lunedì 28 dicembre 2009

l’Unità 28.12.09
Terrore in Iran, dieci morti Ucciso il nipote di Mousavi
di Ga. B.

Sangue sull’Ashura Violenti scontri tra polizia e oppositori nel giorno della ricorrenza sciita
La Casa Bianca condanna: «Siamo con chi lotta per i diritti civili». Protesta anche la Francia
Nel giorno dell’Ashura, ricorrenza religiosa sciita, i cittadini di Teheran e altre città iraniane manifestano contro il governo per la libertà e la democrazia. Repressione violenta: forse 10 morti secondo l’opposizione.

Alla fine la forza dell’evidenza ha perforato il velo della propaganda e della censura che per ore ed ore i media di regime avevano steso su ciò che stava accadendo sotto gli occhi degli abitanti di Teheran e di altre città iraniane: manifestazioni, scontri, violenze.
Ci sono stati «diversi morti», ammetteva in serata la televisione di Stato. Quanti? Almeno 4 nella capitale e altrettanti a Tabriz, secondo alcuni siti online dell’opposizione. Di più, secondo altri. Tra le vit-
time, un nipote del leader riformatore Mirhossein Mousavi. Il giovane, Sayed Ali, è stato centrato in pieno petto da un proiettile mentre partecipava ad un raduno di protesta nel centro di Teheran. La sua morte, smentita dalla polizia, viene confermata dai collaboratori di Mousavi. Il poveretto è spirato all’ospedale Ebne Sina, dove era stato ricoverato d’urgenza.
RIFIUTO DI SPARARE
La polizia ammette 4 vittime a Teheran, ma le cause hanno poco a che vedere con gli scontri. «Una persona è caduta da un ponte, altre due sono morte in un incidente d’auto -afferma il vicecapo della polizia Ahmad Reza Radan-. La quarta sì ha ricevuto un colpo d’arma da fuoco, ma noi non abbiamo sparato, quindi è un decesso sospetto ed è stata aperta un’inchiesta». Insomma ieri a Teheran non è successo granché.
I feriti sono numerosi, comprese decine di agenti e lo stesso capo della polizia di Teheran, riferisce ancora l’ufficiale. Trecento gli arresti. Fra loro, secondo la versione governativa, molti «Mujaheddin del popolo», l’opposizione clandestina.
Ricorreva ieri l’Ashura, giorno in cui i fedeli sciiti commemorano nel dolore l’uccisione del terzo imam, Hossein, nipote del profeta Maometto. Ogni anno nelle rituali processioni dell’Ashura il sangue scorre dalle ferite autoinferte dei flagellanti. A Teheran, Tabriz, e forse Qom, Isfahan e altre città, si è versato molto ed altro sangue. Non pensavano
ad espiare i propri peccati i giovani, gli uomini, le donne che con coraggio e determinazione sfidavano minacce e aggressioni degli sbirri di Ahmadinejad ieri in ogni quartiere di Teheran. Da piazza Imam Hossein, a est, a piazza Enghelab, a ovest. Da piazza Ferdowsi, ai viali Vali Asr e Hafez. Chiedevano libertà. Hanno ricevuto bastonate e piombo.
In alcuni casi, dicono fonti dell’opposizione, gli agenti si sono rifiutati di aprire il fuoco. Qualcuno però certamente l’ha fatto, siano poliziotti in divisa o membri delle milizie integraliste, Basiji o altro, che sono solite intervenire brutalmente contro i civili che osino contestare, criticare, esprimere idee diverse da quelle dei teocrati che opprimono il Paese.
Le notizie sono frammentarie, com’è la norma nell’Iran in cui il lavoro della stampa libera, nazionale ed internazionale, è sabotato con ogni mezzo dal governo. Qualche istantanea emerge da racconti parziali di protagonisti e testimoni. Sul viale Hafez i dimostranti rovesciano e incendiano due veicoli della polizia e mettono in fuga reparti antisommossa schierati su un ponte. Poco dopo agenti e miliziani sono visti riorganizzarsi in un clima di nervosismo.
In un altro punto della città i manifestanti si impadroniscono di un camion dei vigili del fuoco e usano l’altoparlante per scandire lo slogan spesso echeggiato nelle strade di Teheran durante i cortei antigovernativi: «Morte al dittatore». In cielo ronzano assordanti gli elicotteri per sorvegliare i movimenti della folla.
VOGLIA DI VENDETTA
Quando si diffonde la voce che alcuni manifestanti sono stati uccisi, da alcuni gruppi si leva il coro: «Uccideremo coloro che hanno ucciso i nostri fratelli». Violenza purtroppo chiama violenza. Nell’onda verde, il pacifico movimento di contestazione antigovernativa, si insinua come una corrente che può dirottarne il corso, la tentazione della vendetta. Via internet circolano immagini di motociclette e bidoni della spazzatura in fiamme. E purtroppo foto
di persone a terra in un lago di sangue.
Le autorità per l’ennesima volta sfoderano l’argomento della protesta eterodiretta. I cittadini che sono scesi in strada hanno risposto «al richiamo di media stranieri», scrive l’agenzia semi-ufficiale Fars. «La nazione iraniana finora ha mostrato tolleranza -dichiara Mojtaba Zolnour, rappresentante della Guida suprema Khamanei presso i Pasdaran, il corpo delle Guardie rivoluzionarie-. Ma la pazienza del sistema ha un limite», conclude minaccioso Mojtaba.
Pieno sostegno alle ragioni degli oppositori arriva da Washington. Il portavoce del consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca, Mike Hammer, sostiene che «la speranza e la storia stanno dalla parte di coloro che pacificamente cercano di far valere i diritti universali». Anche il governo francese «condanna gli arresti arbitrari e le violenze». ❖

l’Unità 28.12.09
Repressione brutale ma l’onda verde non è stata fermata
La rivolta iniziata 200 giorni fa continua a scuotere il regime Ahmadinejad è al bivio: può andare ad uno scontro più duro per mettere a tacere il dissenso o tentare di aprire il dialogo
di Gabriel Bertinetto

Sei mesi dopo l’ondata di manifestazioni popolari contro i brogli elettorali del 12 giugno, la protesta riesplode in tutto l’Iran. Come allora la risposta del potere è feroce. Come allora nella capitale ed altrove le milizie filogovernative aggrediscono e uccidono i dimostranti. Come allora i democratici vengono incarcerati. Come allora il regime appare incapace o forse per nulla interessato ai dialogo con l’opposizione.
Il parallelo finisce qui. Se la storia si ripetesse, dovremmo aggiungere che, come allora, la mobilitazione libertaria divampa per qualche settimana e poi gradualmente svanisce. Ma l’errore probabilmente starebbe nel credere che il fuoco davvero si sia spento negli ultimi mesi, e non abbia piuttosto covato sotto le ceneri, pronto ad essere ravvivato in qualunque momento.
A noi che guardiamo da fuori e da lontano, quello che sta accadendo in queste ore a Teheran, Tabriz, Qom, Isfahan e altre città ancora ricorda gli eventi dello scorso giugno, per l’ampiezza della contestazione e per la brutalità degli interventi repressivi. Ma è probabile che Khamenei e Ahmadinejad vedano proprio nella replica dello scenario estivo, il segno di una strategia fallita. Avevano scatenato i loro scherani nelle piazze, nelle carceri, nelle aule giudiziarie nella speranza di annichilire gli avversari. Scoprono che il progetto è naufragato. Si ritrovano davanti la stessa onda verde che si erano illusi di avere spazzato via.
La prima sensazione che il flusso della protesta stesse riemergendo in superficie, i capi del regime devono averla provata il 7 dicembre, quando i giovani sono tornati a manifestare nelle università in occasione della giornata dello studente. Pochi giorni dopo la Guida suprema Ali Khamenei tuonava minaccioso: «L’opposizione sarà eliminata agli occhi della nazione». A ruota il capo del sistema giudiziario preannunciava arresti e processi per i massimi leader riformatori Mousavi e Karroubi (sino a ieri ancora liberi). Il 19 giugno, una settimana dopo le contestate elezioni presidenziali, Khamenei aveva irriso all’insignificanza dell’opposizione («non sono che polvere e cespugli») ed aveva alluso a ritorsioni contro i suoi leader attribuendo loro preventivamente la responsabilità di incidenti che non erano ancora capitati.
Provocazioni, intimidazioni, violenze. I teocrati di Teheran sembrano prigionieri di una linea d’azione intrapresa nell’illusione di riportare la società iraniana alla passiva sopportazione su cui avevano potuto a lungo contare negli anni scorsi. In questi giorni sperimentano l’inefficacia di una terapia che non funziona più. Sono a un bivio. Insistere disperatamente sulla via della repressione, o cedere sapendo che la loro credibilità come interlocutori di un eventuale negoziato politico è comunque oramai compromessa. Per questo il futuro prossimo in Iran presenta un profilo di drammatica incertezza. ❖

Repubblica 28.12.09
La gente non si fermerà ormai tutto è possibile anche una rivoluzione"
Lo scrittore Tariq Ali: i tempi sono maturi
La reazione dell´esercito sarà determinante Potrebbe disobbedire agli ordini di sparare, come trent´anni fa. Fu allora che lo scià scappò
di Alix Van Buren

«Gli scontri a Teheran fra manifestanti e guardie rivoluzionarie segnano una nuova, rischiosissima fase. In queste ore, tutto è possibile, persino una deriva rivoluzionaria come alla vigilia della fuga dello Scià». Tariq Ali, storico, autore di saggi molto letti dall´Amministrazione Obama (l´ultimo è il polemico I protocolli dei Saggi di Sodom sulla politica occidentale in Oriente) studia, in queste ore da Londra, le piazze iraniane. «La decisione di sparare su una manifestazione pacifica è una provocazione davvero irragionevole da parte del regime. Per di più, capita in un momento fra i più scivolosi per le autorità».
Signor Ali, lei calcola un rischio tanto alto?
«Perché no? I chierici non sono mai stati tanto divisi al loro interno quanto lo sono oggi. L´Iran è di nuovo sotto i riflettori mentre l´America stringe il cappio con nuove sanzioni. In più, il mondo sciita adesso celebra la festa religiosa del Muharram, quando per definizione è proibito il ricorso alla violenza. In questo scenario, fare fuoco sui civili vuol dire allineare con i manifestanti larghi segmenti della popolazione finora non ostile al regime. Insomma, s´è prodotta una miscela esplosiva».
A che punto esplosiva?
«Che oramai tutto è possibile. Le prossime 24, 36 ore ci diranno in quale direzione andrà il Paese. Ascolti: nella tradizione sciita, a ogni morte seguono 40 giorni di lutto. Oggi si svolgeranno i funerali dei civili uccisi, altre migliaia di dimostranti si riverseranno nelle piazze. Il fatto che i miliziani basiji abbiano sparato sulla folla vuol dire che questi sono sfuggiti al controllo. Se verrà versato altro sangue, potremmo assistere a una campagna simile a quella che alla fine degli Anni Settanta rovesciò lo Scià».
Che similitudini vede?
«La più inquietante, dall´osservatorio dei chierici, è che l´opposizione sia pronta a sfidare la morte. Successe proprio così nel ´78 e nel ´79. Se i civili non si fermeranno di fronte ai fucili, la protesta di massa potrebbe mobilitare nuove fasce della popolazione».
Quali?
«Innanzitutto la classe media, finora più o meno ai margini, ma che scalpita per un accordo con l´Occidente. Poi c´è l´esercito. Diviso com´è fra lealtà al regime e inclinazione verso i riformisti, non sappiamo come questo reagirà. Potrebbe disobbedire agli ordini di sparare contro i dimostranti, come trent´anni fa. Fu allora che lo scià scappò e i rivoluzionari presero il potere».
Che peso ha la morte del Grand Ayatollah Montazeri nell´accelerazione di questi giorni?
«Ha peso, eccome, e per più d´una ragione. Intanto, lui era una figura fondamentale del dissenso, fin dai tempi di Khomeini. In secondo luogo, ispirava rispetto oltre i ranghi degli oppositori. L´avere proibito ogni pubblica funzione in sua memoria il 24 dicembre s´è rivelata una delle prime mosse avventate. Se poi dovesse arrivare la conferma dell´uccisione del nipote di Moussavi, il leader dei riformisti, si spalancherebbe una stagione di una brutalità straordinaria».
L´America di Obama che parte ha in questo suo scenario?
«Le illusioni su una svolta della Casa Bianca stanno tramontando. Il presidente Obama continua a dettare condizioni all´Iran senza promuovere un vero negoziato. Ha forse modificato il linguaggio, ma nella sostanza ricalca la politica di Bush. Dunque, le sanzioni resteranno ancora una volta senza effetto».
Perché ne è sicuro?
«Perché verranno ignorate, come già in passato. La Cina e la Russia, che hanno contratti importanti con l´Iran, non si taglieranno da sé la gola sotto il profilo economico. La speranza in Occidente è che il regime venga scalzato dall´interno, che si possa trattare con un nuovo governo».
Signor Ali, e l´Occidente ha ragione?
«No: s´illude. Infatti nessun governo iraniano tratterà in base a ciò che l´America offre. Però la questione pressante è un´altra: è quel che accadrà in Iran nelle prossime ore: una faccenda tutta interna a quel Paese. Mi creda, la stupidità e la debolezza del regime possono riservare molte sorprese».

