mercoledì 13 gennaio 2010

l’Unità 13.1.10
Sì alla Bonino
Schiarita nel Lazio, dove il Pd ha deciso ufficialmente di sostenere Emma Bonino: manca solo la formalizzazione, che ci sarà sabato col voto degli eletti all’assemblea regionale, ma a questo punto la minoranza ha smesso di chiedere il passaggio per le primarie.

Repubblica 13.1.10
Ok alla Bonino dal Pd del Lazio Nel Pdl fronda a Dambruoso
Puglia, stallo a sinistra. D´Alema: non ci capisco più nulla

Boccia: se passano le primarie, salta l´intesa con l´Udc e io ovviamente non sarò in campo
Riprende quota Vendola. I consi-glieri azzurri contro il magistrato can-didato governatore

ROMA In porto la candidatura della Bonino, nel Lazio: via libera della direzione regionale del Pd, neanche un voto contrario. Sabato il disco verde definitivo dell´assemblea. «Possiamo dar vita ad un nuovo inizio», è la speranza di Emma dopo l´incontro di ieri mattina con Bersani. In alto mare invece la soluzione del caso Boccia, in Puglia. Con il candidato del Pd che balla pericolosamente, e si decide perciò a lanciare un minaccioso ultimatum: «Se passano le primarie, io non sarò più in campo». Finisce che riprende quota la candidatura di Vendola. Caos a Bari, allora, tanto che perfino Massimo D´Alema che pure in Puglia è l´uomo che ha diretto le grandi manovre del Pd candidamente confessa «nemmeno io ci sto capendo nulla. Non so niente, non ho partecipato alle ultime riunioni». E quando i cronisti alla Camera gli chiedono se, invece, sarà presente sabato alla riunione decisiva, e cioè l´assemblea regionale che dovrà decidere se indire o meno le primarie, l´ex premier annuncia: «No, ci sarò venerdì...». Ovvero, il giorno della visita in Puglia del capo dello Stato Napolitano. Ma l´operazione del presidente della Fondazione Italianieuropei, l´accordo con l´Udc e il siluramento di Vendola, si fa ad alto rischio dopo le parole di Boccia che minaccia il ritiro dalla competition. E´ una corsa contro il tempo per recuperare, entro tre giorni, i voti necessari per sbarrare la strada alle primarie (servono i tre quinti dell´assemblea regionale, 82 dei 123 componenti). Le firme necessarie il segretario Blasi però ancora non le ha in tasca. E con un partito spaccato, rischiano di diventare decisivi i voti dei delegati di Emiliano, il sindaco di Bari protagonista anche lui del tormentone candidatura, alle prese con un nuovo rebus: a favore dei gazebo o contro? Se la cosa può consolare il centrosinistra, anche nel Pdl cominciano a partire i siluri contro la candidatura a governatore del magistrato Stefano Dambruoso: è un esterno al nostro partito hanno messo nero su bianco tutti i consiglieri regionali del centrodestra meglio un altro nome. Quale? Ecco, pronti, due fedelissimi del ministro Fitto, Distaso e Palese.
Ma escluso, per il momento, un faccia a faccia fra Bersani e Vendola, il centrosinistra è "incartato". Con un candidato presidente con un piede già sulla porta («alle primarie l´Udc non ci sta. E se viene meno l´alleanza con Casini, cade anche il senso del mio progetto»), ma con Area democratica che continua a chiedere di chiamare alle urne il popolo del centrosinistra. «Mi pare un´ipotesi ragionevole, vista l´incertezza che regna in Puglia», spiega Fioroni. E della stessa opinione resta la Bindi. Analogo braccio di ferro in Umbria, mentre in Campania una "storica" spaccatura fa sentire i suoi effetti: da una parte i bassoliniani, che intendono offrire la candidatura all´Udc (il rettore di Salerno, Pasquino), dall´altro i sostenitori di Vincenzo De Luca, il sindaco di Salerno, che vorrebbero lui in corsa. Situazione simile in Veneto, con il Pd diviso fra un proprio candidato (si parla di Bortolussi, segretario Confartigianato) e uno dell´Udc (De Poli). Nell´incertezza, Di Pietro si sfila: io in Veneto corro da solo.
(u.r.)


il Fatto 13.1.10
Cittadini in salita
Le mille fatiche degli extracomunitari per diventare italiani e una riforma civile che la Camera non riesce a discutere
di Vittorio d’Almaviva
Tredici anni di attesa. Un record europeo, se non addirittura mondiale. Lo straniero che aspiri a diventare
cittadino italiano è costretto a passare sotto queste scandalose forche caudine. Perché ai dieci anni di residenza legale obbligatoria per poter fare domanda di naturalizzazione, rispetto ai cinque degli Stati Uniti, della Francia, dell'Inghilterra, dei Paesi Bassi, della Svezia e della Finlandia, si aggiungono i tre anni di tempo medio burocratico per lavorare la pratica sino all'esito finale. Per questa ragione era ed è assolutamente urgente cambiare la legge 91 del 1992 che regola la cittadinanza, inviando così anche un segnale di distensione ai 4 milioni e mezzo di immigrati regolari, costretti oggi a vivere in un pesante clima di diffidenza. La Camera tuttavia ha deciso ieri sera, su proposta di Donato Bruno, presidente della Commissione Affari costituzionali (Pdl), di riportare il provvedimento dall'aula in commissione “per un ulteriore approfondimento”, rinviando così il confronto finale a dopo le elezioni. La maggioranza l’ha spuntata per 32 voti: l’opposizione si è schierata contro. Ma non è detto che il rinvio sia in assoluto una disgrazia. “Adesso gli animi sono troppo accesi e la Lega non cederà mai. Ad aprile il Pdl non avrà più alibi”, commen-
ta l’on. Andrea Sarubbi (Pd). “E’ molto meglio così, per non bruciare una grande opportunità che con pazienza si può costruire”, puntualizza il finiano Fabio Granata.
Granata e Sarubbi sono i firmatari della proposta bipartisan per ridurre da 10 a 5 gli anni di residenza legale, con tanto di verifica linguistica e giuramento sulla Costituzione. E soprattutto per concedere la cittadinanza alla nascita ai bimbi nati in Italia da famiglie straniere già integrate e ai minori nati all’estero ma che abbiano conseguito un titolo di studio in Italia: per sostenere la causa dello “jus soli” ieri è scesa in campo anche la Cei. Dopo le elezioni c’è la speranza di riportare alla ragionevolezza la componente “Forza Italia” del Pdl, che oggi è impegnata a gareggiare in xenofobia con il partito di Bossi. Tutto questo, naturalmente, a patto che la Lega non stravinca le regionali, altrimenti si rischierebbe di tornare al punto di partenza. Gli stranieri che sono regolarmente in Italia e pagano le imposte (in totale, secondo il Dossier Caritas 2009, versano 5,6 miliardi di euro fra tasse e contributi, una somma superiore agli introiti ottenuti con lo scudo fiscale) non avendo la cittadinanza italiana, si vedono esclusi da svariati benefici: non possono ad esempio accedere alla “social card” per le famiglie meno abbienti, né all’assegno sociale, e neppure ottenere il rimborso per l’acquisto di latte artificiale e di pannolini. Oltre a non godere, ovviamente, del diritto di voto attivo e passivo alle elezioni politiche. Tutti i principali paesi europei usano la naturalizzazione come uno strumento di integrazione. La stessa Germania, che per decenni ha pensato agli immigrati come a semplici “lavoratori ospiti”, ha ridotto a 8 anni il periodo di residenza obbligatoria per la cittadinanza: beninteso, senza poi costringere ad ulteriori attese burocratiche. Vero che il Regno Unito dopo i cinque anni di legge ora propone un “periodo di prova” da 1 a 3 anni, ma è altrettanto vero che persino la Grecia sta discutendo una riforma che dimezza a cinque anni la residenza obbligatoria, assieme a norme per contrastare severamente l’immigrazione clandestina. Un numero di anni un po’ più alto di cinque e più basso di dieci sarebbe un buon compromesso finale, secondo la professoressa Giovanna Zincone, studiosa di fama e autrice di numerosi libri sulla cittadinanza. Anche in Italia, comunque, negli ultimi anni è aumentato il numero delle naturalizzazioni. Nel 2004 ne erano state concesse appena 11 mila, nel 2008 siamo passati ad oltre 39 mila e nel primo semestre del 2009 abbiamo sfiorato quota 21 mila, che lascia prevedere un record di 42 mila nell’arco dei dodici mesi. Ciononostante, per naturalizzazioni restiamo soltanto al settimo posto in Europa, stigmatizza la Caritas: una classifica sproporzionata rispetto allo stock di immigrati regolari, che ci colloca già al terzo posto del continente dopo Germania e Spagna. Francia e Regno Unito hanno oggi meno stranieri, proprio perché questi diventano più agevolmente cittadini. C’è poi la vergogna dei tempi burocratici. In svariati casi i tre anni della media vengono sforati. E’ un dovere migliorare l’efficienza del servizio. Soprattutto dopo che, col pacchetto si-
curezza, si è deciso di far pagare 200 euro la domanda di cittadinanza. “Sarà dura fare grandi progressi – sospira una fonte del ministero dell’Interno –. L’intoppo sta nei pareri sul candidato cittadino da parte dei servizi segreti esterni (Aise, ex Sismi) e della polizia di prevenzione: non ce la fanno ad essere più veloci. E se scattano emergenze come la bomba di Reggio Calabria, le priorità diventano altre”.
La proposta Sarubbi-Granata ritorna in Commisione: si attendono
le regionali e il risultato della Lega.


il Fatto 13.1.10
Lavorano come bestie, vivono come bestie
di Elisa Battistini

S erve una rivolta come quella di Rosarno per accendere i riflettori su un fenomeno legato a doppio filo, da sempre, alla condizione degli immigrati stagionali. Soprattutto nel settore agricolo, soprattutto al sud. Secondo il rapporto “Una stagione all’inferno” realizzato da Medici Senza Frontiere il 72% degli immigrati impiegati in agricoltura è privo del permesso di soggiorno. La gran parte della “manovalanza”, quindi, è composta da lavoratori ricattabili per la loro posizione irregolare, quindi più facilmente sottoposti a condizioni di lavoro e vita disumane. Alessandra Tramontano, responsabile dei progetti di Msf per l’Italia, afferma che in Puglia, Campania, Sicilia e Calabria ha visto situazioni paragonabili solo ai campi profughi nelle zone di guerra africane. E non da ieri, ma dal 1999. Quando l’onlus ha avviato i programmi d’azione sanitaria per gli immigrati nelle regioni meridionali del nostro paese. Distribuendo kit di primo soccorso e contribuendo all’assistenza sanitaria di base. Di recente, Msf era passata proprio per Rosarno. Dove aveva distribuito anche coperte e saponi ai circa 2 mila stagionali nella Piana di Gioia Tauro. Gli stagionali, spiega la responsabile, sono come una popolazione “nomade” che si sposta dalla Sicilia dove raccoglie patate, alla Calabria per le arance alla Puglia per i pomodori alla Campania per le fragole. Si seguono le necessità delle coltivazioni. E nel frat-
tempo si vive come animali. Il 65% degli immigrati stagionali vive in strutture abbandonate, il 53% dorme per terra e solo il 20% in spazi regolarmente affittati. Con compensi che, come abbiamo “scoperto” nell’ultima settimana, arrivano a 25 euro al giorno quando va bene. Il 64% degli immigrati non ha accesso all’acqua potabile, il 62% non dispone di servizi igienici. Le condizioni di vita sono “al di sotto degli standard minimi di sopravvivenza– dice la Tramontano – quindi proliferano le malattie”. Sfatando un luogo comune decisamente errato, che immagina gli immigrati (soprattutto africani) come portatori di malattie, i rilevamenti di Msf raccontano l’opposto. Gli immigrati si ammalano qui. Il 76% di loro ha meno di 30 anni e arriva in Italia in salute. Nella più totale mancanza di igiene contrae infezioni all’apparato respiratorio (13%), che se cronicizzate portano a gravi complicazioni polmonari, malattie osteomuscolari (22%), pesanti gastriti (12%). Fino ad arrivare a casi si scabbia e tubercolosi.
Il 75% degli stranieri non accede ai servizi sanitari di base, neppure a quelli pensati (ai tempi della Turco-Napolitano) per gli irregolari, ovvero gli ambulatori Stp (per Stranieri temporaneamente presenti). Il 71% risulta privo di tessera sanitaria. Ma ci sono altre ragioni che spingono uno stagionale a non cercare assistenza: la paura di essere denunciati, l’assenza di ambulatori che applichino il codice Stp in molte regioni (ma la Puglia, lo scorso
anno, ha preso provvedimenti in materia) e la necessità di non perdere la paga giornaliera. Per quanto misera. “In Italia – chiosa il responsabile di Msf, Loris De Filippi – ci sono tante Rosarno. La crisi esiste da ormai dieci anni. Msf lavora nei contesti di guerra e molte zone del sud Italia, per gli stranieri, sono contesti di guerra. O di schiavismo. Perché quello che vediamo non è tanto dissimile alla realtà raccontata nel primo rapporto sui lavoratori agricoli al sud, del 1884. Sono cose che denunciamo da tempo. Fa riflettere che serva una Rosarno per parlare delle latrine a cielo aperto, delle tende igloo in cui si ammassano quattro o cinque persone, della barbarie a cui siamo arrivati”. Il rapporto di Msf, infatti, è precedente alla tragedia calabrese. E basta aprirne una
pagina a caso, per esempio quella relativa alla Campania, per leggere: “La Piana del Sele rivela un quadro scioccante, che mostra con crudezza il dramma di individui che, pur contribuendo all’economia locale, vivono in condizioni disumane”. Per non vederle, dopo la raccolta, spesso si sgombera. Accade a Rosarno. Ma è successo anche nel giugno del 2006 a Cassibile, nel siracusano. Dove dopo la raccolta delle patate un misterioso incendio rase al suolo l’accampamento degli stagionali. Che scappano. Impauriti dalla loro condizione di clandestinità. Con il risultato che, Rosarno a parte (la raccolta non è ancora finita), ci si assicura il “Pil” della stagione poi si fanno sparire le tracce di quella schiavitù contemporanea necessaria alla sua creazione. Un’ipocrisia che si commenta da sola.

