domenica 3 gennaio 2010

Repubblica 3.1.10
Che cosa resta di Freud settant’anni dopo /1
Inconscio, Edipo, Super-io. Cosa è cambiato e come siamo cambiati a settant’anni dalla morte del fondatore della psicoanalisi

La profezia del dottor F. saremo sempre nevrotici
di Umberto Galimberti

Settant´anni fa moriva il padre della psicoanalisi dopo aver cambiato per sempre non solo la cura della mente ma la nostra visione del mondo Mentre scadono i diritti delle sue opere e c’è la corsa a ripubblicarle, Bollati Boringhieri rimanda in libreria i suoi capolavori curati dal grande Musatti Ecco un bilancio di quanto dobbiamo all’uomo che disse che è il nostro inconscio a decidere per noi

In occasione dell'anniversario la casa editrice manda in libreria l'8 gennaio tre titoli fondamentali dell'edizione di riferimento curata da Cesare Musatti in edizione economica: L'interpretazione dei sogni, Psicopatologia della vita quotidiana e Introduzione alla psicoanalisi

Oggi la società della disciplina è diventata società dell’efficienza
La contrapposizione ben più lacerante è quella tra possibile e impossibile

A settant´anni dalla morte di Freud vien da chiedersi che cosa sopravvive della sua teoria e che cosa invece si è rivelato caduco. È questa una domanda legittima, ma che forse vale solo per le scienze esatte, dove verifiche oggettive e sperimentazioni sempre più approfondite consentono di validare o invalidare una teoria. La psicoanalisi non è una scienza "esatta", ma si iscrive nell´ambito delle scienze "storico-ermenutiche". E questo perché la psiche è così solidale con la storia da essere profondamente attraversata e modificata dallo spirito del tempo, che è possibile cogliere e descrivere solo con l´arte dell´interpretazione o, come oggi si preferisce dire, col lavoro ermeneutico.
Questo spiega perché, a partire da Freud, si sono sviluppati tanti percorsi interpretativi, approdati ad altrettante teorie psicoanalitiche, da cui hanno preso avvio le diverse scuole. In comune esse hanno il concetto di «nevrosi» che Freud, dopo aver rifiutato di considerare la nevrosi una malattia del sistema nervoso come voleva la medicina di stampo positivista in voga al suo tempo, ha trasferito dal piano "biologico" a quello "culturale".
Lo ha fatto definendo la nevrosi come un «conflitto» tra il mondo delle pulsioni (da lui denominato Es) e le esigenze della società (denominate Super-io) che ne chiedono il contenimento e il controllo.
In questa dinamica è possibile scorgere il tragitto dell´umanità e il suo disagio che Freud condensa in queste rapide espressioni: «Di fatto l´uomo primordiale stava meglio perché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale. In compenso la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto esigua. L´uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po´ di sicurezza». Questa interpretazione del disagio psichico, che sposta la lettura della sofferenza dal piano biologico a quello culturale, è la grande scoperta di Freud, tuttora alla base delle successive teorie psicoanalitiche che, per quanto differenti tra loro, rifiutano di reperire le spiegazioni della sofferenza psichica esclusivamente nel fondo biologico dell´organismo.
A questa intuizione Freud è giunto grazie alla sua assidua frequentazione della filosofia e in particolare di quella di Schopenhauer, che Freud considera suo «precursore»: «Molti filosofi possono essere citati come precursori, e sopra tutti Schopenhauer, la cui "volontà inconscia" può essere equiparata alle pulsioni psichiche di cui parla la psicoanalisi». Secondo Schopenhauer, infatti, ciascuno di noi è abitato da una doppia soggettività: la «soggettività della specie» che impiega gli individui per i suoi interessi che sono poi quelli della propria conservazione, e la «soggettività dell´individuo» che si illude di disegnare un mondo in base ai suoi progetti, che altro non sono se non illusioni per vivere, senza vedere che a cadenzare il ritmo della vita sono le immodificabili esigenze della specie.
Questa doppia soggettività viene codificata dalla psicoanalisi con le parole «io» e «inconscio». Nell´inconscio occorre distinguere un inconscio «pulsionale» dove trovano espressione le esigenze della specie, e un inconscio «superegoico» dove si depositano e si interiorizzano le esigenze della società. Sono esigenze della specie la sessualità, senza la quale la specie non vedrebbe garantita la sua perpetuazione, e l´aggressività che serve per la difesa della prole. Queste due pulsioni, proprio perché sono al servizio della specie, l´io le subisce, le patisce, e perciò diventano le sue «passioni», che la società, per salvaguardare se stessa, chiede di contenere, nella loro espressione, entro certi limiti.
Tra le esigenze della specie (Es o inconscio pulsionale) e le esigenze della società (Super-io o inconscio sociale) c´è il nostro io, la nostra parte cosciente, che raggiunge il suo equilibrio nel dare adeguata e limitata soddisfazione a queste esigenze contrastanti, la cui forza può incrinare l´equilibrio dell´io (e in questo caso abbiamo la nevrosi) o addirittura può dissolvere l´io sopprimendo ogni spazio di mediazione tra le due forze in conflitto, e allora abbiamo la psicosi o follia. La psicoanalisi, che per curare ha bisogno dell´alleanza dell´io, può operare solo con la nevrosi, aggiustando le incrinature dell´io, mentre è impotente con la psicosi, dove inconscio pulsionale e inconscio sociale confliggono corpo a corpo, senza uno spazio di mediazione.
Ma proprio perché la psiche è «storica» e perciò muta col tempo, non si può essere fedeli a questa grande intuizione di Freud, se non superando Freud, perché il suo concetto di nevrosi ben si attaglia a una «società della disciplina» dove la nevrosi è concepita come un «conflitto» tra il desiderio che vuole infrangere la norma e la norma che tende a inibire il desiderio. Oggi la società della disciplina è tramontata, sostituita dalla «società dell´efficienza» dove la contrapposizione tra «il permesso e il proibito» ha lasciato il posto a una contrapposizione ben più lacerante che è quella tra «il possibile e l´impossibile».
Che significa tutto questo agli effetti della sofferenza psichica? Significa, come opportunamente osserva il sociologo francese Alain Ehrenberg in La fatica di essere se stessi (Einaudi), che nel rapporto tra individuo e società, la misura dell´individuo ideale non è più data dalla docilità e dall´obbedienza disciplinare, ma dall´iniziativa, dal progetto, dalla motivazione, dai risultati che si è in grado di ottenere nella massima espressione di sé. L´individuo non è più regolato da un ordine esterno, da una conformità alla legge, la cui infrazione genera sensi di colpa, ma deve fare appello alle sue risorse interne, alle sue competenze mentali, per raggiungere quei risultati a partire dai quali verrà valutato.
In questo modo, dagli anni Settanta in poi, il disagio psichico ha cambiato radicalmente forma: non più il «conflitto nevrotico tra norma e trasgressione» con conseguente senso di colpa ma, in uno scenario sociale dove non c´è più norma perché tutto è possibile, la sofferenza origina da un «senso di insufficienza» per ciò che si potrebbe fare e non si è in grado di fare, o non si riesce a fare secondo le attese altrui, a partire dalle quali, ciascuno misura il valore di se stesso. Per effetto di questo mutamento, scrive Eherenberg: «La figura del soggetto ne esce in gran parte modificata. Il problema dell´azione non è: "ho il diritto di compierla?" ma: "sono in grado di compierla?"». Dove un fallimento in questa competizione generalizzata, tipica della nostra società, equivale a una non tanto mascherata esclusione sociale.
Del resto già Freud, considerando le richieste che la società esigeva dai singoli individui, ne Il disagio della civiltà si chiedeva: «Non è forse lecita la diagnosi che alcune civiltà, o epoche civili, e magari tutto il genere umano, sono diventati "nevrotici" per effetto del loro stesso sforzo di civiltà? [...] Pertanto non provo indignazione quando sento chi, considerate le mete a cui tendono i nostri sforzi verso la civiltà e i mezzi usati per raggiungerle, ritiene che il gioco non valga la candela e che l´esito non possa essere per il singolo altro che intollerabile».
Alla domanda iniziale: cosa resta di Freud a settant´anni dalla sua morte? Rispondo: l´aver sottratto il disagio psichico alla semplice lettura biologica, l´averlo collocato sul piano culturale, l´aver intuito per effetto di questa collocazione che il disagio psichico si modifica di epoca in epoca, per cui compito della psicoanalisi, più che attorcigliarsi nelle diverse denominazioni delle nevrosi, è quello di individuare le modificazioni culturali che caratterizzano le diverse epoche, che tanta ripercussione hanno sulla modalità di ammalarsi «nervosamente».

Repubblica 3.1.10
Che cosa resta di Freud settant’anni dopo /2
Inconscio, Edipo, Super-io. Cosa è cambiato e come siamo cambiati a settant’anni dalla morte del fondatore della psicoanalisi
Io, il paziente perfetto
di Paolo Repetti

Il mio inconscio è un reperto archeologico nel quale un osservatore attento può trovare tracce stratificate di una trentennale storia clinica che spazia dai freudiani agli junghiani ai lacaniani e perfino ai famigerati comportamentisti. La mia carriera di paziente in cura è cominciata a otto anni. Uno strano malessere che faceva su e giù all´altezza del plesso solare in prossimità del pranzo e della cena mi attanagliava e mi impediva di mangiare. Fu in quell´occasione che ebbi il mio primo incontro con una rudimentale figura di terapeuta: la portinaia del palazzo. Mi fermavo a parlare con lei, una signora ebrea poco loquace ma dotata di un bel sorriso e di un robusto buon senso.
Da lei si intrattenevano altre figure solitarie, querule zitelle e vedovi angustiati, e anche un ragazzino manesco che solo in sua presenza sembrava calmarsi. Il setting che si svolgeva in una guardiola poco illuminata aveva anche le sue brave regole: mai fuori dell´orario di portineria e a bassa voce. E dunque non è un paradosso. È lì che ho vissuto il mio primo transfert. Da adolescente i miei mi obbligarono ad alcune rare incursioni nello studio di uno psichiatra.
Per me e i miei genitori, che nulla sapevano di psicoanalisi, quello era un vero medico, dotato di scrivania di noce, martelletto per i riflessi, pila per il controllo delle pupille e il cui sapere rassicurante aveva come espressione manifesta il famigerato ricettario dove la sua firma di officiante di un´autentica scienza campeggiava sotto i farmaci prescritti.
Nulla di tutto questo in analisi, cominciata qualche anno dopo. Quella stanza svuotata di qualsiasi autorevolezza clinica era piena solo di parole e fantasmi, immagini e sogni, sotto il controllo paziente di un "tecnico dell´inconscio" che aveva con i miei sintomi, il malessere e la mia angoscia, un rapporto di comprensione, privo di pregiudizi. Io e il mio analista imparavamo uno straordinario «gioco linguistico» - che è la vera grande rivoluzionaria scoperta di Freud - in cui ricostruendo assieme pezzi inghiottiti della mia biografia rendevamo attivo quel processo che mi avrebbe portato col tempo - e mai in modo definitivo - ad accettare che nessuno è depositario del segreto della tua guarigione.
Il percorso è lungo, dispendioso, accidentato. Ma non ho conosciuto altre scorciatoie. La psicoanalisi non è una filosofia di vita che dà senso alla tua esistenza. Non è un pieno che riempie una lacuna. Per quello ci sono il buddismo, lo yoga, la religione, il turismo orientale. La guarigione stessa è solo un limite che si sposta come quando guardiamo l´orizzonte. A un certo punto accade. Assomiglia allo sgretolamento di un muro. Un muro che ci difendeva dalla vista insopportabile del mondo «così come è», nudo e crudo, e che ora possiamo finalmente guardare con i nostri occhi senza temere di esserne sopraffatti.
Certo nel corso del mio trentennale girovagare tra uno studio e l´altro sono stato un paziente tutt´altro che fedele. Ho persino avuto per tre mesi due analisti in contemporanea. Un freudiano e uno junghiano. Ero un politeista alla ricerca ansiosa di un monoteismo da abbracciare e mettevo ingenuamente a confronto i vantaggi dei riti più diversi. Sono stato colpito dal virus lacaniano. Per un anno sembrava che parlassi con le maiuscole. Il Desiderio, l´Altro, il Significante. E ancora una breve e intensa partecipazione a un gruppo terapeutico presso un´analista seguace di Winnicot. Esperienza che non ebbe alcun effetto sui sintomi ma che mi permise di conoscere una ragazza più nevrotica di me e della quale divenni amante e vice-terapeuta.
Ero ancora un paziente nevrotico, ma dotato di un sapere minuzioso che elargivo con generosità ad amici e fidanzate. Come quegli ipocondriaci che pensano di vincere la malattia immaginaria trasformandosi in medici dilettanti. A trent´anni finalmente l´incontro con un vecchio analista junghiano, un ebreo polacco che, per inciso, era nato nella stessa città del ginecologo di mia madre, anch´egli ebreo: semplice coincidenza o sincronicità junghiana? All´inizio ero ancora talmente immerso nello studio del Significante lacaniano che i primi sei mesi di sedute, invece di affrontare dolorosamente gli effetti catastrofici di un´autostima ridotta a zero - quello che il mio analista chiamava il mio Sé schifoso - ero io a tenere dotte lezioni al terapeuta sulle Macchine Desideranti di Deleuze e Guattari dei quali avevo seguito una e una sola lezione presso il Dams di Bologna. Ebbene dopo sei mesi di farneticanti conferenze lentamente cominciai a scoprirmi e a raccontare qualcosa di me. Tutto cominciò con un sogno di pipistrelli e colombe che il terapeuta accolse con un sorridente: «Ecco questa è la prima moneta d´oro da infilare nel salvadanaio».
E invece, da sempre, una naturale diffidenza verso la cosiddetta psicoanalisi dell´Io che ha in America la sua culla e nei film di Woody Allen la sua caricatura più appropriata. Una psicoanalisi ridotta a ortopedia dell´io, tecnica di adattamento, normalizzante e felicemente convinta che l´american way of life sia la vita stessa.
In questi giorni ho iniziato la mia quinta terapia. L´archeologo che si imbatterà nel mio inconscio scoprirà le tracce di una bonaria e sorridente diffidenza e una disponibilità ironica verso questo nuovo viaggio. Segno che il muro comincia a mostrare le sue crepe.


























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Repubblica 3.1.10

Legge anti-blasfemia l'Irlanda punisce chi offende le religioni
E un sito sfida il ministro della Giustizia
Fino a 25 mila euro di multa ma è polemica "Limitata la libertà di esprimere idee"
di c.nad.