Repubblica 28.12.09
Una protesta che demolisce il regime
di Renzo Guolo

Come nel 1978, ai tempi della rivolta contro lo Shah, l´Ashura è stata davvero il "giorno del sangue". E, come allora, non si tratta di quello versato nei cortei dei flagellanti che si battono con catene e trafiggono con lame testa, braccia e petto trasformandosi in maschere insanguinate.
Nella passione che ricorda il sacrificio di Hussain, terzo imam della shi´a ucciso a Kerbala dal califfo sunnita Yazid, morte che caratterizza lo sciismo come religione del rifiuto dell´ingiustizia, il sangue che segna la ricorrenza è quello dei manifestanti uccisi.
Come di più di trent´annni fa, quando gli iraniani scesero in piazza contro il regime Pahlavi, i dimostranti avevano due obiettivi: ribadire che Kerbala significa non accettare la resa al dispotismo; mostrare che l´ingiustizia può assumere il volto demoniaco del potere anche nel mondo sciita. Così nelle insanguinate strade di Teheran si udiva gridare sia «Ya Allah!», o Dio!, sia «Marg bag diktator!», morte al dittatore, slogan indirizzato, più che al solo Ahamdinejad, anche a Khamenei. Mutamento importante, perché mostra come nel mirino dell´opposizione, o almeno della sua ala più insofferente, il bersaglio non sia non più la sola legittimità del voto del 12 giugno ma la stessa Guida. Con tutte le conseguenze che ne derivano.
Che questo 10 di Moharran potesse trasformarsi nella cronaca di una morte annunciata per quanti scendevano in piazza, era nelle cose. Per questo assume un significato politico ancora più rilevante. Che l´opposizione volesse sfruttare l´occasione della festività sciita era noto: anche perché l´Ashura coincideva con la celebrazione del lutto, che si tiene sette, e quaranta, giorni dopo la scomparsa dell´ayatollah Montazeri, l´ex-delfino di Khomeini divenuto, nel tempo, la fonte di legittimazione religiosa dello schieramento ostile alla diarchia Khamenei-Ahmadinejad. Che l´asse fondato sul potere nero del clero conservatore e del "partito dei militari" potesse usare la mano dura era altrettanto prevedibile. Il "basta!" alle manifestazioni annunciato, insieme alla minaccia di cancellare l´opposizione dal panorama iraniano, dalla Guida poche settimane fa non lasciava dubbi. Ma violare quel divieto era facile nel giorno in cui milioni di iraniani riempivano le strade per celebrare il martirio di Hussain. La forza della protesta, e la sua estensione in città diverse dalla capitale, come Tabriz o Isfahan, ha indotto il regime, o la parte di esso che riteneva un segnale di debolezza lasciare dilagare la protesta senza intervenire, alla prova di forza.
Siano una decina o meno le vittime, e tanto più se tra esse vi è il nipote di Moussavi, l´Ashura del 2009 segna, comunque, il massimo punto di crisi del potere. Rotto, ancora una volta dopo Neda, il tabù del sangue, è prevedibile che si inneschi una spirale reazione-repressione, che potrebbe avere sviluppi impensati. E non solo per le, ricorrenti, voci di poliziotti che rifiutano di sparare ad altezza d´uomo. Del resto pochi, dentro e fuori l´Iran, pensavano che dopo la fiammata seguita al 12 giugno la protesta sarebbe proseguita. Soprattutto in assenza di un leader carismatico, qualità che Moussavi non possiede. Eppure l´Onda verde è riuscita a trasformare l´assenza di carisma in leadership collettiva. Condizione di forza e debolezza, quella in cui il movimento trascina i leader, che ha spinto l´opposizione a abbandonare il realismo prudente di Khatami e di Moussavi. E a cercare, trasformando Khamenei e Ahamdinejad in novelli Yazid, la sfida destinata a mutare la scena.
L´Ashura di sangue rivela che in discussione è, ormai, la stessa natura del regime. L´opposizione si nutre di parole d´ordine islamiche, così come lo sono i suoi leader e come lo era il suo punto di riferimento religioso Montazeri. Ma il sistema, irrigidito nella brutale amicizia tra turbanti e elmetti, non sembra più poter tollerare il residuo margine di pluralismo che derivava dalla istituzionalizzazione delle fazioni. La pretesa delle milizie, Pasdaran e Basij, e l´ambizione di Khamenei e dell´entourage che lo circonda, di erigersi a unici e autentici custodi della Repubblica Islamica nata della Rivoluzione, non lascia spazio a mediazioni. Così l´Ashura 2009, seguita da celebrazioni di lutti destinate a generare altri lutti, come già accadde nel 1978, potrebbe essere l´anticipo di un lavacro ancora più grande. Destinato a far pericolosamente fibrillare la Repubblica Islamica.

Repubblica 28.12.09
La Fondazione di Fini invita l’ex ministro a insistere sul dialogo
Farefuturo: "Forza D'Alema difenda la linea bipartisan"
Secondo i "finiani", nel Pd ci sono "troppi guastatori". Pannella: nasce il "D'Alesconi"

ROMA - «Forza D´Alema». L´auspicio arriva a sorpresa da Farefuturo, la fondazione del presidente della Camera Gianfranco Fini. In una lettera aperta dal titolo «Caro D´Alema, forza e coraggio...» a firma di Sergio Talamo, il magazine online della fondazione invita l´ex ministro degli esteri a lasciar perdere chi si è espresso contro il nascente dialogo fra Pd e Pdl (tra questi cita il fondatore di Repubblica, Eugenio Scalfari).
Scrive Talamo: «È stato, onorevole D´Alema, un anno di insulti, spatuzzate, statuette e puttanate: ci scusi il termine ma lo intendiamo in senso letterale, cioè come cose afferenti a persone che esercitano quel mestiere. Ci serve un 2010 di politica più alta. Serve a tutti, e, ci permetta, serve soprattutto al suo partito. Quando il segretario del suo partito dice che il dialogo dipende dal Popolo della libertà, non comincia molto bene. La palla è nel vostro campo, e solo in quello. Nel Pdl non c´è un cane che non abbia interesse al dialogo. Da voi invece ci sono tanti guastatori, tra cui spicca persino il suo amico Veltroni». «Non sappiamo con quale D Alema avremo a che fare - conclude Talamo - ma per ora siamo in clima di festa e quindi diciamo "Forza D Alema"».
E intanto Marco Pannella conia il neologismo "D´Alesconi", affermando che insieme a "Raiset" e "Santespa" rappresentano «il nuovo fascio ex antifascista».

Repubblica 28.12.09
L’autobiografia in forma di intervista del leader radicale
A ciascuno il suo Pannella
Evangelico, apocrifo, gnostico, ed anche anarchico, gandhiano, beat. La pedagogia è così vasta che ogni lettore può trovare il suo politico di riferimento
di Filippo Ceccarelli

Il («mio») libro, che te ne pare?» chiede per e-mail Pannella, con parentesi e virgolette, agli affezionati del suo vasto indirizzario. E la prima cosa che si pensa aprendo il libro, che è in forma di lunga intervista a Stefano Rolando, dal titolo bello complicato Le nostre storie sono i nostri orti/ ma anche i nostri ghetti (Bompiani, pagg. 201, euro 15), ecco, la prima cosa è che alla soglia dei suoi 80 anni Marco ha attenuato il precetto socratico di non lasciar mai nulla di definitivo, specie di sé. Perché Pannella non ha mai scritto più di quattro o cinque cartelle, sempre affidando il suo pensiero alla parola. E peggio: ha sistematicamente scoraggiato i suoi aspiranti biografi, compreso, come si apprende ora, Umberto Eco, che in passato aveva cominciato a preparare un´opera.
Ecco. Anche questo rende dunque speciale l´intervista autobiografica. Così come speciale, del resto, anzi specialissimo resta il personaggio Pannella, rispetto a quello che passa il convento-caserma della politica. Per la lunghezza della sua avventura politica, per la quantità e anche per la qualità della gente che ha frequentato, per la coerenza ideale, la prepotenza fattiva, l´onestà e la povertà. Una specie di sopravvissuto, o di marziano, un supernonno negli ultimi tempi tornato capellone come ai tempi in cui girava vestito come Amleto, dolcevita nero e pendaglio «Make love, not war». Testimone antiveggente e protagonista spesso misconosciuto che racconta con famigliarità di Benedetto Croce, o di quando si scambiò lettere con Togliatti. Una sorta di magnete della storia e della cronaca che durante una marcia ebbe al suo fianco Pino Pinelli e Luigi Calabresi; e che nel corso di cinquant´anni ha fatto un tratto di strada con Vittorini, Ernesto Rossi, Pasolini, «Cavallo Pazzo», Sciascia, Toni Negri, Spinelli, certi ergastolani che te li raccomando; e poi ancora Giorgione Amendola, Majid Valcarenghi, Loris Fortuna, Francesco De Gregori, Cicciolina, Sofri, Almirante, Tortora, Wojtyla, Rutelli - e solo per rimanere in Italia.
Ma nemmeno la lista di vari altri ed eventuali «impannellati», come li designava Craxi, renderebbe il senso di questa davvero straordinaria e riluttante autobiografia, «Che palle! Mi costringi sempre ad autocitarmi». E beato l´intervistatore Rolando che è riuscito a fissare un confine tra pubblico e privato, arrestandosi di fronte alle stanze da letto di Pannella, che ha amato tutti senza distinzione di generi, senza mai nasconderlo a nessuno, così vanificando oppressione e ricatti - preziosissima lezione, in questi tempi.
D´altra parte, la pedagogia radicale è così vasta che ciascuno può agevolmente trovarsi il suo Pannella di riferimento: evangelico, apocrifo, gnostico, dionisiaco, satanico, protestante, per non dire risorgimentale, liberale, libertario, anarchico, don Chisciotte, gandhiano, beat, fumato, lucidissimo, abruzzese, europeo, africanista, junghiano, settario e chissà quanto altro ancora. I digiuni, le vittorie, gli scandali.
Sul presente rare ed eccentriche puntate: riabilita Andreotti; propone il leader di Sant´Egidio Andrea Riccardi alla guida del Pd; riconosce in Fini «una crescita interiore». Per il resto nota uno scontro regressivo fra un «capace di tutto» e parecchi «buoni a nulla». Per duecento pagine rimane sempre in alto, mai un pettegolezzo, né una volgarità. In compenso si conferma nella più assoluta mancanza di senso dell´umorismo e dell´auto-ironia.
Ma forse è proprio per questo che Pannella resta l´unico a cercare un´anima nella politica. Le parti più affascinanti sono anche quelle più ermetiche. Quando richiama le leggi dell´astrofisica per spiegare armonia e rottura; quando propone trasferimenti di energia, realtà rovesciate, imprevedibili ribaltamenti; o quando proclama di credere alla «compresenza dei viventi e dei morti». Un Pannella quasi esoterico. Fuori, ma dentro il tempo, lo spazio e le relazioni. Un Pannella che nella sua e-mail, dopo aver sollecitato un giudizio sul («suo») libro così prosegue, come al solito: «Per il resto, ci stiamo preparando ad un inverno di lotta Radicale che m´auguro senza precedenti, per intensità, chiarezza, forza e risultati e anche per necessità. Ma su questo tornerò a scriverti; intanto t´auguro sin d´ora il miglior anno della tua, della nostra vita; con un abbraccio forte Marco».

Repubblica 28.12.09
Van Gogh, giallo svelato "Si tagliò l’orecchio per far dispetto al fratello"
La chiave del mistero in una lettera su un quadro
Uno studioso inglese: "Vincent rimase sconvolto quando Theo gli annunciò che stava per sposarsi". La nuova scoperta "scagiona" l´amico Gauguin
di Cristina Nadotti

LONDRA - La risposta era in una lettera sotto gli occhi di tutti, ma soltanto ora un esperto di Van Gogh vi ha saputo leggere la chiave per spiegare il gesto estremo con cui il pittore si tagliò un orecchio. Martin Bailey, curatore di due mostre sul genio olandese e autore di un libro sulla vita dell´artista, ha individuato in una lettera riprodotta da Van Gogh nel quadro «Natura morta: tavolo con cipolle», dipinto nel gennaio 1889, la motivazione per l´automutilazione.
Secondo il critico, le condizioni psichiche già precarie di Van Gogh furono ulteriormente scosse dalla notizia che il fratello Theo, commerciante d´arte e di fatto unico sostentamento del pittore, era prossimo alle nozze. Il pittore fu informato del matrimonio imminente proprio con una lettera, riprodotta in modo fedele nel quadro del 1889 dipinto pochi giorni dopo il taglio dell´orecchio. Nel dipinto, il genio olandese riproduce timbri postali e indirizzi della lettera che riconducono al domicilio parigino di Theo e alla data del dicembre 1888. Van Gogh si tagliò l´orecchio pochi giorni prima di Natale e in alcune lettere che Theo scrisse ad altri membri della famiglia si apprende che diede notizia del suo matrimonio al fratello proprio con una lettera spedita da Parigi alcuni giorni prima dell´incidente.
Il motivo dell´automutilazione di Van Gogh è una delle querelle che appassionano gli esperti d´arte, insieme allo stato mentale del pittore, talvolta attribuito al piombo contenuto nei colori che usava. Tra le ipotesi per il gesto folle quella recente dei ricercatori dell´Università di Amburgo, per i quali fu Gauguin, il pittore francese con cui nel 1888 Van Gogh divise una casa ad Arles, a tagliare l´orecchio all´amico nel corso di un litigio scatenato per una prostituta. Per altri studiosi fu invece la fine dell´amicizia con l´artista francese a rompere il già fragile equilibrio psicologico di Van Gogh, benché alcuni ricercatori abbiano argomentato che fosse stato lo stesso Gauguin a inventare questa versione.
La nuova ipotesi di Bailey, pubblicata su The Art Newspaper, viene comunque a fagiolo per Londra, dove a gennaio si aprirà alla Royal Academy una mostra su Van Gogh e le sue lettere. Per accreditare la sua ipotesi Bailey ha passato al setaccio le lettere di Theo Van Gogh alla madre e alla fidanzata, nelle quali parla del suo fidanzamento e del modo in cui il fratello aveva reagito alla notizia. «Quando gli ho parlato di te - scrive Theo alla promessa sposa Johanna Bonger dopo essere tornato da Arles per accudire Vincent ferito - mi ha detto che il matrimonio non dovrebbe essere l´obiettivo principe nella vita». Per Vincent, argomenta il critico inglese, sapere di non essere più l´unica preoccupazione del fratello fu uno shock e non fu un caso che tagliandosi l´orecchio costrinse Theo a un viaggio precipitoso da Parigi ad Arles per assisterlo. Pochi giorni dopo l´incidente, è la conclusione di Bailey, Vincent mise in un quadro la lettera che lo aveva tanto sconvolto, riproducendo con precisione ogni dettaglio. Ma il fatto che il fratello fosse accorso al suo capezzale non bastò a rassicurarlo: 19 mesi dopo, il 27 luglio 1890, Vincent Van Gogh si sparò al petto e morì dopo due giorni di agonia.

