venerdì 8 gennaio 2010

l’Unità 8.1.10
Bonino: «Corro anche senza il Pd. Le primarie? Non c’è tempo per farle»
La lunga giornata della leader radicale. Bersani appoggia ma non dà il via libera e i cattolici mugugnano. «Solo i bigotti e i clericali hanno problemi su di me...»
di Andrea Carugati

Bersani
«Ora tocca a lui risolvere le
contorsioni del Pd. Se ci
stanno bene, altrimenti
amici come prima. Io sto
già preparando il comitato»
Il veto della Binetti
«Non mi passa per il
cervello l’idea di dire “o me
o lei”». Franco Marini le dà
una mano: candidatura
forte, non vedo problemi»

Una giornata nel limbo, in attesa di una chiamata che non è ancora arrivata, iniziata a Repubblica tv con un’intervista da candidata in pectore alla regione Lazio, e poi sfumata in una lunga serata alla storica sede dei radicali a Torre Argentina, tra sigarette, firme da raccogliere e le torrenziali parole di Marco Pannella. No, il via libera di Bersani non c’è stato, quel «non abbiamo pregiudiziali» è pochino, non è quel mandato pieno che ormai Emma Bonino si aspettava.Bersani ha preso ancora tempo, ieri nessun contatto con il leader Pd. Ma Emma va avanti lo stesso: «Ci sono delle contorsioni nel Pd, spetta a Bersani risolverle, la palla ce l’ha lui. Qualunque cosa decidano io sono comunque candidata con la lista Bonino-Pannella. Se ci stanno bene, altrimenti amici come prima. Io la mia decisione l’ho presa, mi sono esposta, ho detto “ci sono”. E ci sono».
Nessuna retromarcia, tanto che ieri sera a Torre Argentina già si lavorava sul comitato «Emma for president» e sulle firme da raccogliere, «tutte legali, noi non facciamo come gli altri partiti», 11mila solo nel Lazio, 160mila in tutta Italia, «perché le nostre liste ci saranno in tutte le regioni,e il Pd deve dirci se vuole allearsi con noi non solo nel Lazio, ma in tutta Italia». «Noi in Piemonte vorremmo sostenere la Bresso. Ci dicano se ci vogliono...», insiste la Bonino. Confessa di aver deciso di correre nel Lazio per lo «slabbramento», per «il vuoto che ho visto intorno». Ma le resistenze sul suo nome non mancano. Ci sono vari cattolici del Pd che mugugnano, ma anche a sinistra della coalizione non mancano i mal di pancia. Ieri alla riunione del Pd del Lazio in tanti, di varie anime (da Roberto Morassut a Ileana Argentin alla sinistra di Vita e Nerozzi), hanno chiesto le primarie. «Non ci stiamo coi tempi», replica lei. «Si vota a marzo di quest’anno, non del prossimo...». Solo una battuta, ma che la dice lunga: è molto difficile che la Bonino accetti di confrontarsi ai gazebo. Oggi l’incontro tra la leader radicale e una delegazione del Pd del Lazio (ci sarà anche Maurizio Migliavacca) per sbloccare l’impasse. Poi c’è la “questione cattolica”. «Forse sono i clericali e i bigotti ad avere qualche problema. Le nostre battaglie, come aborto e divorzio, le abbiamo vinte grazie al voto dei credenti, a un sentire comune sui temi della libertà e della responsabilità». E la Binetti che minaccia di lasciare il Pd per protesta contro di lei? «A me non è mai venuto in mente di dire “o io o la Binetti”, non mi passa per l’anticamera del cervello. È un modo di vivere la politica che non mi appartiene per niente». Un sostegno di peso le arriva da Franco Marini, padre nobile dei cattolici Pd: «La Bonino è una candidatura forte, non vedo alcun problema. E poi non stava con noi già nel 2008?». E i dubbi a sinistra? «Ho fatto lealmente parte del governo Prodi e avevo come collega ministro Ferrero», risponde lei. Si definisce una figura «aggregante, la mia storia lo dimostra», e, dati alla mano, «capace di pescare consensi anche a destra». «L’Istituto Cattaneo ha dimostrato che, alle ultime europee, i flussi di voti verso i radicali sono venuti più da destra che da sinistra, da un elettorato che non si ritrova nelle posizioni della Lega». Le incertezze di queste ore non le piacciono, le ricordano i riti della vecchia politica, della partitocrazia che tanto ha combattuto. E si rivolge a tutti gli
I Verdi: «È la candidata di tutti Può battere la Polverini»
«Ormai i giochi sono fatti: è Emma Bonino la candidata e di grande prestigio e di qualità di tutto il centrosinistra alle prossime elezioni regionali nel Lazio. Può battere la Polverini. Adesso il Pd esca dagli indugi». Lo dichiara il presidente dei Verdi Angelo Bonelli.
elettori: «La degenerazione dello stato di diritto e della democrazia riguarda tutti, la mia candidatura è un’alternativa e un’opportunità».
A chi le chiede dei programmi risponde con il menù tradizionale della bottega radicale: carceri, ammortizzatori sociali, stato di diritto, integrazione rigorosa degli immigrati, famiglia e trasparenza della pubblica amministrazione. Alla Polverini, nonostante il fair play, prende le subito le misure. A partire dal nucleare. «Io faccio una scelta di campo differente, per me non porta vantaggi sul lato dei costi-benefici». Poi c’è tutta la questione delle nomine in Regione: «L’unico strumento efficace per me è la trasparenza, l’indipendenza delle giurie sulle gare d’appalto, rendere pubblici i curriculum dei componenti delle gare aggiudicatrici». No al quoziente familiare, uno dei pilastri dell’accordo Udc-Polverini: «Mi sembra uno strumento per inchiodare ancora di più le donne a casa». Una stoccata a «Renata» anche sul suo supporter Storace: «È lui che ha fatto ereditare una voragine finanziaria spaventosa alla Regione Lazio, 10 miliardi di debiti». Ma anche a sinistra c’è un’eredità pesante...«La vicenda Marrazzo ha dato un duro colpo al centrosinistra, non sarà una partenza facile...». Sui temi etici nessuna marcia indietro, anzi. «Sulla vita ci deve essere una libertà di scelta personale, non c’è nulla di estremista nel dirlo, mia madre che è cattolica mi ha insegnato il libero arbitrio». Parole nette anche sulle coppie di fatto: «Ognuno organizza i propri affetti come può. Non dare un riconoscimento alle coppie di fatto che vivono insieme, etero e omosessuali, è non voler riconoscere i diritti della persona e soprattutto un’evoluzione della società, che c’è ed è sotto i nostri occhi. È come chi non vuole riconoscere la necessità di una politica di integrazione per gli immigrati». Due stoccate all’Udc: «Molti di loro di famiglie ne hanno tre. L’ipocrisia deve avere qualche limite». E ancora, sulle alleanze: «Credo che molte delle contorsioni del Pd dipendano dalle geometrie variabili dell’Udc, un meccanismo un po’ opaco. A Casini vorrei chiedere: perché sostiene Mercedes Bresso e non me?».❖

l’Unità 8.1.10
«Mille volte Emma»
«Macchè, è la prova che il Pd è morto»
Le voci del web: molto entusiasmo, qualche mugugno ma più sullo stato del centro sinistra che sulla candidata «Ma così il mio voto cattolico ve lo scordate...»
di Mariagrazia Gerina

Donna capace e intellettualmente onesta: perché non sostenerla?». Oppure: «Con la Bonino si ricomincia a sperare». Dunque: Bonino for president?
Aspettando la decisione del Pd, lo abbiamo chiesto ai lettori dell'Unità. Gli entusiasti sono tanti. D’altra parte a lanciare la sua candidatura, prima ancora dei radicali, sono stati i gruppi Pd su facebook. «C'è Emma Bonino? Bene! Avanti tutta. Convinzione, chiarezza con i cittadini, programma, e...responsabilità per vincere!», scalda il tifo Adriano. «Sì mille volte Emma», rilancia la ola Ettore. «Con la Bonino e senza Udc e Binetti. Mi associo al plebiscito», taglia corto Augusto. La leader radicale spopola tra i delusi: «Uno dei politici di razza, ha segnato un gol all’attonita e scombinata difesa del Pd con un perfetto contropiede», si entusiasma Humfrey.
Ma non a tutti il nome della leader radicale va giù. «No la Bonino No», grida Aldo, che avrebbe visto meglio l’economista Loretta Napoleoni («Via la foto di Emma e su quella di Loretta», rilancia un altro supporter). «L’unica per me in grado di battere la Polverini è e rimane la Rosy Bindi», prova a suggerire l’alternatica Gianfranco. C’è chi ironizza: «Non sapete quanto mi piacerebbe averla come avversario» (Massimo
Canario). «Perfetto: ora non saprò più quale candidata di destra votare» (Stefano). Chi, vedendo in lei l’antica avversaria, la prende come una sconfitta in partenza per la sinistra. O per il Pd. «La candidatura della Bonino scandisce Silvia è la riprova che il Pd è morto, non voterò mai una liberista, una che voleva affossare il sindacato, che promuove la deregulation del lavoro e privatizzazioni a gogo... senza contare che è una guerrafondaia!». Chi più moderatamente, avverte: «Sicuramente la Bonino è persona seria e onesta. Ma attenti, ai radicali». «E comunque se si vuol candidare deve prima dimettersi da senatrice». E poi ci sono i cattolici o quelli preoccupati del voto cattolico: «Nel Lazio con la Bonino perdiamo, non prendiamo un voto cattolico, nemmeno il mio», avverte Emilio. Enzo prova a riassumere così le ragioni degli uni e degli altri: «In Vaticano la vedono come fumo agli occhi. Neanche io, ex militante del Pci, la voterò». Nessuno invece pare disperarsi se per sostenere la Bonino il Pd perderà la Binetti. Anzi: «Stracontento di una persona tanto per bene», dice Max di Emma. «E se si aggiunge che così facendo la Binetti davvero se ne va, come dice, allroa si che sarebbe fantastico?».
Emma saprà far tesoro di tanto entusiasmo e convincere gli scettici? Intanto, nel tam tam dei nostri lettori finisce anche il commento di un elettore del centrodestra: «Io voto a destra, ma stavolta mi schiero con la Bonino, persona la cui nobiltà politica e morale è indiscussa».❖

l’Unità 8.1.10
La doppia forza di Emma
La candidatura della Bonino nel Lazio può avere due vantaggi: raccogliere ampi consensi a sinistra e attirare chi sta dicendo “quasi quasi Polverini”
di Luigi Manconi

Qui – e grazie al cielo, non solo qui, anzi... ci auguriamo con tutte le forze che Emma Bonino sia la candidata dell’intero centrosinistra alla presidenza della regione Lazio. Può vincere, la Bonino? Certo, può vincere pur in una competizione che si annuncia assai difficile. La Bonino ha due vantaggi: a) può raccogliere i consensi più ampi all’interno della sinistra fino alle componenti estreme, sollecitando al voto settori tentati dall’astensionismo o spazientiti (e come potrebbero non esserlo?) dalle infinite vicissitudini che travagliano il Pd; b) può attrarre i voti di tutti coloro che “ma la Polverini non è poi così male”. Sì, la Polverini “non è poi così male”: ed è il miglior frutto dell’ormai avvizzito campo della destra italiana. E allora? La fine delle ideologie e la crisi delle categorie classiche di destra e di sinistra solo ai superficiali, o agli imbroglioni, può apparire come il declino di qualunque differenza tra due aree che restano in conflitto, quella di centrodestra e quella di centrosinistra. E solo i neofiti di tutte le mode ̆ possono credere che “trasversale” sia un concetto da enfatizzare acriticamente, quasi fosse, che so, la Transavanguardia di Achille Bonito Oliva. Certo, le posizioni della Polverini sull’immigrazione o sugli ammortizzatori sociali non sono incomparabilmente diverse dalle mie: ma so che è la candidata di uno schieramento, dove le sue opzioni sono irreparabilmente minoritarie e le posizioni lì prevalenti sono, su altre questioni, nemiche (sì, nemiche) delle mie. E quelle posizioni del centrodestra hanno a che fare con il governo della regione? Hai voglia che ce l’hanno. Dunque, cosa si aspetta a indicare Emma Bonino come candidata? Si decida, insomma.
A proposito di Radicali. Qualche tempo fa Nichi Vendola, li definì “incompatibili” con il proprio schieramento. È un giudizio che sento ripetere da decenni all’interno della sinistra. Chi lo formula, in genere, contesta le posizioni dei Radicali in materia di politica estera oppure in materia di politica economica. Queste ultime sono le posizioni che una certa sinistra come scrive Daniela Preziosi in una bella intervista a Emma Bonino sul Manifesto definisce ultraliberiste.
Confesso di aver avuto anch’io qualche pregiudizio in tal senso, ma ho dovuto ricredermi analizzando più a fondo le scelte dei Radicali, che sono semplicemente liberali, ma collocate all’interno di una concezione che prevede un sistema di welfare non solo più moderno (più adeguato alla nuova composizione sociale), ma soprattutto più universalistico di quello attuale. In ogni caso, che vi siano differenze rilevanti è un elemento naturale, e ineludibile, di tutte le coalizioni. Ma c’è il rischio che quelle differenze siano frutto esclusivo di stereotipi. Si prenda la questione dell’immigrazione. L’intera sinistra e, in particolare, le sue componenti estreme, sono state completamente assenti e silenziose di fronte alle radicali (in tutti i sensi) vertenze sul tema, condotte nello scorso anno dai Radicali. In ultimo, lo sciopero della fame, attuato da centinaia di immigrati regolari, perché i tempi previsti dalla legge (45 giorni) per il rilascio o il rinnovo del titolo di soggiorno, siano rispettati (oggi l’attesa arriva fino a 15 mesi). Come si vede, si tratta di una battaglia tipicamente di sinistra, anche secondo i più classici canoni: e questo consente di leggere il repertorio di obiettivi e di metodi dei Radicali sotto una luce diversa. Si può scoprire, così, che forse si tratta proprio della più efficace e coerente, matura e intransigente politica di sinistra oggi praticabile: e proprio perché affonda le sue radici nelle contraddizioni più acute e qualificanti del sistema di cittadinanza contemporaneo e delle attuali relazioni tra individuo e Stato. Testamento biologico e diritti dei detenuti, condizione dei migranti e critica dei proibizionismi sono altrettanti temi che rimandano direttamente alle questioni cruciali del rapporto tra autodeterminazione individuale e diritto alla cura, tra libertà personale e sicurezza collettiva, tra inclusione e marginalità, tra proibizione e responsabilità. Queste contraddizioni unitamente a quelle derivanti dalla nuova stratificazione del lavoro e del non lavoro, pongono su basi diverse le questioni di sempre dell’eguaglianza e della libertà. E allora, delle due l’una: o si rinuncia a qualunque idea di sinistra, oppure dove altro mai fondare quell’idea se non sui temi radicali dei Radicali?
In una prossima rubrica argomenterò perché, a mio avviso, la candidatura di Emma Bonino non allontana “il voto dei cattolici”. Anzi.❖

il Fatto Quotidiano 8.1.10
Bersani senza Udc non sa proprio stare
di Caterina Perniconi

