giovedì 14 gennaio 2010

l’Unità 14.1.10
Su Facebook da due mesi
La candidatura di Emma era già nella rete
di Ivana Della Portella

Qualche mese fa (era il 29 ottobre 2009) ho fondato su Facebook un gruppo dal titolo esplicativo «Emma Bonino presidente della regione Lazio: Yes we can».
Quella decisione nasceva da un’esigenza speciale: non si trattava solo di riflettere su una personalità politica in grado di ridare speranze di vittoria al centro-sinistra dopo l’episodio controverso e triste del caso Marrazzo, quanto piuttosto di rinsaldare con gli “amici” di Facebook (molti sono militanti e dirigenti delle formazioni di centro-sinistra) un sentimento di valore verso la Politica, fortemente scossa soprattutto dalla mancanza di prospettiva e visione maiuscola. Immediatamente, soprattutto a seguito dei commenti di chi si iscriveva a quel gruppo, ebbi la sensazione che quell’esigenza mia era molto diffusa in chi guarda ancora alla politica con la speranza che essa meriterebbe. Di fatto Emma Bonino raccoglie alcuni elementi simbolici del valore alto che la politica può rappresentare come strumento insostituibile per il benessere sociale. Senza voler esaltare oltre certi limiti l'individualismo, che spesso cozza con l’esercizio equilibrato del bene pubblico, mi è parso però evidente come in Emma siano accumulate e valorizzate con grande evidenza, alcune peculiarità (la serietà e il rigore del proprio impegno, la disponibilità a mettersi continuamente in discussione, il senso di sacrificio per la causa sociale) in grado di rilanciare un messaggio di positività della pratica politica che oggi restituirebbero dignità all'intera comunità civica. Quella intuizione (non così straordinaria, tra l’altro) ebbe immediato riscontro e fece crescere quel gruppo raggiungendo in breve termine una quota di iscrizioni alquanto ragguardevole considerando gruppi analoghi (siamo oggi ad oltre 5000 iscritti). La cosa che mi meravigliò, devo dirlo con franchezza e tristezza, fu l’assenza di un’immediata risposta politica che raccogliesse quel messaggio e lo rilanciasse (per esempio attraverso il metodo delle primarie) trasformando un bisogno condiviso in ipotesi di lavoro. Gli sviluppi politici conseguenti li conosciamo. Oggi, dopo uno stallo di azione politica del centro-sinistra e del Pd in particolare (più alla ricerca di raccordi tra decisori che di analisi dei bisogni: il giusto sarebbe nell’equilibrio dei fattori), e dopo che i dirigenti del Partito Radicale hanno deciso di definire la candidatura di Emma Bonino, siamo verosimilmente di fronte ad una scelta obbligata. Credo che nonostante si sia perso del tempo e si sia data l’impressione di rincorrere gli eventi piuttosto che di governarli, si sia ancora in tempo per prospettare, almeno ai cittadini del Lazio, un “concreto sogno” di seria politica.❖

il Fatto 14.1.10
La “fuoriclasse” salita sul carro vuoto del centrosinistra

Emma Bonino, il 5 gennaio, annuncia dalla sede dei Radicali italiani la sua candidatura alla guida del Lazio per la lista Bonino-Pannella. Il Pd non ha ancora un candidato. E ha affidato a Nicola Zingaretti, presidente della provincia di Roma, un “mandato esplorativo” per capire “la candidatura più idonea e coerente per le elezioni regionali e il prima possibile”. Già, il tempo stringe. La Bonino lo sa, e serve l’assist ai democrat: “Per il Pd sarebbe una grande opportunità scegliere me invece di impantanarsi in altre candidature improbabili”. Comincia, all’interno del partito, il braccio di ferro tra sostenitori e detrattori della leader radicale. Ad essere contrari sono soprattutto i teodem (Lusetti, Carra e Binetti) che parlano di un candidato “doppiamente perdente” per il Lazio, perché si perderebbero i voti dei cattolici. Ma di traverso si mettono anche alcuni “franceschiniani”: vorrebbero le primarie. Finché non si esprime il segretario del Pd Pier Luigi Bersani: “La Bonino è una fuoriclasse”. Pure Zingaretti è d’accordo, insieme all’80 per cento circa della direzione regionale. E i sondaggi danno la Bonino appaiata alla Polverini. Martedì 12 gennaio la radicale, dopo un incontro con Bersani, diventa la candidata del Pd per il Lazio.

il Fatto 14.1.10
Cattolici anti-Emma ma nei sondaggi vola
Avvenire contro Marini per il sì, Binetti, Lusetti e Carra critici
E lei precisa: “Problemi con le gerarchie ne ho molti, ma nessuno con i preti e le suore”
di LucaTelese

Domanda. Quante armate mobiliterà (o sta mobilitando) il Papa, per contrastare la candidatura di Emma Bonino alla guida della regione Lazio? Se si può parafrasare una celebre battuta di Stalin (che si chiedeva con una sarcastica sottovalutazione, di quante armate disponesse il Pontefice), la risposta sarebbe più d’una. Infatti, su Emma, si sta abbattendo in queste ore un fuoco concentrico di sapore vagamente papalino: dichiarazioni di politici, fondi di giornali, veti. Eppure, negli stessi giorni si assiste a uno strano paradosso. Mentre si moltiplicano le prese di posizione di molti politici (soprattutto di area cattolico-progressista) contro l’ex ministro, mentre si dispiegano i pronunciamenti delle testate di area cattolica contro di lei, la candidata radicale del centrosinistra appare molto ben posizionata nei sondaggi: in alcuni è solo un punto al di sotto della sua avversaria, Renata Polverini. In quello di Luigi Crespi (pubblicato su Il Clandestino) addirittura in parità. E questo senza nemmeno aver iniziato la sua campagna elettorale. Un risultato su cui nessuno avrebbe scommesso, nella regione che ospita lo Stato pontificio, men che meno nel Pd, tanto titubante sulla sua candidatura, fino alla presa di posizione dell’esploratore Nicola Zingaretti.
Radicale cattolica. Lei, Emma, era preparata fin dal primo giorno: “Mi chiedete se ho dei problemi con i cattolici? Con i preti e con le suore proprio nessuno. Ci siamo spesso incontrati nei luoghi dove soffrono gli ultimi. Con le gerarchie cattoliche sì, ne ho avuti tanti. E non da ora”. E ancora: “Io non credo. Però mia madre è cattolica, vengo da quella cultura”. Avvenire e Marini. Intanto Avvenire, il quotidiano dei vescovi, è tornato a sparare sulla sua candidatura. Ieri, un editoriale di Francesco D’Agostino, polemizzava con Franco Marini che aveva invitato i cattolici del Pd a sostenere la Bonino e a superare le divisioni fra “Guelfi e Ghibellini”. A individuare nelle battaglie della Bonino “un elemento che fa parte del retroterra dello stesso mondo cattolico: accettare la centralità della persona” . Il quotidiano dei vescovi invece non ha apprezzato affatto la sua posizione, e ha attaccato in punta di dottrina l’ex presidente del Senato: “I diritti per i quali si battono i Radicali non sono i diritti della persona, ma dell’individuo”. Spiega Avvenire: “La differenza fra queste due categorie è molto netta. Parlare di persone significa parlare di relazionalità, solidarietà, dignità, ricerca di un bene comune ed oggettivo, consapevolezza di una comune appartenenza alla famiglia umana”. Mentre invece, quello dei Radicali, secondo Avvenire: “E’ l’orizzonte del primato della soggettività, che relativizza l’oggettività del bene e assolutizza come insindacabili le preferenze dei singoli”. La chiusa dell’editoriale è prevedibile: “Questioni come la legalizzazione degli stupefacenti, la difesa del matrimonio e della famiglia, la tutela della vita (della vita prenatale, della vita in provetta, dei malati) marcano l’inconciliabilità tra il mondo radicale e il modo personalistico di pensare i diritti”.
Il coro dei politici. Un attacco che forse apparirebbe scontato, se non si inserisse in un piccolo coro. Scegliere la Bonino sarebbe un suicidio politico! – ha tuonato l’ex Popolare del Pd, Renzo Lusetti – il suo nome fa fuggire l’elettorato cattolico”. “Se la Bonino vince me ne vado dal Pd”, ha aggiunto Paola Binetti, la teodem di via del Nazareno. E persino un ex Dc con un pedigree liberal e non confessionale come Enzo Carra ha fatto sentire la sua voce con un complimento a doppio taglio: “Sono un grande ammiratore di Emma Bonino. E’ molto brava, molto preparata. Ma devo anche dire che per perdere la sua candidatura va benissimo”.
I radicali tranquilli. E a via di Torre Argentina? Sembrano preparati a reggere l’urto. Massimo Bordin, la voce di RadioRadicale che in questi giorni compulsa ogni riga sul tema nella sua rassegna, è addirittura ironico: “Verrebbe da farsi questa domanda. Ma quanto conta questo benedetto elettorato cattolico, se poi Emma viene indicata testa a testa con la cattolicissima Polverini prima ancora di aprire ufficialmente la sua campagna?”. Maria Pia Garavaglia chiede alla candidata “di valorizzare i temi cattolici”, Silvia Costa – grande raccoglitrice di voti nel Lazio – si è astenuta sul nome dell’ex ministro, nel voto decisivo in direzione regionale. Anche Marco Di Stefano, uomo di riferimento di Enrico Letta le ha fatto la guerra, Francesco Storace tuona: “C’è un baratto fra emendamenti pro-eutanasia e candidatura nel Lazio”. Eppure, malgrado tutto, la nave di Emma va.

l’Unità 14.1.10
Pd-Prc: accordo difficile in almeno quattro regioni. Ma c’è una schiarita con Sl
Incontro tra Bersani e Ferrero, ma restano i nodi. In una regione su tre la sinistra radicale sosterrà candidati alternativi a quelli del Pd. La proposta dove c’è l’accordo con l’Udc: «Coalizioni istituzionali, non di governo».
di Simone Collini