l’Unità 28.12.09
«Gaza derubata del futuro. Il mondo rompa il silenzio»
Intervista a Desmond Tutu
di Umberto De Giovannangeli

Il Nobel per la pace: un anno dopo la guerra lanciata da Israele, tra i palestinesi è forte il senso di ingiustizia. Compiuto un crimine contro l’umanità

L’anniversario
«Se qualcosa è cambiato
è stato in peggio
Un milione e mezzo
di esseri umani restano
chiusi in una prigione»
L’appello
«Chiedo a Netanyahu
di liberare Abu Rahma
Per cinque anni ha lottato
contro il Muro
in modo non violento»

Lei mi chiede cosa ne è della gente di Gaza un anno dopo l'inizio di quella terribile guerra. La risposta è angosciante: è rimasto il dolore, è rimasta la rabbia, la percezione di un'assenza di futuro. Sono rimasti gli sguardi persi nel vuoto, dei bambini di Gaza, a cui è stata rubata l'infanzia. Un anno dopo è rimasto ed anzi si è ancor più rafforzato il senso di ingiustizia unito alla presa d'atto del silenzio complice con cui i leader mondiali hanno continuato ad avallare quello che era e rimane un crimine contro l'umanità». Gaza, un anno dopo l'inizio dell' operazione Piombo Fuso: l'Unità ne parla con l'arcivescovo Desmond Tutu, Premio Nobel per Pace, l'uomo che assieme a Nelson Mandela ha simboleggiato agli occhi del mondo la lotta al regime dell'apartheid in Sudafrica. «Oggi come ieri – sottolinea Desmond Tutu – mi sento di rivolgere lo stesso appello, lo stesso monito, ai Grandi della Terra come all'ultimo degli umili dotato di una coscienza civile: se rimanete neutrali in una situazione di ingiustizia, come quella patita dalla gente di Gaza, avete scelto la parte dell'oppressore». Sostenitore della disobbedienza civile e della resistenza non violenta, l'arcivescovo sudafricano denuncia l'arresto operato dall' esercito israeliano di Abdallah Abu Rahma, coordinatore del Comitato Popolare di Bil'in contro il Muro e gli insediamenti, protagonista di una campagna di cinque anni di protesta non violenta e la sfida legale contro il muro che separa Israele dalla Cisgiordania. «Ho incontrato Abu Rahma in agosto, quando ho avuto occasione di visitare Bil'in, racconta Tutu – Sono rimasto impressionato dal suo impegno per la pacifica azione politica, e il suo successo nel mettere in discussione il Muro che separa ingiustamente il popolo di Bil'in dalle loro terre e le loro alberi di olivo. Mi appello alle autorità israeliane affinché liberino Abu Rahma immediatamente e senza condizioni». «L'arresto di Abu Rahma – insiste il Nobel per la Pace – e le accuse che gli sono state rivolte sono parte di una escalation condotta dai militari israeliani per cercare di spezzare lo spirito del popolo di Bil'in. Ma devono rendersi conto che non può spezzare lo spirito di coloro che lottano per la libertà e la giustizia». Gli attivisti di Bil'in, incalza Tutu, «mi hanno riportato alla mente Gandhi, che era riuscito a rovesciare il dominio britannico con mezzi non violenti, e Martin Luther King, che aveva ripreso la lotta di una donna nera che era troppo stanca di dover andare sul retro di un autobus segregazionista». Lo scorso agosto Desmond Tutu è stato insignito da Barack Obama della Presidential Medal of Freedom, la massima onorificenza civile degli Stati Uniti che viene consegnata ogni anno a cittadini americani e stranieri.
Un anno fa, Israele scatenava l'offensiva militare contro Gaza. Cosa è cambiato a un anno di distanza. «Se qualcosa è cambiato, è cambiato in peggio. Gaza resta una prigione a cielo aperto, isolata dal resto del mondo. Una prigione in cui sono rinchiusi quasi un milione e mezzo di palestinesi, in maggioranza bambini, adolescenti, donne. Di quali colpe si sono macchiati per subire questa condanna? Nella tragedia di Gaza si rispecchia l'ignavia e il silenzio complice di quanti potrebbero fare e non fanno. Di fronte ad una situazione di palese ingiustizia non si può essere neutrali. Perché ciò significa sostenere l'oppressore».
Israele aveva giustificato l'azione militare come esercizio di autodifesa dal lancio dei razzi Qassam contro Sderot e le città frontaliere.
«Da mesi quei lanci si sono fermati ma l'embargo contro Gaza e la sua gente continua. Il diritto di difesa non contempla punizioni collettive e il coinvolgimento della popolazione civile in operazioni di guerra. Non va dimenticato che la maggioranza dei palestinesi morti o feriti nell'operazione Piombo Fuso erano civili. Civili inermi. A Gaza sono stati commessi crimini di guerra che attendono ancora di essere sanzionati. Un anno dopo, Gaza è ancora in atto una tragedia umanitaria di fronte alla quale il mondo non può continuare a chiudere gli occhi. Perché se la verità fa male, il silenzio uccide».
In un recente colloquio con l'Unità, il direttore generale dell'Unrwa (l'agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi) John Ging nel raccontare la tragedia di Gaza ha posto l'accento sulla devastazione psicologica, oltre che su quella materiale, che colpisce soprattutto i ragazzi di Gaza.
«Mi ritrovo totalmente nelle considerazioni di Ging, una persona straordinaria per l'umanità e la dedizione di cui ha dato prova anche in quei terribili giorni di guerra. Anche io, visitando Gaza, sono rimasto colpito, scioccato, dall'assenza di speranza, dalla disperazione, dalla certezza che le cose non potranno far altro che peggiorare che pervade i ragazzi di Gaza. Quei ragazzi non sanno più immaginare un futuro. E questa è una condizione inaccettabile, inumana. Alla quale non dobbiamo rassegnarci».
Lei ha chiesto a più riprese la liberazione di Gilad Shalit, il giovane caporale israeliano da oltre tre anni prigioniero a Gaza. I prossimi potrebbero essere giorni decisivi per la trattativa con Hamas.
«Sono vicino ai genitori del giovane soldato e prego con loro perché possano finalmente riabbracciare il loro ragazzo. E lo stesso spero che possano fare le famiglie degli oltre 8mila palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, diversi dei quali sono detenuti politici nel pieno senso del termine, membri del parlamento palestinese imprigionati senza processo. Tra loro c'è gente innocente, come pure attivisti .politici e dimostranti non violenti, come il mio buon amico Abu Rahma. Il buon esito della trattative non sarebbe solo un gesto umanitario di straordinaria valenza ma sarebbe anche prova di lungimiranza politica sia dei governanti israeliani sia dei dirigenti di Hamas. Un seme di speranza che va coltivato con amore e determinazione».❖

domenica 27 dicembre 2009

l’Unità 27.12.09
Conversando con Luce Irigaray Filosofa
«L’evoluzione è il compito dell’Homo Sapiens E se ricominciassimo?»
intervista di Maria Teresa Paalieri

Luce Irigaray per una decina d’anni, tra metà anni Ottanta e metà dei Novanta, è stata per l’Italia una presenza familiare: è stata un’interlocutrice di spicco, in quell’epoca, del «femminismo istituzionale» praticato dalle donne del Pci, poi del Pds. In quella stagione potevamo dialogare con il suo pensiero di quegli anni sono testi come Io tu noi. Per una cultura della differenza, Amo a te, Essere due, La democrazia comincia a due vedendolo come un orizzonte radicale non solo desiderabile ma anche praticabile. Oggi no. Nel corso del soggiorno romano, in cui ha incontrato il pubblico alla Fondazione Basso e a Romatre, abbiamo parlato con Irigaray del suo libro più recente, Condividere il mondo (come molti altri edito da Bollati Boringhieri). E, parlando con lei, l’effetto su di noi è stato questo: ci siamo ricordate che esistono luoghi dove la civiltà sussiste e dove si può perfino riflettere su come migliorarla. Questo ci dice con cruda chiarezza in quale buco nero noi l’Italia di Berlusconi e della Lega siamo invece caduti. Ecco, alla fine di questo annus horribilis, parliamo con Luce Irigaray e ci sentiamo «in viaggio all’estero».
Condividere il mondo riprende alcuni dei temi-chiave della filosofa francese: l’altro e l’alterità, la differenza tra i generi e le identità sessuate, l’uomo e il suo rapporto con la madre e la conseguente fondazione di un Logos e una civiltà basati, anziché su coesistenza e amore, su conflitto e opposizione. Però qui lo fa alla luce di alcune urgenze della nostra epoca. «Oggi dobbiamo tornare alla questione “che cos’è l’essere umano”? In che modo si distingue dagli altri esseri viventi? Siamo arrivati a un punto tale che dobbiamo ricominciare da qui. L’umanità è la specie vivente che ha più possibilità di perdersi. Dobbiamo tornare alla nostra realtà di umani e, da qui, riprendere il compito che ci è dato: continuare l’evoluzione. Come possiamo governare il mondo, anziché dominarlo?» si chiede Irigaray.
«Continuare l’evoluzione» è un bell’obiettivo. Per l’Homo e la Foemina Sapiens quali potrebbero essere le prossime tappe? «Per esempio la cosiddetta liberazione della donna. O la globalizzazione. Ma siamo a un limite: tutto può andare contro l’evoluzione umana, se non stiamo attenti a usarlo in suo favore. La globalizzazione, con il conseguente multiculturalismo, ci aiuterà a trovare un paradigma che ci faccia crescere oppure ci farà assestare su un consenso verso il basso? Oggi, poi, la vita stessa è a rischio, non solo come futuro del pianeta e del vivente, ma come futuro dell’umano in quanto tale. In Francia ogni giorno la televisione parla di specie condannate alla scomparsa, animali, piante. Nessuno dice però che è l’umanità stessa che scompare: abbiamo perso energia, capacità di anticipare il futuro, capacità
di pensare. Si parla piuttosto di pandemie, di apocalisse. Ma questo vuole pur dire che c’è il sentore di un pericolo». In «Condividere il mondo» lei nota che oggi nel pianeta i conflitti sono tra «Assoluti». Pensa agli integralismi religiosi?
«La radice dei conflitti sembra economica, ma, ciecamente o chiaramente, essi vengono promossi in nome di un Dio e di una concezione dell’Assoluto su cui si fonda la comunità. Il modo di concepire l’Assoluto non è lo stesso in tutte le comunità, perciò i conflitti ci sono e continueranno a esserci. L’Assoluto è la cosa più difficile da interrogare». L’Assoluto è per definizione un dio? O ne esistono anche nelle nostre società secolarizzate?
«Può essere l’ideale platonico del Bene, del Buono, del Vero. Può essere un’ideologia. Cambiando registro, può essere un idolo incarnato, un dittatore. Ora, io penso che se un intellettuale, dopo la caduta degli idoli, non propone nuovi modelli per il futuro dell’umanità, diventa un complice. L’umanità, caduti gli idoli, manca di trascendenza, ma trascendersi fa parte dell’umano. Dobbiamo riprendere questo cammino attraverso cose radicalmente semplici ed umane, per esempio costruire un futuro, o il rapporto con l’altro in quanto differente. Dopo la caduta degli Assoluti che cementavano una comunità non si può lasciare che tutto si disfi, non si può restare fermi alla distruzione, bisogna creare nuovi valori. È importante continuare a sfidare i valori del passato, per esempio a livello sessuale, ma si devono trovare, anche, nuove modalità di rapporto».
In Italia è allo sfascio che siamo fermi: i «nuovi valori» in crescita sono il razzismo, la mercificazione della sessualità e una specie inquietante di neo-sessismo, promossi dal livello più alto, da chi ci governa. Lei, quando parla di nuovi valori, a cosa pensa?
«Al rispetto dell’alterità dell’altro. Che sia un compagno, una compagna, un figlio, uno straniero. Rom, donne, il problema è questo: la mancanza di rispetto per l’altro. L’altro umano viene considerato in modo quantitativo: io, che sono sopra di te, posso decidere per te. Tu, in un modo o in un altro, sei il mio schiavo o il mio debitore».
La globalizzazione ha rivoluzionato alcune nostre coordinate. Lei nel suo saggio affronta quelle di «lontano» e «vicino». È lì che nasce il rigetto dello straniero?
«Io suggerisco di sostituire l’intimità alla familiarità. Familiarità significa condividere abitudini, costumi, senza essere attenti all’altro. Ma dentro di noi c’è un nocciolo più intimo che ci è ancora nascosto. È l’incontro con l’altro che può rivelarci a noi stessi. Il rispetto per l’altro riapre il nostro orizzonte, ci chiama più lontano. Ma questo lontano è anche dentro di noi, è l’intimo che non conosciamo. E se questo ci è ancora precluso è perché siamo vissuti in una cultura che ha privilegiato la vista sul tatto. La carezza può servirci a dominare l’altro, ma anche a rivelarci reciprocamente. Invece, secondo lo stesso Sartre, nella nostra cultura la carezza serve ad assopire per dominare, anziché a risvegliare il desiderio e l’amore per poterli condividere. Il tatto può essere fisico, ma anche psichico o spirituale. Si dice “quella persona ha tatto”, cioè ha sensibilità, rispetto... La familiarità è riduzione a cosa: tu fai parte del mio paesaggio, delle mie abitudini. E quando arriva lo straniero, va tutto all’aria. Accettiamo lo straniero finché ci porta qualcosa in più. Quando invece turba la nostra familiarità, lo rigettiamo. Abbiamo curiosità per lo straniero quando lo vediamo nel suo paese, ma quando viene qui e ci chiede di cambiare le nostre abitudini, allora no. Anche il desiderio, quando si ferma alla familiarità senza rispetto per l’intimità dell’altro svela qualcosa di davvero problematico. E questa è la storia della sessualità occidentale: usare il familiare anziché condividere l’intimità».
Lei pratica yoga e ha soggiornato in India. Lì ha notato differenze, su questi piani? «Non ho ricevuto, con lo yoga, insegnamenti sulla differenza tra i sessi, e questo glielo rimprovero. Ma le donne, lì, sono dee. Nessuno si permetterebbe di trattare una donna, anche povera, in India, come si fa qui. Forse è perché nel loro pantheon ci sono delle divinità femminili». Il rapporto con l’altro è un problema squisitamente occidentale?
«Credo che, alla culla della nostra civiltà, i filosofi presocratici abbiano ripreso alcuni valori dalle tradizioni orientali ma che, poco alla volta, vi abbiano sostituito dei valori propriamente maschili, come il dominio, la tecnocrazia e la competitività. Bisogna ricominciare dal due anziché dall’uno: due generi, non uno che li comprende entrambi. Nella Grecia arcaica esisteva la forma duale e la via mediana nei verbi, Omero per esempio la usa, poi scompare. C’è stato un crocevia in cui è stata imboccata la strada sbagliata. Da lì bisogna ricominciare».❖

