mercoledì 6 gennaio 2010

Repubblica 6.1.10
La leader radicale in campo nel Lazio: "Il centrosinistra si perde in un dibattito su alleanze e candidature "
E la Bonino lancia la sua sfida "È un´opportunità anche per il Pd"
"Stimo la Polverini, ma non è imbattibile. Bersani? Io parlo con tutti"
di Giovanna Vitale

ROMA - «Per il tango bisogna essere in due, altrimenti se il compagno non c´è finisce che una balla da sola». Ricorre a una battuta, Emma Bonino, per spiegare la decisione, «presa all´improvviso ieri sera», di non aspettare più «un invito da parte del Pd che non arrivava mai» e di metterci la faccia, la sua, nella sfida per la conquista del Lazio. Spinta dall´urgenza del calendario, «si vota fra due mesi, non l´anno prossimo», ma soprattutto dalle difficoltà di un centrosinistra «impegnato in un dibattito francamente patetico sulle alleanze e le candidature».
La Bonino spiazza tutti e corre da sola. Come mai?
«Abbiamo sempre detto che alle regionali avremmo presentato liste Bonino-Pannella in tutta Italia, da soli o in coalizione. Al principio abbiamo tentato di dar vita a un raggruppamento autonomo, raccogliendo l´anima verde, liberale e socialista, ma questa proposta non mi pare abbia riscosso grande entusiasmo».
Scusi, ma non era più logico cercare un accordo con il Pd? Oltre a essere il principale partito di centrosinistra, è quello in cui lei è stata eletta al Senato.
«E certo che sarebbe stato logico, peccato che del Pd si siano perse le tracce. Bersani l´abbiamo visto l´ultima volta al congresso radicale del 19 novembre, poi più nulla. Per settimane siamo rimasti senza interlocutori, come fossimo appestati, come se portare avanti le nostre idee per la legalità e lo Stato di diritto, che in questo Paese sono scomparsi, fosse una bestemmia».
Quindi il suo è stato un dispetto: non l´hanno cercata e perciò si è messa in proprio. Ma così non rischia di spaccare il centrosinistra e fare un favore al centrodestra?
«La mia pratica trentennale dimostra che io non funziono per dispetti ma per convinzioni. Piuttosto credo che per il Pd sostenere la mia candidatura sia una grande opportunità per uscire dal pantano: una proposta in grado di offrire un´alternativa liberale credibile a tutti quegli elettori, di destra e di sinistra, stufi della mancanza di democrazia in un Paese dove le leggi e le regole si cambiano in corso d´opera. Ma questo, ora, è un problema loro, non nostro».
Tuttavia se il Pd dovesse decidere di cogliere questa "opportunità", andrebbe a monte il tentativo di costruire una coalizione larga. I cattolici faticherebbero a votarla e difficilmente Casini convergerà su di lei.
«Guardi, io non ho mai posto veti, ma come ho detto più volte anche a Bersani gradirei non essere vetata. L´importante è fare alleanze limpide e trasparenti. Quanto ai cattolici, forse non mi voteranno i clericali. Chi ha una religiosità profonda si è sempre ritrovato nelle battaglie di laicità radicali: dal divorzio alla legge 40».
Si dice che la Polverini sia imbattibile, lo pensa anche lei?
«Conosco Renata e la stimo: abbiamo uno stile simile di far politica, non insultante, ma da qui a dire che è imbattibile ce ne corre».
Si dice che sia forte perché riesce a intercettare consensi anche a sinistra.
«Probabilmente come io li raccolgo a destra».
Se Zingaretti, incaricato da Bersani, dovesse mandarle un segnale, chiederle di correre per l´intera coalizione, cosa risponderebbe?
«Aspetto di vedere il segnale. Io parlo con molta disponibilità con tutti, non sempre avviene l´opposto».
Programma e squadra di governo, come saranno?
«Ne cominceremo a parlare da lunedì, partendo dalle nostre idee di sempre».
Ma almeno alle liste ci avrà pensato...
«Ci vorrei dentro Mina Welby, che è la bandiera del testamento biologico portata avanti da una donna profondamente cattolica, e Ilaria Cucchi: ha una forza e una compostezza che sono asset straordinari».
Claudio Velardi, l´ex dalemiano che cura la campagna della Polverini, dice che le è come la sora Camilla...
«È esattamente così. La Bonino è molto amata e molto stimata a patto che stia nel suo angolo. Ma io sono abituata a mettere la faccia su tutte le battaglie in cui credo, che si vincano o si perdano. Mia madre diceva: "Uno fa quel che deve, succeda quel che può". Quindi faccio un appello agli elettori: amatemi meno e votatemi di più, può darsi che convenga pure a voi».

Repubblica 6.1.10
Velardi, da aiutante di D´Alema a spin doctor della candidata Pdl

ROMA - Da Massimo D´Alema a Renata Polverini. Claudio Velardi, imprenditore ed editore, ex braccio destro di D´Alema a Palazzo Chigi nel 1998, guiderà la campagna elettorale della candidata di centrodestra alla Regione Lazio. «Sono un professionista» dice di sé Velardi che con la sua società "Reti" gestirà la comunicazione della Polverini ma, spiega, «accetterebbe anche un incarico da parte del centrosinistra e in un´altra regione, purché il candidato sia fuori dagli apparati e trasversale».

Repubblica 6.1.10
Quelle teorie antiscientifiche al vertice del Cnr
risponde Corrado Augias

Caro Augias, qualche informazione sulla controversa figura del vicepresidente del Cnr prof. De Mattei, che è anche presidente dell'Associazione Lepanto e in questa veste ha affermato in una intervista ("Zenit" 5 settembre 2006) che: «L'identità italiana non è solo genericamente cattolica, ma si definisce in funzione del Papato. La vocazione dell'Italia non è solo ospitare il Papato, ma servirlo, permettere al Papato di svolgere il suo ruolo universale. L'Italia è se stessa quando serve la Chiesa, l'Italia tradisce la propria identità, quando rifiuta la Chiesa. Alla universalità si oppone in questo caso il particolarismo, destinato ad avere il suo esito nella guerra civile, malattia plurisecolare dell'Italia. Non a caso Massimo Viglione definisce il Risorgimento come "una rivoluzione contro la millenaria identità degli italiani che ha provocato e tutt'oggi provoca un permanente stato latente di guerra civile"». Nel mondo delle idee chiunque è libero di sostenere ciò che vuole, ma uno storico non può affermare decentemente che da Porta Pia in qui è in corso uno stato latente di guerra civile. è una grossolanità storica.
Guido Martinotti

Nei giorni precedenti il Natale, il prof De Mattei è intervenuto in varie sedi (compresa un'intervista a 'Repubblica') per sostenere tesi singolari. Il Grand Canyon è stato scavato dal diluvio universale; la Terra non ha qualche miliardo, ma solo qualche milione di anni; i dinosauri sono scomparsi poche migliaia di anni fa; le specie viventi sono immutate dal momento della creazione; Adamo ed Eva sono i progenitori storici dell'umanità. Eccetera. Non si tratta di censurare delle idee ma semplicemente di chiedersi se il propugnatore di simili enunciazioni possa essere il vice presidente del Cnr massima istituzione pubblica di ricerca in Italia. Domanda che si sono poste anche Laura Margottini, sulla rivista "Science" e Katherine Harmon, su "Scientific American", facendo notare come le posizioni di De Mattei contrastino perfino con il Vaticano che ha escluso i creazionisti dal convegno di pochi mesi fa su Darwin all'Università Gregoriana di Roma. De Mattei ha tra l'altro dimostrato di non aver letto con la dovuta attenzione 'L'origine delle Specie' immaginando che Darwin abbia analizzato "la nascita e la trasformazione dell'universo da una materia primordiale", questione che il grande scienziato non ha affrontato limitandosi ad analizzare come la vita si è evoluta dopo la sua comparsa sulla Terra. L'estratto citato dal prof Martinotti dice chiaramente su quale terreno simili fantasie siano fiorite.

Repubblica 6.1.10
Un libro ricostruisce la figura del grande imperatore che suscitò amore e odio
Il mito di Federico II tra storia e leggenda
di Agostino Paravicini Bagliani

I suoi nemici lo dipinsero come l´Anticristo, essere demoniaco e maledetto. I sostenitori crearono un´immagine perfetta: principe onnipotente e amico della pace

Con soltanto la cultura politica contemporanea, anche il Medioevo conobbe i toni sferzanti della polemica, in particolare quando erano in gioco le grandi sovranità, il papato e l´impero. «E vidi salir dal mare una bestia che aveva sulle teste nomi di bestemmia»: iniziava così con le parole dell´Apocalisse un testo scritto da un cardinale, Raniero da Viterbo, destinato a demonizzare l´imperatore svevo Federico II (1194-1250). Il quale fu sovente dipinto come l´Anticristo, un essere fra il soprannaturale e il demoniaco e al quale si attribuivano gli epiteti biblici più terribili, quali "dragone", "scorpione" o "martello del mondo". Lo si accusò di avere affermato che Cristo, Mosé e Maometto erano tre impostori che avevano ingannato il mondo. Più di trent´anni dopo la sua morte, il francescano Salimbene non esiterà a demonizzare la memoria di «un uomo pestifero e maledetto, scismatico, eretico ed epicureo, corruttore di tutta la terra, giacché seminò il seme della divisione e della discordia nelle città d´Italia». Persino la sua nascita, a Iesi, fu motivo di sospetti, per il fatto che sua madre, Costanza d´Altavilla (figlia di Ruggero II di Sicilia) «era molto anziana quando l´imperatore Enrico VI la sposò» e per questo motivo «si sparse la voce che, dopo aver simulato la gravidanza, se lo pose sotto le vesti per farlo credere partorito da lei».
Nessun altro imperatore medievale fu scomunicato due volte (1227, 1239) e deposto da un concilio presieduto da papa Innocenzo IV (Lione, 1245). Come spiega Wolfgang Stürner, autore di un´ampia e chiara biografia di Federico II ora disponibile in traduzione italiana (Federico II e l´apogeo dell´Impero, presentazione di Ortensio Zecchino, Salerno Editrice, euro 84), le ragioni di tale accanimento erano anzitutto di ordine politico: Federico II si era reso colpevole di avere riunito nella sua persona la dignità di imperatore e quella di re di Sicilia, accerchiando così lo Stato della Chiesa a nord con le terre dell´Impero e a sud con il Regno. Ma la Chiesa gli rinfacciava ben altre colpe. Invece di combattere la crociata in Terra Santa, egli «fece pace con i Saraceni senza alcun vantaggio per i Cristiani. E per di più fece invocare il nome di Maometto pubblicamente nel tempio dei Signore» (Salimbene). Di qui anche l´accusa secondo cui l´imperatore aveva un harem. Accuse che, sempre secondo Salimbene, lo resero «inasprito d´animo, come un´orsa inferocita nel bosco perché le hanno rapito i cuccioli».
A questa visione demoniaca dell´imperatore, i suoi sostenitori riuscirono a contrapporre un´immagine quanto mai positiva, facendo ad esempio nascere alla sua morte la leggenda di un Federico che "vive e non vive", riprendendo il detto della Sibilla. Morto solo in apparenza, continuava a vivere di nascosto, forse nell´Etna, per tornare un giorno a mostrarsi. Anche in vita Federico II era stato avvicinato a Cristo. Per Pier delle Vigne, egli era «il principe onnipotente descritto da Ezechiele e Geremia, il signore del mondo, amico della pace, fondatore del diritto, quintessenza del bene e di tutte le virtù, dominatore degli elementi».
All´immagine storica di Federico II quale sovrano ideale contribuì molto la sua curiosità intellettuale. Ed è vero che ai misteri della natura Federico II rivolse un´attenzione senza pari, intrattenendo contatti con il più grande matematico dell´epoca, Leonardo Fibonacci da Pisa, e ponendo domande insolite al filosofo arabo Ibn Sab´in o al suo astrologo di corte Michele Scoto: se si poteva localizzare la residenza di Dio, il paradiso, il purgatorio e l´inferno; come comprendere l´origine delle acque dolci e di quelle salate, i vulcani e così via. Non aveva limiti il suo amore per la caccia con i falconi - una delle tante debolezze che gli verranno rinfacciate dal papato - che lo indusse a far tradurre dal suo filosofo di corte, Teodoro, un trattato arabo di falconeria, il Moamin, che rielaborò nel suo libro di falconeria rimasto celebre. La natura cosmopolita della Palermo della sua gioventù lo aveva avvicinato ai poeti della celebre scuola siciliana e gli aveva permesso di circondarsi anche di intellettuali ebrei (Giacobbe Anatoli). Verso gli ebrei manifestò una certa apertura mentale quando (1236) chiese delle prove - una domanda veramente insolita per l´epoca - a coloro che avevano accusato gli ebrei di Fulda di avere ucciso dei ragazzi cristiani.

martedì 5 gennaio 2010

Liberazione 5.1.10
Una corrente di pensiero radicata nella cultura occidentale convenzionale
L'abolizionismo penale è possibile, ora e qui
di Vincenzo Ruggiero