il Fatto 13.1.10
Quando l’Africa
era davvero nera
non moriva di fame
Il colonialismo economico ha affamato il continente
di Massimo Fini
S ui fattacci di Rosarno anche la
stampa più bieca e razzista è stata costretta a prendere le parti degli immigrati (“Hanno
ragione i negri”, ha titolato il Giornale, 9/1), sfruttati fino all'osso per i famosi lavori che “gli italiani non vogliono più fare”, costretti a vivere in case di cartone e, come se non bastasse, presi anche a pallettoni. Ed è assolutamente ipocrita chiamarli “neri”, in linguaggio politically correct, come fa la sinistra se poi li si tratta da “negri” che è il senso ironico del titolo di Feltri. Quando però si analizzano le cause di queste migrazioni ormai bibliche, che portano a situazioni tipo Rosarno in Europa e negli Stati Uniti, la stampa occidentale resta sempre, e non innocentemente, in superficie. Si dice che costoro sono attratti dalle bellurie del nostro modello di sviluppo. Ora, no c'è immigrato che non possegga almeno un cellulare e che non sia in grado di avvertire chi è rimasto a casa di che “lacrime grondi e di che sangue” questo modello, per tutti e in particolare per chi, come l'immigrato, è l'ultima ruota del carro.
Si dice allora che costoro sono costretti a venire qui a fare una vita da schiavi a causa della povertà e della fame che strazia i loro Paesi. E questo è vero. Ma non si spiega come mai queste migrazioni di massa
sono cominciate solo da qualche decennio e vanno aumentando in modo esponenziale. In fondo le navi esistevano anche prima e pure i gommoni. Il fatto che gli immigrati di Rosarno siano prevalentemente provenienti dall'Africa nera ci dà l'opportunità di spiegarlo.
L'opinione pubblica occidentale, anche a causa della disinformatia sistematica dei suoi media, è convinta che la fame in Africa sia endemica, che esista da sempre. Non è così. Ai primi del Novecento l'Africa nera era alimentarmente autosufficiente. Lo era ancora, in buona sostanza (al 98%), nel 1961. Ma da quando ha cominciato ad essere aggredita dalla pervasività del modello di sviluppo industriale alla ricerca di sempre nuovi mercati, per quanto poveri, perché i suoi sono saturi, la situazione è precipitata. L'autosufficienza è scesa all'89% nel 1971, al 78% nel 1978. Per sapere quello che è successo dopo non sono necessarie le statistiche, basta guardare le drammatiche immagini che ci giungono dal Continente Nero o anche osservare a cosa siano disposti i neri africani, Rosarno docet, pur di venir via.
Cos'è successo? L'integrazione nel mercato mondiale ha distrutto le economie di sussistenza (autoproduzione e autoconsumo) su cui quelle popolazioni avevano vissuto, e a volte prosperato, per secoli
e millenni, oltre al tessuto sociale che teneva in equilibrio quel mondo (come è avvenuto in Europa agli albori della Rivoluzione industriale quando il regime parlamentare di Cromwell, preludio della democrazia, decretò la fine del regime dei “campi aperti” (open fields), cosa a cui le case regnanti dei Tudor e degli Stuart si erano opposte per un secolo e mezzo, buttando così milioni di contadini alla fame pronti per andare a farsi massacrare nelle filande e nelle fabbri-
che così ben descritte da Marx ed Engels). Oggi, nell'integrazione mondiale del mercato, nella globalizzazione, i Paesi africani esportano qualcosa ma queste esportazioni sono ben lontane dal colmare il deficit alimentare che si è venuto così a creare. E quindi la fame.
Senza per questo volerlo giustificare il colonialismo classico è stato molto meno devastante dell'attuale colonialismo economico. Fra i due c'è una differenza sostanziale, di qualità. Il colonialismo classico si limitava a conquistare territori e a rapinare materie prime di cui spesso gli indigeni non sapevano che farsi, ma poiché le due comunità rimanevano separate e distinte poco cambiava per i colonizzati che, a parte il fatto di avere sulla testa quegli stronzi, continuavano a vivere come avevano sempre vissuto, secondo la loro storia, tradizioni, costumi, socialità, economia.
Il colonialismo economico, invece, ha bisogno di conquistare mercati e per farlo deve omologare le popolazioni africane (come del resto le altre del cosiddetto Terzo Mondo) alla nostra way of life, ai nostri costumi, possibilmente anche alle nostre istituzioni (la creazione dello Stato, per soprammercato democratico o fintamente democratico, ha avuto un impatto disgregante sulle società tribali), per piegarle ai nostri consumi. In Africa si vedono neri con i RayBan (con quegli occhi!) e il cellulare, che costano niente, ma manca il cibo. Perché il cibo non va dove ce n'è bisogno, va dove c'è il denaro per comprarlo. Va ai maiali dei ricchi americani e, in generale, al bestiame dei Paesi industrializzati, se è vero che il 66% della produzione mondiale di cereali è destinato alla alimentazione degli animali dei Paesi ricchi (dato Fao). E adesso ci si è messa anche la Cina, new entry in questo gioco assassino, che compra, con la complicità dei governanti corrotti, intere regioni dell'Africa nera la cui produzione, alimentare e non, non va ai locali, sfruttati peggio degli immigrati di Rosarno, ma finisce a Pechino e dintorni. Ma l'invasione del modello di sviluppo egemone ha anche ulteriori conseguenze, quasi altrettanto gravi della fame. Sradicati, resi eccentrici rispetto alla propria stessa cultura che è finita nell'angolo, scontano una pesantissima perdita di identità. A ciò si devono le feroci guerre intertribali cui abbiamo assistito, con ipocrita orrore, negli ultimi decenni. Perché le guerre in Africa, sia pur con le ovvie eccezioni di una storia millenaria, avevano sempre avuto una parte minoritaria rispetto alla composizione pacifica fra le sue mille etnie (J.Reader, “Africa”, Mondadori, 2001). E così fra fame, miseria, guerre, sradicamento, distruzione del loro habitat, costretti a vivere con i materiali di risulta del mondo industrializzato (si vada a Lagos, a Nairobi o in qualsiasi altra capitale africana) i neri migrano verso il centro dell'Impero cercandovi una vita migliore. O semplicemente una vita. E i nostri “aiuti”, anche quando non sono pelosi, non solo non sono riusciti a tamponare il fenomeno della fame e della miseria, in Africa e altrove, come è emerso dal recente vertice della Fao tenuto a Roma, ma l'hanno aggravato perché tendono ad integrare ulteriormente le popolazioni del Terzo Mondo nel mercato unico mondiale, stringendo così ancor di più il cappio intorno al loro collo. Alcuni Paesi e intellettuali del Terzo Mondo lo avevano capito per tempo. Una ventina di anni fa, in contemporanea con una delle periodiche riunioni del G7 (allora c'era ancora il G7), i sette Paesi più poveri del mondo, con alla testa l'africano Benin, organizzarono un polemico controsummit al grido: “Per favore non aiutateci più!”. Ma non vennero ascoltati.

il Fatto 13.1.10
Detenuti ammassati nelle celle, persino Alfano se ne è accorto
di Silvia D’Onghia
Alla fine se n’è accorto persino il ministro della Giustizia, Angelino Alfano: la situazione delle
carceri richiede provvedimenti di emergenza. Tanto che oggi il Guardasigilli porterà in Consiglio dei ministri il suo “piano”, “confidando” che i colleghi comprendano la gravità del momento. Un piano, per la verità più volte annunciato, che dovrebbe vertere su tre punti: un incremento dell’edilizia penitenziaria che porti la capienza a 80 mila posti (dagli attuali 43 mila disponibili); riforme di accompagnamento, che “atterranno il sistema sanzionatorio e riguarderanno coloro che devono scontare un piccolo residuo di pena” (possibile ricorso a misure alternative come gli arresti domiciliari); un aumento di organico di “oltre duemila unità” nella polizia penitenziaria. “Dobbiamo immaginare – ha annunciato Alfano – una strada diversa rispetto a quella percorsa in questi 60 anni di storia repubblicana che ha sempre fatto i conti con l’emergenza nelle carceri, con il sovraffollamento individuando sempre la stessa risposta: provvedimenti di amnistia e indulto”. Tanto per rispondere ai Radicali che, per bocca di Rita Bernardini, continua-
no a chiedere un’amnistia come base per risolvere il problema della giustizia. Bernardini ha però ieri incassato un risultato importante: la Camera ha approvato 12 dei 20 punti della mozione, presentata assieme ad altri 92 deputati, che impegna il governo ad un’ampia riforma del sistema carcerario. Via libera, per esempio, alla riduzione dei tempi di custodia cautelare per i reati meno gravi, ad una reale protezione del detenuto, al rafforzamento delle misure alternative, all’attuazione del principio di territorialità della pena, all’adeguamento degli organici del personale penitenziario. “Sappiamo che quando si strappa un contratto, poi bisogna lottare per farlo attuare – commenta la deputata radicale – dobbiamo fare la stessa cosa con quanto abbiamo strappato oggi. Quanto al piano carceri, il governo continua a non rispondere su questioni fondamentali. Il personale è già carente con l’attuale numero dei detenuti, figuriamoci per un numero superiore. Inoltre, girando per le carceri, ho visto io stessa interi reparti nuovissimi chiusi per mancanza di personale penitenziario. Poi non capiamo perché si devono costruire nuovi istituti se si pensa a misure alternative”.
Oltre tutto i duemila agenti in più annunciati da Alfano, che si è guardato bene dallo specificare i tempi di questi ingressi, sono già meno di quanti ne occorrerebbero oggi.
“Siamo sotto di 6.000 persone – commenta il segretario generale del sindacato Sappe, Donato Capece – speriamo che il Consiglio dei ministri licenzi un provvedimento che vada ben oltre il numero annunciato dal Guardasigilli, di cui comunque apprezziamo la volontà”. Giudizio cautamente positivo dalla Uilpa Penitenziari: “E’ un impegno politico concreto che va nella direzione che avevamo chiesto – afferma il segretario generale, Eugenio Sarno – ora ci aspettiamo di poter scrivere insieme, come lo stesso ministro aveva annunciato tempo fa, il piano carceri”. L’annuncio della costruzione di nuovi istituti però non convince molti, a cominciare dall’ex segretario del Pd Da-
rio Franceschini, che in aula ha chiesto al governo di “non abusare dello strumento d’ordinanza al posto dei normali provvedimenti legislativi”. Più duro ancora Patrizio Gonnella, presidente di Antigone: “Se l’emergenza significa secretare le gare d’appalto, affidandole al capo del Dap come commissario straordinario, non seguire le regole pubbliche, ma andare in trattativa privata, allora è meglio non fare il piano carceri. Il ministro ha poi sparato numeri a caso: se è bravissimo, entro un anno con le risorse a disposizione riesce al massimo ad avere 5 mila posti in più”. Un solo elemento positivo: la presa di coscienza”.
Che speriamo non diventi uno spot elettorale.

martedì 12 gennaio 2010

l’Unità 12.1.10
Il segretario Pd risponde alla minoranza che insiste sulla necessità di passare per i gazebo
Regionali Oggi il via libera alla Bonino per la sfida alla Polverini. Ultimatum di Boccia in Puglia
Bersani: «Le primarie? Opportunità non obbligo»
di Simone Collini

Bersani: «Il partito non è un notaio che stila solo regolamenti». Oggi incontra Bonino e Di Pietro. Ultimatum di Boccia: «Si scelga se fare l’alleanza con l’Udc o fare senza. Nel primo caso ci sono, nel secondo no».

