martedì 12 gennaio 2010

l’Unità 12.1.10
Il segretario Pd risponde alla minoranza che insiste sulla necessità di passare per i gazebo
Regionali Oggi il via libera alla Bonino per la sfida alla Polverini. Ultimatum di Boccia in Puglia
Bersani: «Le primarie? Opportunità non obbligo»
di Simone Collini

Bersani: «Il partito non è un notaio che stila solo regolamenti». Oggi incontra Bonino e Di Pietro. Ultimatum di Boccia: «Si scelga se fare l’alleanza con l’Udc o fare senza. Nel primo caso ci sono, nel secondo no».

Le primarie? «Sono un’opportunità, non un obbligo». Pier Luigi Bersani mette un freno alle richieste della minoranza interna per organizzare le primarie nel Lazio, in Puglia e in Umbria. È soprattutto nella prima delle tre regioni che il passaggio per i gazebo viene giudicato inopportuno dal segretario Pd. Perché se è vero che a decidere come procedere saranno «le assemblee regionali» e se è vero che bisogna «privilegiare la messa in campo di candidature forti» («abbiamo buone occasioni e dobbiamo coglierle») è anche vero che tra queste tre regioni ancora in alto mare per quel che riguarda la scelta del candidato, il Lazio si distingue per un motivo ben preciso: «Qui la destra è già in campo», sottolinea Bersani facendo riferimento alla campagna elettorale di Renata Polverini già partita in quarta. E quindi conviene privilegiare «immediatezza ed efficacia». Anche perché, fa notare il segretario a quanti si appellano allo statuto, «il partito non è un notaio che stila solo regolamenti per le primarie».
VIA LIBERA ALLA BONINO
Così oggi l’assemblea del Lazio, su proposta del segretario regionale Alessandro Mazzoli, deciderà di sostenere alle prossime regionali Emma Bonino, definita di nuovo da Bersani una «fuoriclasse». I delegati della minoranza che fa capo a Franceschini e di quella che fa capo a Marino daranno il via libera ma insisteranno ancora per le primarie (e anzi Michele Meta, a nome dell’area Marino, chiede anche la convocazione della Direzione nazionale per discutere l’intera vicenda). O però, con un colpo di scena, metteranno in campo un candidato alternativo che vada alla sfida, oppure la richiesta si tramuterà al massimo in una consultazione “confermativa” della leader radicale tra iscritti e votanti del Lazio alle primarie di ottobre.
Bersani non intende rompere con la Bonino, contraria alle primarie. Ma al segretario Pd non sfugge che un modo per trasformare quella che è soltanto dei Radicali in una candidatura dell’intera coalizione va trovato. Ne discuterà con la diretta interessata questa mattina. Bonino, si domandano infatti anche i Democratici più convinti nel sostenerla, si candiderà a capo della lista radicale o a capo di un listino del presidente, con dentro una decina di nomi rappresentativi di tutto lo schieramento? Dovesse seguire la prima strada, è il ragionamento che fanno al Nazareno, sarebbe tutt’altro che fugato il dubbio che il suo obiettivo prioritario sia la crescita dei consensi per i Radicali. Il nodo andrà sciolto entro breve. Anche perché ci sono altri alleati pronti a fare la loro parte ma ancora fermi sul chi va là. Come l’Italia dei valori.
Antonio Di Pietro dice che non ci sono «preclusioni» ma anche che non intende dare «cambiali in bianco al Pd». E già sono volate scintille con la Bonino, per la quale l’ex pm «parla un po’ a vanvera di liberismo». Bersani oggi vedrà anche il leader dell’Idv per tentare di cancellare ogni fibrillazione.
RESA DEI CONTI IN PUGLIA
Fibrillazioni che scuotono il Pd pugliese. L’assemblea regionale che dovrebbe decidere se candidare Francesco Boccia senza passare per le primarie, prevista per ieri, è saltata. È stata convocata per sabato, con quest’avvertenza: i delegati saranno chiusi una stanza inaccessibile agli esterni, che potranno seguire i lavori da un maxischermo. Una decisione presa pensando a quanto accaduto l’ultima volta (la presenza di sostenitori di Vendola in sala ha fatto interrompere l’assemblea) e che la dice lunga sul clima. Che non piace a Boccia: «Il Pd scelga se fare l’alleanza con l’Udc o presentarsi senza dice rivolto soprattutto a chi chiede le primarie sapendo che i centristi sono contrari nel primo caso io sarò il candidato, nel secondo non mi interessa».
E Rosy Bindi, che nei giorni scorsi era espressa a favore delle primarie anche in questa regione, dice che rispetterà «qualunque decisione prenderà il Pd» e che se primarie saranno, lei sosterrà Boccia.❖

Repubblica “12.1.10
Niente primarie dove c´è il candidato Pdl"
Bersani: opportunità, non vincolo. Protesta la minoranza. Prc: no alla Bonino
Emiliano: in Puglia siamo in un vicolo cieco. Il segretario Pd oggi incontra la leader radicale

ROMA - Nelle regioni dove il candidato della destra è già in campo, è meglio «privilegiare l´immediatezza e l´efficacia della scelta». Lo dice il segretario pd Bersani, e significa: niente primarie, sicuramente nel Lazio, e via libera alla Bonino. Mettere in moto adesso la macchina dei gazebo, con la Polverini già in piena campagna elettorale, sarebbe insomma una partenza con il freno a mano tirato per il Pd. Una constatazione di principio, «le primarie sono un´opportunità e non un obbligo», e anche pratica, quella di Bersani. Ma, anche, una risposta all´opposizione interna, che vorrebbe chiamare ovunque alle consultazioni il popolo del centrosinistra. L´ultima parola, comunque, l´avranno i vertici regionali. Oggi tocca a quello del Lazio, mentre si terrà forse sabato prossimo l´assemblea in Puglia, sospesa dopo la bagarre fra i sostenitori di Vendola e quelli di Boccia. E rinviata a domani in Umbria, la terza spina per il Pd, la riunione della commissione di garanzia sul ricorso di Agostini contro la ricandidatura della Lorenzetti: due componenti dell´organismo sono stati infatti ricusati.
Nel Lazio la Bonino, che oggi incontrerà Bersani, sembra ad un passo dall´investitura ufficiale, anche se ancora resiste alla nomination una parte dei cattolici democratici. Con la minoranza interna che insiste nel chiedere le primarie. Le vuole il veltroniano Stefano Ceccanti, che ricorda: a norma di statuto sono obbligatorie. E Ignazio Marino invoca una riunione della direzione nazionale per affrontare il nodo, «alle primarie o ci crediamo a no». Ma Bersani circoscrive così i confini della contesa: «Il partito non può essere un notaio che si limita a stilare il regolamento delle primarie. Adesso dobbiamo privilegiare la messa in campo di candidati forti. Abbiamo buone occasioni e dobbiamo coglierle». A cominciare dal Lazio, dove il segretario ribadisce che la Bonino «è una fuoriclasse». E nelle altre regioni, un puzzle lento e confuso? Bersani è convinto di no, ricorda che c´è tempo fino al 20 febbraio per scegliere i candidati, e che in 8-9 regioni «c´è anche un significativo avanzamento». Ovvero, aperture all´Udc. E il caso Puglia? «Stiamo cercando di mettere insieme uno schieramento il più competitivo possibile». Casini però minaccia: appoggiamo solo Boccia, «oppure ci metto un minuto a fare un altro numero di telefono». Ovvero, passare col Pdl. Emiliano constata: «Siamo in un vicolo cieco». L´aspirazione pd resterebbe candidare Boccia («non è una corrida fra me e Vendola», dice lui), senza rinunciare a "Sinistra e Libertà", ma Nichi non cede: o le primarie o mi ricandido.
E infatti si apre un nuovo fronte con la sinistra. Sulla Bonino arriva il no di Rifondazione. «Mi sembra un regalo del Pd a Fini - boccia il segretario Paolo Ferrero - . Su certi temi sociali non so chi sia più a destra, tra lei e la Polverini». Con la minaccia di scendere in campo con candidati della sinistra radicale in regioni-chiave come Lazio, Campania, Puglia e Calabria. E in Lombardia, dove il candidato del Pd è Filippo Penati, capo della segreteria di Bersani. Anche Antonio Di Pietro avverte che su Bonino è pronto al confronto ma «senza cambiali in bianco», ricordando l´appoggio dei radicali all´abolizione dell´articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Dalla Bonino, pronta replica: «Quando Di Pietro parla di liberismo mi sembra che parli anche un po´ a vanvera».
(u. r.)

Repubblica “12.1.10
Pd, l´agonia dadaista della primavera pugliese
Il tramonto del laboratorio Puglia la guerra balcanica che scuote il Pd
di Curzio Maltese

Boccia: "Con Nichi la sinistra da bere" Vendola: "Io vado avanti e farò pure il martire"
Lo scrittore Carofiglio: "Di questo passo le elezioni saranno un evento dadaista"

TUTTE le piste dell´inguacchio pugliese, come lo chiamano qui, per dire di un inciucio andato male, portano a lui, la volpe del Tavoliere, il leader Massimo.
Magari capiva più di politica estera che non d´Italia e forse non ci libererà mai da Berlusconi. In compenso, nel far fuori chiunque gli possa fare ombra nel centrosinistra, D´Alema è sempre infallibile. Uno dopo l´altro, Prodi e Cofferati, Veltroni e Rutelli. Liquidata la pratica nazionale, è tornato nelle sue terre e in un mese ha schiantato i due miti locali, Michele Emiliano e Nichi Vendola. In cambio, s´intende, di un grande disegno. Il professor D´Alema aveva deciso che nel laboratorio pugliese dovesse nascere la nuova creatura del centrosinistra. Un mostro invincibile e un po´ Frankenstein, con dieci partiti, una gamba di Casini qua, un braccio di Di Pietro là, un piede comunista e uno ex fascista, innestati sul corpaccione inerte del Pd. Ma il colpo di fulmine che doveva animarlo non è arrivato. Così l´inventore è ripartito sul destriero per Roma, lasciando il fido assistente Nicola Latorre a fronteggiare incendi e forconi. E l´incendio avanza, dilaga. «Al posto del nuovo centrosinistra allargato, si rischia di avere la spaccatura nel Pd, a Bari come a Roma», commentano allarmati i militanti. Di ora in ora s´incarognisce la battaglia fra i candidati, che alla fine potrebbero essere quattro. Due nel centrosinistra, Nichi Vendola e Francesco Boccia, e due a destra, Antonio Distaso, candidato ufficiale del Pdl, e la finiana Adriana Poli Bortone. «Di questo passo» è la sintesi dello scrittore Gianrico Carofiglio «le elezioni di marzo si presentano come un evento dadaista».
Chi avrebbe mai potuto immaginare una simile triste fine per la primavera pugliese. I fatti non contano più nulla. Bari la stanno ammazzando il pettegolezzo e le televisioni. Da un anno la città sta sulle prime pagine per storie di malaffare e cocaina, escort e appalti, e parentopoli. Alla fine gli stessi pugliesi vi si specchiano. Eppure, al netto di scandali tutti ancora da dimostrare, di processi da celebrare chissà quando, Bari e la Puglia rimangono agli occhi di chi arriva l´unico pezzo d´Europa a sud di Roma, l´unica area meridionale non riducibile a una Gomorra di rifiuti, mafie, frane, rivolte, collasso sociale. Lo sanno tutti, a destra e a sinistra. Lo dicono le statistiche, gli indicatori di crescita per cui la Puglia è seconda alla sola Lombardia. Lo vedono gli inviati sull´eterno «caso Bari» come i trecento clandestini sbarcati l´altro giorno dall´inferno di Rosarno nel lindo aeroporto di Palese.
Non si capisce allora la ragione di questa guerra balcanica nel centrosinistra. Se non appunto per via della condanna a essere il «laboratorio della politica nazionale». «Un´antica iattura - commenta il sociologo Franco Cassano - Dai tempi di Aldo Moro, giù fino al pentapartito e ora a questa vicenda. È chiaro che la partita era nazionale. Era il segnale di un ritorno al primato dei partiti. Basta Vendola e basta pure Emiliano. Basta con le primarie, che qui in Puglia sono nate, almeno quelle vere. Basta con la cosiddetta società civile. La ricreazione è finita. Un progetto coloniale che qui ha sempre fallito e che considero sbagliato. Ma al quale si potrebbe riconoscere una dignità se almeno fosse stato chiaramente esposto. Invece si è andati avanti a colpi di vertici segreti, trovate tattiche. Il risultato è lo scoppio del laboratorio. Ora se il centrosinistra vuole salvare la faccia deve fare una veloce retromarcia e tornare alle primarie». Primarie, primarie ripetono gli intellettuali pugliesi, ma anche la gente al mercato. E ormai le primarie le vuole anche mezzo Pd romano. «Perché sono nello statuto del partito» ricorda la presidente Rosy Bindi. «Ma prima ancora sono iscritte nel senso comune» aggiunge un pugliese ormai romanizzato come il produttore di cinema Domenico Procacci. La pressione è forte e ieri i delegati dell´area Emiliano, entrati in assemblea per votare a favore di Boccia, sono usciti dicendo «primarie». Nell´imbarazzo dello stesso sindaco Emiliano, che di imbarazzi ne ha avuti e ne ha procurati molti in tutta la vicenda, compresa l´impronunciabile richiesta di una legge ad personam per candidarsi alla Regione.
A opporsi è rimasto quasi soltanto Francesco Boccia, che sui manifesti a favore delle primarie ironizza pesante: «La solita sinistra da bere che Vendola si è conquistato con le consulenze in regione. Fare le primarie oggi significa perdere subito l´Udc, quindi il progetto di nuova alleanza». Ma intanto le centinaia di giovanissimi volontari che lavorano per Vendola non hanno l´aria da salotto, le migliaia di messaggi sui web non li paga la Regione. Gli strateghi hanno molto sottovalutato il fenomeno Vendola, che è mediatico prima che politico. Il compagno Nichi è un combattente. L´aveva annunciato fin dalla prima riunione con D´Alema: «Se credete di farmi fuori o che io mi faccia da parte, vi sbagliate. Io vado avanti, farò il martire. Che alla fine, paga sempre». E l´ha fatto benissimo, il martire dell´orrida casta politica, soprattutto in televisione da Santoro. Oggi paradossalmente sembra lui, il governatore uscente, il capo della rivolta contro il palazzo. Vendola ha dalla sua argomenti popolari e contro di lui veti incomprensibili. Perchè alla fine non lo vogliono più? Perché Casini, che pure gli testimonia grande stima personale, non vuole Vendola? Perché è gay? Perché è comunista? Oppure perché non vuole privatizzare l´acquedotto pugliese, magari al gruppo Caltagirone? Perché i dipietristi non lo vogliono? Perché non ha cambiato la sanità pugliese? Ma in procura negano di avere nulla a carico del governatore. «Tranne un´intercettazione dove cercavo di "raccomandare" come primario un ex docente di Harvard, vedi che colpa» dice l´interessato. Non sarà allora perché non ha mai dato un assessore all´Idv in giunta? Sospetti, dietrologie. «Le solite fesserie dei giustizialisti» liquida Nicola Latorre. E magari sarà vero. Ma vi sarebbero meno sospetti e dietrologie se il Pd avesse messo in campo un criterio chiaro. Le primarie vanno bene per eleggere il segretario regionale e quello nazionale, ma non per il candidato governatore. L´alleanza con l´Udc è irrinunciabile in Puglia, ma era facoltativa nel Lazio. Non si capisce neppure chi comandi oggi nel Pd, se D´Alema o Bersani, che nella vicenda pugliese, dove il partito si gioca la faccia, non s´è ancora mai visto. Oppure magari comanda Casini, tecnicamente segretario di un altro partito, o forse nessuno. L´unica cosa certa è che il laboratorio è fallito e qualcuno deve prenderne atto. Tira aria di ritirata strategica. Il primo a fiutarla è stato Antonio Di Pietro, che ora è pronto a tornare sul nome di Vendola: «Lui o un altro, ma in fretta. O ‘sto candidato lo vogliamo scegliere dopo l´elezioni?»

l’Unità 12.1.10
DONNE
Nasce «Pari e dispare» La leader radicale presidente onoraria

ROMA «In Italia si nasce pari e si cresce dispare. Non può essere una maledizione geografica, la “nuvoletta” di Villaggio. È avvenuto per meccanismi culturali e tradizionali che poi sono diventati politici ma che si possono cambiare». Emma Bonino interviene alla presentazione a Roma del «Comitato Pari o Dispare», un’authority contro le discriminazioni di genere presentata ieri di cui la leader radicale è presidente onorario. «Qui in questa sala in molte ce l’abbiamo fatta. Se ci mettiamo insieme è possibile ottenere dei risultati. Tutti? Non lo
so, però vale la pena provare. Oggi la cura dei figli e dei malati è sulle spalle delle donne che hanno poco accesso al mondo del lavoro perché di lavori ne hanno fin troppi. Ci batteremo attraverso questo Comitato per il riconoscimento dei meriti». Il comitato è stato presentato nella sede dell’Enciclopedia Italiana, alla presenza del suo presidente Giuliano Amato. A presiederlo è l’economista Fiorella Kostoris, mentre alla Bonino è stata riservata la presidenza onoraria. La candidata alla presidenza della regione Lazio ha annunciato che «entro febbraio, a Milano, si terrà un convegno sugli stereotipi di donne proposti dai media, che ghettizzano e umiliano le donne e la nostra intenzione è quella di far nascere un Osservatorio in tal senso».

l’Unità 12.1.10
Oliviero Toscani
Il fotografo si candida in Toscana coi Radicali: chiedo appoggio al Pdl

FIRENZE «Io sono il candidato dei Radicali. Ho proposto al Pdl di appoggiarmi e così ci sarebbe davvero il rischio di vincere e di battere la sinistra, che qui governa da oltre 60 anni». Lo ha detto Oliviero Toscani, durante l’incontro organizzato per presentare la sua candidatura a presidente della Regione Toscana.
«Ci sono stati dei contatti e ne ho parlato con il ministro Matteoli», ha aggiunto Toscani. «A breve ci sarà una decisione, forse anche nel giro di 48 ore. Io corro per vincere. Se il Pdl deciderà di non appoggiarmi, potrei anche decidere di non correre».

l’Unità 12.1.10
Un «polo nero» per Polverini. Ed Emma fa paura al Pdl

È un vero e proprio “polo nero” quello che sta nascendo per sostenere la candidatura di Renata Polverini alla presidenza del Lazio. Un blocco che non si limiterà alla Destra di Francesco Storace, Teodoro Buontempo e Adriano Tilgher, ma che vedrà al fianco della segretaria dell’Ugl anche la Fiamma Tricolore di Luca Romagnoli e il Movimento per l’Italia di Daniela Santanchè. Si tratta di un’operazione politica ideata dal coordinatore del Pdl Denis Verdini che, oltre ad essere amico della ex deputata di Alleanza nazionale, vuole soprattutto evitare di lasciare spazio ad altre liste alla destra della coalizione. Per ora l’unica forza politica esclusa dall’apparentamento è Forza Nuova di Roberto Fiore, ma in maggioranza non si escludono tentativi anche in quella direzione. La conquista del Lazio è evidentemente considerata un fine che giustifica molti mezzi, non esclusi quelli che sono a disposizione del presidente del Consiglio. Ed ecco la decisione di nominare, in uno dei prossimi consigli dei ministri, Daniela Santanchè sottosegretario. Questo per darle maggiore visibilità in vista delle elezioni. Il matrimonio con Luca Romagnoli e Fabio Sabbatani Schiuma servirà poi a fornire al Movimento per l’Italia quel minimo di organizzazione indispensabile per formare le liste nel Lazio.
Il ritorno della Santanchè non piace molto a Gianfranco Fini (che invece è apparso meno freddo a proposito della riammissione della Destra di Storace). Ma piace a Verdini e al Cavaliere che
l’hanno caldeggiato in tutti i modi. Forse sottovalutando una serie di controindicazioni. A quanto pare, infatti, in questa prima fase della campagna elettorale si sono visti al fianco di Renata Polverini solo militanti di area post-missina. Un’area che a Roma è tradizionalmente forte, ma che certo non basta a compattare l’intero elettorato favorevole al governo.
E, infatti, Emma Bonino comincia a suscitare preoccupazioni nel Pdl. Giorni fa un parlamentare proveniente da Forza Italia faceva notare che la leader radicale può raccogliere molti consensi tra gli elettori del centrodestra. Preoccupazione che, lo scorso 6 gennaio, è stata espressa in una nota ufficiale dal capogruppo del Pdl Fabrizio Cicchitto. ❖

l’Unità 12.1.10
Gli immigrati non servono I soldi arrivano lo stesso
La Ue dà rimborsi per ettaro, non sulla produzione. Così si arricchiscono le ’ndrine
Un chilo di agrumi raccolto costa 8 centesimi. Chi lo compra lo paga 5 centesimi
di Roberto Rossi

Che cosa è la Pac
La Politica Agricola Comunitaria impegna il 44% del bilancio

Il passaggio
Dal 2007 i rimborsi Ue non sono più legati alla produzione

Gli aiuti comunitari hanno impedito la ristrutturazione della filiera. Mentre la frutta proveniente da Marocco, Spagna e Brasile, ha fatto crollare il prezzo finale (a 25 centesimi). In mezzo la Calabria.