L'abolizionismo è stato paragonato a un vascello carico di esplosivo che naviga nei mari della giustizia penale. Non sono d'accordo. In maniera molto semplice l'abolizionismo, direi piuttosto, è una corrente di pensiero che considera il sistema della giustizia criminale, nel suo complesso, come uno dei maggiori problemi sociali. Rassicuriamoci, quindi, e lasciamo in disparte, per altre occasioni, le immagini di deflagrazione. Forme di abolizionismo penale sono già in funzione, ad esempio, tutte le volte che alcuni segmenti dell'amministrazione centralizzata della giustizia vengono sostituiti da modalità decentrate, autonome, di regolazione dei conflitti. E va chiarito immediatamente che gli autori più noti comunemente associati con questa scuola di pensiero non hanno mai propugnato la chiusura di tutte le carceri domani o dopodomani. L'abolizionismo non è un semplice programma di smantellamento dell'esistente sistema punitivo, un programma che del resto troverebbe non pochi alleati tra chi prova vergogna di fronte alla stragrande maggioranza degli istituti di pena nel mondo. L'abolizionismo consiste in un approccio, una prospettiva, una metodologia, insomma in un modo diverso di guardare al crimine, alla legge e alla punizione. Osservando i presupposti e studiando le matrici culturali dalle quali prende vita, si può rimanere addirittura imbarazzati nello scoprire che una simile ‘esplosiva' corrente di pensiero si colloca comodamente nella cultura occidentale convenzionale, che guida i comportamenti di ognuno e che ognuno potrebbe mobilitare a giustificazione della propria condotta. Cominciamo da un modo ‘diverso' di guardare al crimine. Gli abolizionisti sono consapevoli che alcuni atti generano danno, ma che non tutti gli atti dannosi vengono ritenuti criminali. A loro modo di vedere, lo sviluppo delle società porta con sé delle forme di patologia e i sistemi non possono fiorire se alcuni settori che ne sono parte mostrano evidenti segni di fallimento. E' questa una nozione aristotelica, che ribadisce un'idea condivisa da molti, vale a dire che l'ineguaglianza crescente crea ostacoli alla realizzazione del bene comune. Non sento deflagrazioni in questa idea. Sento piuttosto una critica alle elaborazioni platoniane secondo cui il bene e il male si distinguono in quanto chi pratica il primo dimostra di ‘ignorare' i precetti della ‘vita buona', chi persegue il secondo rivela di conoscerne i principi fondamentali. Gli abolizionisti, al contrario, suggeriscono che l'ignoranza caratterizza le istituzioni della giustizia criminale, nel senso che i professionisti che la popolano non conoscono le circostanze, le interazioni e le dinamiche che producono le situazioni problematiche definite in fretta come crimini. Vedo anche molto Rousseau in questo suggerimento, segnatamente il Rousseau critico della concorrenza che genera ‘inganni violenti', e che al declino della moralità pubblica fa corrispondere la crescita degli strumenti artificiali del controllo delle condotte. Nel discorso abolizionista c'è posto addirittura per Hegel, il quale vede gli individui, isolati e competitivi, allontanarsi dalla sfera pubblica e smarrire ogni sentimento di obbligo verso gli altri. La patologia che ne risulta porta ognuno a delimitare la propria area intima e a delegare alle autorità la soluzione dei problemi sociali. Una volta designati i guardiani della moralità, gli individui possono curarsi dei propri interessi e permettere nell'indifferenza che il successo venga premiato e il fallimento severamente castigato. Veniamo all'universo sacro della legge. L'equità giuridica può essere definita come il diritto di ognuno a mobilitare le istituzioni statali per la protezione e la salvaguardia del proprio benessere. In altri termini, la legge potrebbe essere interpretata come diritto alla mutua coercizione. Chi non rispetta la libertà degli altri nega a costoro lo statuto di persone libere. La legge, in simili casi, interverrebbe per negare questo diniego e per restaurare la situazione iniziale. Gli abolizionisti rispondono che una simile astrazione potrebbe soltanto applicarsi in società nelle quali eguale accesso alla legge viene accompagnato da eguale accesso alle risorse. Nelle società che conosciamo, al contrario, la legge non fa altro che negare la libertà a coloro che ne posseggono veramente poca, i quali vengono così doppiamente colpiti. Leggo in questa argomentazione un pensiero consolidato nella cultura occidentale, vale a dire un'idea di conflitto e una nozione distributiva della giustizia che attraversano tutta la filosofia e il pensiero sociologico che conosco, da Weber a Durkheim, da Marx a Galbraith, da Simmel a Bauman. Abbiamo, insomma, numerose coordinate entro le quali collocare il pensiero abolizionista, e se esaminiamo l'analisi abolizionista della punizione le coordinate si affollano, si sovrappongono, al punto che ognuno può scegliere quelle più vicine alla propria sensibilità. Abbiamo in Louk Hulsman un abolizionismo che riflette il suo Cristianesimo sociale, che si ispira all'ecumenismo di San Francesco, ma anche alle sacre scritture, al Vangelo di Luca e Marco, e particolarmente al rivoluzionario Paolo, il quale nega ogni validità alla legge umana, quella divina essendo sufficiente a farci discernere il bene collettivo dal benessere dei pochi. In Hulsman troviamo l'eco della teologia radicale e della teologia della liberazione, ma anche dell'anarchismo di Bakunin, secondo il quale la realizzazione della libertà richiede azione condotta religiosamente. Tolstoy e Hugo fanno capolino nelle sue argomentazioni, specialmente quando vengono riferite ai temi della redenzione e del castigo, dell'autogoverno, la misericordia e la pietà. Questo sincretismo caratterizza anche il pensiero di Thomas Mathiesen, il quale si schiera a favore di una sociologia del diritto pluralista e interdisciplinare. Allora, i suoi referenti sono Marx e Engels, ma i suoi compagni di strada sono i detenuti e gli emarginati, che il marxismo ortodosso escluderebbe dai processi di emancipazione e mutamento sociale. Da eretico, Mathiesen crede che la ricerca sociale debba coinvolgere i soggetti che la ispirano, quegli attori coinvolti nel conflitto che, attraverso la conoscenza acquisita, sono in grado di perpetuare la conflittualità collettiva. Pensiamo infine a Nils Christie, che raccomanda a chiunque si accinga a comporre un testo scritto di avere in mente la propria zia preferita. Ebbene, Kropotkin raccomandava altrettanto, chiedendo ai militanti politici di tenere sempre in mente a chi erano destinati i loro opuscoli. La critica mossa da Christie verso i professionisti della legge e della pena ricorda le invettive anarchiche contro la proliferazione delle leggi, che abituano gli individui alla delega e ne atrofizzano la capacità di giudizio etico e politico. Il suo apprezzamento del conflitto come ‘risorsa da tenere a cuore' rimanda all'idea secondo cui i problemi possono essere risolti solo se chi vi è coinvolto possiede risorse autonome sufficienti a risolverli. Dobbiamo solo rallegrarci se troviamo difficoltà nel collocare l'abolizionismo in un quadro di riferimento unico e coerente in termini politici, sociologici o filosofici. I suoi tratti sono inclusivi, non esclusivi, permettendo a chiunque sia dotato di spirito critico di individuarvi almeno un aspetto del proprio pensiero.

Vincenzo Ruggiero è professore di sociologia presso la Middlesex University di Londra. Il suo prossimo libro, Penal Abolitionism: A Celebration verrà pubblicato quest'anno da Oxford University Press.


Repubblica 5.1.10
Ricordando la Milano di Bettino
di Giorgio Bocca

NELLA Milano craxiana «dei nani e delle ballerine» come la chiamava il socialista di Bari Rino Formica chiesi a un dirigente socialista: «Ma perché i capi del partito credono che i principi, le idee contino zero e il denaro tutto?». Mi rispose: «Perché il partito craxiano è nato come un clan di giovani rampanti, convinti che la politica è questo, che la politica si fa così, con i soldi necessari al commercio delle tessere, con gli assessorati con cui si fanno gli affari. C´è anche il desiderio di autonomia, il forte anticomunismo, ma come modo per aver mano libera nel fare la politica degli affari. Ogni fine settimana Craxi lascia a Roma le cure di governo e viene a Milano per la riunione in un ristorante dove si parla unicamente di affari».
Nella Milano degli anni ´80 Craxi è il capo, ma il padrino del gruppo è Antonio Natali, il vero maestro del nuovo corso, della politica come affare per mezzo degli affari. La sua lezione ai giovani dirigenti è: «Fan tutti così. Cerchiamo di farlo meglio degli altri».
Gli affari trasformati in ideologia, come via naturale al potere, che prima rispondono ai desideri dei funzionari di partito poveri che hanno fatto sin lì una vita di stenti e poi diventano assuefazione. Il craxismo milanese è una combinazione paradossale ma realista e aggressiva dei nuovi ceti borghesi emergenti nella Milano del miracolo economico, la nuova borghesia del terziario, della moda, dei pubblicitari, degli imprenditori edili che troverà in Silvio Berlusconi il gemello naturale di Bettino, che vorrà Bettino come testimone di nozze, che si consulterà con Bettino nel camper durante i congressi del partito.
Un gemellaggio che continuerà dopo la fine di Craxi, anche con il passaggio nel partito berlusconiano dei più influenti quadri socialisti. L´aspetto paradossale del socialismo milanese è che si dice figlio di Pietro Nenni e sempre più lontano dal suo idealismo romantico e sempre più simile alla borghesia mercadora di Milano, che continua a dire di avere «il cuore in mano» ma come il giovane Berlusconi è pronta a lanciarsi nei nuovi promettenti pascoli della pubblicità e dell´edilizia. E questo spiega come un sindaco della borghesia miliardaria come la Moratti pensa oggi di intestare a Craxi una via o un giardino milanesi perché sa che buona parte dei craxiani hanno trovato rifugio nel partito di Silvio.
Un´altra affinità elettiva fra il socialismo craxiano e il liberismo berlusconiano, entrambi con il cuore in mano, è di procedere subito alla eliminazione di quanti si oppongono al nuovo corso. Il compagno Giulio Polotti, un sindacalista vecchio stampo dice: «Mi hanno tolto le preferenze perché come assessore facevo fare le scuole e non le discoteche, perché dicevo che la retorica socialdemocratica era superata ma sempre meglio della spocchia e dei lussi, sempre meglio dei milioni spesi in fiori e in banchetti ai congressi». Viene silurato anche Emanuele Tortoreto, già assessore al decentramento: «Vada a fare il professore a Bari che è meglio per tutti». E all´architetto Costantino che è alla direzione delle Case Popolari: «Bravo Costantino, in una intervista al "Corriere", hai detto che il tuo istituto non ha mai truccato un appalto. Sei un compagno simpatico, ma sei anche un gran pirla». E quando l´assessore all´Urbanistica Armanini viene denunciato per aver preso delle tangenti per i posti al cimitero lo festeggiano: finalmente anche tu hai capito come si fa politica.
L´assuefazione al furto è tale che non ci si accontentava di rubare in grande con le grandi dazioni, le grandi tangenti, ma si arriva fino all´argent de poche, alle spese correnti. Craxi occupa un ufficio in piazza Duomo, il sito più caro di Milano, 300 metri quadrati, senza contare gli uffici sottostanti della moglie e del cognato, pagando in affitto al Comune, che non è proprietà del partito, 40 milioni l´anno, quanto a dire che ritiene normale uno sconto di decine di milioni.
Per anni la fedele segretaria Vincenza Tomaselli viene pagata dall´ufficio di presidenza del Comune. La casa editrice Sugarco, sovvenzionata dal partito, pubblica i saggi politici e ideologici del segretario che vendono poche centinaia di copie. La benzina della sua auto è pagata dal Comune. Gli abiti dei grandi stilisti sono regalati. In questo clima l´amministrazione della città spende e spande: a Milano i sacchetti per le immondizie sono i più cari del mondo, per una celebrazione del primo volo dalla Malpensa si spende una follia, i dirigenti del partito se arrivano a Ginevra alloggiano all´Hotel Richmond, e a Zurigo al Suisse, alberghi di lusso. Hanno trovato la famosa terza via dei naviganti, il passaggio a Nord Ovest.
I procacciatori di tangenti hanno case di lusso, hanno scoperto che la lotta contro il perfido comunismo può rendere fortune. Un assessore di Brescia, vittima del giustizialismo, per tornare a casa da Roma, affitta un aereo privato. «Non si rendevano più conto di rubare», ha osservato il repubblicano De Angelis: «Vivevano in un loro mondo fatato dove le tangenti funzionavano come un orologio di precisione, la direzione fingeva di non vedere i piccoli furti della base per non guastare il consenso generale. Nessuno si interrogava sul futuro, tutti si rassicuravano a vicenda». «È dal congresso di Palermo nel 1981 - ricorda un socialista - che si è passati all´acquisto massiccio delle tessere e che la selezione dei dirigenti è cambiata radicalmente».
In questa selezione alla rovescia brilla il caso dell´ingegnere Mario Chiesa, direttore socialista del Pio Albergo Trivulzio, arrestato mentre cerca di gettare nel water dell´ufficio fasci di banconote dell´ultima dazione incassata. «Io ero esitante a accettare la direzione del Trivulzio - dirà - ma il segretario regionale Loris Zaffra mi disse: "Mario, mai dimettersi e mai rinunciare a un posto, prendi il Trivulzio e poi ce lo vendiamo bene magari lo barattiamo con qualcosa di meglio"». Chiesa capisce di aver trovato la fortuna la sera in cui i Craxi lo invitano a cena al Saint Andrew´s a Milano. C´è Bettino e c´è Mike Bongiorno, c´è la signora Craxi che ha bisogno di una sede per una sua associazione benefica.
Mario Chiesa è pronto: «Chiamo il contadino che ha un regolare contratto di affitto con una delle cascine del Trivulzio e lo convinco a cederne la metà». Per Chiesa la politica vuol dire arricchirsi, che cosa sia il socialismo non lo sa, ma cosa sia essere un assessore potente, questo lo sa benissimo.
Ricorda uno dei fornitori del Trivulzio: «I vecchi dell´ospizio venivano trattati bene perché la direzione doveva rubare sulle forniture. Noi fornitori venivamo trattati come dei servi, insultati e ricattati». Il socialismo craxiano, la «Milano da bere», sono stati anche questo. Ma in politica si dimentica presto.

Repubblica 5.1.10
Il militante di sinistra: magari voto Polverini. E spunta la Bonino
di gio.vi.