Allearsi con l’Udc senza rompere con la sinistra radicale. È a questo che punta il Pd, per le regionali di marzo. Impresa non facile. E se la schiarita che pare arrivare in Puglia sta portando Sinistra e libertà a sedersi ai tavoli delle trattative sospesi in tutte le regioni da giorni, il rapporto del Pd con Rifondazione comunista e Pdci è più complicato.
Pier Luigi Bersani ha incontrato Paolo Ferrero al Nazareno ma il colloquio non è bastato a sciogliere i nodi. Il segretario del Pd è convinto che non sia possibile lavorare insieme al Prc per «creare un progetto di governo alternativo». E quello del Prc, nella veste di portavoce della Federazione della sinistra, ha sostenuto che il Pd «ha un profilo troppo moderato». In più laddove ha già chiuso o sta per chiudere l’accordo con i Democratici ovvero Piemonte, Liguria, Marche e Basilicata l’Udc sta ponendo una sorta di veto sulla presenza della sinistra radicale nell’alleanza per il governo regionale. Una situazione da cui Bersani pensa di uscire proponendo alle parti «coalizioni istituzionali, non di governo»: non ci sarebbero assessori della sinistra radicale, con la quale però verrebbe stipulato un «patto di consultazione e collaborazione» in Consiglio regionale. È soprattutto nelle Marche, dove il lavoro per avere il sì dell’Udc ha prodotto una lacerazione con Prc, Pdci e Sel, che si sta tentando questa strada.
ROTTURA IN UNA REGIONE SU TRE
Il rischio di allargare da una parte e perdere pezzi dall’altra non è di poco conto perché in diverse sfide il voto della sinistra radicale sarà tutt’altro che ininfluente. A cominciare dal Lazio, dove stando ai sondaggi la partita sarà sul filo di lana. Sinistra e libertà, dopo averla incontrata, ha già detto che sosterrà Emma Bonino. Ferrero la vedrà tra oggi e domani. Dice di avere «riserve sul suo profilo politico» e all’incontro chiederà garanzie
soprattutto per quel che riguarda le «politiche sociali». Ma Rifondazione sa che si assumerebbe una delicata responsabilità a rompere col resto del centrosinistra in una regione dove la partita è così aperta.
La rottura appare invece inevitabile in almeno quattro regioni. In Calabria, Prc e Pdci sono orientate a sostenere insieme all’Idv il re del tonno Pippo Callipo, sia che il Pd schieri il vincitore delle primarie (probabilmente Agazio Loiero) sia che lasci all’Udc la scelta del candidato (Roberto Occhiuto, se si chiude l’accordo). La stessa minicoalizione dovrebbe presentare come candidato governatore della Campania Riccardo Realfonzo (Prc), che a correre sia il sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, l’assessore bassoliniano Ennio Cascetta o il rettore universitario Raimondo Pasquino (gradito all’Udc). Stesso schema in Veneto se il Pd chiuderà con l’Udc sulla candidatura del centrista Antonio De Poli: Idv e sinistra radicale sosterranno Massimo Donadi. Tutto ciò, se non ci saranno le conseguenze minacciate dalla Federazione della sinistra («ora in discussione accordi tra noi e Sel in tutte le regioni») dopo che Sinistra e libertà è entrata nella coalizione che sosterrà in Lombardia Filippo Penati, che ha invece chiuso a Prc e Pdci.❖

l’Unità 14.1.10
D’Alema ottiene il via libera di Casini: l’Udc non partecipa ma aspetta l’esito dei gazebo
Il 30 gennaio la data più probabile. Boccia pone condizioni e domande al veleno. Nichi risponde
Primarie, il Pd ci ripensa Sì alla sfida Vendola-Boccia
Centrosinistra in Puglia verso le primarie il 30 gennaio. Casini dà il suo ok (sofferto) a D’Alema, Boccia frena e pone condizioni, Vendola esulta: si esce dalla confusione nel modo migliore.
di Andrea Carugati

Il condizionale è ancora d’obbligo, ma la tormentata vicenda delle regionali pugliesi con tutta probabilità si risolverà con le primarie. Nichi Vendola contro Francesco Boccia, come nel 2005. La data è già pronta, il 30 gennaio.
PRIMARIE, CADE IL VETO DI CASINI
Ieri mattina la situazione si è sbloccata. Il pressing condotto da giorni da Massimo D’Alema su Pierferdinando Casini ha ottenuto un risultato decisivo: il leader Udc, spiegano i suoi uomini, pur restando «allergico» ai gazebo, si è detto pronto ad attendere l’esito delle primarie. Manca però ancora l’ufficialità. Casini non esce ancora allo scoperto, e l’Udc è intenzionata a non partecipare ai gazebo e resta pronta ad allearsi con il Pdl in caso di vittoria di Vendola. «Correre da soli? È un regalo che non faremmo mai a Vendola, non se lo merita», dice Rocco Buttiglione. Boccia non ha ancora sciolto la sua riserva, aspetta l’assemblea di sabato del Pd pugliese, e pone due condizioni: che tutto il partito (o almeno una larga maggioranza) si dica favorevole alla sua ipotesi politica, e cioè la nuova coalizione “per il Sud” allargata ai centristi; e la disponibilità ufficiale di Casini ad attendere l’esito delle primarie senza rompere con i democratici. «Se l’assemblea avallerà la nuova coalizione andrò avanti, altrimenti no. E chi pensa che le primarie con Vendola e l’adesione dell’Udc siano compatibili ad oggi fa solo esercizi di bella retorica». «Fino a questo momento Udc, Idv, Pdci, Socialisti e Verdi hanno confermato di non partecipare alle primarie», aggiunge Boccia. Parole prudenti, ma chi lo conosce bene assicura che ben presto Boccia annuncerà la sua disponibilità a sfidare il governatore uscente alle primarie, dopo aver ottenuto un congruo numero di firme in calce al documento politico sulla nuova coalizione elaborato da Sergio Blasi, segretario del Pd pugliese. Che ieri mattina ha visto Bersani insieme a Boccia a Roma e dice: «Le primarie non le abbiamo mai escluse, sono nel nostro statuto». Boccia, poi, sul suo blog lancia 10 domande al veleno al rivale, alle quali Vendola risponde puntualmente. Sui rapporti con l’Udc chiarisce di aver «posto alla sinistra italiana il tema di un nuovo compromesso con forze moderate e centriste, incluso l’Udc di Casini». Sulla sanità spiega nel dettaglio le politiche di prevenzione attuate. Sui rifiuti dice di aver «cancellato dal Piano quella porcheria che erano gli inceneritori di vecchia generazione». Chiarisce di aver «bocciato» il raddoppio della raffineria Eni di Taranto. Risponde, ancora, di «non aver licenziato» il presidente dell’acquedotto Petrella. E, ancora, riferisce sugli investimenti culturali e sulle assunzioni che dice di aver incentivato attraverso concorsi pubblici.
VENDOLA ESULTA
Intanto Vendola si gode l’ipotesi delle primarie. «Si comincia a uscire dalla confusione nel modo migliore: le primarie il vero antidoto alla rottura, sono una vittoria del buon senso, del popolo democratico e anche delle ragioni costitutive Pd». D’Alema resta abbottonato: «In Puglia stiamo lavorando per riportare l’unità del centrosinistra intorno alla soluzione che garantisca l’alleanza più ampia». Se l’operazione andrà in porto, l’assemblea pugliese di sabato si scaricherà delle ten-
sioni che potevano portare a una sanguinosa conta. E si limiterà a prendere atto dell’intesa raggiunta e a dare il via libera alle primarie, ufficializzando l’appoggio del Pd al candidato Boccia.
In Umbria invece la situazione è ancora ingarbugliata. Ieri il coordinatore della segreteria di Bersani Maurizio Migliavacca ha indicato la governatrice Maria Rita Lorenzetti come il candidato «più autorevole» per succedere a se stessa: «Rappresenta il meglio dell’esperienza del centrosinistra in Umbria». Ma Antonello Giacomelli, autorevole esponente dell’area Franceschini che chiede sostiene il candidato Mauro Agostini, gli ha risposto a muso duro: «Ci sono delle regole da rispettare, per avere la deroga per il terzo mandato serve una maggioranza dei due terzi in assemblea». Le consultazioni del segretario del Pd umbro Bottini, che ha il mandato di trovare un nome di sintesi, non sono ancora iniziate. «Mancano le condizioni», spiegano dal Nazareno.❖

l’Unità 14.1.10
Manifestazione antirazzista
Con gli immigrati senza se e senza ma
di Roberto Della Seta Francesco Ferrante

A che serve, che futuro ha il Partito Democratico se non reagisce con veemenza e nettezza dopo i gravissimi fatti di Rosarno? Che ci sta a fare un partito come il Pdse non mobilita la sua forza organizzata, non mette in gioco le sue facce più autorevoli, per gridare che la “caccia al negro” di Rosarno, qualunque sia la sua dinamica, è un abominio razzista; per dare voce a quella parte di Calabria, d’Italia, che rifiuta l’idea d’un Paese dove migliaia di persone vengono lasciate vivere e lavorare come vivevano e lavoravano i migranti africani a Rosarno, come vivono e lavorano decine di migliaia di altri migranti in tutta Italia?
Il razzismo, la xenofobia, come ogni altro fenomeno collettivo, hanno sempre le loro spiegazioni sociali, culturali. È giusto ricercarle e approfondirle, è giusto e necessario in questo caso capire rapidamente da cosa nasce la rabbia di molti rosarnesi contro gli immigrati. Come è altrettanto giusto, urgente e importante capire il ruolo giocato dalla ’ndrangheta in tutta questa vicenda dai risvolti oscuri e inquietanti.
Ma qualunque ne siano le cause, la “caccia al negro” è e resta un “effetto” schifoso e indegno, punto e basta. Ogni atteggiamento neutrale o cerchiobottista sarebbe insopportabile: si può e si deve stare solo da una parte, dalla parte delle vittime. Per questo, ora più che mai, s’impone una grande reazione pubblica che vada oltre a quello che già fanno le associazioni quotidianamente impegnate nell’assistenza e nella solidarietà agli immigrati e alla Chiesa, che veda in prima fila le forze politiche che si richiamano ai valori della coesione sociale, dell’anti-razzismo, dell’accoglienza verso chi viene in Italia spinto dalla miseria e chiamato – chiamato da “noi” – per lavorare. Che veda in prima fila, protagonista, il Partito Democratico.
Un giorno di marzo, per 24 ore, centinaia di migliaia di lavoratori immigrati incroceranno le braccia per mostrare concretamente all’Italia che senza di loro il nostro Paese è zoppo, non funziona. Questa iniziativa, che ne replica una analoga organizzata recentemente in Francia, per ora è promossa da un insieme di organizzazioni di immigrati e di forze dell’associazionismo e del volontariato.
L’appello che noi lanciamo da questo giornale è che il Partito Democratico aderisca a questa protesta, ne faccia un elemento fondante della sua identità collettiva, e che quel giorno si mobiliti in una manifestazione nazionale anti-razzista. Se non ora, quando?
Roberto Della Seta e Francesco Ferrante sono parlamentari del Partito Democratico