LONDRA - Venticinque affermazioni di personaggi storici o celebri per sfidare la nuova legge irlandese contro la blasfemia. Nel primo giorno dell´entrata in vigore della norma approvata lo scorso luglio dal parlamento di Dublino, per rendere punibili con una multa fino a 25mila euro le affermazioni offensive contro qualsiasi credo religioso, il sito Atheist Ireland ha messo online 25 frasi suscettibili di sanzione. Il fatto è che a pronunciarle non sono soltanto atei celebri come lo scienziato Richard Dawkins o il musicista Frank Zappa, ma Gesù Cristo, Maometto o papa Benedetto XVI. L´iniziativa ha avuto immediato risalto mediatico, tanto che ieri pomeriggio il sito non era più visitabile e si è pensato a una forma di censura: «Si tratta soltanto di troppi accessi», ha spiegato Michael Nugent, commediografo irlandese promotore dell´iniziativa, «segnale che stiamo facendo una battaglia di interesse generale che non riguarda soltanto la religione. Le frasi sono online dal 1° gennaio, ma non mi aspetto alcuna reazione dal governo, almeno non fino a lunedì».
«L´idea di punire qualcuno perché esprime le sue idee è medievale», continua Nugent. «Il diritto serve a proteggere le persone, non le opinioni. La nostra non è un´iniziativa contro la religione, ma contro l´oscurantismo, e va considerata in un contesto più ampio di quello religioso o irlandese. Nel nostro Paese la riflessione sul cattolicesimo dovrebbe avere orizzonti più ampi e una legge di questo tipo è pericolosa, perché spinge alle reazioni violente. Non possiamo ignorare che gli Stati islamici, con in testa il Pakistan, stanno già usando la formula della nuova norma approvata a Dublino per promuovere risoluzioni contro la blasfemia alle Nazioni Unite».
Il ministro della Giustizia irlandese, Dermot Ahern, nei mesi scorsi ha difeso la legge sostenendo che la Costituzione elaborata nel 1937 protegge soltanto i cristiani, mentre la nuova società multiculturale rende necessaria una definizione più ampia della materia. La mossa del ministro è stata ampiamente discussa la scorsa estate. Lo stesso Ahern è finito nell´elenco delle 25 affermazioni considerate da Atheist Ireland punibili secondo la nuova legge, quando durante la discussione parlamentare ha risposto con una battuta a un deputato dell´opposizione che lo accusava proprio di blasfemia.
Le parole del ministro chiudono l´elenco, che comincia con le frasi di Gesù ritenute blasfeme dai sacerdoti ebrei e per le quali Cristo fu messo a morte. C´è la frase che Benedetto XVI pronunciò nel 2006 citando un imperatore bizantino del XIV secolo, discorso che suscitò indignazione nel mondo musulmano; ci sono passi dal Corano e discorsi di appartenenti a diversi credo religiosi. Ci sono scrittori come Mark Twain e cantanti come l´islandese Björk che criticano i buddisti, scienziati di fama internazionale quali Richard Dawkins, che se la prende con il Dio della Bibbia, e un seguace di Scientology quale Tom Cruise. Tutti da accomunare, secondo Atheist Ireland, nel diritto di esprimere liberamente le proprie idee.

Repubblica 3.1.10
Nuove proteste e arresti in Iran retata di giornalisti e religiosi
Incursione nella città santa di Qom Fermati sei discepoli del Grand Ayatollah Montazeri
Ultimatum sul dossier nucleare "Fra un mese riprenderemo ad arricchire l'uranio"
di
a.v.b

La protesta iraniana si allarga, mentre le autorità procedono a nuovi arresti di leader religiosi, dell´opposizione, di giornalisti e studenti. Fra i nomi più noti, figurano quelli dei due giornalisti Ali Hekmat e Mohammad Reza Zohdi, autori di articoli molto letti sui quotidiani riformisti.
Nella città santa sciita di Qom sono stati fermati sette religiosi, e fra questi Ahmad Reza Mehrpur, un blogger del partito riformista Mosharekat, e sei discepoli del Grand Ayatollah Montazeri, morto in dicembre. Proprio il figlio di Montazeri, intervistato dal settimanale Spiegel, invita il regime a evitare «ogni spargimento di sangue». Un eventuale arresto, se non l´uccisione, del leader riformista Mussavi «avrebbe conseguenze catastrofiche per l´Iran». Secondo Montazeri, l´assassinio di un nipote di Mussavi è frutto di «un´operazione mirata, progettata da tempo»: l´estremo «ammonimento» a Mussavi.
Migliaia di studenti e un gruppo di chierici progressisti sono asserragliati da giovedì nelle università Azad, Ferdowsi e Sajjad di Mashhad. Circondati dalle forze dell´ordine e dai miliziani basiji, protestano contro l´arresto di 210 giovani, il ferimento di decine, e la morte presunta di due. I blog degli "studenti verdi" diffondono la cronaca delle sanguinose incursioni dentro l´ateneo, guidate dalle unità paramilitari di Ansar-e-Hizbollah, al soldo del leader supremo Ali Khamenei. Malgrado le vittime - recita un comunicato - «il sit-in continua fino al rilascio degli arrestati».
Intanto un video pubblicato ieri dal Los Angeles Times conferma quel che le autorità negano: l´impiego di armi da fuoco contro i dimostranti. Se si aggiunge che il sito web Rahesabz, o "Via verde", pubblica online le foto dei super-corazzati anti-sommossa da 25 tonnellate l´uno appena scaricati al porto di Bandar Abbas, commissionati dal governo iraniano alla Cina, si avvalora la previsione di un inasprimento degli scontri.
Su questo sfondo il regime di Teheran, isolato sulla scena internazionale, reagisce ingaggiando un nuovo braccio di ferro sul dossier nucleare. Il ministro degli Esteri Mottaki rivolge un ultimatum al gruppo dei Sei (i cinque Paesi membri del Consiglio di sicurezza dell´Onu più la Germania). Dice: «La comunità internazionale ha un mese di tempo per decidere» se accettare uno scambio dell´uranio secondo i termini dettati dall´Iran. «Altrimenti, Teheran arricchirà l´uranio a un livello superiore». Nella proposta dell´Aiea, l´uranio sarebbe stato arricchito all´estero, e poi riconsegnato sotto forma di combustibile un anno dopo. Mentre Teheran respinge l´offerta, il Consiglio di sicurezza studia nuove sanzioni.
(a.v.b)

Repubblica 3.1.10
Il segno di Craxi sugli anni ottanta
di Guido Crainz

La discussione in corso sulla figura di Bettino Craxi sembra avere sullo sfondo una rilettura non solo o non tanto di un leader quanto degli anni Ottanta: a questo sembrano rinviare i ripetuti richiami alla "modernizzazione della politica" di cui sarebbe stato fautore, o alla "modernizzazione della società", che avrebbe trovato appunto in lui un interlocutore sensibile. Di questo occorrerebbe allora discutere, se è vero – come a me sembra – che vi è un solidissimo rapporto fra i processi avviati allora e l´Italia di oggi.
Già a un primo sguardo appare un po´ incongruo parlare di modernizzazione della politica in relazione a un decennio che vide scendere per la prima volta in modo significativo la partecipazione elettorale e l´adesione alla vita dei partiti. E vide crescere invece in forme inedite il voto di protesta, fino a quell´avanzare tumultuoso della Lega che segnerà il passaggio al decennio successivo e porrà bene in evidenza – ben prima delle indagini di Mani Pulite – la profondissima crisi del nostro sistema politico. È un aspetto connesso anche a quel salto di qualità nella corruzione pubblica, a quell´affermarsi sistematico di essa che le tangenti petrolifere avevano iniziato a portare in luce nel 1974 e che puntuali denunce giornalistiche documentarono poi anno dopo anno. Inascoltate, allora, ma confermate ad abundantiam nei primi anni Novanta dalle testimonianze di dirigenti e amministratori dei principali partiti.
Anche soffermandosi su altri aspetti di quel decennio è difficile trovare segni di modernizzazione delle istituzioni, a partire da quella "grande riforma" che rimase involucro vuoto, oggetto di proclami ma non di tentativi concreti di attuazione: il modo più sicuro per screditare un´idea e un progetto.
Si consideri inoltre la politica economica. Nonostante il positivo trend internazionale il debito pubblico crebbe a dismisura, con pesantissime ipoteche sul futuro: fra il 1979 e il 1988 il debito passò infatti dal 57% del prodotto interno lordo al 93%, aumentando ulteriormente negli anni immediatamente successivi. La degenerazione del rapporto fra politica ed economia, nello sfacelo già largamente avviato dell´industria di stato, ebbe poi il suo simbolo nella vicenda che vide protagonisti Eni e Montedison, con il tragico epilogo dei suicidi di Gabriele Cagliari e di Raul Gardini.
Si consideri anche l´iniziativa specifica di Craxi come segretario di partito, chiamato a dirigerlo nel momento più difficile: all´indomani delle elezioni del 1976, che avevano visto il Pci celebrare il suo trionfo e il Psi scendere ai suoi minimi storici. Parve davvero promettente il primo delinearsi dell´ispirazione riformista e antitotalitaria del nuovo leader, con il forte rilancio socialista sul terreno delle idee: dalla riscoperta di Proudhon alla felice stagione della rivista di partito, Mondo Operaio. Quella stagione terminò presto, e Craxi ripropose invece la tradizionale conventio ad excludendum nei confronti del Pci, ratificata subito dalla Dc con un secco "preambolo". Ebbero inizio così gli anni del "pentapartito", asse e prigione istituzionale degli anni Ottanta: una coalizione che si segnalò per la forte rissosità interna (con buona pace della "governabilità" e del "decisionismo"), non certo per il suo alto profilo. "Partiti sempre più uguali" – scriveva con amarezza Pietro Scoppola – si contendono il consenso degli elettori con una forte crescita del "voto di scambio, con un ulteriore incentivo alla corruzione politica e all´uso del potere ai fini della conquista del consenso". In buona sostanza, alla competizione ideale e strategica con il Pci si sostituì la spinta ad affiancare la Dc nell’occupazione dei gangli di potere, e su questo terreno i vistosi risultati ottenuti dal Psi segnarono il suo apparente successo ma al tempo stesso l´inizio di quella "mutazione genetica" che ne determinerà il tracollo.
Nell´azione politica di quegli anni, e di quei governi, non mancarono risultati positivi. Il trend economico favorevole permise almeno la riduzione dell´inflazione (che rimase comunque più alta che in altri paesi), ed era sicuramente necessario il taglio della scala mobile dei lavoratori dipendenti, resa abnorme dalla "riforma" del 1975. L´intervento sulla scala mobile non fu però accompagnato dal rigore fiscale nei confronti del lavoro autonomo e dei "ceti emergenti", con conseguenze di lungo periodo. Le responsabilità non furono certo del solo Craxi, e non mancarono neppure quelle di un declinante Pci. Un Pci sempre meno "diverso" ma ancora rinchiuso nei propri schemi, incapace di comprendere sia le trasformazioni in corso sia la natura della crisi che stava per travolgere la "repubblica dei partiti".
È questa crisi che viene rimossa in molte riletture recenti, assieme ad alcuni processi non secondari che attraversarono la società italiana di quegli anni. Sono illuminanti le analisi di allora del Censis, cioè dell´Istituto che parve a lungo l´apologeta dei nuovi ceti e delle nuove vitalità sociali. Ben presto nei suoi rapporti annuali l´entusiasmo inizia a scemare e si avverte invece la preoccupazione per «crescenti fenomeni di "società incivile»", per l´"annerimento nel profondo della nostra dimensione collettiva". È colta con lucidità, anche, la relazione fra l´affermarsi di culture intrise di egoismi sociali, da un lato, e dall´altro la "ossidazione e corrosione delle istituzioni" e le sempre più diffuse tendenze della politica ad "usare il pubblico come strumento di interessi privati". Le conclusioni del Censis hanno il sapore dell´epitaffio: "Una società che si sente non governata (…) finisce per esprimere al proprio interno una specie di dislocazione selvaggia, particolaristica e furbastra dei poteri e delle decisioni (…) in cui tutto c´è tranne moralità collettiva, coscienza civile, senso delle istituzioni, rispetto delle regole del gioco statuale".
Molta parte della successiva storia d´Italia è inscritta in queste brevi righe, e su di esse sarebbe bene riflettere ancora oggi. Sempre pensando all´oggi, non stupisce che si pensi di indicare ai cittadini come esempio, dedicandogli una via o un parco, un leader politico che si è sottratto alla magistratura e alle istituzioni di un Paese che aveva governato. Una via o un parco nella città che più di altre vide quell´affermarsi della corruzione pubblica come sistema di cui Bettino Craxi non fu solo un marginale e quasi incolpevole comprimario.

Repubblica 3.1.10
Pergolesi ritrovato
Le musiche segrete del genio bambino
di Leonetta Bentivoglio

Il 4 gennaio di trecento anni fa nasceva il compositore che in soli ventisei anni di vita passò alla storia come punta di diamante della scuola partenopea Nel corso del 2010 lo ricorderanno festival, convegni e concerti E, grazie ai documenti ritrovati negli archivi del Banco di Napoli e allo studio filologico su spartiti sconosciuti, si ricostruirà la sua opera autentica
Nei caveau sono conservati polizze, contratti, testamenti, ricevute di pagamento e accordi economici che testimoniano le alterne fortune del musicista

Il 4 gennaio 2010 Giovanni Battista Pergolesi (1710-1736), compositore di musiche d´intensità meravigliosa, capaci di toccare le corde più profonde di chi ascolta, festeggia il trecentesimo anniversario della propria nascita. Lecito parlare di lui al presente. Sia perché il genio scansa declinazioni temporali, sia perché la festa è viva e attuale: occupa dall´inizio il 2010 e percorre trionfalmente il 2011. A Jesi, sua città natale, nel giorno del compleanno e nel teatro che porta il suo nome, prenderà il via il ricco calendario di celebrazioni. Via via, lungo i molti mesi del programma, saranno messe in scena sei opere teatrali e verrà eseguito l´intero repertorio della sua musica vocale, strumentale e sacra: brani scritti in un tempo miracolosamente breve, dato che il marchigiano Pergolesi (però fu Napoli il suo regno, e passò alla storia come una tra le punte di diamante della gloriosa scuola partenopea) morì di tisi a soli ventisei anni, poco dopo aver terminato in un convento di Pozzuoli il capolavoro estremo dello Stabat Mater. Il festival sarà suddiviso tra giugno, settembre e dicembre, e anche la parte teorica si preannuncia imponente, con cinque convegni internazionali a Napoli, Milano, Roma, Dresda e Jesi.
Intanto è già operativo e massiccio il lavoro di edizione critica delle partiture pergolesiane. «Per realizzare l´impresa, che durerà dieci anni e che prevede la pubblicazione di venti volumi, è stata formata nel 2009 una commissione di esperti», dichiara il musicologo Vincenzo De Vivo, consulente scientifico della Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi. È quest´istituzione, animata e amministrata da William Graziosi, a funzionare da motore del progetto di riscoperta, autenticazione e rilancio di un artista dal destino misterioso e altalenante, le cui sorti segnate dalla sfortuna (mali polmonari lo afflissero dall´infanzia, la polio gli offese una gamba e fu il solo superstite di quattro fratelli: gli altri morirono in tenerissima età), giunsero a farne un simbolo spiccatamente preromantico, accentuandone aspetti lirici e sentimentali a scapito di caratteristiche quali il rigore dei ritmi, la potenza drammatica, la peculiarità dello stile e l´ironia penetrante del teatro buffo (come nell´opera La serva padrona).
Accadde addirittura che per alimentarne l´immagine oleografica gli siano stati attribuiti numerosi apocrifi: solo negli ultimi decenni, grazie a musicologi come Francesco Degrada, i tanti falsi sono stati smascherati. E per illuminare le sue grandiose verità hanno fatto molto (e molto stanno facendo) interpreti come Claudio Abbado, che a Jesi dirigerà un concerto il 25 settembre 2010 e che sta completando un importante ciclo di incisioni pergolesiane, e come Riccardo Muti, il quale esplora con appassionata devozione, fin dall´alba della sua carriera, i palpiti e la napoletanità di uno tra i musicisti che gli stanno più a cuore.
Il lavoro filologico passa anche attraverso il gigantesco patrimonio di carte conservato dal Banco di Napoli, città in cui Pergolesi, bambino prodigio, venne mandato a studiare, distinguendosi subito come violinista eccelso, e già al Conservatorio suonava come capo-paranza, ovvero guida di un ensemble che accompagnava funerali e altri riti. Sotto la dominazione austriaca la capitale del Mezzogiorno attraversava una fase di creatività sfolgorante, con l´esito di un mercato di vivacità frenetica per l´arte. Il che spiega la mole di documenti accumulatisi negli archivi del Banco, «che testimoniano la fitta trama di rapporti su cui si fondava la produzione musicale in un´epoca fertilissima per Napoli, che irradiava cultura nell´intera Europa», riferisce Francesco Cotticelli, che con Paologiovanni Maione coordina il gruppo di studiosi a cui spetta il compito di schedare i giornali di cassa delle sette sedi dell´istituto di credito attive a Napoli nel periodo in cui si manifestò il talento pergolesiano, dal 1727 al 1736. E aggiunge che «l´archivio della banca include polizze, contratti, testamenti, ricevute di pagamento e accordi di vario genere tra musicisti e committenze quali teatri, chiese e impresari».
Si nutre anche di tali materiali un viaggio nelle fonti che può dettare cambiamenti nella prassi esecutiva, «rilevando come spazi e contingenze, disponibilità finanziarie e momenti politici, influissero sul numero dei leggii e sulle tipologie strumentali», afferma Cotticelli. Inoltre questo nuovo metodo d´indagine «porta a definire meglio la fisionomia della scena napoletana nel Settecento, col suo circuito di botteghe sonore dove primeggiavano i musici-artigiani». Tra loro non figura solo Pergolesi: dal giacimento affiorano tasselli biografici e musicali di altri esponenti quali Scarlatti, Vinci, Jommelli e Paisiello. Compositori così fecondi che al prezioso filone partenopeo Muti sta dedicando dal 2007 a Salisburgo il programma annuale del Festival di Pentecoste, di cui è il responsabile artistico.
Va detto che è un´esperienza emozionante, per il visitatore, avventurarsi nei locali dell´antico palazzo di Via dei Tribunali dov´è custodito l´archivio storico del Banco, immerso in un silenzio pregno dell´odore delle vecchie pergamene. Spiccano a migliaia, negli scaffali che tappezzano i muri altissimi, raccoglitori, faldoni e libri contabili di misure diverse, e in certe stanze pendono dal soffitto, senza toccare il suolo, poderosi "salami" cartacei, cioè mega-cilindri di documenti sovrapposti: «Era in uso tenerli sollevati da terra perché non fossero rosicchiati dai topi o guastati dalle inondazioni», racconta De Vivo. Scorre anche in questa scenografia densa di suggestioni l´eterna vitalità della grande musica.