Le primarie? «Sono un’opportunità, non un obbligo». Pier Luigi Bersani mette un freno alle richieste della minoranza interna per organizzare le primarie nel Lazio, in Puglia e in Umbria. È soprattutto nella prima delle tre regioni che il passaggio per i gazebo viene giudicato inopportuno dal segretario Pd. Perché se è vero che a decidere come procedere saranno «le assemblee regionali» e se è vero che bisogna «privilegiare la messa in campo di candidature forti» («abbiamo buone occasioni e dobbiamo coglierle») è anche vero che tra queste tre regioni ancora in alto mare per quel che riguarda la scelta del candidato, il Lazio si distingue per un motivo ben preciso: «Qui la destra è già in campo», sottolinea Bersani facendo riferimento alla campagna elettorale di Renata Polverini già partita in quarta. E quindi conviene privilegiare «immediatezza ed efficacia». Anche perché, fa notare il segretario a quanti si appellano allo statuto, «il partito non è un notaio che stila solo regolamenti per le primarie».
VIA LIBERA ALLA BONINO
Così oggi l’assemblea del Lazio, su proposta del segretario regionale Alessandro Mazzoli, deciderà di sostenere alle prossime regionali Emma Bonino, definita di nuovo da Bersani una «fuoriclasse». I delegati della minoranza che fa capo a Franceschini e di quella che fa capo a Marino daranno il via libera ma insisteranno ancora per le primarie (e anzi Michele Meta, a nome dell’area Marino, chiede anche la convocazione della Direzione nazionale per discutere l’intera vicenda). O però, con un colpo di scena, metteranno in campo un candidato alternativo che vada alla sfida, oppure la richiesta si tramuterà al massimo in una consultazione “confermativa” della leader radicale tra iscritti e votanti del Lazio alle primarie di ottobre.
Bersani non intende rompere con la Bonino, contraria alle primarie. Ma al segretario Pd non sfugge che un modo per trasformare quella che è soltanto dei Radicali in una candidatura dell’intera coalizione va trovato. Ne discuterà con la diretta interessata questa mattina. Bonino, si domandano infatti anche i Democratici più convinti nel sostenerla, si candiderà a capo della lista radicale o a capo di un listino del presidente, con dentro una decina di nomi rappresentativi di tutto lo schieramento? Dovesse seguire la prima strada, è il ragionamento che fanno al Nazareno, sarebbe tutt’altro che fugato il dubbio che il suo obiettivo prioritario sia la crescita dei consensi per i Radicali. Il nodo andrà sciolto entro breve. Anche perché ci sono altri alleati pronti a fare la loro parte ma ancora fermi sul chi va là. Come l’Italia dei valori.
Antonio Di Pietro dice che non ci sono «preclusioni» ma anche che non intende dare «cambiali in bianco al Pd». E già sono volate scintille con la Bonino, per la quale l’ex pm «parla un po’ a vanvera di liberismo». Bersani oggi vedrà anche il leader dell’Idv per tentare di cancellare ogni fibrillazione.
RESA DEI CONTI IN PUGLIA
Fibrillazioni che scuotono il Pd pugliese. L’assemblea regionale che dovrebbe decidere se candidare Francesco Boccia senza passare per le primarie, prevista per ieri, è saltata. È stata convocata per sabato, con quest’avvertenza: i delegati saranno chiusi una stanza inaccessibile agli esterni, che potranno seguire i lavori da un maxischermo. Una decisione presa pensando a quanto accaduto l’ultima volta (la presenza di sostenitori di Vendola in sala ha fatto interrompere l’assemblea) e che la dice lunga sul clima. Che non piace a Boccia: «Il Pd scelga se fare l’alleanza con l’Udc o presentarsi senza dice rivolto soprattutto a chi chiede le primarie sapendo che i centristi sono contrari nel primo caso io sarò il candidato, nel secondo non mi interessa».
E Rosy Bindi, che nei giorni scorsi era espressa a favore delle primarie anche in questa regione, dice che rispetterà «qualunque decisione prenderà il Pd» e che se primarie saranno, lei sosterrà Boccia.❖

Repubblica “12.1.10
Niente primarie dove c´è il candidato Pdl"
Bersani: opportunità, non vincolo. Protesta la minoranza. Prc: no alla Bonino
Emiliano: in Puglia siamo in un vicolo cieco. Il segretario Pd oggi incontra la leader radicale

ROMA - Nelle regioni dove il candidato della destra è già in campo, è meglio «privilegiare l´immediatezza e l´efficacia della scelta». Lo dice il segretario pd Bersani, e significa: niente primarie, sicuramente nel Lazio, e via libera alla Bonino. Mettere in moto adesso la macchina dei gazebo, con la Polverini già in piena campagna elettorale, sarebbe insomma una partenza con il freno a mano tirato per il Pd. Una constatazione di principio, «le primarie sono un´opportunità e non un obbligo», e anche pratica, quella di Bersani. Ma, anche, una risposta all´opposizione interna, che vorrebbe chiamare ovunque alle consultazioni il popolo del centrosinistra. L´ultima parola, comunque, l´avranno i vertici regionali. Oggi tocca a quello del Lazio, mentre si terrà forse sabato prossimo l´assemblea in Puglia, sospesa dopo la bagarre fra i sostenitori di Vendola e quelli di Boccia. E rinviata a domani in Umbria, la terza spina per il Pd, la riunione della commissione di garanzia sul ricorso di Agostini contro la ricandidatura della Lorenzetti: due componenti dell´organismo sono stati infatti ricusati.
Nel Lazio la Bonino, che oggi incontrerà Bersani, sembra ad un passo dall´investitura ufficiale, anche se ancora resiste alla nomination una parte dei cattolici democratici. Con la minoranza interna che insiste nel chiedere le primarie. Le vuole il veltroniano Stefano Ceccanti, che ricorda: a norma di statuto sono obbligatorie. E Ignazio Marino invoca una riunione della direzione nazionale per affrontare il nodo, «alle primarie o ci crediamo a no». Ma Bersani circoscrive così i confini della contesa: «Il partito non può essere un notaio che si limita a stilare il regolamento delle primarie. Adesso dobbiamo privilegiare la messa in campo di candidati forti. Abbiamo buone occasioni e dobbiamo coglierle». A cominciare dal Lazio, dove il segretario ribadisce che la Bonino «è una fuoriclasse». E nelle altre regioni, un puzzle lento e confuso? Bersani è convinto di no, ricorda che c´è tempo fino al 20 febbraio per scegliere i candidati, e che in 8-9 regioni «c´è anche un significativo avanzamento». Ovvero, aperture all´Udc. E il caso Puglia? «Stiamo cercando di mettere insieme uno schieramento il più competitivo possibile». Casini però minaccia: appoggiamo solo Boccia, «oppure ci metto un minuto a fare un altro numero di telefono». Ovvero, passare col Pdl. Emiliano constata: «Siamo in un vicolo cieco». L´aspirazione pd resterebbe candidare Boccia («non è una corrida fra me e Vendola», dice lui), senza rinunciare a "Sinistra e Libertà", ma Nichi non cede: o le primarie o mi ricandido.
E infatti si apre un nuovo fronte con la sinistra. Sulla Bonino arriva il no di Rifondazione. «Mi sembra un regalo del Pd a Fini - boccia il segretario Paolo Ferrero - . Su certi temi sociali non so chi sia più a destra, tra lei e la Polverini». Con la minaccia di scendere in campo con candidati della sinistra radicale in regioni-chiave come Lazio, Campania, Puglia e Calabria. E in Lombardia, dove il candidato del Pd è Filippo Penati, capo della segreteria di Bersani. Anche Antonio Di Pietro avverte che su Bonino è pronto al confronto ma «senza cambiali in bianco», ricordando l´appoggio dei radicali all´abolizione dell´articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Dalla Bonino, pronta replica: «Quando Di Pietro parla di liberismo mi sembra che parli anche un po´ a vanvera».
(u. r.)

Repubblica “12.1.10
Pd, l´agonia dadaista della primavera pugliese
Il tramonto del laboratorio Puglia la guerra balcanica che scuote il Pd
di Curzio Maltese

Boccia: "Con Nichi la sinistra da bere" Vendola: "Io vado avanti e farò pure il martire"
Lo scrittore Carofiglio: "Di questo passo le elezioni saranno un evento dadaista"

TUTTE le piste dell´inguacchio pugliese, come lo chiamano qui, per dire di un inciucio andato male, portano a lui, la volpe del Tavoliere, il leader Massimo.
Magari capiva più di politica estera che non d´Italia e forse non ci libererà mai da Berlusconi. In compenso, nel far fuori chiunque gli possa fare ombra nel centrosinistra, D´Alema è sempre infallibile. Uno dopo l´altro, Prodi e Cofferati, Veltroni e Rutelli. Liquidata la pratica nazionale, è tornato nelle sue terre e in un mese ha schiantato i due miti locali, Michele Emiliano e Nichi Vendola. In cambio, s´intende, di un grande disegno. Il professor D´Alema aveva deciso che nel laboratorio pugliese dovesse nascere la nuova creatura del centrosinistra. Un mostro invincibile e un po´ Frankenstein, con dieci partiti, una gamba di Casini qua, un braccio di Di Pietro là, un piede comunista e uno ex fascista, innestati sul corpaccione inerte del Pd. Ma il colpo di fulmine che doveva animarlo non è arrivato. Così l´inventore è ripartito sul destriero per Roma, lasciando il fido assistente Nicola Latorre a fronteggiare incendi e forconi. E l´incendio avanza, dilaga. «Al posto del nuovo centrosinistra allargato, si rischia di avere la spaccatura nel Pd, a Bari come a Roma», commentano allarmati i militanti. Di ora in ora s´incarognisce la battaglia fra i candidati, che alla fine potrebbero essere quattro. Due nel centrosinistra, Nichi Vendola e Francesco Boccia, e due a destra, Antonio Distaso, candidato ufficiale del Pdl, e la finiana Adriana Poli Bortone. «Di questo passo» è la sintesi dello scrittore Gianrico Carofiglio «le elezioni di marzo si presentano come un evento dadaista».
Chi avrebbe mai potuto immaginare una simile triste fine per la primavera pugliese. I fatti non contano più nulla. Bari la stanno ammazzando il pettegolezzo e le televisioni. Da un anno la città sta sulle prime pagine per storie di malaffare e cocaina, escort e appalti, e parentopoli. Alla fine gli stessi pugliesi vi si specchiano. Eppure, al netto di scandali tutti ancora da dimostrare, di processi da celebrare chissà quando, Bari e la Puglia rimangono agli occhi di chi arriva l´unico pezzo d´Europa a sud di Roma, l´unica area meridionale non riducibile a una Gomorra di rifiuti, mafie, frane, rivolte, collasso sociale. Lo sanno tutti, a destra e a sinistra. Lo dicono le statistiche, gli indicatori di crescita per cui la Puglia è seconda alla sola Lombardia. Lo vedono gli inviati sull´eterno «caso Bari» come i trecento clandestini sbarcati l´altro giorno dall´inferno di Rosarno nel lindo aeroporto di Palese.
Non si capisce allora la ragione di questa guerra balcanica nel centrosinistra. Se non appunto per via della condanna a essere il «laboratorio della politica nazionale». «Un´antica iattura - commenta il sociologo Franco Cassano - Dai tempi di Aldo Moro, giù fino al pentapartito e ora a questa vicenda. È chiaro che la partita era nazionale. Era il segnale di un ritorno al primato dei partiti. Basta Vendola e basta pure Emiliano. Basta con le primarie, che qui in Puglia sono nate, almeno quelle vere. Basta con la cosiddetta società civile. La ricreazione è finita. Un progetto coloniale che qui ha sempre fallito e che considero sbagliato. Ma al quale si potrebbe riconoscere una dignità se almeno fosse stato chiaramente esposto. Invece si è andati avanti a colpi di vertici segreti, trovate tattiche. Il risultato è lo scoppio del laboratorio. Ora se il centrosinistra vuole salvare la faccia deve fare una veloce retromarcia e tornare alle primarie». Primarie, primarie ripetono gli intellettuali pugliesi, ma anche la gente al mercato. E ormai le primarie le vuole anche mezzo Pd romano. «Perché sono nello statuto del partito» ricorda la presidente Rosy Bindi. «Ma prima ancora sono iscritte nel senso comune» aggiunge un pugliese ormai romanizzato come il produttore di cinema Domenico Procacci. La pressione è forte e ieri i delegati dell´area Emiliano, entrati in assemblea per votare a favore di Boccia, sono usciti dicendo «primarie». Nell´imbarazzo dello stesso sindaco Emiliano, che di imbarazzi ne ha avuti e ne ha procurati molti in tutta la vicenda, compresa l´impronunciabile richiesta di una legge ad personam per candidarsi alla Regione.
A opporsi è rimasto quasi soltanto Francesco Boccia, che sui manifesti a favore delle primarie ironizza pesante: «La solita sinistra da bere che Vendola si è conquistato con le consulenze in regione. Fare le primarie oggi significa perdere subito l´Udc, quindi il progetto di nuova alleanza». Ma intanto le centinaia di giovanissimi volontari che lavorano per Vendola non hanno l´aria da salotto, le migliaia di messaggi sui web non li paga la Regione. Gli strateghi hanno molto sottovalutato il fenomeno Vendola, che è mediatico prima che politico. Il compagno Nichi è un combattente. L´aveva annunciato fin dalla prima riunione con D´Alema: «Se credete di farmi fuori o che io mi faccia da parte, vi sbagliate. Io vado avanti, farò il martire. Che alla fine, paga sempre». E l´ha fatto benissimo, il martire dell´orrida casta politica, soprattutto in televisione da Santoro. Oggi paradossalmente sembra lui, il governatore uscente, il capo della rivolta contro il palazzo. Vendola ha dalla sua argomenti popolari e contro di lui veti incomprensibili. Perchè alla fine non lo vogliono più? Perché Casini, che pure gli testimonia grande stima personale, non vuole Vendola? Perché è gay? Perché è comunista? Oppure perché non vuole privatizzare l´acquedotto pugliese, magari al gruppo Caltagirone? Perché i dipietristi non lo vogliono? Perché non ha cambiato la sanità pugliese? Ma in procura negano di avere nulla a carico del governatore. «Tranne un´intercettazione dove cercavo di "raccomandare" come primario un ex docente di Harvard, vedi che colpa» dice l´interessato. Non sarà allora perché non ha mai dato un assessore all´Idv in giunta? Sospetti, dietrologie. «Le solite fesserie dei giustizialisti» liquida Nicola Latorre. E magari sarà vero. Ma vi sarebbero meno sospetti e dietrologie se il Pd avesse messo in campo un criterio chiaro. Le primarie vanno bene per eleggere il segretario regionale e quello nazionale, ma non per il candidato governatore. L´alleanza con l´Udc è irrinunciabile in Puglia, ma era facoltativa nel Lazio. Non si capisce neppure chi comandi oggi nel Pd, se D´Alema o Bersani, che nella vicenda pugliese, dove il partito si gioca la faccia, non s´è ancora mai visto. Oppure magari comanda Casini, tecnicamente segretario di un altro partito, o forse nessuno. L´unica cosa certa è che il laboratorio è fallito e qualcuno deve prenderne atto. Tira aria di ritirata strategica. Il primo a fiutarla è stato Antonio Di Pietro, che ora è pronto a tornare sul nome di Vendola: «Lui o un altro, ma in fretta. O ‘sto candidato lo vogliamo scegliere dopo l´elezioni?»