Nella Piana di Gioia Tauro, quella degli agrumeti, la differenza tra la vita o la morte, tra la permanenza o la fuga, per tremila immigrati africani la fanno tre centesimi di euro. È lo scarto che corre tra il costo e il ricavo nella produzione di arance e clementine. Tra quello che si spende di manodopera per la raccolta e quello che si guadagna, invece, con la trasformazione. Ed è la ragione ultima della caccia al nero, gestita e coordinata dalle famiglie mafiose locali, avvenuta per le strade e le campagne di Rosarno la scorsa settimana.
PAC
Per spiegare le origini di un linciaggio di massa bisogna partire dal lontano. Dal Lussemburgo, per la precisione, a 2000 chilometri dalla Calabria. Nel Granducato, nel giugno del 2003, la Commissione Ue
decide di riformare la Politica agricola comune (o Pac). Si tratta del sistema con il quale l’Europa finanzia e aiuta il settore agricolo. È una delle politiche comunitarie più importanti, impegna il 44% del bilancio, prevede centinaia di miliardi in sussidi in tutto il continente, dei quali quasi trenta in Italia. In questo quadro all’interno del pacchetto di «politica di sviluppo rurale per il periodo 2007-2013», l’Unione europea apporta alcune modifiche al sistema di aiuti all’agricoltura. Uno di questi è il sostegno agli agricoltori in base al numero di ettari coltivati e non in base alla produzione. In sostanza se prima si finanziavano i chili, oggi gli aiuti sono a metro quadro.
La riforma entra a regime nel 2007. Nel caso di Rosarno, dove si coltivano agrumi, l’Europa concede 800-1200 euro per ogni ettaro di terreno. La differenza sta nel tipo di coltivazione. 800-1200 euro, dunque, vanno in mano all’agricoltore solo per il possesso del terreno. Non conta poi se quel terreno dà frutti. Conta l’estensione dell’appezzamento.
FUORI STAGIONE
A che servono allora gli immigrati che da oltre 20 anni stagionalmente arrivano in quelle terre? A nulla. Tanto più che produrre agrumi ora non conviene più. Se da una parte gli aiuti comunitari hanno impedito la ristrutturazione della filiera, dall’altra la frutta proveniente dal Marocco, Spagna, Brasile, ha fatto crollare il prezzo finale (a 25 centesimi). Il risultato? In Calabria per la trasformazione delle clementine i produttori prendono cinque centesimi. Per la raccolta ne spendono otto.
Tre centesimi di differenza che segnano il destino degli immigrati. «Gli africani un tempo spiega Antonino Calogero della Flai Cgil locale venivano tollerati anche se per pochi mesi. Poco dopo l’Epifania arrivava la solita retata della Polizia a sgomberare le baracche». Oggi, invece, non servono neanche per pochi mesi. E per questo gli sparano contro. «Lo scorso anno dice Sergio Genco segretario regionale della Cgil ci sono state sei persone “sparate”». Tutte africane. Due di queste in modo serio al braccio. «Li volevano cacciare per non farli tornare». E ci sono riusciti. «Il ministro Maroni spiega ancora Genco porta addosso una grossa responsabilità. Con lo sgombero e la demolizione delle baracche si è piegato all’indirizzo delle cosche». Le quali stanno facendo incetta di terreni. «Produrre non conviene, il latifondo invece sì», chiosa Genco.
Nella sola Piana di Gioia Tauro ci sono 29 famiglie appartenenti alle ‘ndrine. Alle quali, per rapporti di parentela, se ne collegano altre 70. In totale 100 famiglie controllano un territorio che ospita 180mila abitanti. E le famiglie possono decidere la vita o la morte di tremila braccianti africani. «Torneranno», dice Genco. Nel 2013 gli aiuti finiscono.❖

l’Unità 12.1.10
Rosarno e non solo, Sfruttati e sfruttatori nei campi del Sud

Rosarno, provincia di Reggio Calabria, ma anche Cerignola (Foggia) e Castelvolturno (Caserta): «pur sapendo che i clan hanno soprattutto interessi nel traffico di droga e che non c’è un controllo capillare su tutte le attività lecite e illecite, ci sono dubbi che vanno sciolti. Mettendo da parte il guadagno delle imprese di trasformazione del pomodoro, comunque inclini a pagare 3,50 euro all’ora, cioè molto meno di quanto stabilito dal contratto nazionale di categoria, il guadagno che spetta al caporale è consistente. Se il caporale sottrae 50 centesimi all’ora dalla paga del bracciante (riceve dal padrone 3,50 euro e da all’operaio 3 euro, e alle volte anche 2,80) dopo dieci ore di lavoro avrà guadagnato 5 euro. Se gestisce almeno 50 operai, avrà guadagnato 250 euro. Dopo trenta giorni si sarà messo in tasca 7500 euro. Certo, ci sono le spese da sostenere (pulmini, autisti, affitti per i casolari, stipendi per propri scagnozzi... ), ma, come dimostrato, queste spese sono state in buona parte recuperate con gli altri soldi sottratti ai braccianti proprio per il cibo, l’alloggio, il trasporto. Nel 2005 e nel 2006 almeno cinquemila cittadini polacchi (stime del governo di Varsavia) hanno lavorato nei campi pugliesi per una media di un mese a testa, quei 5 euro al giorno per lavoratore producono, in due anni, un milione e mezzo di euro! Tanto è il denaro che il caporalato sottrae a chi lavora e che viene poi diviso tra tutti i “soprastanti” e lungo tutta la catena di sfruttamento che, per funzionare, deve essere costantemente oleata. Ora, dal momento che quella cifra è abbastanza alta, può non far gola alla malavita locale?». Testo tratto dal libro Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud Mondadori di Alessandro Leogrande (Mondadori, 2008).❖

il Fatto 12.1.10
Nelle carceri trentamila dimenticati in attesa di giudizio
Tutti i numeri dello scandalo
di Silvia D’Onghia

“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”: se si pensa ai 65.774 detenuti ammassati nelle carceri italiane, a fronte di una capienza di 43.220 persone, l’articolo 27 della Costituzione sembra fantascienza. I detenuti aumentano in media di 800 unità al mese: questo significa che, se non si interviene subito, il loro numero nel giugno 2012 raggiungerà quota 100 mila. Altro che bacchettate dal Consiglio d’Europa, che in più di un’occasione ha richiamato il nostro paese al rispetto dei diritti umani. Bisogna fare qualcosa, e farlo subito: lo chiedono i Radicali, che ieri hanno presentato una mozione alla Camera firmata da 93 deputati (che impegna il governo a varare una riforma radicale in materia di custodia cautelare, tutela dei diritti, esecuzione della pena e trattamenti sanzionatori e rieducativi) e stamane manifestano con un sit-in dinanzi Montecitorio.
Tre anni dopo l’ultimo indulto, il sistema penitenziario è di nuovo al collasso. Basta guardare con attenzione le cifre: secondo uno studio del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, circa la metà dei detenuti è costituito da persone in attesa di giudizio e un 30 per cento di loro verrà assolto al termine del processo. E’ quasi nullo il ricorso alle misure alternative al carcere, le uniche in grado di far abbassare il tasso di recidiva. Il 68 per cento di coloro che scontano la pena in cella torna a delinquere, mentre il tasso di recidiva è del 28 per cento tra chi paga il suo debito allo Stato con una misura alternativa. Eppure il 32,4 per cento dei detenuti deve scontare un residuo di pena per una condanna definitiva inferiore ad un anno, il 64,9 inferiore a tre (e sono proprio i tre anni il limite sotto il quale si può aver accesso alla semilibertà o all’affidamento in prova). Soltanto uno su quattro ha la possibilità di lavorare e uno su dieci può partecipare a percorsi professionali.
Fino allo scorso 10 novembre, gli stranieri rappresentavano, con le oltre 24 mila unità, il 27 per cento del totale delle persone recluse. Ancora di più, circa 26 mila, secondo un rapporto dell’associazione Antigone, sono i detenuti per reati di droga, mentre il 27 per cento della popolazione penitenziaria è sieropositiva. Ciò dimostrerebbe allora come si ricorra sempre meno all’approccio terapeutico (nel 2007 sono state 16 mila le persone ricoverate nelle comunità terapeutiche). Numeri che, dall’esterno, parlano di grandi fallimenti, ma che, dall’interno, mettono a rischio la salute fisica e mentale. Non è un caso che il 2009 sia stato l’anno record per i suicidi in carcere: l’associazione Ristretti Orizzonti ha contato 72 persone che si sono tolte la vita impiccandosi all’interno della propria cella. 175 le morti negli istituti penitenziari. E il 2010 certo non è iniziato bene: nei primi otto giorni del nuovo anno si contano già quattro suicidi. E si perde il conto dei tentati suicidi o dei gesti di autolesionismo. La commissione Giustizia del Senato ha constatato come appena il 20 per cento dei detenuti risulti in buone condizioni di salute, il 38 per cento sia in condizioni mediocri, il 37 per cento scadenti e il 4 per cento gravi. Moltissimi sono coloro che soffrono di depressione e altri disturbi psichiatrici (spesso sono le stesse condizioni penitenziarie a determinarli: sovraffollamento, lontananza da casa e quindi impossibilità di incontrare familiari, assoluta inattività) ma, nonostante questo, rimangono dentro. Tra le patologie più diffuse anche problemi di masticazione, osteo-articolari, Aids ed Epatite B. Per far fronte a questa situazione, spesso la medicina penitenziaria è povera di risorse, di strumenti e di mezzi. Ma i problemi non sono soltanto dei detenuti. Un decreto ministeriale del 2001 prevedeva 41.268 agenti penitenziari: “Il 30 novembre 2009 risultavano essercene 38.537. Non si perda ulteriore tempo”, spiega il segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria, Donato Capece.
E’ per questo che oggi, in piazza, oltre agli stessi Radicali, ci saranno anche loro, i sindacati dei poliziotti (Sappe, Uilpa penitenziari, Osapp, Fpc Cgil) e i dirigenti degli istituti aderenti al Sidipe. Perché l’articolo 27 della Costituzione non resti ancora carta straccia.

l’Unità 12.1.10
Palestina, Egitto, Giordania
La Terrasanta imprigionata dai Muri
Israele ha costruito la barriera in Cisgiordania, ora progetta una difesa al confine con l’Egitto e pensa alla Giordania. Il Cairo blinderà l’area di Gaza
di Umberto De Giovannangeli

Prigioni ed enclavi
La Striscia isolata totalmente, la West Bank frantumata
Sicurezza
Al primo posto, ma in gioco c’è anche il controllo dell’acqua
Le opere
Sensori, cemento, acciaio, fossati, trincee per oltre 800 km
La risposta a Obama
Il presidente Usa parla di «ponti», la realtà è opposta

uFilo spinato. Cemento. Acciaio. Sensori ottici. Fossati. Altro che «ponti». In Terrasanta è tempo di Muri. Muri contro i kamikaze. Muri contro il contrabbando. Ora Muri contro l’immigrazione clandestina. Muri o Barriere che spezzano in mille frammenti territoriale la Cisgiordania. Muri che chiudono in una morsa d’acciaio e non è una immagine metaforica la Striscia di Gaza. Muri che costeggiano la frontiera tra Israele ed Egitto. E in prospettiva, Muri che dovrebbero anche spezzare la Valle del Giordano. Il «Nuovo Inizio» per il Medio Oriente evocato a più riprese da Barack Obama nel suo discorso all’università islamica del Cairo, nella sua prolusione per l’assegnazione del premio Nobel per la Pace era costellato di «ponti» di dialogo tra l’Occidente e il mondo musulmano, tra israeliani e palestinesi. Bella immagine. Ottimi propositi. Ma la realtà che segna questo inizio 2010 è ben altra. È la realtà dei Muri o Barriere che dir si voglia.
L’ultima «barriera» in ordine di tempo è quella, «tecnologica», annunciata l’altro ieri sera dal premier israeliano Benyamin Netanyahu in funzione di contenimento dell'immigrazione clandestina e di potenziali infiltrazioni terroristiche dall'Egitto. La Barriera sarà completata nel giro di due anni. Lo confermano i media israeliani, secondo i quali il progetto costerà un milione di shekel (poco meno di 200 milioni di euro al cambio attuale) e prevedrà l'innalzamento di reticolati sotto l'ombra di un sofisticato sistema di controllo radar lungo l'intera linea di confine che separa l'estrema propaggine meridionale del deserto israeliano del Neghev dal Sinai egiziano. Il Muro-Barriera rappresenterebbe una sorta di continuazione ideale della barriera sotterranea che lo stesso Egitto sta realizzando qualche chilometro più a ovest, lungo il proprio confine con la Striscia di Gaza.
Netanyahu, da parte sua, ha giustificato l'iniziativa con ragioni di sicurezza, ma soprattutto di difesa della stabilità di Israele di fronte al flusso degli immigrati clandestini. «Ho preso la decisione di chiudere la frontiera sud d'Israele a infiltrati e terroristi», ha detto seccamente. «Si tratta di una scelta strategica diretta a tutelare il carattere ebraico e democratico di Israele», ha aggiunto, sottolineando come non sia a suo parere possibile sostenere l'ingresso di «decine di migliaia di lavoratori illegali che (provenienti dal continente africano) inondano il Paese attraverso i suoi confini meridionali». I Muri, ovvero la sanzione di un fallimento della politica.
Per Israele è la Barriera di sicurezza. Per i palestinesi il «Muro dell’apartheid». La Barriera-Muro si estende per una lunghezza di 709 chilometri e il suo tracciato corre per l’85% all'interno del territorio palestinese della Cisgiordania e solo per il 15% a ridosso della linea di frontiera. Nei punti più alti, il «Muro» in questione raggiunge l’altezza di 8 metri e si estenderà, al suo completamento, per oltre 700 chilometri. Al suo confronto, il Muro di Berlino era un «nano», lungo «solo» 155 km e alto 3,6 metri. Una volta completato, il Muro annette di fatto il 50% della Cisgiordania, isolando diverse comunità in cantoni, enclavi o «zone militari». Quasi il 16% dei palestinesi in Cisgiordania vivranno «fuori» dal Muro, nelle aree praticamente annesse da Israele, sottoposti a condizioni di vita insopportabili – la perdita di terra, possibilità di commercio, mobilità e mezzi di sussistenza – e minacciati di espulsione. Questi comprendono gli oltre 200.000 abitanti di Gerusalemme Est, che dopo la costruzione del Muro si vedranno completamente isolati dal resto della Cisgiordania. Il Muro in cemento, presente a Qalqilia, parte di Tulkarem e Gerusalemme Est, è alto 8 metri, con torri di guardia armate ed una “zona cuscinetto” larga dai 30 ai 100m destinata a barriere elettriche, trincee, telecamere, sensori ed al pattugliamento dei militari. In altri luoghi, il Muro consiste in diversi livelli di filo spinato, strade per il pattugliamento, zone sabbiose per rintracciare le impronte, fossati, telecamere di sorveglianza e, in mezzo, una barriera elettrica alta tre metri.
Quello sotterraneo è il Muro che l’Egitto ha deciso di realizzare ai suoi confini con la Striscia di Gaza. Quella progettata dalle autorità egiziane è una barriera sotterranea di metallo lunga 11-12 chilometri e profonda fino a 20-30 metri. Un muro che sarà completato entro 18 mesi costituito da paletti di acciaio spinti in profondità nel terreno. La barriera costruita con un metallo estremamente resistente, è a prova di bomba, non può essere tagliata, né sciolta. In breve, è «impenetrabile». Questo muro è accompagnato da una rete di tubature che portano l’acqua del mare, per rilasciarla in prossimità della barriera di acciaio al fine di rendere il terreno più friabile.
Nella valle del Giordano è previsto un altro Muro, scorrendo a 2030 chilometri all'interno della Cisgiordania occupata, con l’obiettivo di tagliare fuori i palestinesi da terre fertili, risorse idriche e da ogni sbocco verso la Giordania. In tal modo verranno annesse a Israele sia la valle del Giordano che il «deserto della Giudea». Qui, ragioni di sicurezza s’intrecciano indissolubilmente a quelle, non meno rilevanti, del controllo delle risorse idriche. Il completamento del Muro porterà di fatto all’annessione da parte d’ Israele della fertilissima Jordan Valley, al confine con la Giordania. ❖

Repubblica “12.1.10
Archiviato il procedimento contro il padre della ragazza e 13 tra medici e infermieri. Beppino: ho sempre agito nella legalità
"La morte di Eluana non fu omicidio"
di Zita Dazzi

MILANO - La morte di Eluana Englaro non fu un omicidio: lo ha stabilito ieri il gip di Udine, Paolo Milocco, archiviando il procedimento nel quale il padre della giovane donna, Beppino, era indagato per concorso in omicidio aggravato, assieme ad altre 13 tra medici e infermieri. Fra loro, anche l´anestesista Amato De Monte, capo dell´équipe medica che, nella casa di riposo «La Quiete» di Udine, aveva attuato il protocollo per la sospensione dell´idratazione e dell´alimentazione di Eluana, secondo il provvedimento della Corte di Appello di Milano.
Eluana, da 17 anni in stato vegetativo permanente, morì tre giorni dopo la sospensione cibo e acqua, il 9 febbraio scorso, «improvvisamente senza una compiuta progressione della sintomatologia legata alla disidratazione». L´archiviazione del procedimento era stata chiesta, il mese scorso, dalla stessa Procura di Udine che, in questo fascicolo, aveva raccolto il «caotico diluvio di "sollecitazioni"» - per usare le parole del Gip - inviate a decine di Procure italiane dopo la morte di Eluana, in un clima di acceso confronto (e scontro) politico, ideologico ed etico sui temi del «fine vita». Si ipotizzavano varie violazioni di legge, fino alla più grave: l´omicidio volontario aggravato, a opera del padre e dell´équipe medica. Ma, dopo mesi di perizie e consulenze tecniche, il gip ha sancito che la morte della giovane avvenne secondo «pratiche autorizzate e specificate nei provvedimenti giudiziari», escludendo «cause di morte di natura traumatica o tossica». Il giudice sottolinea che «la prosecuzione dei trattamenti di sostegno vitale di Eluana non era legittima». Di più: come ha sempre sostenuto papà Beppino, nelle sette pagine del decreto il gip sostiene che continuare a idratare e alimentare Eluana sarebbe stato in contrasto «con la volontà espressa dai legali rappresentanti della donna», cioè i suoi genitori. Il giudice conferma che il padre della giovane donna e i medici agirono «in presenza di una causa di giustificazione». Soddisfatto Beppino Englaro, che col consueto rigore commenta: «Ho sempre agito nella legalità e nella trasparenza. Non poteva esserci altra conclusione. Sono sempre stato tranquillo, se - ha aggiunto - si può usare questo termine considerando la tragedia che ho vissuto».

Repubblica 12.1.10
Cuore, psiche, ossa quando la luce ci fa solo bene
di MariaPaola Salmi

Sole d´inverno. Gli studi più recenti lo confermano: in questa stagione 10-15 minuti al giorno di esposizione ai raggi sviluppano le difese della vitamina D
"Secondo alcune ricerche diminuisce il rischio di tumori di colon-retto, prostata e seno"

Qualunque sia la destinazione, cercare il caldo e la luce in questo periodo dell´anno fa un gran bene. Medici e bioclimatologi raccomandano di prendere "bagni" di sole con regolarità e giudizio proprio nella stagione fredda. Gli effetti salutari e rigeneranti su mente e corpo sono preziosi alleati contro le malattie, incluse quelle invernali.
La luce solare è la migliore delle medicine. I benefici immediati consistono in un´iniezione di buonumore e, a cascata, nel rafforzamento delle difese immunitarie. Il sole, preso con cautela per evitare un precoce invecchiamento cutaneo e i tumori della pelle, aumenta la tolleranza allo stress, produce un incremento degli ormoni sessuali e della libido, stimola il metabolismo con riduzione del colesterolo e della glicemia. «L´esposizione ai raggi solari anche solo di braccia, gambe e volto, per 10-15 minuti al giorno, permette la sintesi attraverso la cute della vitamina D che svolge una funzione importante nell´equilibrio del nostro organismo», afferma Mario Plebani, direttore del Dipartimento di medicina di laboratorio dell´azienda ospedaliera di Padova: «Sono in atto molteplici studi i cui dati, discussi in un recente convegno a Parigi, correlano le insufficienti concentrazioni di vitamina D nel sangue sia con un rischio aumentato o doppio di infarto del miocardio, ispessimento del muscolo cardiaco, ipertensione e coronaropatie, sia con malattie autoimmuni quali sclerosi multipla, artrite reumatoide e diabete di tipo 1, che con un aumentato rischio di sviluppare tumori, in particolare del colon-retto, prostata e mammella».
Conosciuto da tempo, invece, il ruolo della vitamina D nella salute delle ossa. Esporsi al sole soprattutto d´inverno protegge l´organismo. Vale per tutti, in particolare per gli over 65, i bambini, le donne in menopausa e quanti soffrono di malattie del metabolismo e cardiocircolatorie. «La mancata esposizione comporta ipovitaminosi D associata a una maggiore incidenza di malattie, non ultime rachitismo, depressione e tumori tra le popolazioni che vivono a latitudini maggiori», osserva Elio Mannarino, ordinario di medicina interna all´Università di Perugia. I raggi ultravioletti inducono la sintesi cutanea di vitamina D endogena, che stimola la secrezione di melatonina e serotonina, regolatori dell´umore e del ritmo sonno-veglia, attiva la tiroide, riduce la pressione arteriosa e migliora la funzione di fegato, rene, pancreas e ghiandole sessuali (testicoli e ovaie) con incremento del testosterone nell´uomo e nella donna.
«La produzione endogena di vitamina D utilizza come molecola di partenza il colesterolo o meglio un suo derivato, dal quale grazie ai raggi solari si produce il 90 per cento della vitamina D, la cosiddetta vitamina D3 o Colecalciferolo, presente nel nostro organismo (il restante 10 per cento è introdotto con la dieta) - spiega il professor Mannarino - Quest´ultima subisce, prima a livello epatico quindi renale, una serie di modificazioni che la attivano e la trasformano in D2 e D1 (o calcitrolo), responsabile dell´assorbimento del calcio a livello intestinale, della fissazione nell´osso di calcio e fosfati».

lunedì 11 gennaio 2010

l’Unità 11.1.10
Ora tocca ai romeni
L’ordine delle ’ndrine: «Via chi non ci serve»
Le arance marciscono, i prezzi crollano, conviene lavorare di meno e intascare gli aiuti europei. I neri protestavano ed il cerchio si è chiuso
di Gianluca Orsini