sabato 2 gennaio 2010

Repubblica 2.1.10
“Pronto a morire per il mio popolo"
Iran, riappare Moussavi e sfida il regime: "Una nuova legge elettorale"
Il leader riformista chiede la scarcerazione dei manifestanti in cella dopo la rielezione di Ahmadinejad
di Pietro Del Re

Si dice pronto al martirio pur di salvare l´Iran e formula una proposta in cinque punti per risolvere la "grave crisi" che attanaglia il Paese. Così, ieri, il leader dell´opposizione Mir Hossein Moussavi ha da una parte sciolto il mistero sulla sua presunta fuga da Teheran, per salvarsi il collo durante le manifestazioni di piazza a favore del governo indette dalla guida suprema Ali Khamenei; e dall´altra lanciato una nuova sfida al regime chiedendo una riforma della legge elettorale e la liberazione dei prigionieri politici.
Moussavi non ha paura di morire per la sua gente. «Non respingo l´idea di diventare un martire, come coloro che si sono sacrificati, dopo le elezioni, per il rispetto delle loro richieste», ha scritto in un vibrante messaggio sul sito kaleme.org, ricordando nuovamente le vittime seguite alla rielezione a giugno del presidente Mahmud Ahmadinejad, e quelle degli ultimi giorni del 2009, durante la ricorrenza sciita dell´Ashura (quindici morti, tra cui il suo stesso nipote). L´ex primo ministro ha anche affermato che «il mio sangue non è più rosso del loro», ribadendo che la repressione non fermerà l´onda verde, alla quale indica le linee guida per far uscire l´Iran dalla confusione politica in cui si trova.
Anzitutto, scrive Moussavi, il governo di Ahmadinejad deve assumersi «la responsabilità della crisi davanti al popolo, il parlamento e il sistema giudiziario». È poi necessaria l´approvazione di una nuova legge elettorale «trasparente e credibile». Il terzo punto prevede l´immediata liberazione dei prigionieri politici e la loro riabilitazione. Al quarto, esige il rispetto della libertà di stampa e di espressione. Infine, il leader dell´opposizione evoca il riconoscimento del diritto del popolo a riunirsi e manifestare «secondo quanto previsto dall´articolo 27 della Costituzione». Allo scopo di realizzare quest´ultimo punto, Moussavi fa riferimento alla «cooperazione con tutti i paesi interessati e alla mobilitazione di organizzazioni nazionali alternative».
Moussavi si è anche difeso dall´accusa di essere sul libro paga delle potenze occidentali. «Non siamo né americani né britannici. Non abbiamo inviato nessuna lettera di congratulazioni ai capi delle grandi potenze», ha sottolineato riferendosi alla missiva inviata da Ahmadinejad a Obama quando questi fu eletto alla Casa Bianca. Il Movimento verde «ha un´identità islamica e nazionale e si oppone alla dominazione straniera».
Sempre ieri, Mohsen Rezai, ex capo dei pasdaran ed ex candidato alle presidenziali in Iran, ha scritto all´ayatollah Khamenei auspicando un compromesso tra l´opposizione e l´ala dura del regime.

Repubblica 2.1.10
Parla Maziar Bahari, giornalista detenuto per più di 3 mesi
"È una dittatura militare la rivolta è solo all´inizio"
L´onda verde ormai vuole abbattere l´autorità di Khamenei. E per riuscirci potrebbe diventare sempre più radicale
di Francesca Caferri

L´Iran sta diventando una dittatura militare, con un governo ormai incapace di controllare la sua stessa gente. Ne è convinto Maziar Bahari, giornalista irano-canadese di Newsweek che al suo paese di origine ha dedicato anni di lavoro, fino a essere arrestato nel giugno scorso e detenuto per più di tre mesi nel carcere di Evin, il più famigerato del paese.
Signor Bahari, lei ha assistito in prima persona alla prima fase delle proteste, la scorsa estate. Si aspettava una ripresa così violenta e prolungata?
«Sì. Da quando sono stato rilasciato ho sempre detto che la mia maggiore preoccupazione stava nel fatto che l´opposizione potesse diventare sempre più violenta e militarizzata. È quello che sta accadendo. Del resto l´Iran sta diventando sempre più una dittatura militare, più che uno stato religioso: le Guardie rivoluzionarie cercheranno di creare una dittatura militare. Io credo che alla fine falliranno, ma in questo momento ci stanno provando. Lo fanno usando sempre maggiore violenza. L´opposizione seguirà la stessa strada: all´inizio si trattava di persone che chiedevano pacificamente dove fosse finito il loro voto. Ma poi la decisione di Khamenei di usare la violenza contro i manifestanti e arrestare i moderati, come me, lo ha trasformato in un nemico, allargando il fronte di quelli che sono contro il governo. Per questo mi aspetto ulteriori ondate di violenza e forse anche la fine di questo governo».
Crede che siamo davanti all´inizio della fine per il regime?
«Credo che questo sia l´inizio della tempesta. Non abbiamo ancora visto nulla. Nessuno si sarebbe immaginato questa situazione un anno fa. Tutti pensavano che Khamenei fosse più intelligente, che non scommettesse tutte le sue carte su Ahmadinejad: ma non l´ha fatto e ne pagherà il prezzo. Avrebbe potuto sacrificare Ahmadinejad qualche mese fa e salvarsi: ora temo che sia tardi».
Ma questo movimento è abbastanza forte da far cadere il governo?
«Forse non subito. Potrebbero volerci mesi. Il problema maggiore è la mancanza di un leader vero. Moussavi è più un supervisore che una guida. L´onda verde è cominciata per rovesciare i risultati del voto: ma ormai è un movimento per abbattere l´autorità di Khamenei. La contraddizione sta nel fatto che molti dei suoi rappresentanti, da Karroubi a Khatami, sono troppo legati al potere per volerlo davvero rovesciare. Potrebbero emergere nuovi leader e non apparterranno all´establishment: il movimento potrebbe diventare più violento e più radicale. E questo sarà responsabilità del governo».

Repubblica 2.1.10
Il sindaco di Milano apre sull'ipotesi di dedicare alla Bicocca una strada al leader socialista. Ma a Sesto non ci stanno
Moratti paragona Craxi a Giordano Bruno
"Il filosofo fu mandato al rogo ma poi gli dedicarono vie e piazze"
di Teresa Monestiroli

Anche un consigliere provinciale del Pd appoggia l´idea di Palazzo Marino

MILANO - «Credo sia giusto, nella ricorrenza del decennale della morte di Bettino Craxi, ripensare la sua figura prima di tutto dal punto di vista umano, poi politico e storico. Eludere questa data mi sarebbe sembrato sbagliato, sia umanamente che dal punto di vista della riflessione storica». A tre giorni dal putiferio scoppiato dopo l´annuncio di intitolare una via o un giardino di Milano al leader del Partito socialista condannato per corruzione durante Mani Pulite, il sindaco Letizia Moratti spiega le sue ragioni. E lo fa in un´intervista con Red Ronnie pubblicata il 31 dicembre su YouTube.
Una chiacchierata confidenziale, davanti all´albero di Natale di casa Moratti, in cui il sindaco ammette: «Mi aspettavo le polemiche». Ma aggiunge: «È venuto il momento di collocare Craxi in una prospettiva storica, anche se capisco che non sia facile. Il mio tentativo è quello di fare in modo che questa città, la sua città, riconosca un proprio figlio importante». D´altronde, spiega la Moratti, sono passati dieci anni e non sarebbe il primo personaggio storico contestato ad avere una via a suo nome. Tra questi, il sindaco cita nientemeno che Giordano Bruno, bruciato al rogo nel 1600 per le sue teorie filosofiche (assolto dalla storia e dalla scienza), e Giuseppe Garibaldi che con Craxi ha in comune solo la morte in esilio. «Garibaldi è stato condannato a morte, Bruno bruciato sul rogo - spiega il sindaco - eppure a loro sono state dedicate vie e piazze. La storia dà delle riletture diverse delle personalità».
Nonostante le polemiche, la decisione è presa. A gennaio la delibera arriverà in giunta per l´approvazione degli assessori, il cui parere però non è unanime. La Lega si è opposta duramente, mentre una parte degli ex An, che ai tempi dei processi di Tangentopoli manifestava davanti a Palazzo di Giustizia, è ancora incerta. Ma invece di cercare l´appoggio dei suoi - il sindaco è da poco iscritta al Pdl - , la Moratti cavalca le parole di Piero Fassino - unico leader del Pd intervenuto sull´argomento - che sulle pagine della Stampa ha dichiarato: «La dimensione giudiziaria ha finito per sovrastare la riflessione politica», suggerendo di aprire una riflessione su «un uomo politico che, tra luci e ombre, è stato un protagonista della politica italiana». «Raccolgo l´invito di Fassino - commenta la Moratti al tradizionale scambio di auguri con gli anziani - di aprire un dibattito sul socialismo, sulla trasformazione del socialismo in un movimento riformista».
Ancora il Comune non ha deciso quale sarà la strada o il giardino che si chiamerà «Bettino Craxi», ma se sarà una via dovrà essere «senza numeri civici» ricorda la Moratti, per «evitare problemi ai residenti». E tra le ipotesi allo studio della toponomastica c´è anche la proposta di un esponente del Pd, Roberto Caputo, ex socialista oggi consigliere provinciale, che ha suggerito di cambiare nome a viale Dell´Innovazione alla Bicocca, ex quartiere industriale oggi zona universitaria. «È una sollecitazione interessante - dice la Moratti - perché ricollega la figura di Craxi a quelle che sono le radici del socialismo più vicino alla classe operaia. Comunque qualsiasi decisione verrà presa insieme alla famiglia». Contrari invece all´iniziativa del sindaco di Milano gli abitanti di Sesto San Giovanni, da sempre roccaforte della sinistra. In un sondaggio pubblicato su sestonotizie. it il 67 per cento dei cittadini ha detto di non essere favorevole «che anche Sesto, città in cui iniziò la sua carriera politica, intitolasse un luogo pubblico a Craxi».

Agi 2.1.10
Craxi: Pannella, se invitato ad Hammamet avrei declinato
Roma. Sulla vicenda della/delle celebrazioni di Bettino Craxi per il decennale della sua scomparsa tuttora non ho assolutamente e da chicchesia ricevuto alcun invito a parteciparvi: se mi fosse stato fatto avrei ringraziato e immediatamente declinato l'invito a causa della compagnia, in parte, la stessa che indusse storici esponenti del Psi quando trovarono il loro nome di relatori per un convegno promosso dalla Fondazione della Camera dei Deputati nel venticinquesimo della scomparsa di Riccardo Lombardi. Alcuni di loro respinsero anzi l'invito per questo motivo sdegnati e ad onor del vero sono gli stessi nomi autorevoli che pero' ritengo poco e male qualificati sia in quel caso che in questo. E' quanto afferma il leader dei Radicali, Marco Pannella, che parla sia delle celebrazioni per il decennale della morte di Bettino Craxi sia ricorda le iniziative per il venticinquesimo della morte di Riccardo Lombardi. "Io sono andato, gratitissimo e onoratissimo per l'invito, a Regalbuto - dice - invitato dal Sindaco Gaetano Punzi e da altre autorita' del luogo, per un interessante e ricco convegno su Lombardi che Radio Radicale puntualmente ha trasmesso e ritrasmesso".
Fatto quest'inciso, Pannella torna sull'iniziativa di Hammammet e su quella in programma il 19 gennaio al Senato. "Come con altri ebbi occasione di ritenere per la celebrazione del grande azionista e socialista regalbutese, mi trovo nella stessa situazione: o loro o io! Quindi io. Non abbiamo in questa occasione nulla da condividere. Comunque ne ho parlato con Bobo, purtroppo non ho avuto nessuna occasione di parlare con Stefania e ho detto e ripetuto che bastera', quando lei lo riterra' opportuno, un cenno di Anna per accorrere subito ad Hammamet e in qualche ulteriore occasione anche pubblicamente per tornare a parlare di Bettino, del Presidente del Consiglio socialista mancatoci da dieci anni". Insomma Pannella ci tiene a rimarcare "la natura personale" di una sua eventuale presenza. Dopodiche' ribadisce il suo "dissenso dalla impostazione 'morattiana' e di tanti altri di intitolare strade, giardini, luoghi pubblici a personalita' politiche e istituzionali: in uno Stato democratico non mi pare opportuno, prima che siano passate almeno un paio di generazioni, lasciando cosi' con il tempo decadere elementi oscuri ancora legati a sentimenti di parte, una siffata decisione. Pertanto mi permetto di dire al carissimo, davvero carissimo, Carlo Tognoli che in cuor mio ritengo di essere sicuro che su questo avremmo facilmente concordato con lo stesso Bettino". A meno che non si tratti di altre persone. "Ritengo opportuno e serio consegnare alla storia civile del nostro Paese vicende e nomi sui quali la quasi unanimita' anche dei contemporanei si puo' considerare gia' acquisita: ad esempio la vicenda e la scelta politica di Enzo Tortora o quella dei fratellini Silvano e Stefano Mattei, cioe' di vittime di episodi capaci di suonare come monito e gratitudine da parte di tutti senza il gravame di sentimenti e risentimenti. Caro Carlo sono certo che su questo - aggiunge - a riflessione fatta, sarai anche tu d'accordo proponendo al sindaco di Roma di intitolare un importante parco o una importante via, ai fratellini Mattei e ad accantonare la proposta della Moratti che sembra dar soddisfazione a quanti cercano per interessi attuali pur nobili di parte, rivincite a spese dei legittimi cittadini che nutrono posizioni diverse ancora nel presente sulla realta' del nostro Paese". Cosi' chiude Pannella. "Forse sarebbe piu' meritorio se sia il caso davvero di mantenere l'imposizione per molti di ricordi come quello di Palmiro Togliatti o, che so io, di Giorgio Almirante". (AGI) Pat

Repubblica 2.1.10
Il Grande Fratello spia i lavoratori tutti schedati dal computer di Stato
In Germania al via la banca dati sullo stile di vita di 40 milioni di cittadini
Il pc raccoglierà notizie sulle malattie ma anche sugli scioperi
di Andrea Tarquini