l’Unità 12.1.10
DONNE
Nasce «Pari e dispare» La leader radicale presidente onoraria

ROMA «In Italia si nasce pari e si cresce dispare. Non può essere una maledizione geografica, la “nuvoletta” di Villaggio. È avvenuto per meccanismi culturali e tradizionali che poi sono diventati politici ma che si possono cambiare». Emma Bonino interviene alla presentazione a Roma del «Comitato Pari o Dispare», un’authority contro le discriminazioni di genere presentata ieri di cui la leader radicale è presidente onorario. «Qui in questa sala in molte ce l’abbiamo fatta. Se ci mettiamo insieme è possibile ottenere dei risultati. Tutti? Non lo
so, però vale la pena provare. Oggi la cura dei figli e dei malati è sulle spalle delle donne che hanno poco accesso al mondo del lavoro perché di lavori ne hanno fin troppi. Ci batteremo attraverso questo Comitato per il riconoscimento dei meriti». Il comitato è stato presentato nella sede dell’Enciclopedia Italiana, alla presenza del suo presidente Giuliano Amato. A presiederlo è l’economista Fiorella Kostoris, mentre alla Bonino è stata riservata la presidenza onoraria. La candidata alla presidenza della regione Lazio ha annunciato che «entro febbraio, a Milano, si terrà un convegno sugli stereotipi di donne proposti dai media, che ghettizzano e umiliano le donne e la nostra intenzione è quella di far nascere un Osservatorio in tal senso».

l’Unità 12.1.10
Oliviero Toscani
Il fotografo si candida in Toscana coi Radicali: chiedo appoggio al Pdl

FIRENZE «Io sono il candidato dei Radicali. Ho proposto al Pdl di appoggiarmi e così ci sarebbe davvero il rischio di vincere e di battere la sinistra, che qui governa da oltre 60 anni». Lo ha detto Oliviero Toscani, durante l’incontro organizzato per presentare la sua candidatura a presidente della Regione Toscana.
«Ci sono stati dei contatti e ne ho parlato con il ministro Matteoli», ha aggiunto Toscani. «A breve ci sarà una decisione, forse anche nel giro di 48 ore. Io corro per vincere. Se il Pdl deciderà di non appoggiarmi, potrei anche decidere di non correre».

l’Unità 12.1.10
Un «polo nero» per Polverini. Ed Emma fa paura al Pdl

È un vero e proprio “polo nero” quello che sta nascendo per sostenere la candidatura di Renata Polverini alla presidenza del Lazio. Un blocco che non si limiterà alla Destra di Francesco Storace, Teodoro Buontempo e Adriano Tilgher, ma che vedrà al fianco della segretaria dell’Ugl anche la Fiamma Tricolore di Luca Romagnoli e il Movimento per l’Italia di Daniela Santanchè. Si tratta di un’operazione politica ideata dal coordinatore del Pdl Denis Verdini che, oltre ad essere amico della ex deputata di Alleanza nazionale, vuole soprattutto evitare di lasciare spazio ad altre liste alla destra della coalizione. Per ora l’unica forza politica esclusa dall’apparentamento è Forza Nuova di Roberto Fiore, ma in maggioranza non si escludono tentativi anche in quella direzione. La conquista del Lazio è evidentemente considerata un fine che giustifica molti mezzi, non esclusi quelli che sono a disposizione del presidente del Consiglio. Ed ecco la decisione di nominare, in uno dei prossimi consigli dei ministri, Daniela Santanchè sottosegretario. Questo per darle maggiore visibilità in vista delle elezioni. Il matrimonio con Luca Romagnoli e Fabio Sabbatani Schiuma servirà poi a fornire al Movimento per l’Italia quel minimo di organizzazione indispensabile per formare le liste nel Lazio.
Il ritorno della Santanchè non piace molto a Gianfranco Fini (che invece è apparso meno freddo a proposito della riammissione della Destra di Storace). Ma piace a Verdini e al Cavaliere che
l’hanno caldeggiato in tutti i modi. Forse sottovalutando una serie di controindicazioni. A quanto pare, infatti, in questa prima fase della campagna elettorale si sono visti al fianco di Renata Polverini solo militanti di area post-missina. Un’area che a Roma è tradizionalmente forte, ma che certo non basta a compattare l’intero elettorato favorevole al governo.
E, infatti, Emma Bonino comincia a suscitare preoccupazioni nel Pdl. Giorni fa un parlamentare proveniente da Forza Italia faceva notare che la leader radicale può raccogliere molti consensi tra gli elettori del centrodestra. Preoccupazione che, lo scorso 6 gennaio, è stata espressa in una nota ufficiale dal capogruppo del Pdl Fabrizio Cicchitto. ❖

l’Unità 12.1.10
Gli immigrati non servono I soldi arrivano lo stesso
La Ue dà rimborsi per ettaro, non sulla produzione. Così si arricchiscono le ’ndrine
Un chilo di agrumi raccolto costa 8 centesimi. Chi lo compra lo paga 5 centesimi
di Roberto Rossi

Che cosa è la Pac
La Politica Agricola Comunitaria impegna il 44% del bilancio

Il passaggio
Dal 2007 i rimborsi Ue non sono più legati alla produzione

Gli aiuti comunitari hanno impedito la ristrutturazione della filiera. Mentre la frutta proveniente da Marocco, Spagna e Brasile, ha fatto crollare il prezzo finale (a 25 centesimi). In mezzo la Calabria.

Nella Piana di Gioia Tauro, quella degli agrumeti, la differenza tra la vita o la morte, tra la permanenza o la fuga, per tremila immigrati africani la fanno tre centesimi di euro. È lo scarto che corre tra il costo e il ricavo nella produzione di arance e clementine. Tra quello che si spende di manodopera per la raccolta e quello che si guadagna, invece, con la trasformazione. Ed è la ragione ultima della caccia al nero, gestita e coordinata dalle famiglie mafiose locali, avvenuta per le strade e le campagne di Rosarno la scorsa settimana.
PAC
Per spiegare le origini di un linciaggio di massa bisogna partire dal lontano. Dal Lussemburgo, per la precisione, a 2000 chilometri dalla Calabria. Nel Granducato, nel giugno del 2003, la Commissione Ue
decide di riformare la Politica agricola comune (o Pac). Si tratta del sistema con il quale l’Europa finanzia e aiuta il settore agricolo. È una delle politiche comunitarie più importanti, impegna il 44% del bilancio, prevede centinaia di miliardi in sussidi in tutto il continente, dei quali quasi trenta in Italia. In questo quadro all’interno del pacchetto di «politica di sviluppo rurale per il periodo 2007-2013», l’Unione europea apporta alcune modifiche al sistema di aiuti all’agricoltura. Uno di questi è il sostegno agli agricoltori in base al numero di ettari coltivati e non in base alla produzione. In sostanza se prima si finanziavano i chili, oggi gli aiuti sono a metro quadro.
La riforma entra a regime nel 2007. Nel caso di Rosarno, dove si coltivano agrumi, l’Europa concede 800-1200 euro per ogni ettaro di terreno. La differenza sta nel tipo di coltivazione. 800-1200 euro, dunque, vanno in mano all’agricoltore solo per il possesso del terreno. Non conta poi se quel terreno dà frutti. Conta l’estensione dell’appezzamento.
FUORI STAGIONE
A che servono allora gli immigrati che da oltre 20 anni stagionalmente arrivano in quelle terre? A nulla. Tanto più che produrre agrumi ora non conviene più. Se da una parte gli aiuti comunitari hanno impedito la ristrutturazione della filiera, dall’altra la frutta proveniente dal Marocco, Spagna, Brasile, ha fatto crollare il prezzo finale (a 25 centesimi). Il risultato? In Calabria per la trasformazione delle clementine i produttori prendono cinque centesimi. Per la raccolta ne spendono otto.
Tre centesimi di differenza che segnano il destino degli immigrati. «Gli africani un tempo spiega Antonino Calogero della Flai Cgil locale venivano tollerati anche se per pochi mesi. Poco dopo l’Epifania arrivava la solita retata della Polizia a sgomberare le baracche». Oggi, invece, non servono neanche per pochi mesi. E per questo gli sparano contro. «Lo scorso anno dice Sergio Genco segretario regionale della Cgil ci sono state sei persone “sparate”». Tutte africane. Due di queste in modo serio al braccio. «Li volevano cacciare per non farli tornare». E ci sono riusciti. «Il ministro Maroni spiega ancora Genco porta addosso una grossa responsabilità. Con lo sgombero e la demolizione delle baracche si è piegato all’indirizzo delle cosche». Le quali stanno facendo incetta di terreni. «Produrre non conviene, il latifondo invece sì», chiosa Genco.
Nella sola Piana di Gioia Tauro ci sono 29 famiglie appartenenti alle ‘ndrine. Alle quali, per rapporti di parentela, se ne collegano altre 70. In totale 100 famiglie controllano un territorio che ospita 180mila abitanti. E le famiglie possono decidere la vita o la morte di tremila braccianti africani. «Torneranno», dice Genco. Nel 2013 gli aiuti finiscono.❖

l’Unità 12.1.10
Rosarno e non solo, Sfruttati e sfruttatori nei campi del Sud

Rosarno, provincia di Reggio Calabria, ma anche Cerignola (Foggia) e Castelvolturno (Caserta): «pur sapendo che i clan hanno soprattutto interessi nel traffico di droga e che non c’è un controllo capillare su tutte le attività lecite e illecite, ci sono dubbi che vanno sciolti. Mettendo da parte il guadagno delle imprese di trasformazione del pomodoro, comunque inclini a pagare 3,50 euro all’ora, cioè molto meno di quanto stabilito dal contratto nazionale di categoria, il guadagno che spetta al caporale è consistente. Se il caporale sottrae 50 centesimi all’ora dalla paga del bracciante (riceve dal padrone 3,50 euro e da all’operaio 3 euro, e alle volte anche 2,80) dopo dieci ore di lavoro avrà guadagnato 5 euro. Se gestisce almeno 50 operai, avrà guadagnato 250 euro. Dopo trenta giorni si sarà messo in tasca 7500 euro. Certo, ci sono le spese da sostenere (pulmini, autisti, affitti per i casolari, stipendi per propri scagnozzi... ), ma, come dimostrato, queste spese sono state in buona parte recuperate con gli altri soldi sottratti ai braccianti proprio per il cibo, l’alloggio, il trasporto. Nel 2005 e nel 2006 almeno cinquemila cittadini polacchi (stime del governo di Varsavia) hanno lavorato nei campi pugliesi per una media di un mese a testa, quei 5 euro al giorno per lavoratore producono, in due anni, un milione e mezzo di euro! Tanto è il denaro che il caporalato sottrae a chi lavora e che viene poi diviso tra tutti i “soprastanti” e lungo tutta la catena di sfruttamento che, per funzionare, deve essere costantemente oleata. Ora, dal momento che quella cifra è abbastanza alta, può non far gola alla malavita locale?». Testo tratto dal libro Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud Mondadori di Alessandro Leogrande (Mondadori, 2008).❖

il Fatto 12.1.10
Nelle carceri trentamila dimenticati in attesa di giudizio
Tutti i numeri dello scandalo
di Silvia D’Onghia

“Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”: se si pensa ai 65.774 detenuti ammassati nelle carceri italiane, a fronte di una capienza di 43.220 persone, l’articolo 27 della Costituzione sembra fantascienza. I detenuti aumentano in media di 800 unità al mese: questo significa che, se non si interviene subito, il loro numero nel giugno 2012 raggiungerà quota 100 mila. Altro che bacchettate dal Consiglio d’Europa, che in più di un’occasione ha richiamato il nostro paese al rispetto dei diritti umani. Bisogna fare qualcosa, e farlo subito: lo chiedono i Radicali, che ieri hanno presentato una mozione alla Camera firmata da 93 deputati (che impegna il governo a varare una riforma radicale in materia di custodia cautelare, tutela dei diritti, esecuzione della pena e trattamenti sanzionatori e rieducativi) e stamane manifestano con un sit-in dinanzi Montecitorio.
Tre anni dopo l’ultimo indulto, il sistema penitenziario è di nuovo al collasso. Basta guardare con attenzione le cifre: secondo uno studio del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, circa la metà dei detenuti è costituito da persone in attesa di giudizio e un 30 per cento di loro verrà assolto al termine del processo. E’ quasi nullo il ricorso alle misure alternative al carcere, le uniche in grado di far abbassare il tasso di recidiva. Il 68 per cento di coloro che scontano la pena in cella torna a delinquere, mentre il tasso di recidiva è del 28 per cento tra chi paga il suo debito allo Stato con una misura alternativa. Eppure il 32,4 per cento dei detenuti deve scontare un residuo di pena per una condanna definitiva inferiore ad un anno, il 64,9 inferiore a tre (e sono proprio i tre anni il limite sotto il quale si può aver accesso alla semilibertà o all’affidamento in prova). Soltanto uno su quattro ha la possibilità di lavorare e uno su dieci può partecipare a percorsi professionali.
Fino allo scorso 10 novembre, gli stranieri rappresentavano, con le oltre 24 mila unità, il 27 per cento del totale delle persone recluse. Ancora di più, circa 26 mila, secondo un rapporto dell’associazione Antigone, sono i detenuti per reati di droga, mentre il 27 per cento della popolazione penitenziaria è sieropositiva. Ciò dimostrerebbe allora come si ricorra sempre meno all’approccio terapeutico (nel 2007 sono state 16 mila le persone ricoverate nelle comunità terapeutiche). Numeri che, dall’esterno, parlano di grandi fallimenti, ma che, dall’interno, mettono a rischio la salute fisica e mentale. Non è un caso che il 2009 sia stato l’anno record per i suicidi in carcere: l’associazione Ristretti Orizzonti ha contato 72 persone che si sono tolte la vita impiccandosi all’interno della propria cella. 175 le morti negli istituti penitenziari. E il 2010 certo non è iniziato bene: nei primi otto giorni del nuovo anno si contano già quattro suicidi. E si perde il conto dei tentati suicidi o dei gesti di autolesionismo. La commissione Giustizia del Senato ha constatato come appena il 20 per cento dei detenuti risulti in buone condizioni di salute, il 38 per cento sia in condizioni mediocri, il 37 per cento scadenti e il 4 per cento gravi. Moltissimi sono coloro che soffrono di depressione e altri disturbi psichiatrici (spesso sono le stesse condizioni penitenziarie a determinarli: sovraffollamento, lontananza da casa e quindi impossibilità di incontrare familiari, assoluta inattività) ma, nonostante questo, rimangono dentro. Tra le patologie più diffuse anche problemi di masticazione, osteo-articolari, Aids ed Epatite B. Per far fronte a questa situazione, spesso la medicina penitenziaria è povera di risorse, di strumenti e di mezzi. Ma i problemi non sono soltanto dei detenuti. Un decreto ministeriale del 2001 prevedeva 41.268 agenti penitenziari: “Il 30 novembre 2009 risultavano essercene 38.537. Non si perda ulteriore tempo”, spiega il segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria, Donato Capece.
E’ per questo che oggi, in piazza, oltre agli stessi Radicali, ci saranno anche loro, i sindacati dei poliziotti (Sappe, Uilpa penitenziari, Osapp, Fpc Cgil) e i dirigenti degli istituti aderenti al Sidipe. Perché l’articolo 27 della Costituzione non resti ancora carta straccia.

l’Unità 12.1.10
Palestina, Egitto, Giordania
La Terrasanta imprigionata dai Muri
Israele ha costruito la barriera in Cisgiordania, ora progetta una difesa al confine con l’Egitto e pensa alla Giordania. Il Cairo blinderà l’area di Gaza
di Umberto De Giovannangeli

Prigioni ed enclavi
La Striscia isolata totalmente, la West Bank frantumata
Sicurezza
Al primo posto, ma in gioco c’è anche il controllo dell’acqua
Le opere
Sensori, cemento, acciaio, fossati, trincee per oltre 800 km
La risposta a Obama
Il presidente Usa parla di «ponti», la realtà è opposta

uFilo spinato. Cemento. Acciaio. Sensori ottici. Fossati. Altro che «ponti». In Terrasanta è tempo di Muri. Muri contro i kamikaze. Muri contro il contrabbando. Ora Muri contro l’immigrazione clandestina. Muri o Barriere che spezzano in mille frammenti territoriale la Cisgiordania. Muri che chiudono in una morsa d’acciaio e non è una immagine metaforica la Striscia di Gaza. Muri che costeggiano la frontiera tra Israele ed Egitto. E in prospettiva, Muri che dovrebbero anche spezzare la Valle del Giordano. Il «Nuovo Inizio» per il Medio Oriente evocato a più riprese da Barack Obama nel suo discorso all’università islamica del Cairo, nella sua prolusione per l’assegnazione del premio Nobel per la Pace era costellato di «ponti» di dialogo tra l’Occidente e il mondo musulmano, tra israeliani e palestinesi. Bella immagine. Ottimi propositi. Ma la realtà che segna questo inizio 2010 è ben altra. È la realtà dei Muri o Barriere che dir si voglia.
L’ultima «barriera» in ordine di tempo è quella, «tecnologica», annunciata l’altro ieri sera dal premier israeliano Benyamin Netanyahu in funzione di contenimento dell'immigrazione clandestina e di potenziali infiltrazioni terroristiche dall'Egitto. La Barriera sarà completata nel giro di due anni. Lo confermano i media israeliani, secondo i quali il progetto costerà un milione di shekel (poco meno di 200 milioni di euro al cambio attuale) e prevedrà l'innalzamento di reticolati sotto l'ombra di un sofisticato sistema di controllo radar lungo l'intera linea di confine che separa l'estrema propaggine meridionale del deserto israeliano del Neghev dal Sinai egiziano. Il Muro-Barriera rappresenterebbe una sorta di continuazione ideale della barriera sotterranea che lo stesso Egitto sta realizzando qualche chilometro più a ovest, lungo il proprio confine con la Striscia di Gaza.
Netanyahu, da parte sua, ha giustificato l'iniziativa con ragioni di sicurezza, ma soprattutto di difesa della stabilità di Israele di fronte al flusso degli immigrati clandestini. «Ho preso la decisione di chiudere la frontiera sud d'Israele a infiltrati e terroristi», ha detto seccamente. «Si tratta di una scelta strategica diretta a tutelare il carattere ebraico e democratico di Israele», ha aggiunto, sottolineando come non sia a suo parere possibile sostenere l'ingresso di «decine di migliaia di lavoratori illegali che (provenienti dal continente africano) inondano il Paese attraverso i suoi confini meridionali». I Muri, ovvero la sanzione di un fallimento della politica.
Per Israele è la Barriera di sicurezza. Per i palestinesi il «Muro dell’apartheid». La Barriera-Muro si estende per una lunghezza di 709 chilometri e il suo tracciato corre per l’85% all'interno del territorio palestinese della Cisgiordania e solo per il 15% a ridosso della linea di frontiera. Nei punti più alti, il «Muro» in questione raggiunge l’altezza di 8 metri e si estenderà, al suo completamento, per oltre 700 chilometri. Al suo confronto, il Muro di Berlino era un «nano», lungo «solo» 155 km e alto 3,6 metri. Una volta completato, il Muro annette di fatto il 50% della Cisgiordania, isolando diverse comunità in cantoni, enclavi o «zone militari». Quasi il 16% dei palestinesi in Cisgiordania vivranno «fuori» dal Muro, nelle aree praticamente annesse da Israele, sottoposti a condizioni di vita insopportabili – la perdita di terra, possibilità di commercio, mobilità e mezzi di sussistenza – e minacciati di espulsione. Questi comprendono gli oltre 200.000 abitanti di Gerusalemme Est, che dopo la costruzione del Muro si vedranno completamente isolati dal resto della Cisgiordania. Il Muro in cemento, presente a Qalqilia, parte di Tulkarem e Gerusalemme Est, è alto 8 metri, con torri di guardia armate ed una “zona cuscinetto” larga dai 30 ai 100m destinata a barriere elettriche, trincee, telecamere, sensori ed al pattugliamento dei militari. In altri luoghi, il Muro consiste in diversi livelli di filo spinato, strade per il pattugliamento, zone sabbiose per rintracciare le impronte, fossati, telecamere di sorveglianza e, in mezzo, una barriera elettrica alta tre metri.
Quello sotterraneo è il Muro che l’Egitto ha deciso di realizzare ai suoi confini con la Striscia di Gaza. Quella progettata dalle autorità egiziane è una barriera sotterranea di metallo lunga 11-12 chilometri e profonda fino a 20-30 metri. Un muro che sarà completato entro 18 mesi costituito da paletti di acciaio spinti in profondità nel terreno. La barriera costruita con un metallo estremamente resistente, è a prova di bomba, non può essere tagliata, né sciolta. In breve, è «impenetrabile». Questo muro è accompagnato da una rete di tubature che portano l’acqua del mare, per rilasciarla in prossimità della barriera di acciaio al fine di rendere il terreno più friabile.
Nella valle del Giordano è previsto un altro Muro, scorrendo a 2030 chilometri all'interno della Cisgiordania occupata, con l’obiettivo di tagliare fuori i palestinesi da terre fertili, risorse idriche e da ogni sbocco verso la Giordania. In tal modo verranno annesse a Israele sia la valle del Giordano che il «deserto della Giudea». Qui, ragioni di sicurezza s’intrecciano indissolubilmente a quelle, non meno rilevanti, del controllo delle risorse idriche. Il completamento del Muro porterà di fatto all’annessione da parte d’ Israele della fertilissima Jordan Valley, al confine con la Giordania. ❖

Repubblica “12.1.10
Archiviato il procedimento contro il padre della ragazza e 13 tra medici e infermieri. Beppino: ho sempre agito nella legalità
"La morte di Eluana non fu omicidio"
di Zita Dazzi

MILANO - La morte di Eluana Englaro non fu un omicidio: lo ha stabilito ieri il gip di Udine, Paolo Milocco, archiviando il procedimento nel quale il padre della giovane donna, Beppino, era indagato per concorso in omicidio aggravato, assieme ad altre 13 tra medici e infermieri. Fra loro, anche l´anestesista Amato De Monte, capo dell´équipe medica che, nella casa di riposo «La Quiete» di Udine, aveva attuato il protocollo per la sospensione dell´idratazione e dell´alimentazione di Eluana, secondo il provvedimento della Corte di Appello di Milano.
Eluana, da 17 anni in stato vegetativo permanente, morì tre giorni dopo la sospensione cibo e acqua, il 9 febbraio scorso, «improvvisamente senza una compiuta progressione della sintomatologia legata alla disidratazione». L´archiviazione del procedimento era stata chiesta, il mese scorso, dalla stessa Procura di Udine che, in questo fascicolo, aveva raccolto il «caotico diluvio di "sollecitazioni"» - per usare le parole del Gip - inviate a decine di Procure italiane dopo la morte di Eluana, in un clima di acceso confronto (e scontro) politico, ideologico ed etico sui temi del «fine vita». Si ipotizzavano varie violazioni di legge, fino alla più grave: l´omicidio volontario aggravato, a opera del padre e dell´équipe medica. Ma, dopo mesi di perizie e consulenze tecniche, il gip ha sancito che la morte della giovane avvenne secondo «pratiche autorizzate e specificate nei provvedimenti giudiziari», escludendo «cause di morte di natura traumatica o tossica». Il giudice sottolinea che «la prosecuzione dei trattamenti di sostegno vitale di Eluana non era legittima». Di più: come ha sempre sostenuto papà Beppino, nelle sette pagine del decreto il gip sostiene che continuare a idratare e alimentare Eluana sarebbe stato in contrasto «con la volontà espressa dai legali rappresentanti della donna», cioè i suoi genitori. Il giudice conferma che il padre della giovane donna e i medici agirono «in presenza di una causa di giustificazione». Soddisfatto Beppino Englaro, che col consueto rigore commenta: «Ho sempre agito nella legalità e nella trasparenza. Non poteva esserci altra conclusione. Sono sempre stato tranquillo, se - ha aggiunto - si può usare questo termine considerando la tragedia che ho vissuto».

Repubblica 12.1.10
Cuore, psiche, ossa quando la luce ci fa solo bene
di MariaPaola Salmi

Sole d´inverno. Gli studi più recenti lo confermano: in questa stagione 10-15 minuti al giorno di esposizione ai raggi sviluppano le difese della vitamina D
"Secondo alcune ricerche diminuisce il rischio di tumori di colon-retto, prostata e seno"

Qualunque sia la destinazione, cercare il caldo e la luce in questo periodo dell´anno fa un gran bene. Medici e bioclimatologi raccomandano di prendere "bagni" di sole con regolarità e giudizio proprio nella stagione fredda. Gli effetti salutari e rigeneranti su mente e corpo sono preziosi alleati contro le malattie, incluse quelle invernali.
La luce solare è la migliore delle medicine. I benefici immediati consistono in un´iniezione di buonumore e, a cascata, nel rafforzamento delle difese immunitarie. Il sole, preso con cautela per evitare un precoce invecchiamento cutaneo e i tumori della pelle, aumenta la tolleranza allo stress, produce un incremento degli ormoni sessuali e della libido, stimola il metabolismo con riduzione del colesterolo e della glicemia. «L´esposizione ai raggi solari anche solo di braccia, gambe e volto, per 10-15 minuti al giorno, permette la sintesi attraverso la cute della vitamina D che svolge una funzione importante nell´equilibrio del nostro organismo», afferma Mario Plebani, direttore del Dipartimento di medicina di laboratorio dell´azienda ospedaliera di Padova: «Sono in atto molteplici studi i cui dati, discussi in un recente convegno a Parigi, correlano le insufficienti concentrazioni di vitamina D nel sangue sia con un rischio aumentato o doppio di infarto del miocardio, ispessimento del muscolo cardiaco, ipertensione e coronaropatie, sia con malattie autoimmuni quali sclerosi multipla, artrite reumatoide e diabete di tipo 1, che con un aumentato rischio di sviluppare tumori, in particolare del colon-retto, prostata e mammella».
Conosciuto da tempo, invece, il ruolo della vitamina D nella salute delle ossa. Esporsi al sole soprattutto d´inverno protegge l´organismo. Vale per tutti, in particolare per gli over 65, i bambini, le donne in menopausa e quanti soffrono di malattie del metabolismo e cardiocircolatorie. «La mancata esposizione comporta ipovitaminosi D associata a una maggiore incidenza di malattie, non ultime rachitismo, depressione e tumori tra le popolazioni che vivono a latitudini maggiori», osserva Elio Mannarino, ordinario di medicina interna all´Università di Perugia. I raggi ultravioletti inducono la sintesi cutanea di vitamina D endogena, che stimola la secrezione di melatonina e serotonina, regolatori dell´umore e del ritmo sonno-veglia, attiva la tiroide, riduce la pressione arteriosa e migliora la funzione di fegato, rene, pancreas e ghiandole sessuali (testicoli e ovaie) con incremento del testosterone nell´uomo e nella donna.
«La produzione endogena di vitamina D utilizza come molecola di partenza il colesterolo o meglio un suo derivato, dal quale grazie ai raggi solari si produce il 90 per cento della vitamina D, la cosiddetta vitamina D3 o Colecalciferolo, presente nel nostro organismo (il restante 10 per cento è introdotto con la dieta) - spiega il professor Mannarino - Quest´ultima subisce, prima a livello epatico quindi renale, una serie di modificazioni che la attivano e la trasformano in D2 e D1 (o calcitrolo), responsabile dell´assorbimento del calcio a livello intestinale, della fissazione nell´osso di calcio e fosfati».