Non ci servite più. E adesso ve ne potete andare. Questo il messaggio che le ’ndrine hanno voluto dare ai braccianti»: ossia i meno docili, ma trattati in maniera più disumana. E che alla fine si sarebbero ribellati. Sergio Genco coordina la Cgil calabrese e sui motivi della «seconda rivolta» dei migranti di Rosarno ha idee chiare. Il mercato di arance e clementine è asfittico, i prezzi sono crollati, molti piccoli produttori lasceranno marcire i frutti sui rami pur di non affrontare i costi della manodopera alla raccolta, e i rosarnesi e le cosche infiltrate nel mediazione tra produttore e consumatore non volevano più la massa di lavoratori irregolari, oltre 1200, deportati tra sabato e domenica dai «lager» Rognetta, Opera sila e Colline di Rizziconi.
«I clementini? Per me sui rami possono marcire! Ma almeno non mi devo vedere tutti questi neri tra i piedi!»; il signor Giovinazzo abita in contrada Bosco, dove i braccianti inferociti della ex Opera Sila giovedì sera hanno dato alle fiamme la vettura della 31enne Antonella Bruzzese, picchiandola e intimidendo i suoi due figli di 10 e 2 anni,e scatenando così la più violenta delle ritorsioni rosarnesi di questi giorni.
Allo «Spartimento» il quadrivio tra Statale 18 e la poderale per il mega Inceneritore della Piana, per giorni gli abitanti del posto hanno atteso al passo con le mazze i migranti uscissero in fuga per vendicarsi. Ma molti di loro prima impiegavano gli immigrati nei loro «giardini», come i calabresi chiamano i fondi agricoli. Ma da un paio d’anni a questa parte, non più.
Da quando la politica agricola dell’unione europea è cambiata con l’ingresso di Romania e Bulgaria, mutando il sistema dei rimborsi per gli agrumeti. «All’agricoltore calabrese, come in tutto il Meridione, paradossalmente entrano più soldi in tasca a lasciare i frutti marcire,che a farli raccogliere dagli intermediari che li destinano alle industrie della trasformazione insucchi e marmellate – spiega Antonino Calogero, un sindacalista di Gioja Tauro che studia la filiera produttiva degli agrumi da decenni – i prezzi sono crollati a 6 centesimi al chilo per le arance». Più remunerative le clementine, i mandarini della Piana: ben 10 centesimi per chilo raccolto «sulla pianta».
L’associazione di categoria Coldiretti precisa che il prezzo delle arance dall’albero alla nostra tavola subisce una moltiplicazione del 474 percento. Cifre folli, e con un prezzo indicato dai rappresentanti degli agricoltori che non rispecchiano nemmeno i reali prezzi contrattati al mattino dai contadini con i capibastone che acquistano per le ’ndrine locali, padrone del settore. Per Coldiretti il prezzo delle arance è 27 centesimi al chilo per il frutto da tavola. I «purtualli» (per un calabrese) destinati al succo di frutta non vengono pagati più di 6 centesimi al chilo. «I rimborsi Ue con il nuovo sistema comunitario, garantiscono una resa maggiore per ettaro» spiega Calogero. prima si pagava l’agricoltore per i quintali prodotti dai fondi, certificati dalla Regione; ora i soldi vengono rifondati a seconda degli ettari di terra posseduti, e dichiara di aver coltivato; se lamenta invenduto si consola con gli euro di Bruxelles. Se consideriamo che anche pagando in nero i braccianti 20 euro algiorno, per cassetta di arance raccolte il costo di raccolta non scende sotto gli 8centesimi. Raccogliere è un gioco al ribasso.
Ecco perché i migranti di Rosarno erano diventati un peso. «Ai pochi che ancora volessero raccogliere i frutti, o i grandi possidenti che su tonnellate di prodotto raccolto, hanno ancora un utile, bastano e avanzano i rumeni, ucraini bulgari e maghrebini residenti in città, quasi tutti in case in affitto» spiega Pino, un ex bracciante alla «Casa del popolo Valarioti», nel centro città. Era già così l’anno scorso; chi si fosse avventurato sulla statale 18 alle 6 del mattino con Gabriele Del Grande, il blogger di «Fortress Europe» e studioso della migrazione, avrebbe passato una mattinata insieme a ragazzi maliani, burkinabè e senegalesi che aspettavano invano agli angoli delle strade perché le porte dei furgoncini dei «capi neri» (come i migranti chiamavano i caporali del primo livello, gli sfruttatori extracomunitari, unici a poter trattare prezzi e disponibilità di giornata con i caporali calabresi) si aprissero per portarli a lavorare. Già nell’inverno 2009 i «neri» non erano più graditi dopo aver osato manifestare contro la ’ndrina per le strade rosarnesi nel dicembre 2008. ❖

l’Unità 11.1.10
Calabria, adesso è il momento del coraggio
di Giuseppe A. Veltri

G li eventi di Rosarno possono sconvolgere un lettore che non sia al corrente dell’attuale situazione della Calabria, ma non sorprendono chi conosce la realtà di una regione caduta in una profonda crisi sociale ed economica. Il parastato rappresentato dalla criminalità organizzata ha mostrato il modo in cui intende regolare il fenomeno immigrazione, con sfruttamento e intimidazione, senza l’ostacolo della vasta maggioranza dei cittadini calabresi. Questi cittadini vivono una grossa contraddizione: se da un lato chiedono l’intervento dello stato contro il sottosviluppo economico e il crimine organizzato, dall’altro hanno chiuso gli occhi verso la politica locale che non si è quasi mai fatta carico dei problemi reali della Calabria.
Una politica completamente prosciugata da ogni spinta ideale e ridotta a mera amministrazione e spartizione delle risorse pubbliche. Casi come quello della senatrice Napoli sono sempre più rari, la politica nazionale e locale ha rinunciato a tentare di migliorare la società calabrese. Appare incredibile come le cosiddette forze progressiste non aiutino o interagiscano con i pochi movimenti anti criminalità organizzata, come «Libera» o «Ammazzateci Tutti», non intervengano sulla corruzione e infiltrazione mafiosa nella cosa pubblica.
I cittadini calabresi sono da anni stretti in una morsa feroce tra ’ndragheta e politica corrotta, eppure nessun fallimento clamoroso, vedi casi nella sanità calabrese o la gestione del territorio tra frane e discariche tossiche abusive, ha dato loro la forza di reagire. Un pericoloso miscuglio di paura e negazione dell’evidente non permette di capire che il disastro è dietro l’angolo, l’emigrazione è tornata ai livelli degli anni ’50 o che le responsabilità delle amministrazioni locali ormai quasi bilanciano quelle dello stato centrale. Quale amministrazione comunale, provinciale e regionale calabrese può seriamente dire di non essere a conoscenza dei problemi del territorio? Quante iniziative forti hanno mai intrapreso? Quale battaglia di civiltà hanno posto come fulcro della loro azione politica?
Tra poco, il 17 Gennaio, si terranno le primarie del Pd. I candidati non avranno una migliore occasione per dire quali saranno le loro iniziative concrete contro la criminalità organizzata. Il timore è quello che anche questo esercizio di democrazia sia svuotato da una politica senza coraggio che ha rinunciato a trasformare la realtà calabrese e si è resa complice del suo abbrutimento.

Repubblica 11.1.10
L’uomo bianco con il fucile
di Adriano Prosperi

«Noi ce ne andiamo, voi però qui restate, qui dovete vivere»: questo il messaggio degli uomini in fuga da Rosarno. Uomini? Quasi nessuno li ha chiamati così. È un´altra la parola che è emersa, gridata dalle squadre dei giustizieri della notte, ripetuta in tutte le cronache: negri. E la parola ha suggerito subito l´altra gemella e nemica: bianchi.
Noi che restiamo qui dobbiamo prendere atto di come è cambiato il paesaggio dove da oggi dovremo vivere: che non sarà più solo quello morale della violenza collettiva, o quello materiale del degrado dei luoghi, o anche quello sociale e politico di uno stato assente sostituito dalla ´ndrangheta, oppure quello storico di un paese «troppo lungo» che giorno dopo giorno visibilmente si spezza, come ha scritto in un libro appassionato Giorgio Ruffolo. Da questo momento, accanto ai problemi del sud, alla questione dell´immigrazione clandestina, ai disastri dell´insicurezza prodotta dal decreto sicurezza, un altro problema è sorto che va al di là di tutto il resto e segna una tappa mai prima toccata o immaginata nell´Italia che credevamo di conoscere: la tappa segnata da una parola: «negri».
Ricorderemo questa data come l´ingresso nel vocabolario dell´Italia incivile della parola chiave, quella che cambia il mondo e lo semplifica, quella che fa del rapporto fra esseri umani una guerra di razze e un conflitto di colori, dove il nero muore e il bianco vince. La cosa da tempo si avvertiva nell´aria, serpeggiava negli stadi, luogo germinale della lingua nuova: ma è solo da oggi che la novità si è imposta collettivamente con l´evidenza delle immagini e con l´urlo collettivo delle folle. Per misurare quante cose sono cambiate in un colpo solo basta ricordare l´assassinio di Jerry Essan Masslo, il rifugiato sudafricano ucciso a Villa Literno il 25 agosto 1989. Non lo chiamarono «negro» le cronache di allora: e dei suoi assassini si parlò come di una banda di criminali. Oggi al posto dell´assassinio isolato si è cercata, voluta e rischiata una strage. Ronde notturne, posti di blocco, automobili con uomini armati di fucili, agguati, spari, grida, ferocia, paura, corpi sanguinanti di altri uomini in mezzo a paesaggi devastati, a rifugi primitivi: dove avevamo già visto queste scene? È una sequenza che finora avevamo visto solo nei film americani, quelli sul Ku Klux Klan e sulla lunga tragedia del razzismo degli Stati Uniti. Le scene di Rosarno trasmesse dalla televisione sembravano spezzoni di quei vecchi film dove i bianchi americani armati di fucili andavano a caccia di schiavi fuggiaschi. Dunque proprio quando l´elezione alla presidenza di Barack Obama ha siglato la vittoria della battaglia per la fine della separazione razziale, ecco che la crisi italiana diventa una crisi in bianco e nero - semplice, violenta, insolubile, come quella di cui scriveva Charles Silberman mezzo secolo fa nel libro che leggemmo con quel titolo. Ma l´analogia delle parole e la distanza dei tempi e dei modi mostrano che rispetto alla difficile crescita della società americana l´Italia si avvia lungo la strada di un declino civile senza sbocco, in controtendenza rispetto a quel mondo americano dove la lunga lotta per i diritti dei neri d´America ha realizzato il sogno di Martin Luther King. Da noi si apre uno scenario inedito, un panorama assurdo, una realtà sgangherata che ha solo un punto in comune con quello tragico e secolare del razzismo dell´America negriera: la parola. Negri quelli che se ne vanno, bianchi noi che restiamo. Loro, prima di andarsene, hanno gridato: siamo uomini come voi. Ma l´esito della battaglia ha dimostrato che noi non siamo uomini come loro e che per loro non c´è posto fra di noi. La lingua quotidiana è cambiata. Il mondo mentale degli italiani è diventato da un giorno all´altro un mondo in bianco e nero. E questa è l´essenza linguistica della regressione civile, perché la parola porta con sé la semplificazione del mondo e la radicalizzazione del conflitto. Lo porta in una realtà da sempre storicamente e umanamente vicina al continente africano. E questo prova quanto la crisi sia grave.
Con questa novità dobbiamo fare i conti. La parola «negro», cadendo sull´Italia intera dai fatti di Rosarno, ha prodotto un effetto che ricorda, pur tra molte differenze, l´essenziale di quello che accadde quando le leggi razziali del 1938 portarono per la prima volta nella vita quotidiana la parola «ebreo» . Un bel libro di Rosetta Loy ha raccontato come quella parola producesse l´effetto di far scomparire delle persone. Anche con la parola «negro» l´effetto è stato quello. Stavolta la scomparsa non è stata sotterranea e silenziosa come allora: è avvenuta sotto gli occhi di tutti con scene piene di rumore e di grida. Tutti abbiamo visto centinaia di uomini neri andarsene sotto scorta dal paese dei bianchi . Così si è manifestata ancora una volta la potenza dello stereotipo razziale che sostituisce al volto concreto dell´essere umano una silhouette, una maschera da colpire e distruggere. E lo stereotipo del «negro» è senza ombra di dubbio il più semplificato e il più immediatamente efficace. Da questo fondo cupo bisognerà pur risalire. E come per la parola «ebreo» bisognerà cercare di capire come e perché quella parola sia caduta oggi sul nostro contesto civile. Bisognerà riportare alla memoria degli italiani le pagine oscure della loro storia, quelle che non si ricordano volentieri, risalire alle responsabilità storiche del paese Italia nel percorso di delitti e di tragedie che hanno conferito a quella parola un suono sinistro. Grazie all´opera solitaria e coraggiosa dello storico Angelo Del Boca sappiamo ormai che cosa sia stata l´Africa nella coscienza degli italiani, conosciamo di quali tragedie e di quali delitti sia stato fatto il colonialismo italiano, quante atrocità siano state commesse dalle truppe italiane mentre le canzonette della propaganda fascista solleticavano gli istinti di violenza del maschio italiano sulle «faccette nere» delle donne abissine. Ma ci vorrà ben altro che qualche lezione di storia per risalire da questo abisso.

Repubblica 11.1.10
"La caccia al nero una vendetta dei clan"
Gli inquirenti: le cosche schierate con la gente. Tra i fermati il figlio di un boss
La pista del collegamento con la bomba a Reggio "Volevano spostare l´attenzione"
di Attilio Bolzoni

ROSARNO - La caccia al nero che abbiamo raccontato dagli aranceti calabresi non l´ha scatenata la rabbia dei contadini e dei possidenti di Rosarno. È stata una "ritorsione organizzata": c´è forse la firma della ‘ndrangheta nei raid per le campagne e nelle ronde che hanno braccato gli africani. Una rappresaglia mafiosa per dimostrare chi comanda in quel territorio, per schierarsi al fianco degli abitanti infuriati, per terrorizzare gli immigrati. La ‘ndrangheta dopo quarantotto ore di guerriglia ha vinto la sua battaglia: la Piana è stata liberata dai "negri" in rivolta che Rosarno voleva cacciare.
Un investigatore riassume i fatti e delle scorribande ne indica la matrice: «I boss hanno cavalcato la protesta per far vedere che stanno con la gente e non contro la gente. La caccia all´uomo è stata una vendetta a freddo, calcolata».
Per chi non conosce a fondo la Calabria: la caccia al nero è andata in scena in una striscia della Piana dove cinque comuni, uno attaccato all´altro - Rosarno, San Ferdinando, Gioia Tauro, Taurianova, Rizziconi - negli ultimi due anni sono stati chiusi per "infiltrazioni mafiose". Lì, proprio in questo regno della ‘ndrangheta, c´è stato il regolamento di conti contro i neri che avevano osato ribellarsi.
Erano solo sospetti. Erano solo ipotesi d´indagine. Oggi però gli indizi sembrano più consistenti, le tracce lasciate prendono la forma delle impronte digitali della mafia calabrese. Le indagini puntano verso i boss di Rosarno e di Gioia Tauro. Il procuratore capo di Palmi Giuseppe Creazzo ha aperto un´inchiesta - ha già ascoltato alcuni testimoni - e aspetta le prime informative e i primi rapporti dalla polizia giudiziaria. Se la pista mafiosa sarà confermata, l´inchiesta passerà nei prossimi giorni alla procura distrettuale di Reggio Calabria.
Ma già ci sono i primi elementi che potrebbero portare a una regia dei clan. Il primo elemento intorno al quale s´indaga è il tipo di armi usate per ferire gli immigrati: fucili caricati a pallini. Un´arma che può fare molto male ma non uccidere, un´arma che è stata scelta "soltanto" per ferire. Tutti i neri ricoverati negli ospedali della Piana avevano addosso i segni di quei pallini: sempre lo stesso tipo di fucile leggero in una zona dove ogni settimana sequestrano quintali di armi pesanti.
Il secondo elemento è nella dinamica degli agguati: la facilità con la quale, una dopo l´altra le vittime - nascoste in casolari, in fuga per i campi - sono state individuate. «Questo presuppone una conoscenza e un controllo del territorio che solo gli uomini di mafia possono avere», spiegano ancora gli investigatori. Il terzo elemento è il più evidente di tutti: la presenza, sulle barricate e nei posti di blocco presidiati dagli abitanti di Rosarno, di molti personaggi legati alla ‘ndrangheta. Gente dei Bellocco e dei Pesce, le due cosche dominanti in paese. Fra gli arrestati della rivolta c´è anche Antonio Bellocco, il figlio di Michele, il capo della famiglia.
In Calabria non è la prima volta che la ‘ndrangheta appoggia proteste di strada, manifestazioni di popolo. È accaduto già una decina di anni fa quando un ragazzo - Giosé Carpenteri - è stato travolto e ucciso a Locri dall´auto blindata che faceva da scorta al sostituto procuratore della repubblica Nicola Gratteri. Gli abitanti di Locri occuparono la linea ferrata sullo Jonio, incendiarono cassonetti sulla statale 106, scesero in piazza a migliaia, formarono "comitati popolari cittadini" e riempirono i muri del loro paese di scritte contro "gli sbirri". Dopo alcuni mesi si scoprì che a fomentare la sommossa erano stati i Cordì, mafiosi di Locri.
Ma se la pista mafiosa è quella che sembra al momento una delle più attendibili per spiegare le spedizioni punitive fra le arance della Piana, resta ancora un mistero il movente della guerra fra bianchi e neri cominciata a Rosarno giovedì sera. Si rincorrono voci. Una - assolutamente priva di riscontri e ripetuta da più parti - collega gli avvenimenti di Rosarno con la bomba ritrovata alla procura generale di Reggio Calabria l´altra settimana. «Per spostare l´attenzione di stampa e tivù dai giudici e dalle loro indagini», dicono in molti. Voci confuse, incontrollate. Nessuno, qui in Calabria, ancora oggi sa dire perché la Piana è diventata per due giorni e due notti un campo di battaglia.

Repubblica 11.1.10
Oggi gli abitanti del paese manifestano per le vie del centro. "Vogliamo far sapere che qui non c´è solo razzismo"
Dai bulgari agli ucraini, la paura degli altri "Ci insultano, anche noi pronti alla fuga"
Ieri hanno evitato di farsi vedere in giro: "Ce l´hanno consigliato i nostri datori di lavoro"
di Giuseppe Baldessaro

ROSARNO - Il terrore non ha colore tra gli sfruttati della Piana di Gioia Tauro. Ora tutti gli immigrati di Rosarno hanno paura, più di mille, forse mille e 500 persone, tra bulgari, romeni, ucraini. «Siamo terrorizzati, se continua così ce ne andremo anche noi», dice qualcuno in queste ore di tensione. Vivono in paese, in case che si affacciano sulle strade devastate dalle ore di guerriglia. Abitano molte periferie buie della capitale degli agrumi calabresi. Come gli africani lavorano nei campi, oppure nell´edilizia e nelle officine, mentre le donne stanno in casa della gente del posto come badanti o donne delle pulizie. Non sono stagionali, ma questo non li tranquillizza. Nella Piana vivono da anni, ci hanno portato le famiglie, ci fanno crescere i figli. Pagano affitto e luce, in una situazione che non è quella inumana dell´ex cartiera o del ghetto di Spartivento, ma che non è neppure "integrazione". È l´altra faccia dell´immigrazione rosarnese, il rovescio della stessa medaglia. Sulle barricate li definivano "i buoni", quelli che «sono i benvenuti». Nella realtà sono mal tollerati dai più in un paese dove oggi la gente scenderà in piazza per manifestare e ribadire a tutti che «a Rosarno non c´è solo razzismo».
Intanto anche ieri molti di loro hanno preferito non farsi vedere in giro. Stanno chiusi in casa a guardare la televisione, nel tentativo di capire. Kaddour è maghrebino, un lavoro da bracciante e tre stanze da condividere con altri quattro lavoratori stranieri. Non esce dalla notte della devastazione: «Me lo ha detto il mio datore di lavoro di stare dentro. Di non preoccuparmi di nulla e di chiamare lui se ho bisogno di qualcosa». Alla porta di Kaddour hanno già bussato e i toni non erano quelli della tolleranza: «Un gruppo di ragazzi ci ha insultato e ci urlavano di andare via». Buobker Elhfian è un marocchino di 35 anni, a Rosarno fa il mediatore culturale. È il presidente di Omia, un´associazione no profit che si occupa di progetti d´integrazione. «Sabato eravamo in giro con altri due soci, una ragazza Moldava e un amico di colore del Burkina Faso che lavora qui da anni. Non ci hanno toccati, ma ci hanno detto di tutto, senza risparmiare nessuno». Elhfian raccomanda agli stranieri di essere prudenti: «È un brutto momento», spiegando che «è rischioso per i neri, ma non solo». In questi giorni ha contattato molti migranti, li ha sentiti per telefono e «quando è stato possibile», li ha anche incontrati. Si sono raccontati le loro paure, l´intolleranza dei locali «ma anche alcuni gesti di solidarietà». Vicini di casa e amici «ci portano da mangiare e ci dicono che passerà, che il clima tornerà presto sereno».
Naima non ci crede molto. È algerina, vive con il marito e due bimbi, di cui uno nato in Italia. Dice che «le cose sono cambiate, la gente ti guarda strano». Il marito per ora non vuole uscire, ma pensano di andar via, forse dai parenti che stanno in Puglia.