BERLINO - Da ieri, la Germania ha avviato la costruzione di un´enorme banca-dati, un computer centrale che registra e immagazzina informazioni su tutti i circa 40 milioni di lavoratori dipendenti: reddito ma anche assenze sul lavoro per malattia o altro, partecipazione a scioperi, ammonimenti o sanzioni disciplinari sul posto di lavoro. Si chiamerà Elena, come la bella di Troia contesa nell´Iliade di Omero, ma ai media in allarme evoca ricordi letterari ben meno epici: «Qualcuno si potrebbe chiedere in che Stato viviamo», scrive il prestigioso notista Heribert Prantl sulla Sueddeutsche Zeitung: «Nella Repubblica federale, Stato di diritto, o in ‘1984´ di George Orwell?». L´incubo del cittadino trasparente, la paura dell´abolizione di fatto del diritto alla privacy grazie ai mezzi illimitati dell´elettronica e del virtuale, segna questo inizio d´anno nella prima potenza europea. Media, ma anche sindacati e alcuni partiti politici criticano duramente il progetto, e preannunciano proteste e appelli alla Corte costituzionale.
Sembra un paradosso, ma proprio la Germania, considerata la più stabile e garantista tra le grandi democrazie del mondo libero, si è decisa a varare un sistema che solleva pesanti riserve e timori di un abuso o uso illecito dei dati. L´iniziativa risale al 2002, al governo Schroeder. Elena, nella sigla in tedesco, vuol dire "Elektronischer Entgeltnachweis", cioè in pratica documentazione elettronica del reddito. Fin qui, nulla di particolare.
È normale ovunque che si ricorra alle nuove tecnologie per i controlli sui redditi. Il sistema funzionerà così: la banca dati "Elena" comincia per legge subito a lavorare, alla Zentralspeicher, cioè registro centrale, con sede a Wuerzburg, in Baviera. Dal 2012, i datori di lavoro saranno completamente liberati dall´obbligo di fornire per iscritto su carta dichiarazioni sul reddito dei loro dipendenti. I quali invece riceveranno un documento di plastica simile a una carta di credito: quando chiederanno prestazioni sociali, l´impiegato delle autorità usando quella carta potrà richiamare i dati personali sul computer. Ovvio che la lotta all´evasione ma anche a ogni tentativo di frode nelle richieste di assegni-povertà, sussidi di disoccupazione e altre prestazioni del generoso welfare tedesco sia priorità e diritto di uno Stato.
Ma le informazioni che i datori di lavoro tedeschi dovranno fornire a Elena, scrive la Sueddeutsche Zeitung, riempiranno l´equivalente di 41 pagine. E soprattutto, quel che preoccupa sono il tipo e la qualità dei dati richiesti: notizie su assenze per malattia o altre ragioni dal posto di lavoro, notizie sull´eventuale partecipazione del dipendente a scioperi, uguale se si tratti di agitazioni legali o illegali, notizie su ammonimenti e sanzioni ricevuti dall´azienda, quindi al limite eventualmente, fa capire il quotidiano di Monaco, anche su eventuali licenziamenti o minacce di licenziamento. Dati, sostengono le autorità, che possono concorrere al calcolo delle prestazioni del welfare da erogare. «Ma con questo sistema l´abuso delle informazioni è pre-programmato», protesta Frank Bsirske, leader del VerDi, il potente sindacato del terziario e della funzione pubblica.
Non solo i sindacati sono in allarme. Secondo Peter Schaar, "Datenschutzbeauftragte", cioè garante della privacy, con Elena si richiedono dati molto sensibili e quindi si oltrepassa il confine di quanto è concesso. Christian Lindner, del partito liberale (al governo) esprime serie riserve, Petra Pau della Linke (sinistra radicale) parla di «mostro dei dati». La fine dei totalitarismi con il 1989 non ha insomma portato al tramonto dell´ossessione di sapere tutto o «quasi tutto» sui cittadini, su "Le vite degli altri", come s´intitolava il bellissimo film sulla Stasi, la polizia segreta di Berlino est.

Repubblica 31.12.09
Il dottor Hester la signora Anna e l' elogio della follia
di Oliver Sacks


QUANDO udiamo la parola "manicomio", siamo portati a pensare a posti orribili, fosse di serpenti straboccanti di squallore, miseria, brutalità. La maggior parte è oggi chiusa e abbandonata. Ricordiamo con un brivido di terrore quei poveretti che un tempo erano costretti a vivere in simili posti. È dunque salutare ascoltare la voce di una paziente, una certa Anna Agnew, giudicata malata di mente nel 1878 - da un giudice, non da un medico - e rinchiusa nell' Ospedale per malati di mente dell' Indiana. Anna venne ospedalizzata dopo diversi tentativi di uccidere se stessae uno dei suoi figli. Anna si sentì sollevata quando le porte dell' ospedale si chiusero dietro di leie trasse sollievo dal fatto che la sua malattia era stata riconosciuta. Come lei stessa lasciò scritto: «Dopo solo una settimana di soggiorno nell' ospedale, avvertivo un senso di appagamento quale non sentivo da più di un anno. Non perché mi fossi riconciliata con la vita, ma perché avevano capito il mio stato mentale, ed ero trattata di conseguenza. Ero circondata da altri nelle mie condizioni, turbati e confusi, e mi ritrovai a provare interesse per le loro miserie, il mio senso di simpatia umana si risvegliava. Al tempo stesso, ero trattata come una donna malata, con una gentilezza che nessuno mi aveva mostrato prima di allora. Il dottor Hester fu la prima persona abbastanza gentile da rispondere alla mia domanda: "Sono matta?", "Sì signora. Lei è pazzae molto ...".E continuò: "Ma vogliamo aiutarla in ogni modo, e la nostra speranzaè che questo posto possa farlo"». Il vecchio termine per indicare gli ospedali per malati di mente era in inglese "lunatic asylum", e "asilo", nella sua accezione originaria, significava rifugio, protezione, santuario. A partire dal IV secolo dell' era Cristiana, i monasteri e le chiese erano luoghi d' asilo. A questi si aggiunsero gli asili laici, creati, come Foucault ha suggerito, utilizzando le strutture ormai inutili dei lebbrosari per ospitare gli indigenti,i criminaliei malati di mente. Nel suo famoso libro Asylums, Erving Goffman li classificava tutti- ospedali religiosi e laici, manicomi e ospizi - come "istituzioni totali", luoghi dove la distanza tra il personale e i degenti era immensa, dove rigidi ruoli e altrettanto rigide regole impedivano ogni forma di solidarietà e di simpatia, dove i ricoverati erano privati dell' autonomia, della libertà e della dignità, ridotti a numeri senza volto o identità. Negli Anni 50, quando Goffman conduceva le proprie ricerche presso l' ospedale St. Elizabeth di Washington, le cose stavano proprio così, almeno nella maggior parte dei manicomi. Eppure, non erano queste le finalità che si erano prefissi quei filantropi e bravi cittadini che avevano fondato i primi manicomi in America, tra gli inizi e la metà del XIX secolo. In mancanza di trattamenti specifici per la malattia mentale, il "trattamento morale" veniva visto come l' unica alternativa possibile: ci si occupava dell' individuo nel suo insieme, come espressione di una potenzialità di salute fisica e mentale, e non solo di quella parte del suo cervello che sembrava non funzionare. I primi manicomi statali erano spesso veri e propri palazzi con soffitti alti, finestre grandi e giardini, dove l' aria e la luce non mancavano, si faceva molto esercizio fisico e il vitto era variato. Molti manicomi erano autosufficienti, e coltivavano gran parte delle risorse che consumavano. I pazienti lavoravano spesso nei campi o nelle stalle e il lavoro era considerato come una cruciale forma di terapia, oltre che di sostentamento. Il senso di comunitàe la solidarietà erano importanti, vitali per i pazienti, che si sarebbero altrimenti sentiti isolati nei loro mondi mentali, vittime delle loro ossessioni e allucinazioni. Parimenti cruciale era il riconoscimento e l' accettazione del loro stato da parte del personale e degli altri pazienti. Infine, per tornare al termine originario di "asilo", questi ospedali fornivano ai pazienti controllo e protezione, sia dai loro stessi impulsi (omicidi o suicidi che fossero) sia dal ridicolo, dall' isolamento, dalle aggressioni o dagli abusi che spesso subivano nel mondo esterno. Gli asili fornivano una vita protetta e certo limitata, una vita semplificata e ristretta, ma all' interno della struttura protettiva godevano anche della libertà della loro follia, di attraversare le proprie psicosi ed emergere, a volte, dal baratro come persone più stabili e sane. Col tempo, i manicomi statali divennero piccole città. Pilgrim State, il manicomio di Long Island, ospitava circa 14.000 pazienti. Era inevitabile che i grandi numeri e le scarse risorse facessero allontanare i manicomi statali dagli ideali delle origini. Già alla fine dell' Ottocento erano diventati sinonimo di squallore e abbandono, spesso amministrati da burocrati inetti, sadici e corrotti, una situazione che si è prolungata sino alla metà del XX secolo. Il movimento di anti-istituzionalizzazione dei malati di mente, un rivolo negli Anni 60, divenne un fiume in piena negli Anni 80, anche se era sempre più chiaro che le buone intenzioni stavano creando problemi gravi quanto quelli che intendevano risolvere. In molte città, l' enorme popolazione di "psicotici del marciapiede" era una drammatica dimostrazione di come mancassero cliniche psichiatriche e centri di accoglienza, o infrastrutture capaci di occuparsi delle centinaia di migliaia di pazienti che erano stati allontanati dai manicomi statali. Le medicine antipsicotiche che avevano favorito il processo di deistituzionalizzazione si rivelarono meno miracolose di quanto si fosse sperato. Erano certo in grado di affievolire i cosiddetti sintomi "positivi" della schizofrenia: allucinazioni e deliri psicotici. Ma a poco servivano per porre rimedio ai sintomi "negativi" - l' apatia e la passività, la mancanza di motivazioni e la capacità di rapportarsi agli altri - che spesso erano più pesanti dei sintomi "positivi". Agli inizi degli Anni 90 divenne chiaro a tutti che ci si era sbagliati, che la chiusura dei manicomi era avvenuta troppo in fretta, senza che si fossero attivate strutture alternative. Non c' era bisogno di chiudere tutti i manicomi. Occorreva invece farli funzionare: mettere mano all' affollamento, alla mancanza di personale, porre fine all' abbandono e alla brutalità. L' approccio farmacologico, sia pur necessario, da solo non bastava. Ci eravamo scordati degli aspetti positivi degli "asili", o forse non volevamo più sborsare soldi per tenerli aperti; per dare ai pazienti spazi e senso di comunità, un posto per lavorare e giocare, per apprendere un mestiere e imparare a vivere insieme - quel rifugio sicuro che i manicomi statali delle origini intendevano offrire. Qual è ora la situazione? I manicomi ancora aperti sono pressoché vuoti, e la popolazione dei pazienti consiste essenzialmente di malati cronici che non rispondono più a nessun trattamento farmacologico, o di individui talmente violenti che non possono essere lasciati liberi. La grande maggioranza dei malati di mente vive fuori dalle strutture ospedaliere. Alcuni restano in famiglia e si servono di supporto ambulatoriale nei momenti di crisi, altri vivono in residenze aperte: strutture che garantiscono al paziente una certa libertà e autonomia, pur provvedendo alle necessità terapeutiche. Esistono anche, negli Stati Uniti, delle comunità residenziali che si rifanno in parte alle comunità terapeutiche degli "asili" dell' Ottocento e offrono ai pochi che vi vengono ammessi un' assistenza completa. Ne ho visitate alcune, e ho ritrovato quel che c' era di meglio nei vecchi manicomi statali: un forte senso di solidarietà, delle opportunità di lavoro e spazi di creatività, il rispetto per gli individui. Il tutto unito a quanto di meglio la psicoterapia e i trattamenti farmaceutici possono offrire oggi. Purtroppo, strutture simili sono rare, e possono ospitare qualche centinaia di pazienti, a fronte dei milioni che negli Stati Uniti soffrono di malattie mentali. I pazienti che sono ammessi debbono contare sul supporto finanziario delle famiglie, visto che in media la degenza costa intorno ai 100.000 dollari l' anno. Gli altri - il 99 per cento di malati privi di risorse adeguate - debbono accontentarsi di cure insufficienti e rinunciare al proprio potenziale di vita. L' Alleanza nazionale dei malati di mente fa quel che può, ma i milioni di malati di mente restano ancor oggi la parte più esclusa e la più abbandonata della nostra società. Eppure è chiaro che persino la schizofrenia nonè necessariamente una malattia che inesorabilmente peggiora (anche se ciò può verificarsi). In circostanze ideali, e con risorse adeguate, anche persone molto malate, quelle che vengono classificate come senza speranza, possono vivere una vita produttiva e degna. La versione integrale di questo articolo comparirà nel numero di gennaio 2010 della Rivista dei Libri (Traduzione di Pietro Corsi)

giovedì 31 dicembre 2009

Repubblica 31.12.09
Torna il popolo viola, a gennaio meeting a Napoli
Il portavoce: vogliamo capire come sfruttare l´onda, ma niente partiti
"Il partito dell´amore non c´interessa" Un numero speciale su Micromega
Dopo il successo del No B-Day il movimento ribadisce: il premier lasci
di Alessandra Longo

ROMA Sono riusciti a convocare in venti giorni centinaia di migliaia di persone e poi sono mediaticamente scomparsi, quasi inghiottiti nel nulla, se si usano i parametri, da loro considerati vetusti, delle comparsate televisive. Dove sono e che cosa fanno quelli del «No B Day», dov´è quel «Popolo viola» che ha così infastidito certo establishment? Ebbene, la prima notizia è che il «movimento» respira, è vivo, ma comunica solo in rete e dunque per questo può sembrare invisibile ai non internauti. La seconda notizia è che gli organizzatori del «No B Day» del 5 dicembre scorso si rendono conto di «essere entrati nell´immaginario collettivo», di aver conquistato un patrimonio che va speso e non dilapidato. Ma come? Prima di tutto, occorre, come ai vecchi tempi, un po´ di "fisicità".
Il primo appuntamento nazionale è già stato fissato. I «referenti locali del Popolo Viola» si troveranno il 9 gennaio a Napoli, ospiti del Centro culturale «La città del sole». Tanto per dare l´idea, non sarà una riunione della serie chi c´è c´è. I rappresentanti periferici sono invitati a «intervenire in numero non superiore a due per ragioni di carattere organizzativo». Occorre confermare la presenza «entro e non oltre il 4 gennaio» e la tavola rotonda con i giornalisti ha già un orario parecchio rigido: «Dalle 15 alle 16». Sarà pure vero, come si legge sul sito, che «nessuno può controllare l´onda che si sta propagando alla velocità delle idee», però la sensazione non è quella di un movimentismo senza testa e regole. Gianfranco Mascia, antiberlusconiano storico, uno dei volti più noti ad aver sposato la causa dei viola, si aspetta una «bella riflessione»: «Dobbiamo lanciare e raccogliere idee. Evitando la trappola della ricerca a tutti i costi di un´identità, un approccio vecchio, ideologico, di partito. Il movimento vuol essere invece un´altra cosa, vuol capire dove andrà questo flusso di persone e emozioni, vuol soprattutto sfruttare fino in fondo l´intelligenza collettiva».
Affidarsi all´«intelligenza collettiva», sfuggire alle sirene dei partiti: una bella scommessa. Per ora questo è lo schema di gioco. Uno schema che non è cambiato nemmeno dopo l´aggressione al capo del governo. «Noi abbiamo chiesto le dimissioni di Berlusconi allora e le chiediamo ora – dice Mascia – e il gesto di Tartaglia, così come la spinta di quella giovane donna malata al Papa, non c´entrano nulla con la politica». Come lo vedete il costituendo «partito dell´amore?» «Nemmeno quello ci interessa. E comunque sia credo che chi vive da anni un lavoro precario o combatte la mafia vede con i suoi occhi qual è il vero partito dell´amore». Intendiamoci: in ossequio al principio dell´intelligenza collettiva, Mascia parla a titolo personale. E, a titolo personale, scarta l´idea che il Popolo Viola si occupi delle scadenze elettorali prossime venture: «I contatti con i partiti per ora sono in stand-by». Quelli con altri movimenti invece no. Esce oggi un numero di Micromega in cui Mascia e altri ragionano sul futuro «dell´onda». A fine gennaio «l´intelligenza collettiva» aveva proposto un «primo meeting nazionale del Popolo Viola a Firenze». Sul sito c´è ancora l´annuncio con oltre trenta commenti grondanti entusiasmo. Non è detto che questo raduno si faccia. Lo decideranno a Napoli. Sempreché sia facile «decidere». Leggiamo sul sito: «È chiaro che in questa fase nessuno può pensare di dare indicazioni su cosa fare e cosa non fare».