l’Unità 14.1.10
Le anime belle di Rosarno
di Lidia Ravera

I lavoratori stranieri che raccoglievano agrumi a Rosarno abitavano baracche simili a quelle della sterminata periferia di Bombay. Cartoni, copertoni, lamiere ondulate. Bene che vada una branda sfondata. Zero igiene. Buio. Bestie. I lavoratori stranieri che raccoglievano agrumi a Rosarno guadagnavano in media 2 euro l’ora e lavoravano un numero di ore che nessuna legge di nessun paese civile consente. I lavoratori stranieri che raccoglievano agrumi a Rosarno non avevano affetti né conforto. Lavoravano e basta. Tutti maschi, giovani, di pelle nera. I cittadini di Rosarno, che non raccolgono agrumi a Rosarno, erano disturbati dalla vista di quell’esercito di sfruttati silenziosi, rassegnati, forti e soli. C’è da comprenderli: non era un bello spettacolo. Era uno di quegli spettacoli che mettono disagio e vergogna. Ma alcuni cittadini di Rosarno, di quelli che non raccolgono agrumi, hanno manifestato l’intenzione di scacciare quegli stranieri che raccoglievano agrumi a Rosarno, quasi fosse colpa loro, quasi fossero loro, i reponsabili, gli autori, i registi di quel brutto spettacolo. Erano soltanto gli attori, e recitavano il ruolo per forza, non certo per sfizio. A nessuno piace far pena, meno ancora fare ribrezzo. Alcuni a Rosarno si sono sentiti minacciati da tutto quel dolore, da tutta quella fatica, da tutta quella disperazione, compresse lì, alla periferia della loro ridente cittadina. E che cosa hanno fatto? Li hanno aiutati? No: hanno aperto la caccia. La caccia è pur sempre uno sport, e come gli sport serve a scaricare i nervi. Così, in piazza coi forconi, sono scesi anche diversi nullafacenti annoiati. Quelli che non raccolgono niente, neanche la spazzatura. «Fuori i negri da casa nostra», urlavano. E menavano duro. Ma naturalmente nessuno di loro era razzista. Il razzismo è un’invenzione dei comunisti o di chi ne fa le veci. In Italia, siamo tutti anime belle.❖

il Fatto 14.1.10
“Non avevo mai visto esseri umani trattati così”
Parola del fotografo olandese che ha documentato la vita dei braccianti stranieri in puglia
di Elisa Battistini

Ha scattato fotografie in tutto il mondo, l’olandese Piet den Blanken. Documentando la vita degli afghani a Kabul dopo i bombardamenti, le carceri in San Salvador, gli immigrati che passando da Tenerife cercano di arrivare in Europa e quelli che, già in Europa, da Calais vogliono andare in Gran Bretagna. Ma la situazione che ha incontrato a settembre nel Tavoliere delle Puglie (dove ogni anno circa 70 mila braccianti stranieri raccolgono i pomodori) lo ha lasciato senza fiato. “Dopo aver scattato alcune immagini mi sono messo a piangere”, ci dice. “Nella mia vita ho ascoltato molte storie di immigrazione e conosco bene le frontiere europee. Ho visto in faccia la disperazione delle persone e situazioni molto drammatiche, anche nel nostro continente. Ma non avevo mai visto, in Europa, condizioni di lavoro come quelle degli stagionali stranieri nel foggiano”. Che a den Blanken hanno fatto venire in mente le condizioni di vita dei braccianti nella Repubblica Domenicana, o quelle dei raccoglitori del caffè in Messico. Oppure gli allevatori delle capre in Ecuador. Che sono poverissimi e vivono nell’indigenza assoluta. “Sono venuto in Puglia per raccontare la vita di queste persone dimenticate – dice – che nessuno vuole vedere e di cui nessuno si vuole occupare. E non solo da voi, in Italia, ma in tutta Europa. Gli immigrati sono il sintomo di un sistema economico che ha bisogno di schiavi per continuare ad esistere. Sono una conseguenza dell’ingiustizia prodotta dall’economia neoliberista. Di problemi molto grandi, insomma, che nessuno vuole affrontare”.
Di fronte al suo obiettivo gli stranieri avevano due atteggiamenti: “Alcuni si vergognavano e cercavano di non mostrarsi malati, sporchi. Altri al contrario volevano far vedere la loro vita e far capire a tutti cosa significa essere irregolari, schiavizzati”. Girando per quell’inferno fatto di baraccopoli, ghetti fatiscenti, case ricoperte di nylon per isolarle dalla pioggia, Piet ha provato emozioni molto forti. “Ricordo in particolare un ragazzo che mi ha invitato a entrare nella sua ‘casa’. Era un tugurio di cartone senza servizi igienici né acqua corrente. Mi ha offerto un tè, preparato su un fornellino con l’acqua che teneva in una tanica. Nonostante tutto, le persone non vogliono perdere la propria dignità: questo ragazzo mi ha trattato come si fa con gli ospiti. Ma l’emozione è nata perché, guardando lui, ho pensato a mio figlio. Che va all’università e ha una vita completamente diversa solo perché è nato in Olanda. Un pensiero così semplice ma così efficace: quel ragazzo in quella baracca poteva essere mio figlio”.

il Fatto 14.1.10
Arance senza succo
Dietro la guerra di Rosarno, la decisione dell’Europa di dare contributi non a chi produce, ma a chi possiede
Costano meno i prodotti che arrivano dall’estero. Ecco perché gli schiavi neri non servono più di Daniele Martini

Dove scoppierà la prossima Rosarno? C’è una parola brutta che gli esperti agricoli usano con insistenza per spiegare che le ragioni economiche alla base della cosidetta guerra delle arance probabilmente faranno da innesco ad altre battaglie. Il termine è “disaccoppiamento”. Tradotto in soldoni significa questo: per ottenere gli aiuti ad integrazione del reddito dalla Comunità europea, senza i quali l’impresa agricola spesso rischia di finire a gambe all’aria, in particolare nel Mezzogiorno, da qualche tempo non è più necessario produrre o, almeno, far finta di produrre. Basta dimostrare che si possiede un appezzamento e i quattrini arrivano. Tra produzione e proprietà c’è, appunto, un disaccoppiamento, una scissione, un disgiungimento. Una follia? Un incentivo a lasciare le terre incolte? Il colpo finale ad un’agricoltura malata? Sì e no. Di certo il disaccoppiamento è un cambiamento epocale per le campagne italiane, meridionali in primo luogo. Una rivoluzione di cui pochi si sono accorti, ma che ora nel bene e nel male comincia a produrre i suoi effetti.
Rosarno è il frutto avvelenato del cambiamento in atto e quasi sicuramente non resterà isolato. “Non voglio fare la Cassandra, oggi è capitato qui, ma tra un po’ capiterà da un’altra parte, è inevitabile”, sostiene senza enfasi e quasi scusandosi per la previsione nera Pietro Molinaro, presidente della Coldiretti calabra, l’organizzazione agricola che con 30 mila iscritti è la più rappresentativa e forte della regione. Con il disaccoppiamento in alcuni casi è più conveniente lasciar marcire i prodotti nei campi o sugli alberi piuttosto che raccoglierli, anche utilizzando i disperati neri a 25 euro al giorno come succedeva a Rosarno, figurarsi poi se si usa manodopera regolare che tra contributi e assicurazioni costa un’ottantina di euro. E se il lavoro agricolo irregolare o regolare serve di meno, le conseguenze sociali, razziali e di ordine pubblico sono facilmente immaginabili, soprattutto in zone povere come Calabria e sud Italia.
In Calabria, in particolare, il disaccoppiamento deciso a livello comunitario nel 2005, è entrato in vigore per le arance da poco e ora si sta sommando agli effetti della concorrenza agricola straniera arrembante, spesso in grado di offrire merci a prezzi incredibilmente bassi, quasi stracciati. Le arance della Piana di Gioia Tauro rimarranno a sciuparsi sui rami perché sono di una qualità particolare, selezionata non per la tavola, ma per la spremitura e la trasformazione, per effetto di una scelta in parte casuale degli agricoltori e in parte a suo tempo ritenuta oculata, effettuata con l’intento di sottrarre il prodotto alle oscillazioni del mercato delle arance fresche, sottoposte ai cambi repentini dei gusti e delle mode dei consumatori. Anni fa pochi potevano prevedere che l’Europa avrebbe scelto il disaccoppiamento e che l’industria locale di trasformazione sarebbe arrivata a ritenere non più convenienti le arance della Piana, perché costano troppo, nonostante l’utilizzo degli schiavi neri, ed è economicamente più vantaggioso far arrivare il succo via nave dal Brasile fino al porto di Gioia Tauro.
Le imprese calabresi che fino all’altr’anno ritiravano il prodotto, per poi ricollocarlo presso i grandi marchi per la lavorazione successiva fino all’aranciata o al succo in bottiglia o nel tetra pak, quest’anno offrono dai 5 ai 7 centesimi al chilo, pur sapendo che i costi sopportati dagli agricoltori sono da 2 a 3 volte maggiori anche con l’uso di manodopera irregolare per la raccolta. Tutto ciò non significa che dagli scaffali dei superrmercati o dai frigo dei bar nel 2010 scomparirà l’aranciata “made in Calabria”.
Sfruttando una legge che non impone l’obbligo di indicare l'origine del succo nelle bevande, le aziende italiane di trasformazione spacceranno più o meno legalmente come made in Italy e in alcuni casi addirittura calabrese doc, aranciate e succhi che di italiano hanno solo l’etichetta. I consumatori probabilmente neanche si accorgeranno del trucco, ma per gli agricoltori è un pugno in faccia e per gli schiavi neri è la condanna certa all’espulsione da parte di chi li ha sfruttati e brutalizzati senza scrupoli per anni e anni.
Le prime avvisaglie dello stravolgimento delle convenienze in atto nelle campagne si sono avute con la raccolta delle olive, subito dopo è toccato alle arance, ma prima o poi la campana suonerà anche per altre produzioni, sia quelle seminate, sia quelle agricole. Nella disattenzione quasi generale, è da questa estate che il mondo agricolo europeo è in fermento, con proteste e manifestazioni che interessano perfino i paesi ricchi da un punto di vista agricolo, dalla Germania alla Francia alla Spagna. Per quanto riguarda l’Italia il disaccoppiamento è solo un po’ rinviato per alcune produzioni tipiche come il pomodoro che, come spiegano gli esperti, fino alla prossima estate resta “accoppiato” (dicono proprio così) al pari delle pere Williams e delle pesche. Poi che succederà? Quando l’Unione europea approvò il disaccoppiamento certo non sapeva che le conseguenze avrebbero potuto essere così devastanti. Come spiega con franchezza Francesco Postorino, direttore del servizio economico Confagricoltura, l’Europa era ossessionata dalle spese crescenti per l’agricoltura e decise di darci un taglio abolendo gli aiuti concessi sulla base delle quantità di prodotti coltivati e sostituendo questo sistema variabile con un meccanismo a cifra fissa. Stabilì che i contributi sarebbero stati erogati indipendentemente dal prodotto coltivato, sulla base della media di aiuti ottenuti per ettaro da ciascun agricoltore nei tre anni precedenti. I legislatori pensavano di prendere più piccioni con una fava: risparmiare quattrini, stroncare gli abusi e nello stesso tempo non incentivare le produzioni in eccedenza (ricordate proprio lo scandalo delle arance distrutte con le ruspe?) favorendo in qualche modo anche le esportazioni dei paesi agricoli in via di sviluppo. Come spesso succede, la via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni. Nessuno previde che l’inferno si sarebbe materializzato presto, con una guerra tra bianchi e neri e le barricate nelle strade di un paese in Calabria, sud Italia.


