episodi che, semmai, dovrebbero far riflettere sulla inadeguata professionalità della sicurezza, italiana e vaticana, utilizzata in quei pericolosi bagni di folla.
È già inqualificabilmente grave l’hanno fatto Cicchitto ed altri dare nome e cognome ai “mandanti” di Tartaglia. Ma, andare oltre l’inqualificabile per impastare insieme i due gesti quali sintomi di uno stesso clima politico profondamente inquinato è davvero voler contribuire all’incendio permanente del confronto, dirigendo le fiamme contro i “mandanti” e dando la seguente impressione: c’è “un partito dell'amore” (senza allusioni al lettone dono di Putin) e c’è “un partito dell'odio”. Del primo fanno parte tutti coloro che amano il premier e ne condividono opinioni e progetti. Del secondo fanno parte non solo tutti coloro che detestano lui e le sue proposte politiche (comunque, chi gliel’ha messa in bocca a Di Pietro l’idiozia di Berlusconi=Diavolo?), ma anche tutti coloro che, più semplicemente, non le condividono. Dissenso, in democrazia, del tutto legittimo.
Quando Berlusconi significativamente dopo l’Epifania, dal greco epiphàino, appaio riapparirà, proporrà riforme vere oppure leggi su misura per lui? Nel primo caso sarebbe sbagliato non andare a vedere le carte e ragionare su di esse. Nel secondo, sarebbe sbagliato proseguire nel dialogo. Domanda: così facendo, si entrerebbe a far parte, automaticamente, delle «fabbriche di menzogne, estremismo e anche di odio» (Berlusconi al Tg1)? Non è proprio il massimo che l’altro ieri il presidente abbia dialogato “in voce” con don Pierino Gelmini della Comunità “Incontro”, rinviato a giudizio per abusi su minori. Ancor più sorprendente che abbia rivendicato il motto «noi rispettiamo l’avversario politico». Non ricorda di aver parlato delle “stronzate di Prodi”, di aver mimato la sinistra che va al governo e subito straccia il suo programma, di aver sostenuto «certo, non credevo fossero così tanti i coglioni» che votano per la sinistra, di aver proposto l'on. Schulz (Spd) «per il ruolo di un kapò», di aver definito Rosy Bindi «più bella che intelligente», ecc.? Tuttavia se il Berlusconi dell’Epifanìa, cioè della nuova “apparizione”, sarà diverso da quello e proporrà leggi condivisibili, spiazzerà per primi i suoi sostenitori, come Minzolini, i quali fanno un solo fascio di Massimo Tartaglia e di Susanna Maiolo per rappresentare il clima di odio contro il governo e il suo leader alimentato dal centrosinistra, anzi dalla sinistra. Ora e sempre “comunista”, ovviamente.

l'Unità 27.12.09
Etica pubblica e pragmatismo
Cosa insegna quella cultura azionista
di Giunio Luzzatto Università di Genova

Ho fatto un errore, e devo riconoscerlo». Per una persona come Massimo D'Alema una dichiarazione come questa, fatta nel colloquio con Giovanni Maria Bellu pub-blicato dall'Unità il 24 dicembre, è molto inconsueta.
In tale colloquio, mentre ha puntigliosamente difeso tutti gli altri punti della precedente intervista al Corriere della sera sulla quale si sono sviluppate intense polemiche, D'Alema ha affermato che il suo accostamento dell'antipolitica all' "azionismo" era stato "improprio e frettoloso".
È giusto prendere atto del passo indietro, ma poiché, a destra come a sinistra, ci si trova spesso davanti a esorcizzazioni della "cultura azionista" vale la pena di cercare di comprendere le ragioni di questo fenomeno.
Un fantasma sembrerebbe cioè aleggiare sull'Italia, e danneggiarne le sorti che in assenza di esso potrebbero essere invece, grazie ad astuti compromessi, magnifiche e progressive: il Partito d'Azione scomparso da oltre sessant'anni. E la corrispondente cultura, quella del rigore nel perseguimento della Giustizia con la Libertà.
Scriveva Carlo Rosselli: "Il fascismo è stato l'autobiografia di una nazione che rinuncia alla lotta politica, che ha il culto dell'unanimità, che rifugge dall' eresia, che sogna il trionfo della facilità, della fiducia, dell'entusiasmo." Sono parole del 1929, ma è sufficiente sostituire "fascismo" con "berlusconismo" per trovare in esse una piena attualità. In questa deplorazione per l'assenza di lotta non vi è alcun "odio" nei confronti del dittatore di ieri o del demagogo di oggi: vi è una analisi che guarda nel profondo di questo paese. Là dove la tendenza al conformismo ha radici antiche: abbiamo avuto la Controriforma senza aver partecipato alla Riforma. Particolarismi egoistici (vi è chi parla di "familismo amorale") fanno premio rispetto alla coscienza civica, a una valorizzazione delle istituzioni pubbliche: effetto di una unità nazionale giunta molto tardi, di un debole senso dello Stato.
Quando la sinistra maggioritaria era dogmatica, la cultura politica di cui parliamo era pragmatica; non ha mai ritenuto che il perseguimento della giustizia sociale richiedesse l'adesione all'ortodossia marxista. Ma, per essa, pragmatismo non significa opportunismo: significa, all'opposto, meno ideologia e più concretezza, più etica pubblica. Un grande economista, Paolo Sylos Labini, quando un imprenditore titolare di concessioni governative scese nell' agone politico sollevò immediatamente il problema della sua ineleggibilità. Se, anziché isolarlo come il solito azionista rompiscatole, lo si fosse ascoltato, forse oggi staremmo meglio.❖

l'Unità 27.12.09
Bonelli: «Stato di calamità Sì ma per il governo... »
di M. C.

«È necessario e urgente dichia- rare lo stato di calamità naturale del governo italiano per evitare futuri di- sastri, assolutamente prevedibili, co- me quelli provocati dal maltempo. Pochi centimetri di neve hanno bloc- cato il sistema ferroviario italiano mentre le piogge di queste ore stan- no provocando danni ingenti a perso-
ne e cose. È la fotografia di un’Italia arretrata di almeno 20 anni dal resto dei paesi d’Europa che non ha politi- che ferroviarie e politiche di tutela dal dissesto idrogeologico».
L’analisi di Angelo Bonelli, presi- dente nazionale dei Verdi, è molto dura: «Allagamenti e frane erano eventi prevedibili e il governo conosce quali sono le aree a rischio però, invece di fare investimenti nella po- litica di difesa del suolo, si affida al- la Provvidenza». «Si finanzia - ag- giunge Bonelli - un’opera dannosa e costosissima come il ponte sullo Stretto lasciando il paese in una si- tuazione di profonda arretratezza infrastrutturale ferroviaria, di as- senza di investimenti nella difesa del suolo e di rispetto dei vincoli idrogeologici. Ora il ministro Matte- oli chiede lo stato di calamità natu- rale... Proprio lui che è l’artefice del- le sperpero di denaro pubblico per il Ponte sullo Stretto... ».

l’Unità 27.12.09
La denuncia delle Ong
Sedici organizzazioni internazionali contro il blocco della Striscia
Gaza senza pace Ancora morti un anno dopo Piombo Fuso
di Umberto De Giovannangeli

Uccisi tre palestinesi nella Striscia nel giorno dell’anniversario dell’offensiva israeliana
A Nablus altre tre vittime. L’Anp contro lo Stato ebraico: non vogliono il dialogo
Sei palestinesi uccisi dai soldati israeliani in due operazioni, a Nablus e nella Striscia di Gaza. La condanna dell’Anp. Un anno fa iniziava la guerra a Gaza. Un anno dopo, la tragedia continua.

Un passato di sangue. Un presente dello stesso colore. Sei palestinesi sono stati uccisi ieri da militari israeliani in due episodi separati, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. È stato il più alto numero di uccisi dal fuoco israeliano un anno dopo la guerra di 23 giorni scatenata da Israele contro Hamas nella Striscia di Gaza. I primi tre sono stati uccisi nel corso di un raid condotto dai soldati di Tsahal nel cuore della notte nella Casbah di Nablus. È stata ferita la moglie di uno di loro; un quarto palestinese è stato arrestato. Le truppe, su segnalazione dello Shin Bet, il servizio segreto di sicurezza hanno isolato tre abitazioni in cui si erano nascosti tre membri delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa, il braccio armato di Al Fatah, il movimento che fa capo al presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen).
L’IRA DEI PALESTINESI
Secondo un portavoce di Tsahal i tre miliziani sono responsabili dell' uccisione, 48 ore prima, del colono
israeliano Meir Avshalom (45 anni), colpito dal fuoco di armi leggere dentro la sua automobile nel nord della Cisgiordania. Nel secondo incidente altri tre palestinesi civili, secondo fonti locali sono stati uccisi dopo essersi troppo avvicinati al reticolato di confine con Israele, in zona interdetta, nella Striscia di Gaza. Contro di loro è stato aperto il fuoco da terra e anche dall'aria. L’Autorità nazionale palestinese (Anp) ha duramente condannato Israele per i fatti di sangue di Gaza e Nablus, accusando lo Stato ebraico di sabotare gli sforzi di pace, Nabil Abu Rudeina, portavoce del presidente dell'Anp Abu Mazen ha affermato che queste uccisioni sono la prova che «Israele non è interessato alla pace è sta invece cercando di far esplodere la situazione»,
Ed è in questo clima infuocato che cade il primo anniversario dell’inizio dell’operazione «Piombo Fuso», scatenata da Israele nella Striscia di Gaza
LA STRISCIA IN GINOCCHIO
Secondo un rapporto della organizzazione umanitaria Pchr-Gaza, le case totalmente distrutte durante la guerra sono state 2.114, e le altre rese comunque inagibili 3.242: di conseguenza alla fine del conflitto i senza-tetto erano stimati in oltre 50 mila. Oggi sono 20 mila. La chiusura della Striscia ha provocato un netto aumento nei costi del cemento e dei materiali di costruzione: un mattone che costava un anno fa due shekel (30 centesimi di euro) viene pagato adesso 4,50. Secondo il rapporto di Pchr-Gaza, del milione e mezzo di abitanti di Gaza l'80% vive in condizioni di povertà. Il tasso medio di disoccupazione è del 42%, ma in certe zone supera il 55%. Una famiglia di Gaza su cinque deve arrangiarsi con l’equivalente di 10 euro al giorno. Per la chiusura dei confini l'Egitto sta costruendo una barriera sotterranea per bloccare i tunnel di contrabbando i prezzi dei beni di consumo crescono di continuo: la vita diventa una guerra per la sopravvivenza. A ciò si aggiungono la preoccupazione per un nuovo conflitto e
per le malattie. Molte medicine scarseggiano. Chi poi deve ricorrere a cure mediche avanzate si trova di fronte alla difficoltà pratica di ottenerle, in Israele o in Egitto, viste le difficoltà di abbandonare la Striscia. La comunità internazionale ha tradito la popolazione di Gaza fallendo nel porre fine all'embargo israeliano per permettere la ricostruzione nella Striscia. È l'accusa lanciata da un gruppo di 16 Ong internazionali tra cui Oxfam e Amnesty International in un rapporto pubblicato in occasione del primo anniversario di «Piombo Fuso». Nel documento si legge che Israele ha violato le norme umanitarie internazionali applicando una «punizione collettiva» con il blocco indiscriminato a Gaza, punendo quindi tutti per le azioni di pochi.❖

l’Unità 27.12.09
Manganelli e lacrimogeni contro i manifestanti antigovernativi a Teheran
Oggi previsti altri raduni di protesta nel giorno dell’Ashura, ricorrenza religiosa sciita
Iran, rivolta e repressione. Integralisti attaccano moschea
di Ga.B.