ROMA - È stata una lettera pubblicata ieri sull´Unità a dar voce alla tentazione di tanti elettori del Pd che, nel Lazio, non ha ancora definito i confini della coalizione né il candidato governatore.
«Sono un quasi-quasi-polverini», esordisce Andrea Mazzoli nella sua missiva al quotidiano democratico. «Ho 64 anni - si presenta - nel 1960 mi sono iscritto alla Fgci, per i vent´anni che ho insegnato sono stato responsabile della Cgil, sono iscritto al Pd, ho fatto il ´68, ho sempre votato Pci (e derivati)». Ebbene, scrive Andrea, lui potrebbe scegliere Polverini non solo perché «rappresenta una destra intelligente» e «mette al centro dei suoi interventi i bisogni dei lavoratori». Ma anche perché «al momento non si sa per chi altri dovrei votare. Ed il comportamento del Pd non è certo da partito di opposizione che lavora per vincerle le elezioni. Possibile che il caso Rutelli-Alemanno non abbia insegnato nulla?». Tanto più che «per il Lazio», conclude, «sono apparsi ad un certo punto i nomi prima di Emma Bonino e poi, più di recente, di Loretta Napoleoni: ecco queste sì che le voterei, altro che quasi-quasi-polverini». Un appello, più che una dichiarazione di resa. Che interpella direttamente il segretario regionale del Pd. Proprio nel giorno in cui i Radicali annunciano la corsa "solitaria" di Emma Bonino. «Chiedo agli elettori di avere pazienza e fiducia - replica Alessandro Mazzoli -. Il centrodestra, calando dall´alto la Polverini, sostenuta tra l´altro dalla Destra di Storace, ha fatto il percorso opposto al nostro. Noi abbiamo deciso di lavorare sui programmi per costruire un´alleanza larga che vada dall´Udc alla sinistra per poi individuare una candidatura forte e autorevole. Perciò chiedo uno sforzo: badare più alla sostanza che all´immagine».

Repubblica 5.1.10
Nuova svolta dell’amministrazione Obama un transessuale nominato come consulente
di a.aq.

NEW YORK - Non avrà un compito facile, Amanda Simpson, ultima arrivata nell´amministrazione di Barack Obama. Prima di tutto perché dovrà cercare di capire che cosa la sua carica significherà mai, Consigliere tecnico anziano del ministero del commercio. E poi perché non sarà facile togliersi di dosso quell´etichetta di «transessuale di governo».
Per carità, adesso è lei stessa a sbandierarla, sottolineando - maliziosamente? - l´onore di essere stata nominata «tra i primi transgender del governo federale» (e quali sarebbero mai gli altri di cui non abbiamo avuto notizia?). Però è stato il suo stesso datore di lavoro a salire alla Casa Bianca facendo il possibile per non essere identificato per quello che è (un afroamericano) ma per quello che fa (che poi è ciò che i suoi nemici non gli perdonano davvero). Ma Amanda, che è un esponente del Centro nazionale per l´eguaglianza dei transessuali, ha fatto dell´outing una missione. Obama avrebbe già nominato nell´amministrazione un centinaio di persone apertamente gay, e anche se non si è dichiarato a favore dei matrimoni tra lo stesso sesso ha promesso di superare nell´esercito la vecchia dottrina del «don´t ask, don´t tell», non chiedere e non dire, favorendo una più aperta «cittadinanza».
Simpson non è nuova alle cronache politiche. Ha tentato senza successo di correre per la Camera dell´Arizona, lo stato di Janet Napolitano, il ministro che nel 2002 negò pubblicamente di essere lesbica, ed è stata delegata per Hillary Clinton nella convention democratica che invece incoronò Barack. Ex pilota di aerei da guerra, è stata anche vicepresidente di Raytheon, il gigante dei missili che opera anche nel campo oggi drammaticamente d´attualità della sicurezza aerea: particolare che, vista la sua nuova carica ai vertici del commercio, forse potrebbe dare più scandalo della sua sessualità.

Repubblica 5.1.10
Galileo
Ambiguità e compromessi di un grande scienziato
di Piergiorgio Odifreddi

Due libri spiegano, tra atti e delibere del 1600, il caso dello studioso e il suo rapporto con la Chiesa
Ci sono le lettere teologiche che mostrano lo spirito e la delicatezza della vicenda
Gli scritti indicano come certe letture siano state rese possibili dal suo atteggiamento

Nell´autunno del 1609 Galileo rivolse al cielo il cannocchiale, e iniziò una serie di osservazioni che sfociarono il 7 gennaio 1610 nella scoperta dei satelliti di Giove, e il successivo 13 marzo nella pubblicazione del Sidereus Nuncius. Per celebrare questi avvenimenti, che accaddero esattamente quattrocento anni fa e cambiarono la storia della scienza, il 2009 è stato proclamato Anno Mondiale dell´Astronomia. E, come si può immaginare, l´occasione è stata propizia per una rivisitazione del pensiero e delle vicende del nostro più famoso scienziato: in particolare, per tornare a meditare sul difficile rapporto fra scienza e fede, di cui il processo a Galileo costituisce sicuramente l´episodio più emblematico e significativo.
Se, dopo quattro secoli, le relazioni fra i magisteri scientifico e religioso fossero ormai normalizzate, il dibattito sarebbe puramente accademico. Ma che così non sia, è dimostrato dalla maggiore e più ufficiale manifestazione tenutasi lo scorso anno: il convegno "Il caso Galileo. Una rilettura storica, filosofica, teologica", inaugurato dal Presidente della Repubblica il 26 maggio in Santa Croce a Firenze, dove Galileo è sepolto, proseguito dal 27 al 29 al Palazzo dei Congressi, e conclusosi il 30 alla villa Il Gioiello di Arcetri, dove Galileo passò gli ultimi otto anni della sua vita agli arresti domiciliari.
Fin qui, tutto bene. Ma molte strane anomalie saltano all´occhio, non appena si viene a sapere, anzitutto, che a organizzare il convegno è stato l´Istituto Stensen, diretto dai padri gesuiti: lo stesso ordine a cui apparteneva il cardinal Bellarmino, Grande Inquisitore di Bruno e Galileo. Poi, che fra gli enti promotori c´erano, da un lato, l´Accademia dei Lincei, il Consiglio Nazionale delle Ricerche, il Museo di Storia della Scienza di Firenze, la Scuola Normale di Pisa e le Università di Firenze, Padova e Pisa, ma dall´altra il Pontificio Consiglio per la Cultura, la Pontificia Accademia delle Scienze e la Specola Vaticana. E infine, addirittura, che la conferenza stampa di presentazione del 29 gennaio era stata tenuta nella Sala Stampa Vaticana, da monsignor Gianfranco Ravasi, padre José Funes e il professor Nicola Cabibbo, che dirigono gli ultimi tre enti. Quanto al Papa, non andò all´inaugurazione, ma era stato ufficialmente invitato dal rettore di Firenze, Augusto Marinelli, a partecipare durante l´anno alle celebrazioni galileiane.
Per capire come sia stato possibile un tale "compromesso storico", che ha visto bellarminamente uniti nei festeggiamenti gli eredi degli inquisitori e quelli dell´inquisito, bisogna risalire ai fatti e alle interpretazioni: per i primi ci aiuta Scienza e religione. Scritti copernicani di Galileo, curato da Massimo Bucciantini e Michele Camerota (Donzelli, pagg. 334, euro 29), e per i secondi Galileo e il Vaticano di Mariano Artigas e Melchor Sanchez de Toca (Marcianum Press, pagg. 310, euro 22). Entrambi i volumi sono estremamente interessanti, ciascuno a modo suo: nel primo troviamo infatti gli atti dei dibattiti teologici e dei dibattimenti inquisitori che coinvolsero Galileo tra il 1613 e il 1616, e nel secondo le vicende e le delibere della commissione pontificia che rivisitò il caso tra il 1981 e il 1992.
Tra gli scritti riportati da Bucciantini e Camerota ci sono le famose «lettere teologiche» di Galileo a Benedetto Castelli, Pietro Dini e Cristina di Lorena, che i curatori ci chiedono di interpretare nel modo più generoso: tenendo cioè conto delle circostanze in cui sono state scritte, nell´infuriare della polemica e sotto la minaccia dell´Inquisizione, e prestando più attenzione alle espressioni di autonomia della scienza che a quelle di concordanza con la religione.
I documenti della commissione pontificia analizzati da Artigas e Sanchez fanno invece l´esatto opposto, soffermandosi sulla figura di un Galileo «miglior teologo dei teologi», e sottolineando la sua prematura difesa di un eliocentrismo ancora non suffragato da prove: una «tragica incomprensione reciproca», nelle parole di Giovanni Paolo II. A suo tempo padre George Coyne, direttore della Specola Vaticana e membro della Commissione, commentò negativamente questa posizione, ma in seguito fu rimosso dal suo incarico e al congresso di Firenze ha parzialmente ritrattato. Anche gli autori del libro sembrano però avere una posizione critica, stranamente avallata da una prefazione al volume di monsignor Ravasi (di cui Sanchez è il vice).
Inutile dire che visioni così contradditorie e distinte dello scienziato sono possibili soltanto perché l´ambiguità stava a monte, cioè in lui stesso. In fondo, come spiegano chiaramente Bucciantini e Camerota, Galileo non aveva né gli interessi teologici di Keplero e Newton, né l´indipendenza di giudizio di Spinoza o Voltaire: non essendo un appassionato lettore della Bibbia, credeva ancora che essa fosse degna di considerazione e di rispetto, e non gli passò mai per la mente di decostruirla o di ridicolizzarla, accontentandosi di interpretarla e di accettarla.
Per questo nelle lettere si impegolò in una discussione sul «fermati, o Sole» di Giosuè, cercando di dimostrare che nel sistema tolemaico l´esecuzione dell´ordine avrebbe accorciato il giorno, mentre era nella teoria copernicana che l´avrebbe allungato. E per questo abiurò, non solo coattamente e forzatamente dopo il processo, ma anche volontariamente e liberamente prima: oltre che nel Dialogo e nel Saggiatore, anche nella lettera del 1624 a Francesco Ingoli riportata in Scienza e religione, dove scrisse che «veramente non deve importare a un vero cristiano cattolico che un eretico si rida di lui perché egli anteponga la riverenza e la fede che si deve agli autori sacri, a quante ragioni ed esperienze hanno gli astronomi e i filosofi insieme». E´ quello che molti continuano a pensare ancor oggi, allungando la lista con i biologi. Ed è quello che fa sì che noi siamo come siamo, e non come dovremmo e potremmo essere.

lunedì 4 gennaio 2010

Repubblica 4.1.10
Pannella: i radicali ricorderanno Saddam Hussein

ROMA - I Radicali commemoreranno Saddam Hussein: un´iniziativa dedicata all´ex dittatore dell´Iraq si svolgerà mercoledì o giovedì. «In questi giorni di celebrazioni e di anniversari - ha detto ieri Marco Pannella a Radio Radicale - c´è qualcosa che manca. Saddam scelse di far propria la nostra impostazione "Iraq libero" come unica alternativa alla guerra». «Ma si arrivò alla sua tremenda esecuzione - sostiene il leader radicale - per tappargli la bocca e impedirgli così di dire la verità su quel che era accaduto tra il febbraio e il marzo del 2003, quando la possibilità di un suo esilio, che era praticabile e avrebbe salvato il suo popolo da tutto quel che è accaduto e ancora sta accadendo, fu scartata dagli Stati Uniti».

Repubblica 4.1.10
Uno storico svela i trucchi del reporter russo aggiunto il fumo, sparito il bottino di guerra
Berlino liberata ritoccata la foto che fece la Storia
La bandiera rossa sul tetto del Reichstag è l’icona del crollo del Terzo Reich
di Andrea Tarquini

BERLINO. È stata sempre ritenuta una delle foto del secolo: sullo sfondo di Berlino conquistata e in fiamme, un soldatino dell´Armata rossa sventola la bandiera sovietica dal tetto del Reichstag. Documento, memoria e simbolo emotivo della disfatta del nazismo. Ma se la disfatta, grazie al Cielo, fu reale, la foto, o più precisamente l´intera sequenza fotografica, è un falso, un insieme di ritocchi, correzioni e fotomontaggi. Lo sostiene lo storico tedesco Ernst Volland nel suo nuovo libro, Das Banner des Sieges.
La foto rese celebre nel mondo uno dei più famosi reporter di guerra sovietici, Evgenij Chaldej. Risale al 2 maggio del 1945: a Berlino infuriano gli ultimi combattimenti tra i soldati del maresciallo Zhukov e gli ultimi reparti della Wehrmacht e del Volkssturm, vecchi e bambini mandati a morire da Hitler. Una pattuglia di soldati sovietici scala il tetto del Reichstag, uno di loro sventola una bandiera dell´Urss. La bandiera, dice Volland, fu sventolata davvero, ma le foto sono falsi, immagini taroccate o ritoccate. In una di loro sono sovrapposte sullo sfondo (la città) nuvole di fumo degli incendi causati dalla battaglia, nuvole che invece secondo le ricerche storiche non si levarono in cielo quando i soldati issarono la bandiera rossa. Morale: Chaldej, secondo Volland, ha sovrapposto in fase di stampa l´immagine del soldato con la bandiera e un altro negativo con le nuvole di fumo. Probabilmente, per drammatizzare la scena.
Non è finita: in altre immagini della sequenza che con le sue "Zorkij"(la semplice ma ben fatta copia sovietica della mitica Leica tedesca) Evgenij Chaldej scattò, si vede un secondo soldato. Nella prima immagine porta un orologio a ogni polso. Segno forse di bottino di guerra, ma non piaceva alla propaganda immortalare prove dei saccheggi sistematici dell´Armata rossa nelle città tedesche, quindi in versioni successive uno degli orologi da polso scomparve.
La stessa bandiera, sempre scorrendo la sequenza, in alcuni fotogrammi appare sventolare con troppo poco entusiasmo, per cui, sostiene sempre Volland, fu ritoccata con una bandiera che garriva al vento con maggior entusiasmo, presa da un altro scatto della Zorkij. Ma in questo caso il fotomontaggio appare particolarmente maldestro. E come se non bastasse, le versioni a colori della storica immagine secondo lo storico risultano colorate a posteriori. Il documento storico insomma resta ma si allontana dall´autenticità. Crolla dunque un mito? Chaldej resta comunque un grande esponente dei fotoreporter di guerra dell´Armata rossa, come Dmitri Bal´termants che immortalò i combattimenti in prima linea. E, bandiera taroccata o no, Chaldej almeno è in buona compagnia internazionale tra i "sospetti": lo stesso Robert Capa fu accusato di aver falsificato la sua immagine più celebre, il miliziano della Repubblica spagnola colpito a morte al fronte dai franchisti. E nel 2006 a Beirut un fotografo fu licenziato per aver inserito con la tecnica digitale fumo di bombe su immagini di Beirut bombardata dagli F-16 israeliani.