il Fatto 14.1.10
Il fondamentalismo padano: una “Jihad” in salsa lumbard
Additato come nemico, il modello più vicino all’intolleranza del Carroccio è proprio il fanatismo islamico Dicono che nei paesi musulmani non ci sono le chiese ma è una colossale
bugia
di Massimiliano Boschi

Entrambi auspicano una guerra santa, entrambi vogliono i propri simboli religiosi sulle bandiere nazionali, entrambi utilizzano la religione per pura propaganda e alimentano la paura per volontà di potere. Le vicinanze tra i fondamentalisti islamici e i leghisti nostrani non sono mai state così evidenti. Ovviamente fare propaganda alla guerra santa tra i campi profughi piuttosto che nei bar della Padania produce effetti diversi. La violenza da una parte è solo evocata, dall’altra praticata ma, nei fatti, i leghisti inseguono gli integralisti sul loro stesso terreno.
Un esempio è l’articolo del 29 dicembre scorso sulla Padania dove Enrico Macchi attacca la Chiesa “schiacciata com'è su posizioni solidaristiche del tutto perdenti” e invoca una nuova battaglia di Lepanto “perché a volte la guerra, metaforica o meno, è necessaria per ottenere la pace”. Dalla Padania, quindi, l’invito a tutti i cristiani a coalizzarsi contro i mussulmani come fece Pio V a Lepanto. Una “Lega santa” per una “Jihad” in versione “lumbard”. Che i leghisti si ispirino ai fondamentalisti è poi esplicitato da loro stessi. Si veda la proposta di un referendum contro le moschee in Italia in nome di una presunta reciprocità: “là niente chiese, qua nessuna moschea”. In Marocco, però la Chiesa cattolica è presente con 18 chiese che possono ospitare i 20.000 fedeli presenti. In Tunisia le parrocchie sono 6, mentre i luoghi di culto in generale sono circa 15. La chiesa cattolica è presente persino in Pakistan con sette diocesi. É invece in Arabia Saudita, terra di Bin Laden, che sono proibiti gli edifici cristiani. Non risulta, però che la maggior parte degli immigrati presenti in Italia sia di origine saudita. Senza contare che centinaia di moschee sono presenti in Germania, Francia, Olanda. Evidentemente la Lega ha altre fonti di ispirazione e preferisce il modello saudita.
Ultimamente gli unici europei che stanno simpatici ai leghisti sono gli svizzeri solo perché hanno votato contro i minareti. Anche se la Svizzera ospita comunque 200 tra moschee e luoghi di preghiera islamici. Restano proprio solo i sauditi. Altrove hanno compreso che se si chiede il rispetto per la propria religione si deve rispettare quella dell’altro. In caso contrario si rischia di arrivare a quella guerra santa che sembra tanto affascinare i fanatici di ogni religione. Quelli che insieme al fanatismo coltivano un identico vittimismo. Si legga quanto scriveva Bin Laden nel sua “fatwa” del 1996: “Non dovrebbe venirvi nascosto che il popolo dell’Islam ha sofferto per le aggressioni, le iniquità e le ingiustizie infertegli dall’alleanza di crociati e sionisti e dai loro collaboratori; a tal punto che il sangue dei musulmani è diventato quello meno prezioso e il loro benessere è il bottino nelle mani dei nemici. Il loro sangue è stato versato in Palestina e in Iraq. Le orrende immagini del massacro di Cana, in Libano, sono ancora vive nella nostra memoria. Massacri in Tajikistan, (...) Filippine, Somalia, Eritrea, Cecenia e Bosnia. Massacri che danno i brividi e scuotono le coscienze”. Questo “invece” (si fa per dire), ha scritto il Gruppo Consiliare della Lega Nord in Emilia Romagna nell’introduzione all’opuscoloIslam e immigrazione. I numeri di un’invasione: “Nelle capitali dei paesi islamici si assaltano sedi diplomatiche, si bruciano simboli dell’odiato occidente, si distruggono chiese e si uccidono preti e missionari, si mettono bombe per annientare quel poco che resta delle comunità cristiane che da centinaia di secoli popola quei paesi”. Da “Al Qaeda” alla Lega: stesso tono, stesso vittimismo, stesso invito alla rivolta contro il nemico religioso. Così, se da una parte si semina il terrore, dall’altra una più gestibile “fifa”, ma intanto si innalza il muro attraverso una propaganda assillante su quanto “l’altro” sia pericoloso, tra provocazioni reciproche. E se da un parte si bruciano le bandiere occidentali, dall’altra si cammina con i maiali sui terreni adibiti alle costruzione delle moschee.
Ma l’effetto più assurdo e preoccupante è quello per cui per difendere “le nostre libertà”, i leghisti propongono di limitarle costantemente e in molti, anche a sinistra, si adeguano. Si veda per esempio la costante “talibanizzazione” delle città italiane. Ovvero il lunghissimo elenco di divieti in cui sono maestri i sindaci leghisti, seguiti purtroppo da primi cittadini di ogni colore politico in cerca di facile consenso. E così ci ritroviamo a vivere in città in cui è vietato lo stazionamento “a più di tre persone nei parchi nelle ore notturne” (come a Novara), in cui si multa un bambino di quattro anni perché mangia un panino davanti a una chiesa (Verona) in cui non si può camminare a torso nudo (Sanremo) o si segano le panchine dei parchi pubblici come a Treviso. Mentre il ministro dell’Interno, il leghista Roberto Maroni, vieta le manifestazioni davanti ai luoghi di culto. Destino inevitabile, perché quello che spaventa realmente leghisti e fondamentalisti non è la religione altrui, ma la libertà.

Repubblica 14.1.10
Quei silenzi sul lavoro nero
di Tito Boeri

I fatti di Rosarno sono la dimostrazione che le nostre leggi sembrano essere fatte per aumentare i benefici privati della clandestinità e per scaricarne i costi sull´intera collettività