Estremisti filogovernativi attaccano i dimostranti a Teheran e si scatenano contro la folla che ascolta l’ex-presidente riformatore Khatami in una moschea. Previsti nuovi raduni oggi nel giorno dell’Ashura.

Estremisti islamici hanno attaccato una moschea nel nord di Teheran, dove era in corso una cerimonia religiosa, presente l’ex-presidente riformatore Mohammad Khatami. Armati di catene, mazze e bombolette spray urticanti, più di cinquanta individui sono penetrati nel tempio, che si trova non lontano dalla casa dello scomparso Ruholla Khomeini, fondatore della Repubblica islamica.
Khatami stava parlando alla folla, e non è chiaro se l’incontro sia stato sospeso o sia poi ripreso più tardi. Le notizie su questo e altri episodi di violenza accaduti ieri nella capitale iraniana, sono come al solito frammentarie, a causa della censura imposta dal potere ai media nazionali e stranieri. Sino a tarda ora non era chiaro che dimensione avessero avuto gli scontri e se ci fossero dei feriti fra le persone aggredite.
Le proteste popolari contro il regime sono divampate nuovamente ieri in vari punti di Teheran, alla vigilia dell'odierna ricorrenza dell’Ashura, la più importante festività sciita, in cui si commemora il martirio dell’imam Hossein, nipote del profeta Maometto.
L’opposizione ha annunciato nuove iniziative proprio per oggi, in coincidenza con l’Ashura ma anche con il settimo giorno dalla morte dell’ayatollah Montazeri, scomparso domenica scorsa a Qom. Montazeri era diventato una bandiera del movimento antigovernativo, per le sue coraggiose critiche verso i capi del regime, soprattutto dopo le elezioni del 12 giugno, che per l’opposizione furono viziate da massicci brogli.
Secondo il sito internet Jaras, vicino ai gruppi politici progressisti, le forze di sicurezza e i miliziani integralisti Basiji hanno usato metodi violenti per disperdere i cortei ed i raduni di protesta, e alcune persone sono rimaste ferite.
STUPIDI EUROPEI
A volte i manifestanti sono stati colpiti con i manganelli, usati anche per infrangere i vetri delle auto che si recavano verso i luoghi delle dimostrazioni. In alcuni casi gli agenti hanno lanciato lacrimogeni sulla folla ed esploso colpi d’arma da fuo-
co in aria a scopo intimidatorio. Il grido «Morte al dittatore», indirizzato al capo di Stato Mahmoud Ahmadinejad , è echeggiato ripetutamente nelle strade di Teheran, insieme alle grida di sostegno a Mirhossein Mousavi, il leader del movimento democratico spesso definito «onda verde» con riferimento al colore degli stendardi esibiti dai militanti.
I vertici della Repubblica islamica si sentono accerchiati. Isolati nel mondo per i loro piani nucleari sospetti. Sempre più impopolari in patria, dove la domanda di libertà è sempre più forte. Ieri il presidente Ahmadinejad è tornato ad accusare i Paesi occidentali di fomentare le proteste di piazza e di avere ordito un complotto anti-iraniano. «Hanno progettato uno scenario complicato ed esteso, ma non sanno che una nazione che è pronta a sacrificare la vita per l suoi dirigenti religiosi distruggerà tutti i loro tentativi satanici», ha dichiarato Ahmadinejad, secondo il quale i dirigenti europei in particolare, sono «uno più stupido dell’altro».❖

Repubblica 27.12.09
Dai pugnali agli schiaffi le offese alla sacralità

L´EPISODIO che ha coinvolto la persona di papa Benedetto XVI la vigilia di Natale non può non farci venire in mente il grave attentato di cui fu vittima papa Giovanni Paolo II in piazza San Pietro il 13 maggio 1981 alle 17.22. Ma come dimenticare che una decina di anni prima, nel 1970, durante il viaggio di Paolo VI nelle Filippine uno squilibrato tentò di colpire il Papa con un pugnale?
Il colpo fu deviato da monsignor Paul Marcinkus, allora incaricato di organizzare i viaggi pontifici. Per fortuna, non in tutti i periodi della lunga storia del papato si registrano serie di episodi così cruenti. Ma è anche vero che l´incolumità della persona fisica del papa (e più in generale degli uomini di Chiesa) fu, nel Medioevo e nei secoli moderni, un problema importante tanto da porsi al centro del diritto canonico. Chi attentava alla persona di un uomo di Chiesa e tanto più di un papa incorreva automaticamente nella scomunica. Il numero di vescovi medievali assassinati (si pensi ad esempio a Tommaso Becket) è così numeroso da aver indotto alcuni storici ad organizzare qualche anno fa in Germania un convegno di studi.
L´incolumità fisica del papa dominò anche l´evoluzione architettonica dei palazzi del papa. Nel Medioevo, il palazzo del Laterano, dove i papi risiedettero per un millennio, era protetto da una serie di edifici rivolti verso la piazza del Laterano ossia verso l´esterno. Ed anche il palazzo fatto erigere da Innocenzo IV (1243-1254) sulla collina del Vaticano era una sorta di fortezza che doveva forse servire a proteggere il papa dall´imperatore Federico II. Non a caso proprio Innocenzo IV dovette fuggire da Roma, città che l´imperatore svevo aveva l´intenzione di assediare. Alcuni anni prima (1241) Federico II non aveva esitato a fare prigionieri due importanti cardinali, catturandoli al largo dell´Isola del Giglio. Tutte le cronache dell´epoca, dall´Islanda alla Sicilia, dalla Spagna alla Polonia si fecero eco di un avvenimento che provocò un immenso scalpore in tutta la cristianità. Chi ancor oggi visita il palazzo dei papi ad Avignone non può non essere impressionato dal carattere difensivo del monumento, che non ha pari nella storia dell´architettura medievale europea. Passeggiando ad Avignone si possono ancor oggi ammirare alcuni palazzi dei cardinali di quel tempo, le cosiddette "livree", che, come quella del cardinale romano Annibaldo da Ceccano, sono veri e propri palazzi-fortezze. Il palazzo del papa doveva essere protetto anche quando si spargeva la notizia della morte del papa. Ancora nel 1227, i cardinali decisero di presentare ad una finestra del palazzo Lateranense il pontefice Onorio III (1216-1227) agonizzante ma ancora vivente per far sì che i romani non venissero a saccheggiare il palazzo del Laterano.
Proprio alla fine di quel secolo avvenne il più celebre attentato della storia contro un papa del Medioevo. Gli attentatori erano il romano Sciarra Colonna e il francese Guglielmo di Nogaret. Questi era stato inviato dal re di Francia per catturare Bonifacio VIII e portarlo a Parigi per farlo deporre da un concilio. Sciarra Colonna si era alleato al re Filippo il Bello per vendicarsi della lotta senza tregua che papa Caetani aveva lanciato contro la sua famiglia. Con il concorso di abitanti di Anagni, Sciarra e Nogaret si impadronirono fisicamente del papa ma dovettero liberarlo il terzo giorno. Bonifacio VIII fu portato a Roma scortato dagli Orsini che gli erano rimasti fedeli, ma morì diciassette giorni dopo. La persona del papa fu allora vittima di qualche violenza fisica, ma lo schiaffo che Sciarra Colonna avrebbe profferto al pontefice con il suo guanto di ferro è una leggenda nata in Francia verso il 1330 per scagionare il sovrano francese.
L´Attentato di Anagni pose fine al pontificato dell´ultimo vero pontefice medievale, colui che aveva portato al suo culmine il programma della monarchia papale escogitato dalla cosiddetta Riforma gregoriana. Ma anche Gregorio VII (1074-1085) dovette lottare per la sua incolumità. Nel 1077 era riuscito a fare inginocchiare Enrico IV a Canossa. Ma sette anni dopo, nel 1084, il papa sarebbe caduto in mano dell´imperatore se Roberto il Guiscardo, vassallo della Chiesa romana, non fosse giunto in tempo a costringere l´esercito imperiale a ritirarsi da Roma. Gregorio VII dovette comunque fuggire verso Salerno, capitale dei normanni, dove morì il 25 maggio 1085 esclamando: «Ho amato la giustizia e odiato l´iniquità, perciò muoio in esilio».
Più di settecento anni dopo un altro papa conobbe l´esilio. Napoleone avendo fatto occupare Roma da parte delle truppe del generale Miollis (2 febbraio 1808) e annessi gli Stati Pontifici (17 maggio 1809), Pio VII reagì il 10 giugno con una scomunica che fece affiggere sulle porte delle basiliche di S. Giovanni in Laterano, di S. Pietro, del palazzo della Cancelleria, a Monte Citorio e all´ingresso di Campo dei Fiori. Gli agenti del governo francese si affrettarono a strappare il breve papale, impedendo che copie manoscritte circolassero in città. Il papa fu fatto prigioniero, rinchiuso nel palazzo vescovile di Savona e poi condotto a Fontainebleau. Soltanto la crisi e la caduta dell´Impero napoleonico posero fine all´esilio del papa che rientrò a Roma il 24 maggio 1814. Ma anche il suo successore, Pio IX, dovette proteggersi da un´eventuale perdita della sua incolumità. L´uccisione, il 15 novembre 1848, di Pellegrino Rossi al quale era stato dato l´incarico di ristabilire l´ordine a Roma, indusse il papa a fuggire a Gaeta il 24 novembre. Soltanto il 12 aprile 1850, le truppe francesi comandate dal generale Oudinot permisero al papa di fare ritorno a Roma. Da allora al pontificato di Paolo VI l´incolumità dei papi non fu più in pericolo. Ma secondo il racconto fatto dal generale Wolff, Hitler, ispirandosi a Napoleone, avrebbe progettato di far catturare Pio XII.

giovedì 24 dicembre 2009

l’Unità 24.12.09
«Una campagna di calunnie per aggirare il congresso e spaccare il nostro partito»
La polemica sull’inciucio «Le mie dichiarazioni stravolte per un intento politico» Il dibattito sul dialogo «Se continuiamo così la destra potrà dire di volere le riforme senza farle»
intervista di Giovanni Maria Bellu

L’uso delle parole
«Elogio dell’inciucio» è un
titolo falso. Se la cronista
non avesse usato quel
termine non ci sarebbe
stata questa polemica
I giornali della destra
I complimenti a D’Alema?
Atteggiamento
strumentale favorito dalla
drammaticità della nostra
discussione interna
Leggi ad personam
Berlusconi ha i voti per
approvarsele. Ma
una cosa è certa: noi
del Partito Democratico
voteremo contro
Accettare il confronto
Veltroni dopo le elezioni
ha parlato di comune
responsabilità sulle
riforme. Ha cambiato idea
dopo il congresso?
Gli azionisti
Sì, in quell’intervento ho
fatto un errore: ho
accostato l’antipolitica
all’azionismo. Che invece
era una cosa seria