lunedì 11 gennaio 2010

l’Unità 11.1.10
Ora tocca ai romeni
L’ordine delle ’ndrine: «Via chi non ci serve»
Le arance marciscono, i prezzi crollano, conviene lavorare di meno e intascare gli aiuti europei. I neri protestavano ed il cerchio si è chiuso
di Gianluca Orsini

Non ci servite più. E adesso ve ne potete andare. Questo il messaggio che le ’ndrine hanno voluto dare ai braccianti»: ossia i meno docili, ma trattati in maniera più disumana. E che alla fine si sarebbero ribellati. Sergio Genco coordina la Cgil calabrese e sui motivi della «seconda rivolta» dei migranti di Rosarno ha idee chiare. Il mercato di arance e clementine è asfittico, i prezzi sono crollati, molti piccoli produttori lasceranno marcire i frutti sui rami pur di non affrontare i costi della manodopera alla raccolta, e i rosarnesi e le cosche infiltrate nel mediazione tra produttore e consumatore non volevano più la massa di lavoratori irregolari, oltre 1200, deportati tra sabato e domenica dai «lager» Rognetta, Opera sila e Colline di Rizziconi.
«I clementini? Per me sui rami possono marcire! Ma almeno non mi devo vedere tutti questi neri tra i piedi!»; il signor Giovinazzo abita in contrada Bosco, dove i braccianti inferociti della ex Opera Sila giovedì sera hanno dato alle fiamme la vettura della 31enne Antonella Bruzzese, picchiandola e intimidendo i suoi due figli di 10 e 2 anni,e scatenando così la più violenta delle ritorsioni rosarnesi di questi giorni.
Allo «Spartimento» il quadrivio tra Statale 18 e la poderale per il mega Inceneritore della Piana, per giorni gli abitanti del posto hanno atteso al passo con le mazze i migranti uscissero in fuga per vendicarsi. Ma molti di loro prima impiegavano gli immigrati nei loro «giardini», come i calabresi chiamano i fondi agricoli. Ma da un paio d’anni a questa parte, non più.
Da quando la politica agricola dell’unione europea è cambiata con l’ingresso di Romania e Bulgaria, mutando il sistema dei rimborsi per gli agrumeti. «All’agricoltore calabrese, come in tutto il Meridione, paradossalmente entrano più soldi in tasca a lasciare i frutti marcire,che a farli raccogliere dagli intermediari che li destinano alle industrie della trasformazione insucchi e marmellate – spiega Antonino Calogero, un sindacalista di Gioja Tauro che studia la filiera produttiva degli agrumi da decenni – i prezzi sono crollati a 6 centesimi al chilo per le arance». Più remunerative le clementine, i mandarini della Piana: ben 10 centesimi per chilo raccolto «sulla pianta».
L’associazione di categoria Coldiretti precisa che il prezzo delle arance dall’albero alla nostra tavola subisce una moltiplicazione del 474 percento. Cifre folli, e con un prezzo indicato dai rappresentanti degli agricoltori che non rispecchiano nemmeno i reali prezzi contrattati al mattino dai contadini con i capibastone che acquistano per le ’ndrine locali, padrone del settore. Per Coldiretti il prezzo delle arance è 27 centesimi al chilo per il frutto da tavola. I «purtualli» (per un calabrese) destinati al succo di frutta non vengono pagati più di 6 centesimi al chilo. «I rimborsi Ue con il nuovo sistema comunitario, garantiscono una resa maggiore per ettaro» spiega Calogero. prima si pagava l’agricoltore per i quintali prodotti dai fondi, certificati dalla Regione; ora i soldi vengono rifondati a seconda degli ettari di terra posseduti, e dichiara di aver coltivato; se lamenta invenduto si consola con gli euro di Bruxelles. Se consideriamo che anche pagando in nero i braccianti 20 euro algiorno, per cassetta di arance raccolte il costo di raccolta non scende sotto gli 8centesimi. Raccogliere è un gioco al ribasso.
Ecco perché i migranti di Rosarno erano diventati un peso. «Ai pochi che ancora volessero raccogliere i frutti, o i grandi possidenti che su tonnellate di prodotto raccolto, hanno ancora un utile, bastano e avanzano i rumeni, ucraini bulgari e maghrebini residenti in città, quasi tutti in case in affitto» spiega Pino, un ex bracciante alla «Casa del popolo Valarioti», nel centro città. Era già così l’anno scorso; chi si fosse avventurato sulla statale 18 alle 6 del mattino con Gabriele Del Grande, il blogger di «Fortress Europe» e studioso della migrazione, avrebbe passato una mattinata insieme a ragazzi maliani, burkinabè e senegalesi che aspettavano invano agli angoli delle strade perché le porte dei furgoncini dei «capi neri» (come i migranti chiamavano i caporali del primo livello, gli sfruttatori extracomunitari, unici a poter trattare prezzi e disponibilità di giornata con i caporali calabresi) si aprissero per portarli a lavorare. Già nell’inverno 2009 i «neri» non erano più graditi dopo aver osato manifestare contro la ’ndrina per le strade rosarnesi nel dicembre 2008. ❖

l’Unità 11.1.10
Calabria, adesso è il momento del coraggio
di Giuseppe A. Veltri

G li eventi di Rosarno possono sconvolgere un lettore che non sia al corrente dell’attuale situazione della Calabria, ma non sorprendono chi conosce la realtà di una regione caduta in una profonda crisi sociale ed economica. Il parastato rappresentato dalla criminalità organizzata ha mostrato il modo in cui intende regolare il fenomeno immigrazione, con sfruttamento e intimidazione, senza l’ostacolo della vasta maggioranza dei cittadini calabresi. Questi cittadini vivono una grossa contraddizione: se da un lato chiedono l’intervento dello stato contro il sottosviluppo economico e il crimine organizzato, dall’altro hanno chiuso gli occhi verso la politica locale che non si è quasi mai fatta carico dei problemi reali della Calabria.
Una politica completamente prosciugata da ogni spinta ideale e ridotta a mera amministrazione e spartizione delle risorse pubbliche. Casi come quello della senatrice Napoli sono sempre più rari, la politica nazionale e locale ha rinunciato a tentare di migliorare la società calabrese. Appare incredibile come le cosiddette forze progressiste non aiutino o interagiscano con i pochi movimenti anti criminalità organizzata, come «Libera» o «Ammazzateci Tutti», non intervengano sulla corruzione e infiltrazione mafiosa nella cosa pubblica.
I cittadini calabresi sono da anni stretti in una morsa feroce tra ’ndragheta e politica corrotta, eppure nessun fallimento clamoroso, vedi casi nella sanità calabrese o la gestione del territorio tra frane e discariche tossiche abusive, ha dato loro la forza di reagire. Un pericoloso miscuglio di paura e negazione dell’evidente non permette di capire che il disastro è dietro l’angolo, l’emigrazione è tornata ai livelli degli anni ’50 o che le responsabilità delle amministrazioni locali ormai quasi bilanciano quelle dello stato centrale. Quale amministrazione comunale, provinciale e regionale calabrese può seriamente dire di non essere a conoscenza dei problemi del territorio? Quante iniziative forti hanno mai intrapreso? Quale battaglia di civiltà hanno posto come fulcro della loro azione politica?
Tra poco, il 17 Gennaio, si terranno le primarie del Pd. I candidati non avranno una migliore occasione per dire quali saranno le loro iniziative concrete contro la criminalità organizzata. Il timore è quello che anche questo esercizio di democrazia sia svuotato da una politica senza coraggio che ha rinunciato a trasformare la realtà calabrese e si è resa complice del suo abbrutimento.

Repubblica 11.1.10
L’uomo bianco con il fucile
di Adriano Prosperi

«Noi ce ne andiamo, voi però qui restate, qui dovete vivere»: questo il messaggio degli uomini in fuga da Rosarno. Uomini? Quasi nessuno li ha chiamati così. È un´altra la parola che è emersa, gridata dalle squadre dei giustizieri della notte, ripetuta in tutte le cronache: negri. E la parola ha suggerito subito l´altra gemella e nemica: bianchi.
Noi che restiamo qui dobbiamo prendere atto di come è cambiato il paesaggio dove da oggi dovremo vivere: che non sarà più solo quello morale della violenza collettiva, o quello materiale del degrado dei luoghi, o anche quello sociale e politico di uno stato assente sostituito dalla ´ndrangheta, oppure quello storico di un paese «troppo lungo» che giorno dopo giorno visibilmente si spezza, come ha scritto in un libro appassionato Giorgio Ruffolo. Da questo momento, accanto ai problemi del sud, alla questione dell´immigrazione clandestina, ai disastri dell´insicurezza prodotta dal decreto sicurezza, un altro problema è sorto che va al di là di tutto il resto e segna una tappa mai prima toccata o immaginata nell´Italia che credevamo di conoscere: la tappa segnata da una parola: «negri».
Ricorderemo questa data come l´ingresso nel vocabolario dell´Italia incivile della parola chiave, quella che cambia il mondo e lo semplifica, quella che fa del rapporto fra esseri umani una guerra di razze e un conflitto di colori, dove il nero muore e il bianco vince. La cosa da tempo si avvertiva nell´aria, serpeggiava negli stadi, luogo germinale della lingua nuova: ma è solo da oggi che la novità si è imposta collettivamente con l´evidenza delle immagini e con l´urlo collettivo delle folle. Per misurare quante cose sono cambiate in un colpo solo basta ricordare l´assassinio di Jerry Essan Masslo, il rifugiato sudafricano ucciso a Villa Literno il 25 agosto 1989. Non lo chiamarono «negro» le cronache di allora: e dei suoi assassini si parlò come di una banda di criminali. Oggi al posto dell´assassinio isolato si è cercata, voluta e rischiata una strage. Ronde notturne, posti di blocco, automobili con uomini armati di fucili, agguati, spari, grida, ferocia, paura, corpi sanguinanti di altri uomini in mezzo a paesaggi devastati, a rifugi primitivi: dove avevamo già visto queste scene? È una sequenza che finora avevamo visto solo nei film americani, quelli sul Ku Klux Klan e sulla lunga tragedia del razzismo degli Stati Uniti. Le scene di Rosarno trasmesse dalla televisione sembravano spezzoni di quei vecchi film dove i bianchi americani armati di fucili andavano a caccia di schiavi fuggiaschi. Dunque proprio quando l´elezione alla presidenza di Barack Obama ha siglato la vittoria della battaglia per la fine della separazione razziale, ecco che la crisi italiana diventa una crisi in bianco e nero - semplice, violenta, insolubile, come quella di cui scriveva Charles Silberman mezzo secolo fa nel libro che leggemmo con quel titolo. Ma l´analogia delle parole e la distanza dei tempi e dei modi mostrano che rispetto alla difficile crescita della società americana l´Italia si avvia lungo la strada di un declino civile senza sbocco, in controtendenza rispetto a quel mondo americano dove la lunga lotta per i diritti dei neri d´America ha realizzato il sogno di Martin Luther King. Da noi si apre uno scenario inedito, un panorama assurdo, una realtà sgangherata che ha solo un punto in comune con quello tragico e secolare del razzismo dell´America negriera: la parola. Negri quelli che se ne vanno, bianchi noi che restiamo. Loro, prima di andarsene, hanno gridato: siamo uomini come voi. Ma l´esito della battaglia ha dimostrato che noi non siamo uomini come loro e che per loro non c´è posto fra di noi. La lingua quotidiana è cambiata. Il mondo mentale degli italiani è diventato da un giorno all´altro un mondo in bianco e nero. E questa è l´essenza linguistica della regressione civile, perché la parola porta con sé la semplificazione del mondo e la radicalizzazione del conflitto. Lo porta in una realtà da sempre storicamente e umanamente vicina al continente africano. E questo prova quanto la crisi sia grave.
Con questa novità dobbiamo fare i conti. La parola «negro», cadendo sull´Italia intera dai fatti di Rosarno, ha prodotto un effetto che ricorda, pur tra molte differenze, l´essenziale di quello che accadde quando le leggi razziali del 1938 portarono per la prima volta nella vita quotidiana la parola «ebreo» . Un bel libro di Rosetta Loy ha raccontato come quella parola producesse l´effetto di far scomparire delle persone. Anche con la parola «negro» l´effetto è stato quello. Stavolta la scomparsa non è stata sotterranea e silenziosa come allora: è avvenuta sotto gli occhi di tutti con scene piene di rumore e di grida. Tutti abbiamo visto centinaia di uomini neri andarsene sotto scorta dal paese dei bianchi . Così si è manifestata ancora una volta la potenza dello stereotipo razziale che sostituisce al volto concreto dell´essere umano una silhouette, una maschera da colpire e distruggere. E lo stereotipo del «negro» è senza ombra di dubbio il più semplificato e il più immediatamente efficace. Da questo fondo cupo bisognerà pur risalire. E come per la parola «ebreo» bisognerà cercare di capire come e perché quella parola sia caduta oggi sul nostro contesto civile. Bisognerà riportare alla memoria degli italiani le pagine oscure della loro storia, quelle che non si ricordano volentieri, risalire alle responsabilità storiche del paese Italia nel percorso di delitti e di tragedie che hanno conferito a quella parola un suono sinistro. Grazie all´opera solitaria e coraggiosa dello storico Angelo Del Boca sappiamo ormai che cosa sia stata l´Africa nella coscienza degli italiani, conosciamo di quali tragedie e di quali delitti sia stato fatto il colonialismo italiano, quante atrocità siano state commesse dalle truppe italiane mentre le canzonette della propaganda fascista solleticavano gli istinti di violenza del maschio italiano sulle «faccette nere» delle donne abissine. Ma ci vorrà ben altro che qualche lezione di storia per risalire da questo abisso.