Mi sono chiesto molte volte perché in Italia le associazioni imprenditoriali non protestino mai o quasi mai contro le nostre stringenti e anacronistiche politiche dell´immigrazione. Altrove sono le rappresentanze dei datori di lavoro ad alzare la voce quando si abbassano le quote di ingresso, impedendo l´arrivo di nuovi immigrati. Chi paga il lavoro di altri ha tutto da guadagnare nell´avere manodopera a basso costo, come quella immigrata. Paradossalmente in Italia sono invece i sindacati, tra le cui fila ci sono molti lavoratori poco qualificati che possono legittimamente temere la competizione salariale dei nuovi arrivati, che si sono opposti, soprattutto per ragioni ideologiche, alla chiusura delle frontiere, mentre le associazioni di categoria sono state silenti nell´accogliere leggi, come la Bossi-Fini, che impongono vere e proprie forche caudine ai lavoratori e datori di lavoro che vogliano mettersi in regola. Perché?
La risposta ci viene da vicende come quella di Rosarno e dalla prima indagine rappresentativa degli immigrati clandestini, condotta in Italia. Gli immigrati arrivano comunque perché le restrizioni sugli ingressi non vengono minimamente rispettate. Sarà così fin quando continueremo a tollerare il lavoro nero: gli immigrati vengono da noi sfidando ogni restrizione perché in Italia si trova facilmente lavoro senza aver bisogno di avere un permesso di soggiorno. Quindi i datori di lavoro trovano comunque le braccia a basso costo di cui hanno bisogno. Ma c´è di più: dato che si tratta di immigrati irregolari, in attesa di regolarizzare la loro posizione, possono pagarli ancora meno di quanto pagherebbero gli immigrati regolari. È una forma più o meno esplicita di ricatto: o accetta queste condizioni, oppure il lavoratore viene denunciato o comunque non aiutato a regolarizzarsi alla prossima sanatoria. Reati come quello di immigrazione clandestina servono solo a permettere di meglio esercitare questo ricatto, non certo a ridurre gli arrivi di irregolari.
I disperati che raccoglievano le arance a Rosarno guadagnavano 18 euro al giorno, con una paga oraria di due euro. Avevano paghe cinesi in un paese in cui il costo della vita è quasi cinque volte superiore che a Pechino, dove peraltro i datori di lavoro offrono agli immigrati un alloggio, seppur precario. Non solo in Italia, ma in tutto il mondo, la televisione ha fatto vedere in che condizioni vivevano gli immigrati di Rosarno. La Bbc, che aveva denunciato casi come quelli di Rosarno più di un anno fa senza stimolare alcuna reazione da parte delle autorità nazionali o locali, ha sottolineato come fossero condizioni peggiori che nelle baraccopoli dei paesi in via di sviluppo.
Questo uso delle leggi dell´immigrazione per pagare ancora di meno il lavoro degli immigrati non è limitato al solo Mezzogiorno. Anche al Nord chi è senza permesso di soggiorno o in attesa del suo rinnovo viene pagato, a parità di altre condizioni (tipo di lavoro, età, qualifica e genere), molto di meno di chi è in regola. Questo fatto emerge da un´indagine svolta da Erminero&Co per conto della Fondazione Rodolfo Debenedetti, nei mesi di novembre e dicembre 2009, in 8 città italiane ad alta densità di immigrati (Alessandria, Bologna, Brescia, Lucca, Milano, Prato, Rimini e Verona). Sin qui i dati sugli immigrati venivano raccolti mediante interviste a persone casualmente estratte dall´Anagrafe, che non contiene chi non è regolarmente in Italia. Oppure c´erano state indagini presso i centri della Caritas o di altre organizzazioni umanitarie che forniscono assistenza agli immigrati: il problema con questo metodo di rilevazione è che raccoglie informazioni solo su quegli immigrati irregolari che hanno talmente bisogno di vitto e alloggio da correre il rischio di rivolgersi a dei centri nei pressi dei quali ci potrebbero essere più frequenti controlli di polizia. L´indagine svolta nelle 8 città si è basata, invece, sul campionamento casuale di isolati, in aree ad alta densità di immigrati.
Ecco i primi dati: il 40 per cento di coloro che non hanno un permesso di soggiorno viene pagato meno di 5 euro all´ora contro il 10% tra chi è in regola. Otto irregolari su dieci lavorano anche il sabato e in quattro su dieci anche la domenica; tra chi ha un permesso di soggiorno queste percentuali sono significativamente più basse.
Chi assume un lavoratore immigrato, traendo benefici dal basso costo del suo lavoro, dovrebbe contribuire a sostenere le spese per la sua integrazione (scuola, sanità e servizi sociali) e pagarlo al punto da fargli raggiungere uno standard di vita tale da permettergli una convivenza civile con la popolazione autoctona. Da noi, invece, avviene esattamente l´opposto. Si entra facilmente ma poi la regolarizzazione è un percorso ad ostacoli che attribuisce un forte potere contrattuale al datore di lavoro. Insomma le nostre leggi sembrano essere fatte apposta per aumentare i benefici privati dell´immigrazione e per socializzarne i costi. Tra questi costi bisognerebbe aggiungere anche quello di non permettere agli immigrati di avere diritti civili. È un costo anche quello perché se avessero una voce, una rappresentanza a livello locale e nazionale, il loro disagio potrebbe esprimersi in modo civile, prima che si superi il livello di guardia.

il Fatto 14.1.10
Gela, un carcere lungo 50 anni e 2 inaugurazioni
Alfano annuncia piani mirabolanti ma le celle ci sarebbero già
di Giuseppe Lo Bianco

Gela . Q uello giovane è in tuta, leggermente stempiato. Il più anziano è in divisa, con i gradi di maresciallo. Sono gentili e annoiati, sorridono e non parlano. “Dobbiamo essere autorizzati dal ministero”. Si affacciano davanti la palazzina gialla perfettamente rifinita appena scorgono l’auto sconosciuta che entra tranquillamente dal cancello aperto nel cortile, schivando tubi elettrici, condotte fognanti e pezzi di lamiera in attesa di essere collocati. “Ce la fate a finire entro luglio?” domandiamo agli operai. “Sempre che non piove”, rispondono sorridendo. Fuori una Panda blu notte con le insegne della Polizia Penitenziaria parcheggiata accanto a tre auto degli operai al lavoro in un cantiere aperto in contrada Balate, ci ricorda che siamo in un’area di reclusione. Benvenuti nel carcere fantasma di Gela, dove il giovane ed il più anziano sono gli unici due agenti di custodia di una struttura vuota, perfettamente efficiente, eppure mai entrata in funzione. Sono i guardiani del tempo, più che dei detenuti, che qui non hanno mai messo piede. E quando il più giovane apprende che il carcere è stato progettato nel 1959, sorride ancora: “Non ero neanche nato”. Inaugurato due volte in 50 anni, consegnato ufficialmente lo scorso anno all’amministrazione penitenziaria, ma oggi non ancora pronto, il carcere di Gela è il simbolo paradossale delle opere pubbliche incompiute siciliane. E una spina nel fianco dei governi di centrosinistra e di centrodestra che sulla città hanno vomitato promesse mai mantenute, lasciando il Comune a gestire un appalto infinito che non si è ancora concluso. Nella città teatro della più sanguinosa guerra tra Cosa Nostra e la “stidda”, dei 150 incendi dolosi l’anno, delle estorsioni a tappeto, dove chi viene offeso da una parola ingiuriosa attende ancora sotto casa l’avversario per sparargli ai piedi, il carcere desolatamente vuoto diventa paradossalmente una “presenza rassicurante”, come dice un funzionario di polizia: “L’idea del carcere, per i gelesi, ancora oggi non è un’idea concreta”.
E così i detenuti, decine a settimana, vengono trasferiti nella struttura vicina di Caltagirone “che lavora solo con noi” ,dicono le forze dell’ordine, con notevole dispendio di tempo, uomini, e mezzi, costringendo anche i magistrati a lunghe trasferte per gli interrogatori. Lo progettarono nel 1959, come un carcere mandamentale, perchè a Gela esisteva solo la Pretura, il progetto fu approvato nel 1978 e i lavori iniziarono solo quattro anni dopo, nell’82. Ma otto morti in una notte, nel novembre del ’90, consigliarono il ministero della Giustizia ad istituire il Tribunale, dimenticando però un dettaglio burocratico: da casa mandamentale, il carcere avrebbe dovuto essere adeguato agli standard di casa circondariale. E così lo Stato contro i delinquenti gelesi si mosse a due velocità: pensò alla pena, con il Tribunale, ma non alla sua applicazione. Fra progetti, autorizzazioni, ricerca di investimenti e nuovi appalti volarono gli anni: mentre Gela scalava le classifiche delle città a maggior rischio criminale, e il governo mandava plotoni di agenti e carabinieri per fronteggiare una criminalità mafiosa e comune sempre più agguerrita, ad occuparsi del completamento del carcere è rimasto il Comune, stretto dalle denunce contro i mafiosi e le infiltrazioni negli appalti pubblici.
Sono gli anni delle inchieste sul calcestruzzo depotenziato, e il sospetto sfiora pure il penitenziario mai aperto: ma le indagini non accertarono nulla. Nel ’92 l’amministrazione di centro sinistra riuscì infine ad appaltare il terzo lotto, con cui furono costruite la palazzina degli uffici direzionali, della mensa e del personale penitenziario e la restante parte del muro di cinta, ancora oggi incompiuto. Costo, 5 milioni di euro. Un’iniezione di entusiasmo, dopo anni di paralisi, che convinse il ministro Mastella ad organizzare una finta inaugurazione: il 26 novembre del 2007 si presentò a Gela per ricevere da Crocetta le chiavi del carcere, trasferito formalmente al demanio; chiavi che il Guardasigilli continuò, purtroppo, a non usare. Mancavano, infatti, la cucina, la lavanderia e altri servizi, per un costo di ulteriori due milioni di euro. Nuovo appalto, nuovi lavori e nuova attesa: al Dap hanno impiegato mesi interi per stabilire l’esatta qualificazione di un carcere del tutto sconosciuto, eppure esistente da circa 25 anni. Sui ritardi biblici non è mai stata aperta alcuna inchiesta. “Se ci sono reati sono ormai prescritti – dicono in procura – e lo stesso codice non offre molti appigli”. Oggi la conclusione dei lavori è prevista nel luglio prossimo: il carcere ospiterà 96 detenuti in 48 celle con bagno, avrà 80 agenti di custodia e altri educatori e personale amministrativo. Una piuma nel programma di interventi del ministero della Giustizia, che ha bisogno di 20 mila posti letto. “Gela – ha detto uno dei fedelissimi del guardasigilli, il deputato Alessandro Pagano – è la prima delle risposte volute dal ministro Alfano, che vanno in tale direzione”. Sempre, come dicono gli operai, che non piova.

il Fatto 14.1.10
13, l’articolo della libertà personale
Il 4° comma punisce “ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà”, ma talora è disatteso: di recente, persone indifese sono state sottoposte alla violenza dei loro custodi
di Lorenza Carlassare