È un Massimo D’Alema piuttosto irritato quello che incontriamo nel suo ufficio della «Fondazione Italianieuropei» in
piazza Farnese. Tiene in mano una copia di Repubblica di qualche giorno fa col titolo: «D’Alema elogia l’inciucio». È di questo che vuole parlare. Non del suo prossimo futuro. Dà una risposta formale alla ovvia domanda sulla sua candidatura al Copasir, il comitato che controlla i servizi segreti, puntualizzando che si tratta dell’unica commissione parlamentare la cui presidenza spetta per legge all’opposizione e che, dunque, dopo le dimissioni di Francesco Rutelli l’avvicendamento dovrà avvenire in quell’ambito. Poi saranno altri i presidenti dei gruppi, il segretario a decidere: «Se si riterrà che possa svolgere quel ruolo, e credo di essere in grado, bene. Se no amici come prima. Ho sempre considerato con un certo distacco il tema delle cariche».
Quel titolo sull’inciucio è la causa immediata di un’irritazione che ha origini lontane e una storia lunga una quindicina d’anni. D’Alema avverte nitidamente che all’interno della sinistra (una parte minoritaria nella sinistra e “minoritarissima nel paese”, dice) c’è chi attribuisce a lui tutti i mali. Glielo confermiamo: gli abbiamo portato una cartella che raccoglie una selezione dei messaggi più antidalemiani giunti ai blog de l’Unità. Non è necessario aprirla. D’Alema sa bene di chi e di che cosa parliamo. E questo, più che irritarlo, lo fa infuriare. Non solo perché si tratta di accuse che lo feriscono. E nemmeno soltanto perché dice «portano la sinistra in un vicolo cieco e Berlusconi (se Scapagnini troverà la medicina) al governo fino all’anno Tremila». No, c’è dell’altro. Un sospetto pesante: che sia in atto un tentativo di spaccare il Partito democratico. Un tentativo che, dice, passa anche attraverso i mezzi d’informazione.
«Ecco comincia indicando il titolo sull’elogio dell’ inciucio questo è tecnicamente un falso. Non ho mai elogiato l’inciucio. Ho anche la registrazione di quel dibattito e chi vuole può verificare. È successo che Chiara Geloni, la giornalista che mi intervistava, ha usato quel termine. Ha domandato: “Come ci si sente a essere considerati erede della tradizionale del Pci e anche traditore di quella storia, cioè quello che fa gli inciuci?” E io ho risposto che i comunisti italiani, a partire da Togliatti, hanno sempre dovuto fare i conti con un’accusa del genere. Poi ho proseguito con degli esempi. Tutto qua. È del tutto evidente che se la giornalista non avesse usato la parola inciucio tutta questa polemica non sarebbe mai nata».
Invece è nata. Forse la parola “inciucio” ha ormai una valenza così negativa che è sempre meglio tenersene alla larga.
«Non è questo il punto. La questione è che io sono stato chiarissimo. Un
titolo come questo, accompagnato alle considerazioni sulla riforma della giustizia, è falso. Ed è un modo di informare che ha l’effetto di avvelenare il dibattito politico. Non da oggi, purtroppo...»
Ha parlato di "campagna", a cosa si riferisce? «A volte si ha l’impressione che più che di informare si abbia l’obiettivo di condizionare il nostro partito. Forse non è piaciuto l’esito del congresso. Forse qualcuno pensa che si debba scardinare la maggioranza che lo ha vinto, isolando D’Alema e condizionando Bersani. Sono intenti politici. È incredibile perseguirli distorcendo le informazioni e lanciando accuse calunniose e indimostrate. Quali sarebbero, in tutti questi anni, gli accordi sottobanco che avremmo fatto con Berlusconi? Sarei curioso di sentire l’elenco».
Non esiste la lista attuale. Ma esiste una lista relativa ai quindici anni. All’inizio c’è il famoso discorso del ’94 nel quale Violante parlò di una “garanzia” data a Berlusconi sulle sue tv. Poi la Bicamerale...
«Quanto al primo punto la domanda dovrebbe essere fatta a Violante, ovviamente. Nei fatti sono l’unico che ha cercato di far approvare una legge efficace sul conflitto di interessi quando era presidente del Consiglio, come ha ricordato il senatore Passigli in un suo libro. L’unico argine, per quanto modesto, all’uso politico delle tv da parte di Berlusconi durante le campagne elettorali è la par condicio, che fu proposta da me quando ero al governo. E ricordo bene che allora c’erano alcuni antiberlusconiani militanti che si opposero perché, dicevano, si trattava di una limitazione alla libertà di espressione...»
In questi giorni Libero e il Giornale, i quotidiani più violentemente berlusconiani, sono pieni di elogi per lei. Che ne pensa?
«Sono stato uno dei principali bersagli di quei giornali e, a volte, lo ero contemporaneamente dei giornali schierati sul fronte opposto. È evidente che c’è un atteggiamento strumentale favorito dalle drammaticità della nostra discussione interna. In questo modo, la destra cerca di guadagnare il vantaggio del presentarsi come la forza che vuole fare le riforme, senza neppure rischiare di doverle fare davvero. Comunque non sono interessato a nessuna strumentalizzazione e non intendo essere il referente di alcuno. Chi vuole discutere serenamente col nostro partito deve discutere col segretario Bersani e non cercarsi gli interlocutori in modo furbesco e strumentale».
A sinistra c’è chi teme la trappola. Che, cioè, questa disponibilità della destra al dialogo sia finta. «Non so se la disponibilità della destra sia vera o sia finta. Il modo migliore per appurarlo è lanciare la sfida delle riforme e aprire il confronto nel merito. Questa è la politica di una forza riformista che vuole essere utile al paese.
Se la destra si tirerà indietro pagherà un prezzo. Mi rendo perfettamente conto che Berlusconi non è un avversario politico normale. È stato infatti difficilissimo prendergli le misure, ma noi non possiamo cadere vittime della sindrome secondo cui di fronte a Berlusconi non è possibile fare politica. Anche perché, in questo modo, favoriamo soltanto i suoi successi. Prendiamo la vicenda della Bicamerale. Berlusconi fece fallire le riforme che sarebbero state utili al paese. Una parte della sinistra, facendogli così un grande favore, anziché criticare lui per essere stato causa di questo fallimento, ha attaccato me per averci provato».
I timorosi della trappola dicono che Berlusconi vuole solo quello di salvarsi dai suoi guai giudiziari. «Guardi che se Berlusconi vuole fare una leggina ad personam ha la maggioranza. Noi abbiamo detto con chiarezza che voteremo contro. Altre sono le riforme che riteniamo necessarie per l’Italia: una nuova legge elettorale che restituisca ai cittadini il potere di scegliere i loro rappresentanti, una riforma che renda più forte il Parlamento riducendo il numero di deputati e senatori e che segni il superamento in senso federalista del bicameralismo perfetto. E altre ancora contenute nella cosiddetta “bozza Violante”. Andiamo al merito senza agitare fantasmi». C’è chi dà per scontato che con Berlusconi sia inutile dialogare. I nostri blog sono pieni di messaggi così. «Noi non dobbiamo fare nessun particolare dialogo. Siamo in Parlamento e ci stiamo per affrontare i problemi del paese, confrontandoci con quanti dell’altro schieramento sono stati eletti dai cittadini. Sinceramente non conosco altro modo di fare politica per una grande forza democratica e riformista. Questa è la politica che il congresso del nostro partito ha approvato».
Ci sono tanti modi di fare politica. Per esempio quello che si è visto il giorno della manifestazione indetta dai blogger. Non teme di perdere questo pezzo dell’opposizione? «Non voglio perdere nessuno, ma la linea politica del nostro partito non può essere decisa dai blogger che indicono le manifestazioni. Ho massimo rispetto per loro e per le manifestazioni che organizzano. Ne capisco le ragioni, perché anch’io non ho nessuna simpatia per Berlusconi. Ma i partiti hanno un ruolo diverso».
Scusi, ma che differenza c’è tra dirsi “antiberlusconiani” e dire “non mi piace Berlusconi?”. Perché non dire che si può essere antiberlusconiani e volere le riforme?
«Non ci si qualifica per essere “anti” qualcosa. Noi siamo “per”. Per la difesa dei diritti di libertà e dei diritti sociali. Vogliamo affermare le nostre idee e i nostri valori. Non si può riassumere tutto questo nell’essere contro qualcuno. Anche perché il bipolarismo continuerà a esserci anche dopo la fine dell’era Berlusconi. Questa impostazione che ruota in modo ossessivo attorno al leader della maggioranza è subalterna. In effetti ci sono due forme di subalternità: la demonizzazione e la divinizzazione. Veltroni ha fatto la campagna elettorale all’insegna della non demonizzazione di Berlusconi, fino a non nominarlo, e all’indomani delle elezioni ha sottolineato la comune responsabilità con il presidente del Consiglio in materia di riforme costituzionali. Sarebbe strano se avesse cambiato idea solo perché Bersani è diventato segretario del partito».
A proposito di opposizione divisa. È dai pasdaran berlusconiani che arriva al Pd la sollecitazione a rompere con Di Pietro come condizione per rasserenare il clima politico.
«Con Di Pietro siamo alleati, stiamo andando assieme alle regionali. Con Di Pietro, e in qualche situazione, con l’Udc e con altri. A me interessa il merito delle riforme. E credo di essere tra quelli che hanno lavorato di più con proposte, ricerche, convegni, documenti...»
Da dove ritiene che si debba ripartire?
«Insieme alla “bozza Violante”, si dovrebbe avere il coraggio di proporre la riforma elettorale. Sono convinto che la soluzione migliore sia un sistema di tipo tedesco che ci consenta di uscire dalla logica dei blocchi elettorali e restituisca ai partiti il loro profilo. Non vogliamo più partiti che sono degli insiemi e dove l’unico tratto di riconoscibilità è nel capo. Questa è l’esaltazione della politica plebiscitaria perché alla fine si vota tra due capi. Si deve tornare a una legge dove gli elettori possono votare per una persona e per un partito. Questa forma plebiscitaria dove si elegge nello stesso momento il presidente del Consiglio e il Parlamento non esiste in alcuna parte del mondo».
Ma il Pd reggerebbe a una legge elettorale alla tedesca? «E proprio un’idea povera del Pd pensare che si tratti di un agglomerato tenuto insieme dalla convenienza elettorale. Io non lo penso. Anzi, credo che si tratti di una forza politica che nasce dalla storia dell’Ulivo, che ha ragioni profonde, non transitorie ed effimere».
Cosa direbbe a un giovane blogger terrorizzato dall’inciucio? «Non penso che il blogger di cui lei parla sia tanto giovane. Credo sia un po’ più agée. Quelli giovani si preoccupano piuttosto di quanto si è fatto col clima a Copenhagen, non di queste storie...» Allora cosa direbbe al blogger agée. Insomma, presidente d’Alema, torniamo a quelli di cui si parlava all’inizio. Quelli che a sinistra diffidano, che l’accusano di essere all’origine di tutti i mali. Pensa che sia possibile recuperare un rapporto, spiegare, chiarire?
«Intanto sarebbe utile studiare e capire meglio quello che è accaduto davvero in questi quindici anni. E poi gli direi di considerare con rispetto quell’altra parte della sinistra che non la pensa come lui». Ma non c’è un punto da cui ricominciare?
«Cominciamo a dire la verità. E ripartiamo dal rispetto reciproco. La destra in questo riesce meglio di noi: discutono, ma sono ben attenti a non demolirsi tra loro. La demonizzazione sistematica della propria classe dirigente, che per un partito è un patrimonio, è un esercizio autolesionistico. Se continuiamo a demolirla restano solo i dirigenti dell’altra parte». Ripeterebbe le frasi che hanno scatenato le ultime polemiche?
«Sì, con la speranza che vengano riportate in modo corretto. Con una sola esclusione. In quel discorso ho fatto un errore, e devo riconoscerlo. Ho accostato la brutalità dell’antipolitica all’azionismo. Si è trattato di un accostamento improprio e frettoloso. L’azionismo era una cosa seria e mi sembra sbagliato accostarlo a certi demagoghi di oggi».❖

l’Unità 24.12.09
Carceri, record nero 2009
171 le vittime, 70 suicidi Ieri gli ultimi due casi
di Davide Madeddu

Nelle carceri italiane sempre più sovraffollate e inadeguate, si continua a morire. Ieri altri due detenuti si sono tolti la vita. Un ex assessore di Nove, impiccato nel carcere di Vicenza, e un collaboratore di giustizia a Rebibbia.