Repubblica 11.1.10
"La caccia al nero una vendetta dei clan"
Gli inquirenti: le cosche schierate con la gente. Tra i fermati il figlio di un boss
La pista del collegamento con la bomba a Reggio "Volevano spostare l´attenzione"
di Attilio Bolzoni

ROSARNO - La caccia al nero che abbiamo raccontato dagli aranceti calabresi non l´ha scatenata la rabbia dei contadini e dei possidenti di Rosarno. È stata una "ritorsione organizzata": c´è forse la firma della ‘ndrangheta nei raid per le campagne e nelle ronde che hanno braccato gli africani. Una rappresaglia mafiosa per dimostrare chi comanda in quel territorio, per schierarsi al fianco degli abitanti infuriati, per terrorizzare gli immigrati. La ‘ndrangheta dopo quarantotto ore di guerriglia ha vinto la sua battaglia: la Piana è stata liberata dai "negri" in rivolta che Rosarno voleva cacciare.
Un investigatore riassume i fatti e delle scorribande ne indica la matrice: «I boss hanno cavalcato la protesta per far vedere che stanno con la gente e non contro la gente. La caccia all´uomo è stata una vendetta a freddo, calcolata».
Per chi non conosce a fondo la Calabria: la caccia al nero è andata in scena in una striscia della Piana dove cinque comuni, uno attaccato all´altro - Rosarno, San Ferdinando, Gioia Tauro, Taurianova, Rizziconi - negli ultimi due anni sono stati chiusi per "infiltrazioni mafiose". Lì, proprio in questo regno della ‘ndrangheta, c´è stato il regolamento di conti contro i neri che avevano osato ribellarsi.
Erano solo sospetti. Erano solo ipotesi d´indagine. Oggi però gli indizi sembrano più consistenti, le tracce lasciate prendono la forma delle impronte digitali della mafia calabrese. Le indagini puntano verso i boss di Rosarno e di Gioia Tauro. Il procuratore capo di Palmi Giuseppe Creazzo ha aperto un´inchiesta - ha già ascoltato alcuni testimoni - e aspetta le prime informative e i primi rapporti dalla polizia giudiziaria. Se la pista mafiosa sarà confermata, l´inchiesta passerà nei prossimi giorni alla procura distrettuale di Reggio Calabria.
Ma già ci sono i primi elementi che potrebbero portare a una regia dei clan. Il primo elemento intorno al quale s´indaga è il tipo di armi usate per ferire gli immigrati: fucili caricati a pallini. Un´arma che può fare molto male ma non uccidere, un´arma che è stata scelta "soltanto" per ferire. Tutti i neri ricoverati negli ospedali della Piana avevano addosso i segni di quei pallini: sempre lo stesso tipo di fucile leggero in una zona dove ogni settimana sequestrano quintali di armi pesanti.
Il secondo elemento è nella dinamica degli agguati: la facilità con la quale, una dopo l´altra le vittime - nascoste in casolari, in fuga per i campi - sono state individuate. «Questo presuppone una conoscenza e un controllo del territorio che solo gli uomini di mafia possono avere», spiegano ancora gli investigatori. Il terzo elemento è il più evidente di tutti: la presenza, sulle barricate e nei posti di blocco presidiati dagli abitanti di Rosarno, di molti personaggi legati alla ‘ndrangheta. Gente dei Bellocco e dei Pesce, le due cosche dominanti in paese. Fra gli arrestati della rivolta c´è anche Antonio Bellocco, il figlio di Michele, il capo della famiglia.
In Calabria non è la prima volta che la ‘ndrangheta appoggia proteste di strada, manifestazioni di popolo. È accaduto già una decina di anni fa quando un ragazzo - Giosé Carpenteri - è stato travolto e ucciso a Locri dall´auto blindata che faceva da scorta al sostituto procuratore della repubblica Nicola Gratteri. Gli abitanti di Locri occuparono la linea ferrata sullo Jonio, incendiarono cassonetti sulla statale 106, scesero in piazza a migliaia, formarono "comitati popolari cittadini" e riempirono i muri del loro paese di scritte contro "gli sbirri". Dopo alcuni mesi si scoprì che a fomentare la sommossa erano stati i Cordì, mafiosi di Locri.
Ma se la pista mafiosa è quella che sembra al momento una delle più attendibili per spiegare le spedizioni punitive fra le arance della Piana, resta ancora un mistero il movente della guerra fra bianchi e neri cominciata a Rosarno giovedì sera. Si rincorrono voci. Una - assolutamente priva di riscontri e ripetuta da più parti - collega gli avvenimenti di Rosarno con la bomba ritrovata alla procura generale di Reggio Calabria l´altra settimana. «Per spostare l´attenzione di stampa e tivù dai giudici e dalle loro indagini», dicono in molti. Voci confuse, incontrollate. Nessuno, qui in Calabria, ancora oggi sa dire perché la Piana è diventata per due giorni e due notti un campo di battaglia.

Repubblica 11.1.10
Oggi gli abitanti del paese manifestano per le vie del centro. "Vogliamo far sapere che qui non c´è solo razzismo"
Dai bulgari agli ucraini, la paura degli altri "Ci insultano, anche noi pronti alla fuga"
Ieri hanno evitato di farsi vedere in giro: "Ce l´hanno consigliato i nostri datori di lavoro"
di Giuseppe Baldessaro

ROSARNO - Il terrore non ha colore tra gli sfruttati della Piana di Gioia Tauro. Ora tutti gli immigrati di Rosarno hanno paura, più di mille, forse mille e 500 persone, tra bulgari, romeni, ucraini. «Siamo terrorizzati, se continua così ce ne andremo anche noi», dice qualcuno in queste ore di tensione. Vivono in paese, in case che si affacciano sulle strade devastate dalle ore di guerriglia. Abitano molte periferie buie della capitale degli agrumi calabresi. Come gli africani lavorano nei campi, oppure nell´edilizia e nelle officine, mentre le donne stanno in casa della gente del posto come badanti o donne delle pulizie. Non sono stagionali, ma questo non li tranquillizza. Nella Piana vivono da anni, ci hanno portato le famiglie, ci fanno crescere i figli. Pagano affitto e luce, in una situazione che non è quella inumana dell´ex cartiera o del ghetto di Spartivento, ma che non è neppure "integrazione". È l´altra faccia dell´immigrazione rosarnese, il rovescio della stessa medaglia. Sulle barricate li definivano "i buoni", quelli che «sono i benvenuti». Nella realtà sono mal tollerati dai più in un paese dove oggi la gente scenderà in piazza per manifestare e ribadire a tutti che «a Rosarno non c´è solo razzismo».
Intanto anche ieri molti di loro hanno preferito non farsi vedere in giro. Stanno chiusi in casa a guardare la televisione, nel tentativo di capire. Kaddour è maghrebino, un lavoro da bracciante e tre stanze da condividere con altri quattro lavoratori stranieri. Non esce dalla notte della devastazione: «Me lo ha detto il mio datore di lavoro di stare dentro. Di non preoccuparmi di nulla e di chiamare lui se ho bisogno di qualcosa». Alla porta di Kaddour hanno già bussato e i toni non erano quelli della tolleranza: «Un gruppo di ragazzi ci ha insultato e ci urlavano di andare via». Buobker Elhfian è un marocchino di 35 anni, a Rosarno fa il mediatore culturale. È il presidente di Omia, un´associazione no profit che si occupa di progetti d´integrazione. «Sabato eravamo in giro con altri due soci, una ragazza Moldava e un amico di colore del Burkina Faso che lavora qui da anni. Non ci hanno toccati, ma ci hanno detto di tutto, senza risparmiare nessuno». Elhfian raccomanda agli stranieri di essere prudenti: «È un brutto momento», spiegando che «è rischioso per i neri, ma non solo». In questi giorni ha contattato molti migranti, li ha sentiti per telefono e «quando è stato possibile», li ha anche incontrati. Si sono raccontati le loro paure, l´intolleranza dei locali «ma anche alcuni gesti di solidarietà». Vicini di casa e amici «ci portano da mangiare e ci dicono che passerà, che il clima tornerà presto sereno».
Naima non ci crede molto. È algerina, vive con il marito e due bimbi, di cui uno nato in Italia. Dice che «le cose sono cambiate, la gente ti guarda strano». Il marito per ora non vuole uscire, ma pensano di andar via, forse dai parenti che stanno in Puglia.

Repubblica 11.1.10
L´inferno al Sud, pasti caldi al Nord e nei campi c´è una doppia Italia
Per gli immigrati in Calabria otto euro al giorno Condizioni migliori in Trentino e Friuli
La Coldiretti: il prezzo delle arance sale del 474% per colpa delle speculazioni
di Jenner Meletti

Alla sera, sia Cheikle il senegalese che Jaroslaw il polacco sono stanchi morti. Cheikle ha raccolto le arance nella piana di Gioia Tauro, Jaroslaw ha raccolto le mele nella Val di Non. Ma soltanto i gesti e la fatica sono uguali. Cheikle lavora per un euro all´ora, otto o dieci euro al giorno, tutto ciò che gli lascia in mano il caporale. Quando il buio interrompe la raccolta, per lui ci sono il viaggio a piedi verso un capannone abbandonato, un materasso fra pareti di cartone, una pentola con il riso da dividere con altri disgraziati. Jatoslaw guadagna 7 euro netti all´ora, 56 al giorno, e sia a pranzo che a cena (in ogni autunno) si siede a tavola assieme ai padroni delle mele Melinda. Per il riposo, una stanza con il bagno e un fornello per il primo caffè della giornata.
Non è tutta uguale, l´Italia che "offre" lavoro a chi arriva da lontano, e per fortuna non è solo un inferno. «È qui da noi - dice Pietro Molinaro, presidente della Coldiretti Calabria - lo sfruttamento della peggior specie. I caporali, per ogni lavoratore straniero portato nelle campagne, incassano dai venti a trenta euro al giorno. Ma all´operaio agricolo vanno al massimo i dieci euro. Il caporale non si accontenta. Dice all´immigrato anche dove andare a fare la spesa e dove, pagando altri soldi, può trovare da dormire. Non dobbiamo immaginarci il caporale di una volta, quello che reclutava i braccianti nelle piazze. Il caporale moderno conosce bene le leggi o si fa aiutare da chi è esperto. Riesce a organizzare cooperative fasulle che forniscono giornate di lavoro ad aziende altrettanto fasulle così, oltre alla speculazione sulla pelle di immigrati veri, riesce anche a ottenere denaro con i sussidi di disoccupazione».
«Rosarno è solo la punta dell´iceberg. Qui da noi ci sono altre aree a rischio. Lo sfruttamento degli immigrati mette in crisi anche le tante imprese oneste che subiscono una concorrenza sleale. In Calabria non ci sono soltanto le "case di carta" dei lavoratori stranieri. Ci sono anche "l´olio di carta" e le "arance di carta", vale a dire aziende che non hanno né ulivi né aranci ma riescono a farsi consegnare i contributi Cee e incentivi con registrazioni e fatture false. Lavorare rispettando le regole è la nostra salvezza, ma diventa ogni giorno più difficile. Al porto di Gioia Tauro arrivano cisterne di succo d´arancia dal Brasile e carghi di arance dalla Spagna, spacciati poi come prodotti italiani. Mettere l´etichetta di origine e, come propone il ministro Zaia, porre un "marchio etico" sui prodotti sarebbe un modo per distinguere gli onesti dai farabutti. Il mercato è già difficile anche senza concorrenza sleale. Le arance da tavola sono state pagate 27 centesimi al chilo e vendute a 1,55, con un aumento del 474%. Per le arance da succo sono stati offerti al produttore 6 centesimi al chilo».
C´erano in tutto il Paese, le "enclave" dei nuovi schiavi. Nel Trentino, al tempo delle mele, arrivavano dal Sud gli africani che avevano appena raccolto i pomodori. Nel mantovano c´erano le file per poter trovare un lavoro nei campi di fragole e di meloni… «Qui in Val di Non - ricorda Danilo Merz, direttore della Coldiretti trentina - i volontari avevano montato tendoni per accogliere i raccoglitori stranieri. Dopo tre giorni, o avevano trovato un ingaggio o dovevano ripartire. Loro avevano bisogno di noi, noi avevamo bisogno di loro, e così ci siamo dati da fare. Non è sempre stato facile. Quando è uscita la Bossi-Fini la polizia veniva a prendere le impronte agli stagionali stranieri. Non è stata una bella esperienza. Ma da anni la situazione è tranquilla. Gli stranieri - e sono sei, settemila - hanno contratti che per la raccolta delle Melinda prevedono un salario di 7 euro all´ora e l´organizzazione di vitto e alloggio: 3, 4 euro per un letto, 5 per un pasto. Ma nessun coltivatore si fa pagare. Si creano anche amicizie. In inverno ci sono trentini che vanno in Romania o Polonia a trovare i raccoglitori che, ormai "fidelizzati", torneranno per la prossima raccolta. Anche per noi il problema è il mercato. Per un chilo di Melinda siamo stati pagati 50 centesimi al chilo. Controllate voi i prezzi nel vostro negozio».
Ci sono lavori che gli italiani hanno ormai dimenticato. «Negli allevamenti - dice Mauro Donda, che dirige i coltivatori bresciani - ci sono 2000 stranieri. Quasi mille gli indiani nelle stalle con i bovini. Stipendi da 1200 a 1600 euro al mese, per 6 ore e mezzo di lavoro. Sei giorni la settimana. Ma ci si alza prima delle 4 e si torna in stalla nel pomeriggio». Meloni e cocomeri per la prossima estate non sono nemmeno stati seminati. Ma nel prossimo giugno arriveranno nel mantovano migliaia di raccoglitori. Anche per loro 7 - 8 euro all´ora, più vitto e alloggio. «Se qualcuno non riesce a venire - dice Giovanni Benedetti - si preoccupa di mandare un fratello o un amico. C´è solo un problema burocratico: a volte le quote di ingresso sono decise quando i meloni sono già maturi».
Rauscedo, in Friuli, è l´unico luogo del nord dove anche in questi giorni si trovano centinaia di stranieri impegnati in agricoltura. Sono 700 uomini e donne che lavorano in una grande coop che fa crescere le "barbatelle", le nuove viti. Arrivano anche dalla Bielorussia, per selezionare i 60 milioni di piantine che saranno inviate in tutto il mondo. Per l´operaio comune, 63 euro netti al giorno. La paga di una settimana, per Cheikle il senegalese, a Gioia Tauro. Sempre che il caporale mantenga la parola data.