Con l’articolo 13 “La libertà personale è inviolabile” inizia la Parte I della Costituzione relativa ai “diritti e doveri dei cittadini”. È l’uomo nella sua fisicità che innanzitutto viene tutelato. Non a caso l’habeas corpus, la libertà dagli arresti arbitrari e da interferenze sulla persona, apre il capitolo dei diritti: senza di essa il resto non ha valore. È un diritto antico la cui prima affermazione ci porta lontano, nell’Inghilterra medievale: è vero che non riguardava tutti ed erano i signori feudali a rivendicarla contro il re, ma la formula è la stessa. Le Costituzioni attuali riprendono l’antico testo riproducendo i meccanismi di tutela fissati nella Magna Charta (1225): “Nessun uomo libero sarà arrestato, imprigionato, spossessato delle sue terre o della libertà... o molestato in qualsiasi modo, né metteremo né faremo mettere la mano su di lui se non in virtù di un giudizio legale dei suoi pari e secondo la legge del paese”. Nello storico documento sono fissate le garanzie di oggi: “riserva di giurisdizione” e “riserva di legge” ripetute nell’art. 13, comma 2: “Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale se non per atto motivato dell’Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”. Solo la “legge”, atto solenne del Parlamento, può stabilire in via generale, eguale per tutti, i casi e modi nei quali la libertà può essere limitata. E solo al “magistrato” spetta emanare l’atto restrittivo della libertà di un persona. Atto “motivato” che indica le ragioni che lo giustificano e la norma di legge in base alla quale è emesso. Previo “giudizio legale”, diceva la Magna Charta, e “secondo la legge del paese”: non per decisione del re, ma solo mediante un giudizio legale poteva essere preso un provvedimento restrittivo; e non in base a un decreto regio, ma secondo la legge del paese. Lo schema della tutela, come dicevo, è ancora il medesimo.
Perché il giudice e non l’autorità di polizia? Perché la legge del Parlamento e non il decreto del governo? La ragione è importante e coinvolge l’organizzazione costituzionale intera, il cuore stesso del costituzionalismo e della democrazia. La legge è garanzia di libertà perché è una fonte democratica, votata dai rappresentanti del popolo, in un Parlamento in cui oltre alla maggioranza siedono le opposizioni, le quali, se non riescono a condizionare l’esito del voto, possono far sentire la loro voce, e, per la pubblicità dei lavori parlamentari, raggiungere i cittadini tramite i “media”, suscitando reazioni che in una democrazia normale dovrebbero indurre a modificare o ritirare il progetto. I decreti del governo, invece, presi nel chiuso del Consiglio dei ministri, senza la presenza delle minoranze e senza pubblicità, non sono una garanzia. Norme restrittive o discriminatorie possono essere approvate senza contrasto .
La magistratura è garanzia in ragione della sua indipendenza, condizione prima dell’imparzialità di giudizio. Indipendenza derivante dalle norme che eliminano le cause della “parzialità”, in primo luogo dipendenze o legami col potere politico: “I giudici sono soggetti soltanto alla legge” (art. 101, comma 2); “La magistratura costituisce un ordine autonomo indipendente da ogni altro potere” (art. 104, comma1); “I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni (art.107, comma 3) e non hanno capi gerarchici. Ad evitare interferenze e condizionamenti che alterino l’imparziale esercizio della giurisdizione, fra magistratura e organi politici c’è il Consiglio superiore della magistratura. Ad esso sono affidati tutti i provvedimenti sulle persone e la carriera dei magistrati – assunzioni, assegnazioni, trasferimenti, promozioni, provvedimenti disciplinari (art. 105) – sottratti al governo ad evitare che li usi in modo favorevole o punitivo per incidere sull’imparzialità di chi amministra la giustizia. L’autorità di pubblica sicurezza, per la sua stretta dipendenza dal governo, non può essere garanzia; dunque non può assumere provvedimenti restrittivi della libertà personale tranne in “casi eccezionali di necessità ed urgenza indicati tassativamente dalla legge” (art. 13, comma 3), “provvedimenti provvisori” da comunicare entro 48 ore all’autorità giudiziaria che, se non li convalida entro 48 ore, “s’intendono revocati e restano privi di ogni effetto”. Il 4° punisce “ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà”, ma talora è disatteso: di recente, persone indifese sono sottoposte alla violenza dei loro custodi. Il 5°, “La legge stabilisce i termini massimi della carcerazione preventiva”, vuol mitigare una situazione grave per la vita di persone poi, magari, riconosciute innocenti: i termini dovrebbero essere brevi e la detenzione, prima del processo, eccezionale. L’art. 13 ha interessanti aperture: talora è riferito anche alla libertà spirituale, o inteso come garanzia non solo da arresti arbitrari, ma da qualunque intervento sul corpo: nella questione dei trattamenti sanitari e del “fine vita” l’habeas corpus può dunque giocare un ruolo.

l’Unità 14.1.10
Coppia fertile ottiene diagnosi preimpianto. Legge 40 a rischio

Le reazioni. Per la Roccella è eugenetica, ma avevano già perso 4 bimbi

Una coppia fertile è stata autorizzata a sottoporsi alla fecondazione assistita ricorrendo alla diagnosi genetica preimpianto. Il Giudice Antonio Scarpa del Tribunale di Salerno ha dato il via libera, per la prima volta in Italia, alla diagnosi genetica a genitori che non hanno problemi di sterilità ma sono portatori di una grave malattia ereditaria, l'Atrofia muscolare spinale di tipo 1(SMA1). La donna fertile che potrà ora ricorrere alle tecniche di fecondazione assistita e che potrà ricorrere alla diagnosi preimpianto ha quasi 40anni, lombarda, con un marito quasi coetaneo e fertile come lei, è riuscita ad ottenere in tribunale quello che la legge 40 sulla fecondazione assistita le negava. La coppia infatti nel 2003 videmorire una figlia di appena 7 mesi, colpita “Atrofia Muscolare Spinale di tipo 1” (SMA1) che causa la paralisi e atrofia di tutta la muscolatura scheletrica e costituisce oggi la più comune causa genetica di morte dei bambini nel primo anno di vita, con una morte per asfissia. «Siamo riusciti ad avere un bambino sano nel 2005 ma siamo stati costretti ha spiegato senza nascondere la grande emozione a tre aborti perchè questa malattia è assolutamente incompatibile con la vita». La sottosegretario Roccella insorge: «È una sentenza gravissima. Così si introduce il principio che la disabilità è un criterio di discriminazione rispetto al diritto di nascere». La legge 40 scricchiola.❖

l’Unità 14.1.10
Intervista a Shulamit Aloni
«La sinistra non c’è più Il nostro Israele si è imbarbarito»
«Ciò che stiamo facendo in Cisgiordania è peggio dei pogrom contro gli ebrei compiuti dai cosacchi tanto cari a Lieberman»
La fondatrice di Peace Now: la democrazia è incompatibile con l’oppressione su un altro popolo. Il peggiore è il ministro Barack. Pericoloso uomo di guerra che ha rivendicato l’attacco a Gaza
di Umberto De Giovannangeli

Deriva fondamentalista
«Oggi il Paese per cui ho combattuto si è trasformato in una etnocrazia. Occorre una rivolta morale»

Un pesante j’accuse: «Ciò che stiamo facendo in Cisgiordania è peggio dei pogrom contro gli ebrei compiuti dai cosacchi tanto cari a Lieberman»

Chi è. L’ex ministra di Rabin che fondò «Peace Now»
SHULAMIT ALONI FONDATRICE DEL MERETZ E DI «PEACE NOW» 81 ANNI
Fondatrice del movimento pacifista «Peace Now» e del Meretz, scrittrice, è stata ministra dell’Educazione nel governo guidato da Yitzhak Rabin, finendo nel mirino della destra ortodossa e ultranazionalista.

La sinistra dovrebbe incarnare una idea progressiva di democrazia. Dovrebbe essere portatrice di una visione aperta della società. Una sinistra degna di questo nome avrebbe dovuto denunciare l’imbarbarimento della società, dicendo chiaro e forte che democrazia e oppressione esercitata contro un altro popolo sono tra loro inconciliabili. E su questa linea avrebbe dovuto rappresentare un’alternativa ideale, politica, etica, alla destra fondamentalista e razzista che oggi governa. Una destra che alimenta l’estremismo fascista dei coloni, la destra che giudica i suoi avversari dei traditori da neutralizzare. Una sinistra, mi riferisco al partito laburista, che non solo non contrasta questa destra ma addirittura ci governa assieme, è una sinistra che non ha ragion d’essere». A sostenerlo è una delle figure storiche della sinistra laica e pacifista d’Israele: Shulamit Aloni. Con l’intervista alla fondatrice di «Peace Now», l’Unità prosegue l’inchiesta su Israele e la crisi della sinistra avviata con un articolo dello storico Zeev Sternhell e un’intervista all’ex segretario generale del Labour, Ophir Pines-Paz. Gli strali di Shulamit Aloni s’indirizzano soprattutto verso il leader laburista e attuale ministro della Difesa, Ehud Barak: «È un politico pericoloso, tronfio», afferma decisa.
Come giudica la sinistra israeliana?
«La sinistra? Perché esiste una sinistra oggi in Israele? Questa sì che sarebbe una notizia. La verità, amarissima, è che la destra ha due mani sinistre, ma oggi la sinistra semplicemente non esiste. Netanyahu chiude e apre...».
Ed Ehud Barak?
«Ha fatto del “poltronismo” la sua unica fede politica. È un politico pericoloso a causa del suo temperamento estremista e perché è un uomo di guerra. Ma come può continuare a definirsi di “sinistra” un uomo che ha rivendicato la guerra di Gaza con i crimini, le punizioni collettive, le devastazioni perpetrate?».Pericoloso quanto i coloni oltranzisti? .
«La loro protervia mi spaventa, il loro razzismo verso i palestinesi e gli arabi israeliani m’indigna. Costoro sono un cancro che rischia di propagarsi in tutto il corpo della società israeliana, devastando ciò che resta del nostro tessuto democratico. Questa destra non vuole la pace, ma l’intera Terrasanta senza arabi e moschee. Mi piange il cuore nel dire che oggi Israele, il Paese per cui ho combattuto, è marchiato dal fanatismo religioso».
Cosa dovrebbe fare una sinistra «degna di questo nome»? «Difendere la democrazia. E per farlo affermare con nettezza che democrazia e oppressione esercitata su un altro popolo sono tra loro inconciliabili. Una sinistra degna di questo nome , dovrebbe dire che ciò che stiamo facendo in Cisgiordania è peggiore di tutti i pogrom compiuti contro gli ebrei...».
Affermazione pesantissima...
«Mi riferisco ai pogrom compiuti da quei cosacchi tanto ammirati da Avigdor Lieberman (ministro degli Esteri e leader del partito russofono ultranazionalista Israel Beitenu, ndr). È straziante, ma lo Stato di Israele non è più una democrazia. Noi viviamo in una etnocrazia soggetta a un ordinamento “ebraico e democratico”».
Un tema che divide Israele è quello della trattativa con Hamas legata alla liberazione di Gilad Shalit, il giovane caporale di Tsahal rapito oltre tre ani è mezzo fa da un commando palestinese. Il premier Netanyahu ha affermato che non ha alcuna intenzione di liberare palestinesi che hanno le mani macchiate del sangue di ebrei...». «Nessuno dovrebbe tirare fuori questa sciocchezza del “sangue sulle mani”. Dal 2000, con lo scoppio della seconda intifada, abbiamo ucciso migliaia di persone. Anche noi abbiamo sangue sulle nostre mani. Non ci limitiamo a negare alla popolazione palestinese i diritti umani. Non rubiamo loro solo la libertà, la terra e l’acqua. Applichiamo punizioni collettive a milioni di persone. E tutto questo in nome di un diritto di difesa che tutto giustifica e legittima...Una sinistra degna di questo nome dovrebbe scatenare una rivolta morale contro questa ignominia...».
Non si sente sola in questo j’accuse...
«Per fortuna non lo sono, ma anche se lo fossi non smetterei di difendere quei valori, quei principi, quelle idee che hanno segnato la mia vita. Che mi hanno portato a combattere per difendere Israele, il suo diritto all’esistenza e la sua democrazia. Una democrazia oggi minacciata dall’interno».❖