Natale da galera. Che si tratti di bambini, donne con prole o “matti che dovrebbero stare altrove” non fa differenza. Le feste che i 66mila detenuti trascorreranno nelle carceri d’Italia saranno all’insegna della disperazione. Dietro le sbarre, infatti, cresce il numero dei detenuti, aumentano i disagi, si riducono i servizi e cresce il numero dei morti. Anche a Natale. Il triste bollettino che quotidianamente viene compilato dal centro studi di Ristretti Orizzonti, diretto da Ornella Favero, parla di 171 morti (70 suicidi) dietro le sbarre dall’inizio dell’anno: «il dato più alto e triste nella storia delle carceri». Gli ultimi due sono di ieri. Il primo al carcere di Vicenza dove Plinio Toniolo, 55 anni, artigiano, ex assessore del Comune di Nove (Vicenza) si è impiccato con un lenzuolo; il secondo, Ciro Giovanni Spirito, vicino al clan Mazzarella, collaboratore di giustizia dal 2006, si è tolto la vita nel carcere di Rebibbia.
SOVRAFFOLLAMENTO: SI DORME A TURNO
A fare i conti con le storie di «ordinaria disperazione» che si registrano dietro le sbarre ci sono poi gli operatori e i volontari. L’esercito invisibile che quotidianamente si impegna per dare un sostegno o, molto più semplicemente voce, a chi cerca di pagare il
debito con la società in una cella angusta. «Che la situazione sia ormai drammatica e allucinante è chiarissimo ed eloquente. E questo, per detenuti e operatori sarà un Natale all’insegna della disperazione denuncia Riccardo Arena, avvocato e conduttore di Radiocarcere su Radio Radicale ormai abbiamo superato anche il limite della cosiddetta sopportazione umana. La gente è costretta a fare i turni per poter al massimo dormire un’ora». Cita il caso di Padova dove c’è stata una rivolta dei detenuti. «Nelle celle di 8 metri quadri i letti sono a tre piani, e i detenuti dormono a turno perché non sanno dove mettersi dice se questo non è un caso che supera ogni limite tollerabile. Senza dimenticare poi quelli che in carcere non dovrebbero metterci piede ma dovrebbero stare altrove»
I BAMBINI DENTRO
A fare i conti con il sovraffollamento, ma anche i disagi che un’eccessiva presenza di detenuti comporta sono anche i bambini. Gli 80 innocenti che trascorrono i primi 3 anni di vita all’interno delle celle e gli altri 25mila che i giorni dei colloqui varcano le cancellate delle prigioni per salutare i parenti detenuti. «Il problema è sempre lo stesso, i bambini in carcere non dovrebbero starci e invece ci stanno dice Lillo di Mauro della Consulta penitenziaria di Roma con il risultato che i piccolissimi trascorrono i mille giorni più importanti e belli della loro esistenza dietro le sbarre delle carceri». Non sono gli unici però. «A fare i conti con le guardie, le perquisizioni e i controlli ci sono anche i 25mila bambini e bambine che entrano in carcere e vanno a trovare un parente detenuto».❖

l’Unità 24.12.09
Circondata la moschea a Isfahan, violenze sulla folla riunita nel nome di Montazeri: 50 arresti
La condanna di Khatami «Errore considerare traditore chi protesta. Rischiamo la tirannia»
Teheran, il regime minaccia: «Stop ai cortei o scontro duro»
di Marina Mastroluca

Polizia e basiji attaccano la folla riunita ad Isfahan per una cerimonia in memoria di Montazeri. Cinquanta arresti, molti feriti. Scontri anche a Najafabad. Il capo della polizia promette la massima durezza.

Il tam tam del web
I siti dell’opposizione: «Attaccano la gente con bastoni, pietre e catene»

Terzo giorno di lutto per l’ayatollah dissidente Montazeri e la protesta torna ad accendere le strade dell’Iran. Scontri, arresti e violenze sui manifestanti, polizia e basiji si sono accaniti sulla folla che ad Isfahan cercava di radunarsi intor-
no alla moschea di Sayed, dove avrebbe dovuto svolgersi una cerimonia di preghiera in memoria di Montazeri. L’edificio è stato circondato, la gente allontanata brutalmente con manganelli e gas lacrimogeni: ci sarebbero molti feriti e una cinquantina di arresti, fermati anche quattro giornalisti. Scontri e violenze anche nella città natale dell’ayatollah scomparso, Najafabad, dove già nella notte ci sarebbero stati incidenti proseguiti poi nella giornata di ieri. «La situazione in città è tesa. La gente scandisce slogan contro il governo».
Notizie frammentarie che arrivano attraverso i siti internet dell’op-
posizione. Impossibile verificare, in Iran non sono ammessi reporter stranieri. Ma del clima che si respira in questi giorni nel Paese ne dà una conferma indiretta il capo della polizia Esmail Ahmadi Moqadam, che ieri ha messo in guardia l’opposizione. «Ponete fine alle manifestazioni o ci sarà un confronto durissimo».
Ad Isfahan poliziotti in borghese e basiji hanno circondato anche la casa dell’ayatollah riformista Jalaledin Taheri, che aveva invitato la gente a partecipare alla preghiera per Montazeri. «Ho provato a raggiungere la moschea da sei strade diverse ma erano tutte bloccate», ha detto l’ayatollah, citato dal sito Parlemannews. «I manifestanti gridavano slogan contro le massime autorità dello Stato. Li hanno colpiti, inclusi donne e bambini, con bastoni, catene e pietre», riferisce un altro sito riformista, Rah-e-Sabz.
L’ex presidente moderato Khatami ha condannato le violenze sui manifestanti. «Chiamare traditore chiunque protesti, è una grave deviazione e dovrebbe essere corretta ha detto -. Khomeini credeva che la repubblica islamica fosse basata su due pilastri, libertà e indipendenza. Se questi pilastri vacillano... avremo di nuovo la tirannia». Il livello dello scontro è altissimo. Il leader dell’opposizione Mousavi è stato rimosso dall’ultimo incarico pubblico che gli era rimasto, quello di presidente dell’Accademia delle Arti. Dopo 11 anni.
CONTROMANIFESTAZIONE
Già lunedì scorso c’erano stati incidenti a Qom, in occasione dei funerali di Montazeri. Decine di migliaia di persone avevano invaso la città santa, scandendo slogan contro il governo, in quella che è sembrata una nuova fiammata dell’opposizione, il ritorno in piazza dell’«onda verde» dopo le proteste seguite alle elezioni presidenziali -truffa del giugno scorso. Martedì e di nuovo ieri a Qom si è radunata invece una contro-manifestazione pro-governativa, per condannare «le profanazioni» commesse durante i funerali dell’ayatollah dissidente. «È l’ultima volta che accade una cosa simile a Qom. Questo non è posto per gli ipocriti», ha detto il grande ayatollah Hamedani parlando alla folla.❖

l’Unità 24.12.09
«Radiotre contro il silenzio sociale» Sinibaldi rinnova la rete

Nel palinsesto
Variazioni e programmi nuovi come «Tutta la città ne parla»

«Radiotre è nata per incrinare un certo elemento di diffidenza verso la cultura, come sfida al senso e al gusto comune, per creare un ambiente di confronto civile». Lo afferma Marino Sinibaldi, neodirettore di rete, dell’ottima rete aggiungeremmo, parlando del suo progetto che si lega al passato (dalle origini con Gadda, Mortari e altri, sino alla direzione di Enzo Forcella), «a qualcosa che ha aiutato a crescere il paese» e cerca un nuovo linguaggio per il palinsesto al via l’11 gennaio. «Il palinsesto è l’ultima cosa, è come giudicare una persona dal suo scheletro, l’importante è il modo, il linguaggio scelto continua e se gli ascoltatori affermano sempre che la radio tiene loro compagnia, io lo vedo come il mezzo dell'accompagnamento, che offre la parola della radio contro il silenzio, non solo personale, ma quello sociale».
Accanto a trasmissioni solide, amate, da Radio3 suite o Fahrenheit, parte dalle sei di mattina Qui comincia..., «che apre alla narrazione del mondo di quel giorno», si passa per la classica lettura e discussione sui giornali di Prima pagina da cui prende spunto il nuovo Tutta la città ne parla. «Non partiamo certo da Palazzo Grazioli, ma almeno da Copenaghen, dal mondo che oggi è il nostro cortile continua Sinibaldi cui poi ovviamente si arriva, perchè l'ascoltatore spesso riporta tutto a un piano più vicino a lui». Seguirà Chiodo fisso, dieci minuti al giorno su uno stesso tema per un mese (si inizia con l'Africa, poi ci sarà il Lavoro o la Bicicletta) e in tarda serata a Tre soldi farà rivivere il radiodocumentario partendo da uno speciale sui campi profughi in Libia.
La musica, Sinibaldi sottolinea, su Radio3 non ha meno peso della parola e promette con le «musiche inaudite, nuove, di rottura» in Alza il volume, passando per Sei gradi per ogni genere di musica arrivando alle eccellenti Radio3suite e Battiti (va dopo mezzanotte) che alla festa annuale dell’emittente a Cervia quest'anno gestirà una discoteca. In più omaggi d’artista: a Natale Shel Shapiro canterà E la pioggia che va, e la pittrice astratta Carla Accardi donerà un suo disegno.❖

Repubblica “24.12.09
Anniversari/ Nel 2010 ricorrono i sessant´anni di Radiotre
Quel che resta del pubblico colto
Come è cambiata la ricezione di un mezzo che ha avuto tra i suoi protagonisti Gadda e Forcella. Ecco il programma del neo direttore Marino Sinibaldi
di Simonetta Fiori

Preparandosi al sessantesimo compleanno, Radiotre si rinnova senza rinunciare ai propri blasoni e senza cancellare una tradizione culturale che è stata importante nella costruzione civile italiana. Non è certo facile la sfida raccolta dal neo direttore Marino Sinibaldi, voce storica di Fahrenheit, nel guidare la rete intellettuale per eccellenza in un paese spaesato, sempre meno sensibile ai valori culturali e sempre più segnato dai consumi di massa. Qualcosa però si può fare. Si può tentare di cambiare il linguaggio. Meno autoreferenziale, libero da civettamenti con il pubblico colto. «Bisogna abolire la formula "come tutti sanno"», dice Sinibaldi nel presentare la nuova filosofia di Radiotre. Mai dare niente per scontato. Se il celebre manuale di Gadda Norme per la redazione di un testo radiofonico andava bene per una stagione ormai lontana, ora è necessario trovare altri codici.
La sfida al gusto comune - sostiene Sinibaldi - è nella vocazione di Radiotre. Oggi, in "un paese rattrappito dalla paura del diverso" e "immerso in un assordante silenzio delle idee", la nuova sfida consiste nel creare una "zona di comunicazione civile" che metta a confronto opinioni diverse. Le novità del palinsesto vanno in questa direzione. Da Tutta la città ne parla a Chiodo fisso, da Zazà a Il Cantiere - un programma che riceve i lavori confezionati da corsi universitari e da gruppi giovanili - il segnale lanciato dalla nuova Radiotre è di sempre maggiore apertura a una comunità pensante, dotata di qualità e competenze superiori a quelle mostrate dal ceto politico e anche giornalistico. «Non ci saranno politici in tutta la giornata di Radiotre», è l´impegno di Sinibaldi, che evoca mestamente il rituale servile dei dirigenti rai pronti ad accogliere negli studi radiofonici deputati o governanti.
La lezione rimane quella di Enzo Forcella, di un´idea della cultura che accende conoscenza e immaginazione. «Siete un´isola di consolazione in un panorama catastrofico», dice Corrado Augias, intervenuto all´incontro insieme a Goffredo Fofi, Valentino Parlato e Paolo Franchi. «Una penisola», corregge Sinibaldi, difendendo i legami con il resto del paese. Un formidabile strumento "che fa compagnia agli ascoltatori", lenendo molte solitudini, anche di tipo intellettuale.