Repubblica 4.1.10
Sanscrito
Quella lingua perfetta che ha inventato "avatar"
Esce il primo dizionario in italiano che spiega l’origine di parole che usiamo oggi
Il vocabolario, 180 mila lemmi, è opera di un´equipe coordinata da Saverio Sani
"È ancora usato in circostanze solenni, sia civili che religiose. E nei conflitti etnici"
di Francesco Erbani

PISA. È la lingua degli dèi. La lingua perfetta, che non muta e non è soggetta alle traversie che si producono per il solo fatto di essere parlata. È il sanscrito, che significa, appunto «compiuto, confezionato», lingua letteraria per eccellenza, che ha offerto capolavori come il Mahabharata e il Ramayana, e da cui arrivano a noi parole come yoga, guru, giungla e ora soprattutto avatar, che sta originariamente a indicare l´apparizione in forma corporea di una divinità e che, in senso molto traslato, rimbalzava prima fra gli appassionati di Second Life e adesso dagli schermi, grazie al film di James Cameron. Di questa lingua non esisteva un dizionario in italiano, il che costringeva i nostri sanscritisti a rivolgersi a vocabolari tedeschi o inglesi. Non esisteva finché un gruppo di studiosi, coordinati da Saverio Sani, che il sanscrito lo insegna all´Università di Pisa, non ha prodotto, dopo otto anni di lavoro, il primo Dizionario sanscrito-italiano, più di duemila pagine, 180 mila lemmi, edito dalla Ets (euro 80), che aiuterà a navigare in questa lingua della grande famiglia indoeuropea, introdotta in India circa millecinquecento anni prima di Cristo, e diventato l´idioma della cultura brahmanica.
Una lingua artificiale, imparata da Giacomo Leopardi quando aveva grosso modo tredici anni, prodotto di un´elaborazione - racconta Sani - compiuta intorno al IV secolo avanti Cristo da un gruppo di grammatici indiani, il più celebre dei quali si chiamava Panini. Essi presero quell´antica lingua e ne arrestarono l´evoluzione, fissandola entro regole lessicali, grammaticali e sintattiche rigidissime, da allora in poi intangibili. Chi avrebbe scritto nei secoli a venire in sanscrito avrebbe dovuto rifarsi a quell´assetto, un po´ come se oggi qualcuno scrivesse in latino, ma non nel latino che dall´età repubblicana arriva al disfacimento dell´Impero romano e che in quei secoli subisce molte modificazioni, bensì nel latino del solo Cicerone. «Era una lingua che non si parlava», spiega Sani, «ma che era posseduta dai dotti e dagli appartenenti alla casta superiore, quella dei brahmani, i sacerdoti cui spettavano altissime funzioni religiose».
Fu la lingua attraverso cui si diffuse l´induismo. Ma non è, il sanscrito, una lingua morta. «È stato usato fino ai giorni nostri e tuttora si usa in occasioni solenni, sia religiose che civili. Quando un´università indiana conferisce una laurea honoris causa, la tradizionale laudatio viene spesso pronunciata in sanscrito. Non è un relitto. Si studia a scuola, come il latino o il greco, anzi è insegnato anche nelle scuole medie, al pari del latino in Italia fino ad alcuni decenni fa. Un indiano colto, che parli l´hindi, la lingua che si può dire derivi dal sanscrito, conosce il sanscrito, sa leggere le opere in lingua originale. Lo stesso indiano colto, quando vuole arricchire il suo eloquio attinge o all´inglese o al sanscrito. Durante un convegno internazionale che si è svolto a Torino nel 2000, ho sentito con le mie orecchie relatori indiani parlare fra loro in sanscrito anche di piccoli accadimenti della giornata». Si scrivono ancora in sanscrito opere per il teatro, ma anche farse, drammi satirici e persino testi su temi politici e sociali. Che il sanscrito non sia un reperto muto, lo dimostra il fatto, dice Sani, che esso sia usato come strumento nei conflitti etnici che dilaniano l´India. «Gli estremisti indù ne fanno una bandiera di appartenenza contro i musulmani, nella cui lingua sono presenti richiami all´antico persiano o all´arabo».
La fase più antica del sanscrito è rappresentata dal vedico, spiega Sani, «vale a dire la lingua in cui sono redatti i libri sapienziali dell´India antica - veda vuol dire sapienza. Questi testi sono raccolte di inni religiosi, preghiere, formule sacrificali e magiche, opere esegetiche e di commento e a carattere teologico-filosofico. L´opera letteraria più antica della tradizione vedica è il Rgveda, la "Sapienza delle strofe", che contiene per lo più inni di lode rivolti alle varie divinità del pantheon antico-indiano». Le differenze fra questa fase e quella più classica del sanscrito consistono nell´esclusione, in quest´ultimo, di alcune forme sovrabbondanti e di alcune categorie grammaticali, e, all´inverso, dell´introduzione di parole nuove a fianco di altre di eredità più remota, il cui uso era diventato raro oppure abbandonato. «Nella letteratura in sanscrito», dice Sani, «è rappresentato ogni genere: dall´epica e dalla lirica al teatro, dalla narrativa alla favolistica, senza contare la vasta letteratura scientifica che tocca i campi più svariati, dalla grammatica e dalla retorica alla filosofia, dalla matematica all´astronomia, dal diritto alla politica, dalla medicina all´arte, fino allo studio delle tecniche erotiche».
Al III secolo a. C. appartiene la redazione dei grandi poemi epici, Mahabharata e Ramayana, 110 mila strofe il primo (quattro volte la Bibbia e sette volte Iliade e Odissea messe insieme), più ridotto il secondo. Entrambi trasmessi oralmente e alimentati nel corso del tempo di nuovi episodi ed entrambi poi fissati nella scrittura. Sono i grandi monumenti della mitologia induista, testi sacri e insieme repertorio di singolarissimi materiali narrativi, formati da una struttura centrale e da una diramazione di storie.
Chi studia sanscrito e ha già studiato latino e greco, si trova di fronte a una struttura complessa, ma familiare. Il primo scoglio è la scrittura, in caratteri devanagari. «Ma non è come il cinese», insiste Sani. I nomi sono declinati e i casi - nominativo, accusativo, genitivo… - sono otto; tre i numeri - singolare, plurale e duale; tre i generi - maschile, femminile e neutro. Il verbo si coniuga in forma attiva, media e passiva; quattro modi - indicativo, imperativo, ottativo e participio. E poi ci sono i tempi, il presente, il futuro, l´aoristo, il perfetto e il piuccheperfetto…
I corsi di Sani sono seguiti da una cinquantina di studenti. Fino a qualche anno fa, racconta il professore, frequentavano solo due o tre alunni, ma poi l´interesse è cresciuto, come dimostra il fatto che si studi sanscrito a Bologna, Milano, Torino, Roma, Napoli, Palermo. «È una lingua che veicola valori filosofici e religiosi che vanno in direzione del duraturo. Attrae, poi c´è anche chi fa marcia indietro». Chissà che Avatar, il film, dove però non c´è traccia dell´epica induista e delle incarnazioni di Vishnu, non faccia comunque bene al sanscrito almeno quanto il nuovo dizionario.

domenica 3 gennaio 2010

Repubblica 3.1.10
Che cosa resta di Freud settant’anni dopo /1
Inconscio, Edipo, Super-io. Cosa è cambiato e come siamo cambiati a settant’anni dalla morte del fondatore della psicoanalisi

La profezia del dottor F. saremo sempre nevrotici
di Umberto Galimberti

Settant´anni fa moriva il padre della psicoanalisi dopo aver cambiato per sempre non solo la cura della mente ma la nostra visione del mondo Mentre scadono i diritti delle sue opere e c’è la corsa a ripubblicarle, Bollati Boringhieri rimanda in libreria i suoi capolavori curati dal grande Musatti Ecco un bilancio di quanto dobbiamo all’uomo che disse che è il nostro inconscio a decidere per noi

In occasione dell'anniversario la casa editrice manda in libreria l'8 gennaio tre titoli fondamentali dell'edizione di riferimento curata da Cesare Musatti in edizione economica: L'interpretazione dei sogni, Psicopatologia della vita quotidiana e Introduzione alla psicoanalisi

Oggi la società della disciplina è diventata società dell’efficienza
La contrapposizione ben più lacerante è quella tra possibile e impossibile

A settant´anni dalla morte di Freud vien da chiedersi che cosa sopravvive della sua teoria e che cosa invece si è rivelato caduco. È questa una domanda legittima, ma che forse vale solo per le scienze esatte, dove verifiche oggettive e sperimentazioni sempre più approfondite consentono di validare o invalidare una teoria. La psicoanalisi non è una scienza "esatta", ma si iscrive nell´ambito delle scienze "storico-ermenutiche". E questo perché la psiche è così solidale con la storia da essere profondamente attraversata e modificata dallo spirito del tempo, che è possibile cogliere e descrivere solo con l´arte dell´interpretazione o, come oggi si preferisce dire, col lavoro ermeneutico.
Questo spiega perché, a partire da Freud, si sono sviluppati tanti percorsi interpretativi, approdati ad altrettante teorie psicoanalitiche, da cui hanno preso avvio le diverse scuole. In comune esse hanno il concetto di «nevrosi» che Freud, dopo aver rifiutato di considerare la nevrosi una malattia del sistema nervoso come voleva la medicina di stampo positivista in voga al suo tempo, ha trasferito dal piano "biologico" a quello "culturale".
Lo ha fatto definendo la nevrosi come un «conflitto» tra il mondo delle pulsioni (da lui denominato Es) e le esigenze della società (denominate Super-io) che ne chiedono il contenimento e il controllo.
In questa dinamica è possibile scorgere il tragitto dell´umanità e il suo disagio che Freud condensa in queste rapide espressioni: «Di fatto l´uomo primordiale stava meglio perché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale. In compenso la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto esigua. L´uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po´ di sicurezza». Questa interpretazione del disagio psichico, che sposta la lettura della sofferenza dal piano biologico a quello culturale, è la grande scoperta di Freud, tuttora alla base delle successive teorie psicoanalitiche che, per quanto differenti tra loro, rifiutano di reperire le spiegazioni della sofferenza psichica esclusivamente nel fondo biologico dell´organismo.
A questa intuizione Freud è giunto grazie alla sua assidua frequentazione della filosofia e in particolare di quella di Schopenhauer, che Freud considera suo «precursore»: «Molti filosofi possono essere citati come precursori, e sopra tutti Schopenhauer, la cui "volontà inconscia" può essere equiparata alle pulsioni psichiche di cui parla la psicoanalisi». Secondo Schopenhauer, infatti, ciascuno di noi è abitato da una doppia soggettività: la «soggettività della specie» che impiega gli individui per i suoi interessi che sono poi quelli della propria conservazione, e la «soggettività dell´individuo» che si illude di disegnare un mondo in base ai suoi progetti, che altro non sono se non illusioni per vivere, senza vedere che a cadenzare il ritmo della vita sono le immodificabili esigenze della specie.
Questa doppia soggettività viene codificata dalla psicoanalisi con le parole «io» e «inconscio». Nell´inconscio occorre distinguere un inconscio «pulsionale» dove trovano espressione le esigenze della specie, e un inconscio «superegoico» dove si depositano e si interiorizzano le esigenze della società. Sono esigenze della specie la sessualità, senza la quale la specie non vedrebbe garantita la sua perpetuazione, e l´aggressività che serve per la difesa della prole. Queste due pulsioni, proprio perché sono al servizio della specie, l´io le subisce, le patisce, e perciò diventano le sue «passioni», che la società, per salvaguardare se stessa, chiede di contenere, nella loro espressione, entro certi limiti.
Tra le esigenze della specie (Es o inconscio pulsionale) e le esigenze della società (Super-io o inconscio sociale) c´è il nostro io, la nostra parte cosciente, che raggiunge il suo equilibrio nel dare adeguata e limitata soddisfazione a queste esigenze contrastanti, la cui forza può incrinare l´equilibrio dell´io (e in questo caso abbiamo la nevrosi) o addirittura può dissolvere l´io sopprimendo ogni spazio di mediazione tra le due forze in conflitto, e allora abbiamo la psicosi o follia. La psicoanalisi, che per curare ha bisogno dell´alleanza dell´io, può operare solo con la nevrosi, aggiustando le incrinature dell´io, mentre è impotente con la psicosi, dove inconscio pulsionale e inconscio sociale confliggono corpo a corpo, senza uno spazio di mediazione.
Ma proprio perché la psiche è «storica» e perciò muta col tempo, non si può essere fedeli a questa grande intuizione di Freud, se non superando Freud, perché il suo concetto di nevrosi ben si attaglia a una «società della disciplina» dove la nevrosi è concepita come un «conflitto» tra il desiderio che vuole infrangere la norma e la norma che tende a inibire il desiderio. Oggi la società della disciplina è tramontata, sostituita dalla «società dell´efficienza» dove la contrapposizione tra «il permesso e il proibito» ha lasciato il posto a una contrapposizione ben più lacerante che è quella tra «il possibile e l´impossibile».
Che significa tutto questo agli effetti della sofferenza psichica? Significa, come opportunamente osserva il sociologo francese Alain Ehrenberg in La fatica di essere se stessi (Einaudi), che nel rapporto tra individuo e società, la misura dell´individuo ideale non è più data dalla docilità e dall´obbedienza disciplinare, ma dall´iniziativa, dal progetto, dalla motivazione, dai risultati che si è in grado di ottenere nella massima espressione di sé. L´individuo non è più regolato da un ordine esterno, da una conformità alla legge, la cui infrazione genera sensi di colpa, ma deve fare appello alle sue risorse interne, alle sue competenze mentali, per raggiungere quei risultati a partire dai quali verrà valutato.
In questo modo, dagli anni Settanta in poi, il disagio psichico ha cambiato radicalmente forma: non più il «conflitto nevrotico tra norma e trasgressione» con conseguente senso di colpa ma, in uno scenario sociale dove non c´è più norma perché tutto è possibile, la sofferenza origina da un «senso di insufficienza» per ciò che si potrebbe fare e non si è in grado di fare, o non si riesce a fare secondo le attese altrui, a partire dalle quali, ciascuno misura il valore di se stesso. Per effetto di questo mutamento, scrive Eherenberg: «La figura del soggetto ne esce in gran parte modificata. Il problema dell´azione non è: "ho il diritto di compierla?" ma: "sono in grado di compierla?"». Dove un fallimento in questa competizione generalizzata, tipica della nostra società, equivale a una non tanto mascherata esclusione sociale.
Del resto già Freud, considerando le richieste che la società esigeva dai singoli individui, ne Il disagio della civiltà si chiedeva: «Non è forse lecita la diagnosi che alcune civiltà, o epoche civili, e magari tutto il genere umano, sono diventati "nevrotici" per effetto del loro stesso sforzo di civiltà? [...] Pertanto non provo indignazione quando sento chi, considerate le mete a cui tendono i nostri sforzi verso la civiltà e i mezzi usati per raggiungerle, ritiene che il gioco non valga la candela e che l´esito non possa essere per il singolo altro che intollerabile».
Alla domanda iniziale: cosa resta di Freud a settant´anni dalla sua morte? Rispondo: l´aver sottratto il disagio psichico alla semplice lettura biologica, l´averlo collocato sul piano culturale, l´aver intuito per effetto di questa collocazione che il disagio psichico si modifica di epoca in epoca, per cui compito della psicoanalisi, più che attorcigliarsi nelle diverse denominazioni delle nevrosi, è quello di individuare le modificazioni culturali che caratterizzano le diverse epoche, che tanta ripercussione hanno sulla modalità di ammalarsi «nervosamente».