l’Unità 14.1.10
Sibilla Aleramo «Le nuove donne costruiranno il mondo nuovo»
A cinquant’anni dalla morte di Sibilla Aleramo, l’Unità on line ripropone alcuni testi che l’autrice di «Una donna» pubblicò sul nostro giornale. Qui trovate «Donne di ieri donne di oggi» dal «Diario».

Da «l’Unità», 1959 Una riflessione sulla spinta femminile al cambiamento della società
Nobiltà collettiva «Siamo tante e manifestiamo il nostro valore e la nostra spiritualità»

Vita, opere e impegno di una scrittrice femminista
La vita, le opere, i commenti e gli articoli e i testi pubblicati su «l’Unità». Il nostro sito on line (www.unita.it) dedica uno speciale a Sibilla Aleramo nei 50 anni dalla morte. Nata Rina Faccio nel 1876, diventa Sibilla Aleramo nel 1906, firmando il suo primo romanzo, «Una donna». Seguono «Il passaggio, «Andando stando», «Gioie d’occasione», «Orsa minore» e «Amo, dunque sono». Antifascista, nel Pci dal ’49, scrive per «l’Unità» e «Noi donne». Il «Diario» scritto fra il ’45 e il ’60 uscirà postumo.

Giovani amiche, intellettuali, oppur casalinghe, o anche operaie (e perfino contadine come la brava emiliana N.N. che si fermò mesi fa a Roma per conoscermi di persona, qualche ora, reduce da Napoli con una medaglia vinta ad un concorso ove aveva recitato una mia poesia) molte giovani amiche, dicevo, mi chiedono spesso: «Tu, che ci hai tanto preceduto, tu che nel tuo romanzo Una donna, son cinquant’anni, vero? hai alzato il primo grido per la nostra indipendenza e per la nostra dignità, in pagine che ci sembrano scritte oggi, tu, che ne pensi di noi? E io... nessun compenso nella mia lunga vita m’è giunto mai più alto e commovente.
SIAMO IN TANTE
Donne di oggi. Diverse da quelle della mia giovinezza? Certo sì, dalle intellettuali e dalle borghesi d’allora, italiane che mi furono in gran parte ostili o finsero d’ignorarmi e n’ebbi profonda malinconia. Le altre, le massaie, le operaie, le agricole non immaginavano neppure di poter organizzarsi, di poter difendersi. Esisteva qualche grande semplare maggiore a me anche d’età, che mi sostenne e che non ho mai dimenticato, Alessandrina Ravizza sopra ogni altra che fu la fondatrice dell’Università Popolare amata come una mamma, e il suo ritratto è qua sul mio tavolo; Anna Kuliscioff, Linga Malnasi, fra le artiste la D. e, la Serao, la Deledda. Ma ecco, la differenza d’oggi è soprattutto questa, che le donne che lavorano non si sentono più sole, sanno di esser tante e d’essere una forza. E non soltanto le cosiddette lavoratrici del braccio, ma anche quelle del mondo culturale, anche se non tutte lo dichiarano. Deputate, giornaliste, medichesse, avvocatesse, pittrici, maestre elementari, libere docenti di tendenze sociali diverse, persone fra loro avversarie, eppure, eppure hanno quasi tutte, ben nitido o nel subcosciente, il senso di appartenere ad una esercito nuovissimo, insignite di una nobiltà che le antenate mai supposero.
Una nobiltà collettiva, ecco, e che nello stesso tempo distingue quell’esercito da quello maschile, inconfondibilmente. Queste donne manifestano il loro valore, la loro spiritualità in quanto donne, in modo che non era mai stato possibile sinché la specie femminea veniva considerata solo per i suoi attributi e i suoi meriti di moglie di madre, in nulla partecipe, in nulla responsabile, di quel che il mondo virile creava. Le donne, oggi concorrono nella creazione del mondo nuovo, della nuova società: e vi concorrono con le loro qualità intrinseche, mai manifestate se non nel leggendario matriarcato, chi sa?
Quando io, alcuni anni dopo la pubblicazione di Una donna, scrissi e pubblicai in un giornale letterario alcune pagine intitolate Apologia dello spirito femminile (poi raccolte nel volume Andando e stando e più di recente in Gioie d’occasione) pochi in Italia le rilevarono: vi su solo un critico americano, a me ignoto, ad affermarne l’originalità e l’importanza. In verità e le mie giovani amiche d’oggi sono certa non mi accuseranno di vanità per questo richiamo originali e importanti erano, quelle paginette, e il critico d’oltre Oceano diceva nientemeno che le sorelle di tutto il mondo dovevano essermene grate. Perché io affermavo nientemeno che la donna non s’era ancor mai rivelata nella sua vera intima essenza, diversa fondamentalmente da quella maschile (parlavo delle scrittrici ma il discorso poteva avere una estensione più vasta).
Ebbene, la sorte m’ha dato di vivere tanto da vedere profilarsi l’avvento di quella mia remota trepida intuizione.
Due tremende guerre si sono succedute da allora. Una nuova formidabile forma di vita sociale s’è instaurata nella metà quasi del nostro globo, ed anche dove ancora non s’è attuata i sistemi d’esistenza stanno ovunque mutando, e ovunque, ovunque, la donna più ancor dell’uomo sta modificandosi nella sua più profonda essenza, non è forse vero, giovani amiche mie, giovani compagne?
Nella sua più profonda, più segreta essenza la donna va rivelandosi a se stessa, ora che il campo della sua attività ogni di meravigliosamente s’estende. Quanto più ella si sente partecipe e necessaria nel grande lavoro di costruzione della nuova umanità, tanto più il suo spirito coglie le differenze con lo spirito maschile, le avverte d’uguale valore, ma direbbe, più fresche, più pure, sì, e ne prova un tacito stupore, che da al suo sorriso una grazia quasi infantile.
Un sorriso che credo sia avvertito dagli uomini e li sproni ad essere degni per la maggior gloria del tempo che sopraggiunge.❖
Da «l’Unità» 29 luglio 1959



Repubblica 14.1.10
Shoah
“Non esiste la banalità del male”
di Susanna Nirenstein

Lo storico Friedländer ribalta le tesi di Hannah Arendt: "Non è stata una macchina burocratica a portare avanti lo sterminio"
Non è d´accordo con Goldhagen: "Fu Hitler a giocare un ruolo fondamentale"
"Fu l´antisemitismo apocalittico, redentivo, a partorire questo abominio"