V a’ dove ti porta l’Udc. Questo è il motto che guida il Partito democratico nella partita delle elezioni regionali che non è ancora chiusa. I candidati si scelgono “con un filo logico che porti a rendere più competitivo il centrosinistra” ha detto ieri il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. Ovvero: più siamo, contro Berlusconi, meglio stiamo. E il peso dell’Udc, forza parlamentare che dialoga a de- stra e sinistra, è più importante di quello espresso dalle minoranze. Perciò se Pier Ferdinando Casini in Puglia preferisce Boccia a Vendola, sarà quello il candidato. Mentre nel Lazio, dove l’Udc appoggerà Renata Polverini, “via libera anche ad un candidato non Pd”. E allora ecco che l’ipotesi Emma Bonino torna in campo co- me candidatura di tutta la coalizione e il partito si divide: perché i cattolici ritengono l’esponente ra- dicale “anticlericale” e temono che una sua candi- datura non allargherà il consenso, trasformando il confronto elettorale in uno scontro ideologico con inevitabili riflessi sulla dialettica interna al partito. Del resto l’incapacità di esprimere un candidato de- mocratico per il Lazio, regione perno dello scac- chiere politico nazionale, ricalca le difficoltà che ha avuto anche Berlusconi nell’individuare un “fede- lissimo”, sacrificando la poltrona ad un accordo che tenesse insieme sia Fini che Casini. Emma Bonino non è però l’unico fronte caotico nel Pd. Il sacrificio di una vittoria in Puglia, ma anche solo delle primarie, in nome di un’alleanza moderata Pd-Udc fa tremare i polsi dei molti che non vogliono un lega- me esclusivo. Fino ad Arturo Parisi, che promuove la Bonino e scarica la colpa di questa situazione di stallo sulle scelte di Massimo D’Alema, invitandolo a confes- sare che per lui “le primarie, il maggioritario e la democrazia dei cittadini, sono tutte boiate”.
Il clima che si respira non è dei migliori e Pierluigi Bersani deve averlo registrato rientrando dalla sua vacanza americana. Infatti ci ha tenuto a precisare, a chi lo ha accusato di scarsa presenza, che ci devono prendere l’abitudine, perché “chi ha maggiori re- sponsabilità non deve per forza partecipare alle chiacchiere quotidiane, perciò parlerò meno di al- tri e sarà così nel futuro”. Ma non sarà facile per lui, nell’era dell’informazione continua, convincere il partito che questa scelta sia giusta. E ieri anche il sindaco di Venezia non si è risparmiato un commen- to al vetriolo sul segretario definendo il partito “in una crisi drammatica di leadership e di strategia”. Critiche alle scelte di Bersani anche da Antonio Di Pietro, che si ritiene incapace di capire le lotte in- testine che si consumano all’interno del Pd. Uffi- cializzata ieri, per esempio, la candidatura alle pri- marie in Umbria di Mauro Agostini (tesoriere Pd in quota Franceschini) contro la bersaniana Maria Rita Lorenzetti. Dal leader Idv è arrivato anche un ul-
timatum per Bersani, al quale Di Pietro ha comu- nicato di aver già pronte le sue liste e di non essere disposto a offrire altro tempo all’indecisione dei de- mocratici.
Eppure in Puglia la situazione non si definirà prima di lunedì, giorno in cui è prevista l’assemblea re- gionale del Pd che, come ha ribadito anche Bersani, “è l’unico organo che può decidere”. Nichi Vendola ha definito “fallito” il mandato esplorativo affidato a Francesco Boccia di verificare una alleanza possi- bile che andasse da Casini a Vendola. Boccia a sua volta ha dichiarato pubblicamente di non volere le primarie che servirebbero a spaccare la coalizione e non a unirla. E’ bastata una frase di Roberto Ruocco, capogruppo del Pdl in Puglia, a spiegare la situa- zione: “Di fronte a quel che sta accadendo a sinistra, a noi verrebbe da ringraziare Sant’Antonio per la troppa grazia. Francamente non potevamo nemme- no immaginare che l’avversario contro il quale ci apprestavamo a combattere, con la credibilità di cinque anni di dura opposizione, ci si squagliasse dinanzi prim’ancora dell’inizio della battaglia”.

l’Unità 8.1.10
Lo sciopero del primo Marzo
Il lavoro ai fianchi degli immigrati
di Khalid Chaouki

L a giornata di sciopero dei lavoratori immigrati proposta per il primo marzo da un gruppo spontaneo attraverso la Rete è una bella provocazione. Ma è anche una difficile prova per chi conosce da vicino il mondo dell’immigrazione in Italia. Gli immigrati nel nostro Paese sono divisi tra loro, intimoriti da qualsiasi autorità, ancora poco (e a volte male) rappresentati nelle massime organizzazioni sindacali, ricattati a causa del contratto di soggiorno introdotto dalla famigerata Bossi-Fini e non hanno ancora, in larga parte, sviluppato la cultura della lotta democratica. Per giunta vivono in un Paese in cui le forze della società civile sono sempre più indebolite e poco connesse alla realtà degli immigrati e dove manca tuttora una condanna netta e trasversale di tutte le forme di discriminazione e razzismo a differenza di tutti gli altri maggiori Paesi europei.
Un quadro italiano quasi tutto negativo in cui risulta difficile affiancare la pur lodevole iniziativa italiana per lo sciopero dei lavoratori immigrati alla gemella manifestazione francese, che si terrà sempre il primo marzo e che sta sempre più diventando uno sciopero contro i consumi e una grande mobilitazione di tutti i lavoratori. In Francia esiste da anni un movimento misto per i diritti degli immigrati e contro il razzismo ben più radicato del nostro, dove anche le persone senza permesso di soggiorno scendono nelle piazze rivendicando la loro regolarizzazione e i loro diritti in quanto esseri umani. Qui da noi gli irregolari urlano la loro disperazione nei corridoi e dietro le sbarre dei Cie, e qualcuno di tanto intanto muore senza che se ne accorga nessuno.
La manifestazione italiana dovrebbe porsi l’obiettivo di sensibilizzare tutti i lavoratori, italiani doc compresi, rispetto alla deriva xenofoba di alcune realtà politiche e quanto questa tendenza possa risultare pericolosa per tutti i lavoratori senza distinzioni. In questo modo si rafforzerebbe una maggiore coesione tra tutti i lavoratori, duramente minata alla luce della crisi economica in atto, dove in certi casi i primi a finire sul marciapiede sono stati i lavoratori immigrati, anche su richiesta esplicita dei loro colleghi italiani. Il motto leghista “Prima gli italiani” in quei casi evidentemente si era invertito. Il secondo obiettivo è l’avvio di un dibattito sulle modalità organizzative interne alle comunità di immigrati. Altrimenti il rischio è che si torni a logiche da archiviare in cui un gruppo di bianchi buoni, in buonissima fede, tenta di mobilitare intere comunità di immigrati assegnando loro il compito di urlare slogan e battere tamburelli colorati. Se vogliamo realmente chiudere quella fase, l’unica stada è la partecipazione responsabile degli immigrati. In cui, anch’essi si sentano realmente compartecipi di una lotta e di un obiettivo comune. Si sentano davvero cittadini.❖

l’Unità 8.1.10
Permessi di soggiorno in tempi biblici
Il mio digiuno contro la burocrazia
di Shukri Said

Uno sciopero della fame non è una cosa da prendere alla leggera. Si mette a rischio la propria salute, il proprio fisico. Chi lo fa crede fortemente nella giustizia, chi lo fa crede negli altri. Io sono in sciopero della fame da una settimana e comincio ad sentirne gli effetti: mi muovo più lentamente, ho capogiri, faccio fatica anche a scrivere questo articolo. Ma sono serena, perché sento di fare la cosa giusta, perché voglio denunciare un’ingiustizia. Sì, perché con lo sciopero della fame voglio denunciare un clima intollerabile verso gli immigrati, una situazione che crea una discriminazione inaccettabile per un paese civile. Il mio paese, l’Italia.
Ci sono tre elementi che hanno creato una miscela esplosiva: la legge Bossi-Fini, il pacchetto sicurezza, la sanatoria. Si voleva frenare la clandestinità, il risultato è l’opposto. Parliamo di permessi di soggiorno: bene, la Bossi Fini ha moltiplicato la burocrazia, dilatando a dismisura i tempi per il rinnovo. Il risultato è che se entro sei mesi non riesci ad ottenere il rinnovo, diventi clandestino. La conseguenza? Che diventa illegale anche chi illegale non è, chi illegale non vuole essere, chi illegale ha il diritto di non esserlo. Il secondo e il terzo punto sono legati tra loro: parliamo del cosiddetto «Pacchetto sicurezza» e della sanatoria conseguente: tutto ciò doveva servire a perseguire la criminalità e l’illegalità. Quello che accade realmente è che invece vengono colpiti gli immigrati regolari e attaccati i diritti naturali dell’individuo: il matrimonio, il riconoscimento dei figli. La sanatoria, inoltre, ha creato una grave discriminazione tra colf e badanti (ammesse) e tutti gli altri lavoratori (esclusi). Il risultato è la confusione più totale, con il rischio di un pericoloso scivolamento verso l’illegalità di migliaia di individui che lavorano, producono, versano contributi. Venti anni fa era meglio. Prima, per ottenere il rinnovo del permesso, se avevi il lavoro dovevi sottoporti solo ad una lunga fila. Oggi, non basta più. Giri di ufficio in ufficio, di timbro in timbro, un supplizio... e la risposta ti arriva in un periodo che varia dai 7 ai 13 mesi. Nel frattempo sei già diventato clandestino e rischi di essere licenziato ed espulso. Molti ottengono il permesso quando sta per scadere di nuovo, altri addirittura quando è già scaduto. Naturalmente, però, i soldi vanno versati prima... Ho visto gente piangere, lavoratori vessati, umiliati. Così come Sher Khan morto (ucciso, io dico) dopo che, a 21 anni di residenza in Italia, scaduto il suo permesso era stato recluso nel Cie di Ponte Galeria, malato e cardiopatico, e ne era uscito a pezzi. Ecco perché faccio lo sciopero della fame: voglio che il governo rispetti la legge che prevede che il rinnovo (se tutto è in regola) sia rilasciato entro 20 giorni; voglio lo smaltimento delle pratiche arretrate, voglio che si superi la discriminazione; voglio che il mio paese sia civile, moderno, europeo. Non chiedo la luna, solo diritti. Di cittadino.❖

l’Unità 8.1.10
Rosarno, scoppia la rivolta dei braccianti africani
La città calabrese è precipitata nel caos dopo che qualcuno ha sparato contro gli immigrati. Circa in 1500 si sono riversati nelle vie con bastoni e hanno distrutto auto e tutto ciò che hanno trovato sulla loro strada.
di Felice Diotallevi

Gli spari Qualcuno ha sparato contro i lavoratori ammassati in una ex fabbrica in disuso
Condizioni disumane quelle in cui vivono gli immigrati agricoli della Piana di Gioia Tauro
di Felice Diotallevi

Condizioni di vita disumane e un atto di violenza razzista che ricorda quello avvenuto a Castel Volturno, dove un gruppo di immigrati senegalesi fu bersaglio del volume di fuoco malavitoso dei casalesi, sono stati la miccia di una rivolta senza precedenti a Rosarno.
Centinaia di auto distrutte, cassonetti divelti e svuotati sull'asfalto, ringhiere di abitazioni danneggiate. Scene di guerriglia urbana a Rosarno, per la rivolta di alcune centinaia di lavoratori extracomunitari impegnati in agricoltura e accampati in condizioni inumane in una vecchia fabbrica in disuso e in un'altra struttura abbandonata.
Le cifre
Sono oltre 1500 i lavoratori immigrati nella piana
A fare scoppiare la protesta il ferimento da parte di persone non identificate di alcuni cittadini extracomunitari con un'arma ad aria compressa. I feriti, tra i quali c'è anche un rifugiato politico del Togo con regolare permesso di soggiorno, non destano particolari preoccupazione, ma la volontà di reagire che, probabilmente, covava da tempo fra i lavoratori ammassati nella struttura di Rosarno in condizioni ai limiti del sopportabile, e di altri nelle stesse condizioni a Gioia Tauro in locali dell'Ex Opera Sila, non ci ha messo molto ad esplodere.
Armati di spranghe e bastoni,
Rosarno, un’immagine degli scontri gli immigrati in larga parte prove-
nienti dall'Africa hanno invaso la strada statale che attraversa Rosarno mettendo a ferro e fuoco alcune delle vie principali della cittadina. Tutto ciò che si è trovato alla portata dei manifestanti, dalle auto, in qualche caso anche con persone a bordo, alle abitazioni, a vasi e cassonetti dell'immondizia che sono stati svuotati sull'asfalto, nulla è stato risparmiato.
A nulla è valso l'intervento di polizia e carabinieri schierati in assetto antisommossa davanti ai più agguerriti, un centinaio di persone tenute sotto stretto controllo.
RINFORZI
Nel corso della serata sono arrivati rinforzi e, in un clima di palpabile tensione, si è intavolata una trattativa nel tentativo di fare rientrare la protesta. Anche la popolazione ha
Foto Ansa
reagito davanti alla situazione di caos venutasi a creare e, in queste ore, alcuni giovani di Rosarno, circa un centinaio, stanno seguendo l'evolversi della situazione ad alcune centinaia di metri dalle forze dell'ordine.
Tra Rosarno, l'ex fabbrica in disuso, e Gioia Tauro in un immobile dell'ex Opera Sila sono circa 1.500 gli extracomunitari che lavorano come manodopera nell'agricoltura. ❖

l’Unità 8.1.10
All’ospedale no se sei una ragazza nera
di Dario Voltolini

L’anticipazione Un testo dello scrittore torinese sulla condizione degli immigrati nel nostro Paese: se malati o feriti hanno paura di rivolgersi al pronto soccorso e preferiscono andare a casa. La «storia» di un incontro...