Repubblica 11.1.10
L´inferno al Sud, pasti caldi al Nord e nei campi c´è una doppia Italia
Per gli immigrati in Calabria otto euro al giorno Condizioni migliori in Trentino e Friuli
La Coldiretti: il prezzo delle arance sale del 474% per colpa delle speculazioni
di Jenner Meletti

Alla sera, sia Cheikle il senegalese che Jaroslaw il polacco sono stanchi morti. Cheikle ha raccolto le arance nella piana di Gioia Tauro, Jaroslaw ha raccolto le mele nella Val di Non. Ma soltanto i gesti e la fatica sono uguali. Cheikle lavora per un euro all´ora, otto o dieci euro al giorno, tutto ciò che gli lascia in mano il caporale. Quando il buio interrompe la raccolta, per lui ci sono il viaggio a piedi verso un capannone abbandonato, un materasso fra pareti di cartone, una pentola con il riso da dividere con altri disgraziati. Jatoslaw guadagna 7 euro netti all´ora, 56 al giorno, e sia a pranzo che a cena (in ogni autunno) si siede a tavola assieme ai padroni delle mele Melinda. Per il riposo, una stanza con il bagno e un fornello per il primo caffè della giornata.
Non è tutta uguale, l´Italia che "offre" lavoro a chi arriva da lontano, e per fortuna non è solo un inferno. «È qui da noi - dice Pietro Molinaro, presidente della Coldiretti Calabria - lo sfruttamento della peggior specie. I caporali, per ogni lavoratore straniero portato nelle campagne, incassano dai venti a trenta euro al giorno. Ma all´operaio agricolo vanno al massimo i dieci euro. Il caporale non si accontenta. Dice all´immigrato anche dove andare a fare la spesa e dove, pagando altri soldi, può trovare da dormire. Non dobbiamo immaginarci il caporale di una volta, quello che reclutava i braccianti nelle piazze. Il caporale moderno conosce bene le leggi o si fa aiutare da chi è esperto. Riesce a organizzare cooperative fasulle che forniscono giornate di lavoro ad aziende altrettanto fasulle così, oltre alla speculazione sulla pelle di immigrati veri, riesce anche a ottenere denaro con i sussidi di disoccupazione».
«Rosarno è solo la punta dell´iceberg. Qui da noi ci sono altre aree a rischio. Lo sfruttamento degli immigrati mette in crisi anche le tante imprese oneste che subiscono una concorrenza sleale. In Calabria non ci sono soltanto le "case di carta" dei lavoratori stranieri. Ci sono anche "l´olio di carta" e le "arance di carta", vale a dire aziende che non hanno né ulivi né aranci ma riescono a farsi consegnare i contributi Cee e incentivi con registrazioni e fatture false. Lavorare rispettando le regole è la nostra salvezza, ma diventa ogni giorno più difficile. Al porto di Gioia Tauro arrivano cisterne di succo d´arancia dal Brasile e carghi di arance dalla Spagna, spacciati poi come prodotti italiani. Mettere l´etichetta di origine e, come propone il ministro Zaia, porre un "marchio etico" sui prodotti sarebbe un modo per distinguere gli onesti dai farabutti. Il mercato è già difficile anche senza concorrenza sleale. Le arance da tavola sono state pagate 27 centesimi al chilo e vendute a 1,55, con un aumento del 474%. Per le arance da succo sono stati offerti al produttore 6 centesimi al chilo».
C´erano in tutto il Paese, le "enclave" dei nuovi schiavi. Nel Trentino, al tempo delle mele, arrivavano dal Sud gli africani che avevano appena raccolto i pomodori. Nel mantovano c´erano le file per poter trovare un lavoro nei campi di fragole e di meloni… «Qui in Val di Non - ricorda Danilo Merz, direttore della Coldiretti trentina - i volontari avevano montato tendoni per accogliere i raccoglitori stranieri. Dopo tre giorni, o avevano trovato un ingaggio o dovevano ripartire. Loro avevano bisogno di noi, noi avevamo bisogno di loro, e così ci siamo dati da fare. Non è sempre stato facile. Quando è uscita la Bossi-Fini la polizia veniva a prendere le impronte agli stagionali stranieri. Non è stata una bella esperienza. Ma da anni la situazione è tranquilla. Gli stranieri - e sono sei, settemila - hanno contratti che per la raccolta delle Melinda prevedono un salario di 7 euro all´ora e l´organizzazione di vitto e alloggio: 3, 4 euro per un letto, 5 per un pasto. Ma nessun coltivatore si fa pagare. Si creano anche amicizie. In inverno ci sono trentini che vanno in Romania o Polonia a trovare i raccoglitori che, ormai "fidelizzati", torneranno per la prossima raccolta. Anche per noi il problema è il mercato. Per un chilo di Melinda siamo stati pagati 50 centesimi al chilo. Controllate voi i prezzi nel vostro negozio».
Ci sono lavori che gli italiani hanno ormai dimenticato. «Negli allevamenti - dice Mauro Donda, che dirige i coltivatori bresciani - ci sono 2000 stranieri. Quasi mille gli indiani nelle stalle con i bovini. Stipendi da 1200 a 1600 euro al mese, per 6 ore e mezzo di lavoro. Sei giorni la settimana. Ma ci si alza prima delle 4 e si torna in stalla nel pomeriggio». Meloni e cocomeri per la prossima estate non sono nemmeno stati seminati. Ma nel prossimo giugno arriveranno nel mantovano migliaia di raccoglitori. Anche per loro 7 - 8 euro all´ora, più vitto e alloggio. «Se qualcuno non riesce a venire - dice Giovanni Benedetti - si preoccupa di mandare un fratello o un amico. C´è solo un problema burocratico: a volte le quote di ingresso sono decise quando i meloni sono già maturi».
Rauscedo, in Friuli, è l´unico luogo del nord dove anche in questi giorni si trovano centinaia di stranieri impegnati in agricoltura. Sono 700 uomini e donne che lavorano in una grande coop che fa crescere le "barbatelle", le nuove viti. Arrivano anche dalla Bielorussia, per selezionare i 60 milioni di piantine che saranno inviate in tutto il mondo. Per l´operaio comune, 63 euro netti al giorno. La paga di una settimana, per Cheikle il senegalese, a Gioia Tauro. Sempre che il caporale mantenga la parola data.

Repubblica 11.1.10
Berlino, il miracolo dell´istituto dove 8 alunni su 10 sono musulmani
di Andrea Tarquini

BERLINO - Tre anni e mezzo fa, la Ruetli Schule era il simbolo dell´inferno dei ghetti, oggi è un esempio di didattica multietnica e di politica dell´integrazione. La storia emblematica della Hauptschule (una specie di scuola professionale) a Neukoelln, il Bronx musulmano nel sudest della capitale tedesca, mostra che in una democrazia multiculturale aperta come la Bundesrepublik la scuola può funzionare anche quando la maggioranza dei ragazzi sono extracomunitari.
L´80% dei ragazzi sono musulmani, e tra questi il 35% di origine araba, il 25% turca. I tedeschi sono solo il 17%. «Qui da noi la realtà quotidiana è cambiata del tutto», dice il nuovo preside, Aleksander Dzembritzki. «Ai ragazzi abbiamo fatto capire che se studiano e s´impegnano anziché scegliere le gang hanno una chance nella vita, agli insegnanti abbiamo chiesto di restare solo se se la sentivano». Nel 2006, la lettera aperta del corpo docente della Ruetli, esasperato dal bullismo, era stata pubblicata, rivolta al paese intero, e aveva scosso la Germania.
Berlino ha reagito. Anziché chiudere la scuola o disperderne gli studenti, ha investito 26 milioni di euro (5,5 pubblici, gli altri donati da privati) per rinnovarla. Ora la scuola ha una nuova palestra, computer e locali ammodernati. Insegna la boxe e altri sport ai giovani più aggressivi per aiutarli a dominare la violenza. E offre a circa 1400 bambini e giovani di Neukoelln opportunità d´ogni genere: dall´asilo nido a un centro di consulenza per trovare di lavoro dopo gli studi.

Repubblica 11.1.10
Per Emma sì e subito e niente Loretta
di Mario Pirani

La candidatura Bonino è un´iniziativa salvifica insperata. Richiama l´atto che nel dramma greco veniva definito "Deus ex machina" per via di quel marchingegno teatrale calato dall´alto, una specie di ascensore, attraverso cui la divinità di turno scendeva a sciogliere i nodi irrisolti in cui gli uomini si erano impigliati. Così Emma, non solo può ridare una speranza di vittoria ma, soprattutto, un ritorno d´identità negli elettori di sinistra, il senso che sono finalmente chiamati ad una scelta che possono condividere per far prevalere una donna coerente, che ha condotto grandi battaglie, che ha lavorato con impegno in Europa e in Italia, che è riuscita a non confondersi mai con la partitocrazia. Anche se per disavventura non vincesse, gli elettori potrebbero comunque dirsi che hanno fatto quello che potevano, per una causa nella quale credevano. Ed ora mi permetto di rivolgere un appello al vertice Pd, in base al fatto che, pur senza illusioni e senza essere un iscritto, ho votato Bersani alle primarie del partito, affinché smetta una buona volta (stava avvenendo ancora ieri sera, mentre scrivevo queste righe) di procrastinare le decisioni, riesumare consultazioni, immaginarsi primarie, ricercare qualche big (?) fuori tempo massimo! Basta! Se in una prima fase le perplessità di Bersani erano comprensibili, ormai sono diventate autolesionistiche. Certamente non può riesumare il centralismo democratico del vecchio Pci quando, una volta chiuso il dibattito, tutti disciplinatamente si allineavano alla decisione del gruppo dirigente. Da quella fase si è caduti, però, in un democraticismo inconcludente che trasforma ogni riunione di partito in una assemblea permanente di condomini rissosi. Franceschini lo ha teorizzato (Repubblica 27/12 us) quando ha sostenuto che a Bersani non spetta decidere ma «fare la sintesi». Cioè, pur avendo prevalso alle primarie e vinto il Congresso, non avrebbe la legittimazione a decidere ma dovrebbe ricercare ogni volta una sorta di compromesso al ribasso. Rifiuti il segretario eletto (!) questo trabocchetto esiziale al partito e alla sinistra. Secondo il mandato avuto, scelga ogni qualvolta lo ritenga giusto. Solo così uscirà dalla palude in cui sta affondando.
Un´altra osservazione. I personalismi nel Pd, purtroppo, non si placheranno. Riflettono una degenerazione pervasiva che va affrontata con una terapia generale. Non illudendosi di sradicarla del tutto ma per ridurla a fenomeno gestibile. Con le primarie, che debbono funzionare almeno come un severo concorso pubblico preventivo. Non basta averle fissate per statuto.
Occorre un regolamento attuativo minuzioso, un obbligo a ricorrervi senza deroghe, con date prefissate di svolgimento. Definendone chiaramente il campo: non servono per le cariche interne di partito, dove debbono votare solo gli iscritti ma per la scelta a larga condivisione delle candidature elettorali. Con filtri ben scanditi per non aprire ad ogni ultimo venuto un mattino di insperata notorietà. Come sarebbe il caso se, per assurdo, come qualcuno chiede si aprissero ora le primarie in concorrenza alla Bonino della autocandidata Loretta Napoleoni. Una signora che ebbi occasione di conoscere alla presentazione di un suo libro definita addirittura «grande economista» e «grande esperta di terrorismo», come prova un suo romanzo giallo sull´Iraq. Il libro, espressione del suo livello accademico si intitolava: La nuova economia del terrorismo (ed. Tropea). Al centro vi era la "scoperta" del terrorismo come maschera di una colossale centrale finanziaria, che vede Al Qaeda alleata col capitalismo americano, con «interdipendenze pazzesche» e un «tasso di crescita più alto di quello dell´economia Usa!». Sono uscito dalla sala quando il buon Giulietto Chiesa, ex corrispondente dell´Unità a Mosca e sponsor della Loretta, ha riesumato, di conseguenza, la solfa che dietro l´11 Settembre vi erano la Cia e il Mossad.

Repubblica 11.1.10
Accuse sulle pagine dell´Avvenire
Pedofilia, prete arrestato a Savona la diocesi attacca i magistrati

SAVONA - La diocesi di Savona va all´attacco dei giudici della Procura per l´arresto di don Luciano Massaferro, 44 anni, parroco di Alassio, da oltre una settimana rinchiuso in carcere a Chiavari con l´accusa di violenze sessuali su una sua chierichetta, una bambina di 11 anni. Lo fa tramite il quotidiano l´Avvenire con un articolo pubblicato ieri nella pagina curata dall´Ufficio diocesano comunicazioni sociali, dove si parla di un sacerdote «che sembra essere condannato di un reato infamante, prima ancora che le indagini siano terminate». L´articolo mette anche in dubbio la solidità dell´indagine basata sulla testimonianza di una minore «che sembrerebbe provenire da un contesto familiare noto e difficile».

l’Unità 11.1.10
Il carcere di Gaza
di Luigi Fioravanti

La strage di Gaza, lo scorso anno, è stata perpetrata da parte degli israeliani senza lasciare ai palestinesi alcuna via di scampo; anche l'Egitto fece la sua parte: chiuse i confini a sud, unica via di fuga. Quest'anno l’Egitto ha impedito ai partecipanti alla Gaza Freedom March di raggiungere Gaza, per portare ai palestinesi aiuti e solidarietà. Da tempo ormai l'Egitto dove c’è una dittatura, ma che come amico dell’Occidente, viene insignito del titolo di “paese moderato" è più interessato a compiacere Israele e Usa che a sostenere i diritti dei palestinesi. Ora sta costruendo un muro d’acciaio sotterraneo sul confine di Gaza: la striscia di Gaza sotto embargo totale da parte di Israele da tre anni chiusa per mare, per cielo, per terra, lo sarà anche sottoterra: una prigione collettiva per un milione e mezzo di abitanti. Carcerieri Israele e Egitto, finanziatori gli Stati Uniti, spettatori gli europei: nel silenzio complice di grande stampa e tv.

l’Unità 11.1.10
Iran, in cella 30 donne in lutto. Violenze su dissidenti arrestati
Arrestate trenta «madri in lutto» che a Teheran protestavano per la scomparsa dei loro figli dopo le proteste seguite alle presidenziali. Una commissione d’inchiesta intanto riconosce: «Detenuti maltrattati a morte».
di Marina Mastroluca

La commissione d’inchiesta ammette i maltrattamenti sui detenuti ma non gli abusi sessuali
In carcere i testimoni che videro le jeep della polizia investire i manifestanti il giorno dell’Ashura

Ogni sabato, tra le panchine del parco Laleh. La memoria fatta persone, rappresentazione fisica di un’assenza. Sono le madri in lutto di Teheran: l’assenza è quella dei loro figli, inghiottiti negli scontri post-elettorali dell’estate scorso e
persi nel nulla. Uccisi forse, in ogni modo scomparsi. Sono come le madri de Plaza de Mayo e come quelle danno fastidio al regime. Sabato scorso un centinaio di agenti in divisa e in borghese si sono avventati su di loro, hanno impedito che si radunassero. Una trentina delle settanta che erano sono state caricate a forza sui cellulari e portate alla stazione di polizia di Vozara.
Il dolore non è ammesso, se da privato diventa testimonianza e quindi fatto politico. Ma che nei giorni seguiti alle presidenziali del giugno scorso tra morti in piazza, feriti e arresti indiscriminati le autorità abbiano molte colpe da rim-
proverarsi è un tarlo che attraversa lo stesso establishment iraniano. Una commissione parlamentare ha ufficialmente puntato il dito contro l’ex procuratore generale Said Morquattro giorni, hanno vissuto in condizioni disumane in uno spazio di appena 70 metri quadri, dove non c’era un filo d’aria e i giovani arrestati erano «al fianco di pericolosi criminali... picchiati e umiliati dai loro carcerieri».
Tre degli arrestati non sono sopravvissuti al trattamento e l’ex procuratore ha imputato la loro morte alla meningite. Versione oggi smentita dall’inchiesta. «Il decesso è da attribuire a varie cause, come la mancanza di spazio e di condizioni igieniche, alimentazione inadeguata, caldo, mancanza di ventilazione e anche a maltrattamenti fisici», si legge nel rapporto, che invece smentisce vigorosamente che i detenuti abbiano subito violenze sessuali. «L’accusa va respinta». Said Mortazavi era stato destituito nell’agosto scorso, un mese dopo la chiusura del carcere di Kahrizak per decisione della Guida suprema, Ali Khamenei.
I COLPEVOLI
Troppe voci su violenze indicibili ragazzi e ragazze stuprati durante la prigionia troppe per un regime che si pretende monolitico e che invece non lo è. La commissione d’inchiesta era un atto dovuto per arginare l’onda di malcontento all’interno degli stessi apparati statali. E per scindere le responsabilità del regime dai soprusi commessi.
Oggi ci sono nomi e cognomi dei responsabili, quello dell’ex procuratore e di 12 agenti. Ma la violenza del regime non è stata cancellata. Secondo il rapporto della commissione parlamentare «esistono ancora centri di detenzione che necessitano di immediate ispezioni». Il sito Jaras ieri parlava di due nuovi arresti nell’entourage di Mousavi. Arrestati anche testimoni che il 27 dicembre scorso videro due jeep della polizia investire e passare sopra alcuni dimostranti durante le manifestazioni nel giorno dell’Ashura.❖

domenica 10 gennaio 2010

l’Unità 10.1.10
Berlusconi tace
Calderoli parla: «Via se scioperano»
Il premier non dice nulla sui fatti gravissimi di Rosarno Il ministro conferma il «rigore» contro gli immigrati e la protesta del primo marzo. Bersani: «Si difenda chi è sfruttato»
di R. L.

La caccia all’immigrato non si arresta, spranghe, fucili a pallini, la ‘ndrangheta che getta benzina sul fuoco e soffia forte su Rosarno. E ancora una volta maggioranza e opposizione sono su fronti opposti sull’immigrazione.Solo ad Arcore si registra silenzio. Non una parola al riguardo da parte del presidente del Consiglio dei ministri, Silvio Berlusconi. Parla di aliquote, riforma della Giustizia e ritocchi alla Costituzione. Ma della guerra infame di Rosarno no.
DOV’È IL PARTITO DELL’AMORE?
Parlano i suoi ministri, tutti membri del partito dell’amore, ma neanche una parola amorevole leggerete nelle dichiarazioni di Roberto Maroni e Roberto Calderoli, leghisti doc, con tutto quello che l’appartenenza politica si porta dietro in questo caso. «Condivido pienamente le valutazioni di Maroni. La linea deve essere quella del rigore», conferma il ministro della Semplificazione. «C’è stato troppo lassismo negli anni passati perché chi entra illegalmente nel nostro paese deve essere espulso». E di fronte all’ipotesi di uno sciopero dei lavoratori extracomunitari lanciato dal gruppo “Primo marzo 2010” su Internet e ripresa dai media nazionali Calderoli è certo: «Escludo che vogliano farlo i regolari. Se l’iniziativa partisse invece dagli irregolari, si tratterebbe soltanto di espellerli». «Prima l’ordine, poi tutto il resto incalza Maurizio Gasparri -. Occorre applicare con rigore crescente la politica di espulsione dei clandestini e confermare la politica dei respingimenti». Critica, invece, Cristiana Muscardini, membro della Commissione Commercio Internazionale al Parlamento europeo: « Le indecenti condizioni degli immigrati in Calabria e in altre aeree deSud non è possibile siano sfuggite nei mesi scorsi al Ministero degli Interni dice . Non vorremmo dover dedurre che per alcuni è più facile lanciare anatemi contro i clandestini che colpire il caporalato e i suoi padroni».
LO STATO È MORTO
Dall’opposizione il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, sottolinea che «la violenza deve essere punita e non è mai giustificata» ma, aggiunge, il governo deve difendere chi lavora ed è sfruttato. «In Calabria lo Stato non c’è, lì lo Stato è morto», dice Pierferdinando Casini, Udc, ospite a «Che tempo che fa». «Non possiamo, di fronte a fatti come quelli successi in Calabria, non farci carico dell’indignazione della gente, ma neppure dimenticarci del fatto che c’erano tanti italiano che sfruttavano questa povere gente. La politica dice non deve speculare sui problemi reali e ingigantirli, devi risolverli». Quanto alla Lega, «dove sono le ronde? In Calabria non aspettavano le ronde ma i carabinieri e la polizia che sono arrivati dopo 48 ore».
Anna Maria Carloni, senatrice Pd, si augura che il suo partito organizzi una manifestazione nazionale nelle prossime ore,mentre Roberto Di Giovan Paolo, invita Maroni a inviare la polizia in Calabria per «scoprire chi affitta in nero agli immigrati», Sacconi a mandare gli ispettori per scoprire chi sfrutta e Tremonti a mandare un po’ di personale per combattere l’evasione fiscale.
Antonio Di Pietro, dell’Idv, definisce quella di Rosarno, «la rivolta degli schiavi» mentre Claudio Fava e Nuccio Iovene di Sinistra Ecologia e Libertà, ritengono necessario intervenire «con urgenza e saggezza per evitare che si inneschi una spirale ancora più drammatica». Riaprire il dialogo, riannodare i fili in una città dove tutto è saltato. Così il segretario generale della Cgil Guglielmo Epifani : «La violenza va sempre respinta, da qualunque parte arrivi, ma bisogna riconoscere ai migranti i loro diritti di lavoratori e cittadini».❖

l’Unità 10.1.10
Fermiamo la violenza
a Rosarno non deve morire il sogno di un’Italia giusta
Intervista a Guglielmo Epifani di Rinaldo Gianola

Il segretario della Cgil: bisogna reagire, non rassegnarci al decadimento culturale del Paese. Battere il razzismo, lo schiavismo in cui sono costretti i lavoratori migranti. Maroni disumano, ascolti almeno le parole della Chiesa