La biografia
1974, lo scandalo di «Speculum» Da Freud alla sua filosofia
Luce Irigaray (1930), filosofa, ha interessi multidisciplinari che le provengono da studi, oltre che in filosofia, in psicologia, letteratura, linguistica, e dalla formazione psicoanalitica. Nata in Belgio, dai primi anni ‘60 vive a Parigi. Già membro dell’École freudienne diretta da Jacques Lacan, nel 1974 ne viene espulsa per la pubblicazione di «Speculum, l’altra donna», denuncia del fallocentrismo, e perde l’insegnamento all’Università di Vincennes. Protagonista del pensiero della differenza, dai primi anni ‘80O direttore di ricerca al Cnrs, è stata insignita della laurea honoris causa dall’università di Londra.

l'Unità 27.12.09
Il partito dell’amore
di Vittorio Emiliani

Assimilare atti differenti compiuti da due differenti persone in cura da anni per disturbi mentali col fine di costruirci sopra un’unica “teoria della violenza” prodotta dal clima politico sembra davvero un’ardua e mistificante impresa. Vi accenna lo stesso presidente del Consiglio che compare “in voce”, ogni giorno ormai, dalla sua villa di Arcore, alla radio, alla tv, nei Tg quando al Tg1 dell’altra sera parla di «odio che rende violente contro l’avversario politico le menti più fragili». Stringe subito l’acrobatica connessione il tg della Rai mettendo sullo stesso piano di «prodotti dell’odio politico» il lancio folle di Massimo Tartaglia contro Berlusconi e il tentativo della svizzera Susanna Maiolo di toccare Benedetto XVI. Due episodi che, semmai, dovrebbero far riflettere sulla inadeguata professionalità della sicurezza, italiana e vaticana, utilizzata in quei pericolosi bagni di folla.
È già inqualificabilmente grave l’hanno fatto Cicchitto ed altri dare nome e cognome ai “mandanti” di Tartaglia. Ma, andare oltre l’inqualificabile per impastare insieme i due gesti quali sintomi di uno stesso clima politico profondamente inquinato è davvero voler contribuire all’incendio permanente del confronto, dirigendo le fiamme contro i “mandanti” e dando la seguente impressione: c’è “un partito dell'amore” (senza allusioni al lettone dono di Putin) e c’è “un partito dell'odio”. Del primo fanno parte tutti coloro che amano il premier e ne condividono opinioni e progetti. Del secondo fanno parte non solo tutti coloro che detestano lui e le sue proposte politiche (comunque, chi gliel’ha messa in bocca a Di Pietro l’idiozia di Berlusconi=Diavolo?), ma anche tutti coloro che, più semplicemente, non le condividono. Dissenso, in democrazia, del tutto legittimo.
Quando Berlusconi significativamente dopo l’Epifania, dal greco epiphàino, appaio riapparirà, proporrà riforme vere oppure leggi su misura per lui? Nel primo caso sarebbe sbagliato non andare a vedere le carte e ragionare su di esse. Nel secondo, sarebbe sbagliato proseguire nel dialogo. Domanda: così facendo, si entrerebbe a far parte, automaticamente, delle «fabbriche di menzogne, estremismo e anche di odio» (Berlusconi al Tg1)? Non è proprio il massimo che l’altro ieri il presidente abbia dialogato “in voce” con don Pierino Gelmini della Comunità “Incontro”, rinviato a giudizio per abusi su minori. Ancor più sorprendente che abbia rivendicato il motto «noi rispettiamo l’avversario politico». Non ricorda di aver parlato delle “stronzate di Prodi”, di aver mimato la sinistra che va al governo e subito straccia il suo programma, di aver sostenuto «certo, non credevo fossero così tanti i coglioni» che votano per la sinistra, di aver proposto l'on. Schulz (Spd) «per il ruolo di un kapò», di aver definito Rosy Bindi «più bella che intelligente», ecc.? Tuttavia se il Berlusconi dell’Epifanìa, cioè della nuova “apparizione”, sarà diverso da quello e proporrà leggi condivisibili, spiazzerà per primi i suoi sostenitori, come Minzolini, i quali fanno un solo fascio di Massimo Tartaglia e di Susanna Maiolo per rappresentare il clima di odio contro il governo e il suo leader alimentato dal centrosinistra, anzi dalla sinistra. Ora e sempre “comunista”, ovviamente.

l'Unità 27.12.09
Etica pubblica e pragmatismo
Cosa insegna quella cultura azionista
di Giunio Luzzatto Università di Genova

Ho fatto un errore, e devo riconoscerlo». Per una persona come Massimo D'Alema una dichiarazione come questa, fatta nel colloquio con Giovanni Maria Bellu pub-blicato dall'Unità il 24 dicembre, è molto inconsueta.
In tale colloquio, mentre ha puntigliosamente difeso tutti gli altri punti della precedente intervista al Corriere della sera sulla quale si sono sviluppate intense polemiche, D'Alema ha affermato che il suo accostamento dell'antipolitica all' "azionismo" era stato "improprio e frettoloso".
È giusto prendere atto del passo indietro, ma poiché, a destra come a sinistra, ci si trova spesso davanti a esorcizzazioni della "cultura azionista" vale la pena di cercare di comprendere le ragioni di questo fenomeno.
Un fantasma sembrerebbe cioè aleggiare sull'Italia, e danneggiarne le sorti che in assenza di esso potrebbero essere invece, grazie ad astuti compromessi, magnifiche e progressive: il Partito d'Azione scomparso da oltre sessant'anni. E la corrispondente cultura, quella del rigore nel perseguimento della Giustizia con la Libertà.
Scriveva Carlo Rosselli: "Il fascismo è stato l'autobiografia di una nazione che rinuncia alla lotta politica, che ha il culto dell'unanimità, che rifugge dall' eresia, che sogna il trionfo della facilità, della fiducia, dell'entusiasmo." Sono parole del 1929, ma è sufficiente sostituire "fascismo" con "berlusconismo" per trovare in esse una piena attualità. In questa deplorazione per l'assenza di lotta non vi è alcun "odio" nei confronti del dittatore di ieri o del demagogo di oggi: vi è una analisi che guarda nel profondo di questo paese. Là dove la tendenza al conformismo ha radici antiche: abbiamo avuto la Controriforma senza aver partecipato alla Riforma. Particolarismi egoistici (vi è chi parla di "familismo amorale") fanno premio rispetto alla coscienza civica, a una valorizzazione delle istituzioni pubbliche: effetto di una unità nazionale giunta molto tardi, di un debole senso dello Stato.
Quando la sinistra maggioritaria era dogmatica, la cultura politica di cui parliamo era pragmatica; non ha mai ritenuto che il perseguimento della giustizia sociale richiedesse l'adesione all'ortodossia marxista. Ma, per essa, pragmatismo non significa opportunismo: significa, all'opposto, meno ideologia e più concretezza, più etica pubblica. Un grande economista, Paolo Sylos Labini, quando un imprenditore titolare di concessioni governative scese nell' agone politico sollevò immediatamente il problema della sua ineleggibilità. Se, anziché isolarlo come il solito azionista rompiscatole, lo si fosse ascoltato, forse oggi staremmo meglio.❖

l'Unità 27.12.09
Bonelli: «Stato di calamità Sì ma per il governo... »
di M. C.

«È necessario e urgente dichia- rare lo stato di calamità naturale del governo italiano per evitare futuri di- sastri, assolutamente prevedibili, co- me quelli provocati dal maltempo. Pochi centimetri di neve hanno bloc- cato il sistema ferroviario italiano mentre le piogge di queste ore stan- no provocando danni ingenti a perso-
ne e cose. È la fotografia di un’Italia arretrata di almeno 20 anni dal resto dei paesi d’Europa che non ha politi- che ferroviarie e politiche di tutela dal dissesto idrogeologico».
L’analisi di Angelo Bonelli, presi- dente nazionale dei Verdi, è molto dura: «Allagamenti e frane erano eventi prevedibili e il governo conosce quali sono le aree a rischio però, invece di fare investimenti nella po- litica di difesa del suolo, si affida al- la Provvidenza». «Si finanzia - ag- giunge Bonelli - un’opera dannosa e costosissima come il ponte sullo Stretto lasciando il paese in una si- tuazione di profonda arretratezza infrastrutturale ferroviaria, di as- senza di investimenti nella difesa del suolo e di rispetto dei vincoli idrogeologici. Ora il ministro Matte- oli chiede lo stato di calamità natu- rale... Proprio lui che è l’artefice del- le sperpero di denaro pubblico per il Ponte sullo Stretto... ».

l’Unità 27.12.09
La denuncia delle Ong
Sedici organizzazioni internazionali contro il blocco della Striscia
Gaza senza pace Ancora morti un anno dopo Piombo Fuso
di Umberto De Giovannangeli

Uccisi tre palestinesi nella Striscia nel giorno dell’anniversario dell’offensiva israeliana
A Nablus altre tre vittime. L’Anp contro lo Stato ebraico: non vogliono il dialogo
Sei palestinesi uccisi dai soldati israeliani in due operazioni, a Nablus e nella Striscia di Gaza. La condanna dell’Anp. Un anno fa iniziava la guerra a Gaza. Un anno dopo, la tragedia continua.

Un passato di sangue. Un presente dello stesso colore. Sei palestinesi sono stati uccisi ieri da militari israeliani in due episodi separati, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. È stato il più alto numero di uccisi dal fuoco israeliano un anno dopo la guerra di 23 giorni scatenata da Israele contro Hamas nella Striscia di Gaza. I primi tre sono stati uccisi nel corso di un raid condotto dai soldati di Tsahal nel cuore della notte nella Casbah di Nablus. È stata ferita la moglie di uno di loro; un quarto palestinese è stato arrestato. Le truppe, su segnalazione dello Shin Bet, il servizio segreto di sicurezza hanno isolato tre abitazioni in cui si erano nascosti tre membri delle Brigate dei Martiri di Al Aqsa, il braccio armato di Al Fatah, il movimento che fa capo al presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen).
L’IRA DEI PALESTINESI
Secondo un portavoce di Tsahal i tre miliziani sono responsabili dell' uccisione, 48 ore prima, del colono
israeliano Meir Avshalom (45 anni), colpito dal fuoco di armi leggere dentro la sua automobile nel nord della Cisgiordania. Nel secondo incidente altri tre palestinesi civili, secondo fonti locali sono stati uccisi dopo essersi troppo avvicinati al reticolato di confine con Israele, in zona interdetta, nella Striscia di Gaza. Contro di loro è stato aperto il fuoco da terra e anche dall'aria. L’Autorità nazionale palestinese (Anp) ha duramente condannato Israele per i fatti di sangue di Gaza e Nablus, accusando lo Stato ebraico di sabotare gli sforzi di pace, Nabil Abu Rudeina, portavoce del presidente dell'Anp Abu Mazen ha affermato che queste uccisioni sono la prova che «Israele non è interessato alla pace è sta invece cercando di far esplodere la situazione»,
Ed è in questo clima infuocato che cade il primo anniversario dell’inizio dell’operazione «Piombo Fuso», scatenata da Israele nella Striscia di Gaza
LA STRISCIA IN GINOCCHIO
Secondo un rapporto della organizzazione umanitaria Pchr-Gaza, le case totalmente distrutte durante la guerra sono state 2.114, e le altre rese comunque inagibili 3.242: di conseguenza alla fine del conflitto i senza-tetto erano stimati in oltre 50 mila. Oggi sono 20 mila. La chiusura della Striscia ha provocato un netto aumento nei costi del cemento e dei materiali di costruzione: un mattone che costava un anno fa due shekel (30 centesimi di euro) viene pagato adesso 4,50. Secondo il rapporto di Pchr-Gaza, del milione e mezzo di abitanti di Gaza l'80% vive in condizioni di povertà. Il tasso medio di disoccupazione è del 42%, ma in certe zone supera il 55%. Una famiglia di Gaza su cinque deve arrangiarsi con l’equivalente di 10 euro al giorno. Per la chiusura dei confini l'Egitto sta costruendo una barriera sotterranea per bloccare i tunnel di contrabbando i prezzi dei beni di consumo crescono di continuo: la vita diventa una guerra per la sopravvivenza. A ciò si aggiungono la preoccupazione per un nuovo conflitto e
per le malattie. Molte medicine scarseggiano. Chi poi deve ricorrere a cure mediche avanzate si trova di fronte alla difficoltà pratica di ottenerle, in Israele o in Egitto, viste le difficoltà di abbandonare la Striscia. La comunità internazionale ha tradito la popolazione di Gaza fallendo nel porre fine all'embargo israeliano per permettere la ricostruzione nella Striscia. È l'accusa lanciata da un gruppo di 16 Ong internazionali tra cui Oxfam e Amnesty International in un rapporto pubblicato in occasione del primo anniversario di «Piombo Fuso». Nel documento si legge che Israele ha violato le norme umanitarie internazionali applicando una «punizione collettiva» con il blocco indiscriminato a Gaza, punendo quindi tutti per le azioni di pochi.❖

l’Unità 27.12.09
Manganelli e lacrimogeni contro i manifestanti antigovernativi a Teheran
Oggi previsti altri raduni di protesta nel giorno dell’Ashura, ricorrenza religiosa sciita
Iran, rivolta e repressione. Integralisti attaccano moschea
di Ga.B.