Avevo già aperto il cancello, stavo entrando, spingevo, e quello che è di ferro, alto e vecchio, cigolava. Era notte, l’incrocio con il semaforo giallo che lampeggiava era in pendenza, tutto normale: le prime foglie per terra, un po’ di vento che le spostava. Forse passava una macchina. Ma era tardi, il traffico svanito. Scendeva lungo il corso una figura scura, confusa nella notte. Mentre richiudevo il cancello vedevo che era una ragazza, ormai era vicina. Si teneva il ventre come se fosse stata accoltellata e impedisse alle budella di uscire. Trascinava la gamba destra.
Me ne frego, ho pensato subito. E voltandomi verso l’interno dell’androne ho fatto un passo verso la porta della scala A. Ma poi non me ne sono fregato, e sono tornato indietro: vedevo la ragazza rallentare, dirigendosi oltre il chiosco del giornalaio, nero nella notte, con le locandine sventolanti.
Uscivo dal cancello, lo richiudevo alle mie spalle, ero di nuovo in strada. Qualcosa non va? chiedevo alla ragazza, che non sentiva, ehi qualcosa non va? Niente, si trascinava. La raggiunsi, qualcosa non va? Stai male?
Non ho niente, diceva piegandosi in due, guardava per terra. Invece non va niente bene, le dicevo, stai male, hai male, cosa è successo?
Ho male, mi diceva mentre non riusciva più a camminare.
Qualcuno ti ha picchiata?
Non l’avevano picchiata, sosteneva, diceva che non era niente, però non si muoveva più, così le ho detto
Era notte
Una donna si teneva il ventre come se fosse stata accoltellata
che l’avrei portata all’ospedale. C’è un ospedale proprio qui vicino, le dicevo, l’isolato prima di questo, con un pronto soccorso, andiamo subito lì, persino a piedi ci possiamo andare, torniamo indietro e siamo al pronto soccorso, ma certo che non poteva camminare, era meglio se prendevo la macchina e facevo il giro dell’isolato entrando poi così con lei a bordo nell’ingresso per le ambulanze.
Continuava a dire di no, cioè a fare segno di no con la testa, perché non riusciva a parlare. Ricordo che guardavo il punto che si teneva, per capire se ci fosse del sangue, perché l’idea di una coltellata non mi era mica passata per la testa, la vedevo già svenuta sullo spiazzo, tra il chiosco del giornalaio e il telefono pubblico, rimasto lì come un reperto d’epoca.
Avevo l’idea della coltellata perché era molto giovane, nera, e quindi il mio film mentale era che si fosse beccata una rasoiata da qualcuno, o da qualcuna, perché così capita di notte alle ragazzine che battono, non potevo fare a meno di pensare. Ma per fortuna non c’era stata nessuna coltellata se non nel mio film privato. Però stava per cedere, per lasciarsi scivolare per terra.
Mentre la sostenevo con un braccio per portarla in macchina avevo appena parcheggiato proprio lì vicino sentivo che si rianimava un poco, si rimetteva a camminare, quantomeno. Ma continuava a fare no con la testa, no che cosa? pensavo. No all’ospedale? Infatti era quello, no all’ospedale, mi diceva, non ho permesso, non ho documento, no all’ospedale. Ma tu hai male, le dicevo io, e quindi ti porto sì all’ospedale, per forza.
Faceva no con la testa
«Non ho permesso, non ho documento, no all’ospedale...»
No. E dove ti porto allora? A casa. Ma quale casa, ma dove? Le chie-
devo dove stesse e lei mi rispondeva con un nome di via che avevo presente, sì, e sapevo che era lì vicino, però non esattamente dove. E cosa ci fai a casa, pensavo e glielo domandavo anche, mentre saliva faticosamente in macchina. In quella casa che mi diceva, c’era qualcuno, qualcuno che potesse prendersi cura di lei, qualcuno che magari la convincesse a ritornare indietro verso il pronto soccorso, magari che ce la portava?
C’era sua sorella, mi diceva. Ma io lo sapevo che la parola sorella voleva dire tutto e niente, poteva voler dire che non c’era nessuno, o che c’era un uomo enorme, o che c’erano due donne incazzate con lei, o una ragazzetta come lei, diventata sorella sua a Torino, dove si erano viste per la prima volta, anche se erano connazionali. Sorella, ma quale sorella? Tutte che hanno la sorella, che abitano dalla sorella, che vanno dalla sorella, e chi cazzo è questa sorella?
Ma niente da fare, come rinata mi indicava dove svoltare, di qui, di là, verso la casa. Infine ci troviamo all’angolo con la piazza del mercato, dove potevo parcheggiare, visto che la casa della sorella era proprio lì, a una decina di metri dall’angolo.
Ma quando stava scendendo dalla macchina il dolore doveva stare aumentando a picco, perché era nuovamente piegata in due con la mano e anzi con tutto l’avambraccio a premersi tra l’inguine e l’ombelico, dalla parte destra. Hai un attacco di appendicite, pensavo rivolto a lei. Mi guardava, non capiva, a casa, diceva.
Abbiamo fatto quei dieci quindici metri così lentamente che non potevo pensare di stare facendo una cosa sensata, perché anche se fossimo arrivati a questa casa che diceva, poi cosa sarebbe successo? Sarebbe svenuta? L’avrebbero presa in consegna priva di sensi? Intanto ci eravamo trascinati fino a una porticina sperduta nella facciata grigia di un condominio afono apparentemente deserto, come se fosse stato abbandonato tanti anni prima, un posto che non è possibile notare di giorno perché non ha niente, ma proprio niente che salti all’occhio. E la porticina l’aveva aperta lei con una chiave che stava nel mazzo con altre chiavi, pensavo che erano chiavi di tante porticine sparse per la città, tutte che portavano a stanze con qualche sorella.
© Dario Voltolini. Tutti i diritti riservati trattati da Agenzia Letteraria Internazionale, Milano

giovedì 7 gennaio 2010

il Fatto Quotidiano 7.1.10
Gli esploratori del Pd cercano ma il faro è sempre lo stesso Casini
Nel Lazio e in Puglia l’obiettivo è trovare un accordo con l’Udc
I centristi bocciano sia Vendola sia la Bonino E contro la Polverini si fa il nome di Letta
di Enrico Fierro

Getta la spugna Nicola Zingaretti. L'Udc non sosterrà mai Emma Bonino nella corsa alla Presidenza della Regione Lazio. Pierferdinando Casini è stato chiaro: “Se i nomi sono questi allora appoggiamo la Polverini”. Parole che costringono il numero uno della Provincia di Roma, incaricato da Bersani di sondare Udc e Idv, rimanda la palla al suo partito. “O individuiamo una novità forte da cui ripartire, una autorevole candidatura di livello nazionale, o sosteniamo con tutte le forze Emma Bonino”. Perché, ha spiegato Zingaretti, allo stato delle consultazioni “non esistono le condizioni per una candidatura che coinvolga tutte le forze di una coalizione così ampia”. Partita conclusa in Lazio? Forse. Perché è proprio Casini a lasciare aperto un piccolo spiraglio. La riunione del vertice dell'Udc prevista per domenica che dovrebbe concludersi con la decisione definitiva sulle alleanze nel Lazio, forse sarà rinviata. In attesa della proposta-choc del Pd. Un nome nazionale che non dispiacerebbe a Casini? Negli ambienti del Pd ieri sera si faceva quello di Enrico Letta, anche se non è un mistero che proprio una eventuale candidatura del Presidente della Provincia di Roma potrebbe convincere l'Udc a cambiare idea. “Al punto in cui sono arrivate le cose Nicola resta dov'è: fa l'esploratore e basta”, dicono però i suoi. “Si sono fatti troppi errori e si è perso troppo tempo”. Sotto accusa è il vertice laziale del Pd e il suo segretario Alessandro Mazzoli che ha gestito “male,anzi malissimo tutta la partita”. Il ragionamento è questo: il 17 dicembre, all'assemblea degli eletti del Pd, Zingaretti offre la sua disponibilità a candidarsi, ma pone due condizioni, la prima è quella di costruire una coalizione allargata a Udc e Idv, la seconda è quella di proiettare la stessa alleanza per la Provincia. Da allora fino ad oggi Mazzoli non avrebbe fatto granché, lasciando aperto quel vuoto politico colmato da Emma Bonino. “Ed ora – dicono i fedelissimi del Presidente – è difficile tornare indietro”. Anche perché gli ultimi sondaggi, autore “Crespi Ricerche”, danno Zingaretti perdente col 48% e la Polverini al 51, e riservano una sorpresa. Se a scontrarsi con la sindacalista indicata da Fini dovesse essere Emma Bonino, non è escluso un ribaltamento delle posizioni con la vicepresidente del Senato al 51 e la Polverini al 49%. Se il Pd sarà costretto ad accettare la candidatura Bonino per mancanza di alternative forti, dovrà anche scontare le fortissime contestazioni dei cattolici all'interno del partito. Paola Binetti, esponente dell'ala teodem, è stata nettissima: “Se candidano Emma Bonino vado via e voto per la Polverini”. Caos totale anche in Puglia. Francesco Boccia, l'altro “esploratore” incaricato da Bersani, sta continuando le sue consultazioni. Le primarie sono in forse (l'Udc non le vuole e
Casini ha comunque già scelto Boccia), e senza consultazione popolare Vendola presenterà una propria lista che i sondaggi valutano intorno al 10%. In queste condizioni la sconfitta del centrosinistra allargato all'Udc è certa, anche perché il Pd è dilaniato tra vendoliani e seguaci di Boccia, tra ultras delle primarie e fautori del primato degli accordi tra le segreterie. Una realtà che fa dire a Pierluigi Castagnetti che “al punto in cui siamo le primarie mi sembrano una soluzione quasi obbligata”. Boccia, stando ai rumors che circolano a Bari e dintorni, non le ama, forse ricordando l'esito catastrofico del 2005, quando fu sconfitto da Nichi Vendola, allora considerato poco meno di un outsider.
Il governatore, che ieri ha seccamente smentito di avere in calendario incontri con il candidato-esploratore del Pd, ha ribadito la sua posizione. “Politicamente non ho molto da dire a Boccia: aspetto di sapere se ci saranno le primarie, fuori da questo schema è impossibile ogni tipo di convergenza”. Boccia ieri ha continuato il tour de force degli incontri. “Stiamo mettendo insieme tutti i tasselli, domani tireremo le somme”. E anche sulle primarie il pupillo di Enrico Letta è costretto ad essere possibilista. “Se lo decide l'intera coalizione vanno anche bene”. Sulla sua candidatura la prende da lontano: “I nomi vengono dopo, molto dopo la costruzione di una coalizione ampia che ci consenta di fermare la destra in Puglia”. Infine conclude con una espressione tipicamente barese: “Se la processione è andata bene si vede al ritorno in Chiesa”.

il Fatto Quotidiano 7.1.10
In Toscana spunta l’accusa di Soviet

L a corsa alle elezioni è già cominciata in tutte e 13 le regioni dove si vota, con sorprese e polemiche. In Toscana l’ultimo a salire sul ring è stato Oliviero Toscani per i Radicali: “Mi batto contro un regime di stampo sovietico”. Il Pd ha schierato, con l’appoggio delle sinistre, l’attuale potente assessore alla sanità Enrico Rossi. Pdl ancora in silenzio, mentre l’Udc si prepara alla corsa solitaria: probabile la candidatura di Carlo Casini, ultracattolico del Movimento per la vita. La Liguria cerca l’Udc, tutti vogliono i cattolici, sia lo schieramento di centrosinistra del presidente uscente Claudio Burlando, ricandidato, sia Sandro Biasotti, già governatore dal 2000 al 2005, appoggiato da Pdl e Lega. In Veneto il Pd cerca di comporre un fronte anti-Lega, che presenta il ministro Luca Zaia, provando a imbastire un’alleanza con l’Udc. I cattolici hanno già proposto un candidato: Antonio De Poli. L’Italia dei Valori rompe momentaneamente i rapporti con il Partito democratico in Emilia, in attesa di un chiarimento. Qui Vasco Errani prova l’assalto al terzo mandato, il suo sfidante è Giancarlo Mazzucca, ex direttore del Resto del Carlino di Bologna. L’Udc corre da solo, con l’onorevole Gian Luca Galletti. Nelle Marche il Pd ripropone Mario Spacca, incognita sugli alleati: Udc o sinistra? Primarie in Umbria, dove Mauro Agostini sfiderà la presidente uscente Maria Lorenzetti. Per il Pdl è pronto a correre il sindaco di Assisi Cluadio Ricci, ma anche la consigliera regionale Fiammetta Modena e l’imprenditrice Luisa Todini. In Campania, invece, per il dopo-Bassolino il Pdl punta su Stefano Caldoro, anche se rimangono ancora in pista anche il ministro Gianfranco Rotondi e l’industriale Gianni Lettieri. Per il Mpa già candidato Riccardo Villari, mentre il Pd deve scegliere tra il sindaco di Salerno Enzo De Luca e il rettore di Salerno Raimondo Pasquino (in caso di accordo con l’Udc). L’unica certezza della Basilicata è Vito De Filippo candidato per il Pd. In Lombardia a sfidare Roberto Formigoni (Pdl) c’é Filippo Penati (Pd).

l’Unità 7.1.10
Per 24 ore fate a meno di noi
Dalla Francia all’Italia il primo marzo badanti, operai, autisti di autobus incroceranno le braccia
L’idea è di quattro donne. «Il Paese funziona ogni giorno grazie al loro lavoro. Ma se ne vergogna»
Un giorno senza immigrati Il primo sciopero degli stranieri
di Cesare Buquicchio

Già diecimila contatti su Facebook e web (http://primomarzo2010.blogspot.com) e decine di comitati che stanno nascendo in tutta Italia per sostenere lo sciopero del 1 ̊ marzo: «24h senza di noi».