A Rosarno gli italiani sparano contro i lavoratori stranieri. È una tragedia non solo per chi vive direttamente questi fatti, ma per il Paese: perdiamo la capacità di vivere insieme, di comprendere i problemi degli altri, di rispettare le diversità, i diritti, i nostri valori. Guglielmo Epifani, leader della Cgil, commenta amaramente le notizie che arrivano dalla Calabria.
Si aspettava questa esplosione di violenza? «Purtroppo è la conferma di una situazione molto grave che noi avevamo denunciato. Questo dramma è la somma di più elementi. Primo: un insostenibile assetto legislativo, la Bossi-Fini, in cui oggi è più facile restare clandestino che essere regolarizzati. Secondo: le condizioni di vita insostenibili in cui sono costretti i lavoratori migranti nelle campagne del Sud, questo è schiavismo. Terzo: il caso di Rosarno dimostra l’assenza di una volontà politica di risolvere i problemi,si lasciano scoppiare piuttosto che affrontarli quando sarebbe più facile».
Il ministro Maroni parla di eccessiva tolleranza verso i clandestini. «È un’affermazione infelice e disumana. La sua analisi è sbagliata. A Rosarno è la criminalità che favorisce la clandestinità, non il contrario. Sono zone ad altissima densità mafiosa, dove il governo del mercato del lavoro è esercitato con metodi malavitosi. Non si può intervenire solo come si fa oggi spostando i lavoratori da un’altra parte senza distiguere tra chi è clandestino, chi ha il permesso di soggiorno e chi non ce l’ha perchè ha perso il lavoro».
Ma c’è un problema di ordine pubblico, di sicurezza dei cittadini. «Non sono un buonista: la lotta alla criminalità e la sicurezza dei cittadini sono sacrosante. Ma spostare qualche centinaio di immigrati non risolve il problema, domani si ricomincia se non si cambia. Perchè chi prende 20 euro al giorno, 600 euro al mese quando va bene ed è costretto a vivere senza casa, in emergenza igienico-sanitaria, senza diritti, sentirà prima o poi la necessità di ribellarsi. Tali tensioni generano rivalse, ritorsioni tra la popolazione, spesso alimentate e governate da interessi malavitosi».
La rivolta di Rosarno è coincisa con le quote Gelmini del 30% degli studenti stranieri nelle classi. Una coincidenza curiosa, almeno.
«Non è casuale. È il segno del degrado della vita civile, del governo, della cultura. C’è un unico filo che lega il giudizio di Maroni sugli immigrati, le quote della Gelmini e le parole del leghista Cota. L’immigrazione e il lavoro devono essere affrontati in una dimensione morale, non ideologica. Gli immigrati sono sfruttati in condizioni disumane e quando non servono più si buttano via e si massacrano per strada, così non va».
Come se ne esce?
«Vedo solo una risposta: se ne esce con l’umanità e la razionalità, affrontando i problemi, garantendo un minimo di diritti a chi viene qui a lavorare e viene sfruttato ogni giorno. Vogliamo iniziare a risolvere questi drammi? Decidiamo che ai lavoratori dei campi sia garantito un minimo retributivo e contributivo, rendiamo trasparente il mercato del lavoro in agricoltura liberandolo dai caporali e dalla malavita».
Perchè questo governo non ascolta almeno la Chiesa? «Il governo ha un atteggiamento schizofrenico: in alcuni campi, penso alle questioni bioetiche, segue la linea della Chiesa, mentre su altri problemi, come la difesa del lavoro e i diritti degli immigrati, fa l’opposto. La verità è che il governo rispeccia il deterioramento dei valori, favorisce una società che tende a richiudersi e a dividersi. In più è forte l’egemonia leghista che impone la chiusura di ogni spazio di tolleranza verso gli immigrati. Gli attacchi della Lega alla Chiesa, al cardinale Tettamanzi non sono casuali».
La sensazione, all’inizio del 2010, è che l’Italia viva un decadimento culturale, di valori, un clima in cui prevalgono l’individualismo e l’aspirazione all’arricchimento.
«Questa è la realtà. Ma dobbiamo reagire al decadimento, non dobbiamo rassegnarci. Viviamo i riflessi del declino del Paese e dei suoi gravi problemi economici e sociali, abbiamo perso il nostro ruolo in Europa e nel contesto internazionale. Nella società cresce l’egoismo, i più ricchi sono tutelati mentre c’è l’abbandono dei più poveri. Parole come solidarietà, diritti, uguaglianza sono vissute come una minaccia da alcuni. Lo avvertiamo anche nel sindacato: c’è il rischio di corporativismo tra chi ha il posto e chi lo perde, tra italiani e immigrati».
Quali rischi vede oggi?
«Mi rammarica e mi fa paura le perdita della memoria. In questi giorni è stato pubblicato un volume che ricorda l’eccidio di otto lavoratori italiani in Francia, nell’Ottocento, quando noi eravamo stranieri. Possibile che ci siamo dimenticati tutto: chi siamo, da dove veniamo, i sacrifici e le lotte dei nostri padri? Ci vorrebbe un soprassalto ideale, morale delle forze politiche, trovare un metodo unitario per guardare in faccia i problemi. Possibile che non si parli più di povertà? Non sono questioni solo del sindacato. L’Italia è davanti a prospettive molto dure: la crisi cambierà l’impresa manifatturiera, sconvolgerà il destino di molte comunità, scompariranno attività e lavori. Stiamo già vedendo la desertificazione industriale del Sud: il distretto del divano, Termini Imerese, Alcoa...».
L’agenda di Berlusconi prevede giustizia, fisco, riforme istituzionali. «Berlusconi si occupa di molte cose, ma non delle questioni sociali prioritarie. E anche sul fisco vuole fare un po’ di propaganda, alzare il polverone in vista delle elezioni per garantire un certo blocco sociale. Se ne parla e non si fa nulla, se fosse ridotto il peso del fisco su salari e pensioni noi saremmo i primi a condividere. Invece lavoratori e pensionati sono quelli che pagano di più». Come giudica l’opposizione?
«Il pd è ancora in fase di riorganizzazione, ha evidenti difficoltà. Non sono stati risolti i problemi gravi aperti con la caduta del governo Prodi. C’è una grande debolezza e una profonda divisione, prevale l’attenzione al particolare invece che al generale, continua la frantumazione in gruppi, con un gusto per la divisione sempre più forte. La vicenda delle candidature alle elezioni regionali è la spia di questo malessere»
Bersani?
«Bersani tiene bene il profilo del partito sulle questioni sociali e sulle riforme, ma ci sono troppi sospetti e divisioni anche tra chi gli è vicino. Ha detto parole giuste e coraggiose sull’immigrazione. La democrazia del Paese ha bisogno di un’opposizione forte, decisa, che faccia valere il suo punto di vista. La strada è lunga e difficile».
Nel Lazio si affrontano due donne, cosa ne pensa? «Se saranno confermate le candidature della Bonino e della Polverini sarà una bella novità, un duello emblematico. Dico subito che ci sono cose che mi dividono da Emma Bonino, ma è una candidata straordinaria, che rappresenta la miglior tradizione del movimento radicale, dei diritti civili, con un forte radicamento in Europa. Potrebbe fare un bel lavoro sulla sanità, la trasparenza, la lotta alla corruzione, nelle politiche ambientali e dell’accoglienza.».
E la Polverini?
«Ha fatto cose importanti in un sindacato che era solo una costola della destra. È una persona capace. Potrei, se mi è consentito, suggerirle di stare attenta a una parte delle sue compagnie perchè c’è chi ha contribuito allo sfascio della sanità nel Lazio, e a qualche figura dell’ultradestra. Attorno alla Polverini vedo già molti pronti ad arraffare quote di potere».
Epifani, lei ha una formazione socialista. Cosa pensa delle polemiche attorno alla figura di Craxi? «Pensavo che dopo dieci anni si potesse discutere serenamente anche su Craxi. Mi sbagliavo, è ancora troppo presto. Certo mi sorprende che in questo Paese nessuno muova un dito se Brunetta dichiara di voler abolire il primo articolo della Costituzione e invece si scateni un putiferio su un personaggio politico scomparso dieci anni fa».
Allora dica cosa pensa lei di Craxi.
«Craxi è stato un grande leader politico nella storia italiana del Novecento. Ma è stato tante cose: discepolo di Nenni, difensore dell’autonomia socialista, della socialdemocrazia quando erano in pochi a farlo, è stato l’uomo che ha rinsaldato la cultura socialista sul ceppo garibaldino-mazziniano. Ha sempre cercato di liberarsi dal dualismo tra dc e pci, usando tanti mezzi, anche illeciti e spregiudicati, porta pure lui la responsabilità di non aver agito per modificare quel sistema. Mi rimane il dubbio se si sia arricchito personalmente. Craxi è stato un protagonista delle occasioni mancate. Forse nel dialogo a sinistra, col pci, poteva fare di più, ma erano anni difficili, lo scontro era duro. Il mancato incontro tra quelle culture politiche, tuttavia, lo stiamo pagando ancora oggi».

l’Unità 10.1.10
Apologia di reato
a Gigi Fioravanti risponde Luigi Cancrini

Quelli che si scagliano con sassi e bastoni contro gli immigrati non hanno mosso un dito contro i loro sfruttatori; sono gli stessi che mai hanno gridato contro i caporali e i loro mandanti mafiosi; sono gli stessi che hanno esercitato o tollerato lo sfruttamento e il trattamento inumano di tanti immigrati.
RISPOSTA Le immagini della Tv propongono impietosamente i letti usati a turno per poche ore e pagati a caro prezzo dai neri che lavorano nelle campagne. Schiavi dei padroni e dei caporali i neri sono odiati dai bianchi del luogo che un giorno, per noia o per divertimento decidono di dar loro una lezione. Sparando su di loro e dando vita ad una gigantesca caccia allo straniero quando loro provano a ribellarsi. «Uno al giorno ne uccideremo se non ci liberate di loro» dicono i bianchi e il ministro leghista altro non sa fare che schierarsi dalla loro parte dicendo che la colpa di quello che accade è la «eccessiva tolleranza» che si sarebbe avuta finora con i clandestini. «La legge è la vostra», risponde Bersani, ed io vorrei che tutti i parlamentari dell’opposizione e tutte le persone civili che vivono ancora in questo paese dicessero invece a Maroni di andarsene, che uno che parla così non può fare il ministro di un paese democratico, che il suo è un vero e proprio, inaccettabile incitamento alla violenza, una forma demenziale o semplicemente diabolica di apologia di reato. Di cui dovrebbe rispondere davanti ad un Tribunale.

l’Unità 10.1.10
Cosa ci insegna il caso Rosarno
L’immigrazione e il dominio del denaro
di Enzo Mazzi

L’aggressione a Rosarno dei neri e la loro rivolta disperata sono archiviate in breve come le precedenti con qualche orripilante ma assai popolare invettiva contro l’indulgenza verso l’immigrazione clandestina e con qualche lacrima compassionevole verso i poveri schiavi trattati come bestie randagie. E i clementini della piana del Tauro non ebbero alcun sussulto al mercato della frutta e la politica continuò il suo balletto e tutti ci voltammo dall’altra parte a cercar sedativi contro l’angoscia montante per un futuro senza speranza.
Mentre i fatti di Rosarno andrebbero assunti come sintomo di un cancro che divora la società ormai a livello mondiale. Per cercar terapie finché c’è tempo. Nella società fondata sul dominio assoluto del danaro siamo tutti neri. È il danaro, nuova divinità, che si è impossessato delle nostre anime e dei nostri corpi e ci ha sfrattati da noi stessi.
La società del benessere è ridotta a una fortezza assediata. Ma è una illusione alzar mura, installare body scanner, e rovesciar barconi. Il nemico che ci assedia non è l’immigrazione. Siamo noi nemici a noi stessi. La crisi è dentro la struttura stessa della città.
Un nuovo umanesimo s’impone. Ma il suo centro non è più la città. Anzi presuppone il crollo delle mura e lo prepara. È la vendetta del sangue di Remo. Il fondamento di un nuovo patto non può che trovarsi nell’essere umano in quanto tale, indipendentemente dal luogo di nascita e dal colore della pelle. Il risveglio di una tale consapevolezza non è né facile né indolore.
Ed è qui che si apre uno spazio significativo e caratterizzante non solo per la politica ma per il volontariato e più in generale per l’associazionismo. Purtroppo la strada più facile è quella dell’assistenzialismo. Ma è una strada scivolosa. L’assistenzialismo, comunque rivestito, non crea parità di diritti.
Chi ha a cuore l’obbiettivo dell’affermazione dei diritti di cittadinanza per tutti, come diritto pieno, comprensivo dei diritti sociali, e come diritto inalienabile della persona, non può fare a meno di impegnarsi sia sui tempi brevi della mediazione politica, per raggiungere il raggiungibile, qui e ora, sia sui tempi lunghi della trasformazione culturale, in mezzo alla gente.
E direi che l’associazionismo più che tappar buchi e metter toppe, dovrebbe imboccare più decisamente proprio la strada della trasformazione culturale. Tendere a smontare i paradigmi culturali, ideologici e anche religiosi, che sono all’origine della discriminazione. Con pazienza infinita e con umiltà, senza tirare la pianticella per lo stelo. Ma anche con tanta coerenza e fermezza. Senza vendere mai tutto sul mercato dell’emergenza e senza sacrificare mai tutto sull’altare della mediazione politica.

Liberazione 9.1.10
Intervista a Giuseppe Lavorato ex sindaco Pci di Rosarno
«E' stata la 'ndrangheta ad accendere la miccia»
di Laura Eduati

Giuseppe Lavorato è angosciato. Risponde da Vibo Valentia, con voce tenue e preoccupata. La sua Rosarno, la Rosarno che lo vide sindaco del Pci per molti anni e orgogliosamente fu il primo Comune a costituirsi parte civile in un processo contro la 'ndrangheta, è diventata palcoscenico lacerato della rivolta dei migranti schiavizzati.
Dai giornali Lavorato ha appreso degli spari contro gli africani e della successiva reazione furiosa, e lancia un'ipotesi inquietante: la 'ndrangheta avrebbe acceso la miccia della rivolta per oscurare l'attenzione nei confronti della criminalità organizzata dopo la bomba alla Procura di Reggio Calabria. Però gli preme ricordare che «Rosarno è composta da tanta gente perbene e solidale con gli immigrati».

Come legge questi drammatici avvenimenti?
Bisogna capire perché sono accaduti proprio ora, ovvero a pochi giorni dall'attentato alla Procura di Reggio Calabria che hanno attirato tanta attenzione mediatica e politica sulla lotta alle cosche mafiose.

Ipotizza un tentativo di sviare questa attenzione?
Sono soltanto ipotesi. Le persone che hanno sparato ai migranti fanno certamente parte della criminalità mafiosa e sapevano di provocare una forte reazione. Hanno raggiunto lo scopo: le prime pagine dei giornali parlano della violenza dei neri. Senza ricordare che sono stati provocati. E nessuno ricorda la bomba alla Procura e questo naturalmente fa piacere alla 'ndrangheta. Tuttavia la vera tragedia avviene a Rosarno.

Ovvero?
E' avvenuta una frattura tra migranti e popolazione della città. Voglio ricordare che la stragrande maggioranza degli abitanti di Rosarno è gente onesta che negli anni ha manifestato una forte soldiarietà nei confronti di questi poveri braccianti stranieri. Vorrei che fosse sempre fatta la distinzione tra cosche e gente perbene. Temo che sarà difficile ricomporre lo strappo tra questa gente perbene e lavoratori migranti.

Esiste una precisa responsabilità dei Comuni che avrebbero dovuto garantire alloggi dignitosi ai braccianti immigrati?
Rosarno è una cittadina di quindicimila abitanti che ogni anno ospita due-tremila braccianti stagionali, chiaramente non possiede le risorse sufficienti per offrire una accoglienza civile. Su questo punto deve intervenire lo Stato. Anche se gli enti locali hanno il dovere di creare un dialogo con questi lavoratori. Quando ero sindaco, ricordo, organizzavamo incontri tra migranti e associazioni per discutere. Noto con piacere che il commissario prefettizio è riuscito ad aprire un canale di dialogo con gli animatori della rivolta, che d'altronde chiedevano il sostegno e l'aiuto delle autorità. Non a caso hanno marciato verso il municipio perché volevano un'interlocuzione con il commissario prefettizio, e quando l'hanno ottenuta e hanno sentito che lo Stato vuole comunque proteggerli dalle violenze degli italiani, sono tornati pacificamente verso le proprie dimore.

Cosa pensa accadrà nel futuro di Rosarno?
Oggi sono pessimista. Si è aperta una spirale di violenza e francamente non posso immaginare cosa succederà. Apprendo che i sindacati vorrebbero organizzare una assemblea aperta alla cittadinanza nei prossimi giorni. Mi sembra un primo passo utile per ricucire i rapporti di un luogo che non merita di finire sui giornali soltanto per la mafia e l'indecente condizione di vita dei braccianti stranieri.

il Fatto 10.1.10
Pulizia Etnica. La deportazione
Immigrati deportati per evitare il linciaggio A Rosarno sono le cosche a soffiare sul fuoco
Dopo la caccia all’uomo, centinaia di immigrati trasferiti dalla città. E i caporali si riorganizzano
di Enrico Fierro

Il terrore lo leggi negli occhi di quelle due “prede” che cercano disperatamente di nascondersi.
Spuntano sulle facce di due “negri” accovacciati dietro una volante della polizia che li ha “salvati” mentre vagavano per le campagne. L'auto è ferma. Davanti, a pochi metri, ci sono le barricate dei bianchi. I “bravi ragazzi” di Rosarno, i vecchi, le donne che davanti alle tv recitano l'esasperazione. Urlano e le loro parole si sentono anche dentro l'auto. “Unn'è, unnu cazzu è sta mafia? I negri se ne devono andare, basta... E basta pure con questi giornali di merda che ci chiamano razzisti”. Applausi, grida. E la paura dei poliziotti. “Qui ci linciano” sussurra uno di loro. Scende dalla macchina col manganello in mano per farsi spazio, il suo collega inverte la marcia. I ragazzi neri seduti dietro sono ormai sprofondati sotto i sedili. La volante sfreccia e va via. Hanno paura i disperati di Rosarno, gli schiavi delle arance che hanno trasformato la loro ribellione in una violenza cieca che ora i bianchi esibiscono per giustificare tutto: barricate, gambizzazioni, caccia al nero topaia per topaia, casolare per casolare. “Non è più come una volta, ve ne dovete andare che qui vi ammazzano”. Davanti alla fabbrica dell'ex Opera Sila, monumento ai mille fallimenti della storia industriale della Calabria, don Pino De Masi, prete e animatore di Libera, cerca di convincere i “negri” a salvarsi. Ci sono i pullman della prefettura che aspettano. Li porteranno a Bari, a Crotone, in Sicilia. Dovunque ma lontano dalla città nemica. “Prete io non posso andare via, il mio padrone mi deve dare ancora i soldi”. La paga dello sfruttamento, quei 20 euro al giorno che gli schiavi delle arance percepivano per raccogliere gli agrumi della Piana. Il prete è come un naufrago in mezzo al mare in tempesta, si fa dire il nome del “padrone”, si attacca al cellulare e chiama. Rispondono in pochi. I negri vanno via, e se si può risparmiare anche quei quattro centesimi di salario va bene così. Qualcuno non se la sente di venire davanti al ghetto, troppa polizia, troppe telecamere. E allora don Pino si incarica di raccogliere lui il salario della vergogna. Va avanti e indietro, poi torna e distribuisce quella miseria. Hassan, giovane rifugiato politico del Darfur: “Il mio padrone si chiama Rocco, deve darmi 600 euro, ho il numero, lo chiamo”. Il cellulare squilla a vuoto. Hassan ha gli occhi gonfi di lacrime e le tasche vuote. Raccoglie i suoi stracci in un sacchetto nero della monnezza e sale sul pullman. La rabbia gli devasta il cuore, ma meglio l'umiliazione della miseria che finire sprangati. O impallinati dalle ronde. A uno dei ragazzi feriti all'alba del giovedì della vergogna hanno devastato l'inguine con cinquanta pallini da caccia. A San Ferdinando hanno tentato di dar fuoco a un casolare isolato abitato dagli schiavi. “Sono arrivati con due macchine. Alcuni bianchi sono scesi con le taniche di benzina, altri avevano le spranghe in mano”. Sul posto ci sono i vigili del fuoco e Laura Boldrini, dell'Unhcr. “Ormai è caccia all'uomo, come si fa a controllare tutti i casolari sparsi?”. Chi può va via anche in macchina. Carrette sgangherate con targhe russe o ucraine. “Sono i caporali”, dice a mezza voce uno dei migranti. “A loro davo cinque euro al giorno per farmi portare in campagna”. Sono vestiti meglio degli altri, hanno in tasca un paio di cellulari. Non si fanno inquadrare dalle telecamere. Sono l'élite della disperazione. Pasquale, invece, è uno dei “padroni”. Si fa coraggio e viene a consegnare i soldi che deve. “Ma quale sfruttamento? Li pagavamo a cassetta. Più raccoglievano e più guadagnavano. I mandarini li pagano 20 centesimi al chilo. Come faccio a dare 40 euro al giorno a un bracciante regolare?”. Ci sono le telecamere e il signor Pasquale abbraccia una coppia di neri. Padrone e schiavi. Come fratelli. Vanno via i neri di Rosarno, i clandestini e quelli che in tasca hanno un permesso di soggiorno o lo status di rifugiato. “Molti di loro”, spiega un volontario, “vengono dal nord, prima della crisi lavoravano in fabbrica, poi sono stati respinti all'inferno”. E sono diventati braccianti agricoli, pronti a sostituire i bianchi. Non perché a Rosarno e nella Piana non esistano braccianti bianchi, ci sono, molti lavorano la terra, altri (1.500 almeno) sono “fittizi”: hanno tutte le carte in regola per prendere i sussidi dell'Inps, disoccupazione compresa, ma la campagna non la vedono mai. I più giovani aspettano. E ora sono a fare i blocchi.
Vanno via i negri che non sanno di sud e della sua particolare economia fatta di ricchezza e miseria, di eccellenza e arte di arrangiarsi, di lavoro vero e di assistenza, di sfruttamento e anche di solidarietà. E che consente di guadagnare sulle arance anche quando si lasciano a marcire sulle piante. È storia di due anni fa, quando scoppiò lo scandalo dei contributi dell'Unione europea per il ritiro della produzione degli agrumi in esubero. Un business da 45 milioni di euro. La centrale operativa del grande imbroglio era Rosarno, qui c'erano aziende che più che staccare arance dalle piante producevano fatture. False. Gli “onesti” agricoltori della Piana lucravano sulla sovrapproduzione e sulla trasformazione degli agrumi in eccesso in succhi da esportare. In Francia e Spagna. “Ma ci siamo resi conto – ricorda Elizabeth Sperber, funzionaria dell'Olaf, l'ufficio antifrodi della Ue – che le aziende straniere nominate per ottenere i fondi o non esistevano o non avevano mai visto una arancia trasformata”. Un meccanismo oliato. Imprenditori, funzionari pubblici, politici della Margherita e di Forza Italia: questo il teatrino dell'imbroglio. Vanno via i disperati dell'ex Opera Sila. Rosarno addio. Addio alla sua brava gente che non lascia i blocchi e le barricate. “Perché noi non siamo razzisti, ma i negri se ne devono andare”.

il Fatto 10.1.10
“Noi allo specchio con l’uomo nero”
Lo psicanalista Zoja: le paure ataviche e la benzina del leghismo
di Silvia Truzzi

“Italiani impreparati al diverso. Fa parte dei compiti civili contenere l’animale dentro ciascuno”

Il potenziale razzismo esplode e si arma di pistole e spranghe. Ma dove parte la miccia dell’intolleranza che infiamma la Calabria? Luigi Zoja, psicanalista junghiano, abita lontano da Rosarno, ma vicino alla Chinatown milanese di via Sarpi. E avverte: “Quando scendo in strada sento parlare cinese. Negli Stati Uniti, i cinesi di Chinatown parlano inglese. Qui non c’è integrazione, né preoccupazione per la mancata integrazione”.
Quella del diverso è una paura atavica. Cosa succede nella testa, rispetto all’altro da sé? L’italiano è preparato alla percezione dell’altro molto meno che in altri paesi. Si è sempre detto scioccamente che l’italiano non è razzista. Ma dipendeva solo dal fatto che c’erano meno minoranze rispetto ad altri luoghi. Perché l’Italia è meno preparata?
Perché non c’è tradizione. L’Inghilterra è da molto tempo abitata da pachistani, indiani e così via, a causa dell’impero coloniale. La Francia un po’ meno, ma comunque più di noi. La Germania ha visto un alto numero di immigrati e, come in Svizzera, una politica al riguardo c’è stata. Da noi tutto questo non è avvenuto: il problema vero si avrà tra una generazione. Come nell’estate delle banlieue parigine che andavano a fuoco: gli autori delle proteste erano francesi di colore. Seconda generazione: di lingua francese e passaporto francese, coscienti dei loro diritti. Quando i nostri immigrati stagionali saranno così evoluti, alzeranno le richieste.
Durante le sedute con i pazienti salta fuori la paura del diverso? Il paziente che sceglie la psicoanalisi è generalmente piuttosto colto e sensibile, capace di autocritica. Chi ha bisogno di proiettare il male sull’altro ha un atteggiamento che definirei paranoico e incapace di autocritica. Penso che noi tutti siamo potenzialmente paranoici, ma controllati.
E quindi, potenzialmente razzisti? Non c’è dubbio. I miei pazienti non sono mai razzisti, però nei loro sogni l’uomo nero ricorre, sempre come rappresentazione della paura.
E cosa vuol dire?
Che l’altro è avverito come minaccioso. È una distinzione primordiale, di tipo animale. Vede, gli animali tra specie diverse possono uccidersi. Erik Erikson parlava di pseudo-speciazione. L’animale ha l’istinto per distinguere una specie diversa. L’essere umano, che è animale complicatissimo e invasivo, non riconosce più l’altro essere umano se ha tratti diversi, abiti diversi, lingua diversa. Perché se il cane annusa il cane e lo riconosce, l’uomo percepisce l’altro attraverso sistemi culturali. E se l’altro è troppo diverso non lo capisce. La pseudo-speciazione è l’illusione che l’altro appartenga a un’altra specie, non a un’altra razza.
Ma il cavallo e l’asino si accoppiano e nasce il mulo. È l’eccezione limite. Ma il mulo è sterile e quindi la cosa si ferma lì. Mi sono riletto recentemente il Mein Kampf, per un libro sulla paranoia che sto scrivendo: lì Hitler fa il salto. Dice che gli animali non accettano quelli di un’altra specie. E poi prosegue, come fanno i manipolatori, e dice: “quindi un’altra razza è troppo diversa, bisogna allontanarla e se non si può, eliminarla”. Passa da specie a razza. Ma dobbiamo tener molto ben presente la distinzione. Se noi ci accoppiamo con un cinese, nasce un essere umano perfetto. Anzi l’umanità è andata avanti su questo. Gli esquimesi, nei tempi in cui erano davvero isolati, quando arrivava uno straniero lo facevano dormire con la moglie. Non facevano un ragionamento, ma l’istinto li portava a sapere che l’endogamia è geneticamente dannosa.
Come si combatte la paura dell’uomo nero? Fa parte dei compiti civili dell’uomo tenere controllato l’animale dentro di sé. Anch’io se vedo l’uomo nero troppo diverso, mi fermo a guardarlo. Come guardo una bella donna. Ma una cosa è che mi caschi l’occhio, un’altra che io dia un pizzicotto a quella signora. Così se guardo un uomo perché istintivamente diverso, non devo dare un seguito aggressivo a questa pulsione.
Non aiuta che un ministro dica “troppa tolleranza”. Non bisogna commentare le sciocchezze. Ci dovrebbero essere educazione e prevenzione. Non creare ghetti. Invece noi che facciamo? Aspettiamo che ci scappi il morto.