Repubblica 3.1.10
Che cosa resta di Freud settant’anni dopo /2
Inconscio, Edipo, Super-io. Cosa è cambiato e come siamo cambiati a settant’anni dalla morte del fondatore della psicoanalisi
Io, il paziente perfetto
di Paolo Repetti

Il mio inconscio è un reperto archeologico nel quale un osservatore attento può trovare tracce stratificate di una trentennale storia clinica che spazia dai freudiani agli junghiani ai lacaniani e perfino ai famigerati comportamentisti. La mia carriera di paziente in cura è cominciata a otto anni. Uno strano malessere che faceva su e giù all´altezza del plesso solare in prossimità del pranzo e della cena mi attanagliava e mi impediva di mangiare. Fu in quell´occasione che ebbi il mio primo incontro con una rudimentale figura di terapeuta: la portinaia del palazzo. Mi fermavo a parlare con lei, una signora ebrea poco loquace ma dotata di un bel sorriso e di un robusto buon senso.
Da lei si intrattenevano altre figure solitarie, querule zitelle e vedovi angustiati, e anche un ragazzino manesco che solo in sua presenza sembrava calmarsi. Il setting che si svolgeva in una guardiola poco illuminata aveva anche le sue brave regole: mai fuori dell´orario di portineria e a bassa voce. E dunque non è un paradosso. È lì che ho vissuto il mio primo transfert. Da adolescente i miei mi obbligarono ad alcune rare incursioni nello studio di uno psichiatra.
Per me e i miei genitori, che nulla sapevano di psicoanalisi, quello era un vero medico, dotato di scrivania di noce, martelletto per i riflessi, pila per il controllo delle pupille e il cui sapere rassicurante aveva come espressione manifesta il famigerato ricettario dove la sua firma di officiante di un´autentica scienza campeggiava sotto i farmaci prescritti.
Nulla di tutto questo in analisi, cominciata qualche anno dopo. Quella stanza svuotata di qualsiasi autorevolezza clinica era piena solo di parole e fantasmi, immagini e sogni, sotto il controllo paziente di un "tecnico dell´inconscio" che aveva con i miei sintomi, il malessere e la mia angoscia, un rapporto di comprensione, privo di pregiudizi. Io e il mio analista imparavamo uno straordinario «gioco linguistico» - che è la vera grande rivoluzionaria scoperta di Freud - in cui ricostruendo assieme pezzi inghiottiti della mia biografia rendevamo attivo quel processo che mi avrebbe portato col tempo - e mai in modo definitivo - ad accettare che nessuno è depositario del segreto della tua guarigione.
Il percorso è lungo, dispendioso, accidentato. Ma non ho conosciuto altre scorciatoie. La psicoanalisi non è una filosofia di vita che dà senso alla tua esistenza. Non è un pieno che riempie una lacuna. Per quello ci sono il buddismo, lo yoga, la religione, il turismo orientale. La guarigione stessa è solo un limite che si sposta come quando guardiamo l´orizzonte. A un certo punto accade. Assomiglia allo sgretolamento di un muro. Un muro che ci difendeva dalla vista insopportabile del mondo «così come è», nudo e crudo, e che ora possiamo finalmente guardare con i nostri occhi senza temere di esserne sopraffatti.
Certo nel corso del mio trentennale girovagare tra uno studio e l´altro sono stato un paziente tutt´altro che fedele. Ho persino avuto per tre mesi due analisti in contemporanea. Un freudiano e uno junghiano. Ero un politeista alla ricerca ansiosa di un monoteismo da abbracciare e mettevo ingenuamente a confronto i vantaggi dei riti più diversi. Sono stato colpito dal virus lacaniano. Per un anno sembrava che parlassi con le maiuscole. Il Desiderio, l´Altro, il Significante. E ancora una breve e intensa partecipazione a un gruppo terapeutico presso un´analista seguace di Winnicot. Esperienza che non ebbe alcun effetto sui sintomi ma che mi permise di conoscere una ragazza più nevrotica di me e della quale divenni amante e vice-terapeuta.
Ero ancora un paziente nevrotico, ma dotato di un sapere minuzioso che elargivo con generosità ad amici e fidanzate. Come quegli ipocondriaci che pensano di vincere la malattia immaginaria trasformandosi in medici dilettanti. A trent´anni finalmente l´incontro con un vecchio analista junghiano, un ebreo polacco che, per inciso, era nato nella stessa città del ginecologo di mia madre, anch´egli ebreo: semplice coincidenza o sincronicità junghiana? All´inizio ero ancora talmente immerso nello studio del Significante lacaniano che i primi sei mesi di sedute, invece di affrontare dolorosamente gli effetti catastrofici di un´autostima ridotta a zero - quello che il mio analista chiamava il mio Sé schifoso - ero io a tenere dotte lezioni al terapeuta sulle Macchine Desideranti di Deleuze e Guattari dei quali avevo seguito una e una sola lezione presso il Dams di Bologna. Ebbene dopo sei mesi di farneticanti conferenze lentamente cominciai a scoprirmi e a raccontare qualcosa di me. Tutto cominciò con un sogno di pipistrelli e colombe che il terapeuta accolse con un sorridente: «Ecco questa è la prima moneta d´oro da infilare nel salvadanaio».
E invece, da sempre, una naturale diffidenza verso la cosiddetta psicoanalisi dell´Io che ha in America la sua culla e nei film di Woody Allen la sua caricatura più appropriata. Una psicoanalisi ridotta a ortopedia dell´io, tecnica di adattamento, normalizzante e felicemente convinta che l´american way of life sia la vita stessa.
In questi giorni ho iniziato la mia quinta terapia. L´archeologo che si imbatterà nel mio inconscio scoprirà le tracce di una bonaria e sorridente diffidenza e una disponibilità ironica verso questo nuovo viaggio. Segno che il muro comincia a mostrare le sue crepe.


























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Repubblica 3.1.10

Legge anti-blasfemia l'Irlanda punisce chi offende le religioni
E un sito sfida il ministro della Giustizia
Fino a 25 mila euro di multa ma è polemica "Limitata la libertà di esprimere idee"
di c.nad.

LONDRA - Venticinque affermazioni di personaggi storici o celebri per sfidare la nuova legge irlandese contro la blasfemia. Nel primo giorno dell´entrata in vigore della norma approvata lo scorso luglio dal parlamento di Dublino, per rendere punibili con una multa fino a 25mila euro le affermazioni offensive contro qualsiasi credo religioso, il sito Atheist Ireland ha messo online 25 frasi suscettibili di sanzione. Il fatto è che a pronunciarle non sono soltanto atei celebri come lo scienziato Richard Dawkins o il musicista Frank Zappa, ma Gesù Cristo, Maometto o papa Benedetto XVI. L´iniziativa ha avuto immediato risalto mediatico, tanto che ieri pomeriggio il sito non era più visitabile e si è pensato a una forma di censura: «Si tratta soltanto di troppi accessi», ha spiegato Michael Nugent, commediografo irlandese promotore dell´iniziativa, «segnale che stiamo facendo una battaglia di interesse generale che non riguarda soltanto la religione. Le frasi sono online dal 1° gennaio, ma non mi aspetto alcuna reazione dal governo, almeno non fino a lunedì».
«L´idea di punire qualcuno perché esprime le sue idee è medievale», continua Nugent. «Il diritto serve a proteggere le persone, non le opinioni. La nostra non è un´iniziativa contro la religione, ma contro l´oscurantismo, e va considerata in un contesto più ampio di quello religioso o irlandese. Nel nostro Paese la riflessione sul cattolicesimo dovrebbe avere orizzonti più ampi e una legge di questo tipo è pericolosa, perché spinge alle reazioni violente. Non possiamo ignorare che gli Stati islamici, con in testa il Pakistan, stanno già usando la formula della nuova norma approvata a Dublino per promuovere risoluzioni contro la blasfemia alle Nazioni Unite».
Il ministro della Giustizia irlandese, Dermot Ahern, nei mesi scorsi ha difeso la legge sostenendo che la Costituzione elaborata nel 1937 protegge soltanto i cristiani, mentre la nuova società multiculturale rende necessaria una definizione più ampia della materia. La mossa del ministro è stata ampiamente discussa la scorsa estate. Lo stesso Ahern è finito nell´elenco delle 25 affermazioni considerate da Atheist Ireland punibili secondo la nuova legge, quando durante la discussione parlamentare ha risposto con una battuta a un deputato dell´opposizione che lo accusava proprio di blasfemia.
Le parole del ministro chiudono l´elenco, che comincia con le frasi di Gesù ritenute blasfeme dai sacerdoti ebrei e per le quali Cristo fu messo a morte. C´è la frase che Benedetto XVI pronunciò nel 2006 citando un imperatore bizantino del XIV secolo, discorso che suscitò indignazione nel mondo musulmano; ci sono passi dal Corano e discorsi di appartenenti a diversi credo religiosi. Ci sono scrittori come Mark Twain e cantanti come l´islandese Björk che criticano i buddisti, scienziati di fama internazionale quali Richard Dawkins, che se la prende con il Dio della Bibbia, e un seguace di Scientology quale Tom Cruise. Tutti da accomunare, secondo Atheist Ireland, nel diritto di esprimere liberamente le proprie idee.