Estremisti filogovernativi attaccano i dimostranti a Teheran e si scatenano contro la folla che ascolta l’ex-presidente riformatore Khatami in una moschea. Previsti nuovi raduni oggi nel giorno dell’Ashura.

Estremisti islamici hanno attaccato una moschea nel nord di Teheran, dove era in corso una cerimonia religiosa, presente l’ex-presidente riformatore Mohammad Khatami. Armati di catene, mazze e bombolette spray urticanti, più di cinquanta individui sono penetrati nel tempio, che si trova non lontano dalla casa dello scomparso Ruholla Khomeini, fondatore della Repubblica islamica.
Khatami stava parlando alla folla, e non è chiaro se l’incontro sia stato sospeso o sia poi ripreso più tardi. Le notizie su questo e altri episodi di violenza accaduti ieri nella capitale iraniana, sono come al solito frammentarie, a causa della censura imposta dal potere ai media nazionali e stranieri. Sino a tarda ora non era chiaro che dimensione avessero avuto gli scontri e se ci fossero dei feriti fra le persone aggredite.
Le proteste popolari contro il regime sono divampate nuovamente ieri in vari punti di Teheran, alla vigilia dell'odierna ricorrenza dell’Ashura, la più importante festività sciita, in cui si commemora il martirio dell’imam Hossein, nipote del profeta Maometto.
L’opposizione ha annunciato nuove iniziative proprio per oggi, in coincidenza con l’Ashura ma anche con il settimo giorno dalla morte dell’ayatollah Montazeri, scomparso domenica scorsa a Qom. Montazeri era diventato una bandiera del movimento antigovernativo, per le sue coraggiose critiche verso i capi del regime, soprattutto dopo le elezioni del 12 giugno, che per l’opposizione furono viziate da massicci brogli.
Secondo il sito internet Jaras, vicino ai gruppi politici progressisti, le forze di sicurezza e i miliziani integralisti Basiji hanno usato metodi violenti per disperdere i cortei ed i raduni di protesta, e alcune persone sono rimaste ferite.
STUPIDI EUROPEI
A volte i manifestanti sono stati colpiti con i manganelli, usati anche per infrangere i vetri delle auto che si recavano verso i luoghi delle dimostrazioni. In alcuni casi gli agenti hanno lanciato lacrimogeni sulla folla ed esploso colpi d’arma da fuo-
co in aria a scopo intimidatorio. Il grido «Morte al dittatore», indirizzato al capo di Stato Mahmoud Ahmadinejad , è echeggiato ripetutamente nelle strade di Teheran, insieme alle grida di sostegno a Mirhossein Mousavi, il leader del movimento democratico spesso definito «onda verde» con riferimento al colore degli stendardi esibiti dai militanti.
I vertici della Repubblica islamica si sentono accerchiati. Isolati nel mondo per i loro piani nucleari sospetti. Sempre più impopolari in patria, dove la domanda di libertà è sempre più forte. Ieri il presidente Ahmadinejad è tornato ad accusare i Paesi occidentali di fomentare le proteste di piazza e di avere ordito un complotto anti-iraniano. «Hanno progettato uno scenario complicato ed esteso, ma non sanno che una nazione che è pronta a sacrificare la vita per l suoi dirigenti religiosi distruggerà tutti i loro tentativi satanici», ha dichiarato Ahmadinejad, secondo il quale i dirigenti europei in particolare, sono «uno più stupido dell’altro».❖

Repubblica 27.12.09
Dai pugnali agli schiaffi le offese alla sacralità

L´EPISODIO che ha coinvolto la persona di papa Benedetto XVI la vigilia di Natale non può non farci venire in mente il grave attentato di cui fu vittima papa Giovanni Paolo II in piazza San Pietro il 13 maggio 1981 alle 17.22. Ma come dimenticare che una decina di anni prima, nel 1970, durante il viaggio di Paolo VI nelle Filippine uno squilibrato tentò di colpire il Papa con un pugnale?
Il colpo fu deviato da monsignor Paul Marcinkus, allora incaricato di organizzare i viaggi pontifici. Per fortuna, non in tutti i periodi della lunga storia del papato si registrano serie di episodi così cruenti. Ma è anche vero che l´incolumità della persona fisica del papa (e più in generale degli uomini di Chiesa) fu, nel Medioevo e nei secoli moderni, un problema importante tanto da porsi al centro del diritto canonico. Chi attentava alla persona di un uomo di Chiesa e tanto più di un papa incorreva automaticamente nella scomunica. Il numero di vescovi medievali assassinati (si pensi ad esempio a Tommaso Becket) è così numeroso da aver indotto alcuni storici ad organizzare qualche anno fa in Germania un convegno di studi.
L´incolumità fisica del papa dominò anche l´evoluzione architettonica dei palazzi del papa. Nel Medioevo, il palazzo del Laterano, dove i papi risiedettero per un millennio, era protetto da una serie di edifici rivolti verso la piazza del Laterano ossia verso l´esterno. Ed anche il palazzo fatto erigere da Innocenzo IV (1243-1254) sulla collina del Vaticano era una sorta di fortezza che doveva forse servire a proteggere il papa dall´imperatore Federico II. Non a caso proprio Innocenzo IV dovette fuggire da Roma, città che l´imperatore svevo aveva l´intenzione di assediare. Alcuni anni prima (1241) Federico II non aveva esitato a fare prigionieri due importanti cardinali, catturandoli al largo dell´Isola del Giglio. Tutte le cronache dell´epoca, dall´Islanda alla Sicilia, dalla Spagna alla Polonia si fecero eco di un avvenimento che provocò un immenso scalpore in tutta la cristianità. Chi ancor oggi visita il palazzo dei papi ad Avignone non può non essere impressionato dal carattere difensivo del monumento, che non ha pari nella storia dell´architettura medievale europea. Passeggiando ad Avignone si possono ancor oggi ammirare alcuni palazzi dei cardinali di quel tempo, le cosiddette "livree", che, come quella del cardinale romano Annibaldo da Ceccano, sono veri e propri palazzi-fortezze. Il palazzo del papa doveva essere protetto anche quando si spargeva la notizia della morte del papa. Ancora nel 1227, i cardinali decisero di presentare ad una finestra del palazzo Lateranense il pontefice Onorio III (1216-1227) agonizzante ma ancora vivente per far sì che i romani non venissero a saccheggiare il palazzo del Laterano.
Proprio alla fine di quel secolo avvenne il più celebre attentato della storia contro un papa del Medioevo. Gli attentatori erano il romano Sciarra Colonna e il francese Guglielmo di Nogaret. Questi era stato inviato dal re di Francia per catturare Bonifacio VIII e portarlo a Parigi per farlo deporre da un concilio. Sciarra Colonna si era alleato al re Filippo il Bello per vendicarsi della lotta senza tregua che papa Caetani aveva lanciato contro la sua famiglia. Con il concorso di abitanti di Anagni, Sciarra e Nogaret si impadronirono fisicamente del papa ma dovettero liberarlo il terzo giorno. Bonifacio VIII fu portato a Roma scortato dagli Orsini che gli erano rimasti fedeli, ma morì diciassette giorni dopo. La persona del papa fu allora vittima di qualche violenza fisica, ma lo schiaffo che Sciarra Colonna avrebbe profferto al pontefice con il suo guanto di ferro è una leggenda nata in Francia verso il 1330 per scagionare il sovrano francese.
L´Attentato di Anagni pose fine al pontificato dell´ultimo vero pontefice medievale, colui che aveva portato al suo culmine il programma della monarchia papale escogitato dalla cosiddetta Riforma gregoriana. Ma anche Gregorio VII (1074-1085) dovette lottare per la sua incolumità. Nel 1077 era riuscito a fare inginocchiare Enrico IV a Canossa. Ma sette anni dopo, nel 1084, il papa sarebbe caduto in mano dell´imperatore se Roberto il Guiscardo, vassallo della Chiesa romana, non fosse giunto in tempo a costringere l´esercito imperiale a ritirarsi da Roma. Gregorio VII dovette comunque fuggire verso Salerno, capitale dei normanni, dove morì il 25 maggio 1085 esclamando: «Ho amato la giustizia e odiato l´iniquità, perciò muoio in esilio».
Più di settecento anni dopo un altro papa conobbe l´esilio. Napoleone avendo fatto occupare Roma da parte delle truppe del generale Miollis (2 febbraio 1808) e annessi gli Stati Pontifici (17 maggio 1809), Pio VII reagì il 10 giugno con una scomunica che fece affiggere sulle porte delle basiliche di S. Giovanni in Laterano, di S. Pietro, del palazzo della Cancelleria, a Monte Citorio e all´ingresso di Campo dei Fiori. Gli agenti del governo francese si affrettarono a strappare il breve papale, impedendo che copie manoscritte circolassero in città. Il papa fu fatto prigioniero, rinchiuso nel palazzo vescovile di Savona e poi condotto a Fontainebleau. Soltanto la crisi e la caduta dell´Impero napoleonico posero fine all´esilio del papa che rientrò a Roma il 24 maggio 1814. Ma anche il suo successore, Pio IX, dovette proteggersi da un´eventuale perdita della sua incolumità. L´uccisione, il 15 novembre 1848, di Pellegrino Rossi al quale era stato dato l´incarico di ristabilire l´ordine a Roma, indusse il papa a fuggire a Gaeta il 24 novembre. Soltanto il 12 aprile 1850, le truppe francesi comandate dal generale Oudinot permisero al papa di fare ritorno a Roma. Da allora al pontificato di Paolo VI l´incolumità dei papi non fu più in pericolo. Ma secondo il racconto fatto dal generale Wolff, Hitler, ispirandosi a Napoleone, avrebbe progettato di far catturare Pio XII.

giovedì 24 dicembre 2009

l’Unità 24.12.09
«Una campagna di calunnie per aggirare il congresso e spaccare il nostro partito»
La polemica sull’inciucio «Le mie dichiarazioni stravolte per un intento politico» Il dibattito sul dialogo «Se continuiamo così la destra potrà dire di volere le riforme senza farle»
intervista di Giovanni Maria Bellu

L’uso delle parole
«Elogio dell’inciucio» è un
titolo falso. Se la cronista
non avesse usato quel
termine non ci sarebbe
stata questa polemica
I giornali della destra
I complimenti a D’Alema?
Atteggiamento
strumentale favorito dalla
drammaticità della nostra
discussione interna
Leggi ad personam
Berlusconi ha i voti per
approvarsele. Ma
una cosa è certa: noi
del Partito Democratico
voteremo contro
Accettare il confronto
Veltroni dopo le elezioni
ha parlato di comune
responsabilità sulle
riforme. Ha cambiato idea
dopo il congresso?
Gli azionisti
Sì, in quell’intervento ho
fatto un errore: ho
accostato l’antipolitica
all’azionismo. Che invece
era una cosa seria