Repubblica 31.12.09
Il sindaco: Vendola usa le truppe cammellate contro il Pd. Il Governatore: "Emiliano è un uomo solo"
Quella corrida tra Nichi e Michele "Solo una guerra tra due super-ego"
Scambio di accuse senza fine con squadre e tifosi contrapposti
di Antonello Caporale

Emiliano: se mi candido, sputatemi. Manifesto di Vendola: "Emiliano iàpr l´ecchie"
Il regista di Checco Zalone: "Tutti indicano la mano magica di D´Alema"

BARI Dichiarazione di pochi giorni fa di Michele Emiliano, sindaco di Bari: «Sputatemi in un occhio se sarò mai il candidato alla Regione». Manifesto affisso dai fedelissimi di Nichi Vendola alcune ore dopo la discesa in campo del sindaco: «Emiliano iàpr l´ecchie» (Emiliano apri l´occhio).
Come sia stato possibile ridurre la primavera pugliese, uomini nuovi per un tempo nuovo, in furiosa corrida è questione tragicamente aperta. La disfida spopola in città. Agli angoli delle strade, al bar, in fila all´ufficio postale. Testimonianza di Gennaro Nunziante, autore dei testi e regista del film di Checco Zalone, il comico barese repentinamente assurto alla ribalta nazionale: «In qualunque conciliabolo si indica la mano magica di Massimo D´Alema. D´Alema è divenuto una presenza virtuale ma incombente, uno spirito ora divino e provvidenziale, ora demoniaco che disfa e uccide la speranza. E ciascuno si sente autorizzato a rivelare una sua confidenza, che ha i tratti dell´irreparabilità. "Massimo ha detto che Vendola è finito". Giunge, secondo i canoni di una perfetta piece teatrale, il secondo amico e afferma, in modo altrettanto solenne: "Massimo ha detto che Emiliano è out"».
In effetti la corrida ha preso forma il giorno in cui D´Alema giunge a Bari con un foglietto in tasca: un sondaggio. È il segno vistoso della comunicazione berlusconiana ad acquisire un ruolo egemone e a obbligare a prendere atto di un dato matematico. Senza l´Udc di Casini si perde. "Dal momento che Vendola non avrebbe mai l´appoggio di Casini…".
È da quel momento che il clima già turbolento acquista i tratti di una tragedia politica con aspetti di puro cabaret. Quel sondaggio e l´invito che segue produce una palla di fuoco dentro cui arde l´amicizia e il legame politico che aveva unito i destini di Vendola e Emiliano. Il primo governatore il secondo sindaco del capoluogo. Personaggi diversi ma popolari. Amati, riveriti, conquistati alla causa pugliese.
Da quel momento Emiliano scorda le promesse («Giuro su San Nicola!»), gli impegni («ribadisco che non sarò mai disponibile…») e inizia con le pretese. E qui anche Franco Cassano, un sociologo che conosce Bari, le virtù e le miserie, le invidie, le ambizioni dei suoi protagonisti, afferma che c´è stato un diavolo tentatore. «Qualcuno ha indotto Emiliano in tentazione. E quel qualcuno si chiama D´Alema che disconosce la dimensione civica e anche le conquiste di una terra che non vuole dominatori».
Se D´Alema è il cuoco di questo frittatone pugliese è tema ancora discutibile. Quel che è certo è il costo politico e sociale dell´operazione. Lo scrittore Mario Desiati, direttore editoriale di Fandango, assicura: «Emiliano poteva vivere di rendita per quindici anni con le realizzazioni compiute». Ancora Cassano: «Sta segando il ramo su cui è appollaiato». In effetti il sindaco vanta un palmares indiscutibile di opere. L´abbattimento del muro di Punta Perotti ha cambiato la geografia della città e ribaltato un luogo comune: il potere assoluto e monarchico dei costruttori. E poi la riapertura del Petruzzelli, la bonifica dell´area ex Fibronit, luogo di malanni e di morte. La riqualificazione del quartiere più degradato della città, San Paolo. La metropolitana di superficie.
Tutto rischia di essere scordato, revocato da quell´intendimento: candidarsi alla regione al posto di Vendola sei mesi dopo essere stato eletto al secondo mandato da sindaco. Dal quartier generale di Nichi sono iniziati a fioccare insulti e insinuazioni: è il risultato degli appetiti di amicizie pericolose. Imprenditori che devono allargare il business, Cl e Legacoop che devono vendicarsi dell´emarginazione subita dalla gestione vendoliana della Regione. E l´acqua che in Puglia resta pubblica, boccone prediletto, qui si dice, dal gruppo Caltagirone, suocero di Casini, il nemico numero uno dell´attuale governatore. Che ora commenta: «Emiliano mi sembra un uomo solo. Ma gli voglio bene». La sua assessora alla cultura, Silvia Godelli, psichiatra: «La grandiosità dell´ego è propria di una personalità border line». Secca la contraerea: Vendola non ha saputo tenere il centrosinistra unito, ha umiliato gli alleati, disegna le sue ambizioni puntando a dividere il Pd… E poi sulla sanità ha fatto finta di cadere dalle nuvole. Ha fatto finta? Ecco la vampata che ha trasformato un´amicizia in odio e reso il Pd un partito immobile, vuoto. Un fortino poi valicato e offeso da incursioni popolari ("le truppe cammellate di Vendola" ultima accusa) che ne hanno decretato l´inconsistenza. Il segretario regionale Sergio Blasi, dalemiano, che non sa cosa fare. Anzi, dice: «Servono le primarie». Emiliano accetta, "senza condizioni". Poi ci ripensa e chiede una legge che non lo obblighi a rinunciare preventivamente alla poltrona di sindaco di Bari. Una legge ad personam, altro modello ricavato dal berlusconismo, che nessuno nel centrosinistra riesce a garantire e che il centrodestra non ha alcuna intenzione di concedere. Ad oggi, ma tutto qui è così provvisorio, le primarie si faranno. Ma Vendola le dà per certe il 17 gennaio. Emiliano punta al 24. Perché il 20 gennaio si riunisce il consiglio regionale e la norma ad personam potrebbe essere in quella occasione discussa e approvata.
Tranquilli e seduti. C´è ancora tempo per cambiare opinione e anche scena della disfida. Lo spettacolo non è affatto finito...

Repubblica 31.12.09
Pisapia sul Manifesto
"Compagni, riformare la giustizia non è inciucio"
di g. l.

ROMA Separazione delle carriere? Si deve fare. E al posto del Csm, ormai prigioniero delle correnti, un´Alta Corte di giustizia che si occupi dei procedimenti disciplinari a carico degli operatori del settore: magistrati e avvocati. A sinistra si alza una voce fuori dal coro e su un quotidiano, il Manifesto, che non può essere certo accusato di simpatie per Berlusconi. Anzi, è proprio per «non lasciare alla destra le battaglie sulla giustizia» che Giuliano Pisapia, famoso avvocato, ex parlamentare di Rifondazione comunista, lancia le sue proposte destinate a far discutere perché stracciano alcuni caposaldi della magistratura e dell´opposizione. Primo fra tutti il tabù della separazione delle carriere. «Una giustizia realmente al servizio del cittadino deve saper conciliare celerità, efficienza e garanzie» e per «impedire al governo di continuare nella sua opera disgregatrice del principio di eguaglianza», è indispensabile non limitarsi a «criticare, sbraitare, insultare», ma occorre fare proposte. Quindi, sostiene Pisapia, «mi chiedo come sia possibile (per la sinistra e più in generale per chi crede nella giustizia) opporsi a una modifica che renderebbe effettivi principi sanciti dalla Costituzione: imparzialità del giudice, parità nel processo (non nelle indagini) tra accusa e difesa». Altrettanto «incomprensibile» è per l´avvocato «la difesa a oltranza del Csm», prigioniero del «correntismo imperante». Con un´Alta corte di giustizia competente sui procedimenti disciplinari a carico di giudici, pm e avvocati, per Pisapia «si uscirebbe da una situazione insostenibile e si creerebbe un circuito virtuoso». In conclusione «sbarrare la strada in modo ideologico a qualsiasi mutamento sarebbe per la sinistra un grave errore». Mentre «l´inciucio conclude Pisapia è tutt´altra cosa».

Corriere della Sera 31.12.09
Il leader radicale. La tesi: c’è chi ne approfitta per un’ulteriore criminalizzazione e chi lo usa per la carriera, come da vivo
«Meglio aspettare due generazioni»
Pannella: prematuro dedicargli qualcosa, iene e parassiti intorno alla sua figura
Nel ’92 la partitocrazia si era costituita come associazione a delinquere e accusò l’anello debole, né comunista né democristiano
di Andrea Garibaldi
nelle edicole

il Riformista 31.12.09
«Craxi? Fu il despota che ci diede identità»
Nerio Nesi. L’ex presidente di Bnl ricorda: «Leaderismo, zero democrazia partitica: il suo erede è Berlusconi. Però, che commozione quando morì».
di Edoardo Petti

«Un uomo che guidò il Psi in modo autoritario, fautore di un leaderismo insofferente della democrazia partitica. Una personalità che introdusse il modernismo come valore morale, e il cui autentico erede è senza dubbio Silvio Berlusconi. Ma comunque un uomo, con cui ebbi un rapporto di amicizia e di aspri conflitti, che ebbe il merito di riaffermare l’identità e l’orgoglio socialista». Queste le parole pronunciate su Bettino Craxi da Nerio Nesi, storico esponente della sinistra lombardiana del Psi, a lungo presidente della Bnl e ministro dei Lavori pubblici. Nel suo ricordo la durezza dei giudizi si mescola alla commozione, «la stessa che provai quando in Parlamento seppi della sua morte».
Qual è l’eredità politica di Craxi?
Il suo vero erede è Silvio Berlusconi. Ho sempre considerato Craxi come una personalità disorganica rispetto alla sinistra. È stato lui a introdurre il modernismo come valore morale, una politica fortemente leaderistica, un’identificazione del partito, e dello Stato, con il capo, nella quale le associazioni non contano, dove la democrazia partitica non è necessaria. Caratteristiche, queste, rilanciate dal berlusconismo.
Non vede elementi di modernità nella politica craxiana? Ho avuto un rapporto di amicizia e di scontri durissimi con Craxi, e ne parlo senza pregiudizi. Il craxismo è stato un fenomeno complesso, che ha conosciuto vari stadi. Eletto segretario del Psi, cercò di riaffermare l’identità e l’orgoglio socialista, anche attraverso operazioni spregiudica-
te, come la riscoperta del filosofo anarchico Pierre-Joseph Proudhon. Voleva costruire una forza riformista da contrapporre a un partito estremista che in realtà non esisteva. Tuttavia quel tentativo costituì un’opportunità: che non fu colta, come si riscontra anche oggi.
Poi giunse alla guida del governo.
Fu il secondo stadio del craxismo, che, a differenza della fase precedente, caratterizzata da un acceso anticomunismo, fu dominata dalla competizione con la Dc, alla quale Craxi si ancorò dando vita al Caf. Allora non perseguì un preciso indirizzo, ma preferì incunearsi nelle pieghe e difficoltà delle altre forze per aumentare il proprio consenso. In quegli anni si affermò la sua tendenza a guidare il partito in maniera autoritaria: sciolse le correnti, tenne in mano il Psi come l’amministratore unico di un’azienda, emarginando la presidenza di Riccardo Lombardi, a cui ero legato. Una volta mi disse: «Quando romperò con la sinistra interna tu starai con me». Gli risposi che finché c’era Lombardi ciò sarebbe stato impossibile. Nel frattempo prestigiosi intellettuali come Arfé, Strehler, Giannini, Cohen, abbandonarono il partito, che visse un decadimento culturale ben evidenziato da una lettera di Bobbio che denunciava «la rottura, da parte del Psi, dei ponti con la tradizione socialista».
Ricorda episodi significativi che aiutino a comprendere la personalità di Craxi?
A metà degli anni Settanta andammo a Parigi per il congresso del Psoe spagnolo, ancora clandestino. Mentre eravamo in tram mi disse che avrei dovuto fare il ministro. Gli chiesi in quale governo. Mi rispose: «Nel mio governo!». Un giorno mi fece chiamare e mi comunicò che aveva deciso che sarei diventato ministro. Gli domandai se volevamo parlarne. Si infuriò, affermando che decine di persone ambivano a quel ruolo. Rifiutai l’incarico: in quel momento si calmò e cominciammo a parlare. Se tutti avessero fatto così con lui... Vede, i despoti, come in fondo era Craxi, esistono perché ci sono sudditi troppo a lungo solidali con loro, e a lungo silenti. La responsabilità della drammatica fine del Psi, lo dico con dolore, è anche loro: il partito si era identificato completamente con il suo leader.
Che ricorda di Mani Pulite?
Mi ero dimesso dal Psi dopo che Craxi aveva cercato di impormi una decisione tecnicamente insostenibile nella Bnl. Capii allora le parole di Lombardi sulla «mutazione genetica del partito». Dopo il 1992 non lo vidi più. Rammento il suo bellissimo discorso del 1993 sulle responsabilità di tutti i partiti nel sistema dell’illegalità diffusa. Avrebbe dovuto andare oltre, e dimettersi. Ma non lo fece: questa è la differenza rispetto a un uomo come Helmut Kohl. Non condivisi la sua decisione di andare ad Hammamet, ma quando giunse in Parlamento la notizia della sua morte mi commossi, così come mi commuovo ora parlandone.

il Riformista 31.12.09
Il papa e la donna, viene dal medioevo cristiano il pensiero della differenza sessuale
La costola di Eva è femminista
di Benedetto Ippolito

Benedetto XVI non finisce mai di stupire. Nell’ultima Udienza dell’anno ha voluto dedicare una riflessione alla personalità più importante della teologia medievale: Pietro Lombardo. Non si tratta di un’originalità in senso assoluto. Ormai da mesi Ratzinger dedica l’appuntamento del mercoledì alle figure di rilievo del pensiero occidentale. Questa volta, però, è andato diritto al cuore della cristianità, e in particolare all’“imbarazzante” eredità scolastica. Egli ha spiegato, da subito e con semplicità, un fatto forse sconcertante per chi del medioevo sa poco, ossia le umili origini di Pietro Lombardo. Come altri grandi del passato egli ha potuto affermarsi e fronteggiare le difficoltà di classe, riuscendo perfino ad emergere brillantemente come un’autorità culturale di primo piano.
Ratzinger opportunamente ha inserito la biografia nel suo tempo, il 1100, un secolo nel quale Pietro Lombardo si è formato e poi imposto come erudito e abile sistematore impareggiabile della complessa eredità teologica dei Padri. Il suo capolavoro, intitolato “Libro delle Sentenze”, raccoglie tutti i temi possibili della teologia in chiare affermazioni da discutere e illustrare. La fortuna dell’opera, in sostanza commentata dai più imponenti pensatori del medioevo – da san Bonaventura, a san Tommaso, a Duns Scoto – la si deve a Papa Innocenzo III che la impose nel 1214 come testo di riferimento per i nascenti studi universitari. Le Sentenze non sono, tuttavia, una “summa” dogmatica e sterile, ma una vera e propria enciclopedia della fede cristiana tradizionale, adattata alle nuove esigenze educative dell’incipiente modernità.
Benedetto XVI si è concentrato brevemente su tre temi principali dell’opera di Pietro Lombardo: la figura umana e divina di Cristo, i sacramenti e la creazione della donna. Particolarmente suggestiva è stata, invero, quest’ultima raffinata segnatura, suggerita a proposito del ruolo umano e sociale del sesso femminile.
Il Pontefice lo ha indicato come un motivo d’interesse pure per una rinnovata lettura attuale della Genesi. Pietro Lombardo, infatti, attribuisce alla donna una qualità inestimabile. Nelle Sentenze dice espressamente che «veniva creata da Dio non una dominatrice e neppure una schiava dell’uomo, ma una sua compagna».
Possiamo confermare che finanche una lettura approfondita dei passi dell’autore conferma esattamente questa sorta di filosofia “femminista”, oggi divenuta molto nota grazie al movimento del cosiddetto “pensiero della differenza sessuale”. Non soltanto la donna non è assolutamente assorbita nell’uomo, in virtù di una distinzione di genere posta con la creazione di Eva dopo quella di Adamo, ma il derivare della femmina dalla “costola” del maschio non è riducibile mai né ad una sudditanza, né ad un’inferiorità. Dio, all’opposto, crea la donna proprio in seguito alla richiesta di Adamo di avere qualcuno di eguale con cui essere felice sulla terra.
Questo giudizio stupisce ancora oggi perché in ciò consiste l’audacia permanente della visione cristiana, la quale insiste appunto su una netta distinzione tra maschio e femmina, unita nondimeno ad una complementare parità dei sessi. Sostenere ciò vuol dire, tuttavia, che il maschile e il femminile sono generi naturali, ossia iscritti nell’essere stesso delle persone, e non invenzioni culturali costruibili ad arbitrio.
Alla fine, resta assai rilevante che Benedetto XVI abbia voluto rispolverare un tema così spinoso e di così alto valore politico, proprio perché erroneamente si è diffusa un’idea sbagliata del modo in cui culturalmente il Cristianesimo ha stimato la dignità della donna e il suo ruolo pubblico. Certo, la società del passato più dell’attuale era dominata dal maschilismo. Non per colpa del cristianesimo però, ma, suo malgrado, a causa dell’ignoranza e dell’ingiusta prevaricazione dei più forti verso le più deboli. Dunque, è il caso di dire, nulla di realmente nuovo sotto il sole.