Repubblica 3.1.10
Nuove proteste e arresti in Iran retata di giornalisti e religiosi
Incursione nella città santa di Qom Fermati sei discepoli del Grand Ayatollah Montazeri
Ultimatum sul dossier nucleare "Fra un mese riprenderemo ad arricchire l'uranio"
di
a.v.b

La protesta iraniana si allarga, mentre le autorità procedono a nuovi arresti di leader religiosi, dell´opposizione, di giornalisti e studenti. Fra i nomi più noti, figurano quelli dei due giornalisti Ali Hekmat e Mohammad Reza Zohdi, autori di articoli molto letti sui quotidiani riformisti.
Nella città santa sciita di Qom sono stati fermati sette religiosi, e fra questi Ahmad Reza Mehrpur, un blogger del partito riformista Mosharekat, e sei discepoli del Grand Ayatollah Montazeri, morto in dicembre. Proprio il figlio di Montazeri, intervistato dal settimanale Spiegel, invita il regime a evitare «ogni spargimento di sangue». Un eventuale arresto, se non l´uccisione, del leader riformista Mussavi «avrebbe conseguenze catastrofiche per l´Iran». Secondo Montazeri, l´assassinio di un nipote di Mussavi è frutto di «un´operazione mirata, progettata da tempo»: l´estremo «ammonimento» a Mussavi.
Migliaia di studenti e un gruppo di chierici progressisti sono asserragliati da giovedì nelle università Azad, Ferdowsi e Sajjad di Mashhad. Circondati dalle forze dell´ordine e dai miliziani basiji, protestano contro l´arresto di 210 giovani, il ferimento di decine, e la morte presunta di due. I blog degli "studenti verdi" diffondono la cronaca delle sanguinose incursioni dentro l´ateneo, guidate dalle unità paramilitari di Ansar-e-Hizbollah, al soldo del leader supremo Ali Khamenei. Malgrado le vittime - recita un comunicato - «il sit-in continua fino al rilascio degli arrestati».
Intanto un video pubblicato ieri dal Los Angeles Times conferma quel che le autorità negano: l´impiego di armi da fuoco contro i dimostranti. Se si aggiunge che il sito web Rahesabz, o "Via verde", pubblica online le foto dei super-corazzati anti-sommossa da 25 tonnellate l´uno appena scaricati al porto di Bandar Abbas, commissionati dal governo iraniano alla Cina, si avvalora la previsione di un inasprimento degli scontri.
Su questo sfondo il regime di Teheran, isolato sulla scena internazionale, reagisce ingaggiando un nuovo braccio di ferro sul dossier nucleare. Il ministro degli Esteri Mottaki rivolge un ultimatum al gruppo dei Sei (i cinque Paesi membri del Consiglio di sicurezza dell´Onu più la Germania). Dice: «La comunità internazionale ha un mese di tempo per decidere» se accettare uno scambio dell´uranio secondo i termini dettati dall´Iran. «Altrimenti, Teheran arricchirà l´uranio a un livello superiore». Nella proposta dell´Aiea, l´uranio sarebbe stato arricchito all´estero, e poi riconsegnato sotto forma di combustibile un anno dopo. Mentre Teheran respinge l´offerta, il Consiglio di sicurezza studia nuove sanzioni.
(a.v.b)

Repubblica 3.1.10
Il segno di Craxi sugli anni ottanta
di Guido Crainz

La discussione in corso sulla figura di Bettino Craxi sembra avere sullo sfondo una rilettura non solo o non tanto di un leader quanto degli anni Ottanta: a questo sembrano rinviare i ripetuti richiami alla "modernizzazione della politica" di cui sarebbe stato fautore, o alla "modernizzazione della società", che avrebbe trovato appunto in lui un interlocutore sensibile. Di questo occorrerebbe allora discutere, se è vero – come a me sembra – che vi è un solidissimo rapporto fra i processi avviati allora e l´Italia di oggi.
Già a un primo sguardo appare un po´ incongruo parlare di modernizzazione della politica in relazione a un decennio che vide scendere per la prima volta in modo significativo la partecipazione elettorale e l´adesione alla vita dei partiti. E vide crescere invece in forme inedite il voto di protesta, fino a quell´avanzare tumultuoso della Lega che segnerà il passaggio al decennio successivo e porrà bene in evidenza – ben prima delle indagini di Mani Pulite – la profondissima crisi del nostro sistema politico. È un aspetto connesso anche a quel salto di qualità nella corruzione pubblica, a quell´affermarsi sistematico di essa che le tangenti petrolifere avevano iniziato a portare in luce nel 1974 e che puntuali denunce giornalistiche documentarono poi anno dopo anno. Inascoltate, allora, ma confermate ad abundantiam nei primi anni Novanta dalle testimonianze di dirigenti e amministratori dei principali partiti.
Anche soffermandosi su altri aspetti di quel decennio è difficile trovare segni di modernizzazione delle istituzioni, a partire da quella "grande riforma" che rimase involucro vuoto, oggetto di proclami ma non di tentativi concreti di attuazione: il modo più sicuro per screditare un´idea e un progetto.
Si consideri inoltre la politica economica. Nonostante il positivo trend internazionale il debito pubblico crebbe a dismisura, con pesantissime ipoteche sul futuro: fra il 1979 e il 1988 il debito passò infatti dal 57% del prodotto interno lordo al 93%, aumentando ulteriormente negli anni immediatamente successivi. La degenerazione del rapporto fra politica ed economia, nello sfacelo già largamente avviato dell´industria di stato, ebbe poi il suo simbolo nella vicenda che vide protagonisti Eni e Montedison, con il tragico epilogo dei suicidi di Gabriele Cagliari e di Raul Gardini.
Si consideri anche l´iniziativa specifica di Craxi come segretario di partito, chiamato a dirigerlo nel momento più difficile: all´indomani delle elezioni del 1976, che avevano visto il Pci celebrare il suo trionfo e il Psi scendere ai suoi minimi storici. Parve davvero promettente il primo delinearsi dell´ispirazione riformista e antitotalitaria del nuovo leader, con il forte rilancio socialista sul terreno delle idee: dalla riscoperta di Proudhon alla felice stagione della rivista di partito, Mondo Operaio. Quella stagione terminò presto, e Craxi ripropose invece la tradizionale conventio ad excludendum nei confronti del Pci, ratificata subito dalla Dc con un secco "preambolo". Ebbero inizio così gli anni del "pentapartito", asse e prigione istituzionale degli anni Ottanta: una coalizione che si segnalò per la forte rissosità interna (con buona pace della "governabilità" e del "decisionismo"), non certo per il suo alto profilo. "Partiti sempre più uguali" – scriveva con amarezza Pietro Scoppola – si contendono il consenso degli elettori con una forte crescita del "voto di scambio, con un ulteriore incentivo alla corruzione politica e all´uso del potere ai fini della conquista del consenso". In buona sostanza, alla competizione ideale e strategica con il Pci si sostituì la spinta ad affiancare la Dc nell’occupazione dei gangli di potere, e su questo terreno i vistosi risultati ottenuti dal Psi segnarono il suo apparente successo ma al tempo stesso l´inizio di quella "mutazione genetica" che ne determinerà il tracollo.
Nell´azione politica di quegli anni, e di quei governi, non mancarono risultati positivi. Il trend economico favorevole permise almeno la riduzione dell´inflazione (che rimase comunque più alta che in altri paesi), ed era sicuramente necessario il taglio della scala mobile dei lavoratori dipendenti, resa abnorme dalla "riforma" del 1975. L´intervento sulla scala mobile non fu però accompagnato dal rigore fiscale nei confronti del lavoro autonomo e dei "ceti emergenti", con conseguenze di lungo periodo. Le responsabilità non furono certo del solo Craxi, e non mancarono neppure quelle di un declinante Pci. Un Pci sempre meno "diverso" ma ancora rinchiuso nei propri schemi, incapace di comprendere sia le trasformazioni in corso sia la natura della crisi che stava per travolgere la "repubblica dei partiti".
È questa crisi che viene rimossa in molte riletture recenti, assieme ad alcuni processi non secondari che attraversarono la società italiana di quegli anni. Sono illuminanti le analisi di allora del Censis, cioè dell´Istituto che parve a lungo l´apologeta dei nuovi ceti e delle nuove vitalità sociali. Ben presto nei suoi rapporti annuali l´entusiasmo inizia a scemare e si avverte invece la preoccupazione per «crescenti fenomeni di "società incivile»", per l´"annerimento nel profondo della nostra dimensione collettiva". È colta con lucidità, anche, la relazione fra l´affermarsi di culture intrise di egoismi sociali, da un lato, e dall´altro la "ossidazione e corrosione delle istituzioni" e le sempre più diffuse tendenze della politica ad "usare il pubblico come strumento di interessi privati". Le conclusioni del Censis hanno il sapore dell´epitaffio: "Una società che si sente non governata (…) finisce per esprimere al proprio interno una specie di dislocazione selvaggia, particolaristica e furbastra dei poteri e delle decisioni (…) in cui tutto c´è tranne moralità collettiva, coscienza civile, senso delle istituzioni, rispetto delle regole del gioco statuale".
Molta parte della successiva storia d´Italia è inscritta in queste brevi righe, e su di esse sarebbe bene riflettere ancora oggi. Sempre pensando all´oggi, non stupisce che si pensi di indicare ai cittadini come esempio, dedicandogli una via o un parco, un leader politico che si è sottratto alla magistratura e alle istituzioni di un Paese che aveva governato. Una via o un parco nella città che più di altre vide quell´affermarsi della corruzione pubblica come sistema di cui Bettino Craxi non fu solo un marginale e quasi incolpevole comprimario.

Repubblica 3.1.10
Pergolesi ritrovato
Le musiche segrete del genio bambino
di Leonetta Bentivoglio

Il 4 gennaio di trecento anni fa nasceva il compositore che in soli ventisei anni di vita passò alla storia come punta di diamante della scuola partenopea Nel corso del 2010 lo ricorderanno festival, convegni e concerti E, grazie ai documenti ritrovati negli archivi del Banco di Napoli e allo studio filologico su spartiti sconosciuti, si ricostruirà la sua opera autentica
Nei caveau sono conservati polizze, contratti, testamenti, ricevute di pagamento e accordi economici che testimoniano le alterne fortune del musicista

Il 4 gennaio 2010 Giovanni Battista Pergolesi (1710-1736), compositore di musiche d´intensità meravigliosa, capaci di toccare le corde più profonde di chi ascolta, festeggia il trecentesimo anniversario della propria nascita. Lecito parlare di lui al presente. Sia perché il genio scansa declinazioni temporali, sia perché la festa è viva e attuale: occupa dall´inizio il 2010 e percorre trionfalmente il 2011. A Jesi, sua città natale, nel giorno del compleanno e nel teatro che porta il suo nome, prenderà il via il ricco calendario di celebrazioni. Via via, lungo i molti mesi del programma, saranno messe in scena sei opere teatrali e verrà eseguito l´intero repertorio della sua musica vocale, strumentale e sacra: brani scritti in un tempo miracolosamente breve, dato che il marchigiano Pergolesi (però fu Napoli il suo regno, e passò alla storia come una tra le punte di diamante della gloriosa scuola partenopea) morì di tisi a soli ventisei anni, poco dopo aver terminato in un convento di Pozzuoli il capolavoro estremo dello Stabat Mater. Il festival sarà suddiviso tra giugno, settembre e dicembre, e anche la parte teorica si preannuncia imponente, con cinque convegni internazionali a Napoli, Milano, Roma, Dresda e Jesi.
Intanto è già operativo e massiccio il lavoro di edizione critica delle partiture pergolesiane. «Per realizzare l´impresa, che durerà dieci anni e che prevede la pubblicazione di venti volumi, è stata formata nel 2009 una commissione di esperti», dichiara il musicologo Vincenzo De Vivo, consulente scientifico della Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi. È quest´istituzione, animata e amministrata da William Graziosi, a funzionare da motore del progetto di riscoperta, autenticazione e rilancio di un artista dal destino misterioso e altalenante, le cui sorti segnate dalla sfortuna (mali polmonari lo afflissero dall´infanzia, la polio gli offese una gamba e fu il solo superstite di quattro fratelli: gli altri morirono in tenerissima età), giunsero a farne un simbolo spiccatamente preromantico, accentuandone aspetti lirici e sentimentali a scapito di caratteristiche quali il rigore dei ritmi, la potenza drammatica, la peculiarità dello stile e l´ironia penetrante del teatro buffo (come nell´opera La serva padrona).
Accadde addirittura che per alimentarne l´immagine oleografica gli siano stati attribuiti numerosi apocrifi: solo negli ultimi decenni, grazie a musicologi come Francesco Degrada, i tanti falsi sono stati smascherati. E per illuminare le sue grandiose verità hanno fatto molto (e molto stanno facendo) interpreti come Claudio Abbado, che a Jesi dirigerà un concerto il 25 settembre 2010 e che sta completando un importante ciclo di incisioni pergolesiane, e come Riccardo Muti, il quale esplora con appassionata devozione, fin dall´alba della sua carriera, i palpiti e la napoletanità di uno tra i musicisti che gli stanno più a cuore.
Il lavoro filologico passa anche attraverso il gigantesco patrimonio di carte conservato dal Banco di Napoli, città in cui Pergolesi, bambino prodigio, venne mandato a studiare, distinguendosi subito come violinista eccelso, e già al Conservatorio suonava come capo-paranza, ovvero guida di un ensemble che accompagnava funerali e altri riti. Sotto la dominazione austriaca la capitale del Mezzogiorno attraversava una fase di creatività sfolgorante, con l´esito di un mercato di vivacità frenetica per l´arte. Il che spiega la mole di documenti accumulatisi negli archivi del Banco, «che testimoniano la fitta trama di rapporti su cui si fondava la produzione musicale in un´epoca fertilissima per Napoli, che irradiava cultura nell´intera Europa», riferisce Francesco Cotticelli, che con Paologiovanni Maione coordina il gruppo di studiosi a cui spetta il compito di schedare i giornali di cassa delle sette sedi dell´istituto di credito attive a Napoli nel periodo in cui si manifestò il talento pergolesiano, dal 1727 al 1736. E aggiunge che «l´archivio della banca include polizze, contratti, testamenti, ricevute di pagamento e accordi di vario genere tra musicisti e committenze quali teatri, chiese e impresari».
Si nutre anche di tali materiali un viaggio nelle fonti che può dettare cambiamenti nella prassi esecutiva, «rilevando come spazi e contingenze, disponibilità finanziarie e momenti politici, influissero sul numero dei leggii e sulle tipologie strumentali», afferma Cotticelli. Inoltre questo nuovo metodo d´indagine «porta a definire meglio la fisionomia della scena napoletana nel Settecento, col suo circuito di botteghe sonore dove primeggiavano i musici-artigiani». Tra loro non figura solo Pergolesi: dal giacimento affiorano tasselli biografici e musicali di altri esponenti quali Scarlatti, Vinci, Jommelli e Paisiello. Compositori così fecondi che al prezioso filone partenopeo Muti sta dedicando dal 2007 a Salisburgo il programma annuale del Festival di Pentecoste, di cui è il responsabile artistico.
Va detto che è un´esperienza emozionante, per il visitatore, avventurarsi nei locali dell´antico palazzo di Via dei Tribunali dov´è custodito l´archivio storico del Banco, immerso in un silenzio pregno dell´odore delle vecchie pergamene. Spiccano a migliaia, negli scaffali che tappezzano i muri altissimi, raccoglitori, faldoni e libri contabili di misure diverse, e in certe stanze pendono dal soffitto, senza toccare il suolo, poderosi "salami" cartacei, cioè mega-cilindri di documenti sovrapposti: «Era in uso tenerli sollevati da terra perché non fossero rosicchiati dai topi o guastati dalle inondazioni», racconta De Vivo. Scorre anche in questa scenografia densa di suggestioni l´eterna vitalità della grande musica.