Repubblica 11.1.10
Berlino, il miracolo dell´istituto dove 8 alunni su 10 sono musulmani
di Andrea Tarquini

BERLINO - Tre anni e mezzo fa, la Ruetli Schule era il simbolo dell´inferno dei ghetti, oggi è un esempio di didattica multietnica e di politica dell´integrazione. La storia emblematica della Hauptschule (una specie di scuola professionale) a Neukoelln, il Bronx musulmano nel sudest della capitale tedesca, mostra che in una democrazia multiculturale aperta come la Bundesrepublik la scuola può funzionare anche quando la maggioranza dei ragazzi sono extracomunitari.
L´80% dei ragazzi sono musulmani, e tra questi il 35% di origine araba, il 25% turca. I tedeschi sono solo il 17%. «Qui da noi la realtà quotidiana è cambiata del tutto», dice il nuovo preside, Aleksander Dzembritzki. «Ai ragazzi abbiamo fatto capire che se studiano e s´impegnano anziché scegliere le gang hanno una chance nella vita, agli insegnanti abbiamo chiesto di restare solo se se la sentivano». Nel 2006, la lettera aperta del corpo docente della Ruetli, esasperato dal bullismo, era stata pubblicata, rivolta al paese intero, e aveva scosso la Germania.
Berlino ha reagito. Anziché chiudere la scuola o disperderne gli studenti, ha investito 26 milioni di euro (5,5 pubblici, gli altri donati da privati) per rinnovarla. Ora la scuola ha una nuova palestra, computer e locali ammodernati. Insegna la boxe e altri sport ai giovani più aggressivi per aiutarli a dominare la violenza. E offre a circa 1400 bambini e giovani di Neukoelln opportunità d´ogni genere: dall´asilo nido a un centro di consulenza per trovare di lavoro dopo gli studi.

Repubblica 11.1.10
Per Emma sì e subito e niente Loretta
di Mario Pirani

La candidatura Bonino è un´iniziativa salvifica insperata. Richiama l´atto che nel dramma greco veniva definito "Deus ex machina" per via di quel marchingegno teatrale calato dall´alto, una specie di ascensore, attraverso cui la divinità di turno scendeva a sciogliere i nodi irrisolti in cui gli uomini si erano impigliati. Così Emma, non solo può ridare una speranza di vittoria ma, soprattutto, un ritorno d´identità negli elettori di sinistra, il senso che sono finalmente chiamati ad una scelta che possono condividere per far prevalere una donna coerente, che ha condotto grandi battaglie, che ha lavorato con impegno in Europa e in Italia, che è riuscita a non confondersi mai con la partitocrazia. Anche se per disavventura non vincesse, gli elettori potrebbero comunque dirsi che hanno fatto quello che potevano, per una causa nella quale credevano. Ed ora mi permetto di rivolgere un appello al vertice Pd, in base al fatto che, pur senza illusioni e senza essere un iscritto, ho votato Bersani alle primarie del partito, affinché smetta una buona volta (stava avvenendo ancora ieri sera, mentre scrivevo queste righe) di procrastinare le decisioni, riesumare consultazioni, immaginarsi primarie, ricercare qualche big (?) fuori tempo massimo! Basta! Se in una prima fase le perplessità di Bersani erano comprensibili, ormai sono diventate autolesionistiche. Certamente non può riesumare il centralismo democratico del vecchio Pci quando, una volta chiuso il dibattito, tutti disciplinatamente si allineavano alla decisione del gruppo dirigente. Da quella fase si è caduti, però, in un democraticismo inconcludente che trasforma ogni riunione di partito in una assemblea permanente di condomini rissosi. Franceschini lo ha teorizzato (Repubblica 27/12 us) quando ha sostenuto che a Bersani non spetta decidere ma «fare la sintesi». Cioè, pur avendo prevalso alle primarie e vinto il Congresso, non avrebbe la legittimazione a decidere ma dovrebbe ricercare ogni volta una sorta di compromesso al ribasso. Rifiuti il segretario eletto (!) questo trabocchetto esiziale al partito e alla sinistra. Secondo il mandato avuto, scelga ogni qualvolta lo ritenga giusto. Solo così uscirà dalla palude in cui sta affondando.
Un´altra osservazione. I personalismi nel Pd, purtroppo, non si placheranno. Riflettono una degenerazione pervasiva che va affrontata con una terapia generale. Non illudendosi di sradicarla del tutto ma per ridurla a fenomeno gestibile. Con le primarie, che debbono funzionare almeno come un severo concorso pubblico preventivo. Non basta averle fissate per statuto.
Occorre un regolamento attuativo minuzioso, un obbligo a ricorrervi senza deroghe, con date prefissate di svolgimento. Definendone chiaramente il campo: non servono per le cariche interne di partito, dove debbono votare solo gli iscritti ma per la scelta a larga condivisione delle candidature elettorali. Con filtri ben scanditi per non aprire ad ogni ultimo venuto un mattino di insperata notorietà. Come sarebbe il caso se, per assurdo, come qualcuno chiede si aprissero ora le primarie in concorrenza alla Bonino della autocandidata Loretta Napoleoni. Una signora che ebbi occasione di conoscere alla presentazione di un suo libro definita addirittura «grande economista» e «grande esperta di terrorismo», come prova un suo romanzo giallo sull´Iraq. Il libro, espressione del suo livello accademico si intitolava: La nuova economia del terrorismo (ed. Tropea). Al centro vi era la "scoperta" del terrorismo come maschera di una colossale centrale finanziaria, che vede Al Qaeda alleata col capitalismo americano, con «interdipendenze pazzesche» e un «tasso di crescita più alto di quello dell´economia Usa!». Sono uscito dalla sala quando il buon Giulietto Chiesa, ex corrispondente dell´Unità a Mosca e sponsor della Loretta, ha riesumato, di conseguenza, la solfa che dietro l´11 Settembre vi erano la Cia e il Mossad.

Repubblica 11.1.10
Accuse sulle pagine dell´Avvenire
Pedofilia, prete arrestato a Savona la diocesi attacca i magistrati

SAVONA - La diocesi di Savona va all´attacco dei giudici della Procura per l´arresto di don Luciano Massaferro, 44 anni, parroco di Alassio, da oltre una settimana rinchiuso in carcere a Chiavari con l´accusa di violenze sessuali su una sua chierichetta, una bambina di 11 anni. Lo fa tramite il quotidiano l´Avvenire con un articolo pubblicato ieri nella pagina curata dall´Ufficio diocesano comunicazioni sociali, dove si parla di un sacerdote «che sembra essere condannato di un reato infamante, prima ancora che le indagini siano terminate». L´articolo mette anche in dubbio la solidità dell´indagine basata sulla testimonianza di una minore «che sembrerebbe provenire da un contesto familiare noto e difficile».

l’Unità 11.1.10
Il carcere di Gaza
di Luigi Fioravanti

La strage di Gaza, lo scorso anno, è stata perpetrata da parte degli israeliani senza lasciare ai palestinesi alcuna via di scampo; anche l'Egitto fece la sua parte: chiuse i confini a sud, unica via di fuga. Quest'anno l’Egitto ha impedito ai partecipanti alla Gaza Freedom March di raggiungere Gaza, per portare ai palestinesi aiuti e solidarietà. Da tempo ormai l'Egitto dove c’è una dittatura, ma che come amico dell’Occidente, viene insignito del titolo di “paese moderato" è più interessato a compiacere Israele e Usa che a sostenere i diritti dei palestinesi. Ora sta costruendo un muro d’acciaio sotterraneo sul confine di Gaza: la striscia di Gaza sotto embargo totale da parte di Israele da tre anni chiusa per mare, per cielo, per terra, lo sarà anche sottoterra: una prigione collettiva per un milione e mezzo di abitanti. Carcerieri Israele e Egitto, finanziatori gli Stati Uniti, spettatori gli europei: nel silenzio complice di grande stampa e tv.

l’Unità 11.1.10
Iran, in cella 30 donne in lutto. Violenze su dissidenti arrestati
Arrestate trenta «madri in lutto» che a Teheran protestavano per la scomparsa dei loro figli dopo le proteste seguite alle presidenziali. Una commissione d’inchiesta intanto riconosce: «Detenuti maltrattati a morte».
di Marina Mastroluca

La commissione d’inchiesta ammette i maltrattamenti sui detenuti ma non gli abusi sessuali
In carcere i testimoni che videro le jeep della polizia investire i manifestanti il giorno dell’Ashura

Ogni sabato, tra le panchine del parco Laleh. La memoria fatta persone, rappresentazione fisica di un’assenza. Sono le madri in lutto di Teheran: l’assenza è quella dei loro figli, inghiottiti negli scontri post-elettorali dell’estate scorso e
persi nel nulla. Uccisi forse, in ogni modo scomparsi. Sono come le madri de Plaza de Mayo e come quelle danno fastidio al regime. Sabato scorso un centinaio di agenti in divisa e in borghese si sono avventati su di loro, hanno impedito che si radunassero. Una trentina delle settanta che erano sono state caricate a forza sui cellulari e portate alla stazione di polizia di Vozara.
Il dolore non è ammesso, se da privato diventa testimonianza e quindi fatto politico. Ma che nei giorni seguiti alle presidenziali del giugno scorso tra morti in piazza, feriti e arresti indiscriminati le autorità abbiano molte colpe da rim-
proverarsi è un tarlo che attraversa lo stesso establishment iraniano. Una commissione parlamentare ha ufficialmente puntato il dito contro l’ex procuratore generale Said Morquattro giorni, hanno vissuto in condizioni disumane in uno spazio di appena 70 metri quadri, dove non c’era un filo d’aria e i giovani arrestati erano «al fianco di pericolosi criminali... picchiati e umiliati dai loro carcerieri».
Tre degli arrestati non sono sopravvissuti al trattamento e l’ex procuratore ha imputato la loro morte alla meningite. Versione oggi smentita dall’inchiesta. «Il decesso è da attribuire a varie cause, come la mancanza di spazio e di condizioni igieniche, alimentazione inadeguata, caldo, mancanza di ventilazione e anche a maltrattamenti fisici», si legge nel rapporto, che invece smentisce vigorosamente che i detenuti abbiano subito violenze sessuali. «L’accusa va respinta». Said Mortazavi era stato destituito nell’agosto scorso, un mese dopo la chiusura del carcere di Kahrizak per decisione della Guida suprema, Ali Khamenei.
I COLPEVOLI
Troppe voci su violenze indicibili ragazzi e ragazze stuprati durante la prigionia troppe per un regime che si pretende monolitico e che invece non lo è. La commissione d’inchiesta era un atto dovuto per arginare l’onda di malcontento all’interno degli stessi apparati statali. E per scindere le responsabilità del regime dai soprusi commessi.
Oggi ci sono nomi e cognomi dei responsabili, quello dell’ex procuratore e di 12 agenti. Ma la violenza del regime non è stata cancellata. Secondo il rapporto della commissione parlamentare «esistono ancora centri di detenzione che necessitano di immediate ispezioni». Il sito Jaras ieri parlava di due nuovi arresti nell’entourage di Mousavi. Arrestati anche testimoni che il 27 dicembre scorso videro due jeep della polizia investire e passare sopra alcuni dimostranti durante le manifestazioni nel giorno dell’Ashura.❖