Repubblica 24.12.09
Nichi è un traditore solo io posso battere Fitto e compagni"
Emiliano: sono al 60 per cento

Ma quale legge ad personam, va cambiata perché incostituzionale: i rivali non mi preoccupano, devo fare questa cosa e basta

BARI - Michele Emiliano, sindaco di Bari, sarà una legge elettorale ad personam a permetterle di candidarsi per il centrosinistra alla guida della Regione Puglia nel 2010?
«Quella legge va cambiata perché è incostituzionale: lede i diritti delle persone costringendole ad un atto inutile».
Così come stanno le cose ora, dovrebbe dimettersi dalla carica di sindaco prima di scendere in campo per le regionali. Un emendamento che l´assemblea pugliese discuterà il prossimo 19 gennaio, prevede di cancellare l´ineleggibilità.
«La legge ad personam è quella in vigore. Era stata fatta apposta per impedire che l´allora sindaco di An a Lecce, Adriana Poli Bortone, potesse concorrere per diventare presidente della Regione senza dimettersi dal municipio».
Lunedì 28, intanto, l´assemblea del Pd di cui è il presidente stabilirà se farle indossare la maglia del competitore.
«O dentro o fuori. Io non ci sarò: così ogni democratico potrà dire liberamente quello che pensa sul conto del sottoscritto».
Tutti pensano che sia Massimo D´Alema a volere Emiliano al posto di Nichi Vendola, il governatore comunista in carica.
«D´Alema non sta imponendo niente a nessuno. Ragiona, piuttosto».
Secondo il lìder Massimo, Emiliano è un candidato «molto forte». Più forte di Vendola, che non attirerebbe i voti dell´area moderata.
«In Puglia il mio indice di gradimento è vicino al 60 per cento. Io vinco anche se sulla barca del centrosinistra non salisse Vendola. Ho la meglio contro tutti».
Compreso il candidato del Pdl?
«C´è una "anima di Dio", Stefano Dambruoso, che sta lì in attesa di sapere se arriverà o non arriverà la telefonatina».
La telefonatina?
«Sì, quella che basta a Silvio Berlusconi per cambiare il nome del candidato del Popolo della libertà».
Contro Emiliano il Gladiatore, fuori Dambruoso e dentro il sottosegretario Alfredo Mantovano?
«Mantovano o Dambruoso, per me è indifferente. I rivali non mi preoccupano. Devo fare questa cosa, e basta».
I baresi, però, appena sei mesi fa l´avevano confermata a Palazzo di città e adesso si ritrovano un sindaco in fuga verso altri lidi. La prenderanno male?
«Non temo l´effetto boomerang. La verità è che bisogna fare qualsiasi cosa per evitare di riconsegnare il governo della Regione nelle mani di Fitto e compagni».
Vendola che corre in nome e per conto di tutto il centrosinistra, non va bene?
«Se l´Udc sta con noi, trionfiamo. Diversamente, ci ammazzeremmo tutti. Quanto a Vendola, è un traditore».
Cioè?
«Al congresso del Pd avrebbe dovuto lavorare per sostenermi e farmi avere la meglio quando celebrammo le primarie. Perché se fossi rimasto segretario del partito, com´era dal 2007, Nichi sicuramente sarebbe stato il candidato di tutto il centrosinistra. Senza l´Udc. Ma a quel punto, sarei bastato io al posto dell´Udc per attirare le preferenze dei moderati».
C´entra con la scelta di isolare Vendola lo scandalo della sanità esploso d´estate, che travolge l´assessore alla Salute Alberto Tedesco?
«E´ colpa sua se Tedesco faceva l´assessore alla Salute. Poi, dopo la bufera giudiziaria, lo stesso Vendola mi ha chiesto di fare di tutto perché Tedesco fosse nominato senatore per toglierlo di mezzo».
Emiliano e Vendola, fratelli coltelli?
«La verità è che non c´è più il clima politico del 2005. Io e Vendola ci vogliamo bene e basta. Faccia la sua battaglia. Ha il dovere di gareggiare. Ma credo che riuscirà a sopravvivere politicamente solo se entrerà nel Pd».
(l. p.)

Repubblica 24.12.09
Scoppia la polemica. Di Pietro: "Il suo cuore resta nero"
La gaffe di La Russa "X Mas corpo di eroi"
di Giovanna Casadio

ROMA - Ignazio La Russa sostiene di non avere fatto nessuna gaffe. A Livorno, alla caserma Vannucci, il ministro della Difesa ha elogiato i corpi militari speciali ricordando la Decima Mas: «Siete eredi della non dimenticata Decima Mas». Un rigurgito di nostalgia, il ricordo rivolto a Junio Valerio Borghese, alla Repubblica sociale e agli ultimi colpi di coda del fascismo? La Russa nega. Assicura di avere voluto solo riferirsi all´eroismo riconosciuto di quel corpo speciale. «Come per El Alamein...». Ma si accende la polemica. Antonio Di Pietro gli dà del «cuore nero»: «La lingua batte dove il dente duole; ci si nasce...». E La Russa - militante nero sin da ragazzino, missino che ha condiviso la svolta di Fiuggi con Gianfranco Fini e ora l´approdo nel Pdl di cui è coordinatore - per il leader di Idv ed ex pm è «un nostalgico».
«È l´unico ministro della Difesa che negli ultimi trent´anni abbia ricordato la Decima Mas - si sfoga Ettore Rosato, del Pd - ed è una cosa che non fa onore neppure agli uomini del Comsubin», i militari incursori della Marina ai quali il ministro direttamente si rivolgeva. «Non era necessaria questa lode in quel contesto, in nessun contesto».
Duro il commento di Filippo Penati, coordinatore della segreteria del Pd: «Davvero un elogio di cui non si sentiva il bisogno soprattutto da parte di un ministro della Difesa. Avremmo preferito ascoltare parole che riguardassero un accenno ai nostri militari come presidio di democrazia piuttosto che frasi che portano a un passato che alla coscienza democratico di quei cittadini che amano la libertà - a cui si è rivolto recentemente lo stesso Berlusconi - non suscita alcuna nostalgia». E Roberta Pinotti, ex presidente della commissione Difesa della Camera, democratica, rincara: «Ricordando che non è la prima volta e che poi, La Russa deve sempre precisare e chiarire, gli consiglierei di lasciare da parte le emozioni per un passato che l´Italia repubblicana ha combattuto e di concentrarsi sui messaggi da dare alle nostre Forze armate che rispondono alla Costituzione nata dalla lotta di Liberazione». «La Russa perde il pelo ma non il vizio...», rimarca il Pdci di Diliberto.
«Macché nostalgie - ne prende le difese Alessandra Mussolini - Ormai non c´è più la coda di paglia a destra. I militanti ex An hanno fatto passi in avanti stabili: se c´è un riferimento è alla storia e lo si può fare. Fini ha fatto fare un percorso sostanziale. E se una volta, molti della destra stavano attenti anche alla battuta, non io ma per me è stata anche una questione familiare - ribadisce la nipote del Duce - ora ci si può permettere una considerazione come chiunque, senza sospetti di nostalgie».

Repubblica 24.12.09
I fantasmi dell’antisemitismo nell’est europeo
di Timothy Garton Ash