mercoledì 30 dicembre 2009

l’Unità 30.12.09
Razzismo e politica
Carfagna come la bella addormentata
di Flore Murard-Yovanovitch

La ministra Carfagna sembra risvegliarsi questi giorni da un lungo sonno: scoprendo il Paese razzista, grazie alla testimonianza apparsa alcuni giorni fa su Repubblica, dello scrittore Pap Khouma, italiano di pelle nera che raccontava le multiple discriminazioni e pregiudizi di cui è vittima nella quotidianità. Khouma aveva descritto la difficile vita ad ostacoli di un cittadino regolare, con passaporto italiano, ma con la pelle «diversa». La ministra «scioccata», dichiarava guerra al razzismo: «siamo pronti a sanzionarlo» e ricordava la creazione dell’Unar (l’Ufficio nazionale contro le discriminazioni razziali del Dipartimento per le Pari Opportunità). Infatti, cara ministra, l’Italia, è da anni un Paese dove ci sono ripetute violenze e omicidi a sfondo razziale, da Abba a Navtej Singh Sidhu (la lista è lunga); un Paese dove, gli amministratori pubblici, ormai forti del «reato di immigrazione clandestina» emanano provvedimenti comunali dichiaratamente razzisti; dove, a Coccaglio, il sindaco osa proporre l’oscenità razziale di un «Bianco Natale», guest star il suo collega di governo Maroni; dove, a Milano, un bus rastrella i presunti clandestini, ad Alzano Lombardo i parcheggi sono riservati ai italiani e, ovunque, rom adulti e piccini sono sgomberati e cacciati. Quante scene del nuovo «Apartheid all’italiana» ci vorranno per risvegliare davvero la Carfagna? Non bisogna essere tanto esperti di storia per rendersi conto che...«c’è del marcio nel regno della Danimarca». Che questa dilagante xenofobia è ormai vera e propria malattia mentale collettiva. Al punto di spingere di nuovo l’Anpi, il 12 dicembre scorso, a richiamare il popolo italiano a unirsi contro i pericoli del razzismo, in ricordo delle vittime delle leggi razziali, e a scendere tutti in campo. È di nuovo tempo di resistenza. Ma forse la ministra Carfagna non legge i discorsi dell’ex partigiano Cossutta, le decine di rapporti dell’Arci, della Caritas-Migrantes e di tante associazioni sul territorio, che lanciano da mesi l’allarme xenofobia. Di sicuro lei preferisce (come nel suo discorso dopo l’omicidio Sanaa) richiamare ai facili valori italiani, che «presunte sacche d’immigrazione (leggasi: di fede musulmana) non avrebbero assimilato»; e gettare benzina sul fuoco della presunta invasione di «infedeli» e di altre paure dei suoi concittadini.
Fa piacere comunque sapere che la ministra Carfagna legge i giornali. Per accorgersi dove vive e che cosa significhi il suo ruolo istituzionale. Ben alzata, ministra. Ci inquieta solo una domanda: se l'altro giorno non si fosse fermata su quell'articolo, avrebbe scoperto che l’Italia è un Paese xenofobo, dove non è ancora accettato l’italiano cosiddetto «di colore»? E che ci vogliono più che mai nuove e ferme risoluzioni per condannare seriamente ed estirpare ogni erbaccia di istigazione all’odio razziale. ❖

Repubblica 30.12.09
Stretta di Khamenei contro i riformisti, Ahmadinejad attacca Usa e Israele: "Proteste nauseanti"
"A morte gli oppositori dell´Iran"
Il regime: nemici di Dio, vanno giustiziati. Arrestata sorella del Nobel Ebadi
di Omero Ciai

Retate, persecuzioni, arresti eccellenti, minacce di morte. Il regime iraniano assedia l´opposizione nel tentativo di fermare la rivolta che, per il presidente Ahmadinejad, è «solo una volgare messinscena organizzata da Stati Uniti e Israele». Ai domiciliari è finito ieri Mehdi Karroubi, uno dei leader delle proteste, mentre Nushin Ebadi, medico e sorella del premio Nobel Shirin Ebadi è stata incarcerata insieme ad altri dirigenti, giornalisti e attivisti per i diritti umani. Ma quel che più preoccupa sono i toni, assai minacciosi, usati dal governo nei riguardi dei dimostranti. Un religioso rappresentante della "Guida suprema", Ali Khamenei, ha invocato la pena di morte per i leader dell´opposizione, definiti «mohareb» (nemici di Dio), e pertanto da giustiziare secondo quanto previsto dalla sharia. «Coloro che stanno dietro all´attuale sedizione nel Paese - ha detto Abbas Vaez-Tabasi, un religioso che rapresenta Khamenei - sono nemici di Dio) e la legge è molto chiara in merito a quella che deve essere la punizione».
Lo scontro ha coinvolto anche i Paesi occidentali, in particolare la Gran Bretagna e gli Usa. Il ministro degli Esteri, Mottaki, ha detto che «se Londra non cesserà di dire stupidaggini sui recenti avvenimenti, riceverà un pugno in bocca». E una nota formale di protesta per le «interferenze» britanniche è stata consegnata all´ambasciatore a Teheran. A dare la misura del livello degli attacchi verbali in atto è un editoriale del direttore del più importante quotidiano conservatore iraniano, Keyhan, che ha accusato implicitamente il leader dell´opposizione Mir Hossein Moussavi di essere il mandante dell´uccisione di suo nipote Ali Moussavi, morto domenica scorsa. La polizia ha detto invece che l´uomo è stato ucciso da «terroristi» e che non partecipava nemmeno alle manifestazioni.
La tv del regime ha detto che ieri decine di migliaia di persone hanno partecipato a manifestazioni pro-governative in varie città dell´Iran e che una più grande è convocata per oggi a Teheran. Dopo le centinaia di arresti di questi giorni la domanda che tutti si pongono è se e quando verranno portati in prigione anche Moussavi e l´altro leader dell´opposizione, Mehdi Karrubi, che da ieri è agli arresti domiciliari: il presidente del Parlamento, Larijani, ha fatto una distinzione tra quelli che ha definito gli «anti-rivoluzionari» scesi in piazza domenica e i capi del cosiddetto ‘movimento verde´. Per i primi ha chiesto alla magistratura «le punizioni più severe». Per quanto riguarda Mussavi e Karroubi, pur senza nominarli, ha riconosciuto i loro meriti rivoluzionari del passato ma ha chiesto loro di «tornare in sé e prendere nettamente le distanze» dai manifestanti.
Nuovi scontri ieri hanno avuto come teatro l´Università della capitale nel corso dei quali sono rimasti feriti dieci studenti. Lo riferisce il sito web d´opposizione Peykeiran, secondo il quale alla manifestazione hanno partecipato centinaia di studenti che sono stati attaccati da un gruppo di basiji armati di bastoni e mazze. Alcuni giovani sarebbero stati anche arrestati e trasferiti nella sede del ministero dell´Intelligence di Teheran per essere interrogati. Sul fronte diplomatico la condanna del presidente francese, Sarkozy, che ha chiesto la liberazione dei militanti dell´opposizione arrestati mentre, secondo una anticipazione del Washington Post, il presidente Obama sta ridefinendo insieme agli alleati europei il progetto di nuove sanzioni per colpire la leadership del regime in seguito al convincimento che va messa da parte la politica della mano tesa lanciata dal presidente americano la scorsa primavera.

Repubblica 30.12.09
L’anatema della disperazione
di Guido Rampoldi

A sei mesi e mezzo dall´inizio delle proteste in Iran, un regime ormai terreo bolla i ribelli come «nemici di Dio» da sterminare. L´anatema di Abbas Vaes-Tarbasi, consigliere di Khamenei («Coloro che tirano le fila della sedizione sono nemici di Dio» e vanno giustiziati) rivela che la mischia è arrivata al punto di non ritorno.
Un punto oltre il quale nessun compromesso sembra più possibile, nessuna ritirata ancora praticabile: se questa è la lotta tra Dio e Satana, la teocrazia che chiama in causa l´Assoluto, e se ne fa scudo, non potrà mai venire a patti con la schiera degli Angeli ribelli. O loro o noi. Che l´Occidente si prepari: gli uni o gli altri precipiteranno nell´Inferno.
L´anatema lanciato dal vertice iraniano è una carta disperata.
Tradisce insicurezza, affanno, paura. Rimbomba come una fragorosa ammissione: le dimostrazioni di piazza ormai sono percepite come un´insidia mortale dalla Guida e dal blocco di potere che gli fa quadrato intorno. La stampa filo-governativa le definisce «sporadiche» (così il Teheran Times). Per Ahmadinejad sono «disgustose», una commediola ad uso e consumo di due platee straniere, l´americana e l´israeliana. Il governo torna ad agitare il sospetto che le vuole ispirate e manovrate da servizi segreti occidentali. E il ministro degli Esteri Mottaki arriva a promettere «uno schiaffo sulla bocca» alla Gran Bretagna, prima indiziata di interferenze occulte. Ma questo schiamazzo non riesce a nascondere una verità adesso nitida: dopo 26 settimane, migliaia di arresti, decine di assassinati, torturati, stuprati nelle celle, la protesta non arretra. E anzi, cresce nella determinazione, si estende, dilaga. Nei primi giorni si poteva credere che coinvolgesse soprattutto la gioventù dorata della Teheran nord, ragazzi con un biglietto aereo per Londra nella tasca dei jeans di marca. Ma alle dimostrazioni di tre giorni fa, in coincidenza con la più santa tra le feste sciite, l´Ashura, si sono viste sciami di donne velate e uomini dalle lunghe barbe pie.
E a scendere in piazza sono stati migliaia, nelle principali città iraniane, malgrado il governo avesse lasciato intendere che la repressione sarebbe stata feroce. Promessa mantenuta, lo conferma l´assassinio di un leader giovanile, doppiamente colpevole in quanto ribelle e nipote del candidato dell´opposizione nelle elezioni truccate di primavera (stando a testimoni, l´avrebbe ucciso a freddo, con un colpo di pistola, un uomo sceso da una macchina della polizia segreta). Eppure davanti alle cineprese, sovente chi nasconde il volto sono gli agenti, non più i dimostranti. Come se la brutalità sgangherata opposta alla sollevazione, e soprattutto la sua palese inefficacia, stiano creando disagio nello stesso apparato repressivo.
Sicuramente suscitano un´enorme apprensione nei settori della teocrazia iraniana cui non mancano ragioni per sospettare che Khamenei e Ahmadinejad ormai siano una minaccia alla sopravvivenza stessa del khomeinismo. Questa opposizione interna include almeno la metà dei Grand´Ayatollah, parte rilevante del basso clero, segmenti conservatori, segmenti riformisti, insomma un´area non coesa ma tutt´altro che priva di potere. Khamenei, che divenne Grand´Ayatollah in circostanze sospette, non può dichiararli mohareb, nemici del Dio sciita, perché almeno sei venerati sapienti, Grand´Ayatollah più autentici di lui, potrebbero smentirlo. E in alcuni gangli del sistema khomeinista, a cominciare dal nevralgico Consiglio degli Esperti, la teocrazia avversa a Khamenei è maggioritaria. Non ha mai dato prova di coraggio, nemmeno quando aveva un vasto consenso. E non controlla l´immenso apparato spionistico-repressivo, il vero punto di forza della Guida suprema. Ma quanto più la protesta cominciasse ad assumere una fisionomia anti-sistema, dunque anti-khomeinista, tanto più quel khomeinismo riformista o moderato dovrebbe sentire l´urgenza di tentare un´interdizione, o un colpo di mano, per detronizzare la Guida suprema e scongiurare una rivoluzione cui il sistema non sopravviverebbe.
L´Occidente è in grado di influire sulle sorti della mischia persiana? Finora Obama ha evitato tutti gli errori catastrofici commessi dal suo predecessore, a cominciare dai fin troppo espliciti incitamenti con cui i neocons mandarono allo sbaraglio gli universitari di Teheran. Le parole forti con le quali, tre giorni fa, il presidente americano ha condannato le violenze poliziesche hanno confermato all´Iran ribelle un sostegno morale, e non hanno offerto al regime pretesti per gridare alla cospirazione della Cia. Ma la crisi persiana sta accelerando, e forse in futuro non basterà più limitarsi ad evitare passi falsi.