È un Massimo D’Alema piuttosto irritato quello che incontriamo nel suo ufficio della «Fondazione Italianieuropei» in
piazza Farnese. Tiene in mano una copia di Repubblica di qualche giorno fa col titolo: «D’Alema elogia l’inciucio». È di questo che vuole parlare. Non del suo prossimo futuro. Dà una risposta formale alla ovvia domanda sulla sua candidatura al Copasir, il comitato che controlla i servizi segreti, puntualizzando che si tratta dell’unica commissione parlamentare la cui presidenza spetta per legge all’opposizione e che, dunque, dopo le dimissioni di Francesco Rutelli l’avvicendamento dovrà avvenire in quell’ambito. Poi saranno altri i presidenti dei gruppi, il segretario a decidere: «Se si riterrà che possa svolgere quel ruolo, e credo di essere in grado, bene. Se no amici come prima. Ho sempre considerato con un certo distacco il tema delle cariche».
Quel titolo sull’inciucio è la causa immediata di un’irritazione che ha origini lontane e una storia lunga una quindicina d’anni. D’Alema avverte nitidamente che all’interno della sinistra (una parte minoritaria nella sinistra e “minoritarissima nel paese”, dice) c’è chi attribuisce a lui tutti i mali. Glielo confermiamo: gli abbiamo portato una cartella che raccoglie una selezione dei messaggi più antidalemiani giunti ai blog de l’Unità. Non è necessario aprirla. D’Alema sa bene di chi e di che cosa parliamo. E questo, più che irritarlo, lo fa infuriare. Non solo perché si tratta di accuse che lo feriscono. E nemmeno soltanto perché dice «portano la sinistra in un vicolo cieco e Berlusconi (se Scapagnini troverà la medicina) al governo fino all’anno Tremila». No, c’è dell’altro. Un sospetto pesante: che sia in atto un tentativo di spaccare il Partito democratico. Un tentativo che, dice, passa anche attraverso i mezzi d’informazione.
«Ecco comincia indicando il titolo sull’elogio dell’ inciucio questo è tecnicamente un falso. Non ho mai elogiato l’inciucio. Ho anche la registrazione di quel dibattito e chi vuole può verificare. È successo che Chiara Geloni, la giornalista che mi intervistava, ha usato quel termine. Ha domandato: “Come ci si sente a essere considerati erede della tradizionale del Pci e anche traditore di quella storia, cioè quello che fa gli inciuci?” E io ho risposto che i comunisti italiani, a partire da Togliatti, hanno sempre dovuto fare i conti con un’accusa del genere. Poi ho proseguito con degli esempi. Tutto qua. È del tutto evidente che se la giornalista non avesse usato la parola inciucio tutta questa polemica non sarebbe mai nata».
Invece è nata. Forse la parola “inciucio” ha ormai una valenza così negativa che è sempre meglio tenersene alla larga.
«Non è questo il punto. La questione è che io sono stato chiarissimo. Un
titolo come questo, accompagnato alle considerazioni sulla riforma della giustizia, è falso. Ed è un modo di informare che ha l’effetto di avvelenare il dibattito politico. Non da oggi, purtroppo...»
Ha parlato di "campagna", a cosa si riferisce? «A volte si ha l’impressione che più che di informare si abbia l’obiettivo di condizionare il nostro partito. Forse non è piaciuto l’esito del congresso. Forse qualcuno pensa che si debba scardinare la maggioranza che lo ha vinto, isolando D’Alema e condizionando Bersani. Sono intenti politici. È incredibile perseguirli distorcendo le informazioni e lanciando accuse calunniose e indimostrate. Quali sarebbero, in tutti questi anni, gli accordi sottobanco che avremmo fatto con Berlusconi? Sarei curioso di sentire l’elenco».
Non esiste la lista attuale. Ma esiste una lista relativa ai quindici anni. All’inizio c’è il famoso discorso del ’94 nel quale Violante parlò di una “garanzia” data a Berlusconi sulle sue tv. Poi la Bicamerale...
«Quanto al primo punto la domanda dovrebbe essere fatta a Violante, ovviamente. Nei fatti sono l’unico che ha cercato di far approvare una legge efficace sul conflitto di interessi quando era presidente del Consiglio, come ha ricordato il senatore Passigli in un suo libro. L’unico argine, per quanto modesto, all’uso politico delle tv da parte di Berlusconi durante le campagne elettorali è la par condicio, che fu proposta da me quando ero al governo. E ricordo bene che allora c’erano alcuni antiberlusconiani militanti che si opposero perché, dicevano, si trattava di una limitazione alla libertà di espressione...»
In questi giorni Libero e il Giornale, i quotidiani più violentemente berlusconiani, sono pieni di elogi per lei. Che ne pensa?
«Sono stato uno dei principali bersagli di quei giornali e, a volte, lo ero contemporaneamente dei giornali schierati sul fronte opposto. È evidente che c’è un atteggiamento strumentale favorito dalle drammaticità della nostra discussione interna. In questo modo, la destra cerca di guadagnare il vantaggio del presentarsi come la forza che vuole fare le riforme, senza neppure rischiare di doverle fare davvero. Comunque non sono interessato a nessuna strumentalizzazione e non intendo essere il referente di alcuno. Chi vuole discutere serenamente col nostro partito deve discutere col segretario Bersani e non cercarsi gli interlocutori in modo furbesco e strumentale».
A sinistra c’è chi teme la trappola. Che, cioè, questa disponibilità della destra al dialogo sia finta. «Non so se la disponibilità della destra sia vera o sia finta. Il modo migliore per appurarlo è lanciare la sfida delle riforme e aprire il confronto nel merito. Questa è la politica di una forza riformista che vuole essere utile al paese.
Se la destra si tirerà indietro pagherà un prezzo. Mi rendo perfettamente conto che Berlusconi non è un avversario politico normale. È stato infatti difficilissimo prendergli le misure, ma noi non possiamo cadere vittime della sindrome secondo cui di fronte a Berlusconi non è possibile fare politica. Anche perché, in questo modo, favoriamo soltanto i suoi successi. Prendiamo la vicenda della Bicamerale. Berlusconi fece fallire le riforme che sarebbero state utili al paese. Una parte della sinistra, facendogli così un grande favore, anziché criticare lui per essere stato causa di questo fallimento, ha attaccato me per averci provato».
I timorosi della trappola dicono che Berlusconi vuole solo quello di salvarsi dai suoi guai giudiziari. «Guardi che se Berlusconi vuole fare una leggina ad personam ha la maggioranza. Noi abbiamo detto con chiarezza che voteremo contro. Altre sono le riforme che riteniamo necessarie per l’Italia: una nuova legge elettorale che restituisca ai cittadini il potere di scegliere i loro rappresentanti, una riforma che renda più forte il Parlamento riducendo il numero di deputati e senatori e che segni il superamento in senso federalista del bicameralismo perfetto. E altre ancora contenute nella cosiddetta “bozza Violante”. Andiamo al merito senza agitare fantasmi». C’è chi dà per scontato che con Berlusconi sia inutile dialogare. I nostri blog sono pieni di messaggi così. «Noi non dobbiamo fare nessun particolare dialogo. Siamo in Parlamento e ci stiamo per affrontare i problemi del paese, confrontandoci con quanti dell’altro schieramento sono stati eletti dai cittadini. Sinceramente non conosco altro modo di fare politica per una grande forza democratica e riformista. Questa è la politica che il congresso del nostro partito ha approvato».
Ci sono tanti modi di fare politica. Per esempio quello che si è visto il giorno della manifestazione indetta dai blogger. Non teme di perdere questo pezzo dell’opposizione? «Non voglio perdere nessuno, ma la linea politica del nostro partito non può essere decisa dai blogger che indicono le manifestazioni. Ho massimo rispetto per loro e per le manifestazioni che organizzano. Ne capisco le ragioni, perché anch’io non ho nessuna simpatia per Berlusconi. Ma i partiti hanno un ruolo diverso».
Scusi, ma che differenza c’è tra dirsi “antiberlusconiani” e dire “non mi piace Berlusconi?”. Perché non dire che si può essere antiberlusconiani e volere le riforme?
«Non ci si qualifica per essere “anti” qualcosa. Noi siamo “per”. Per la difesa dei diritti di libertà e dei diritti sociali. Vogliamo affermare le nostre idee e i nostri valori. Non si può riassumere tutto questo nell’essere contro qualcuno. Anche perché il bipolarismo continuerà a esserci anche dopo la fine dell’era Berlusconi. Questa impostazione che ruota in modo ossessivo attorno al leader della maggioranza è subalterna. In effetti ci sono due forme di subalternità: la demonizzazione e la divinizzazione. Veltroni ha fatto la campagna elettorale all’insegna della non demonizzazione di Berlusconi, fino a non nominarlo, e all’indomani delle elezioni ha sottolineato la comune responsabilità con il presidente del Consiglio in materia di riforme costituzionali. Sarebbe strano se avesse cambiato idea solo perché Bersani è diventato segretario del partito».
A proposito di opposizione divisa. È dai pasdaran berlusconiani che arriva al Pd la sollecitazione a rompere con Di Pietro come condizione per rasserenare il clima politico.
«Con Di Pietro siamo alleati, stiamo andando assieme alle regionali. Con Di Pietro, e in qualche situazione, con l’Udc e con altri. A me interessa il merito delle riforme. E credo di essere tra quelli che hanno lavorato di più con proposte, ricerche, convegni, documenti...»
Da dove ritiene che si debba ripartire?
«Insieme alla “bozza Violante”, si dovrebbe avere il coraggio di proporre la riforma elettorale. Sono convinto che la soluzione migliore sia un sistema di tipo tedesco che ci consenta di uscire dalla logica dei blocchi elettorali e restituisca ai partiti il loro profilo. Non vogliamo più partiti che sono degli insiemi e dove l’unico tratto di riconoscibilità è nel capo. Questa è l’esaltazione della politica plebiscitaria perché alla fine si vota tra due capi. Si deve tornare a una legge dove gli elettori possono votare per una persona e per un partito. Questa forma plebiscitaria dove si elegge nello stesso momento il presidente del Consiglio e il Parlamento non esiste in alcuna parte del mondo».
Ma il Pd reggerebbe a una legge elettorale alla tedesca? «E proprio un’idea povera del Pd pensare che si tratti di un agglomerato tenuto insieme dalla convenienza elettorale. Io non lo penso. Anzi, credo che si tratti di una forza politica che nasce dalla storia dell’Ulivo, che ha ragioni profonde, non transitorie ed effimere».
Cosa direbbe a un giovane blogger terrorizzato dall’inciucio? «Non penso che il blogger di cui lei parla sia tanto giovane. Credo sia un po’ più agée. Quelli giovani si preoccupano piuttosto di quanto si è fatto col clima a Copenhagen, non di queste storie...» Allora cosa direbbe al blogger agée. Insomma, presidente d’Alema, torniamo a quelli di cui si parlava all’inizio. Quelli che a sinistra diffidano, che l’accusano di essere all’origine di tutti i mali. Pensa che sia possibile recuperare un rapporto, spiegare, chiarire?
«Intanto sarebbe utile studiare e capire meglio quello che è accaduto davvero in questi quindici anni. E poi gli direi di considerare con rispetto quell’altra parte della sinistra che non la pensa come lui». Ma non c’è un punto da cui ricominciare?
«Cominciamo a dire la verità. E ripartiamo dal rispetto reciproco. La destra in questo riesce meglio di noi: discutono, ma sono ben attenti a non demolirsi tra loro. La demonizzazione sistematica della propria classe dirigente, che per un partito è un patrimonio, è un esercizio autolesionistico. Se continuiamo a demolirla restano solo i dirigenti dell’altra parte». Ripeterebbe le frasi che hanno scatenato le ultime polemiche?
«Sì, con la speranza che vengano riportate in modo corretto. Con una sola esclusione. In quel discorso ho fatto un errore, e devo riconoscerlo. Ho accostato la brutalità dell’antipolitica all’azionismo. Si è trattato di un accostamento improprio e frettoloso. L’azionismo era una cosa seria e mi sembra sbagliato accostarlo a certi demagoghi di oggi».❖

l’Unità 24.12.09
Carceri, record nero 2009
171 le vittime, 70 suicidi Ieri gli ultimi due casi
di Davide Madeddu

Nelle carceri italiane sempre più sovraffollate e inadeguate, si continua a morire. Ieri altri due detenuti si sono tolti la vita. Un ex assessore di Nove, impiccato nel carcere di Vicenza, e un collaboratore di giustizia a Rebibbia.

Natale da galera. Che si tratti di bambini, donne con prole o “matti che dovrebbero stare altrove” non fa differenza. Le feste che i 66mila detenuti trascorreranno nelle carceri d’Italia saranno all’insegna della disperazione. Dietro le sbarre, infatti, cresce il numero dei detenuti, aumentano i disagi, si riducono i servizi e cresce il numero dei morti. Anche a Natale. Il triste bollettino che quotidianamente viene compilato dal centro studi di Ristretti Orizzonti, diretto da Ornella Favero, parla di 171 morti (70 suicidi) dietro le sbarre dall’inizio dell’anno: «il dato più alto e triste nella storia delle carceri». Gli ultimi due sono di ieri. Il primo al carcere di Vicenza dove Plinio Toniolo, 55 anni, artigiano, ex assessore del Comune di Nove (Vicenza) si è impiccato con un lenzuolo; il secondo, Ciro Giovanni Spirito, vicino al clan Mazzarella, collaboratore di giustizia dal 2006, si è tolto la vita nel carcere di Rebibbia.
SOVRAFFOLLAMENTO: SI DORME A TURNO
A fare i conti con le storie di «ordinaria disperazione» che si registrano dietro le sbarre ci sono poi gli operatori e i volontari. L’esercito invisibile che quotidianamente si impegna per dare un sostegno o, molto più semplicemente voce, a chi cerca di pagare il
debito con la società in una cella angusta. «Che la situazione sia ormai drammatica e allucinante è chiarissimo ed eloquente. E questo, per detenuti e operatori sarà un Natale all’insegna della disperazione denuncia Riccardo Arena, avvocato e conduttore di Radiocarcere su Radio Radicale ormai abbiamo superato anche il limite della cosiddetta sopportazione umana. La gente è costretta a fare i turni per poter al massimo dormire un’ora». Cita il caso di Padova dove c’è stata una rivolta dei detenuti. «Nelle celle di 8 metri quadri i letti sono a tre piani, e i detenuti dormono a turno perché non sanno dove mettersi dice se questo non è un caso che supera ogni limite tollerabile. Senza dimenticare poi quelli che in carcere non dovrebbero metterci piede ma dovrebbero stare altrove»
I BAMBINI DENTRO
A fare i conti con il sovraffollamento, ma anche i disagi che un’eccessiva presenza di detenuti comporta sono anche i bambini. Gli 80 innocenti che trascorrono i primi 3 anni di vita all’interno delle celle e gli altri 25mila che i giorni dei colloqui varcano le cancellate delle prigioni per salutare i parenti detenuti. «Il problema è sempre lo stesso, i bambini in carcere non dovrebbero starci e invece ci stanno dice Lillo di Mauro della Consulta penitenziaria di Roma con il risultato che i piccolissimi trascorrono i mille giorni più importanti e belli della loro esistenza dietro le sbarre delle carceri». Non sono gli unici però. «A fare i conti con le guardie, le perquisizioni e i controlli ci sono anche i 25mila bambini e bambine che entrano in carcere e vanno a trovare un parente detenuto».❖

l’Unità 24.12.09
Circondata la moschea a Isfahan, violenze sulla folla riunita nel nome di Montazeri: 50 arresti
La condanna di Khatami «Errore considerare traditore chi protesta. Rischiamo la tirannia»
Teheran, il regime minaccia: «Stop ai cortei o scontro duro»
di Marina Mastroluca

Polizia e basiji attaccano la folla riunita ad Isfahan per una cerimonia in memoria di Montazeri. Cinquanta arresti, molti feriti. Scontri anche a Najafabad. Il capo della polizia promette la massima durezza.