Tra l´Hanukkah e il Natale, l´insegna sopra l´ingresso del campo di sterminio di Auschwitz è stata rubata. La polizia polacca l´ha recuperata e ha catturato i ladri che, a quanto sembra, hanno agito su commissione per qualcuno all´estero. Si fa fatica a immaginare che genere di essere umano desideri avere qualcosa del genere nella sua collezione privata. Nonostante tutti gli omicidi di massa perpetrati, la schiavitù e la tortura inflitti in tempi successivi, Auschwitz resta, per un europeo della mia generazione, il Simbolo della malvagità umana del nostro tempo.
Questo grottesco episodio chiude un anno in cui i rapporti tra cristiani ed ebrei in generale, tra cristiani polacchi ed ebrei polacchi in particolare, sono stati nuovamente oggetto di dibattito. I fantasmi del tormentato passato est europeo aleggiavano sinistri nei corridoi di Westminster mentre i conservatori britannici annunciavano l´alleanza in seno al Parlamento europeo con un gruppo di partiti di destra, principalmente del centro e dell´est Europa, ponendo i loro parlamentari sotto la guida di Michal Kaminski, del partito polacco Legge e Giustizia.
Nel contesto della polemica che ne è scaturita, l´autore e comico Stephen Fry si è così espresso: «Il cattolicesimo di destra ha un passato profondamente inquietante per chi conosce un poco la storia e ricorda da che lato del confine si trovava Auschwitz». Davvero la storia la conosce poco. Incolpare i cattolici polacchi dello sterminio nazista in un campo situato in territorio polacco annesso alla Germania, in cui furono imprigionati e morirono anche cattolici polacchi, è talmente assurdo che l´affermazione di Fry è stata accolta da una valanga di critiche. E Fry, bisogna darne atto, ha immediatamente fatto ammenda. Ma non è solo la follia di un inglese. Guardando il servizio di una televisione tedesca sul processo a John Demjanjuk qualche settimana fa, mi sono stupito nel sentirlo identificare come una guardia «nel campo di sterminio polacco di Sobibor». In che tempi viviamo se una delle maggiori reti televisive tedesche pensa di poter definire «polacchi» i campi nazisti?
Stando alla mia esperienza, in Europa occidentale e in Nord America è ancora diffusa l´equazione tra Polonia, cattolicesimo, nazionalismo e antisemitismo – e da lì al concorso di colpa nell´Olocausto il passo è breve. Questa accusa collettiva non rende giustizia alle testimonianze storiche. Non lascia spazio ad esempio all´incredibile vicenda di Witold Pilecki, ufficiale polacco che si offrì volontario per una missione mirata a scoprire cosa avveniva ad Auschwitz. Si fece arrestare e rimase nel campo per due anni e mezzo, inviando rapporti all´esterno e organizzando cellule di resistenza, per poi evadere. Combatté in seguito nella rivolta di Varsavia contro i nazisti e visse gli ultimi mesi di guerra in un campo Pow. Venne quindi arrestato e torturato dalla polizia segreta comunista nella Polonia occupata dai sovietici e giustiziato nel 1948. Questa generica stereotipizzazione provoca nei polacchi una reazione di difesa ostacolandoli nel processo di fare i conti con un passato profondamente inquietante di antisemitismo polacco e cattolico. (Non limitato alla destra: il partito comunista polacco fu scosso dalla famigerata campagna anti-semita nel 1968). Soprattutto negli ultimi vent´anni, da quando la Polonia ha riconquistato la libertà, si sono fatti dei passi avanti nei conti con il passato. All´inizio di questo decennio uno storico ha rivelato l´orrenda carneficina di ebrei compiuta nella cittadina di Jedwabne, nella Polonia orientale, per mano dei loro concittadini cattolici nella primavera del 1941, dando vita ad un «dibattito straordinariamente approfondito e straordinariamente coraggioso», come l´ha definito Konstanty Gebert, scrittore ebreo polacco. Sulla scia di tale dibattito, sostiene Gebert, «il paese ha subito una seria trasformazione morale».
Non recedo in alcun caso dal mio atteggiamento critico nei confronti della nuova alleanza stretta dai conservatori britannici in seno al Parlamento europeo, ma il giudizio politico deve essere scisso da quello storico e morale. Il linguaggio dell´odierna politica di partito con le sue frasi prefabbricate e le sue disinvolte mezze verità è così pateticamente inadeguato ai terrori di Auschwitz e all´eroismo di un Pilecki, che il solo atto di accostare quel gergo sintetico a simili realtà ha il sapore di un sacrilegio. Esiste un giudizio politico, ai fini del quale le affermazioni di opportunisti di destra come Kaminski nel dibattito su Jedwabne qualche anno fa hanno attinenza, pur essendo di secondaria importanza. Esiste un giudizio storico, che possiamo esprimere grazie alla sempre maggiore conoscenza della reale complessità della storia ebraica ed est europea. Esiste un giudizio giuridico che deve avere come oggetto chi si è macchiato di crimini contro l´umanità. Ma al di là di tutto questo esiste la dimensione dell´interpretazione umana che forse solo il linguaggio dell´arte riesce a comprendere appieno. Se volete capire cosa intendo, acquistate o elemosinate o rubate uno degli ultimi biglietti disponibili per la straordinaria prima di una pièce teatrale intitolata "La nostra classe" (Our Class) dello scrittore polacco Tadeusz Slobodzianek, in scena al National Theatre di Londra fino a metà gennaio. Oppure, se abitate in un altro paese (inclusa la Polonia in cui lo spettacolo non è andato ancora in scena), iniziate a mobilitarvi perché venga rappresentato. Attingendo alla documentazione, oggi ampia, sui fatti di Jedwabne, Our Class narra il tragico intrecciarsi delle vicende di dieci ragazzi, compagni di scuola prima della guerra, cinque ebrei, cinque cattolici. La pièce non risparmia nulla degli orrori di uno dei peggiori capitoli della storia dell´antisemitismo polacco, mostrando uno stupro di gruppo, un pestaggio a morte, e infine gli ebrei bruciati vivi in un fienile. Ma mostra anche Wladek, il contadino che dà rifugio e quindi sposa una ragazza ebrea e uccide il compagno di scuola polacco che intende arrestarla. Mostra Menachem, il sopravvissuto ebreo che dopo la guerra diventa un interrogatore della polizia segreta comunista. C´è Zocha, polacca e cattolica, che salva la vita a Menachem nascondendolo nel suo granaio e in seguito emigra negli Usa. Udendo una coppia di ebrei americani sparlare dei polacchi accusandoli di antisemitismo la donna esplode: «E cosa hanno fatto gli americani per gli ebrei durante la guerra?». E Abram, il fortunato, emigrato in America prima della guerra, diventa un viscido rabbino che sessant´anni dopo il fatto, pretende che il suo ex compagno di scuola Heniek, ora prete cattolico con un debole per i ragazzini, avalli la tesi ,del tutto infondata, secondo cui nel 1941 il rabbino di Jedwabne guidò il suo gregge nel granaio tenendo alta la Torah e santificando il nome di dio, Kiddush Hashem. Nessun mito autoconfortante resta intatto.
Le preoccupazioni circa la precisione storica, le problematiche di pertinenza degli storici circa la tipicità o eccezionalità degli eventi, hanno qui carattere secondario. Perché qui la verità è più profonda: si tratta di ciò che gli esseri umani sono capaci di fare quando si trovano nel posto sbagliato nel momento sbagliato. (E una piccola città della Polonia orientale occupata prima dai sovietici, a seguito del patto Hitler-Stalin, poi dai nazisti, quindi dal regime comunista polacco sotto la tutela dell´Armata rossa, è quasi per definizione il posto sbagliato al momento sbagliato). Chiunque sia nato in un tempo e in un luogo più felice deve ringraziare la sorte e la geografia.
Siamo tutti della stessa pasta, senza arrivare agli estremi. Non esistono i cattivi e gli eroi, lo stesso uomo o la stessa donna possono comportarsi in maniera terribile in un momento e splendida il momento dopo. Noi esseri umani sappiamo essere inferiori alle scimmie e superiori agli angeli. Siamo deboli, siamo forti. Portiamo il peso della colpa, rivendichiamo il diritto alla clemenza. Poi invecchiamo, ci ammaliamo e moriamo.

Repubblica “24.12.09
Anche nell´antica "polis" la cerimonia consisteva in un banchetto della sera precedente chiamato "sacrificio", fatto di offerte agli dei. I convitati dovevano assaggiare tutte le pietanze, senza eccezioni
La tradizione al tempo del consumismo
Veglia e cibo un rito antico
di Marino Niola

Notte magica, notte da presepe che sospende il corso del tempo e l´ordine del mondo. Alla vigilia di Natale gli animali parlano e gli uomini ammutoliscono. Lo raccontano le leggende popolari di tutta Europa. E soprattutto lo racconta quel poeticissimo apocrifo che è il Protovangelo di Giacomo: "tutte le cose in un momento furono distratte dal loro corso". Tutti gli esseri del creato restano immobili, in vigile attesa della nascita del dio e della vittoria annuale del sole sulle tenebre. Proprio questo significa in origine la parola vigilia, vegliare ritualmente su un passaggio decisivo. Astronomico o religioso. Che sia la notte di Natale o quella di Capodanno. In ogni caso veglioni. Momenti in cui la condivisione del cibo diventa simbolo unificante. Per i credenti un modo di realizzare il contatto con il sacro attraverso la via dei sensi. Per i non credenti una celebrazione del legame sociale, una festa degli affetti. Cui non ci si può sottrarre.
Non a caso i due cardini della tradizione natalizia sono la famiglia e la tavola. Entrambe sacralizzate dal mangiare insieme le cose di sempre. Dove la riproposizione del menù della tradizione, oggetto di un´autentica mitologia domestica, trasforma la semplice abbuffata festiva in eccesso rituale. Oggi temuto da molti ma evitato da pochi. Perché in realtà si tratta di un´orgia obbligatoria, di una liturgia della gola. Che rivela lo stretto intreccio tra piena esultanza dell´anima e l´esultanza piena del corpo.
Proprio come avveniva nel mondo antico dove la cerimonia principale della polis consisteva in un banchetto di vigilia chiamato "sacrificio", fatto di cibi offerti simbolicamente agli dei. La scelta delle pietanze, i tipi di cottura, la successione delle portate obbedivano a un rigoroso palinsesto cerimoniale. Carni, legumi, pesci, dolci, formaggi, frutta secca. I convitati erano tenuti ad assaggiare di tutto un po´ anche a costo di scoppiare. Allontanarsi dalla tradizione sarebbe stato considerato un sacrilegio, una messa in discussione del patto identitario. Tutti, anche i più poveri dovevano essere ammessi alla grande abbuffata.
Queste forme di gastronomia sacralizzata caratterizzano anche le nostre vigilie e hanno fatto nascere nei secoli delle singolari forme di previdenza festiva. Come i Goose Clubs dell´Inghilterra vittoriana e i Christmas Clubs americani del primo Novecento, salvadanai popolari, che con il versamento durante l´anno di qualche spicciolo a settimana garantivano a tutti di potersi concedere la strippata natalizia. Anche nelle nostre città si usava lasciare ogni giorno ai negozianti di alimentari delle piccole somme a mo´ di anticipo. Costituendo così un credito da spendere tutto d´un botto per imbandire un cenone come Dio comanda. Detto in altri termini, per osservare il diritto-dovere di consumare il banchetto rituale in ogni sua sequenza.
E perfino in un tempo secolarizzato come il nostro in cui lo spirito della festa sembra ridursi alla frenesia consumistica, i nostri opulenti menù festivi sono in realtà la versione postmoderna delle orge sacre di un tempo. Niente carne né grassi animali per rispettare i divieti conciliari, ma in compenso cascate di salmone, deliri di frutti di mare, trionfi di ostriche, maree di branzini. È il magro che si rovescia nel suo contrario e realizza in termini moderni quel cortocircuito orgiastico fra astinenza e abbondanza, fra rigore e spreco. Quel consumo del sacro che è l´essenza di ogni vigilia.