Si sono dette: «Proviamoci». Sono quattro donne e stanno cercando di fermare l'Italia. La data è il primo marzo 2010 e, se il lavoro di Stefania, Daimarely, Nelly e Cristina avrà successo, quella sarà una data da ricordare. «Ventiquattro ore senza di noi», una giornata senza immigrati. Senza badanti per i nostri anziani, senza operai nei cantieri edili. Ma anche senza migliaia di autisti di autobus, impiegati delle poste, medici. Una giornata con gli alimentari vuoti, i bar deserti, le linee telefoniche mute. L'idea è arrivata dalla Francia: «Le nostre società vivono grazie al lavoro di migliaia di stra-
nieri. L'Italia funziona ogni giorno grazie a loro ma se ne vergogna. Così cerca di ignorarli, chiuderli fuori, annegarli in mare come si fa con le cucciolate di gattini troppo numerose. Si vergognano di noi? Bene vediamo che succede se per un giorno noi non ci siamo».
Ecco come è nato lo sciopero degli stranieri del primo marzo prossimo in Francia. «Appena ho saputo la notizia – racconta Stefania Ragusa, giornalista di Glamour e da sempre attiva su questi temi – ho chiamato la mia amica Daimarely Quintero (arrivata da Cuba nel 1995 e impiegata nel sociale). Da molti anni pensavamo di fare una cosa del genere, ma le difficoltà organizzative ci hanno sempre scoraggiate». Questa volta è diverso. Sull'onda dell'iniziativa francese e con la stretta collaborazione con Nadia Lamarkbi, organizzatrice del primo marzo d'oltralpe, le ventiquattro ore senza stranieri non sembra più una utopia. Quasi diecimila iscritti su Facebook (alla pagina Primo marzo 2010), adesioni di esponenti politici, docenti universitari e associazioni, comitati locali che nascono in tutte le città italiane a sostegno del coordinamento nazionale, formato dalle fondatrici Stefania Ragusa e Daimarely Quintero, a cui si sono aggiunte Nelly Diop e Cristina Seynabou Sebastiani. «Ora le difficoltà principali sono due – spiega Daimarely – far conoscere l'iniziativa a tutti gli stranieri che non hanno accesso a Internet (e sono tanti) e creare degli eventi da qui al primo marzo che possano dare l'occasione a chi non potrà astenersi dal lavoro, perché un lavoro non ce l'ha, perché lavora in nero oppure perché è troppo ricattabile, per partecipare comunque alla protesta. Per questo stiamo pensando anche allo sciopero dei consumi».
A boicottare gli acquisti qualcuno ci sta già provando. Ousmane Condè è il presidente dell’Unione degli immigrati di Vicenza, una realtà che raccoglie diciotto associazioni di stranieri, e sta organizzando uno sciopero in massa degli acquisti per la fine di gennaio, una sorta di prova generale del primo marzo: «Se noi stranieri non andremo a fare la spesa i supermercati della zona ne risentiranno sicuramente». «Ma il principio non sarà quello di danneggiare le aziende – ci tiene a precisare Stefania –, anche perché in un giorno non danneggi nessuno. Vorremmo solo far percepire l'importanza che hanno gli stranieri per tutti gli aspetti della vita del nostro Paese». E, tra le iniziative in questo senso, c'è da segnalare quella del comitato di Palermo: nel capoluogo siciliano prima delle ventiquattro ore senza stranieri vogliono organizzare ventiquattrore «con gli stranieri» portando le scolaresche in giro per gli alimentari degli immigrati per scoprire le loro tradizioni culinarie.❖

l’Unità 7.1.10
Cari sindacati, la proposta non è banale
La massima parte dell’ assistenza alle persone anziane come la ristorazione, la pesca, l’edilizia dipendono dal lavoro straniero Sostenere la protesta è un piccolo passo, ma un buon inizio
di Luigi Manconi

Insostituibili. Gli immigrati sono parte insostituibile della forza lavoro
Le iniziative. Potreste promuovere iniziative, assemblee campagne informative

Cara Renata Polverini e cari Angeletti, Bonanni, Epifani, so bene che organizzare uno sciopero degli immigrati che lavorano nel nostro Paese è un’impresa ardua, che richiede molto tempo. E che, oltretutto, solleva una questione di unità: è giusta una mobilitazione dei soli immigrati, molti dei quali già iscritti ai sindacati? E, tuttavia, non possiamo ignorare che in Francia il primo marzo 2010, vi sarà un’iniziativa esattamente di tale natura. Lo slogan è semplice: “24h sans nous” (un giorno senza di noi), ma tutt’altro che banale. Esso allude a una realtà a dir poco sottovalutata, ma in verità rimossa. Ov-
vero il ruolo che il lavoro straniero svolge nella produzione di merci, beni e servizi e, in sostanza, della ricchezza nazionale.
Finalmente, i dati relativi a tale importantissimo contributo cominciano ad affiorare: di recente ne ha evidenziato alcuni, il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi. E, così, si prende coscienza del fatto che quote significative del Pil e della contribuzione previdenziale, la massima parte del lavoro di cura (attività domestiche, baby-sitter, badanti, infermiere), le mansioni essenziali in alcuni settori (agropastorizia, ristorazione, pesca, ma anche edilizia e siderurgia) dipendono dal lavoro straniero. E che “un giorno senza” quel lavoro infliggerebbe un danno rilevante alla nostra economia.
Insomma, gli immigrati rappresentano una parte insostituibile della forza lavoro di questo paese e degli altri Paesi europei e, dunque, la loro assimilazione a una minaccia sociale e la loro riduzione a un problema criminale, prima che un’infamia, è un’immensa sciocchezza. Autolesionistica, per giunta.
È vero, poi, che ci sono molti stranieri che delinquono, molti irregolari e molti altri che lavorano “in nero”. Mentre per i primi, è sufficiente l’attuale codice penale, per il secondo e per il terzo gruppo sono fondamentali le politiche di integrazione, capaci di sottrarre quei lavoratori alla doppia condizione di irregolarità (del soggiorno e del lavoro). Qui il ruolo del sindacato è a dir poco essenziale. Cgil, Cisl, Uil e Ugl non sono stati con le mani in mano, ma moltissimo resta da fare. Anche per evitatare che i lavoratori stranieri, compresi quelli regolari, si sentano più deboli degli italiani, sotto il profilo dei diritti sindacali; e perché tra gli stranieri e gli italiani non si sviluppino forme di concorrenza. E si tratta di un pericolo di cui già si vede qualche traccia: e di cui i movimenti operai di altri paesi hanno fatto dolorosa esperienza.
Per affrontare tutto ciò, non è necessario proclamare uno sciopero destinato a risultati assai esili: ma l’occasione della mobilitazione in Francia deve essere comunque colta. Per quel giorno, 1 marzo, i vostri sindacati potrebbero promuovere iniziative in tutta Italia, in particolare in quelle aree dove la convivenza tra stranieri e ita-
liani è in atto da anni e risulta più faticosa. Assemblee, diffusione di materiale informativo, incontri aperti ai cittadini, campagne di tesseramento tra i lavoratori stranieri, “feste del lavoro”. Può apparire un piccolo passo, ma un buon inizio è già molto.❖

l’Unità 7.1.10
L’ex Miss Somalia: «Da noi il 10% del Pil» Scego: «Anche io ci sarò»

Lei, prima di arrivare allo sciopero del primo marzo, è già in sciopero della fame per protestare contro i ritardi nella concessione dei permessi di soggiorno. L'attrice Shukri Said, trentacinquenne ex miss Somalia, non ha dubbi: «Noi stranieri in Italia dobbiamo imparare a fare da soli. Dobbiamo organizzare nostre iniziative. Grandi partiti e sindacati, al di la delle dichiarazioni di principio, non ci sostengono fino in fondo. Ben venga, quindi lo sciopero del 1 ̊ marzo. Dopo tutto solo gli stranieri regolari producono il 10% della ricchezza italiana...».
Sulla stessa linea anche la scrittrice Igiaba Scego: «La politica è bloccata, anche a sinistra, siamo noi che dobbiamo dare un segnale forte. Spesso le iniziative organizzate dai partiti si riducono a cose folcloristiche sull’immigrazione, mentre ci sarebbero tante persone da consultare per fare delle campagne utili. Il primo marzo io sogno una grande mobilitazione di stranieri e di italiani al loro fianco. Da scrittrice io non posso scioperare e anzi, mi sento chiamata a raccontare una grande giornata di riappropriazione di diritti». CE.BU.

l’Unità 7.1.10
E se si fermassero? A perdere saremmo solamente noi
Il lavoratore straniero è sempre più importante nell’economia italiana. Secondo i dati di Unioncamere producono un decimo del nostro Pil ma sono anche quelli che ricevono di meno dal Welfare.
di Roberto Rossi

Due milioni di immigrati lavoratori contribuiscono al 9,5% del Pil: circa 134 miliardi di euro
Senza contare poi che sugli stranieri si reggono anche i conti dell’Inps. Versano circa 7 miliardi

E se a un certo punto di fermassero? Se l’Italia dovesse rinunciare all’apporto degli immigrati? Cosa succederebbe? Di certo saremmo più poveri. Molti più poveri. I due milioni di immigrati lavoratori (di cui la metà iscritta ai sindacati) contribuiscono al 9,5% del prodotto interno lordo. In valori assoluti, secondo le stime di Unioncamere, si tratta di 134 miliardi di euro. All’incirca come tredici leggi finanziare targate Tremonti. Saremo più poveri noi, ma anche i nostri figli. Perché sul lavoro degli immigrati si reggono anche i conti dell’Inps. I versamenti contributivi effettuati all’Istituto nazionale di previdenza sociale sono stimati in oltre 7 miliardi di euro, dei quali oltre 2,4 pagati direttamente dai lavoratori stranieri e la restante quota dai datori di lavoro.
OCCUPATI
Gli stranieri al lavoro dunque sono una risorsa. E sono ogni anno di più. Nel 2008, certifica il rapporto Caritas sull’immigrazione, il loro numero tra gli occupati è salito di 200 mila unità. Del resto, nel mercato occupazionale italiano i lavoratori nati all’estero sono il 15,5% del totale. Tra questi una buona fetta sono gli italiani di ritorno, ma la maggioranza sono stranieri. Che presentano caratteristiche ben precise. La prima, secondo sempre il dossier Caritas, è l’estrema motivazione a riuscire, per il fatto che per loro la migrazione rappresentauna scelta esistenziale forte. La seconda è la disponibilità a svolgere un’ampia gamma di lavori, da cui deriva anche la loro alta concentrazione nei settori meno appetibili per gli italiani e anche la più alta esposizione a rischio sul lavoro (143.651 infortuni nel 2008, dei quali 176 mortali). Un’altra caratteristica, oltre al fatto di avere meno gratifiche rispetto agli omologhi italiani è la necessità di sostenere i familiari rimasti in patria (ai quali nel 2008 hanno inviato 6,4 miliardi di euro con le rimesse).
Questo spiegherebbe anche un elevato dinamismo imprenditoriale. Attualmente si contano 187.466 cittadini stranieri titolari di impresa, in prevalenza a carattere artigiano, che garantiscono il lavoro a loro stessi e anche a diversi dipendenti (attorno ai 200 mila, secondo la stima riportata nel libro ImmigratImprenditori della Fondazione Ethnoland).
DEBITO
Se sono i più motivati, se lavorano di più, e in condizioni peggiori rispetto ai colleghi italiani, sono anche quelli che ricevono di meno. La stima del gettito fiscale, includendo le tasse più rilevanti, è di oltre 3,2 miliardi di euro. Ne deriva che, direttamente dalle buste paga dei lavoratori immigrati, provengono in totale 5,6 miliardi di euro (ma secondo la Cgia di Mestre sono anche di più). E quanto rendiamo loro? Per i servizi sociali rivolti direttamente agli immigrati (centri di accoglienza, progetti di integrazione, ecc.), i Comuni italiani hanno speso, nel corso del 2005, 136 milioni di euro. E cioè il 3,7% delle entrate fiscali. Anche ipotizzando che parte delle altre spese dei servizi sociali (asili nido, accoglienza per minori, assistenza ai poveri) coinvolga stranieri, l’ammontare delle risorse dallo Stato si aggirerebbe attorno ai 700 milioni. Poco.❖

l’Unità Firenze 7.1.10
«Ho battuto la Chiesa in Europa per la libertà»
Intervista a Luigi Lombardi Vallauri
di Valentina Grazzini

Il risarcimento Nel ‘98 il filosofo fu sospeso dalla Cattolica di Milano per tesi considerate eterodosse. La Corte europea gli ha dato ragione