Repubblica 30.12.09
La vendetta mirata del regime per fare il vuoto attorno ai leader
Medici, giornalisti, fondazioni, centri culturali: i miliziani vogliono chiudere il cerchio
Per Khamenei Rafsanjani è il prossimo "nemico" di cui bisogna sbarazzarsi
di Bijan Zarmandili

La vendetta del regime per il momento colpisce i nipoti, i cognati, i parenti più stretti e i collaboratori più fedeli dei leader dell´opposizione iraniana. Quasi un avvertimento in stile mafioso. E´ cominciato con il povero corpo di Seyed Ali Moussavi, il nipote di Mir Hosssein, trucidato nella piazza e il suo corpo trafugato dall´ospedale per non essere restituito ai familiari con l´intento di nascondere quale pallottola gli ha tolto la vita. Il giorno prima, era stato attaccato con particolare violenza l´ Hoseineh Jamaran, dove l´ex presidente Mohammad Khatami teneva un comizio a pochi passi dall´abitazione dei congiunti di Hashemi Rafsanjani.
Poi, un arresto dopo l´altro: Qurbad Behzadian-Nejad e Mohammad Baherian, Furuzandeh, i collaboratori di Moussavi; l´ayatollah riformista Hossein Mussavi Tabrizi, preso dai Pasdaran nella città santa di Qom; la madre e il fratello di Sohrab Arabi, il giovane ucciso lo scorso giugno durante le prime manifestazioni in seguito alle elezioni truffaldine; ancora: Ebrahim Yazdi, l´anziano ex primo ministro degli Esteri del governo iraniano all´indomani della rivoluzione del ´79, gli attivisti della Fondazione Baran, Morteza Haji e Hassan Rassul, vicini al leader riformista Khatami; più tardi, tre consiglieri di Moussavi e decine di giornalisti delle testate riformiste, tra cui Mashallah Shamsolvaezin, Mohammad Javad Sabri e l´attivista per i diritti umani Mansureh Shojai; l´elenco degli arrestati intanto si allungava con il nome di Shahpour Kazemi, il fratello della moglie di Moussavi, della signora Zahra Rahnavard, e con quello della sorella del premio Nobel per la pace, Nushin Ebadi, docente di Medicina all´Università di Teheran. Il cerchio si chiudeva nel frattempo intorno a uno dei leader dell´opposizione, Mahdi Karrubi, agli arresti domiciliari, secondo quanto ha affermato ieri il figlio.
Ci sono però quelli che non hanno un nome, giovani e vecchi, più di 1500 a giudizio dei siti dell´opposizione, che sono stati arrestati durante l´ "Ashura di sangue" e nei giorni successivi, di cui si perderà la traccia, come è già avvenuto in passato. Sono arresti che hanno colpito fino a oggi la periferia del movimento verde, ma non il suo cuore. E la ragione non va attribuita a cautela da parte del regime, ma più probabilmente al timore che l´arresto di Moussavi, una effettiva incarcerazione per Karrubi, oppure per Khatami, ma innanzitutto per Hashemi Rafsanjani, possa incendiare senza rimedio l´intero paese.
Quindi, partono avvertimenti, minacce più o meno velate, come quelle di ieri da parte dell´Ufficio dell´ayatollah Khamenei che condanna i leader dell´opposizione come "Moharreb", nemici di Dio e, quindi, esposti alla pena capitale.
Ma, più che Moussavi, Karrubi o Khatami, il vero problema è Hashemi Rafsanjani, il potente presidente dell´ Assemblea degli esperti, l´organo che elegge la Guida della rivoluzione, ma è in grado, anche se teoricamente, di costringerla alle dimissioni. Per molti settori del regime, a cominciare dallo stesso leader supremo Ali Khamenei, è lui il "nemico" da abbattere, è lui il "cuore", lo stratega, la mente e l´anima dell´opposizione di cui tocca sbarazzarsi. Così, si cerca di fare il vuoto intorno a Hashemi Rafsanjani, minacciare la figlia, mandare le squadre dei Basiji a pochi metri della sua casa e riempire le colonne di giornali come "Keyhan", organo degli ultraconservatori, con articoli che lo accusano di corruzione e di malefatte peggiori contro il governo e contro la Guida della rivoluzione.
Hashemi Rafsanjani resta tuttavia un "intoccabile" e la rabbia del regime viene scaricata contro i più deboli, gli uomini e le donne vicine ai leader riformisti e alle inermi persone che protestano contro Ahmadinejad. Più in là, magari, potrebbe toccare anche allo stesso Moussavi o a Khatami, ma il vero bersaglio resta Rafsanjani, l´anima astuta, l´eminenza grigia di un sistema il cui requiem potrebbe essere recitato soltanto da lui .

Repubblica 30.12.09
Povero il nostro paese governato da assassini
di Mohsen Makhmalbaf

Khamenei! Tu, più infame di Yazid (colui che uccise Hussein, nipote di Maometto nell´episodio più drammatico della storia dell´Islam sciita ndr.) hai vinto, adesso Yazid non ha più il primato per le stragi di Ashura. Tu lo hai superato. Non sono fiero di me stesso più, quando all´età di 17 anni ho combattuto contro lo Scià. Quando lui ha visto che il popolo non lo voleva, ha lasciato il Paese. Ma tu aspetti che tutta la gente lasci l´Iran.
Khamenei! Tu, più infame di Yazid, resisti ancora, uccidi più gente, stupra più persone! Volevi salvare Ahmadinejad, ma hai rovinato te stesso. (...)
Khamenei! Tu, più infame di Yazid, non sei Montazeri, che ha detto "No" al potere per mantenere la sua dignità (...). Tu non sei Khomeini, che aveva cacciato lo Scià e per qualche anno è stato il beniamino della gente, prima di andarsene. (...) Tu non sei nemmeno lo Scià, che quando ha capito che il popolo non lo voleva ha lasciato il trono e il paese per far capire alla popolazione che doveva aspettare tempi peggiori. Tu sei soltanto Yazid, perché sei capace di uccidere nel giorno di Ashura.
Khamenei! Tu, più infame di Yazid! Noi ti tireremo giù dal tuo trono. No, noi ti tireremo su dal tuo tombino, come quello di Saddam, ti butteremo la luce in faccia, ma non quella della torcia di un soldato americano. Sarà la torcia di uno studente che ti tirerà fuori dalla tua tana. Questo studente non ti ucciderà. Ti metterà in mostra nell´Ashura successivo, cosicché il popolo possa vedere la solitudine di Yazid.
(L´autore è un regista iraniano, autore tra l´altro di Viaggio a Kandhar. Traduzione di Ella Mohammadì)

Repubblica 30.12.09
Le due Parigi
La Francia prigioniera dell´altra Francia
Sei milioni di musulmani. Un dibattito sull´identità nazionale voluto dal presidente Sarkozy. Così la Francia s´interroga sul suo futuro
di Bernardo Valli

Sette parigini su dieci sono extracomunitari. Sei milioni di francesi sono musulmani. Una realtà multietnicache potrebbe essere una ricchezza e che invece spaventa: quasi la metà degli intervistati non vuole la costruzione di nuovi minareti. Mentre il presidente Sarkozy lanciail dibattito sulle "radici culturali" e viene accusatodi razzismo. Viaggio nell´Islam d´Oltralpe
Molti con sembianze straniere hanno cuori e cervelli francesi
L´esclusione accentua la già forte coscienza islamica degli immigrati
Gli islamofobi gonfiano le cifre degli arabi per spaventare l´opinione pubblica
Le origini sono diverse da quelle degli Usa, questa è un´antica nazione, seconda per età solo alla Cina; ma all´interno di una forte tradizione nazionale ha assorbito continue immigrazioni

PARIGI. Da anni, ormai più di trenta, vivo in bilico tra "due France". Una schiettamente europea, anche se venata da presenze magrebine e subsahariane, e un´altra di netto stampo multietnico, dove sembra siano rappresentati tutti i colori dell´umanità. A volte, in questa seconda realtà parigina, che ho quotidianamente sotto gli occhi, ho l´impressione di essere nel mondo di domani. È stimolante. La sua esuberanza provoca una vampata di adrenalina. Al punto che l´altra, etnicamente (quasi) uniforme, rischia di apparirmi sbiadita. Molti, lo so, dissentono.
Quel che penso li scandalizza. La Francia (l´Europa in generale) è traumatizzata dall´irruzione di una modernità multiculturale e multietnica. Nessuno l´aveva avvertita, preparata a questo brusco cambiamento dei paesaggi urbani e soprattutto alla violenza (io dico esuberanza) che quel mutamento esercita sulle quotidiane abitudini degli indigeni europei. Tu, mi dicono, sei un indigeno europeo che trasferisce la tua professione di voyeur nella vita di tutti i giorni: osservi, sfiori la nuova realtà, l´idealizzi, non ti ci immergi, non ne sei prigioniero, non la subisci. Sei un privilegiato perché non senti sulla tua pelle le ferite che essa infligge alle nostre società. Incasso e resto sulle mie posizioni.
So che le collettività dinamiche, quelle che contano, che creano, sono le più aperte e capaci di affrontare le difficili conseguenze. La Francia non si è formata come gli Stati Uniti d´America; è un´antica nazione, forse seconda per età soltanto alla Cina; ma nel quadro di una forte tradizione nazionale ha assorbito, come gli Stati Uniti, continue immigrazioni. Sono tante le nonne o bisnonne polacche, spagnole, italiane, e adesso non sono poche le famiglie miste, franco-arabe e franco-africane. Le discriminazioni ufficiali del passato hanno lasciato tracce, come scavano risentimenti le discriminazioni illegali ma reali del presente. Neppure gli immigrati europei sono stati risparmiati. Benché adesso venga ritenuta esemplare l´assimilazione degli italiani è stata lunga e dolorosa. Oggi l´integrazione economica e sociale è spesso bloccata. E di riflesso quella culturale si complica, perché l´esclusione economica e sociale accentua la già forte coscienza musulmana in cui molti immigrati si trincerano. Ma il meccanismo dell´integrazione, nonostante i guasti, malgrado la sua inefficienza, non può fermarsi perché la modernità multietnica e multiculturale è inarrestabile.
Non c´è una linea di demarcazione tra le due immagini parigine, tra le "due France", a me familiari. Ma c´è un muro invisibile, permeabile, che parte da Place Clichy e arriva a boulevard Barbès, percorrendo Pigalle e boulevard Rochechouart, e che avvolge il quartiere della Goutte-d´Or. E la Goutte-d´Or impone un momento di raccoglimento: là sono accampati da più di un secolo gli immigrati di turno. Prima i provinciali dell´Alvernia, della Bretagna, della Savoia, venuti a lavorare nei cantieri della Parigi delle grandi speculazioni edilizie denunciate da Zola e all´origine dell´accumulazione capitalistica e della Francia industriale. Con un secolo d´anticipo su calabresi, pugliesi e siciliani nella nostra penisola, alverni (auvergnats), bretoni e savoiardi hanno alimentato l´emigrazione interna francese. Poi sono arrivati belgi, tedeschi, spagnoli, italiani, polacchi. Più tardi sostituiti da cabili e altri magrebini (algerini, marocchini, tunisini), e da senegalesi, camerunesi, antillesi, che adesso abitano la Goutte-d´Or.
Un´edicolante di place Blanche dice che gli «algerini sono gli italiani d´oggi». Più ti inoltri a Nord, oltre quel muro invisibile, e più hai l´impressione di trovarti a Algeri, a Tunisi, a Duala. Se scendi invece verso l´Operà Garnier, in direzione della Senna, ti ritrovi nella Parigi di sempre.
Ed io abito su questo versante, a ridosso della frontiera immaginaria, nel Nono arrondissement, battezzato "Nuova Atene" nell´epoca in cui era popolato di scrittori e pittori. Nel quartiere non mancano i "bobos", i Bourgeois-bohème, come sono chiamati con ironia i borghesi, il cui ritratto social-politico è un mosaico di conformismo e di progressismo, di ecologia e di reminiscenze sessantottarde. I "bobos" votano di preferenza per Cohn-Bendit (Dany il rosso nel maggio ´68) e per l´ottimo sindaco socialista Delanoë. Anche grazie a loro l´Hotel de Ville, il municipio della capitale, è di sinistra, mentre l´Eliseo, il palazzo presidenziale, resta di destra.
Di "bobos" se ne incontrano in rue des Abbesses e dintorni. Ossia a Nord del muro immaginario. Sono un´avanguardia non tanto sparuta. Rue des Abbesses è una delle strade più vive di Parigi. La taglia rue Lepic che sale verso Montmarte. In quell´area, che per me si estende sino a piazza Charles Dullin, dove c´è il teatro de L´Atelier, si realizza un´integrazione ideale. Quello è un punto di incontro tra le "due France": dove, in particolare nelle sere di fine settimane, le coppie e le comitive sono un´espressione dei sacri e non sempre rispettati principi della République.
Assiepate attorno al banco della Mascotte, bar ristorante di rue des Abbesses, ci sono coppie che potrebbero essere algero-bordelesi, normanno-marocchine, ivoriano-bretoni, congo-parigine, provenzal-senegalesi. E cosi via. Dai colori dei volti si ha l´impressione che le comitive siano un riassunto della Terra intera. Non manca qualche cinese o vietnamita. Ma se uno vuole trovare la Cina, e immaginarsi a Shanghai, deve andare alla Porte d´Italie, all´altra estremità di Parigi. Lo spettacolo della Mascotte si ripete in tanti altri locali. Può apparire ingenuo, ma è difficile resistere alla tentazione di ricostruire una immagine ideale. Soggettiva ma non per questo irreale.
Circa sette abitanti su cento a Parigi sono stranieri. Ma sono in molti, con sembianze straniere, ad avere cuori e cervelli francesi. E naturalmente ad avere la nazionalità, innestata su un´origine magrebina, africana, asiatica. È spesso un retaggio dell´epoca coloniale. Le statistiche sono approssimative, poiché è proibito indagare sulla religione e l´etnia degli individui. La République è giusta e ambiziosa quando si tratta di principi. Non può essere altrimenti. Per questo la si deve amare, anche quando, nella realtà, la pratica scavalca i suoi sacri principi. Un cisalpino è colto spesso dall´invidia di fronte a una fermezza tanto razionale e sicura di sé da proseguire imperterrita anche quando è aggirata dalla realtà.
Come altre potenze imperiali, la Francia ha represso e discriminato proponendo al tempo stesso dei valori definiti, con ragione, universali. Ha insegnato ai sudditi coloniali la virtù della ribellione contro l´ingiustizia e ha represso le loro ribellioni contro le ingiustizie coloniali. Oggi la République, come il resto dell´Occidente, stenta a garantire l´uguaglianza degli stranieri davanti alle sue leggi e procedure, e la decretata neutralità davanti alle loro origini al momento dell´ingresso sul territorio nazionale.
Nel rispetto della laicità, che impedisce di catalogare i cittadini secondo la loro religione, le giuste leggi repubblicane non consentono di conoscere l´esatto numero dei musulmani in Francia. Si calcola che siano tra i cinque e i sei milioni. Forse meno. Gli islamofobi gonfiano le cifre per spaventare l´opinione pubblica. L´Islam è infatti "il" problema. Non a caso la forte presenza di musulmani domina di fatto un dibattito "sull´identità nazionale" voluto da Nicolas Sarkozy in persona, e accolto, stando ai sondaggi, da una Francia riluttante. Perplessa.
L´iniziativa accende polemiche che slittano spesso in insulti. Fioccano le accuse di razzismo. Si sostiene che il dibattito solleciti i sentimenti anti-islamici. Nelle riunioni organizzate dalle autorità spesso prevalgono, in effetti, gli sfoghi xenofobi. Il 12 novembre, a La Chapelle-en-Vercors, luogo storico della resistenza anti-nazista, presentando il dibattito sull´identità nazionale, Nicolas Sarkozy ha messo le mani avanti. Ha detto: «Si è francesi perché non ci si riconosce in una razza e ancor meno in una religione». Ma le sue parole non sono bastate e la polemica continua.
Il tema può apparire obsoleto in un´Europa che dovrebbe darsi un´identità europea. Ma quest´ultima lascia indifferenti o è impopolare. Nel migliore dei casi provocherebbe sbadigli. La nazione, fonte di tante tragedie, suscita invece - ancora - brividi, emozioni. Il tema dell´identità nazionale ricorre spesso nella moderna storia di Francia. Alain Finkielkraut, filosofo "antimoderno", non è stato il solo a evocare Ernest Renan: lo storico e filosofo che in una conferenza del 1882 respinse l´idea di una nazione basata sulla razza, perché «la storia umana differisce essenzialmente dalla zoologia».
Renan ha definito la nazione come un principio spirituale, come un´anima composta di due elementi: prima di tutto un ricco retaggio di ricordi, un´eredità di gloria e di rimpianti da condividere, e poi il consenso nel presente, il desiderio di continuare la vita in comune. La Francia di oggi, secondo Finkielkraut, sarebbe il teatro di due crisi: dell´eredità e del consenso.
Per quanto riguarda l´eredità dei ricordi e della gloria, un altro filosofo, il marxista Alain Badiou, ha precisato che lui l´accoglie, l´assume, quando si tratta della Rivoluzione francese, della Comune, dell´universalismo del ´700, della Resistenza e del maggio ´68. E non quando si tratta della Restaurazione, dei Versagliesi repressori della Comune, delle dottrine coloniali e razziste, di Pétain o di Sarkozy. Difficile dunque stabilire un´eredità comune. Ancora più difficile quando si tratta dei francesi musulmani.
Lo storico Benjamin Stora, autore di libri essenziali sull´Algeria, spiega come i giovani di famiglie di origine algerina, pur sentendosi francesi («in modo evidente, naturale e sicuro»), si pongono la questione delle loro radici.
Cercano di ricostruire la storia familiare, collettiva, la genealogia personale. La ricerca incontra e si scontra con la storia coloniale, con la segregazione, con il razzismo subiti dai loro nonni e bisnonni e imposti dalla Francia. Incontra anche l´Islam. Il quale è parte culturale di quel passato. Il ricorso alla memoria comune di Renan per definire l´identità nazionale è fragilizzato dal mosaico etnico e religioso creatosi nel frattempo nel paese.
La frantumata storia dei cittadini francesi nel XXI secolo non è il solo intralcio al dibattito voluto dal presidente della Repubblica, e lanciato, diretto da Eric Besson. Besson è alla testa di un nuovo ministero voluto da Sarkozy: il Ministero dell´immigrazione, dell´integrazione, dell´identità nazionale e dello sviluppo della solidarietà.
Il legame tra identità nazionale e immigrazione stabilito da Sarkozy non potrebbe essere più esplicito. Ufficiale. Trasferito nel dibattito quel legame provoca reazioni molto severe. In un manifesto firmato da ex primi ministri socialisti (Mauroy, Fabius, Jospin), attori (Isabelle Adjani, Jane Birkin), storici (Le Goff), imprenditori (Pierre Bergé della fondazione Yves Saint Laurent) e tanti altri esponenti della società parigina, si definisce senza mezzi termini "razzista" l´iniziativa Sarkozy-Besson. La quale tenderebbe a mettere in discussione la legittimità della presenza sul suolo nazionale di intere categorie della popolazione.
Il voto degli svizzeri contro la costruzione di minareti ha attizzato (secondo Jean Daniel, all´inizio non del tutto contrario all´iniziativa di Sarkozy) il populismo sciovinista in Francia. Perché ha ricordato che non tanto nascosto nel dibattito sull´identità nazionale c´è il problema dell´Islam: «il fantasma che si aggira in Europa». Di minareti in Francia ce ne sono una decina. E ci sono circa duemila moschee o sale di preghiera, spesso molto modeste. Quasi un francese su due (il 46 per cento) non vuole che si costruiscano altri minareti.
Meno numerosi (40 per cento) sono quelli contrari a un aumento, in generale, dei luoghi di culto musulmani. Ma sono almeno la metà (50 per cento) a non approvare il modo in cui si sviluppa il dibattito sull´identità nazionale.
Anche nel partito del presidente (l´Ump, Unione per un movimento popolare) c´è inquietudine per la piega che sta prendendo l´iniziativa di Sarkozy. Più che perplesso si è dichiarato l´ex primo ministro Alain Juppé, oggi sindaco di Bordeaux, il quale ha definito «detestabile» tutto ciò che può dividere e contrapporre le comunità.
Preoccupano i toni razzisti spesso dominanti nelle riunioni organizzate dai prefetti, mobilitati dal governo. Non sono in pochi a pensare che il dibattito abbia fini elettorali, in vista delle consultazioni regionali di primavera.
Sarebbe un modo per sottrarre al partito xenofobo (il Front National) uno dei suoi argomenti preferiti.