il Fatto 10.1.10
Loro gli ultimi schiavi
di Furio Colombo

Sono vent’anni che i clandestini, trattati come sottouomini e – non pochi – morti lavorando, ovvero di sete, di fame, di botte sui campi di agrumi e di pomodori, si susseguono in giornate che durano 18 ore, pagate venti euro

La campagna elettorale della Lega è incominciata alla grande. Con tutti gli ingredienti di un colossal del cinema. Va bene un grande scontro fra neri e bianchi, fra pacifica popolazione civile e brutali clandestini che escono dal buio, invadono la città, rovesciano auto con a bordo donne e bambini, assaltano abitazioni, fanno blocchi stradali e – vedi foto – fanno muro, un muro di pericolosi uomini neri tutti fuorilegge, contrapposto alle forze dell’ordine?
Va bene una folla di donne e bambini bianchi che si accalcano nella piazza del comune e gridano insulti al commissario prefettizio (giunta e consiglio comunale sono sciolti da un anno per infiltrazioni mafiose) perché il commissario ha mandato cibo “ai negri” e non protegge la gente per bene?
Va bene una donna bianca che ha abortito per la paura, ovviamente la paura dei “negri” (come intitola “Il Giornale”)? Bastano tre feriti gravi, alcuni giovani sparati alle gambe (pensate che strumento di sopravvivenza sono le gambe a quell’età) altri investiti da auto in corsa, uno quasi ucciso a sprangatei?
Va bene questa sequenza caotica di due razze che si confrontano, in cui una deve vincere per restare padrona del proprio territorio e l’altra, quella clandestina e – adesso lo vedete, ma la Lega lo aveva detto – immensamente pericolosa, deve essere portata via, detenuta finalmente nei centri di identificazione e poi via espulsa, “rimandata a casa”, come dice Bossi da anni?
Tanto di cappello. Da Rosarno (in Calabria) è andato in onda un grande spettacolo, che potranno intitolare “Terrore nero” o “Criminale e clandestino” e che porterà un mare di voti nelle regioni del nord. Se la Lega conquista quelle regioni, la prima guerra di secessione è vinta. Ed è vinta la battaglia delle famiglie bianche contro “l’invasione dei corpi neri”. È vinta non a Ponte di Legno ma in provincia di Reggio Calabria. Volendo essere precisi ci sono alcune correzioni al copione del grande spot elettorale leghista che ho sin qui riassunto.
Uno. Tutti i feriti, anche quelli più gravi, anche quelli investiti da auto e abbattuti sull’asfalto sono pericolosi uomini neri. Sono insidiosi clandestini, quelli finiti all’ospedale. Non si ha notizia di feriti fra uomini, donne e bambini bianchi, nonostante il tremendo assedio. Due. Nessuna delle scene più toccanti (la folla dei corpi neri che tiene bloccata l’auto di donne e bambini bianchi terrorizzati, la giovane donna che abortisce per il terrore) è mai avvenuta.
Spiace per gli effetti speciali così cari alla destra, ma nulla di tutto ciò è accaduto nella vera, triste vita dei corpi neri di Rosarno.
Tre. “L’invasione di Rosarno” e la stretta intorno al pacifico e ridente villaggio solo un po’ infiltrato di ‘Ndrangheta, non è un fatto improvviso o recente. Sono vent’anni che ondate successive di clandestini, trattati come schiavi e – non pochi – morti lavorando, ovvero di sete, di fame, di botte sui campi di agrumi e di pomodori, si susseguono in infinite giornate di lavoro che durano 18 ore, sono pagate venti euro (meno cinque di “tassa”, meno cinque di “trasporto”) e dove non c’è casa, non c’è acqua, non c’è rifugio.
I cronisti più attenti di alcuni quotidiani decenti hanno indicato le dimensioni del dramma. Circa 20.000 giovani uomini, molti clandestini e molti “regolari”, in cerca disperata di un lavoro e di una paga. Clandestini criminali?
Solo Roberto Saviano ci ha spiegato – parlando di sua iniziativa in luogo delle voci autorevoli che in questa Italia tacciono, Chiesa inclusa – che la rivolta dei corpi neri apparsi all’improvviso nella notte di Rosarno (dopo che qualche buon cristiano aveva centrato due di loro con armi ad aria compressa) sono stati i primi e soli a ribellarsi alla criminalità che, in quella regione, controlla la vita e la morte. I cittadini sono abituati a un rapporto diverso con il potere legale o illegale. Alla ribellione dei neri hanno reagito, hanno sprangato, sparato alle gambe, investito con l’auto di famiglia i pericolosi clandestini criminali. E in molti hanno ripetuto in faccia alla polizia “È la legge, quelli sono clandestini. I cladestini sono criminali e dovete cacciarli”. E non sapevano,nel paese in cui tutti sono emigrati un secolo fa, che cladestino vuol dire migrante. Non sapevano a Rosarno, che ripetevano la parola d’ordine della Lega. È il governo della Lega. Controlla il nord ma infetta l’Italia. L’immagine di un clandestino come corpo da sfruttare (“sfruttati” è la definizione del cardinale Bertone) per essere poi cercato, arrestato, detenuto ed espulso (eventualmente lasciato, nei tempi liberi, all’iniziativa dei cittadini) non è solo di Tosi a Verona, di Gentilini a Treviso, di Borghezio a Torino, di Cota alla Camera, di Maroni al governo. Ha ragione “Famiglia cristiana” quando titola “Il governo è nelle mani di Bossi”.
E così, in un Paese inquinato di violenza e di sentimenti di cattiveria e disprezzo verso gli immigrati, la campagna elettorale della Leganord per l’indipendenza della Padania si apre a Rosarno (Reggio Calabria). Sapete qual è il vero problema? Lo dice per la Storia il ministro dell’Interno, Roberto Maroni mentre a rosarno sparavano e gambizzavano: “In Italia c’è troppa tolleranza”.

il Fatto 10.1.10
Una scuola extraordinaria
A Piazza Vittorio, Roma, dove due terzi dei bambini sono figli di immigrati. E parlano tutti l’italiano
di Luca Telese

Abito a Roma, in uno dei quartieri più multietnici d'Italia. Mio figlio Enrico ha tre anni e mezzo, e frequenta uno degli asili pubblici più multietnici d'Italia. Uno di quelli che secondo la Gelmini sarebbero un covo di malessere sociale ed etnico: qui le quote sono esattamente il contrario di quelle che vorrebbe il ministro, ma le cose vanno benissimo. Due terzi stranieri, un terzo italiani. Eppure, se in un qualsiasi giorno ti affacci in un corridoio trovi solo sorrisi, grida di felicità, lavoretti di cartapesta e cartelloni colorati.
Nessun luogo di bambagia protetta, nessun ghetto per ricchi: asilo pubblico, a solo pochi metri da piazza Vittorio, retta di 60 euro (solo perché c'è la mensa). Una squadra didattica da far paura – maestre, collaboratrici scolastiche, direttrice – a cui dovrebbero dare il Nobel per la pace. Bimbi di tutte le nazionalità: cinesi, sudamericani, indiani, cingalesi, polacchi... A quelli che dicono: “Ma così, come fanno i nostri figli ad imparare l'italiano?”, vorrei solo dire di entrare un momento e di avvicinare l'orecchio alla porta di una classe. Parlano tutti italiano, tutti. Qualcuno si porta traccia di accenti diversi, ma molti parlano l'italiano meglio degli italiani, anche se hanno un cognome pieno di consonanti (il peso delle cadenze, direi senza polemiche, è inferiore a quello che si sente sui banchi del governo). L'unico indizio di diversità etnica lo trovi se ti metti a sbirciare le targhette dei nomi sotto gli attaccapanni: “Shannah, Sophie, Oliver... Ogni attaccapanni ha un nome, e anche un disegnino. Il rito di appello è così: le maestre mettono tutte le schede con i nomi dei bambini sul tavolo, e anche i bimbi che non sanno leggere trovano i loro e vedono quello degli altri. Poi lo vanno infilare su una parete dove c'è una bacheca piena di tasche trasparenti. Enrico ha una chiocciola, ed è molto contento.
Quando sento dire che i genitori fuggono dalle scuole con gli stranieri penso a questa estate. C'era gente che tramava di restare fuori. Prima ancora di iniziare le lezioni la direttrice mi ha telefonato: “Facciamo una festa di benvenuto”. E io: “Prima ancora di iniziare?”. E lei, ridendo: “Sa, per integrare i bambini bastano tre giorni. Per i genitori non bastano tre mesi” . Geniale. Quando sento parlare di integrazione, invece, mi viene in mente un’immagine di questo autunno. Riunione dei genitori. La direttrice ci informa: “Serve un rappresentante dei genitori”. Molti dei genitori italiani, fra cui io, si guardavano preoccupati. Nessuno si è fatto avanti. Allora ha parlato il padre di un bimbo rumeno: “Mi candido io! Mi chiamo Silvio, un nome perfetto per la politica, non trovate”. Inutile dire che Silvio è stato eletto all'unanimità. E la paura etnica? Mio figlio ha visto Biancaneve ed è rimasto terrorizzato dalla strega Malefica, quella con il velo sotto la gola. Due giorni dopo ha visto la madre di un compagno con il velo e si è spaventato: “In classe è venuta Malefica!”. Gli abbiamo spiegato: “No, Enrico, la signora ha il velo perché è musulmana”. Non sembrava convinto, ma non ne ha parlato più per due mesi. Poi, la settimana scorsa ha rivisto il dvd di Biancaneve: “Papà, Malefica è musulmana?”. Capirà. Spesso i bimbi stranieri non vengono alle feste. Spesso non vengono perché i genitori pensano che il regalo sia obbligatorio. Ma la scuola unisce tutti, ed è diversa in tutta Italia. Si possono decidere a Roma delle quote per risolvere tutti i problemi? Non lo hanno fatto in nessun paese del mondo. Allora chiedo. Cosa significano le quote per legge? Provo ad applicarlo alla classe di Enrico. Che dieci bambini se ne dovrebbero andare via. E perché? E, soprattutto, dove? E poi, queste quote, come vanno contate. Devono comprendere i bambini che sono stranieri anche se nati in Italia? Solo quelli nati fuori? Solo quelli che sono stranieri e non parlano italiano? E i bimbi stranieri di tre anni che parlano italiano? Venerdì, dopo gli scontri in Calabria, una madre araba mi ha fermato all'uscita della scuola: “Tu fai il giornalista, cosa ci accadrà, adesso?”. Le ho risposto: “Nulla”. Invece aveva ragione lei. Sto provando a immaginare dove dovrebbero mandare i bimbi che non avrebbero più diritto alla loro scuola, i “fuoriquota”. Li deportano altrove con il pullmino? In qualche bella scuola dove c'è un posto etnico per stranieri libero? In qualche asilo dei Parioli? L'unico problema di quota che ho visto a scuola sono due ge-
melline cinesi di tre anni. Ogni volta che le maestre hanno provato a dividerle pianti a dirotto. Erano diventate la favola della scuola. Oggi cosa faranno? Alla fine, le maestre le hanno riunite. Lieto fine. Speriamo che dopo aver riunito le gemelle, l'anno prossimo, non si debbano dividere i bimbi. Anche perché, forse, il buonsenso delle maestre prevale sui decreti delle ministre ministri.

il Fatto 10.1.10
Banlieue. Quattro anni dopo nulla è cambiato
Sarkozy promise di “ripulire” i quartieri, ma ancora oggi regnano disoccupazione, povertà e disagio giovanile
di Gianni Marsili

Quattro anni fa la grande fiammata, le banlieue in rivolta, i roghi di scuole, palestre, arredi urbani, autobus, macchine, le battaglie campali e notturne con squadroni di gendarmi antisommossa, intorno a Parigi, Tolosa, Lione, Strasburgo. Durò tutto l’autunno del 2005, se non ci scappò il morto fu un vero, grande miracolo. “Parigi brucia”, titolava la stampa mondiale, mentre scopriva attonita un esercito di francesissimi adolescenti incappucciati, neri e maghrebini, che teneva in scacco il generale Sarkozy, all’epoca ministro degli Interni, quello che li aveva insultati promettendo di “ripulire” quei quartieri come si pulisce una stalla o un bagno, con spazzoloni e secchiate di varechina. Da allora le banlieue non aprono più i titoli dei tg stranieri, a malapena fanno capolino in quelli nazionali. Ci vuole uno studente che ne ammazzi un altro perché irrompano sulla scena, o una sparatoria tra bande rivali, o un insegnante accoltellato durante l’ora di matematica, cose così. Drammi domestici puntuali come una tortura cinese, giusto per tenere viva la memoria e l’attenzione: dall’autunno 2005, infatti, nulla è cambiato. Sociologi, insegnanti, operatori avvertono: l’incendio non è spento, il fuoco cova sotto la cenere.
Il fronte, come su una carta militare, corre ai bordi delle Zus, acronimo che sta per “zone urbane sensibili”. Sono 470, comprendono quattro milioni e mezzo di abitanti. Ad occuparsene, Sarkozy ha avuto l’accortezza di chiamare una che in quei quartieri è cresciuta, che di quei ragazzi conosce il gergo, la ruvidezza, la confusa e grandissima vitalità: Fadela Amara. L’ha fatta ministro con la missione di togliere carburante al serbatoio della violenza, di introdurre progetti di lavoro, sport, socialità, civismo. Ma un mese fa l’osservatorio nazionale che si occupa delle Zus ha fornito il suo responso: l’universo delle banlieue è sostanzialmente immobile, come cinque, come dieci anni fa. Anzi, va anche peggio. Qualche cifra per capire. La prima, un’onta per il paese: il 44,3 per cento dei minori di 18 anni che risiede nelle Zus vive al di sotto della soglia di povertà, fissata a 908 euro mensili per famiglia. In totale, il 33 per cento dell’intera popolazione delle Zus è sotto i 900 euro al mese, contro il 12 per cento della media nazionale. La disoccupazione è aumentata, anzi esplosa già nel 2008, alla vigilia della crisi economica: 17,9 per cento, il doppio che nel resto del paese. Ma c’è di peggio, di più infido e cancerogeno: il 41,7 per cento dei maschi tra i 15 e i 24 anni è senza lavoro. Non va più neanche a scuola, semplicemente ciondola. Ciondola per le strade, sulle scale dei casermoni, alla Gare du Nord, attorno al supermercato. Ciondola senza arte né parte, si scatena a date fisse, il 31 dicembre e il 14 luglio, festa nazionale, bruciando decine di migliaia di automobili: 40 mila l’ultima notte di Capodanno.
Risplende come una luce in fondo al tunnel una percentuale che svela un universo dal percorso ancora carsico, indecifrabile: l’occupazione delle ragazze della stessa età, dai 15 ai 24 anni, è in netto aumento. Nel 2009 è passata sotto la soglia del 30 per cento, e il trend continua ad essere positivo. Padroni e padroncini, evidentemente, si fidano di più, mettono in prova, assumono. Non portano il cappuccio, le ragazze, e guardano con distanza alle esibizioni machiste dei loro coetanei. Ma il futuro, sfortunatamente, non può declinarsi soltanto al femminile.
Fadela Amara si difende, chiede fette di bilancio più consistenti, rivendica cantieri di rinnovamento urbano, episodi di rilancio economico qua e là, pungola il premier François Fillon che ha promesso “una larga concertazione” per il 2010. Ma nel frattempo le banlieue languono, s’intristiscono, s’incattiviscono. Non tutte, ma troppe per considerare rimarginata quella ferita aperta negli anni ’60, quando la Francia chiese braccia muscolose e a poco prezzo per il suo rilancio industriale. Quelle braccia non servono più da un paio di generazioni. E’ una storia d’immigrazione, come quella di Rosarno anche se di genesi, drammaturgia e sociologia molto diverse. Anche perché nelle banlieue si vive male, malissimo, ma si vive. Si è maltrattati dalle pubbliche autorità, ma si figura sempre all’ordine del giorno di tutti i governi, di destra o di sinistra che siano. In quell’ex oleificio calabrese invece no, non si vive. E le pubbliche autorità della penisola non si pongono il problema, se non in termini di “immigrati clandestini”.

Repubblica 10.1.10
L’inferno di Rosarno e i suoi responsabili
di Eugenio Scalfari

Al Sud solo i volontari cercano di sfamare gli "ultimi". Il partito dell´amore dovrebbe materializzarsi in quelle terre di violenza mafiosa
Il governo e le istituzioni locali non si accorgevano di quanto stava avvenendo? Non vedevano l´accumularsi di materiale infiammabile?