Non nomina il premier Berlusconi, parlando di lui come «l’omunculus bandana» e nitrendo ogni qualvolta lo sente nominare (come accade ai cavalli al nome di Frau Blücher in Frankestein Junior di Mel Brooks), perché dice di aver fatto voto di non turpiloquio. È vegetariano convinto, veganiano, visto che «una delle più grandi esigenze dell’etica contemporanea, forse la numero uno, è occuparsi dei diritti degli animali». È un misto di dottrina e spirito caustico Luigi Lombardi Vallauri, studioso piemontese ordinario di filo-
sofia del diritto all’Ateneo di Firenze. Un personaggio coraggioso e controcorrente, che difficilmente lascia una causa a metà. La sua ultima vittoria, la più grande, l’ha festeggiata poche settimane fa, quando la Corte dei diritti umani di Strasburgo ha condannato lo Stato italiano a risarcirlo con 10mila euro, a conclusione di una delle vicende più esemplari in materia di libertà di insegnamento (e di pensiero) degli ultimi decenni. Ce la racconta. Professore, ci parli dell’«Affaire Lombardi Vallauri c. Italie», come recita la sentenza...
«Nel ‘98 fui sospeso dall’attività didattica dell’Università Cattolica di Milano, dove insegnavo da 21 anni, a causa della mia dottrina sull’Inferno: come filosofo del diritto osservavo che il peccato originale è contrario al principio della responsabilità personale della pena. Una pena eterna è sproporzionata a qualunque delitto uno possa aver compiuto. Questo fu considerato eterodosso e il cardinale Pio Laghi, prefetto per l’educazione cattolica, avviò il processo. Non vi fu né quel che si dice “giusto processo” né dibattito intellettuale. Il Tar Lazio rigettò il ricorso, il Consiglio di Stato anche. Nel 2005 facemmo ricorso alla Corte europea, che con i suoi 47 rappresentanti di altrettanti Stati dell’Unione, considero la cattedra giuridica dell’umanità. Ho vinto 6 a 1, un ottimo punteggio tennistico che ho preferito all’unanimità: è più trasparente».
Guardando indietro qual è la cosa che le ha fatto più male e quella che le ha dato al contrario maggior gioia in tutta la vicenda?
«Sul piano psicologico ha fatto male l’atteggiamento di indifferenza in Cattolica: non certo di Pio Laghi, nunzio dei colonnelli argentini, citato in giudizio dalle madri di Plaza de Maio e soprannominato in Argentina Pio Lager: esser processato da lui è stato un onore. Quanto da parte dei colleghi, il preside, il rettore: hanno dimostrato di non capire che il problema della mia libertà era anche il loro, che l’Università Cattolica, prima di essere cattolica è un’università, che non si può essere dipendenti dal Vaticano. La più bella? Le testimonianze intorno a me, soprattutto di credenti, che mi hanno dato la precisa sensazione di aver distribuito gioia. La vittoria di Strasburgo me l’hanno comunicata i miei studenti, al Polo di Novoli, accogliendomi festanti. L’avevano saputo dalla rete ancor prima dei miei avvocati».
Ha festeggiato?
«Facendo voto di dilapidazione: ho deciso che neanche un euro della cifra (faccio conto di averla, anche se
non è così, ci sono tre mesi di comporto nel corso dei quali potrebbe esserci un improbabile ricorso dello Stato alla Grande Charmbre della Corte) dovrà essere spesa per riparare un rubinetto. Ho prediletto lo champagne francese, per omaggio alla corte francofona, intonando “Tanti auguri a te, tanti auguri diritto, tanti auguri a te...”. Il pensiero che a pagare sia Tremonti mi dà piacere».
Cosa ne pensa della vicenda fiorentina di Don Santoro, allontanato dalla sua comunità per aver celebrato l’unione tra un uomo e una donna, “rea” di aver cambiato sesso? «Abbiamo qualcosa in comune, siamo entrambi privati di qualcosa dalla Chiesa... Il problema è che esiste una mancanza di dialogo, se non un’ostilità, tra la gerarchia cardinalizia e le comunità di base: io simpatizzo per le seconde, che realizzano la religione civile dei diritti dell’uomo, ma trovo che sul piano teorico non hanno tutta la probità intellettuale necessaria. Come esiste il «wishful thinking» (quei tipi di ragionamenti in cui cui si inferisce che qualcosa è vera perché vorremmo che fosse tale, ndr), le comunità creano un «wishful Jesus», insomma ognuno si plasma il Gesù che vuole, facendogli ignorare troppi problemi, per esempio l’esistenza dell’Inferno. Per semplificare, si tratta di un esempio di come la Chiesa pretenda di gestire i nostri corpi, e non riguarda solo i gay. Di questo paternalismo etico del tutto inaccettabile parlo nel mio saggio pubblicato da Le Lettere Nera Luce».
E l’arcivescovo Betori che condanna l’idea di Renzi di allargare le facilitazioni sui mutui alle coppie gay? «Mi viene in mente una vignetta del Male, dove si presentavano ad un tavolo di fronte ad un funzionario comunale varie coppie di postulanti diversamente assortite: lui e lei, lui e lui, alla fine un uomo solo. Che dice: «Io faccio tutto da solo, posso avere un monolocale?».
Torniamo seri: nuove frontiere del suo pensiero? «Far dichiarare incostituzionali gli articoli 7 e 8 della Costituzione, perché riservano agli enti religiosi alcuni privilegi come l’8 per 1.000. Sono contrari al principio supremo di laicità dello Stato. E se io lo volessi elargire l’8 per 1.000 ad un Club Med o all’Uaar (l’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti)?» Lasciamoci parlando di animali... «Papa Pio XII tranquillizzò gli operai dei mattatoi dicendo loro di “non doversi considerare i gemiti degli animali diversi dai clangori dei metalli nelle officine”. Gli animali sono 60 miliardi di vittime l’anno, l’etica ci impone di occuparci di loro».❖


Repubblica 7.1.10
Trovato l'Eldorado la civiltà perduta non era una leggenda
di Enrico Franceschini

Ecco il mondo perduto che innumerevoli esploratori hanno cercato per secoli, con il sogno di impossessarsi dei suoi segreti e soprattutto dei suoi tesori. Dai conquistadores spagnoli fino ai moderni avventurieri del Novecento, in tanti sono partiti per il cuore dell´Amazzonia, attirati dalla leggenda di un Eldorado nascosto, una civiltà tenuta nascosta dal fitto della foresta tropicale: molti non sono più tornati indietro, inghiottiti dalla giungla, qualcuno è riapparso parlando di "città scintillanti nel buio". Finora nessuno li aveva mai presi sul serio: l´Eldorado sembrava soltanto una leggenda, una delle favole tramandate dalla storia, come Atlantide il continente scomparso, di cui non esistevano prove tangibili. Ma ora la tecnologia del ventunesimo secolo ha rivelato che il mito raccontava una storia vera: la civiltà perduta esisteva realmente, celata e protetta dagli impenetrabili tentacoli amazzonici.
Immagini riprese via satellite e confermate da foto scattate da droni, aerei con pilota automatico come quelli usati in guerra, hanno fatto emergere più di 200 enormi disegni geometrici, cerchi, rettangoli e un dedalo di strade e fortificazioni, scavate nella parte settentrionale del bacino del Rio delle Amazzoni, vicino al confine del Brasile con la Bolivia. Con un´estensione di oltre 250 chilometri quadrati, le strutture individuate dal cielo e in parte già esplorate al livello della terraferma sono considerate dagli studiosi come la prova definitiva dell´esistenza di una vasta e sofisticata civilizzazione, sviluppatasi in quella inaccessibile regione del globo tra il 200 e il 1283 dopo Cristo, vale a dire molto prima che Cristoforo Colombo mettesse piede nelle Americhe. E´ presumibile che esistessero ancora intorno al 1513, quando i conquistadores spagnoli, tra cui Vasco Núñez de Balboa, si spinsero ai limiti dell´Amazzonia, cercando un "nuovo mondo" in Sud America.
Le figure scoperte dai satelliti, molte delle quali su altopiani, con disegni simmetrici che fanno pensare a un significato astronomico, costituiscono una rete di trincee, corridoi e fortificazioni, con larghezza fino a 11 metri, un metro di profondità e altrettanto di altezza, riporta la rivista britannica Antiquity, che ha annunciato la scoperta, ripresa ieri dal quotidiano Guardian di Londra. Alcune contengono ceramiche e oggetti di pietra. Gli esperti ritengono che fossero usati come abitazioni, templi e barriere protettive da una civiltà di almeno 60 mila persone, più di quelle che all´epoca risiedevano in molte città medievali d´Europa, in grado di competere per cultura ed evoluzione con gli Incas e gli Aztechi.
L´ipotesi è che il contatto con qualche esploratore bianco espose anche questa civiltà a malattie che la fecero rapidamente declinare e poi scomparire. L´inglese Percy Fawcett andò a cercare negli anni Venti quella che lui chiamava "La città di Z", ma non la trovò mai: Conan Doyle, il creatore di Sherlock Holmes, ne scrisse in un romanzo, The lost world. Ora quel mondo perduto è riapparso. L´Eldorado è dunque esistito, fino a quando non sono arrivati gli europei ed è stato ingoiato dalla giungla con tutti i suoi tesori.

Repubblica 7.1.10
Quella strage in francia degli immigrati italiani
Il libro dello storico Noiriel sul pogrom del 1893 nelle saline della Provenza

PARIGI. «Il più grande pogrom della storia francese contemporanea. Un emblema della xenofobia di tutti i tempi». E´ in questi termini che Gérard Noiriel presenta «il massacro degli italiani», vale a dire la terribile caccia all´uomo che il 17 agosto del 1893 si abbatté sui nostri immigrati impiegati nelle saline d´Aigues-Mortes, in Provenza. Una giornata di follia collettiva e di violenza feroce che fece 9 morti accertati, oltre cinquanta feriti e una quindicina di dispersi i cui corpi non vennero mai ritrovati. A quell´episodio a lungo rimosso dalla storiografia ufficiale, Noiriel considerato il maggior specialista francese della storia dell´immigrazione dedica oggi uno studio completo e documentatissimo, Le massacre des Italiens (Fayard, pagg. 291, euro 20, da ieri in libreria), che ricostruisce nei minimi dettagli la dinamica di quelle violenze, la realtà dell´immigrazione italiana e soprattutto «lo scandalo di un processo che, malgrado tutte le prove accumulate, assolse tutti gli imputati». Il massacro degli italiani rimase infatti impunito e in seguito l´episodio fu a lungo dimenticato da una parte come dall´altra delle Alpi. «All´epoca, tra Italia e Francia vi fu un violento scontro diplomatico, ma poi, per evitare che la situazione degenerasse in conflitto internazionale, entrambi i paesi preferirono insabbiare la vicenda», spiega lo studioso francese, per il quale troppo spesso gli italiani sembrano dimenticare i loro molti antenati emigrati all´estero. «Da allora, quel massacro fu rimosso dalla memoria collettiva. Innanzitutto in Francia, dove nessuno voleva ricordare quella pagina vergognosa della storia nazionale, i cui responsabili non furono i rappresentanti dello stato, ma dei normali cittadini. Paradossalmente però l´episodio fu dimenticato anche in Italia, forse perché per gli italiani l´emigrazione è un fenomeno poco valorizzante, vissuto sempre con un sentimento di vergogna».
Cosa successe esattamente?
«Tutto nacque da un dissidio legato al lavoro nelle saline. I giornalieri francesi, per lo più emarginati e vagabondi, non riuscivano a stare al passo con il ritmo di lavoro degli stagionali italiani, che venivano quasi tutti dal Piemonte ed erano lavoratori infaticabili. Il sentimento d´umiliazione dei francesi alimentò una prima rissa che poi degenerò, innescando la caccia all´uomo contro gli italiani, che furono inseguiti e attaccati da una folla inferocita. All´iniziale rivalità economica, si sovrappose il richiamo alla nazionalità che servì a giustificare e strutturare la violenza. Così, anche gli abitanti d´Aigues-Mortes, che inizialmente erano indifferenti alla sorte dei giornalieri francesi, si associarono alle violenze contro gli italiani. Furono pochissimi coloro che cercarono di aiutare gli immigrati a mettersi in salvo».
La xenofobia fu quindi il motore del massacro?
«Per chi non possiede nulla il richiamo all´identità nazionale diventa l´unico bene di cui andare fieri. Allora come oggi, chi si sente ai margini della società trova nella nazionalità un modo per valorizzarsi. Da qui il sentimento di superiorità nei confronti degli stranieri. E quando per caso gli immigrati riescono meglio dei nazionali, questi provano un grandissimo sentimento d´ingiustizia. Ad Aigues-Mortes, la violenza divenne ancora più feroce, quando i francesi videro che i gendarmi cercavano di proteggere gli italiani. Va poi ricordato che per i più deboli, la violenza contro gli immigrati e il discorso xenofobo sono spesso un modo per contestare l´ordine dello stato. Ancora oggi affermare la propria xenofobia è un modo per sfidare i benpensanti e le istituzioni».
Come si svolse il processo?
«I magistrati cercarono di rispettare le forme della legalità, ma al contempo avvalorarono l´idea che le responsabilità andassero condivise tra italiani e francesi. Ad esempio, accusarono di tentato omicidio Giovanni Giordano, che potremmo considerare il primo clandestino della storia di Francia, dato che all´epoca era già stato espulso una volta dal territorio francese. Insomma, i magistrati manipolarono il processo, ma i giudici popolari si spinsero ancora più in là, giacché assolsero tutti gli imputati francesi, dando così sfogo al risentimento popolare nei confronti degli immigrati italiani».
Quali erano le caratteristiche dell´immigrazione italiana?
«Gli italiani furono i protagonisti della prima grande stagione dell´immigrazione in Francia. Verso la fine del secolo, proprio a causa delle molte violenze e delle molte ingiustizie subite, gli arrivi dall´Italia rallentarono, ma ripresero all´inizio del XX secolo, quando gli italiani divennero la più importante comunità straniera in Francia. L´immigrazione italiana, che all´inizio è stagionale e provvisoria, tende in seguito a diventare sempre più stabile, trovando opportunità di lavoro soprattutto nel mondo rurale e nel settore delle costruzioni».
L´immigrazione italiana era sentita come un problema?
«Nel decennio precedente il massacro di Aigues-Mortes, si cristallizzano tutti gli stereotipi sugli immigrati italiani, considerati una minaccia e una realtà non assimilabile nella società francese. In passato, c´erano stati diversi episodi di violenza, che avevano coinvolto sia dei francesi che degli immigrati, ma non erano mai stati considerati come un problema politico legato all´opposizione tra francesi e italiani. L´immigrazione in quanto tale non era un problema. E´ solo a partire dal 1881, dopo alcuni incidenti a Marsiglia, che l´immigrazione diventa un problema politico. Naturalmente sono le élite vale a dire i politici, i giornalisti che fabbricano le rappresentazioni collettive relative agli stranieri, che poi vengono adottate e interpretate in vario modo nei diversi ambiti della società. Gli italiani furono i primi a subire un discorso apertamente xenofobo, in seguito l´ostilità si sposterà verso altre comunità di stranieri».
Oggi come viene percepita l´immigrazione italiana?
«Alla fine dell´Ottocento, i francesi vedevano negli italiani un elemento di corruzione dell´identità francese. Oggi quell´immagine è radicalmente cambiata. Il ricordo dell´immigrazione italiana viene idealizzato. Gli italiani sono diventati un esempio d´immigrazione riuscita che ha saputo integrarsi felicemente nella società francese. E addirittura c´è chi ad esempio, lo storico e scrittore Max Gallo rivendica l´origine italiana come una componente dell´identità francese. In realtà, tale visione idealizzata dell´immigrazione italiana viene spesso utilizzata per stigmatizzare la nuova immigrazione proveniente dall´Africa e dal mondo arabo. All´epoca però agli italiani venivano fatti gli stessi rimproveri mossi oggi agli immigrati non europei. I tempi cambiano, ma la diffidenza nei confronti degli stranieri riprende sempre gli stessi discorsi».