Repubblica 30.12.09
Fra i partecipanti a uno dei dibattiti voluti dalle Prefetture: solo pochi dalla parte degli immigrati
La rabbia della gente delle banlieue "Qui troppi stranieri, non è più casa nostra"
di Anais Ginori

LE RAINCY (PARIGI). «La Francia è come una donna: la devi amare, altrimenti la lasci». Alle undici di sera il dibattito sta per finire. Un signore in giacca blu, camicia bianca e cravatta rossa - i colori nazionali - ha finalmente potuto dire la sua. Prima di lui, è intervenuta una donna impellicciata. «Non riconosco più il mio paese - esclama - Quando salgo sull´autobus sono la sola bianca e non sento mai parlare francese. Una vergogna». Un uomo con baffi a manubrio annuisce convinto e fa la sua chiosa. «Gli immigrati hanno solo doveri».
Nel teatro di Le Raincy, banlieue "93", zona malfamata della periferia parigina, la domanda affissa all´ingresso era semplice. «Cosa significa essere francesi oggi?». Gli inviti sono stati distribuiti dalla Prefettura. Migliaia di cartoncini tricolori, in tutta la nazione, per altrettante assemblee cittadine. E´ «il grande di battito sull´Identità nazionale». In sala, questa sera, ci saranno 300 persone. Pubblico scelto e monocolore. Non è prevista opposizione in platea. Solo qualche fischio, da parte di alcune signore di sinistra, quando qualcuno parla di «valori gallici», in evidente sindrome da villaggio di Asterix.
La serata aveva una scaletta da talk show, applauso incluso. Ma di fronte alle pressioni dei giornalisti, gli organizzatori lasciano la parola al pubblico. Il sindaco di Le Raincy, Eric Raoult, comincia a sudare freddo. Il padrone di casa è lui. Un deputato del Front National prende la parola: «L´idea dell´identità nazionale è nostra, Sarkozy ce l´ha scippata». Raoult lo interrompe. «Non siamo qui per fare propaganda». Un vice-prefetto tenta di calmare i bollenti spiriti. «La banlieue parigina non è la Vandea - dice - Qui abbiamo 109 nazionalità l´integrazione è pratica quotidiana». Fischi.
Accanto al teatro c´è un centro di vaccinazione contro il virus H1N1. Anche questa febbre nazionalista - si augurano i pochi moderati in sala - passerà come un male di stagione. Si finisce con «Liberté, Egalité, Fraternité» e via tutti.

Repubblica 30.12.09
Il diario di Farouk kamikaze depresso
di Adriano Prosperi

Giovinezza, intelligenza, un padre ricchissimo, una laurea all´University College di Londra, l´esperienza di un ambiente occidentale imbevuto di liberalismo: questi i connotati sociologici di Umar Farouk Abdul Mutallab. Non c´è da stupirsi se, nonostante la denunzia del padre, Umar è riuscito a superare gli sbarramenti di sicurezza dell´aeroporto. Questo vuol dire che l´idea occidentale dell´attentatore suicida come un disperato che non ha nulla da perdere è fondamentalmente sbagliata.
Di più, vuol dire che la nostra stessa storia non ci ha insegnato nulla, che da noi l´immagine del nemico totale è disegnata dagli istinti viscerali di una società tanto ricca di beni di consumo quanto povera di conoscenza storica e di intelligenza umana. Non è da oggi ma da alcuni secoli che le polizie e le fantasie collettive del moderno mondo borghese hanno individuato nel diseredato il membro di una classe pericolosa. Ma il ragazzo che ci guarda dalla foto, quell´Umar che è diventato poi il terrorista pronto a morire e a far esplodere il volo 253 della Northwest Airlines, non era né povero di beni di consumo né privo di cultura occidentale. Oggi possiamo conoscere anche i suoi pensieri se è vero che sono suoi i messaggi rintracciati su un forum online dal Washington Post. Li avrebbe scritti tra i 19 e i 21 anni. Pensieri suoi e dei suoi anni: ma riconoscibili. Qualche volta sono appartenuti anche a noi. E apparterranno ancora ai ventenni che vivranno. Il linguaggio della giovinezza ha dei tratti universali: tale è quella confessione di solitudine e di smarrimento: «Non ho nessuno a cui chiedere consiglio, nessuno che mi sostenga, mi sento depresso e solo. Non so che fare. E poi penso che questo senso di solitudine mi possa portare altri problemi». Depresso e solo, a vent´anni. Chi non si è sentito così? Come scrisse Paul Nizan nell´indimenticabile prima riga di Aden-Arabia, a nessuno si deve permettere di dire che vent´anni è l´età più bella della vita. Paul Nizan trovò la risposta all´inquietudine immensa di quella sua giovinezza nella scelta di diventare comunista e di immergersi nell´inferno della seconda guerra mondiale come uomo votato alla morte. Dove si vede che ogni tempo e ogni cultura ha gli ingredienti adatti per tradurre il disagio di vivere e di essere giovani in scelte totali di vita e soprattutto di morte: scelte che poi gli altri leggeranno secondo coordinate politiche e ideologiche ma che sono prima di tutto scelte sacrificali prodotte dalla illimitata disponibilità di chi è giovane a morire purché gli se ne offra una buona ragione. A Umar Farouk la ragione l´ha offerta una religione vissuta con l´impazienza e il rigorismo del ventenne che chiede certezze di idee ai maestri e conforto di amicizia ai compagni. Piaceva a Pasolini il messaggio coranico che lo inquietava, figlio di una frase del Gesù dei cristiani: «Il profeta ha detto che essere religiosi è un compito leggero». Un fardello leggero che si rivelava poi anche per Umar radicalmente inquietante. E dunque «come trovare un equilibrio?».
L´equilibrio che Umar cercava era minacciato da quegli stessi privilegi di classe che lo portavano a vivere sulla linea di confine tra due mondi: una famiglia guadagnata alla cultura occidentale e il richiamo della purezza religiosa intravista in mezzo ai «veri amici» mussulmani incontrati in Egitto e nello Yemen. E, come un tempo nelle famiglie borghesi occidentali, la ribellione alla famiglia è stato il primo passo sulla via di abbracciare un´ideologia totale. Davanti alla prospettiva di una cena familiare, Umar scriveva all´amico islamico: «I miei genitori la pensano come qualsiasi straniero, che possiamo mangiare qualunque tipo di carne. Ho pensato che non dovrei mangiare con loro, ma temo che questo possa creare divisioni ed altri complicati problemi familiari». È un pensiero del dicembre 2005. Da lì in poi cessano le tracce scritte e possiamo solo immaginare il percorso del giovane che si imbarcherà sull´aereo con l´intenzione di morire e di uccidere. Ma ci sono fonti storiche capaci di spiegarci che non si tratta di perversioni indotte da ispirazioni religiose estranee alla nostra cultura. Sono fonti della cultura cristiana europea che hanno trovato la via del cuore dei giovani. Perché anche da noi sono stati i giovani a combattere l´assetto esistente: non i vecchi. I vecchi – scriveva Lodovico Alamanni nella Firenze di Machiavelli – «sono savii e de´ savi non si deve temere, perché non fanno mai novità». I giovani allora cercavano il rinnovamento del mondo e la salvezza della propria anima in un cristianesimo radicale che li spingeva a uccidere e a morire. Il mondo poteva essere cambiato solo con la forza: e il Vangelo garantiva che il cielo era dei violenti. Chi sfruttava quella violenza – i potenti di allora – cercava di frenarla e di incanalarla. La questione dell´obbligo cristiano di uccidere i tiranni fece versare molto inchiostro di teologi, pontefici e regnanti e impegnò la maggiore cultura politica dell´Europa lacerata dalle divisioni religiose tra ´500 e ´600. E questo perché allora giovani votati al martirio, educati nelle migliori scuole, tentavano di uccidere i re e i potenti del tempo: tentavano e qualche volta ci riuscivano. Chi può dimenticare l´angoscia religiosa del peccato che, unita all´insegnamento dei gesuiti, spinse nel 1594 un giovanissimo attentatore, il francese Jean Chastel, ad aggredire re Enrico IV per eliminare il re eretico ma soprattutto per guadagnarsi il perdono di un peccato inconfessabile? L´orrendo strazio della morte pubblica a cui fu condannato non impedì che altri seguissero il suo esempio. Ci volle una laicizzazione della politica e la creazione di una distanza di sicurezza tra stato e religione perché quelle fantasie religiose di salvezza e di morte regredissero: salvo riemergere in veste nuova nel modello del rivoluzionario ottocentesco alla Neciajev: un «uomo votato alla morte».

Repubblica 30.12.09
Un saggio dello storico Philippe Chenaux uscito in Francia
Chiesa e comunismo tra apertura e condanna
di Agostino Giovagnoli

L´irrigidimento cattolico si registra durante Pio XII: prima, i sovietici, rispetto a zar e ortodossi, erano giudicati il male minore, poi, con Roncalli, la linea fu più flessibile

Per molti anni, la Chiesa cattolica si è scontrata con il comunismo. Per questo, il recente libro di Philippe Chenaux – L´Eglise catholique et le communisme en Europe (1917-1898), Edition du Cerf, Paris 2009, pagg. 383, euro 30 – finisce per toccare gran parte della storia della Chiesa cattolica nel secolo breve. Opera di sintesi, il volume mostra anzitutto che la storia dell´anticomunismo cattolico non è stata né uniforme né lineare. Pur riconoscendo anche le novità introdotte dalla guerra fredda, ad esempio, Chenaux evidenzia soprattutto una fase centrale - collocabile tra il 1930 e il 1958 – nella parabola complessiva dell´anticomunismo cattolico. Prima del 1930, infatti, l´atteggiamento della S. Sede era stato possibilista: il crollo di un nemico secolare della Chiesa di Roma – lo zarismo legato all´ortodossia russa – aveva suscitato molte speranze e la S. Sede cercò prima la via di un´intesa con i sovietici e poi quella di un modus vivendi. Cadute le illusioni, invece, la politica vaticana è poi diventata intransigente nei confronti del comunismo, per tornare però, con l´elezione di Giovanni XXIII, ad una maggiore flessibilità mai più abbandonata.
La fase di massimo irrigidimento inizia con l´ascesa di Eugenio Pacelli alla carica di Segretario di Stato e si conclude con la fine del suo pontificato: l´acme dell´anticomunismo cattolico, cioè, coincide con il "trentennio" pacelliano. Pio XII, generalmente giudicato per il suo atteggiamento verso il nazismo e la persecuzione degli ebrei, fu in realtà a lungo impegnato soprattutto dalla questione comunista. Ma Chenaux non attribuisce a questo papa una personalità forte e rocciosa; al contrario, egli sottolinea i limiti di un diplomatico chiuso in schemi ottocenteschi e inadeguato davanti alle sfide della società di massa. In particolare, «la personalità di Pio XII, diviso tra la sua diffidenza quasi istintiva verso il comunismo ateo e l´inclinazione del diplomatico (...), non era fatta per chiarificare il dilemma» fra le diverse strategie possibili (p. 229). Ma in realtà, l´intera Chiesa pacelliana non fu un "blocco monolitico" (p. 155).
Negli anni trenta, ad esempio, intorno alla condanna del comunismo si scontrarono la linea del S. Uffizio, più dogmatica, e quella della Segreteria di Stato, più diplomatica. È una divisione analoga a quella che si delineò negli stessi anni a proposito del nazismo, come ha mostrato Hubert Wolf nel volume Pio XII e il Terzo Reich. Ma nel caso del comunismo, intervennero altri due interlocutori importanti. Da una parte, si mobilitò la Compagnia di Gesù che promosse una gigantesca Internazionale cattolica contro "la propaganda ateista di Mosca"; dall´altra, ci fu invece la proposta, sviluppata soprattutto dal cattolicesimo francese, di una lettura più articolata di questo fenomeno e, soprattutto, di un approccio basato sulla "concorrenza" piuttosto che sulla contrapposizione. Da queste posizioni diverse scaturirono, di volta in volta, esiti diversi. Come mostra ad esempio Chenaux, sulla base della documentazione inedita da lui consultata nell´Archivio Segreto Vaticano, nel 1937 con l´enciclica Divini Redemptoris Pio XI adottò la linea dei gesuiti, mentre con la scomunica del 1949 Pio XII seguì quella del S. Uffizio, che prevalse, come aveva già chiarito Andrea Riccardi ne Il Vaticano e Mosca, dopo i processi contro i vescovi cattolici in Europa Orientale.
Finito il secolo breve, il lungo scontro tra Chiesa e comunismo appare ormai lontano. Ma dopo il 1989, l´orologio della storia non è tornato a prima della Rivoluzione d´Ottobre. Lo scontro si sviluppò intorno a diverse questioni cruciali per il cattolicesimo contemporaneo – come azione missionaria, dialogo ecumenico, impegno per la pace, rapporto tra religione e cultura, sindacati e partiti cristiani, unificazione europea ecc. – molte delle quali appaiono ancora attuali. Alcune conseguenze di quello scontro all´interno dell´istituzione ecclesiastica si avvertono ancor oggi. Si ha, ad esempio, l´impressione che tra le vittime del comunismo ci sia stato anche il S. Uffizio: in prima linea nello scontro, ad opera soprattutto del card. Ottaviani, questa secolare istituzione è stata ridimensionata da Giovanni XXIII e dal Concilio. I successori di questo papa, poi, non l´hanno riabilitata, malgrado la persistenza del comunismo, e forse non è un caso che l´attuale papa sia l´ex Prefetto di una Congregazione della dottrina della Fede divenuta, dopo il Vaticano II, più propositiva che sanzionatoria e decisamente diversa dall´antica Inquisizione.