A Rosarno ha infuriato per due giorni e due notti prima una sommossa e poi una caccia al "negro" con ronde armate che sparano a pallettoni per ferire e ammazzare. Nel terzo giorno, cioè ieri, gran parte degli immigrati è stata portata via dalla polizia nei centri di concentramento chiamati centri di accoglienza, sulla costa jonica della Calabria, ma la caccia al "negro" continua contro i pochi dispersi che vagano ancora nella piana di Gioia Tauro. Un incidente mortale potrebbe ancora accadere, visto lo stato d´animo dei "cacciatori" che ricorda quello degli aderenti al "Ku Klux Klan" nell´America degli anni Sessanta. Siamo arrivati a questo? Perché ci siamo arrivati?
I calabresi hanno difetti e virtù, come dovunque in Italia e nel mondo. Fra le virtù più radicate c´è quella dell´ospitalità, che ha un che di antico ed è tipica della civiltà contadina. Ma anche l´ospitalità si è logorata col passare del tempo e il mutare delle condizioni sociali. E con l´arrivo della mafia.
Fino ai Sessanta non esisteva mafia in Calabria. Esisteva il brigantaggio nei boschi dell´Aspromonte e delle Serre. Esisteva da secoli, ma non la mafia. Ora, da quarant´anni, la mafia calabrese è diventata la più potente delle organizzazioni criminali che operano nel Sud d´Italia e la gestione degli immigrati è una delle sue attività, specie nella piana di Gioia Tauro, dove le "´ndrine" possiedono anche fertili terreni coltivati ad aranci. Il caporalato è diffuso e utilizza il lavoro dei clandestini.
Attualmente sono valutati a circa ventimila i braccianti destinati alla raccolta delle arance, dei mandarini e dei bergamotti. Ma non è un fenomeno recente, dura da quindici o vent´anni in qua. Riguarda solo i maschi, non ci sono femmine tra loro né famiglie. Sono maschi singoli, senza dimora, alloggiati in ovili diroccati, senz´acqua, senza luce, senza cessi. E vagano per quelle terre in cerca di lavoro giornaliero.
Vagano in Calabria, in Sicilia, in Basilicata, in Puglia. Secondo le stagioni raccolgono agrumi, olive, uva, pomodori. Il lavoro è in mano ai caporali, quasi tutti affiliati alle mafie locali. Dodici ore per venti o venticinque euro sui quali i caporali trattengono un pizzo di cinque e i camionisti che li trasportano sui campi un prezzo di due o tre euro.
«Cercavamo il paradiso abbiamo trovato l´inferno» ha detto ieri uno di loro avvicinato da un cronista. Eppure, se continuano a cercar lavoro in quell´inferno vuol dire che sono fuggiti da inferni ancora peggiori.
Sono gli ultimi della Terra. Quelli ai quali Gesù di Nazareth nel discorso della Montagna promise che sarebbero stati i primi nel regno dei cieli. Alla fine dei tempi. Dodici ore di lavoro a 15 euro di paga. I tremila di Rosarno e gli altri come loro non hanno tempo di pregare, stramazzano in un sonno da cavalli o da maiali grufolosi. È questo l´amore, è questa l´ospitalità?
I calabresi di Rosarno non sono certo abitanti di un paradiso. Sono quindicimila di povera gente e vivono in un paese sotto il tacco della mafia. Il Comune fu sciolto per infiltrazioni (si fa per dire) mafiose ed è amministrato da un commissario prefettizio. Ma quando si faranno nuove elezioni vinceranno ancora le "´ndrine" perché in quella piana la mafia è un potere costituito, in attesa che lo Stato lo sconfigga. Speriamo che avvenga presto, ma se mi domandate quando sarò tentato di rispondervi: «alla fine dei tempi», quando verrà il regno dei giusti e il giudizio universale. Prima ci sarà stata l´Apocalisse. Che sembra già cominciata.
* * *
Qualche domanda però è di rigore. La rivolgiamo al ministro dell´Interno, a quello del Lavoro, a quello delle Attività produttive, a quello dell´Agricoltura, competenti e quindi politicamente responsabili di quell´inferno. Ma le rivolgiamo anche al Prefetto, al Questore, al Comandante dei carabinieri, al Governatore della Regione. Non sapevate? Non sapevate che la raccolta dei frutti di quelle terre è affidata a ventimila immigrati, in maggior parte clandestini, gestiti da caporali e pagati in nero? Non sapevate come vivevano? Non vi rendevate conto che si stava accumulando un materiale altamente infiammabile e che l´incendio poteva divampare da un momento all´altro? Non avevate l´obbligo di intervenire? Di attrezzare un´accoglienza decente? Di regolarizzare i clandestini e il loro lavoro, oppure di rimpatriarli ma sostituirli visto che gli italiani quel tipo di lavoro non sono disposti a farlo?
Maroni ha messo le mani avanti ed ha dichiarato l´altro ieri che c´è stata troppa tolleranza: bisognava cacciare i clandestini o processarli per il reato di clandestinità. Ma se di tolleranza si tratta, a chi è rivolta l´accusa di Maroni se non a se stesso? Non è lui che predica la sera e la mattina la tolleranza zero? Se ne scorda per le terre a sud del Garigliano? Oppure si rende conto che, clandestini o no, gli immigrati sono indispensabili all´economia italiana? E che la tolleranza zero ci ridurrebbe alla miseria?
Al Nord è diverso: la miriade di piccole imprese della Val Padana e del Nordest hanno bisogno degli immigrati e organizzano un´accoglienza decente, salvo poi dare i voti alla Lega a tutela dell´"integrità urbana", della separazione o dell´integrazione col contagocce. Si può capire: l´immigrazione in Italia è arrivata tardi ma in dieci anni siamo passati da un milione a quattro milioni di immigrati. Il tasso d´aumento è stato dunque molto alto ed ha determinato inevitabili tensioni sociali. La classe politica avrebbe dovuto gestire questo complesso processo; invece ha puntato le sue fortune sulla paura e ne ha ricavato consenso.
Nel Sud non poteva che andare peggio. Lì non c´è purgatorio ma inferno. Lì sono i volontari i soli che tentano di sfamare gli "ultimi" e dar loro una parvenza di riconoscimento. Maroni e Scajola e Zaia e Sacconi preferiscono far finta che non esistano. Aprono gli occhi solo quando scoppia la sommossa e poi la caccia al negro. Ma non hanno altra ricetta che l´espulsione, anche se ieri Maroni ha smentito che di questo si tratterà per i clandestini di Rosarno. Ma chi raccoglierà le arance, i pomodori, le olive? Chi attrezzerà l´accoglienza?
Il partito dell´amore dovrebbe materializzarsi in quelle terre dove regna invece la violenza mafiosa, i bulli di paese che si spassano giocando al tiro a segno con i fucili ad aria compressa e sparando sul negro per vincere la noia.
Noi aspettiamo risposte alle nostre domande, anche se sappiamo per esperienza che questo potere non ha l´abitudine di rispondere.
* * *
Nel frattempo, nelle alte sfere si consumano altri misfatti. Uno di essi è la decisione del presidente del Consiglio di coprire con il segreto di Stato la posizione processuale di Marco Mancini, già capo del controspionaggio alle dipendenze dell´allora direttore del servizio di sicurezza, Nicolò Pollari.
Misfatto, cattivo fatto: non trovo altra parola per definire un atto di estrema gravità. Ne ha diffusamente scritto il collega D´Avanzo il 6 gennaio scorso. Se torno sull´argomento è proprio partendo da una sua definizione alla quale non è stata data alcuna risposta. D´Avanzo è un giornalista scrupoloso che fa domande più che legittime doverose; il fatto che siano scomode per il potere accresce la loro legittimità e dovrebbe obbligare i destinatari ad una plausibile spiegazione.
La definizione di D´Avanzo distingue tra i fini e i mezzi nell´attività dei servizi di sicurezza. I fini sono prescritti dalla legge: la difesa dello Stato e delle istituzioni in cui esso si articola; la lotta contro lo spionaggio straniero; l´acquisizione all´interno e all´estero di notizie utili al perseguimento dei fini suddetti.
I mezzi sono invece scelti discrezionalmente dalla direzione del servizio e possono in certi casi anche violare le leggi ma proprio in quei casi l´autorità politica deve esserne informata sotto vincolo di segreto. Sappiamo tutti che il servizio di sicurezza non ha natura angelica e addirittura può avere commercio anche col diavolo, ma sempre per il raggiungimento di quei fini e non per altri.
Il segreto di Stato può venire opposto al magistrato inquirente e a quello giudicante. Ma esiste tuttavia un organo di natura parlamentare, il Copasir, che ha il potere di accedere alla documentazione superando il segreto e questo sulla base del principio democratico secondo il quale non deve esistere alcun organo dello Stato che non abbia sopra di sé un altro organo cui rispondere.
Parlo di queste cose perché mi trovo nella condizione di essere il primo, insieme al collega Lino Jannuzzi che allora lavorava con me all´Espresso, ad aver vissuto in prima persona l´apposizione del segreto di Stato in un processo che fu intentato contro di noi a proposito del "Piano solo" organizzato dall´allora comandante generale dei carabinieri, De Lorenzo.
Non entro nei dettagli che sono fin troppo conosciuti, se non per ricordare che noi demmo la prova testimoniale dell´esistenza di quel Piano, che aveva connotati eversivi, al punto che il Pubblico ministero che guidava l´accusa contro di noi e che si chiamava Vittorio Occorsio – ucciso qualche anno dopo dal terrorismo fascista – chiese al tribunale l´archiviazione degli atti contro di noi ritenendo che avevamo raggiunto la prova dei fatti.
Il tribunale ritenne però che la prova testimoniale non bastasse e chiese l´esibizione del documento redatto dal Comando dei carabinieri, agli atti del servizio di sicurezza. L´allora presidente del Consiglio, Aldo Moro, pose il segreto di Stato su quel documento e così fummo condannati.
Non esisteva a quell´epoca un Copasir che potesse accedere alla documentazione; fu istituita una Commissione parlamentare d´inchiesta dove però, per regolamento, la maggioranza parlamentare era presente in numero soverchiante. La Commissione lavorò per quasi un anno e si concluse con un compromesso. Poi la legge sul segreto fu riformata e il Copasir – la cui presidenza spetta all´opposizione – ne è stato uno dei positivi risultati.
Proprio per queste ragioni è della massima importanza la scelta del presidente di quell´organismo, che dev´essere indicato dai gruppi parlamentari del maggior partito d´opposizione, cosa che avverrà nei prossimi giorni. L´esperienza ci insegna che chi guida quel delicatissimo organo deve avere l´intelletto e i titoli per venire nominato a quella carica e non dev´essere in nessun modo mescolato alla lotta politica in corso. Dal momento in cui viene insediato acquista le caratteristiche di un giudice di una magistratura che è la sola che possa vigilare sulla congruità dei mezzi usati dai servizi di sicurezza per realizzare i fini che la legge indica, vigilando anche che i mezzi non siano così perversi da stravolgere i fini stessi.
Noi abbiamo la sensazione che il segreto posto sulla posizione processuale di Marco Mancini copra mezzi illeciti e non pertinenti ai fini di istituto, ma la nostra sensazione non fa testo, può soltanto suscitare attenzione nell´opinione pubblica. Spetta al Copasir accertare ed eventualmente rimuovere il segreto di Stato su quella specifica situazione. E qui il peso della scelta, che sia congrua ai compiti di quell´organismo.

Post scriptum. Sembra ormai decisa la scelta del Partito democratico di far propria la candidatura di Emma Bonino all´elezione del presidente della Regione Lazio. Mi sono trovato talvolta in posizione critica nei confronti dei radicali, ma in questo caso penso che quella della Bonino sia la candidatura migliore. Ha qualità di amministratrice già ampiamente collaudate e integrità di carattere e di comportamento a tutta prova. Penso anche che, se uscirà vittoriosa dal confronto con la Polverini, non sarà certo lei ad assumere atteggiamenti irriguardosi verso la Chiesa in una regione che ospita il Papa nella sua capitale garantendogli piena indipendenza. Sarà tuttavia, Emma Bonino, un presidio di laicità in un momento che di laicità ha gran bisogno, non certo contro ma anzi a sostegno dello spazio pubblico riservato alla Chiesa e alla sovranità dello Stato nei campi di sua esclusiva competenza.

l’Unità 10.1.10
Il nodo delle primarie Oltre ai franceschiniani ora le chiede anche la presidente Bindi
Puglia, Vendola: «Senza me il centrosinistra perde». Boccia: «Senza Udc e Idv niente gazebo»
Bonino, Bersani dà via libera «Emma è una fuoriclasse»
di Simone Collini

Nel Pd si sta valutando l’ipotesi di far tenere una «consultazione confermativa» tra gli iscritti e gli elettori delle primarie del Lazio. Veneto e Calabria, non esclusa la candidatura di un centrista.

Più la matassa delle regionali si ingarbuglia, più Pier Luigi Bersani si mostra tranquillo, al punto da liquidare con una sola battuta una vicenda che anche ieri ha fatto discutere per tutto il giorno fuori e dentro il Pd. La minoranza di Dario Franceschini chiede infatti a gran voce le primarie per Puglia e Lazio, con Rosy Bindi che un po’ a sorpresa si unisce al coro: «Altrimenti rischiamo di snaturare il Pd», sostiene la presidente del partito. Il ragionamento che si fa però nella maggioranza è che il passaggio per i gazebo rischierebbe di far saltare il fragile accordo con l’Udc in Puglia, visto che Casini definisce le primarie una «deriva plebiscitaria», e di rompere con l’unica candidata in campo nel Lazio: «Nel 2013 può darsi», risponde la leader radicale a chi le domanda se sia disponibile a partecipare alla consultazione popolare.
VIA LIBERA DI BERSANI ALLA BONINO
Bersani per tutto il giorno segue dalla sua casa di Piacenza i movimenti della minoranza, a cominciare dalle dichiarazioni di Franceschini: «Nel nostro statuto sta scritto che i candidati si scelgono con le primarie, che non sono un metodo per creare i problemi ma per risolverli». E poi David Sassoli, Stefano Ceccanti, Walter Verini e tutti gli altri di “Area democratica”. Poi, al Tg1 delle 20, il segretario Pd risponde così alla domanda sul nodo Lazio: «Ho lavorato con Emma Bonino. È una donna fuori dagli stereotipi. Per me è una fuoriclasse. Insomma avete capito come la penso». Ovvero, via libera alla leader radicale. E alla riunione della direzione regionale, martedì, il segretario Alessandro Mazzoli proporrà di sostenerla.
IPOTESI PRIMARIE CONFERMATIVE
Tutto bene? Fino a un certo punto, perché rimane la richiesta delle primarie e anche la necessità di trasformare quella che finora è dei soli Radicali in una candidatura dell’intero schieramento. Michele Meta, dell’area Marino, dice che sarebbe «da miopi» non vedere il valore della Bonino, e però sostiene che la leader radicale dovrebbe mostrarsi disponibile a una consultazione interna al popolo del Pd: «Può solo rafforzarla». E se la Bonino è convinta che le primarie classiche, con candidati contrapposti, possano essere utilizzate per metterle ostacoli lungo il cammino, la soluzione che si sta valutando nel Pd è organizzare una sorta di primarie confermative su di lei. Ovvero avviare una consultazione nei Circoli tra i 90 mila iscritti e i 300 mila elettori delle primarie del Lazio.
ROTTURA TRA BOCCIA E VENDOLA
Anche in Puglia è ormai praticamente certo che le primarie non si faranno. Almeno, ad ascoltare Francesco Boccia: «Senza Udc e Idv io non faccio le primarie. Oggi in Puglia la risposta da dare è sì o no alla nuova coalizione. Non rispondere a questa domanda e agitare le primarie significa tramare per fare saltare l’alleanza con Casini e Di Pietro». Nichi Vendola non ci sta: «Con le primarie si può trovare la strada dell’unità. I militanti del Pd fanno il tifo per me. Il centrosinistra in Puglia non può pensare a un allargamento se parte con il piede sbagliato. Amputando me e la mia storia il centrosinistra si candida a una sconfitta».
GLI ALTRI NODI
La situazione rimane aperta anche in Veneto, Calabria e Umbria, dove si va avanti a colpi di ricorsi. Nella prima regione, un’accelerazione di Laura Puppato «per un referendum tra gli iscritti», non è piaciuta al segretario regionale Rosanna Filippin. L’appello ai centristi è partito e entro sabato si saprà se la scelta del candidato verrà lasciata a loro. Ipotesi valida anche per la Calabria. Agazio Loiero, candidato alle primarie insieme ad altri tre del Pd, smentisce di aver concordato al vertice a Roma con Bersani un «passo indietro a favore di un candidato dell’Udc», però conferma che con il segretario nazionale ha concordato «un ultimo tentativo per convincere l’Udc a stare con noi». Come? Una dichiarazione del segretario regionale Carlo Guccione fa capire che l’offerta del candidato all’Udc è tutt’altro che esclusa.❖

il Fatto 10.1.10
Pd, ci mancavano i “centralisti” di Renzi e Zingaretti
di Chiara Paolin

“Da mesi è in atto nel Paese uno strano gioco politico che mette in evidenza esclusivamente le esigenze del Nord e i mali, sempre irrisolti, del Sud. È un modo sbagliato e miope di vedere i problemi nazionali, in particolare oggi che si è precipitati in una crisi economica niente affatto risolta e che anzi, per quanto riguarda la disoccupazione, non ha raggiunto il suo massimo". Quelli del centro (Italia) stavolta si sbilanciano e firmano un manifesto delle terre di mezzo che rischiano di restare compresse tra l'aggressività della Lega Nord e le eterne emergenze meridionali. Sono sindaci, presidenti di Provincia, assessori regionali e governatori, una ventina di amministratori dislocati sul territorio che va dalla Romagna al Lazio, dalla Toscana alle Marche, tutti riuniti nel nascente Coordinamento del Centro Italia. Lamentano scarsa considerazione dal governo centrale: presente e passato. Attacca Matteo Ricci, presidente della Provincia di Pesaro e Urbino: "Parliamo di fatti concreti. Aspettiamo la superstrada Fano-Grosseto da vent'anni, ma oggi la priorità è il Ponte di Messina.
Abbiamo spiegato che il taglio dell'Ici per i piccoli Comuni è un disastro, non è servito a nulla. La riforma Gelmini mette a durissima prova il sistema scolastico delle aree non urbane, il che significa minare il futuro stesso dei nostri territori. Luoghi che, peraltro, hanno retto molto bene alla crisi e sono oggettivamente un modello valido di sviluppo. Vogliamo condividere la nostra esperienza, vederla premiata. Invece, semplicemente, ci ignorano. A destra, ma anche a sinistra". Domani mattina a Firenze si presenterà ufficialmente il movimento dei centralisti. Padrone di casa il sindaco Matteo Renzi, sorvegliato speciale Nicola Zingaretti, che certo in questi giorni di problemi ne ha parecchi, ma sarà lì in carne e ossa a spiegare come la macroregione centrale abbia voglia di dire la sua, prima e dopo le regionali. Spiega Zingaretti: “In tempo di crisi economica, troppo sottovalutata dal governo Berlusconi, l’attività e l’impegno degli enti locali possono essere decisivi. La sinergia fra comuni, province e regioni sul fronte degli investimenti, delle infrastrutture pubbliche, dei progetti sociali possono portare occupazione e miglioramento della qualità della vita in tante aree del paese. Ma il ruolo degli enti locali non termina qui. E’ necessario ripartire e ragionare tutti insieme da alcuni punti fondamentali: innanzitutto dal federalismo fiscale, ancora non troppo chiarito dal governo, e che potrebbe portare in Italia ad aree di serie A e di serie B. Credo sia necessario continuare ad avere come punto di riferimento il modello moderno e sempre innovativo che l’Europa ci propone e che ci spinge a emulare. Adesso più che mai è necessario un lavoro in sinergia tra i rappresentanti degli enti locali del centro Italia per creare un coordinamento in grado di dialogare con le forze sociali e soprattutto con i cittadini che chiedono la presenza e l’azione di chi governa direttamente sul territorio”.
Ma il Pd come ha reagito all’iniziativa? “Per ora c’è interesse, curiosità chiude Ricci Certo sappiamo che il momento è delicato, e c’è chi pensa che il partito abbia bisogno di tutto tranne che un nuovo fronte problematico. Ma il Coordinamento nasce oggi per lavorare nel tempo, non è un’iniziativa elettorale. Il tema del voto ci riguarda in primo piano, abbiamo la consapevolezza che le nostre regioni sono il cuore rosso d’Italia e tutti si aspettano conferme importanti. Ma anche qui la Lega e l’Idv raccolgono consenso crescente, la concorrenza è sfrenata. Bisogna evitare di lasciare gioco facile al malcontento e al voto di protesta. Questo il Pd lo deve capire”.
A sostenere il battesimo dei centralisti anche il vicepresidente del Senato Vannino Chiti, il governatore delle Marche, Gian Mario Spacca, e quello toscano Claudio Martini, oltre al presidente di Lega Autonomie, onorevole Oriano Giovannelli.

Repubblica 10.1.10
"La Bonino è una fuoriclasse" Bersani chiude la partita Lazio
Ma Avvenire attacca: il Pd così diventa laicista
Al fronte-primarie si aggiunge la Bindi. La candidata le liquida: "Forse le farò nel 2013..."
di Giovanna Casadio

ROMA - Pierluigi Bersani chiude il tormentone sul candidato "governatore" del centrosinistra nel Lazio: «Ho lavorato con Emma Bonino. È una donna fuori dagli stereotipi, è una fuoriclasse. Questo è come la penso». È di fatto l´investitura della leader radicale da parte del segretario del Pd. In tv, in un´intervista al Tg1, arriva quindi il via libera dopo una giornata di fibrillazioni, polemiche e soprattutto di scontro sulle primarie nelle file democratiche.
Bonino e Bersani si sono sentiti ieri al telefono, ma la radicale intervenendo nel comitato del Pr ha chiarito: «Capisco la difficoltà che la mia candidatura ha generato in altri partiti politici, ma l´unico aiuto che posso dare , anche a loro, è quello di esserci e di confermare di esserci» nella corsa alla presidenza della Regione Lazio. Quindi, la leader radicale va avanti, e di primarie non si sogna di farne: «Io alle primarie? Nel 2013 può darsi», ironizza. Non a due mesi e mezzo dal voto, mentre Renata Polverini, la candidata del Pdl, ha già cominciato la campagna elettorale. «La gente non ha più voglia di riti stantii. La mia è una candidatura che inizia persino ad essere discussa nelle famiglie oltre che nei bar». Duro contro il Pd che abbraccia la Bonino è Avvenire, il quotidiano dei vescovi: «Il Pd rischia di essere risucchiato su posizioni laiciste» e «se l´immagine dei Democratici si appiattisce su queste posizioni anche il carattere strategico dell´alleanza con l´Udc potrebbe inciampare in ostacoli».
Nel Pd tuttavia il fronte pro-primarie si è andato allargando. Non è solo la minoranza del partito a premere per le primarie nel Lazio e in Puglia dove c´è da sciogliere l´ingarbugliata partita tra Nichi Vendola, il governatore uscente, leader di "Sinistra ecologia e libertà" e Francesco Boccia, democratico che porta in dote l´alleanza allargata all´Udc e a Idv. È anche la presidente del Pd, Rosy Bindi in un´intervista alla Stampa, a chiedere «primarie in Puglia e nel Lazio», avvertendo che «altrimenti si snatura il partito». Insiste molto su Vendola e sull´importanza dell´esperienza di governo pugliese, Bindi. In poche ore nasce su Facebook un gruppo che rilancia il suo appello alle primarie. E Vendola: «Credo che le decine e decine di migliaia di militanti del Pd facciano il tifo per me. Se persino il presidente Bindi dice che non si può rimuovere come neve al sole la storia di Nichi Vendola, vuol dire che la mia vicenda è nel cuore del popolo Pd».
Per il no a primarie a tutti i costi e, in particolare, in Puglia, è invece il vicesegretario Enrico Letta: «Le primarie sono uno strumento e non un dogma; servono se la coalizione è d´accordo e se sono utili a vincere». Boccia le primarie in Lazio, Beppe Fioroni, ex Ppi: «La Polverini è in pista da tre settimane, per il Pd sarebbe una follia, vuol dire che si è interessati a perdere». Domani in Puglia sarà l´assemblea regionale a decidere. Bersani aveva già sentito Casini per sondarne la disponibilità a primarie di coalizione. Ma ieri il leader Udc ha precisato: «Le primarie non fanno parte del mio vocabolario, il patto è con i presidenti di Regione non con le coalizioni. Stimo Bersani ma no a un Prodi-bis».

Repubblica Roma 10.1.10
La Bonino liquida l´ipotesi primarie
Mazzoli: "È lei la nostra candidata"
Il Pd ancora diviso sui gazebo mentre Federazione della sinistra e Idv puntano su Pedica
di Govanna Vitale

Fa sul serio Emma Bonino. Riunita insieme ai big radicali per mettere a punto le strategie dell´imminente campagna regionale, chiude a ogni ipotesi di consultazione sul suo nome («Io candidata alle primarie? Forse nel 2013») e lascia ai compagni di viaggio, per il momento soltanto potenziali, la soluzione dell´ultimo rebus che sta spaccando il Pd, oltre a squagliare un´eventuale coalizione di centrosinistra. Tanto più dopo l´ultima minaccia proveniente dall´inedita alleanza fra Idv e Federazione della sinistra (Prc, Pdci e Socialismo 2000), che ieri ha stabilito di voler scendere in campo con un proprio candidato governatore, il dipietrista Stefano Pedica, subordinando la scelta definitiva al tavolo di concentrazione nazionale. Mossa che ha tuttavia sancito l´ennesima divisione: SeL ha infatti deciso di sfilarsi e di rilanciare sulle primarie, «da tenersi il 24 gennaio», spiega Massimiliano Smeriglio, «per evitare la frammentazione del centrosinistra».
Una grande confusione. Alla quale il segretario del Pd Lazio, Alessandro Mazzoli, s´è risolto a dire basta. «Martedì chiederò alla direzione regionale di sostenere Emma Bonino come candidato del centrosinistra alla presidenza della Regione», taglia corto. Non solo perché «è una fuoriclasse», come ha detto ieri Bersani, ma in quanto «capace di mobilitare l´opinione pubblica e arrivare alla vittoria». Ciò però non significa accantonare le primarie, anzi: «Le consideriamo una proposta politica da sottoporre al vaglio degli alleati nel quadro di un´intesa unitaria», ribadisce Mazzoli. Per cui, se l´intera coalizione, Radicali compresi, dovesse insistere su questa strada, il Pd non si tirerà certo indietro.
Ma sarà difficile che, a due mesi dalle elezioni, si possano allestire gazebo in tutta la regione senza regalare lunghezze incolmabili a un centrodestra che già parte favorito. «Continuare a parlarne è fuori dalla realtà», incalza il senatore socialista Gerardo Labellarte, invitando a convergere compatti su Emma. A escluderlo è innanzitutto lei: «Credo che questa candidatura sia un dato di chiarezza che ha messo in moto un processo che si era completamente atrofizzato: la gente non ha più voglia di riti stantii e lacerazioni», ragiona la Bonino. «Capisco le difficoltà degli altri partiti politici, ma l´unico aiuto che posso dare loro è confermare di esserci nella limpidità delle mie scelte».
Parole di buon senso che tuttavia non placano la guerriglia sulle primarie. Pretese all´unanimità dai franceschiniani: da Sassoli a Verini e Valentini. Perentorio Roberto Morassut che, dopo aver denunciato «la trattativa centralistica che ha preordinato la Puglia ai destini del Lazio» trasformando quella della Bonino in «una candidatura di emergenza», ha chiesto di «riunire la coalizione e definire una rosa di nomi da sottoporre alle primarie». Subito tuttavia bacchettato da un "gazebista" della prima ora, Michele Meta, secondo cui la leader radicale «offre una formidabile opportunità per battere la destra che sarebbe da miopi non vedere». Scontro che forse solo il «lodo Carapella», dal nome del consigliere regionale che lo ha proposto, aiuterà a risolvere: «Se non ci fossero le condizioni chiediamo che tutti i circoli del Pd si riuniscano il 24 gennaio per una consultazione dei nostri iscritti. Una legittimazione popolare fa bene a tutti, in primis alla Bonino».