sabato 2 gennaio 2010

Repubblica 2.1.10
“Pronto a morire per il mio popolo"
Iran, riappare Moussavi e sfida il regime: "Una nuova legge elettorale"
Il leader riformista chiede la scarcerazione dei manifestanti in cella dopo la rielezione di Ahmadinejad
di Pietro Del Re

Si dice pronto al martirio pur di salvare l´Iran e formula una proposta in cinque punti per risolvere la "grave crisi" che attanaglia il Paese. Così, ieri, il leader dell´opposizione Mir Hossein Moussavi ha da una parte sciolto il mistero sulla sua presunta fuga da Teheran, per salvarsi il collo durante le manifestazioni di piazza a favore del governo indette dalla guida suprema Ali Khamenei; e dall´altra lanciato una nuova sfida al regime chiedendo una riforma della legge elettorale e la liberazione dei prigionieri politici.
Moussavi non ha paura di morire per la sua gente. «Non respingo l´idea di diventare un martire, come coloro che si sono sacrificati, dopo le elezioni, per il rispetto delle loro richieste», ha scritto in un vibrante messaggio sul sito kaleme.org, ricordando nuovamente le vittime seguite alla rielezione a giugno del presidente Mahmud Ahmadinejad, e quelle degli ultimi giorni del 2009, durante la ricorrenza sciita dell´Ashura (quindici morti, tra cui il suo stesso nipote). L´ex primo ministro ha anche affermato che «il mio sangue non è più rosso del loro», ribadendo che la repressione non fermerà l´onda verde, alla quale indica le linee guida per far uscire l´Iran dalla confusione politica in cui si trova.
Anzitutto, scrive Moussavi, il governo di Ahmadinejad deve assumersi «la responsabilità della crisi davanti al popolo, il parlamento e il sistema giudiziario». È poi necessaria l´approvazione di una nuova legge elettorale «trasparente e credibile». Il terzo punto prevede l´immediata liberazione dei prigionieri politici e la loro riabilitazione. Al quarto, esige il rispetto della libertà di stampa e di espressione. Infine, il leader dell´opposizione evoca il riconoscimento del diritto del popolo a riunirsi e manifestare «secondo quanto previsto dall´articolo 27 della Costituzione». Allo scopo di realizzare quest´ultimo punto, Moussavi fa riferimento alla «cooperazione con tutti i paesi interessati e alla mobilitazione di organizzazioni nazionali alternative».
Moussavi si è anche difeso dall´accusa di essere sul libro paga delle potenze occidentali. «Non siamo né americani né britannici. Non abbiamo inviato nessuna lettera di congratulazioni ai capi delle grandi potenze», ha sottolineato riferendosi alla missiva inviata da Ahmadinejad a Obama quando questi fu eletto alla Casa Bianca. Il Movimento verde «ha un´identità islamica e nazionale e si oppone alla dominazione straniera».
Sempre ieri, Mohsen Rezai, ex capo dei pasdaran ed ex candidato alle presidenziali in Iran, ha scritto all´ayatollah Khamenei auspicando un compromesso tra l´opposizione e l´ala dura del regime.

Repubblica 2.1.10
Parla Maziar Bahari, giornalista detenuto per più di 3 mesi
"È una dittatura militare la rivolta è solo all´inizio"
L´onda verde ormai vuole abbattere l´autorità di Khamenei. E per riuscirci potrebbe diventare sempre più radicale
di Francesca Caferri

L´Iran sta diventando una dittatura militare, con un governo ormai incapace di controllare la sua stessa gente. Ne è convinto Maziar Bahari, giornalista irano-canadese di Newsweek che al suo paese di origine ha dedicato anni di lavoro, fino a essere arrestato nel giugno scorso e detenuto per più di tre mesi nel carcere di Evin, il più famigerato del paese.
Signor Bahari, lei ha assistito in prima persona alla prima fase delle proteste, la scorsa estate. Si aspettava una ripresa così violenta e prolungata?
«Sì. Da quando sono stato rilasciato ho sempre detto che la mia maggiore preoccupazione stava nel fatto che l´opposizione potesse diventare sempre più violenta e militarizzata. È quello che sta accadendo. Del resto l´Iran sta diventando sempre più una dittatura militare, più che uno stato religioso: le Guardie rivoluzionarie cercheranno di creare una dittatura militare. Io credo che alla fine falliranno, ma in questo momento ci stanno provando. Lo fanno usando sempre maggiore violenza. L´opposizione seguirà la stessa strada: all´inizio si trattava di persone che chiedevano pacificamente dove fosse finito il loro voto. Ma poi la decisione di Khamenei di usare la violenza contro i manifestanti e arrestare i moderati, come me, lo ha trasformato in un nemico, allargando il fronte di quelli che sono contro il governo. Per questo mi aspetto ulteriori ondate di violenza e forse anche la fine di questo governo».
Crede che siamo davanti all´inizio della fine per il regime?
«Credo che questo sia l´inizio della tempesta. Non abbiamo ancora visto nulla. Nessuno si sarebbe immaginato questa situazione un anno fa. Tutti pensavano che Khamenei fosse più intelligente, che non scommettesse tutte le sue carte su Ahmadinejad: ma non l´ha fatto e ne pagherà il prezzo. Avrebbe potuto sacrificare Ahmadinejad qualche mese fa e salvarsi: ora temo che sia tardi».
Ma questo movimento è abbastanza forte da far cadere il governo?
«Forse non subito. Potrebbero volerci mesi. Il problema maggiore è la mancanza di un leader vero. Moussavi è più un supervisore che una guida. L´onda verde è cominciata per rovesciare i risultati del voto: ma ormai è un movimento per abbattere l´autorità di Khamenei. La contraddizione sta nel fatto che molti dei suoi rappresentanti, da Karroubi a Khatami, sono troppo legati al potere per volerlo davvero rovesciare. Potrebbero emergere nuovi leader e non apparterranno all´establishment: il movimento potrebbe diventare più violento e più radicale. E questo sarà responsabilità del governo».

Repubblica 2.1.10
Il sindaco di Milano apre sull'ipotesi di dedicare alla Bicocca una strada al leader socialista. Ma a Sesto non ci stanno
Moratti paragona Craxi a Giordano Bruno
"Il filosofo fu mandato al rogo ma poi gli dedicarono vie e piazze"
di Teresa Monestiroli

Anche un consigliere provinciale del Pd appoggia l´idea di Palazzo Marino

MILANO - «Credo sia giusto, nella ricorrenza del decennale della morte di Bettino Craxi, ripensare la sua figura prima di tutto dal punto di vista umano, poi politico e storico. Eludere questa data mi sarebbe sembrato sbagliato, sia umanamente che dal punto di vista della riflessione storica». A tre giorni dal putiferio scoppiato dopo l´annuncio di intitolare una via o un giardino di Milano al leader del Partito socialista condannato per corruzione durante Mani Pulite, il sindaco Letizia Moratti spiega le sue ragioni. E lo fa in un´intervista con Red Ronnie pubblicata il 31 dicembre su YouTube.
Una chiacchierata confidenziale, davanti all´albero di Natale di casa Moratti, in cui il sindaco ammette: «Mi aspettavo le polemiche». Ma aggiunge: «È venuto il momento di collocare Craxi in una prospettiva storica, anche se capisco che non sia facile. Il mio tentativo è quello di fare in modo che questa città, la sua città, riconosca un proprio figlio importante». D´altronde, spiega la Moratti, sono passati dieci anni e non sarebbe il primo personaggio storico contestato ad avere una via a suo nome. Tra questi, il sindaco cita nientemeno che Giordano Bruno, bruciato al rogo nel 1600 per le sue teorie filosofiche (assolto dalla storia e dalla scienza), e Giuseppe Garibaldi che con Craxi ha in comune solo la morte in esilio. «Garibaldi è stato condannato a morte, Bruno bruciato sul rogo - spiega il sindaco - eppure a loro sono state dedicate vie e piazze. La storia dà delle riletture diverse delle personalità».
Nonostante le polemiche, la decisione è presa. A gennaio la delibera arriverà in giunta per l´approvazione degli assessori, il cui parere però non è unanime. La Lega si è opposta duramente, mentre una parte degli ex An, che ai tempi dei processi di Tangentopoli manifestava davanti a Palazzo di Giustizia, è ancora incerta. Ma invece di cercare l´appoggio dei suoi - il sindaco è da poco iscritta al Pdl - , la Moratti cavalca le parole di Piero Fassino - unico leader del Pd intervenuto sull´argomento - che sulle pagine della Stampa ha dichiarato: «La dimensione giudiziaria ha finito per sovrastare la riflessione politica», suggerendo di aprire una riflessione su «un uomo politico che, tra luci e ombre, è stato un protagonista della politica italiana». «Raccolgo l´invito di Fassino - commenta la Moratti al tradizionale scambio di auguri con gli anziani - di aprire un dibattito sul socialismo, sulla trasformazione del socialismo in un movimento riformista».
Ancora il Comune non ha deciso quale sarà la strada o il giardino che si chiamerà «Bettino Craxi», ma se sarà una via dovrà essere «senza numeri civici» ricorda la Moratti, per «evitare problemi ai residenti». E tra le ipotesi allo studio della toponomastica c´è anche la proposta di un esponente del Pd, Roberto Caputo, ex socialista oggi consigliere provinciale, che ha suggerito di cambiare nome a viale Dell´Innovazione alla Bicocca, ex quartiere industriale oggi zona universitaria. «È una sollecitazione interessante - dice la Moratti - perché ricollega la figura di Craxi a quelle che sono le radici del socialismo più vicino alla classe operaia. Comunque qualsiasi decisione verrà presa insieme alla famiglia». Contrari invece all´iniziativa del sindaco di Milano gli abitanti di Sesto San Giovanni, da sempre roccaforte della sinistra. In un sondaggio pubblicato su sestonotizie. it il 67 per cento dei cittadini ha detto di non essere favorevole «che anche Sesto, città in cui iniziò la sua carriera politica, intitolasse un luogo pubblico a Craxi».

Agi 2.1.10
Craxi: Pannella, se invitato ad Hammamet avrei declinato
Roma. Sulla vicenda della/delle celebrazioni di Bettino Craxi per il decennale della sua scomparsa tuttora non ho assolutamente e da chicchesia ricevuto alcun invito a parteciparvi: se mi fosse stato fatto avrei ringraziato e immediatamente declinato l'invito a causa della compagnia, in parte, la stessa che indusse storici esponenti del Psi quando trovarono il loro nome di relatori per un convegno promosso dalla Fondazione della Camera dei Deputati nel venticinquesimo della scomparsa di Riccardo Lombardi. Alcuni di loro respinsero anzi l'invito per questo motivo sdegnati e ad onor del vero sono gli stessi nomi autorevoli che pero' ritengo poco e male qualificati sia in quel caso che in questo. E' quanto afferma il leader dei Radicali, Marco Pannella, che parla sia delle celebrazioni per il decennale della morte di Bettino Craxi sia ricorda le iniziative per il venticinquesimo della morte di Riccardo Lombardi. "Io sono andato, gratitissimo e onoratissimo per l'invito, a Regalbuto - dice - invitato dal Sindaco Gaetano Punzi e da altre autorita' del luogo, per un interessante e ricco convegno su Lombardi che Radio Radicale puntualmente ha trasmesso e ritrasmesso".
Fatto quest'inciso, Pannella torna sull'iniziativa di Hammammet e su quella in programma il 19 gennaio al Senato. "Come con altri ebbi occasione di ritenere per la celebrazione del grande azionista e socialista regalbutese, mi trovo nella stessa situazione: o loro o io! Quindi io. Non abbiamo in questa occasione nulla da condividere. Comunque ne ho parlato con Bobo, purtroppo non ho avuto nessuna occasione di parlare con Stefania e ho detto e ripetuto che bastera', quando lei lo riterra' opportuno, un cenno di Anna per accorrere subito ad Hammamet e in qualche ulteriore occasione anche pubblicamente per tornare a parlare di Bettino, del Presidente del Consiglio socialista mancatoci da dieci anni". Insomma Pannella ci tiene a rimarcare "la natura personale" di una sua eventuale presenza. Dopodiche' ribadisce il suo "dissenso dalla impostazione 'morattiana' e di tanti altri di intitolare strade, giardini, luoghi pubblici a personalita' politiche e istituzionali: in uno Stato democratico non mi pare opportuno, prima che siano passate almeno un paio di generazioni, lasciando cosi' con il tempo decadere elementi oscuri ancora legati a sentimenti di parte, una siffata decisione. Pertanto mi permetto di dire al carissimo, davvero carissimo, Carlo Tognoli che in cuor mio ritengo di essere sicuro che su questo avremmo facilmente concordato con lo stesso Bettino". A meno che non si tratti di altre persone. "Ritengo opportuno e serio consegnare alla storia civile del nostro Paese vicende e nomi sui quali la quasi unanimita' anche dei contemporanei si puo' considerare gia' acquisita: ad esempio la vicenda e la scelta politica di Enzo Tortora o quella dei fratellini Silvano e Stefano Mattei, cioe' di vittime di episodi capaci di suonare come monito e gratitudine da parte di tutti senza il gravame di sentimenti e risentimenti. Caro Carlo sono certo che su questo - aggiunge - a riflessione fatta, sarai anche tu d'accordo proponendo al sindaco di Roma di intitolare un importante parco o una importante via, ai fratellini Mattei e ad accantonare la proposta della Moratti che sembra dar soddisfazione a quanti cercano per interessi attuali pur nobili di parte, rivincite a spese dei legittimi cittadini che nutrono posizioni diverse ancora nel presente sulla realta' del nostro Paese". Cosi' chiude Pannella. "Forse sarebbe piu' meritorio se sia il caso davvero di mantenere l'imposizione per molti di ricordi come quello di Palmiro Togliatti o, che so io, di Giorgio Almirante". (AGI) Pat