il Fatto Quotidiano 7.1.10
“Arabi sarete voi” Perché i persiani sono diversi da tutti
di Mauro Mauri

In occidente c’è l’errata tendenza ad associare l’Iran ai Paesi arabi. Invece sono due realtà distinte, profondamente diverse tra loro che in comune hanno ben poco, forse nulla, nemmeno la coniugazione dell’elemento che in teoria li accomuna – l’Islam – interpretato e vissuto in modo fortemente diverso nonostante principi e valori islamici siano fondanti per entrambe le realtà.
Da una parte il sunnismo dall’altra lo sciismo, da una parte la tradizione religiosa, da tramandare ai figli, accettando quasi acriticamente quanto ereditato, dall’altra la discussione, da porre al centro della vita sociale e il rinnovamento, previo interpretare il Sacro Corano alla luce della realtà odierna. Ovviamente anche le interpretazioni del Libro dei Libri spesso sono opposte, soprattutto se a far ciò sono esponenti riformatori del clero sciita. A prescindere da schieramento politico e senso religioso, dall’essere un fedele che cinque volte al giorno si genuflette verso la Mecca o invece mosso dall’anticlericalismo, ogni iraniano s’imbestialisce se viene accostato a un arabo.
Ciò, oltre che per la maggioranza religiosa, vale anche per atei, agnostici o appartenenti a fedi minoritarie come ebrei, bahai, cristiani e zoroastriani: in Iran la persianità è l’indiscusso valore comune. L’origine dell’avversione per il mondo arabo, che spesso rasenta l’odio, è antica, quasi atavica, e solo in parte dovuta alla recente guerra con l’Iraq.
In sostanza viene rinfacciato agli arabi di aver a suo tempo introdotto e imposto l’Islam nell’antica Persia a discapito dello Zoroastrismo, religione di Stato. Ma a dir questo si porterebbe essere accusati dal regime di apostasia, reato punibile con la pena capitale.
Per la verità l’Islam duodecimano – dei dodici imam – ha assorbito numerosi elementi dal credo autoctono dell’altopiano iranico, in primis le modalità con cui si onorano i defunti: il Gran Ayatollah Montazeri precisò che “nella tradizione sciita sono presenti etica zoroastriana e filosofia greca”. In merito ad Iraq e Saddam: quando l’America lo portò sul patibolo, il mondo arabo e l’intera galassia sunnita del pianeta piansero la morte di chi era considerato un vero eroe. A festeggiare fu un insolito trio: America, Israele e Iran, tutto il popolo, senza distinzioni, Ahmadinejad incluso, imbarazzatissimo dal trovarsi per l’occasione su posizioni identiche a quelle dei due Satana; il giorno dopo, per differenziarsi, lanciò puntuali minacce a Israele.
Parallelamente nel mondo sunnita c’è una diffusa ma sotterranea simpatia per Bin Laden, spesso reputato un correligionario che “forse eccede, ma qualche ragione ce l’ha”, mentre per l’Iran è la più pericolosa espressione del vero e unico nemico: il wahabismo (il movimento radicale saudita, ndr). Gli attacchi alle Twin Towers di New York sono stati vissuti con animo diverso: da una parte si esultava per l’impresa dello Sceicco del terrore, ma a Teheran i giovani deponevano candeline commemorando i morti in modo analogo a quello dei coetanei occidentali. Anche a livello politico la situazione è opposta: la stragrande maggioranza delle nazioni arabe è gestita da semidittature di matrice laica che placano popoli in cui freme l’integralismo e vorrebbero l’applicazione della sharia, la legge islamica. Invece in Iran c’è un regime teocratico che soffoca i sogni di democrazia e libertà della gioventù. A proposito di giovani: se per le strade dei paesi arabi scarseggiano le figure femminili, in coffee shop e gelaterie iraniane le ragazze sono sempre più numerose rispetto ai ragazzi.
Chiaramente anche la questione israelo-palestinese è vissuta in modo diverso: di centrale importanza per l’Umma (la comunità, ndr) arabo-sunnita, con la nazione ebraica che globalmente ne catalizza l’odio, interessa ben poche persone in Iran, dove gli intenti distruttivi di Ahmadinejad sono condivisi solo dalla cerchia del regime. Tra la gente comune non si riscontra odio verso Israele, nazione con cui l’Iran dello Scià era in eccellenti rapporti, mentre la generale avversione nei riguardi degli arabi porta a definirli con disprezzo tambal (lazzaroni) nonché soosmar khor (mangia cavallette). Vien loro imputato di essere arroganti, fanatici nonché – osservazione puramente persiana – di interessarsi solo a due cose: soddisfare quello che c’è una spanna sopra l’ombelico – lo stomaco – e quello che c’è una spanna sotto.
Iraniani e arabi sono diversi anche nel misurare lo scorrer del tempo: furono proprio gli antichi persiani a imparare a farlo, osservando il firmamento, ideando così il calendario persiano, tuttora in uso, che è solare, da cui proviene il gregoriano, ovvero il nostro, in so-
stanza identico. Invece nel mondo arabo si utilizza il calendario islamico, che è lunare. Sole e luna: forse è questa la distanza tra Iran e mondo arabo.

mercoledì 6 gennaio 2010

Repubblica 6.1.10
La leader radicale in campo nel Lazio: "Il centrosinistra si perde in un dibattito su alleanze e candidature "
E la Bonino lancia la sua sfida "È un´opportunità anche per il Pd"
"Stimo la Polverini, ma non è imbattibile. Bersani? Io parlo con tutti"
di Giovanna Vitale

ROMA - «Per il tango bisogna essere in due, altrimenti se il compagno non c´è finisce che una balla da sola». Ricorre a una battuta, Emma Bonino, per spiegare la decisione, «presa all´improvviso ieri sera», di non aspettare più «un invito da parte del Pd che non arrivava mai» e di metterci la faccia, la sua, nella sfida per la conquista del Lazio. Spinta dall´urgenza del calendario, «si vota fra due mesi, non l´anno prossimo», ma soprattutto dalle difficoltà di un centrosinistra «impegnato in un dibattito francamente patetico sulle alleanze e le candidature».
La Bonino spiazza tutti e corre da sola. Come mai?
«Abbiamo sempre detto che alle regionali avremmo presentato liste Bonino-Pannella in tutta Italia, da soli o in coalizione. Al principio abbiamo tentato di dar vita a un raggruppamento autonomo, raccogliendo l´anima verde, liberale e socialista, ma questa proposta non mi pare abbia riscosso grande entusiasmo».
Scusi, ma non era più logico cercare un accordo con il Pd? Oltre a essere il principale partito di centrosinistra, è quello in cui lei è stata eletta al Senato.
«E certo che sarebbe stato logico, peccato che del Pd si siano perse le tracce. Bersani l´abbiamo visto l´ultima volta al congresso radicale del 19 novembre, poi più nulla. Per settimane siamo rimasti senza interlocutori, come fossimo appestati, come se portare avanti le nostre idee per la legalità e lo Stato di diritto, che in questo Paese sono scomparsi, fosse una bestemmia».
Quindi il suo è stato un dispetto: non l´hanno cercata e perciò si è messa in proprio. Ma così non rischia di spaccare il centrosinistra e fare un favore al centrodestra?
«La mia pratica trentennale dimostra che io non funziono per dispetti ma per convinzioni. Piuttosto credo che per il Pd sostenere la mia candidatura sia una grande opportunità per uscire dal pantano: una proposta in grado di offrire un´alternativa liberale credibile a tutti quegli elettori, di destra e di sinistra, stufi della mancanza di democrazia in un Paese dove le leggi e le regole si cambiano in corso d´opera. Ma questo, ora, è un problema loro, non nostro».
Tuttavia se il Pd dovesse decidere di cogliere questa "opportunità", andrebbe a monte il tentativo di costruire una coalizione larga. I cattolici faticherebbero a votarla e difficilmente Casini convergerà su di lei.
«Guardi, io non ho mai posto veti, ma come ho detto più volte anche a Bersani gradirei non essere vetata. L´importante è fare alleanze limpide e trasparenti. Quanto ai cattolici, forse non mi voteranno i clericali. Chi ha una religiosità profonda si è sempre ritrovato nelle battaglie di laicità radicali: dal divorzio alla legge 40».
Si dice che la Polverini sia imbattibile, lo pensa anche lei?
«Conosco Renata e la stimo: abbiamo uno stile simile di far politica, non insultante, ma da qui a dire che è imbattibile ce ne corre».
Si dice che sia forte perché riesce a intercettare consensi anche a sinistra.
«Probabilmente come io li raccolgo a destra».
Se Zingaretti, incaricato da Bersani, dovesse mandarle un segnale, chiederle di correre per l´intera coalizione, cosa risponderebbe?
«Aspetto di vedere il segnale. Io parlo con molta disponibilità con tutti, non sempre avviene l´opposto».
Programma e squadra di governo, come saranno?
«Ne cominceremo a parlare da lunedì, partendo dalle nostre idee di sempre».
Ma almeno alle liste ci avrà pensato...
«Ci vorrei dentro Mina Welby, che è la bandiera del testamento biologico portata avanti da una donna profondamente cattolica, e Ilaria Cucchi: ha una forza e una compostezza che sono asset straordinari».
Claudio Velardi, l´ex dalemiano che cura la campagna della Polverini, dice che le è come la sora Camilla...
«È esattamente così. La Bonino è molto amata e molto stimata a patto che stia nel suo angolo. Ma io sono abituata a mettere la faccia su tutte le battaglie in cui credo, che si vincano o si perdano. Mia madre diceva: "Uno fa quel che deve, succeda quel che può". Quindi faccio un appello agli elettori: amatemi meno e votatemi di più, può darsi che convenga pure a voi».

Repubblica 6.1.10
Velardi, da aiutante di D´Alema a spin doctor della candidata Pdl

ROMA - Da Massimo D´Alema a Renata Polverini. Claudio Velardi, imprenditore ed editore, ex braccio destro di D´Alema a Palazzo Chigi nel 1998, guiderà la campagna elettorale della candidata di centrodestra alla Regione Lazio. «Sono un professionista» dice di sé Velardi che con la sua società "Reti" gestirà la comunicazione della Polverini ma, spiega, «accetterebbe anche un incarico da parte del centrosinistra e in un´altra regione, purché il candidato sia fuori dagli apparati e trasversale».

Repubblica 6.1.10
Quelle teorie antiscientifiche al vertice del Cnr
risponde Corrado Augias

Caro Augias, qualche informazione sulla controversa figura del vicepresidente del Cnr prof. De Mattei, che è anche presidente dell'Associazione Lepanto e in questa veste ha affermato in una intervista ("Zenit" 5 settembre 2006) che: «L'identità italiana non è solo genericamente cattolica, ma si definisce in funzione del Papato. La vocazione dell'Italia non è solo ospitare il Papato, ma servirlo, permettere al Papato di svolgere il suo ruolo universale. L'Italia è se stessa quando serve la Chiesa, l'Italia tradisce la propria identità, quando rifiuta la Chiesa. Alla universalità si oppone in questo caso il particolarismo, destinato ad avere il suo esito nella guerra civile, malattia plurisecolare dell'Italia. Non a caso Massimo Viglione definisce il Risorgimento come "una rivoluzione contro la millenaria identità degli italiani che ha provocato e tutt'oggi provoca un permanente stato latente di guerra civile"». Nel mondo delle idee chiunque è libero di sostenere ciò che vuole, ma uno storico non può affermare decentemente che da Porta Pia in qui è in corso uno stato latente di guerra civile. è una grossolanità storica.
Guido Martinotti

Nei giorni precedenti il Natale, il prof De Mattei è intervenuto in varie sedi (compresa un'intervista a 'Repubblica') per sostenere tesi singolari. Il Grand Canyon è stato scavato dal diluvio universale; la Terra non ha qualche miliardo, ma solo qualche milione di anni; i dinosauri sono scomparsi poche migliaia di anni fa; le specie viventi sono immutate dal momento della creazione; Adamo ed Eva sono i progenitori storici dell'umanità. Eccetera. Non si tratta di censurare delle idee ma semplicemente di chiedersi se il propugnatore di simili enunciazioni possa essere il vice presidente del Cnr massima istituzione pubblica di ricerca in Italia. Domanda che si sono poste anche Laura Margottini, sulla rivista "Science" e Katherine Harmon, su "Scientific American", facendo notare come le posizioni di De Mattei contrastino perfino con il Vaticano che ha escluso i creazionisti dal convegno di pochi mesi fa su Darwin all'Università Gregoriana di Roma. De Mattei ha tra l'altro dimostrato di non aver letto con la dovuta attenzione 'L'origine delle Specie' immaginando che Darwin abbia analizzato "la nascita e la trasformazione dell'universo da una materia primordiale", questione che il grande scienziato non ha affrontato limitandosi ad analizzare come la vita si è evoluta dopo la sua comparsa sulla Terra. L'estratto citato dal prof Martinotti dice chiaramente su quale terreno simili fantasie siano fiorite.