Repubblica 10.1.10
Assemblea nazionale a Napoli: "Con le saponette davanti a Montecitorio per dire che noi siamo puliti"
Sit-in pro Costituzione e premi viola il popolo del No-B day rilancia
Eletti sette coordinatori nazionali. "Il problema è uno solo: il premier"
di Alessandra Longo

NAPOLI - Diventare partito, darsi uno statuto o una carta etica, associarsi o non associarsi, riconoscersi in un coordinamento, sia pur «leggero», o fare i cani sciolti nel nome dell´antiberlusconismo? Eccoli qui i rappresentanti - ma già la parola non va bene - del popolo viola, gli eredi inquieti del patrimonio incassato il 5 dicembre 2009 con il No Berlusconi Day.
Primo appuntamento nazionale a Napoli per i responsabili delle realtà territoriali. Una cinquantina di persone stipate nella bella sede del centro culturale Città del Sole, a due passi dalle bancarelle di cornetti rossi di San Gregorio Armeno. Più che un´assemblea, una seduta di autocoscienza collettiva. Non ci sono capi riconosciuti e a stento viene tollerato il tavolo di presidenza, sul quale sono appoggiati un drappo viola e una kefiah mentre alle spalle degli oratori c´è una libreria con il meglio dei testi di Marx, Mao, Stalin e Lenin. Una giornata intera di discussione che comunque approda ad un risultato concreto.
Nonostante il mito «dell´orizzontalità» e dell´«intelligenza collettiva», alla fine escono sette nomi di coordinatori nazionali (il più noto è Gianfranco Mascia). Una "cupola" provvisoria incaricata di portare i viola alla loro prima assemblea nazionale che si terrà il 19, 20 e 21 marzo prossimi. Mica male come risultato se si va a vedere l´andamento della discussione, segnato da continue diffidenze reciproche nei confronti di chiunque vada al microfono («Scusa, tu a nome di chi parli? Qui non si decide nulla, qui vale la democrazia partecipata!»). Primo incontro pericolosamente senza copione che lascia in eredità una sequenza di proposte formulate senza gerarchia, così come vengono. Ecco un elenco: il 30 gennaio sit-in in tutta Italia a difesa della Costituzione; il 6 marzo «catena umana viola» nelle città; il 2 giugno «Costituzione Day»; il 28 ottobre con gli anarchici a Predappio. E nel mezzo idee in libertà «perché ognuno ci deve mettere la faccia» in ossequio a quello che è un po´ lo slogan individualista del militante viola tipo: «I am my personal revolution», sono la mia rivoluzione personale. Sergio di Terracina propone di andare davanti a Montecitorio e distribuire saponette di lavanda accompagnate da una frase del tipo «noi siamo puliti»; Emanuele Toscano, sociologo di Roma, pensa all´istituzione di premi viola da attribuire a «personalità» (la Gabanelli?) che si siano distinte per la loro non sintonia con Berlusconi. Subito qualcuno gli disegna la coppa-trofeo con la testa del premier e un paio di manette come gadget aggiuntivo. Dalla capitale parte anche l´idea di organizzare, in primavera, dei «pic-nic antiberlusconiani nelle ville aperte al pubblico».
Dicono: «Il vero popolo della libertà siamo noi e il problema è uno solo, è Berlusconi». Così a Forlì si attrezzano per «una notte viola» con proiezione nostalgica del mega raduno del 5 dicembre. A Caserta pensano ad una manifestazione contro la criminalità organizzata, mentre Mascia propone il boicottaggio dei prodotti degli inserzionisti Mediaset presenti nella fascia oraria più pregiata, quella dalle 21 alle 22. I partiti? Quasi ignorati. Adele, di Catania, è iscritta al Pd e ha il coraggio di dirlo. La consolano: «Non è grave, coraggio». Va da sé che quando Christian, bancario di Rovigo, propone ai viola di diventare essi stessi il nuovo partito italiano, viene gentilmente spernacchiato. Platea fredda, disciplinata militarmente, interventi regolati dal cronometro. Platea che vorrebbe sapere chi è il misterioso San Precario che gestisce 200 mila persone sulla pagina di Facebook senza rivelare la sua identità. Platea che si scalda solo alla fine - rivelando una rassicurante normalità - quando si tratta di decidere chi comanda.

l’Unità 10.1.10
Cento poeti alla ricerca del verso di opposizione
Meeting a Roma contro il declino. Da Bari a Torino tanti giovani in campo: possiamo sconfiggere il berlusconismo. Il peso della tv, il disastro della scuola
di Pietro Spataro

Da Bari e da Torino. Da Bologna e dall’Aquila. Da Ancona e da Milano. Sono arrivati da tutta Italia, in macchina e in treno: tutti a spese proprie. Si sono ficcati, pigiati uno addosso all'altro, dentro un piccolo locale di San Lorenzo a Roma e sono stati per sei ore a discutere di questo Paese spezzato, dell'odio contro gli immigrati, della scuola malata, della cultura depredata, della tv che comanda. Lo hanno nominato poco, ma dietro ogni discorso c'era lui: Silvio Berlusconi. I protagonisti di questa «rivolta delle parole» sono poeti. Quei trenta che due mesi fa scrissero poesie per l’antologia «Calpestare l’oblio» (che abbiamo pubblicato su l'Unità) più tanti altri che si sono aggiunti strada facendo. Più tanti altri ancora che non scrivono poesie ma le amano e le leggono e che soprattutto non sopportano la cappa di piombo che oggi pesa sull'Italia. Oltre cento in tutto Già questo è un fatto strano. Mentre il quartiere romano della movida si prepara alla lunga notte dei pub, dei locali e delle osterie, più di cento persone mettono in scena la loro protesta. Ci sono tantissimi giovani, la maggioranza: non hanno nemmeno trent'anni e si sentono defraudati del proprio futuro. Hanno studiato, si sono laureati e ora arrancano in una società che premia i grandi fratelli ma non fa nulla per quelli che hanno faticato sui libri sperando di fare cosa giusta e utile. Evelina De Signoribus è una di queste: viene da Cupra Marittima, è laureata in Lettere e sta studiando per la seconda laurea. «La scuola è un vero disastro dice La Gelmini la sta distruggendo e alla fine noi non riusciamo a trovare uno straccio di lavoro».
Davide Nota, che è il giovanissimo padre di questa ribellione nata sul web, era preoccupato ma alla fine osserva soddisfatto la platea e il piccolo palco. «Vedi, tutta questa gente è la dimostrazione che i poeti possono smetterla di fare le monadi spiega e devono confrontarsi con la realtà che sta lì fuori». Lui crede con tutta l'anima che bisogna battersi contro il consumismo che «riduce l'individuo a un ruolo». Franco Buffoni è poeta assai rodato, ha sessant'anni e si muove agilmente in mezzo a questi ragazzi jeans e maglietta che vogliono cambiare il mondo cambiando le «piccole cose». «Il danno più grande spiega è la rimozione della cultura. Un tempo la tv educava, poi sono arrivate le tv commerciali e allora è iniziato il declino». Ironizza Flavio Santi, trentenne friulano: «Siamo in una situazione in cui possiamo dire, con Homer Simpson: tutto quel che so l'ho imparato dalla tv. È un dramma».
Questo giovane movimento è nato dal verso di un ottantenne come Roberto Roversi: «Calpestare l'oblio / il viaggio dei ricordi non è mai finito / là c'ero anch'io». Difesa della memoria, battaglia contro chi vuole cancellare la storia, e tutti dalla parte della Costituzione: il progetto è qui. I ragazzi osservano un Paese che è diventato cinico e razzista (basta guardare a Rosarno), che si è votato al consumismo e ha spezzato ogni legame sociale. È ormai il luogo dove trionfa l’individualismo. «Usatela la poesia dice Rosemary Liedl, vedova di Antonio Porta Abbiate il coraggio di ritrovare la forza di fare». Aggiunge Maria Grazia Calandrone: «Come diceva Borsellino parlando di mafia: uniamoci, non potranno ammazzarci tutti». Enrico Piergallini, poeta vicesindaco a Grottammare, indica un compito: «Penetrare nella coscienza dei cittadini».
Ma è questo il ruolo di un poeta? È questo. Perché di poeti cuore-amore, pensano, ne abbiamo sopportati troppi. Perché di fronte allo sfascio del Paese occorre sporcarsi le mani con la realtà. Come dice Gianni D'Elia: «Uniti in mille forse possiamo fare almeno un mezzo Pasolini». Poeti così non piacciono. Non piacciono ai giornali della destra (Giornale e Foglio) che li hanno attaccati duramente. Ma nemmeno ai giornali come il Corriere e a tutti gli altri che infatti li ignorano. Pensano che la poesia debba stare al posto suo: lontana dai drammi della vita, lontana dalla politica. Invece, come ha detto qualche mese fa proprio su questo giornale Andrea Zanzotto, «la poesia ha un ruolo fondamentale in questa melma di disvalori: crerare le connessioni tra passato e futuro».
Questi ragazzi venuti da ogni parte d'Italia lo sanno e infatti vanno avanti con passione. La strada sarà lunga. Ma forse anche in mezzo a loro, così come in mezzo al «popolo viola», l'opposizione potrà ritrovare il filo del verso giusto.

l’Unità 10.1.10
«Il Labour ha perso la sua anima
Ormai insegue la destra israeliana»
Intervista a Ophir Pines-Paz di Umberto De Giovannangeli

L’ex segretario del partito: «Sternhell ha ragione: La sinistra è venuta meno alla sua identità. Mi sono dimesso dopo il sì al governo di unità con i falchi»

Ha ragione Zeev Sternhell. La sinistra israeliana ha via via smarrito il senso di sé, dei suoi valori originari, della sua “mission”. Soprattutto negli ultimi quindici anni, dopo la morte di Yitzhak Rabin, ha inseguito la destra sul suo terreno, omologandosi. In questa sinistra, nel Labour che è stato il partito della mia vita, non mi riconosco più. Per questo ho deciso di chiamarmi fuori, rassegnando le dimissioni anche da parlamentare. So che c’è chi, ai massimi livelli del Labour, mi indica come capo di una rivolta. Dicano ciò che vogliono, ma se interpretano un malessere diffuso tra militanti ed elettori della sinistra come “rivolta”, io mi onoro di essere un ribelle». A sostenerlo è Ophir Pines-Paz, già segretario generale del Partito laburista israeliano, ministro della Cultura nel passato governo guidato da Ehud Olmert. Una vita nel Labour. Incarichi di primo piano nel partito, importanti responsabilità di governo. Poi la decisione di smettere. Di lasciare il Labour, di dimettersi da parlamentare. «È stata una decisione sofferta, ma meditata a lungo. Semplicemente non mi sentivo più parte di una sinistra che nel corso di questi ultimi quindici anni ha smarrito il senso di sé, dei suoi valori originari, finendo per rincorrere la destra sul suo terreno». Quanto ha pesato nella sua decisione la scelta, fortemente voluta da Ehud Barak (leader del Labour e ministro della Difesa) di far parte del governo guidato da Benjamin Netanyahu?
«Diciamo che è stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Dopo il tracollo elettorale subito nelle ultime elezioni, il Labour e l’insieme delle forze di sinistra avrebbero dovuto aprire una riflessione seria, dolorosa, partecipata sulle ragioni di una sconfitta di queste proporzioni. Avremmo dovuto interrogarci sul venir meno del nostro radicamento sociale, su un malessere diffuso al quale abbiamo voltato le spalle».
Invece...
«Invece si è preferito imboccare la scorciatoia governativa, illudendosi che l’esercizio del potere riuscisse a mascherare un fallimento politico. In realtà, il Labour ha finito per essere subalterno ad una logica di governo che uccide ogni speranza di cambiamento».
Qual è la “logica” di Netanyahu?
«Quella di chi pratica un unico obiettivo: il mantenimento dello status quo. L’immobilismo “attivo” come strategia. Tutto il resto è in vendita».
E la sinistra?
«Ha ragione Sternhell nell’articolo pubblicato dal suo giornale: la sinistra è venuta meno alla sua identità costitutiva, finendo per essere subalterna ad un nazionalismo esasperato che ha finito per prevalere su altri elementi fondanti dello stesso pionierismo sionista: la giustizia sociale, la centralità di Medinat Israel (lo Stato d’Israele) rispetto a Eretz Israel (la Terra d’Israele), il rigetto di qualsiasi visione messianica del popolo d’Israele, una pace fondata sul principio di due popoli, due Stati e sul riconoscimento che la nostra sicurezza non può fondarsi sulla forza e sull’oppressione esercitata su un altro popolo. La sinistra ha rinunciato a immaginare il futuro, prigioniera di un eterno presente. Così ha smesso di essere un punto di riferimento per le giovani generazioni. Questa sinistra non appassiona, non scalda gli animi e le menti, questa sinistra non ha saputo, non ha voluto, tradurre in ebraico quel “Change”, Cambiamento, che è stata la parola chiave vincente di Barack Obama negli Stati Uniti».
Nel suo ex partito, c’è chi l’accusa di fomentare una ribellione... «Se riflettere su se stessi significa ribellarsi, allora dico di sentirmi orgoglioso di essere un ribelle».
Il leader del Labour, Ehud Barak, ha motivato la scelta di entrare nel governo con la necessità di bilanciare le destre di Netanyahu e Lieberman. «Una democrazia è tale se fa i cittadini possono scegliere liberamente programmi, progetti, valori alternativi. Non discuto le buone intenzioni di Barak. Dico che sono in pochi dentro e fuori Israele a riconoscergli questa opera di bilanciamento. Governare con una destra ultranazionalista aggressiva, portatrice di una concezione dell’ebraismo che sfocia nel razzismo, è un suicidio politico per la sinistra, un matrimonio contro natura inaccettabile, almeno per me». A proposito di Lieberman. Zeev Sternhell sostiene che il leader di Israel Betenu e attuale ministro degli Esteri, sia “l’uomo politico più pericoloso nella storia d’Israele”.
«Non so se sia il più pericoloso, di certo la sua politica, la sua ideologia sono agli antipodi di una politica vagamente progressista e democratica. Ciò che inquieta in Lieberman è il mix di autoritarismo, nazionalismo, mentalità dittatoriale che permea la sua politica. Quando Olmert decise di far entrare Lieberman nel governo, io mi dimisi. Era un atto dovuto».
Ma non seguito da Barak che oggi è partner di governo di “Avigdor il falco”. «Una scelta che non ho condiviso e che giudico perdente. Per la sinistra. Per Israele».

Repubblica 10.1.10
Con la musica di Mozart i bimbi crescono meglio
di Cristina Nadotti

Uno studio della scuola di medicina dell´Università di Tel Aviv conferma le virtù del compositore
Mozart rilassa e fa crescere i neonati molto meglio di Bach e Beethoven
Alcuni bambini nati prematuri sono aumentati di peso con le note del genio di Salisburgo

A SUON di musica verso le braccia della mamma, a patto che la musica di accompagnamento sia quella di Mozart. Una ricerca della Scuola di medicina dell´Università di Tel Aviv ha accertato che i neonati prematuri acquistano peso più velocemente se cullati dalle note del compositore austriaco. Non succede la stessa cosa con Bach o con Beethoven.
Per accelerare il processo fondamentale per il recupero dei neonati prematuri ci vuole proprio Mozart. Sulla rivista specializzata Pediatrics, i ricercatori spiegano come l´aumento di peso sia conseguenza dell´azione rilassante della musica e come quella di Mozart, in particolare, sia capace di far agitare meno i neonati, con conseguente rallentamento del metabolismo e riduzione del dispendio di energie.
Durante la ricerca, i medici hanno fatto ascoltare Mozart ai neonati per trenta minuti, mentre ne misuravano il dispendio di calorie. Hanno poi messo a confronto i dati ottenuti con la quantità di energie spese dai prematuri in condizioni standard, cioè senza musica, oppure durante l´ascolto di altri compositori. L´"effetto Mozart" è stato lampante, con una riduzione notevole delle calorie bruciate. «Supponiamo che le melodie ripetitive di Mozart agiscano sulla corteccia cerebrale - ha dichiarato il coordinatore della ricerca, Ronit Lubetzky, alle agenzie di stampa - perché abbiamo verificato come lo stesso effetto non si ottenga con musiche di Beethoven, Bach o Bartok, dall´andamento meno lineare di quelle di Mozart. Per avere una accurata spiegazione scientifica del fenomeno sono necessari altri studi, ma è già evidente la ricaduta di tale scoperta sul trattamento dei neonati prematuri. L´aumento del peso è essenziale per ridurre i tempi di permanenza in incubatrice e in ospedale - continua il pediatra - e la musica di Mozart è soltanto uno degli elementi che possiamo utilizzare per creare intorno ai bambini un ambiente più favorevole».
Ancora una volta, la serenità e le linee armoniose della musica classica per eccellenza del genio austriaco mostrano di avere effetti più ampi di quelli del puro godimento. La letteratura scientifica è ricca di studi sugli effetti benefici della musica per la riduzione dello stress e il rallentamento del battito cardiaco, ma una volta di più è stato dimostrato che tra le medicine musicali le "pillole di Mozart" sono le più efficaci. Un precedente studio su adulti colpiti da ictus aveva accertato che le composizioni di Mozart, più che quelle di altri autori, aiutavano a diminuire la frequenza di altri attacchi ischemici transitori. Qualche tempo fa, inoltre, ebbe grande risonanza uno studio secondo il quale sonate e sinfonie mozartiane diffuse nelle stalle aiutavano le mucche a produrre più latte.
Persone, animali e persino piante sono sensibili all´effetto calmante della musica di Mozart, visto che nel 2005 l´Università di Siena decise di accertare quanto affermava un produttore di vino, Giancarlo Cignozzi, convinto che i suoi vigneti producano uve migliori se tra i filari si diffondono le note della musica classica. Il migliore, affermava il viticoltore, è Mozart, anche se la compilation da vendemmia non disdegna Tchaikovsky.

Repubblica 10.1.10
Muti: "Italia tradisci le tue radici musicali colpa anche della tv"
Accardo gli dà ragione: i giovani sono mortificati
di Angelo Folletto

L´Italia ha abdicato alla sua storia musicale dimenticando che la musica è necessità dello spirito. È grave: è spezzare le radici della nostra storia
Ci sono trasmissioni televisive dove la musica, e soprattutto l´opera lirica, vengono presentate come obsolete. Così si respingono i giovani

MILANO - «L´Italia ha abdicato alla sua storia culturale, e musicale in particolare, a causa di una concezione generale della cultura che non riguarda solo i politici di oggi». Non ha mezze misure Riccardo Muti lanciando un nuovo, accorato allarme sulla situazione della musica italiana e al ritorno da un ciclo di concerti in Cina con l´Orchestra di Shanghai. Il paragone è impietoso. «In quella nazione - dice - stanno puntando sulla musica: si costruiscono nuove sale da concerto e si scommette culturalmente su ciò che noi italiani invece stiamo esaurendo, spezzando radici importanti della nostra storia». Il maestro non risparmia dalla critica la televisione, il più popolare mezzo di divulgazione. Ci sono, accusa Muti, «trasmissioni televisive dove la musica e soprattutto l´opera lirica, vengono presentate come cose obsolete; così si respingono i giovani invece di interessarli».
Giudizi pesanti che hanno subito trovato solidarietà e accordo nel mondo della musica. «Lo sfogo di Muti è pessimistico ma nemmeno troppo», gli fa eco il violinista Salvatore Accardo che punta il dito contro «la mancanza di educazione e l´ignoranza che accomuna gli schieramenti politici: in Italia in troppi non sanno cosa significa suonare uno strumento. Risultato? Si soffocano orchestre e piccole ma vitali istituzioni concertistiche, si mortificano i giovani, negando loro qualsiasi prospettiva professionale. Lo straordinario lavoro 30ennale di un musicista come Piero Farulli è un´anomalia italiana: frutto di coraggio e caparbietà individuale, al di fuori del sistema musicale nazionale».
«Sì, ha ragione Muti. In Italia c´è la rinuncia della classe dirigente a impegnarsi sulla musica». Lo dice il direttore della Scuola di Fiesole Andrea Lucchesini, che sta provando con ex-allievi il programma con cui oggi alla Torraccia si aprono i festeggiamenti per i 90 anni di Farulli. Ancor più allarmata è la diagnosi del direttore d´orchestra Roberto Abbado che vede nel disimpegno non solo un allontanamento dalla nostra storia ma «un´intenzionale mossa al ribasso culturale. Si rende difficile l´accesso alla conoscenza per far pensare sempre meno, per solleticare il fruitore solo con ciò che gli piace e non fatica a apprendere».
«La musica è necessità dello spirito non solo intrattenimento», ha incalzato Riccardo Muti mettendo sotto processo alcune «trasmissioni televisive». Certo, il plauso unanime che ha avuto la trasmissione di Fabio Fazio dedicata alla musica classica e alla Carmen scaligera lo scorso dicembre, ha sottolineato quanto siano una rarità dei nostri palinsesti cose di quel genere. Ma su questo non c´è un accordo unanime nel mondo della musica. Dice Roberto Abbado, fino a ieri sul podio dell´Orchestra della Rai: «Le trasmissioni dedicate alla registrazione dei concerti sono fatte molto meglio oggi. Per quello di Torino sono state usate più telecamere, regia e registrazioni audio perfezionati e adeguata confezione televisiva. La tv prova a creare un impatto più accattivante, modificando l´immagine rituale e statica del concerto. Io sono ottimista sulle prospettive della divulgazione musicale in tv. Mi viene in mente l´ottimo lavoro fatto sui bambini da Gran Concerto la trasmissione di Raffaella Carrà, la prima di questo genere fatta in Italia con regolarità. Ha funzionato, ora bisognerebbe pensare alle altre fasce d´età. Con musica, informazione e notizie: per rimettere in moto capacità e voglia di ascoltare la musica».