Repubblica 2.1.10
Il Grande Fratello spia i lavoratori tutti schedati dal computer di Stato
In Germania al via la banca dati sullo stile di vita di 40 milioni di cittadini
Il pc raccoglierà notizie sulle malattie ma anche sugli scioperi
di Andrea Tarquini

BERLINO - Da ieri, la Germania ha avviato la costruzione di un´enorme banca-dati, un computer centrale che registra e immagazzina informazioni su tutti i circa 40 milioni di lavoratori dipendenti: reddito ma anche assenze sul lavoro per malattia o altro, partecipazione a scioperi, ammonimenti o sanzioni disciplinari sul posto di lavoro. Si chiamerà Elena, come la bella di Troia contesa nell´Iliade di Omero, ma ai media in allarme evoca ricordi letterari ben meno epici: «Qualcuno si potrebbe chiedere in che Stato viviamo», scrive il prestigioso notista Heribert Prantl sulla Sueddeutsche Zeitung: «Nella Repubblica federale, Stato di diritto, o in ‘1984´ di George Orwell?». L´incubo del cittadino trasparente, la paura dell´abolizione di fatto del diritto alla privacy grazie ai mezzi illimitati dell´elettronica e del virtuale, segna questo inizio d´anno nella prima potenza europea. Media, ma anche sindacati e alcuni partiti politici criticano duramente il progetto, e preannunciano proteste e appelli alla Corte costituzionale.
Sembra un paradosso, ma proprio la Germania, considerata la più stabile e garantista tra le grandi democrazie del mondo libero, si è decisa a varare un sistema che solleva pesanti riserve e timori di un abuso o uso illecito dei dati. L´iniziativa risale al 2002, al governo Schroeder. Elena, nella sigla in tedesco, vuol dire "Elektronischer Entgeltnachweis", cioè in pratica documentazione elettronica del reddito. Fin qui, nulla di particolare.
È normale ovunque che si ricorra alle nuove tecnologie per i controlli sui redditi. Il sistema funzionerà così: la banca dati "Elena" comincia per legge subito a lavorare, alla Zentralspeicher, cioè registro centrale, con sede a Wuerzburg, in Baviera. Dal 2012, i datori di lavoro saranno completamente liberati dall´obbligo di fornire per iscritto su carta dichiarazioni sul reddito dei loro dipendenti. I quali invece riceveranno un documento di plastica simile a una carta di credito: quando chiederanno prestazioni sociali, l´impiegato delle autorità usando quella carta potrà richiamare i dati personali sul computer. Ovvio che la lotta all´evasione ma anche a ogni tentativo di frode nelle richieste di assegni-povertà, sussidi di disoccupazione e altre prestazioni del generoso welfare tedesco sia priorità e diritto di uno Stato.
Ma le informazioni che i datori di lavoro tedeschi dovranno fornire a Elena, scrive la Sueddeutsche Zeitung, riempiranno l´equivalente di 41 pagine. E soprattutto, quel che preoccupa sono il tipo e la qualità dei dati richiesti: notizie su assenze per malattia o altre ragioni dal posto di lavoro, notizie sull´eventuale partecipazione del dipendente a scioperi, uguale se si tratti di agitazioni legali o illegali, notizie su ammonimenti e sanzioni ricevuti dall´azienda, quindi al limite eventualmente, fa capire il quotidiano di Monaco, anche su eventuali licenziamenti o minacce di licenziamento. Dati, sostengono le autorità, che possono concorrere al calcolo delle prestazioni del welfare da erogare. «Ma con questo sistema l´abuso delle informazioni è pre-programmato», protesta Frank Bsirske, leader del VerDi, il potente sindacato del terziario e della funzione pubblica.
Non solo i sindacati sono in allarme. Secondo Peter Schaar, "Datenschutzbeauftragte", cioè garante della privacy, con Elena si richiedono dati molto sensibili e quindi si oltrepassa il confine di quanto è concesso. Christian Lindner, del partito liberale (al governo) esprime serie riserve, Petra Pau della Linke (sinistra radicale) parla di «mostro dei dati». La fine dei totalitarismi con il 1989 non ha insomma portato al tramonto dell´ossessione di sapere tutto o «quasi tutto» sui cittadini, su "Le vite degli altri", come s´intitolava il bellissimo film sulla Stasi, la polizia segreta di Berlino est.

Repubblica 31.12.09
Il dottor Hester la signora Anna e l' elogio della follia
di Oliver Sacks


QUANDO udiamo la parola "manicomio", siamo portati a pensare a posti orribili, fosse di serpenti straboccanti di squallore, miseria, brutalità. La maggior parte è oggi chiusa e abbandonata. Ricordiamo con un brivido di terrore quei poveretti che un tempo erano costretti a vivere in simili posti. È dunque salutare ascoltare la voce di una paziente, una certa Anna Agnew, giudicata malata di mente nel 1878 - da un giudice, non da un medico - e rinchiusa nell' Ospedale per malati di mente dell' Indiana. Anna venne ospedalizzata dopo diversi tentativi di uccidere se stessae uno dei suoi figli. Anna si sentì sollevata quando le porte dell' ospedale si chiusero dietro di leie trasse sollievo dal fatto che la sua malattia era stata riconosciuta. Come lei stessa lasciò scritto: «Dopo solo una settimana di soggiorno nell' ospedale, avvertivo un senso di appagamento quale non sentivo da più di un anno. Non perché mi fossi riconciliata con la vita, ma perché avevano capito il mio stato mentale, ed ero trattata di conseguenza. Ero circondata da altri nelle mie condizioni, turbati e confusi, e mi ritrovai a provare interesse per le loro miserie, il mio senso di simpatia umana si risvegliava. Al tempo stesso, ero trattata come una donna malata, con una gentilezza che nessuno mi aveva mostrato prima di allora. Il dottor Hester fu la prima persona abbastanza gentile da rispondere alla mia domanda: "Sono matta?", "Sì signora. Lei è pazzae molto ...".E continuò: "Ma vogliamo aiutarla in ogni modo, e la nostra speranzaè che questo posto possa farlo"». Il vecchio termine per indicare gli ospedali per malati di mente era in inglese "lunatic asylum", e "asilo", nella sua accezione originaria, significava rifugio, protezione, santuario. A partire dal IV secolo dell' era Cristiana, i monasteri e le chiese erano luoghi d' asilo. A questi si aggiunsero gli asili laici, creati, come Foucault ha suggerito, utilizzando le strutture ormai inutili dei lebbrosari per ospitare gli indigenti,i criminaliei malati di mente. Nel suo famoso libro Asylums, Erving Goffman li classificava tutti- ospedali religiosi e laici, manicomi e ospizi - come "istituzioni totali", luoghi dove la distanza tra il personale e i degenti era immensa, dove rigidi ruoli e altrettanto rigide regole impedivano ogni forma di solidarietà e di simpatia, dove i ricoverati erano privati dell' autonomia, della libertà e della dignità, ridotti a numeri senza volto o identità. Negli Anni 50, quando Goffman conduceva le proprie ricerche presso l' ospedale St. Elizabeth di Washington, le cose stavano proprio così, almeno nella maggior parte dei manicomi. Eppure, non erano queste le finalità che si erano prefissi quei filantropi e bravi cittadini che avevano fondato i primi manicomi in America, tra gli inizi e la metà del XIX secolo. In mancanza di trattamenti specifici per la malattia mentale, il "trattamento morale" veniva visto come l' unica alternativa possibile: ci si occupava dell' individuo nel suo insieme, come espressione di una potenzialità di salute fisica e mentale, e non solo di quella parte del suo cervello che sembrava non funzionare. I primi manicomi statali erano spesso veri e propri palazzi con soffitti alti, finestre grandi e giardini, dove l' aria e la luce non mancavano, si faceva molto esercizio fisico e il vitto era variato. Molti manicomi erano autosufficienti, e coltivavano gran parte delle risorse che consumavano. I pazienti lavoravano spesso nei campi o nelle stalle e il lavoro era considerato come una cruciale forma di terapia, oltre che di sostentamento. Il senso di comunitàe la solidarietà erano importanti, vitali per i pazienti, che si sarebbero altrimenti sentiti isolati nei loro mondi mentali, vittime delle loro ossessioni e allucinazioni. Parimenti cruciale era il riconoscimento e l' accettazione del loro stato da parte del personale e degli altri pazienti. Infine, per tornare al termine originario di "asilo", questi ospedali fornivano ai pazienti controllo e protezione, sia dai loro stessi impulsi (omicidi o suicidi che fossero) sia dal ridicolo, dall' isolamento, dalle aggressioni o dagli abusi che spesso subivano nel mondo esterno. Gli asili fornivano una vita protetta e certo limitata, una vita semplificata e ristretta, ma all' interno della struttura protettiva godevano anche della libertà della loro follia, di attraversare le proprie psicosi ed emergere, a volte, dal baratro come persone più stabili e sane. Col tempo, i manicomi statali divennero piccole città. Pilgrim State, il manicomio di Long Island, ospitava circa 14.000 pazienti. Era inevitabile che i grandi numeri e le scarse risorse facessero allontanare i manicomi statali dagli ideali delle origini. Già alla fine dell' Ottocento erano diventati sinonimo di squallore e abbandono, spesso amministrati da burocrati inetti, sadici e corrotti, una situazione che si è prolungata sino alla metà del XX secolo. Il movimento di anti-istituzionalizzazione dei malati di mente, un rivolo negli Anni 60, divenne un fiume in piena negli Anni 80, anche se era sempre più chiaro che le buone intenzioni stavano creando problemi gravi quanto quelli che intendevano risolvere. In molte città, l' enorme popolazione di "psicotici del marciapiede" era una drammatica dimostrazione di come mancassero cliniche psichiatriche e centri di accoglienza, o infrastrutture capaci di occuparsi delle centinaia di migliaia di pazienti che erano stati allontanati dai manicomi statali. Le medicine antipsicotiche che avevano favorito il processo di deistituzionalizzazione si rivelarono meno miracolose di quanto si fosse sperato. Erano certo in grado di affievolire i cosiddetti sintomi "positivi" della schizofrenia: allucinazioni e deliri psicotici. Ma a poco servivano per porre rimedio ai sintomi "negativi" - l' apatia e la passività, la mancanza di motivazioni e la capacità di rapportarsi agli altri - che spesso erano più pesanti dei sintomi "positivi". Agli inizi degli Anni 90 divenne chiaro a tutti che ci si era sbagliati, che la chiusura dei manicomi era avvenuta troppo in fretta, senza che si fossero attivate strutture alternative. Non c' era bisogno di chiudere tutti i manicomi. Occorreva invece farli funzionare: mettere mano all' affollamento, alla mancanza di personale, porre fine all' abbandono e alla brutalità. L' approccio farmacologico, sia pur necessario, da solo non bastava. Ci eravamo scordati degli aspetti positivi degli "asili", o forse non volevamo più sborsare soldi per tenerli aperti; per dare ai pazienti spazi e senso di comunità, un posto per lavorare e giocare, per apprendere un mestiere e imparare a vivere insieme - quel rifugio sicuro che i manicomi statali delle origini intendevano offrire. Qual è ora la situazione? I manicomi ancora aperti sono pressoché vuoti, e la popolazione dei pazienti consiste essenzialmente di malati cronici che non rispondono più a nessun trattamento farmacologico, o di individui talmente violenti che non possono essere lasciati liberi. La grande maggioranza dei malati di mente vive fuori dalle strutture ospedaliere. Alcuni restano in famiglia e si servono di supporto ambulatoriale nei momenti di crisi, altri vivono in residenze aperte: strutture che garantiscono al paziente una certa libertà e autonomia, pur provvedendo alle necessità terapeutiche. Esistono anche, negli Stati Uniti, delle comunità residenziali che si rifanno in parte alle comunità terapeutiche degli "asili" dell' Ottocento e offrono ai pochi che vi vengono ammessi un' assistenza completa. Ne ho visitate alcune, e ho ritrovato quel che c' era di meglio nei vecchi manicomi statali: un forte senso di solidarietà, delle opportunità di lavoro e spazi di creatività, il rispetto per gli individui. Il tutto unito a quanto di meglio la psicoterapia e i trattamenti farmaceutici possono offrire oggi. Purtroppo, strutture simili sono rare, e possono ospitare qualche centinaia di pazienti, a fronte dei milioni che negli Stati Uniti soffrono di malattie mentali. I pazienti che sono ammessi debbono contare sul supporto finanziario delle famiglie, visto che in media la degenza costa intorno ai 100.000 dollari l' anno. Gli altri - il 99 per cento di malati privi di risorse adeguate - debbono accontentarsi di cure insufficienti e rinunciare al proprio potenziale di vita. L' Alleanza nazionale dei malati di mente fa quel che può, ma i milioni di malati di mente restano ancor oggi la parte più esclusa e la più abbandonata della nostra società. Eppure è chiaro che persino la schizofrenia nonè necessariamente una malattia che inesorabilmente peggiora (anche se ciò può verificarsi). In circostanze ideali, e con risorse adeguate, anche persone molto malate, quelle che vengono classificate come senza speranza, possono vivere una vita produttiva e degna. La versione integrale di questo articolo comparirà nel numero di gennaio 2010 della Rivista dei Libri (Traduzione di Pietro Corsi)