Il tam tam del web
I siti dell’opposizione: «Attaccano la gente con bastoni, pietre e catene»

Terzo giorno di lutto per l’ayatollah dissidente Montazeri e la protesta torna ad accendere le strade dell’Iran. Scontri, arresti e violenze sui manifestanti, polizia e basiji si sono accaniti sulla folla che ad Isfahan cercava di radunarsi intor-
no alla moschea di Sayed, dove avrebbe dovuto svolgersi una cerimonia di preghiera in memoria di Montazeri. L’edificio è stato circondato, la gente allontanata brutalmente con manganelli e gas lacrimogeni: ci sarebbero molti feriti e una cinquantina di arresti, fermati anche quattro giornalisti. Scontri e violenze anche nella città natale dell’ayatollah scomparso, Najafabad, dove già nella notte ci sarebbero stati incidenti proseguiti poi nella giornata di ieri. «La situazione in città è tesa. La gente scandisce slogan contro il governo».
Notizie frammentarie che arrivano attraverso i siti internet dell’op-
posizione. Impossibile verificare, in Iran non sono ammessi reporter stranieri. Ma del clima che si respira in questi giorni nel Paese ne dà una conferma indiretta il capo della polizia Esmail Ahmadi Moqadam, che ieri ha messo in guardia l’opposizione. «Ponete fine alle manifestazioni o ci sarà un confronto durissimo».
Ad Isfahan poliziotti in borghese e basiji hanno circondato anche la casa dell’ayatollah riformista Jalaledin Taheri, che aveva invitato la gente a partecipare alla preghiera per Montazeri. «Ho provato a raggiungere la moschea da sei strade diverse ma erano tutte bloccate», ha detto l’ayatollah, citato dal sito Parlemannews. «I manifestanti gridavano slogan contro le massime autorità dello Stato. Li hanno colpiti, inclusi donne e bambini, con bastoni, catene e pietre», riferisce un altro sito riformista, Rah-e-Sabz.
L’ex presidente moderato Khatami ha condannato le violenze sui manifestanti. «Chiamare traditore chiunque protesti, è una grave deviazione e dovrebbe essere corretta ha detto -. Khomeini credeva che la repubblica islamica fosse basata su due pilastri, libertà e indipendenza. Se questi pilastri vacillano... avremo di nuovo la tirannia». Il livello dello scontro è altissimo. Il leader dell’opposizione Mousavi è stato rimosso dall’ultimo incarico pubblico che gli era rimasto, quello di presidente dell’Accademia delle Arti. Dopo 11 anni.
CONTROMANIFESTAZIONE
Già lunedì scorso c’erano stati incidenti a Qom, in occasione dei funerali di Montazeri. Decine di migliaia di persone avevano invaso la città santa, scandendo slogan contro il governo, in quella che è sembrata una nuova fiammata dell’opposizione, il ritorno in piazza dell’«onda verde» dopo le proteste seguite alle elezioni presidenziali -truffa del giugno scorso. Martedì e di nuovo ieri a Qom si è radunata invece una contro-manifestazione pro-governativa, per condannare «le profanazioni» commesse durante i funerali dell’ayatollah dissidente. «È l’ultima volta che accade una cosa simile a Qom. Questo non è posto per gli ipocriti», ha detto il grande ayatollah Hamedani parlando alla folla.❖

l’Unità 24.12.09
«Radiotre contro il silenzio sociale» Sinibaldi rinnova la rete

Nel palinsesto
Variazioni e programmi nuovi come «Tutta la città ne parla»

«Radiotre è nata per incrinare un certo elemento di diffidenza verso la cultura, come sfida al senso e al gusto comune, per creare un ambiente di confronto civile». Lo afferma Marino Sinibaldi, neodirettore di rete, dell’ottima rete aggiungeremmo, parlando del suo progetto che si lega al passato (dalle origini con Gadda, Mortari e altri, sino alla direzione di Enzo Forcella), «a qualcosa che ha aiutato a crescere il paese» e cerca un nuovo linguaggio per il palinsesto al via l’11 gennaio. «Il palinsesto è l’ultima cosa, è come giudicare una persona dal suo scheletro, l’importante è il modo, il linguaggio scelto continua e se gli ascoltatori affermano sempre che la radio tiene loro compagnia, io lo vedo come il mezzo dell'accompagnamento, che offre la parola della radio contro il silenzio, non solo personale, ma quello sociale».
Accanto a trasmissioni solide, amate, da Radio3 suite o Fahrenheit, parte dalle sei di mattina Qui comincia..., «che apre alla narrazione del mondo di quel giorno», si passa per la classica lettura e discussione sui giornali di Prima pagina da cui prende spunto il nuovo Tutta la città ne parla. «Non partiamo certo da Palazzo Grazioli, ma almeno da Copenaghen, dal mondo che oggi è il nostro cortile continua Sinibaldi cui poi ovviamente si arriva, perchè l'ascoltatore spesso riporta tutto a un piano più vicino a lui». Seguirà Chiodo fisso, dieci minuti al giorno su uno stesso tema per un mese (si inizia con l'Africa, poi ci sarà il Lavoro o la Bicicletta) e in tarda serata a Tre soldi farà rivivere il radiodocumentario partendo da uno speciale sui campi profughi in Libia.
La musica, Sinibaldi sottolinea, su Radio3 non ha meno peso della parola e promette con le «musiche inaudite, nuove, di rottura» in Alza il volume, passando per Sei gradi per ogni genere di musica arrivando alle eccellenti Radio3suite e Battiti (va dopo mezzanotte) che alla festa annuale dell’emittente a Cervia quest'anno gestirà una discoteca. In più omaggi d’artista: a Natale Shel Shapiro canterà E la pioggia che va, e la pittrice astratta Carla Accardi donerà un suo disegno.❖

Repubblica “24.12.09
Anniversari/ Nel 2010 ricorrono i sessant´anni di Radiotre
Quel che resta del pubblico colto
Come è cambiata la ricezione di un mezzo che ha avuto tra i suoi protagonisti Gadda e Forcella. Ecco il programma del neo direttore Marino Sinibaldi
di Simonetta Fiori

Preparandosi al sessantesimo compleanno, Radiotre si rinnova senza rinunciare ai propri blasoni e senza cancellare una tradizione culturale che è stata importante nella costruzione civile italiana. Non è certo facile la sfida raccolta dal neo direttore Marino Sinibaldi, voce storica di Fahrenheit, nel guidare la rete intellettuale per eccellenza in un paese spaesato, sempre meno sensibile ai valori culturali e sempre più segnato dai consumi di massa. Qualcosa però si può fare. Si può tentare di cambiare il linguaggio. Meno autoreferenziale, libero da civettamenti con il pubblico colto. «Bisogna abolire la formula "come tutti sanno"», dice Sinibaldi nel presentare la nuova filosofia di Radiotre. Mai dare niente per scontato. Se il celebre manuale di Gadda Norme per la redazione di un testo radiofonico andava bene per una stagione ormai lontana, ora è necessario trovare altri codici.
La sfida al gusto comune - sostiene Sinibaldi - è nella vocazione di Radiotre. Oggi, in "un paese rattrappito dalla paura del diverso" e "immerso in un assordante silenzio delle idee", la nuova sfida consiste nel creare una "zona di comunicazione civile" che metta a confronto opinioni diverse. Le novità del palinsesto vanno in questa direzione. Da Tutta la città ne parla a Chiodo fisso, da Zazà a Il Cantiere - un programma che riceve i lavori confezionati da corsi universitari e da gruppi giovanili - il segnale lanciato dalla nuova Radiotre è di sempre maggiore apertura a una comunità pensante, dotata di qualità e competenze superiori a quelle mostrate dal ceto politico e anche giornalistico. «Non ci saranno politici in tutta la giornata di Radiotre», è l´impegno di Sinibaldi, che evoca mestamente il rituale servile dei dirigenti rai pronti ad accogliere negli studi radiofonici deputati o governanti.
La lezione rimane quella di Enzo Forcella, di un´idea della cultura che accende conoscenza e immaginazione. «Siete un´isola di consolazione in un panorama catastrofico», dice Corrado Augias, intervenuto all´incontro insieme a Goffredo Fofi, Valentino Parlato e Paolo Franchi. «Una penisola», corregge Sinibaldi, difendendo i legami con il resto del paese. Un formidabile strumento "che fa compagnia agli ascoltatori", lenendo molte solitudini, anche di tipo intellettuale.

Repubblica 24.12.09
Nichi è un traditore solo io posso battere Fitto e compagni"
Emiliano: sono al 60 per cento

Ma quale legge ad personam, va cambiata perché incostituzionale: i rivali non mi preoccupano, devo fare questa cosa e basta

BARI - Michele Emiliano, sindaco di Bari, sarà una legge elettorale ad personam a permetterle di candidarsi per il centrosinistra alla guida della Regione Puglia nel 2010?
«Quella legge va cambiata perché è incostituzionale: lede i diritti delle persone costringendole ad un atto inutile».
Così come stanno le cose ora, dovrebbe dimettersi dalla carica di sindaco prima di scendere in campo per le regionali. Un emendamento che l´assemblea pugliese discuterà il prossimo 19 gennaio, prevede di cancellare l´ineleggibilità.
«La legge ad personam è quella in vigore. Era stata fatta apposta per impedire che l´allora sindaco di An a Lecce, Adriana Poli Bortone, potesse concorrere per diventare presidente della Regione senza dimettersi dal municipio».
Lunedì 28, intanto, l´assemblea del Pd di cui è il presidente stabilirà se farle indossare la maglia del competitore.
«O dentro o fuori. Io non ci sarò: così ogni democratico potrà dire liberamente quello che pensa sul conto del sottoscritto».
Tutti pensano che sia Massimo D´Alema a volere Emiliano al posto di Nichi Vendola, il governatore comunista in carica.
«D´Alema non sta imponendo niente a nessuno. Ragiona, piuttosto».
Secondo il lìder Massimo, Emiliano è un candidato «molto forte». Più forte di Vendola, che non attirerebbe i voti dell´area moderata.
«In Puglia il mio indice di gradimento è vicino al 60 per cento. Io vinco anche se sulla barca del centrosinistra non salisse Vendola. Ho la meglio contro tutti».
Compreso il candidato del Pdl?
«C´è una "anima di Dio", Stefano Dambruoso, che sta lì in attesa di sapere se arriverà o non arriverà la telefonatina».
La telefonatina?
«Sì, quella che basta a Silvio Berlusconi per cambiare il nome del candidato del Popolo della libertà».
Contro Emiliano il Gladiatore, fuori Dambruoso e dentro il sottosegretario Alfredo Mantovano?
«Mantovano o Dambruoso, per me è indifferente. I rivali non mi preoccupano. Devo fare questa cosa, e basta».
I baresi, però, appena sei mesi fa l´avevano confermata a Palazzo di città e adesso si ritrovano un sindaco in fuga verso altri lidi. La prenderanno male?
«Non temo l´effetto boomerang. La verità è che bisogna fare qualsiasi cosa per evitare di riconsegnare il governo della Regione nelle mani di Fitto e compagni».
Vendola che corre in nome e per conto di tutto il centrosinistra, non va bene?
«Se l´Udc sta con noi, trionfiamo. Diversamente, ci ammazzeremmo tutti. Quanto a Vendola, è un traditore».
Cioè?
«Al congresso del Pd avrebbe dovuto lavorare per sostenermi e farmi avere la meglio quando celebrammo le primarie. Perché se fossi rimasto segretario del partito, com´era dal 2007, Nichi sicuramente sarebbe stato il candidato di tutto il centrosinistra. Senza l´Udc. Ma a quel punto, sarei bastato io al posto dell´Udc per attirare le preferenze dei moderati».
C´entra con la scelta di isolare Vendola lo scandalo della sanità esploso d´estate, che travolge l´assessore alla Salute Alberto Tedesco?
«E´ colpa sua se Tedesco faceva l´assessore alla Salute. Poi, dopo la bufera giudiziaria, lo stesso Vendola mi ha chiesto di fare di tutto perché Tedesco fosse nominato senatore per toglierlo di mezzo».
Emiliano e Vendola, fratelli coltelli?
«La verità è che non c´è più il clima politico del 2005. Io e Vendola ci vogliamo bene e basta. Faccia la sua battaglia. Ha il dovere di gareggiare. Ma credo che riuscirà a sopravvivere politicamente solo se entrerà nel Pd».
(l. p.)