mercoledì 23 dicembre 2009

Liberazione 22.12.09
D’Alema lo stratega
di Dino Greco

Ecco di nuovo D'Alema, il "solo" politico che ha la stoffa dello statista di rango, l'uomo che anticipa di tre mosse quelle di amici e avversari, tornare prepotentemente alla ribalta con una nuova, sensazionale trovata, una sorta di «mossa del cavallo», capace di scompaginare le carte, depurare il clima avvelenato in cui si è avvitato lo scontro politico, rimettere in moto una situazione che pareva irrimediabilmente ingessata. E in cosa consisterebbe questa geniale escogitazione partorita dall'eccellentissima mente di Massimo D'Alema? Nulla di più semplice. Basta dare a Berlusconi quello che egli brama: la certezza dell'impunità tramite immunità. Un artifizio che renda certo il premier di non avere più nulla da temere, che lo sottragga all'incubo della «persecuzione giudiziaria», del «complotto» contro di lui ordito da una perfida macchinazione. Una volta recuperata questa personale serenità, Berlusconi abbandonerebbe ogni propensione paragolpista (anzi: vi è mai stata in lui una simile tentazione?), ogni velleità da caudillo, per disporsi ad un dialogo serio, ad una riabilitazione della politica come confronto democratico di idee e di programmi. Di più: alla costruzione condivisa - e non più di parte - di nuove riforme istituzionali.
D'Alema, dunque, suppone che una volta offerto, in qualsivoglia modo («non ha importanza di che colore è il gatto pur che prenda i topi») il salvacondotto a Berlusconi, la compulsiva, distruttiva crociata che questi ha scatenato, nell'ordine, contro l'impianto egualitario della Costituzione, contro lo stato di diritto, contro l'indipendenza della magistratura, contro la libertà dell'informazione, contro tutti gli organi di garanzia, si dissolva come neve al sole. Improvvisamente, il caudillo diventerebbe un agnello mansueto e - una volta convertito alle regole della democrazia - darebbe il suo consenso a metter mano al colossale conflitto di interessi che si incarna nella sua persona, inaugurerebbe una nuova primavera parlamentare, togliendo i sigilli alle Camere oggi ridotte a simulacri del potere legislativo.
A quel punto, magicamente, prenderebbe l'abbrivio il confronto sulle riforme, quelle sociali in particolare. Giulio Tremonti smetterebbe di flirtare con gli evasori, rinuncerebbe alla proroga dello scudo fiscale e aprirebbe i cordoni della borsa, non più per regalare prebende agli industriali, ma per rilanciare l'esangue sistema degli ammortizzatori sociali; Roberto Maroni inaugurerebbe una stagione di accoglienza, relegando nel dimenticatoio le misure da pogrom razzista e mettendo mano ad una seria modifica della legislazione in materia di immigrazione e di sicurezza; Maria Stella Gelmini riaprirebbe il confronto con studenti, insegnanti, genitori per tentare un rilancio della scuola pubblica, dell'università e della ricerca. Con analogo spirito costruttivo, Angelino Alfano riafferrerebbe il filo del dialogo con la magistratura e proverebbe ad occuparsi davvero del diritto di ogni cittadino ad una giustizia rapida e garantista; Maurizio Sacconi abbandonerebbe la forsennata vis demolitoria contro ciò che rimane del welfare e contro il sindacato per ricostruire qualcosa che somigli ad un sistema di protezione sociale; Ignazio La Russa, da par suo, istruirebbe una discussione sino ad ora mai fatta sulla presenza dei soldati italiani nei vari teatri di guerra, per ragionare su una possibile exit-strategy e restituire un senso all'art. 11 della Costituzione. Questo ed altro ancora D'Alema immagina potersi verificare una volta baipassata la singolar tenzone con Berlusconi? E se, invece, non si tratta di questo, in cosa davvero consiste il compromesso (diciamolo in modo elegante) di cui parla l'immarcescibile «baffino»?

Repubblica 23.12.09
Ebrei tedeschi in rivolta "Il Papa riscrive la Storia"
Tensione anche a Roma, a rischio la visita in sinagoga
di Andrea Tarquini e Orazio La Rocca

Clima di tensione crescente tra le comunità ebraiche europee e la Santa Sede dopo la decisione di papa Benedetto XVI di accelerare la beatificazione di Pio XII. Il Consiglio centrale degli ebrei di Germania ha criticato il Papa tedesco, definendola «assolutamente prematura» e parlando di «tentativo della Chiesa cattolica di scrivere in un altro modo la Storia». E stasera alle 20,30 si terrà a Roma, sotto la presidenza di Riccardo Pacifici, un tesissimo consiglio della comunità romana per analizzare il "caso Pacelli" alla luce della dichiarazione del Pontefice sull´eroicità delle virtù sancita da papa Ratzinger per Pio XII stesso.
A Roma e nella comunità ebraica italiana l´attesa è grande e anche la preoccupazione è palpabile: il timore è che i delusi dalla decisione di Benedetto XVI possano prendere il sopravvento, e la preventivata visita del pontefice in Sinagoga, il 17 gennaio prossimo, possa essere messa in discussione. Ci si attende dal Vaticano «almeno un gesto o una iniziativa» con cui si spieghi che gli aspetti storici del pontificato di Pio XII saranno definitivamente chiariti, specialmente per quanto riguarda i presunti silenzi sull´Olocausto. «Nessuna interferenza sulla beatificazione, ma anche niente coperture sulle ombre storiche di quel pontificato», ammoniscono i vertici degli ebrei romani. A Bologna sempre oggi si riunirà un gruppo di rabbini convocati dal presidente dell´Assemblea dei rabbini italiani, Giuseppe Laras, che fu il primo a parlare di seri pericoli per la visita del papa in Sinagoga in caso di mancata chiarezza sul caso Pacelli. Di fronte al Tempio Maggiore del Ghetto sono anche apparse scritte sui muri di protesta per le scelte di Benedetto XVI.
In questo clima cresce il malcontento della comunità ebraica tedesca, quella che proprio nella patria dell´attuale papa sta vivendo un rifiorire di presenza nella società e nella cultura. «Sono triste e pieno di collera, è assolutamente prematuro intraprendere un simile passo», ha detto, citato da Der Spiegel, il segretario generale Stephan Kramer. E ha aggiunto, nella sua dura dichiarazione rilanciata con forza da tutti i media tedeschi: «È un chiaro rovesciamento dei fatti storici del periodo nazista». Secondo Kramer la Chiesa cattolica «cerca di riscrivere la Storia». E si dichiara indignato del fatto che il Papa «non permetta lo svolgimento di alcuna seria discussione scientifica» sul caso.
Molti esponenti delle comunità ebraiche accusano Pio XII di aver saputo e taciuto sulla Shoah, e non basta loro la reazione vaticana secondo cui Papa Pacelli avrebbe cercato di aiutare gli ebrei in silenzio. La rivolta degli ebrei tedeschi è particolarmente imbarazzante per la Santa Sede: la comunità ebraica a Berlino ha ottimi rapporti con l´establishment della Cancelliera cristiano-conservatrice Angela Merkel, la leader europea più decisa nel ricordare sempre gli orrori del passato.

Repubblica 23.12.09
Gli archivi britannici confermano i silenzi di Pio XII sulla Shoah
L’ambasciatore inglese in Vaticano: "Non me ne parlò mai"
Il principale timore di Pacelli era la mancanza di viveri in caso di ritirata dei tedeschi
di Filippo Ceccarelli

«Oggi il Papa mi ha ricevuto in udienza per un´ora - telegrafa l´ambasciatore inglesi due giorni dopo la retata degli ebrei romani -. Sembrava in buone condizioni e di buon umore, il suo atteggiamento era sereno in rapporto all´attuale situazione, ma pienamente cosciente dei futuri pericoli...».
Di solito le cancellerie non s´interrogano sulla futura santità dei loro interlocutori, tantomeno in guerra. Ma i documenti della diplomazia, per quanto anch´essi di scarso valore nella ricostruzione postuma delle eroiche virtù, hanno comunque un loro valore perché aiutano, nella loro indispensabile parzialità, a far capire come i possibili santi reagiscono in certi momenti.
Con tale premessa si dà conto, in modo più esteso di quanto lo si sia fatto finora, di un documento fra i tanti recuperati da Mario J. Cereghino negli archivi del Foreign Office di Kew Gardens e oggi consultabili presso l´Archivio Casarrubea di Partinico (www.casarrubea.wordpress.com). Si tratta della nota "segreta" che il 2 novembre del 1943 il ministro degli Esteri del Regno Unito Anthony Eden spedisce al visconte di Halifax, ambasciatore di Sua Maestà a Washington, e che contiene il resoconto di un incontro che l´ambasciatore britannico presso la Santa Sede, Sir D´Arcy Osborne, ha avuto con Pio XII il 18 ottobre, cioè proprio mentre alla stazione Tiburtina i militari tedeschi stavano imbarcando e sigillando in un treno diretto ad Auschwitz oltre mille ebrei romani: 1007 stabilisce Kappler, 1015 secondo la Comunità ebraica - la differenza sembra la facciano, disperatamente, i neonati.
Papa Pacelli, diplomatico sottile, esordisce «enfatizzando» la situazione alimentare. Roma è già alla fame, le scorte di cibo sono sufficienti «fino a quando i tedeschi saranno qui». Ma poi? Si capisce che il Pontefice dà per scontato un ritiro abbastanza imminente. In questo senso «spera» che gli alleati siano in condizione di provvedere ai beni di prima necessità. Al che Osborne traccheggia, non s´impegna. Pio XII insiste, richiama la possibilità di disordini, cerca garanzie sul «minimo indispensabile», quindi esprime la sua preoccupazione sull´«interludio» tra la ritirata dei tedeschi e l´arrivo degli alleati.
Nel corso della guerra, ora con gli uni, ora con gli altri, il Papa sta giocando da tempo una partita sul filo del rasoio, di alta acrobazia diplomatica, che assomiglia a un doppio gioco su due tavoli e prevede sottintesi, riserve, dissimulazioni, pure da modularsi a seconda degli interlocutori. L´impressione è che Osborne non sia dei più fidati.
Di nuovo «in modo enfatico», annota l´ambasciatore, il Papa «afferma che non abbandonerà mai Roma per proteggere la sua incolumità, a meno di non esserne rimosso con la forza». Quindi aggiunge «di non avere elementi per lamentarsi del generale von Stahel e della polizia tedesca, che finora «hanno rispettato la neutralità» della Santa Sede. E qui viene naturale di pensare che forse la questione non era questa, o soltanto questa.
In realtà Pio XII sa della deportazione, ancora freschissima. Si sa che ha cercato di scongiurarla smuovendo prelati tedeschi e sollecitando nazisti tiepidi o opportunisti. Comunque ha già aperto le porte di chiese e conventi; il mese prima ha "prestato" dell´oro per allontanare le rappresaglie (15 chili dei 50 richiesti alla comunità ebraica provengono dal Vaticano). Se non suonasse irrispettoso per un Papa, Pacelli sta cercando, anche lui alla disperata, di salvarsi l´anima. Di norma, in questi casi, il potere mette in atto il dispositivo dello scambio e imbocca la logica del male minore.
Forse ha ottenuto la certezza che a Roma, sotto la sua finestra, non ci saranno altre deportazioni di massa. Ma Osborne non è in condizione di rispettarne la pena. Anzi, sembra irritato, va giù duro: la formula «Roma città aperta» è «una farsa», dice. L´Urbe «è alla mercé dei tedeschi» che la affamano, arrestano gli ufficiali, i giovani, i carabinieri e - attenzione qui - «applicano metodi spietati nella persecuzione degli ebrei».
È l´unico, significativo accenno. Il resto riguarda ciò che all´inizio stava più a cuore al Papa, che Roma non diventi «un campo di battaglia». Per Osborne la faccenda è militare, non può garantire nulla. Tocca semmai al Pontefice salvaguardare i suoi diritti dai tedeschi. Pio XII replica «che in tal senso e fino a questo momento i tedeschi si sono sempre comportati correttamente». Ma anche l´ambasciatore insiste, con un approccio che suona diretto nella sua pur involuta formulazione: «A mio parere molta gente ritiene che egli (il Papa) sottostimi la sua autorità morale e il rispetto riluttante di cui egli è fatto oggetto da parte dei nazisti», tanto più considerato che buona parte della popolazione germanica è cattolica. Insomma, esca allo scoperto, dica qualcosa, condanni i nazisti. «L´ho esortato a tenerlo bene in mente nel caso emergesse una situazione in cui in futuro fosse necessario applicare una linea forte». Così si conclude l´incontro.
Alle 20 di quel 18 ottobre il treno degli ebrei romani è a Firenze; il 19 si ferma a Padova per prestare assistenza ai prigionieri di ogni età che sono ammucchiati lì dentro da 28 ore; ad Auschwitz arriva la notte del 22, e poco dopo entra nel lager. Se la santità ha un significato, dentro quei vagoni e poi nel campo ce n´era moltissima.