Repubblica 6.1.10
Un libro ricostruisce la figura del grande imperatore che suscitò amore e odio
Il mito di Federico II tra storia e leggenda
di Agostino Paravicini Bagliani

I suoi nemici lo dipinsero come l´Anticristo, essere demoniaco e maledetto. I sostenitori crearono un´immagine perfetta: principe onnipotente e amico della pace

Con soltanto la cultura politica contemporanea, anche il Medioevo conobbe i toni sferzanti della polemica, in particolare quando erano in gioco le grandi sovranità, il papato e l´impero. «E vidi salir dal mare una bestia che aveva sulle teste nomi di bestemmia»: iniziava così con le parole dell´Apocalisse un testo scritto da un cardinale, Raniero da Viterbo, destinato a demonizzare l´imperatore svevo Federico II (1194-1250). Il quale fu sovente dipinto come l´Anticristo, un essere fra il soprannaturale e il demoniaco e al quale si attribuivano gli epiteti biblici più terribili, quali "dragone", "scorpione" o "martello del mondo". Lo si accusò di avere affermato che Cristo, Mosé e Maometto erano tre impostori che avevano ingannato il mondo. Più di trent´anni dopo la sua morte, il francescano Salimbene non esiterà a demonizzare la memoria di «un uomo pestifero e maledetto, scismatico, eretico ed epicureo, corruttore di tutta la terra, giacché seminò il seme della divisione e della discordia nelle città d´Italia». Persino la sua nascita, a Iesi, fu motivo di sospetti, per il fatto che sua madre, Costanza d´Altavilla (figlia di Ruggero II di Sicilia) «era molto anziana quando l´imperatore Enrico VI la sposò» e per questo motivo «si sparse la voce che, dopo aver simulato la gravidanza, se lo pose sotto le vesti per farlo credere partorito da lei».
Nessun altro imperatore medievale fu scomunicato due volte (1227, 1239) e deposto da un concilio presieduto da papa Innocenzo IV (Lione, 1245). Come spiega Wolfgang Stürner, autore di un´ampia e chiara biografia di Federico II ora disponibile in traduzione italiana (Federico II e l´apogeo dell´Impero, presentazione di Ortensio Zecchino, Salerno Editrice, euro 84), le ragioni di tale accanimento erano anzitutto di ordine politico: Federico II si era reso colpevole di avere riunito nella sua persona la dignità di imperatore e quella di re di Sicilia, accerchiando così lo Stato della Chiesa a nord con le terre dell´Impero e a sud con il Regno. Ma la Chiesa gli rinfacciava ben altre colpe. Invece di combattere la crociata in Terra Santa, egli «fece pace con i Saraceni senza alcun vantaggio per i Cristiani. E per di più fece invocare il nome di Maometto pubblicamente nel tempio dei Signore» (Salimbene). Di qui anche l´accusa secondo cui l´imperatore aveva un harem. Accuse che, sempre secondo Salimbene, lo resero «inasprito d´animo, come un´orsa inferocita nel bosco perché le hanno rapito i cuccioli».
A questa visione demoniaca dell´imperatore, i suoi sostenitori riuscirono a contrapporre un´immagine quanto mai positiva, facendo ad esempio nascere alla sua morte la leggenda di un Federico che "vive e non vive", riprendendo il detto della Sibilla. Morto solo in apparenza, continuava a vivere di nascosto, forse nell´Etna, per tornare un giorno a mostrarsi. Anche in vita Federico II era stato avvicinato a Cristo. Per Pier delle Vigne, egli era «il principe onnipotente descritto da Ezechiele e Geremia, il signore del mondo, amico della pace, fondatore del diritto, quintessenza del bene e di tutte le virtù, dominatore degli elementi».
All´immagine storica di Federico II quale sovrano ideale contribuì molto la sua curiosità intellettuale. Ed è vero che ai misteri della natura Federico II rivolse un´attenzione senza pari, intrattenendo contatti con il più grande matematico dell´epoca, Leonardo Fibonacci da Pisa, e ponendo domande insolite al filosofo arabo Ibn Sab´in o al suo astrologo di corte Michele Scoto: se si poteva localizzare la residenza di Dio, il paradiso, il purgatorio e l´inferno; come comprendere l´origine delle acque dolci e di quelle salate, i vulcani e così via. Non aveva limiti il suo amore per la caccia con i falconi - una delle tante debolezze che gli verranno rinfacciate dal papato - che lo indusse a far tradurre dal suo filosofo di corte, Teodoro, un trattato arabo di falconeria, il Moamin, che rielaborò nel suo libro di falconeria rimasto celebre. La natura cosmopolita della Palermo della sua gioventù lo aveva avvicinato ai poeti della celebre scuola siciliana e gli aveva permesso di circondarsi anche di intellettuali ebrei (Giacobbe Anatoli). Verso gli ebrei manifestò una certa apertura mentale quando (1236) chiese delle prove - una domanda veramente insolita per l´epoca - a coloro che avevano accusato gli ebrei di Fulda di avere ucciso dei ragazzi cristiani.

martedì 5 gennaio 2010

Liberazione 5.1.10
Una corrente di pensiero radicata nella cultura occidentale convenzionale
L'abolizionismo penale è possibile, ora e qui
di Vincenzo Ruggiero

L'abolizionismo è stato paragonato a un vascello carico di esplosivo che naviga nei mari della giustizia penale. Non sono d'accordo. In maniera molto semplice l'abolizionismo, direi piuttosto, è una corrente di pensiero che considera il sistema della giustizia criminale, nel suo complesso, come uno dei maggiori problemi sociali. Rassicuriamoci, quindi, e lasciamo in disparte, per altre occasioni, le immagini di deflagrazione. Forme di abolizionismo penale sono già in funzione, ad esempio, tutte le volte che alcuni segmenti dell'amministrazione centralizzata della giustizia vengono sostituiti da modalità decentrate, autonome, di regolazione dei conflitti. E va chiarito immediatamente che gli autori più noti comunemente associati con questa scuola di pensiero non hanno mai propugnato la chiusura di tutte le carceri domani o dopodomani. L'abolizionismo non è un semplice programma di smantellamento dell'esistente sistema punitivo, un programma che del resto troverebbe non pochi alleati tra chi prova vergogna di fronte alla stragrande maggioranza degli istituti di pena nel mondo. L'abolizionismo consiste in un approccio, una prospettiva, una metodologia, insomma in un modo diverso di guardare al crimine, alla legge e alla punizione. Osservando i presupposti e studiando le matrici culturali dalle quali prende vita, si può rimanere addirittura imbarazzati nello scoprire che una simile ‘esplosiva' corrente di pensiero si colloca comodamente nella cultura occidentale convenzionale, che guida i comportamenti di ognuno e che ognuno potrebbe mobilitare a giustificazione della propria condotta. Cominciamo da un modo ‘diverso' di guardare al crimine. Gli abolizionisti sono consapevoli che alcuni atti generano danno, ma che non tutti gli atti dannosi vengono ritenuti criminali. A loro modo di vedere, lo sviluppo delle società porta con sé delle forme di patologia e i sistemi non possono fiorire se alcuni settori che ne sono parte mostrano evidenti segni di fallimento. E' questa una nozione aristotelica, che ribadisce un'idea condivisa da molti, vale a dire che l'ineguaglianza crescente crea ostacoli alla realizzazione del bene comune. Non sento deflagrazioni in questa idea. Sento piuttosto una critica alle elaborazioni platoniane secondo cui il bene e il male si distinguono in quanto chi pratica il primo dimostra di ‘ignorare' i precetti della ‘vita buona', chi persegue il secondo rivela di conoscerne i principi fondamentali. Gli abolizionisti, al contrario, suggeriscono che l'ignoranza caratterizza le istituzioni della giustizia criminale, nel senso che i professionisti che la popolano non conoscono le circostanze, le interazioni e le dinamiche che producono le situazioni problematiche definite in fretta come crimini. Vedo anche molto Rousseau in questo suggerimento, segnatamente il Rousseau critico della concorrenza che genera ‘inganni violenti', e che al declino della moralità pubblica fa corrispondere la crescita degli strumenti artificiali del controllo delle condotte. Nel discorso abolizionista c'è posto addirittura per Hegel, il quale vede gli individui, isolati e competitivi, allontanarsi dalla sfera pubblica e smarrire ogni sentimento di obbligo verso gli altri. La patologia che ne risulta porta ognuno a delimitare la propria area intima e a delegare alle autorità la soluzione dei problemi sociali. Una volta designati i guardiani della moralità, gli individui possono curarsi dei propri interessi e permettere nell'indifferenza che il successo venga premiato e il fallimento severamente castigato. Veniamo all'universo sacro della legge. L'equità giuridica può essere definita come il diritto di ognuno a mobilitare le istituzioni statali per la protezione e la salvaguardia del proprio benessere. In altri termini, la legge potrebbe essere interpretata come diritto alla mutua coercizione. Chi non rispetta la libertà degli altri nega a costoro lo statuto di persone libere. La legge, in simili casi, interverrebbe per negare questo diniego e per restaurare la situazione iniziale. Gli abolizionisti rispondono che una simile astrazione potrebbe soltanto applicarsi in società nelle quali eguale accesso alla legge viene accompagnato da eguale accesso alle risorse. Nelle società che conosciamo, al contrario, la legge non fa altro che negare la libertà a coloro che ne posseggono veramente poca, i quali vengono così doppiamente colpiti. Leggo in questa argomentazione un pensiero consolidato nella cultura occidentale, vale a dire un'idea di conflitto e una nozione distributiva della giustizia che attraversano tutta la filosofia e il pensiero sociologico che conosco, da Weber a Durkheim, da Marx a Galbraith, da Simmel a Bauman. Abbiamo, insomma, numerose coordinate entro le quali collocare il pensiero abolizionista, e se esaminiamo l'analisi abolizionista della punizione le coordinate si affollano, si sovrappongono, al punto che ognuno può scegliere quelle più vicine alla propria sensibilità. Abbiamo in Louk Hulsman un abolizionismo che riflette il suo Cristianesimo sociale, che si ispira all'ecumenismo di San Francesco, ma anche alle sacre scritture, al Vangelo di Luca e Marco, e particolarmente al rivoluzionario Paolo, il quale nega ogni validità alla legge umana, quella divina essendo sufficiente a farci discernere il bene collettivo dal benessere dei pochi. In Hulsman troviamo l'eco della teologia radicale e della teologia della liberazione, ma anche dell'anarchismo di Bakunin, secondo il quale la realizzazione della libertà richiede azione condotta religiosamente. Tolstoy e Hugo fanno capolino nelle sue argomentazioni, specialmente quando vengono riferite ai temi della redenzione e del castigo, dell'autogoverno, la misericordia e la pietà. Questo sincretismo caratterizza anche il pensiero di Thomas Mathiesen, il quale si schiera a favore di una sociologia del diritto pluralista e interdisciplinare. Allora, i suoi referenti sono Marx e Engels, ma i suoi compagni di strada sono i detenuti e gli emarginati, che il marxismo ortodosso escluderebbe dai processi di emancipazione e mutamento sociale. Da eretico, Mathiesen crede che la ricerca sociale debba coinvolgere i soggetti che la ispirano, quegli attori coinvolti nel conflitto che, attraverso la conoscenza acquisita, sono in grado di perpetuare la conflittualità collettiva. Pensiamo infine a Nils Christie, che raccomanda a chiunque si accinga a comporre un testo scritto di avere in mente la propria zia preferita. Ebbene, Kropotkin raccomandava altrettanto, chiedendo ai militanti politici di tenere sempre in mente a chi erano destinati i loro opuscoli. La critica mossa da Christie verso i professionisti della legge e della pena ricorda le invettive anarchiche contro la proliferazione delle leggi, che abituano gli individui alla delega e ne atrofizzano la capacità di giudizio etico e politico. Il suo apprezzamento del conflitto come ‘risorsa da tenere a cuore' rimanda all'idea secondo cui i problemi possono essere risolti solo se chi vi è coinvolto possiede risorse autonome sufficienti a risolverli. Dobbiamo solo rallegrarci se troviamo difficoltà nel collocare l'abolizionismo in un quadro di riferimento unico e coerente in termini politici, sociologici o filosofici. I suoi tratti sono inclusivi, non esclusivi, permettendo a chiunque sia dotato di spirito critico di individuarvi almeno un aspetto del proprio pensiero.

Vincenzo Ruggiero è professore di sociologia presso la Middlesex University di Londra. Il suo prossimo libro, Penal Abolitionism: A Celebration verrà pubblicato quest'anno da Oxford University Press.