Repubblica 24.12.09
Scoppia la polemica. Di Pietro: "Il suo cuore resta nero"
La gaffe di La Russa "X Mas corpo di eroi"
di Giovanna Casadio

ROMA - Ignazio La Russa sostiene di non avere fatto nessuna gaffe. A Livorno, alla caserma Vannucci, il ministro della Difesa ha elogiato i corpi militari speciali ricordando la Decima Mas: «Siete eredi della non dimenticata Decima Mas». Un rigurgito di nostalgia, il ricordo rivolto a Junio Valerio Borghese, alla Repubblica sociale e agli ultimi colpi di coda del fascismo? La Russa nega. Assicura di avere voluto solo riferirsi all´eroismo riconosciuto di quel corpo speciale. «Come per El Alamein...». Ma si accende la polemica. Antonio Di Pietro gli dà del «cuore nero»: «La lingua batte dove il dente duole; ci si nasce...». E La Russa - militante nero sin da ragazzino, missino che ha condiviso la svolta di Fiuggi con Gianfranco Fini e ora l´approdo nel Pdl di cui è coordinatore - per il leader di Idv ed ex pm è «un nostalgico».
«È l´unico ministro della Difesa che negli ultimi trent´anni abbia ricordato la Decima Mas - si sfoga Ettore Rosato, del Pd - ed è una cosa che non fa onore neppure agli uomini del Comsubin», i militari incursori della Marina ai quali il ministro direttamente si rivolgeva. «Non era necessaria questa lode in quel contesto, in nessun contesto».
Duro il commento di Filippo Penati, coordinatore della segreteria del Pd: «Davvero un elogio di cui non si sentiva il bisogno soprattutto da parte di un ministro della Difesa. Avremmo preferito ascoltare parole che riguardassero un accenno ai nostri militari come presidio di democrazia piuttosto che frasi che portano a un passato che alla coscienza democratico di quei cittadini che amano la libertà - a cui si è rivolto recentemente lo stesso Berlusconi - non suscita alcuna nostalgia». E Roberta Pinotti, ex presidente della commissione Difesa della Camera, democratica, rincara: «Ricordando che non è la prima volta e che poi, La Russa deve sempre precisare e chiarire, gli consiglierei di lasciare da parte le emozioni per un passato che l´Italia repubblicana ha combattuto e di concentrarsi sui messaggi da dare alle nostre Forze armate che rispondono alla Costituzione nata dalla lotta di Liberazione». «La Russa perde il pelo ma non il vizio...», rimarca il Pdci di Diliberto.
«Macché nostalgie - ne prende le difese Alessandra Mussolini - Ormai non c´è più la coda di paglia a destra. I militanti ex An hanno fatto passi in avanti stabili: se c´è un riferimento è alla storia e lo si può fare. Fini ha fatto fare un percorso sostanziale. E se una volta, molti della destra stavano attenti anche alla battuta, non io ma per me è stata anche una questione familiare - ribadisce la nipote del Duce - ora ci si può permettere una considerazione come chiunque, senza sospetti di nostalgie».

Repubblica 24.12.09
I fantasmi dell’antisemitismo nell’est europeo
di Timothy Garton Ash

Tra l´Hanukkah e il Natale, l´insegna sopra l´ingresso del campo di sterminio di Auschwitz è stata rubata. La polizia polacca l´ha recuperata e ha catturato i ladri che, a quanto sembra, hanno agito su commissione per qualcuno all´estero. Si fa fatica a immaginare che genere di essere umano desideri avere qualcosa del genere nella sua collezione privata. Nonostante tutti gli omicidi di massa perpetrati, la schiavitù e la tortura inflitti in tempi successivi, Auschwitz resta, per un europeo della mia generazione, il Simbolo della malvagità umana del nostro tempo.
Questo grottesco episodio chiude un anno in cui i rapporti tra cristiani ed ebrei in generale, tra cristiani polacchi ed ebrei polacchi in particolare, sono stati nuovamente oggetto di dibattito. I fantasmi del tormentato passato est europeo aleggiavano sinistri nei corridoi di Westminster mentre i conservatori britannici annunciavano l´alleanza in seno al Parlamento europeo con un gruppo di partiti di destra, principalmente del centro e dell´est Europa, ponendo i loro parlamentari sotto la guida di Michal Kaminski, del partito polacco Legge e Giustizia.
Nel contesto della polemica che ne è scaturita, l´autore e comico Stephen Fry si è così espresso: «Il cattolicesimo di destra ha un passato profondamente inquietante per chi conosce un poco la storia e ricorda da che lato del confine si trovava Auschwitz». Davvero la storia la conosce poco. Incolpare i cattolici polacchi dello sterminio nazista in un campo situato in territorio polacco annesso alla Germania, in cui furono imprigionati e morirono anche cattolici polacchi, è talmente assurdo che l´affermazione di Fry è stata accolta da una valanga di critiche. E Fry, bisogna darne atto, ha immediatamente fatto ammenda. Ma non è solo la follia di un inglese. Guardando il servizio di una televisione tedesca sul processo a John Demjanjuk qualche settimana fa, mi sono stupito nel sentirlo identificare come una guardia «nel campo di sterminio polacco di Sobibor». In che tempi viviamo se una delle maggiori reti televisive tedesche pensa di poter definire «polacchi» i campi nazisti?
Stando alla mia esperienza, in Europa occidentale e in Nord America è ancora diffusa l´equazione tra Polonia, cattolicesimo, nazionalismo e antisemitismo – e da lì al concorso di colpa nell´Olocausto il passo è breve. Questa accusa collettiva non rende giustizia alle testimonianze storiche. Non lascia spazio ad esempio all´incredibile vicenda di Witold Pilecki, ufficiale polacco che si offrì volontario per una missione mirata a scoprire cosa avveniva ad Auschwitz. Si fece arrestare e rimase nel campo per due anni e mezzo, inviando rapporti all´esterno e organizzando cellule di resistenza, per poi evadere. Combatté in seguito nella rivolta di Varsavia contro i nazisti e visse gli ultimi mesi di guerra in un campo Pow. Venne quindi arrestato e torturato dalla polizia segreta comunista nella Polonia occupata dai sovietici e giustiziato nel 1948. Questa generica stereotipizzazione provoca nei polacchi una reazione di difesa ostacolandoli nel processo di fare i conti con un passato profondamente inquietante di antisemitismo polacco e cattolico. (Non limitato alla destra: il partito comunista polacco fu scosso dalla famigerata campagna anti-semita nel 1968). Soprattutto negli ultimi vent´anni, da quando la Polonia ha riconquistato la libertà, si sono fatti dei passi avanti nei conti con il passato. All´inizio di questo decennio uno storico ha rivelato l´orrenda carneficina di ebrei compiuta nella cittadina di Jedwabne, nella Polonia orientale, per mano dei loro concittadini cattolici nella primavera del 1941, dando vita ad un «dibattito straordinariamente approfondito e straordinariamente coraggioso», come l´ha definito Konstanty Gebert, scrittore ebreo polacco. Sulla scia di tale dibattito, sostiene Gebert, «il paese ha subito una seria trasformazione morale».
Non recedo in alcun caso dal mio atteggiamento critico nei confronti della nuova alleanza stretta dai conservatori britannici in seno al Parlamento europeo, ma il giudizio politico deve essere scisso da quello storico e morale. Il linguaggio dell´odierna politica di partito con le sue frasi prefabbricate e le sue disinvolte mezze verità è così pateticamente inadeguato ai terrori di Auschwitz e all´eroismo di un Pilecki, che il solo atto di accostare quel gergo sintetico a simili realtà ha il sapore di un sacrilegio. Esiste un giudizio politico, ai fini del quale le affermazioni di opportunisti di destra come Kaminski nel dibattito su Jedwabne qualche anno fa hanno attinenza, pur essendo di secondaria importanza. Esiste un giudizio storico, che possiamo esprimere grazie alla sempre maggiore conoscenza della reale complessità della storia ebraica ed est europea. Esiste un giudizio giuridico che deve avere come oggetto chi si è macchiato di crimini contro l´umanità. Ma al di là di tutto questo esiste la dimensione dell´interpretazione umana che forse solo il linguaggio dell´arte riesce a comprendere appieno. Se volete capire cosa intendo, acquistate o elemosinate o rubate uno degli ultimi biglietti disponibili per la straordinaria prima di una pièce teatrale intitolata "La nostra classe" (Our Class) dello scrittore polacco Tadeusz Slobodzianek, in scena al National Theatre di Londra fino a metà gennaio. Oppure, se abitate in un altro paese (inclusa la Polonia in cui lo spettacolo non è andato ancora in scena), iniziate a mobilitarvi perché venga rappresentato. Attingendo alla documentazione, oggi ampia, sui fatti di Jedwabne, Our Class narra il tragico intrecciarsi delle vicende di dieci ragazzi, compagni di scuola prima della guerra, cinque ebrei, cinque cattolici. La pièce non risparmia nulla degli orrori di uno dei peggiori capitoli della storia dell´antisemitismo polacco, mostrando uno stupro di gruppo, un pestaggio a morte, e infine gli ebrei bruciati vivi in un fienile. Ma mostra anche Wladek, il contadino che dà rifugio e quindi sposa una ragazza ebrea e uccide il compagno di scuola polacco che intende arrestarla. Mostra Menachem, il sopravvissuto ebreo che dopo la guerra diventa un interrogatore della polizia segreta comunista. C´è Zocha, polacca e cattolica, che salva la vita a Menachem nascondendolo nel suo granaio e in seguito emigra negli Usa. Udendo una coppia di ebrei americani sparlare dei polacchi accusandoli di antisemitismo la donna esplode: «E cosa hanno fatto gli americani per gli ebrei durante la guerra?». E Abram, il fortunato, emigrato in America prima della guerra, diventa un viscido rabbino che sessant´anni dopo il fatto, pretende che il suo ex compagno di scuola Heniek, ora prete cattolico con un debole per i ragazzini, avalli la tesi ,del tutto infondata, secondo cui nel 1941 il rabbino di Jedwabne guidò il suo gregge nel granaio tenendo alta la Torah e santificando il nome di dio, Kiddush Hashem. Nessun mito autoconfortante resta intatto.
Le preoccupazioni circa la precisione storica, le problematiche di pertinenza degli storici circa la tipicità o eccezionalità degli eventi, hanno qui carattere secondario. Perché qui la verità è più profonda: si tratta di ciò che gli esseri umani sono capaci di fare quando si trovano nel posto sbagliato nel momento sbagliato. (E una piccola città della Polonia orientale occupata prima dai sovietici, a seguito del patto Hitler-Stalin, poi dai nazisti, quindi dal regime comunista polacco sotto la tutela dell´Armata rossa, è quasi per definizione il posto sbagliato al momento sbagliato). Chiunque sia nato in un tempo e in un luogo più felice deve ringraziare la sorte e la geografia.
Siamo tutti della stessa pasta, senza arrivare agli estremi. Non esistono i cattivi e gli eroi, lo stesso uomo o la stessa donna possono comportarsi in maniera terribile in un momento e splendida il momento dopo. Noi esseri umani sappiamo essere inferiori alle scimmie e superiori agli angeli. Siamo deboli, siamo forti. Portiamo il peso della colpa, rivendichiamo il diritto alla clemenza. Poi invecchiamo, ci ammaliamo e moriamo.

Repubblica “24.12.09
Anche nell´antica "polis" la cerimonia consisteva in un banchetto della sera precedente chiamato "sacrificio", fatto di offerte agli dei. I convitati dovevano assaggiare tutte le pietanze, senza eccezioni
La tradizione al tempo del consumismo
Veglia e cibo un rito antico
di Marino Niola

Notte magica, notte da presepe che sospende il corso del tempo e l´ordine del mondo. Alla vigilia di Natale gli animali parlano e gli uomini ammutoliscono. Lo raccontano le leggende popolari di tutta Europa. E soprattutto lo racconta quel poeticissimo apocrifo che è il Protovangelo di Giacomo: "tutte le cose in un momento furono distratte dal loro corso". Tutti gli esseri del creato restano immobili, in vigile attesa della nascita del dio e della vittoria annuale del sole sulle tenebre. Proprio questo significa in origine la parola vigilia, vegliare ritualmente su un passaggio decisivo. Astronomico o religioso. Che sia la notte di Natale o quella di Capodanno. In ogni caso veglioni. Momenti in cui la condivisione del cibo diventa simbolo unificante. Per i credenti un modo di realizzare il contatto con il sacro attraverso la via dei sensi. Per i non credenti una celebrazione del legame sociale, una festa degli affetti. Cui non ci si può sottrarre.
Non a caso i due cardini della tradizione natalizia sono la famiglia e la tavola. Entrambe sacralizzate dal mangiare insieme le cose di sempre. Dove la riproposizione del menù della tradizione, oggetto di un´autentica mitologia domestica, trasforma la semplice abbuffata festiva in eccesso rituale. Oggi temuto da molti ma evitato da pochi. Perché in realtà si tratta di un´orgia obbligatoria, di una liturgia della gola. Che rivela lo stretto intreccio tra piena esultanza dell´anima e l´esultanza piena del corpo.
Proprio come avveniva nel mondo antico dove la cerimonia principale della polis consisteva in un banchetto di vigilia chiamato "sacrificio", fatto di cibi offerti simbolicamente agli dei. La scelta delle pietanze, i tipi di cottura, la successione delle portate obbedivano a un rigoroso palinsesto cerimoniale. Carni, legumi, pesci, dolci, formaggi, frutta secca. I convitati erano tenuti ad assaggiare di tutto un po´ anche a costo di scoppiare. Allontanarsi dalla tradizione sarebbe stato considerato un sacrilegio, una messa in discussione del patto identitario. Tutti, anche i più poveri dovevano essere ammessi alla grande abbuffata.
Queste forme di gastronomia sacralizzata caratterizzano anche le nostre vigilie e hanno fatto nascere nei secoli delle singolari forme di previdenza festiva. Come i Goose Clubs dell´Inghilterra vittoriana e i Christmas Clubs americani del primo Novecento, salvadanai popolari, che con il versamento durante l´anno di qualche spicciolo a settimana garantivano a tutti di potersi concedere la strippata natalizia. Anche nelle nostre città si usava lasciare ogni giorno ai negozianti di alimentari delle piccole somme a mo´ di anticipo. Costituendo così un credito da spendere tutto d´un botto per imbandire un cenone come Dio comanda. Detto in altri termini, per osservare il diritto-dovere di consumare il banchetto rituale in ogni sua sequenza.
E perfino in un tempo secolarizzato come il nostro in cui lo spirito della festa sembra ridursi alla frenesia consumistica, i nostri opulenti menù festivi sono in realtà la versione postmoderna delle orge sacre di un tempo. Niente carne né grassi animali per rispettare i divieti conciliari, ma in compenso cascate di salmone, deliri di frutti di mare, trionfi di ostriche, maree di branzini. È il magro che si rovescia nel suo contrario e realizza in termini moderni quel cortocircuito orgiastico fra astinenza e abbondanza, fra rigore e spreco. Quel consumo del sacro che è l´essenza di ogni vigilia.