Repubblica 23.12.09
La rivoluzione francese
Parigi mette in rete le biblioteche
Sarkozy investe 750 milioni di euro per digitalizzare il patrimonio librario nazionale

"Solo da una posizione di forza potremo trattare con Google senza farci travolgere"
Intervista a Bruno Racine, Presidente della Bibliothèque Nationale de France
Internet è essenziale per salvare documenti sonori e video minacciati dal tempo
Il libro stampato non morirà, ma non avrà più la sua posizione privilegiata

PARIGI. Uno spazio culturale aperto, vivo, in movimento, che per la prima volta sarà accessibile a milioni di persone. L´idea stessa della vecchia Biblioteca, polverosa e riservata alle élites intellettuali, sta mutando. «Fino a trent´anni fa venivano da noi poche migliaia di ricercatori. Oggi chiunque può collegarsi attraverso la rete e consultare parte del nostro patrimonio, a qualsiasi ora del giorno, da qualsiasi paese del mondo. E´ una rivoluzione paragonabile a quella della stampa di Gutenberg».
Bruno Racine, presidente della Bibliothèque Nationale de France, è un uomo visionario. Ex direttore di Villa Medici, già presidente del museo Beaubourg, siede nel suo ufficio al settimo piano della Tour des Lois, una delle quattro torri del complesso voluto da François Mitterrand negli anni Novanta. Milioni di libri, giornali, nastri sonori e immagini video sono conservati in questa cattedrale moderna del sapere, affacciata sulla Senna. Non un luogo del passato, assicura Racine. La Biblioteca del Duemila sarà il ponte tra il passato e il futuro della conoscenza.
Cominciamo dalle recenti polemiche, la Bibliothèque Nationale de France è stata accusata di voler cedere il suo patrimonio al gigante americano Google.
«Si trattava di discussioni esplorative e credo che la polemica sia ormai superata. Lo stato francese ha deciso di consentire uno sforzo senza precedenti per la digitalizzazione del patrimonio culturale. Il presidente Nicolas Sarkozy ha annunciato lo stanziamento di 750 milioni di euro: è un somma che non ha equivalenti in Europa e nel mondo. D´altra parte, è stata istituita una commissione che dovrà studiare le condizioni per i partenariati tra pubblico e privato in questo ambito. Il dialogo con Google, o con altre società, si farà d´ora in poi da questa nuova posizione di forza».
Quali sono i criteri con cui svilupperete il vostro portale di documenti digitali Gallica?
«Per i libri vorremmo associarci ad altre biblioteche francesi in modo da fare una digitalizzazione collettiva. Considero anche urgente salvare la nostra immensa raccolta di giornali antichi: se non faremo in fretta gli esemplari andranno distrutti. Ci sono poi le collezioni di opere rare e preziose. Infine, i documenti sonori e video, che pure sono minacciati dal tempo. Abbiamo per esempio la più grande raccolta di registrazioni di canzoni francesi a partire dall´Ottocento».
Il lavoro di digitalizzazione delle opere è lungo e costoso. Come siete riusciti finora ad affrontarlo?
«La digitalizzazione si è concentrata sulle opere in lingua francese e che non sono più protette dal diritto d´autore. Il programma Gallica ha un costo di 7 milioni di euro ogni anno, comprensivo del costo dell´infrastruttura informatica per la conservazione dei dati. Attualmente abbiamo 150.000 libri in formato digitale, ovvero 3% delle opere di dominio pubblico.
Procediamo a un ritmo di 100.000 nuovi documenti digitali all´anno. Vorremmo arrivare al 10% del patrimonio librario nel corso dei prossimi cinque anni».
Perché Google fa paura?
«E´ diventato uno strumento indispensabile alla nostra vita quotidiana e penso che sia proprio la sua potenza a scatenare qualche preoccupazione. In Francia, la reazione è stata più forte che altrove perché Google ha digitalizzato opere ancora protette dal diritto d´autore senza avere l´autorizzazione. E´ un elemento che ha senz´altro contribuito ad alzare i toni».
Il tribunale di Parigi ha appena condannato la società americana a risarcire il gruppo editoriale La Martinière.
«Una pacificazione tra Google e gli editori francesi è necessaria.
Sarà un condizione per poter andare avanti con una discussione più pacata e serena».
I nuovi fondi pubblici che la Bibliothèque Nationale riceverà rischiano comunque di non bastare. La digitalizzazione del patrimonio appare impossibile senza la collaborazione dei privati.
«E´ vero. Sul lungo periodo il ricorso ad accordi con i privati appare inevitabile. Proprio per questo è importante la riflessione che la commissione ha avviato sui partenariati pubblico/privato e sulla definizione di regole che garantiscano la libertà di accesso al nostro patrimonio».
I milioni di libri che sono custoditi in questa sede rischiano di diventare delle reliquie. Ci abitueremo tutti a leggere sullo schermo?
«Non possiamo far finta di niente. Attraversiamo una fase di grande incertezza. C´è un problema normativo, ovvero definire un prezzo per le edizioni online che permetta a editori e autori di continuare la creazione di opere. E su questo punto, l´ideale sarebbe raggiungere perlomeno un quadro di regole al livello europeo. Penso inoltre che le pratiche di lettura cambieranno, ci saranno forme ibride. Conosco dei professori che leggono testi accademici sul loro Iphone ma continuano a comprare romanzi.
Insomma no, non credo che il libro stampato morirà. Forse, soltanto, non avrà più la stessa posizione di privilegio».
Con la digitalizzazione delle opere nessuno avrà più bisogno di entrare in una Biblioteca?
«La Biblioteca continuerà a lungo ad essere un luogo fisico. Tutto non sarà digitalizzato e penso anche che il contatto con l´opera originale rimane in molti casi insostituibile. La biblioteca del ventunesimo secolo sarà un´istituzione che avrà un pubblico molto più vasto. E´ una grande opportunità. Noi responsabili dobbiamo preoccuparci di creare un nuovo rapporto alla conoscenza. Prima c´erano studiosi di alto livello che sapevano maneggiare le banche dati. Oggi dobbiamo offrire servizi a un pubblico diversificato.
Non possiamo più accontentarci di mettere semplicemente in rete le opere. C´è da fare un lavoro di elaborazione intellettuale e culturale dei contenuti».
La vostra missione è cambiata?
«La Bibliothèque Nationale ha aperto le porte nel 1998, l´anno in cui è nato anche Google. In questi anni le cose sono andate molto veloci. Oggi vogliamo svolgere anche un´azione culturale attraverso esposizioni, conferenze, dibattiti. A volte nella nostra sede, altre volte attraverso la rete. Questo non è soltanto il luogo dove vengono conservati manoscritti del Medio Evo o opere rilegate dell´Ancien Régime. Cerchiamo di stare al centro dell´attualità, di riflettere sulle sfide del mondo contemporaneo.
A primavera, per esempio, inaugureremo due mostre molto diverse. Da una parte, avremo un´esposizione sui manoscritti del Mar Morto, risalendo alle radici spirituali dell´Europa. A cinquanta metri, ci sarà invece una mostra sulle innovazioni tecnologiche più recenti che hanno un impatto sulla lettura. Ecco come intendiamo la Biblioteca del Duemila».

Repubblica 23.12.09
Il vicepresidente del Cnr De Mattei risponde alle polemiche sul creazionismo
"Credo alla Bibbia e non a Darwin"
intervista di Leopoldo Fabiani

"Nessuno finora ha saputo dare una dimostrazione delle teorie evoluzionistiche. E anche nel mondo cattolico in troppi non le combattono come si deve"

L’evoluzionismo non è una teoria scientifica, ma una filosofia, un modo di vedere il mondo. Ancora nessuno è riuscito a dimostrare la sua validità". Incurante delle critiche che gli sono precipitate addosso da ogni parte Roberto De Mattei, storico del Cristianesimo e vicepresidente del Consiglio nazionale delle ricerche, non deflette. L´uscita del volume Evoluzionismo. Il tramonto di un´ipotesi, che raccoglie gli atti di un seminario da lui organizzato nel febbraio scorso, e pubblicato con il contributo (9.000 euro) del Cnr, ha scatenato parecchie reazioni. Le tesi creazioniste sostenute da De Mattei, hanno detto scienziati come Piergiorgio Odifreddi, Nicola Cabibbo, Telmo Pievani, non hanno nulla a che vedere con la ricerca scientifica e non dovrebbero godere di finanziamenti pubblici (già così scarsi). E ora De Mattei, che crede fermanente nella "discussione aperta" vuole replicare al fronte dei suoi avversari.
Professore, è giusto che il Cnr finanzi delle iniziative che secondo la comunità scientifica si basano su teorie infondate?
«Il contributo finanziario è stato minimo ed è servito allo scopo, che era quello di aprire una discussione su idee che altrimenti sarebbero passate sotto silenzio. Ora tutti si concentrano su questo aspetto e nessuno vuole discutere nel merito i contributi del libro».
Ma la comunità degli scienziati non ritiene che le idee creazioniste abbiano una base scientifica. Per questo non le vuole discutere. Sarebbe come, si dice, mettere ogni giorno in discussione l´acquisizione che è la terra a girare intorno al sole e non viceversa.
«Io credo che la scienza debba procedere per tentativi, errori e confutazioni. Quindi gli scienziati non dovrebbero atteggiarsi a casta intoccabile e invece aprirsi alle idee critiche. Invece non vogliono nemmeno esaminare i contributi scientifici che abbiamo portato nel nostro seminario. Perché la messa in discussione delle teorie darwiniane ha solide basi scientifiche, lo ripeto. Mentre la verità è che nessuno finora è riuscito a dimostrare la teoria evoluzionistica. Che è una vera e propria posizione filosofica, basata cioè su convinzioni generali di fondo e non su evidenze sperimentali».
E come spiega allora che gli scienziati "evoluzionisti" hanno ognuno una propria idea del mondo che può essere classificata atea, marxista, postmoderna, cristiana o buddista, mentre i "creazionisti" sono tutti cristiani?
«Guardi, per questo apprezzo la coerenza di Odifreddi, quando dice che dall’evoluzione così com´è spiegata da Darwin consegue che non esiste il peccato originale e quindi la venuta di Cristo sulla terra non ha senso. Mentre trovo incredibilmente incoerente che ci si possa dichiarare cristiani ed evoluzionisti. E mi chiedo come uno scienziato su queste posizioni come Cabibbo possa presiedere la Pontifica accademia delle Scienze».
Ma oggi la chiesa non ha più un atteggiamento di condanna verso le teorie darwiniane. Lei vorrebbe dare lezioni di coerenza anche alle gerarchie ecclesiastiche?
«Senza dubbio in alcuni ambienti ecclesiastici c´è un atteggiamento debole, come un senso di inferiorità verso certi ambienti intellettuali. E questo anche in posizioni di vertice. Certo non in Benedetto XVI che ha una posizione critica sulla teoria dell´evoluzione. Esistono invece vescovi e teologi che la accettano, e sono gli stessi per esempio che sostengono che il libro della Genesi è una metafora e che non va preso alla lettera».
Non sarà convinto che il mondo è stato creato in sette giorni?
«Non, non dico questo. Credo però che Adamo ed Eva siano personaggi storici e siano i progenitori dell´umanità. Credo che su evoluzionismo e fede religiosa nel mondo cattolico ci sia una grande confusione, su cui occorrerebbe discutere. Comunque tutto ciò non ha a che fare con i contenuti del libro e del seminario che erano prettamente scientifici».