Repubblica 5.1.10
Ricordando la Milano di Bettino
di Giorgio Bocca

NELLA Milano craxiana «dei nani e delle ballerine» come la chiamava il socialista di Bari Rino Formica chiesi a un dirigente socialista: «Ma perché i capi del partito credono che i principi, le idee contino zero e il denaro tutto?». Mi rispose: «Perché il partito craxiano è nato come un clan di giovani rampanti, convinti che la politica è questo, che la politica si fa così, con i soldi necessari al commercio delle tessere, con gli assessorati con cui si fanno gli affari. C´è anche il desiderio di autonomia, il forte anticomunismo, ma come modo per aver mano libera nel fare la politica degli affari. Ogni fine settimana Craxi lascia a Roma le cure di governo e viene a Milano per la riunione in un ristorante dove si parla unicamente di affari».
Nella Milano degli anni ´80 Craxi è il capo, ma il padrino del gruppo è Antonio Natali, il vero maestro del nuovo corso, della politica come affare per mezzo degli affari. La sua lezione ai giovani dirigenti è: «Fan tutti così. Cerchiamo di farlo meglio degli altri».
Gli affari trasformati in ideologia, come via naturale al potere, che prima rispondono ai desideri dei funzionari di partito poveri che hanno fatto sin lì una vita di stenti e poi diventano assuefazione. Il craxismo milanese è una combinazione paradossale ma realista e aggressiva dei nuovi ceti borghesi emergenti nella Milano del miracolo economico, la nuova borghesia del terziario, della moda, dei pubblicitari, degli imprenditori edili che troverà in Silvio Berlusconi il gemello naturale di Bettino, che vorrà Bettino come testimone di nozze, che si consulterà con Bettino nel camper durante i congressi del partito.
Un gemellaggio che continuerà dopo la fine di Craxi, anche con il passaggio nel partito berlusconiano dei più influenti quadri socialisti. L´aspetto paradossale del socialismo milanese è che si dice figlio di Pietro Nenni e sempre più lontano dal suo idealismo romantico e sempre più simile alla borghesia mercadora di Milano, che continua a dire di avere «il cuore in mano» ma come il giovane Berlusconi è pronta a lanciarsi nei nuovi promettenti pascoli della pubblicità e dell´edilizia. E questo spiega come un sindaco della borghesia miliardaria come la Moratti pensa oggi di intestare a Craxi una via o un giardino milanesi perché sa che buona parte dei craxiani hanno trovato rifugio nel partito di Silvio.
Un´altra affinità elettiva fra il socialismo craxiano e il liberismo berlusconiano, entrambi con il cuore in mano, è di procedere subito alla eliminazione di quanti si oppongono al nuovo corso. Il compagno Giulio Polotti, un sindacalista vecchio stampo dice: «Mi hanno tolto le preferenze perché come assessore facevo fare le scuole e non le discoteche, perché dicevo che la retorica socialdemocratica era superata ma sempre meglio della spocchia e dei lussi, sempre meglio dei milioni spesi in fiori e in banchetti ai congressi». Viene silurato anche Emanuele Tortoreto, già assessore al decentramento: «Vada a fare il professore a Bari che è meglio per tutti». E all´architetto Costantino che è alla direzione delle Case Popolari: «Bravo Costantino, in una intervista al "Corriere", hai detto che il tuo istituto non ha mai truccato un appalto. Sei un compagno simpatico, ma sei anche un gran pirla». E quando l´assessore all´Urbanistica Armanini viene denunciato per aver preso delle tangenti per i posti al cimitero lo festeggiano: finalmente anche tu hai capito come si fa politica.
L´assuefazione al furto è tale che non ci si accontentava di rubare in grande con le grandi dazioni, le grandi tangenti, ma si arriva fino all´argent de poche, alle spese correnti. Craxi occupa un ufficio in piazza Duomo, il sito più caro di Milano, 300 metri quadrati, senza contare gli uffici sottostanti della moglie e del cognato, pagando in affitto al Comune, che non è proprietà del partito, 40 milioni l´anno, quanto a dire che ritiene normale uno sconto di decine di milioni.
Per anni la fedele segretaria Vincenza Tomaselli viene pagata dall´ufficio di presidenza del Comune. La casa editrice Sugarco, sovvenzionata dal partito, pubblica i saggi politici e ideologici del segretario che vendono poche centinaia di copie. La benzina della sua auto è pagata dal Comune. Gli abiti dei grandi stilisti sono regalati. In questo clima l´amministrazione della città spende e spande: a Milano i sacchetti per le immondizie sono i più cari del mondo, per una celebrazione del primo volo dalla Malpensa si spende una follia, i dirigenti del partito se arrivano a Ginevra alloggiano all´Hotel Richmond, e a Zurigo al Suisse, alberghi di lusso. Hanno trovato la famosa terza via dei naviganti, il passaggio a Nord Ovest.
I procacciatori di tangenti hanno case di lusso, hanno scoperto che la lotta contro il perfido comunismo può rendere fortune. Un assessore di Brescia, vittima del giustizialismo, per tornare a casa da Roma, affitta un aereo privato. «Non si rendevano più conto di rubare», ha osservato il repubblicano De Angelis: «Vivevano in un loro mondo fatato dove le tangenti funzionavano come un orologio di precisione, la direzione fingeva di non vedere i piccoli furti della base per non guastare il consenso generale. Nessuno si interrogava sul futuro, tutti si rassicuravano a vicenda». «È dal congresso di Palermo nel 1981 - ricorda un socialista - che si è passati all´acquisto massiccio delle tessere e che la selezione dei dirigenti è cambiata radicalmente».
In questa selezione alla rovescia brilla il caso dell´ingegnere Mario Chiesa, direttore socialista del Pio Albergo Trivulzio, arrestato mentre cerca di gettare nel water dell´ufficio fasci di banconote dell´ultima dazione incassata. «Io ero esitante a accettare la direzione del Trivulzio - dirà - ma il segretario regionale Loris Zaffra mi disse: "Mario, mai dimettersi e mai rinunciare a un posto, prendi il Trivulzio e poi ce lo vendiamo bene magari lo barattiamo con qualcosa di meglio"». Chiesa capisce di aver trovato la fortuna la sera in cui i Craxi lo invitano a cena al Saint Andrew´s a Milano. C´è Bettino e c´è Mike Bongiorno, c´è la signora Craxi che ha bisogno di una sede per una sua associazione benefica.
Mario Chiesa è pronto: «Chiamo il contadino che ha un regolare contratto di affitto con una delle cascine del Trivulzio e lo convinco a cederne la metà». Per Chiesa la politica vuol dire arricchirsi, che cosa sia il socialismo non lo sa, ma cosa sia essere un assessore potente, questo lo sa benissimo.
Ricorda uno dei fornitori del Trivulzio: «I vecchi dell´ospizio venivano trattati bene perché la direzione doveva rubare sulle forniture. Noi fornitori venivamo trattati come dei servi, insultati e ricattati». Il socialismo craxiano, la «Milano da bere», sono stati anche questo. Ma in politica si dimentica presto.

Repubblica 5.1.10
Il militante di sinistra: magari voto Polverini. E spunta la Bonino
di gio.vi.

ROMA - È stata una lettera pubblicata ieri sull´Unità a dar voce alla tentazione di tanti elettori del Pd che, nel Lazio, non ha ancora definito i confini della coalizione né il candidato governatore.
«Sono un quasi-quasi-polverini», esordisce Andrea Mazzoli nella sua missiva al quotidiano democratico. «Ho 64 anni - si presenta - nel 1960 mi sono iscritto alla Fgci, per i vent´anni che ho insegnato sono stato responsabile della Cgil, sono iscritto al Pd, ho fatto il ´68, ho sempre votato Pci (e derivati)». Ebbene, scrive Andrea, lui potrebbe scegliere Polverini non solo perché «rappresenta una destra intelligente» e «mette al centro dei suoi interventi i bisogni dei lavoratori». Ma anche perché «al momento non si sa per chi altri dovrei votare. Ed il comportamento del Pd non è certo da partito di opposizione che lavora per vincerle le elezioni. Possibile che il caso Rutelli-Alemanno non abbia insegnato nulla?». Tanto più che «per il Lazio», conclude, «sono apparsi ad un certo punto i nomi prima di Emma Bonino e poi, più di recente, di Loretta Napoleoni: ecco queste sì che le voterei, altro che quasi-quasi-polverini». Un appello, più che una dichiarazione di resa. Che interpella direttamente il segretario regionale del Pd. Proprio nel giorno in cui i Radicali annunciano la corsa "solitaria" di Emma Bonino. «Chiedo agli elettori di avere pazienza e fiducia - replica Alessandro Mazzoli -. Il centrodestra, calando dall´alto la Polverini, sostenuta tra l´altro dalla Destra di Storace, ha fatto il percorso opposto al nostro. Noi abbiamo deciso di lavorare sui programmi per costruire un´alleanza larga che vada dall´Udc alla sinistra per poi individuare una candidatura forte e autorevole. Perciò chiedo uno sforzo: badare più alla sostanza che all´immagine».

Repubblica 5.1.10
Nuova svolta dell’amministrazione Obama un transessuale nominato come consulente
di a.aq.

NEW YORK - Non avrà un compito facile, Amanda Simpson, ultima arrivata nell´amministrazione di Barack Obama. Prima di tutto perché dovrà cercare di capire che cosa la sua carica significherà mai, Consigliere tecnico anziano del ministero del commercio. E poi perché non sarà facile togliersi di dosso quell´etichetta di «transessuale di governo».
Per carità, adesso è lei stessa a sbandierarla, sottolineando - maliziosamente? - l´onore di essere stata nominata «tra i primi transgender del governo federale» (e quali sarebbero mai gli altri di cui non abbiamo avuto notizia?). Però è stato il suo stesso datore di lavoro a salire alla Casa Bianca facendo il possibile per non essere identificato per quello che è (un afroamericano) ma per quello che fa (che poi è ciò che i suoi nemici non gli perdonano davvero). Ma Amanda, che è un esponente del Centro nazionale per l´eguaglianza dei transessuali, ha fatto dell´outing una missione. Obama avrebbe già nominato nell´amministrazione un centinaio di persone apertamente gay, e anche se non si è dichiarato a favore dei matrimoni tra lo stesso sesso ha promesso di superare nell´esercito la vecchia dottrina del «don´t ask, don´t tell», non chiedere e non dire, favorendo una più aperta «cittadinanza».
Simpson non è nuova alle cronache politiche. Ha tentato senza successo di correre per la Camera dell´Arizona, lo stato di Janet Napolitano, il ministro che nel 2002 negò pubblicamente di essere lesbica, ed è stata delegata per Hillary Clinton nella convention democratica che invece incoronò Barack. Ex pilota di aerei da guerra, è stata anche vicepresidente di Raytheon, il gigante dei missili che opera anche nel campo oggi drammaticamente d´attualità della sicurezza aerea: particolare che, vista la sua nuova carica ai vertici del commercio, forse potrebbe dare più scandalo della sua sessualità.

Repubblica 5.1.10
Galileo
Ambiguità e compromessi di un grande scienziato
di Piergiorgio Odifreddi

Due libri spiegano, tra atti e delibere del 1600, il caso dello studioso e il suo rapporto con la Chiesa
Ci sono le lettere teologiche che mostrano lo spirito e la delicatezza della vicenda
Gli scritti indicano come certe letture siano state rese possibili dal suo atteggiamento

Nell´autunno del 1609 Galileo rivolse al cielo il cannocchiale, e iniziò una serie di osservazioni che sfociarono il 7 gennaio 1610 nella scoperta dei satelliti di Giove, e il successivo 13 marzo nella pubblicazione del Sidereus Nuncius. Per celebrare questi avvenimenti, che accaddero esattamente quattrocento anni fa e cambiarono la storia della scienza, il 2009 è stato proclamato Anno Mondiale dell´Astronomia. E, come si può immaginare, l´occasione è stata propizia per una rivisitazione del pensiero e delle vicende del nostro più famoso scienziato: in particolare, per tornare a meditare sul difficile rapporto fra scienza e fede, di cui il processo a Galileo costituisce sicuramente l´episodio più emblematico e significativo.
Se, dopo quattro secoli, le relazioni fra i magisteri scientifico e religioso fossero ormai normalizzate, il dibattito sarebbe puramente accademico. Ma che così non sia, è dimostrato dalla maggiore e più ufficiale manifestazione tenutasi lo scorso anno: il convegno "Il caso Galileo. Una rilettura storica, filosofica, teologica", inaugurato dal Presidente della Repubblica il 26 maggio in Santa Croce a Firenze, dove Galileo è sepolto, proseguito dal 27 al 29 al Palazzo dei Congressi, e conclusosi il 30 alla villa Il Gioiello di Arcetri, dove Galileo passò gli ultimi otto anni della sua vita agli arresti domiciliari.
Fin qui, tutto bene. Ma molte strane anomalie saltano all´occhio, non appena si viene a sapere, anzitutto, che a organizzare il convegno è stato l´Istituto Stensen, diretto dai padri gesuiti: lo stesso ordine a cui apparteneva il cardinal Bellarmino, Grande Inquisitore di Bruno e Galileo. Poi, che fra gli enti promotori c´erano, da un lato, l´Accademia dei Lincei, il Consiglio Nazionale delle Ricerche, il Museo di Storia della Scienza di Firenze, la Scuola Normale di Pisa e le Università di Firenze, Padova e Pisa, ma dall´altra il Pontificio Consiglio per la Cultura, la Pontificia Accademia delle Scienze e la Specola Vaticana. E infine, addirittura, che la conferenza stampa di presentazione del 29 gennaio era stata tenuta nella Sala Stampa Vaticana, da monsignor Gianfranco Ravasi, padre José Funes e il professor Nicola Cabibbo, che dirigono gli ultimi tre enti. Quanto al Papa, non andò all´inaugurazione, ma era stato ufficialmente invitato dal rettore di Firenze, Augusto Marinelli, a partecipare durante l´anno alle celebrazioni galileiane.
Per capire come sia stato possibile un tale "compromesso storico", che ha visto bellarminamente uniti nei festeggiamenti gli eredi degli inquisitori e quelli dell´inquisito, bisogna risalire ai fatti e alle interpretazioni: per i primi ci aiuta Scienza e religione. Scritti copernicani di Galileo, curato da Massimo Bucciantini e Michele Camerota (Donzelli, pagg. 334, euro 29), e per i secondi Galileo e il Vaticano di Mariano Artigas e Melchor Sanchez de Toca (Marcianum Press, pagg. 310, euro 22). Entrambi i volumi sono estremamente interessanti, ciascuno a modo suo: nel primo troviamo infatti gli atti dei dibattiti teologici e dei dibattimenti inquisitori che coinvolsero Galileo tra il 1613 e il 1616, e nel secondo le vicende e le delibere della commissione pontificia che rivisitò il caso tra il 1981 e il 1992.
Tra gli scritti riportati da Bucciantini e Camerota ci sono le famose «lettere teologiche» di Galileo a Benedetto Castelli, Pietro Dini e Cristina di Lorena, che i curatori ci chiedono di interpretare nel modo più generoso: tenendo cioè conto delle circostanze in cui sono state scritte, nell´infuriare della polemica e sotto la minaccia dell´Inquisizione, e prestando più attenzione alle espressioni di autonomia della scienza che a quelle di concordanza con la religione.
I documenti della commissione pontificia analizzati da Artigas e Sanchez fanno invece l´esatto opposto, soffermandosi sulla figura di un Galileo «miglior teologo dei teologi», e sottolineando la sua prematura difesa di un eliocentrismo ancora non suffragato da prove: una «tragica incomprensione reciproca», nelle parole di Giovanni Paolo II. A suo tempo padre George Coyne, direttore della Specola Vaticana e membro della Commissione, commentò negativamente questa posizione, ma in seguito fu rimosso dal suo incarico e al congresso di Firenze ha parzialmente ritrattato. Anche gli autori del libro sembrano però avere una posizione critica, stranamente avallata da una prefazione al volume di monsignor Ravasi (di cui Sanchez è il vice).
Inutile dire che visioni così contradditorie e distinte dello scienziato sono possibili soltanto perché l´ambiguità stava a monte, cioè in lui stesso. In fondo, come spiegano chiaramente Bucciantini e Camerota, Galileo non aveva né gli interessi teologici di Keplero e Newton, né l´indipendenza di giudizio di Spinoza o Voltaire: non essendo un appassionato lettore della Bibbia, credeva ancora che essa fosse degna di considerazione e di rispetto, e non gli passò mai per la mente di decostruirla o di ridicolizzarla, accontentandosi di interpretarla e di accettarla.
Per questo nelle lettere si impegolò in una discussione sul «fermati, o Sole» di Giosuè, cercando di dimostrare che nel sistema tolemaico l´esecuzione dell´ordine avrebbe accorciato il giorno, mentre era nella teoria copernicana che l´avrebbe allungato. E per questo abiurò, non solo coattamente e forzatamente dopo il processo, ma anche volontariamente e liberamente prima: oltre che nel Dialogo e nel Saggiatore, anche nella lettera del 1624 a Francesco Ingoli riportata in Scienza e religione, dove scrisse che «veramente non deve importare a un vero cristiano cattolico che un eretico si rida di lui perché egli anteponga la riverenza e la fede che si deve agli autori sacri, a quante ragioni ed esperienze hanno gli astronomi e i filosofi insieme». E´ quello che molti continuano a pensare ancor oggi, allungando la lista con i biologi. Ed è quello che fa sì che noi siamo come siamo, e non come dovremmo e potremmo essere.