Nato a Praga pochi mesi prima che Hitler prendesse il potere, nascosto in un convento in Francia fino alla fine della guerra mentre i genitori venivano deportati e uccisi ad Auschwitz, battezzato e, infine, dopo aver capito di essere ebreo, emigrato clandestinamente in Israele nel ‘48, Saul Friedländer è il maestro dei maestri viventi della ricerca sulla Shoah, premio Pulitzer 2008: la sua opera più importante (i due volumi La Germania nazista e gli ebrei.1933-´39 e Gli anni dello sterminio. 1939-´45, ambedue usciti con Garzanti, ma non si può non menzionare il suo stupendo e autobiografico A poco a poco il ricordo) con un metodo del tutto innovativo, ha dipinto un affresco corale che non lascia nel silenzio nessuno dei protagonisti del periodo: non solo la leadership del III Reich e i loro provvedimenti dunque, ma i tedeschi nel loro complesso, governi e popolazioni delle nazioni intorno, le vittime, i loro atti, i loro pensieri riportati dai diari in tutto il continente. Ora, in un piccolo libro edito da Laterza (Aggressore e vittima, pagg.153, euro 15), in una serie di lezioni, tira le fila dei suoi studi e afferma, a dispetto di altri storici, la centralità dello sterminio nella politica nazista, constata la partecipazione attiva alla Shoah dei paesi conquistati dal III Reich (salvo l´Italia, ci tiene a dire), non è d´accordo su alcuni aspetti del lavoro di Hilberg e della Arendt né con chi vede nello sterminio un prodotto estremo della modernità ma invece lo inquadra come il prodotto principale dell´antisemitismo "redentivo", apocalittico, di Hitler e quindi di una ossessione pseudoreligiosa che fa molto pensare, in chi scrive, al fondamentalismo di oggi. Il volume contiene anche la storia di due storici ebrei, uno tedesco, Ernst Kantorowicz, l´altro il notissimo Marc Bloch, fondatore delle Annales, morto nella Resistenza: ambedue increduli della persecuzione a fronte del loro patriottismo, e disposti in un certo senso, in modo molto diverso l´uno dall´altro, a mettere da parte la propria identità: un focus speciale e conturbante.
Telefoniamo a Saul Friedländer, oggi professore all´Ucla di Los Angeles (ma anche all´università di Tel Aviv), e lui ci risponde con mille accenti, slavo, francese, anglosassone, israeliano... una summa della storia del Novecento.
Professore, il principio che lei ha adottato è l´ascolto di tutte le voci. Non si può limitare lo studio alle decisioni naziste e alle cifre della morte, ribadisce in questo libro. Una critica implicita ad altri storici, a chi?
«La storia in genere tende ad addomesticare gli eventi trovando delle spiegazioni logiche per tutto. Io invece volevo una narrazione precisa, erudita, in cui fossero però presenti le vittime che, col loro dolore, illusioni, paure, procurassero dei veri e propri momenti di incredulità, spezzassero l´autocompiacimento del distacco scientifico. Fare una storia "integrata", significa mostrare come ogni aspetto interagisce con l´altro, i tedeschi, gli altri paesi europei, e soprattutto gli ebrei e i loro comportamenti, le parole, che nel passato sono stati analizzati solo a parte. Solo con le testimonianze che arrivano dai diari e interferiscono con gli altri attori si riesce a dipingere il quadro così com´era. E solo così la storia diventa non addomesticabile».
Anche Raul Hilberg con La distruzione degli ebrei d´Europa (1961) ha addomesticato la storia?
«Sì, anche se il suo lavoro è meraviglioso, il primo, il più importante, ma in realtà è la storia della macchina burocratica nazista. Gli ebrei come soggetti ne stanno fuori. Poi ha aggiunto altri studi, ha attaccato i Consigli ebraici, gli Judenrät, ma non scrisse davvero cosa stava succedendo agli ebrei. Il cuore della ricerca rimase la politica nazista. Invece nel racconto devi sentire improvvisamente un bambino polacco di 12 anni che nel suo diario chiede a Dio cosa sta succedendo. Quello smarrimento è parte fondamentale della storia».
Tra le sue conclusioni, c´è quella sulla decisa partecipazione, o al massimo sul silenzio, di tutte le popolazioni laddove ci furono deportazione e sterminio. Come fu possibile?
«In Polonia, l´antisemitismo era profondo; perfino alcuni leader della resistenza antitedesca non furono scontenti che la Germania stesse risolvendo il "problema degli ebrei". In generale l´antisemitismo, che aveva origini religiose, creò indifferenza per la sorte del popolo ebraico».
Gli italiani, lei scrive, sono un enigma.
«Furono un´eccezione. Eppure doveva essere il contrario vista la forte influenza della Chiesa. Invece nel complesso gli italiani, compresi molti alti ufficiali di Mussolini, aiutarono gli ebrei, come ad esempio, ma non solo, nel Sud Est della Francia finché l´Italia ebbe il controllo della regione».
Hitler giocò un ruolo fondamentale, lei dice, non furono i tedeschi a chiedergli lo sterminio. Lei non la pensa come lo storico Goldhagen.
«Hitler non salì al potere per il suo antisemitismo, ma per motivi economici. Però era ossessionato dall´idea che gli ebrei fossero alla base della sconfitta della I Guerra Mondiale e, in quanto liberali e rivoluzionari al tempo stesso, corrodessero dal di dentro il paese, l´intera Europa. Portò avanti con sistematicità prima il progetto di escluderli dalla società, poi di spingerli fuori dal territorio, infine, quando la Russia contrattaccò e gli americani entrarono in guerra (anche Roosevelt secondo Hitler era controllato dagli ebrei) si convinse che se non fossero stati uccisi, avrebbero causato di nuovo la disfatta. L´ho definito antisemitismo redentivo, significa credere che per salvare il mondo devi liberarti degli ebrei. Prima fu il credo di un piccolo gruppo di nazionalisti: una volta al potere i nazisti, divenne la dottrina ufficiale di un paese, amplificata da una propaganda martellante».
Era un´ossessione ideologica, quasi religiosa.
«Esattamente. Se fosse stata solo la macchina burocratica a portare avanti lo sterminio, se Hilberg avesse ragione, allora il meccanismo si sarebbe fermato quando la guerra iniziò ad andare male. Tutto allora divenne difficile, pensi allo sforzo che richiedevano anche solo i trasporti verso i lager. Eppure, al contrario, i tedeschi più perdevano, più andavano veloci nella distruzione degli ebrei. In Ungheria, pochi mesi prima della caduta, lo stesso Hitler spiegò ad Antonescu che doveva liberarsi dei suoi 700 mila ebrei. Ne furono sterminati 400 mila».
Quindi lei non è d´accordo con Hannah Arendt e la sua "banalità del male".
«Il male non era affatto banale, gli uomini forse. Ma che il paese più avanzato del continente abbia concepito di sterminare in modo industriale tutti gli ebrei d´Europa e l´abbia fatto, è quanto di più estremo e inumano si possa immaginare. Gli altri stermini, e tanti ce ne sono stati, non hanno mai visto questa ricerca fino all´ultimo uomo, dietro ogni angolo. Hannah Arendt scrisse delle cose giuste, ma sono quelle che ha preso da Hilberg: il tono invece che ha usato verso gli Judenrät, quell´ironia... non sono affermazioni che vogliono capire, compatire. La sua tesi sugli Judenrät poi, che rendeva gli ebrei collaboratori della distruzione del loro stesso popolo, è largamente infondata, ogni loro influenza fu marginale».
Non è d´accordo nemmeno con gli storici, come Gotz Aly, che giudicano la Shoah un aspetto non primario rispetto agli obiettivi principali del Reich.
«È una scuola di ottimi storici, però considerano le politiche antiebraiche tedesche non secondarie, ma comunque come conseguenze automatiche della colonizzazione a Est e la redistribuzione del potere economico. Io penso che la persecuzione degli ebrei non fu l´unico scopo di Hitler ma certo fu centrale, e con la guerra lo divenne ancora di più. Il suo testamento è chiaro: quello è il tema fondamentale».
Crede anche che la Shoah non sia figlia della modernità, un´opinione invece largamente condivisa.
«Non si sarebbe potuta compiere senza l´industrializzazione della morte, è chiaro. Ma non fu la modernità a portare tanta inumanità. Non ha prodotto niente del genere in nessun paese sviluppato. È una forzatura. Fu invece l´aspetto ossessivo, ideologico, apocalittico a partorire questo abominio».

mercoledì 13 gennaio 2010

l’Unità 13.1.10
Sì alla Bonino
Schiarita nel Lazio, dove il Pd ha deciso ufficialmente di sostenere Emma Bonino: manca solo la formalizzazione, che ci sarà sabato col voto degli eletti all’assemblea regionale, ma a questo punto la minoranza ha smesso di chiedere il passaggio per le primarie.

Repubblica 13.1.10
Ok alla Bonino dal Pd del Lazio Nel Pdl fronda a Dambruoso
Puglia, stallo a sinistra. D´Alema: non ci capisco più nulla

Boccia: se passano le primarie, salta l´intesa con l´Udc e io ovviamente non sarò in campo
Riprende quota Vendola. I consi-glieri azzurri contro il magistrato can-didato governatore

ROMA In porto la candidatura della Bonino, nel Lazio: via libera della direzione regionale del Pd, neanche un voto contrario. Sabato il disco verde definitivo dell´assemblea. «Possiamo dar vita ad un nuovo inizio», è la speranza di Emma dopo l´incontro di ieri mattina con Bersani. In alto mare invece la soluzione del caso Boccia, in Puglia. Con il candidato del Pd che balla pericolosamente, e si decide perciò a lanciare un minaccioso ultimatum: «Se passano le primarie, io non sarò più in campo». Finisce che riprende quota la candidatura di Vendola. Caos a Bari, allora, tanto che perfino Massimo D´Alema che pure in Puglia è l´uomo che ha diretto le grandi manovre del Pd candidamente confessa «nemmeno io ci sto capendo nulla. Non so niente, non ho partecipato alle ultime riunioni». E quando i cronisti alla Camera gli chiedono se, invece, sarà presente sabato alla riunione decisiva, e cioè l´assemblea regionale che dovrà decidere se indire o meno le primarie, l´ex premier annuncia: «No, ci sarò venerdì...». Ovvero, il giorno della visita in Puglia del capo dello Stato Napolitano. Ma l´operazione del presidente della Fondazione Italianieuropei, l´accordo con l´Udc e il siluramento di Vendola, si fa ad alto rischio dopo le parole di Boccia che minaccia il ritiro dalla competition. E´ una corsa contro il tempo per recuperare, entro tre giorni, i voti necessari per sbarrare la strada alle primarie (servono i tre quinti dell´assemblea regionale, 82 dei 123 componenti). Le firme necessarie il segretario Blasi però ancora non le ha in tasca. E con un partito spaccato, rischiano di diventare decisivi i voti dei delegati di Emiliano, il sindaco di Bari protagonista anche lui del tormentone candidatura, alle prese con un nuovo rebus: a favore dei gazebo o contro? Se la cosa può consolare il centrosinistra, anche nel Pdl cominciano a partire i siluri contro la candidatura a governatore del magistrato Stefano Dambruoso: è un esterno al nostro partito hanno messo nero su bianco tutti i consiglieri regionali del centrodestra meglio un altro nome. Quale? Ecco, pronti, due fedelissimi del ministro Fitto, Distaso e Palese.
Ma escluso, per il momento, un faccia a faccia fra Bersani e Vendola, il centrosinistra è "incartato". Con un candidato presidente con un piede già sulla porta («alle primarie l´Udc non ci sta. E se viene meno l´alleanza con Casini, cade anche il senso del mio progetto»), ma con Area democratica che continua a chiedere di chiamare alle urne il popolo del centrosinistra. «Mi pare un´ipotesi ragionevole, vista l´incertezza che regna in Puglia», spiega Fioroni. E della stessa opinione resta la Bindi. Analogo braccio di ferro in Umbria, mentre in Campania una "storica" spaccatura fa sentire i suoi effetti: da una parte i bassoliniani, che intendono offrire la candidatura all´Udc (il rettore di Salerno, Pasquino), dall´altro i sostenitori di Vincenzo De Luca, il sindaco di Salerno, che vorrebbero lui in corsa. Situazione simile in Veneto, con il Pd diviso fra un proprio candidato (si parla di Bortolussi, segretario Confartigianato) e uno dell´Udc (De Poli). Nell´incertezza, Di Pietro si sfila: io in Veneto corro da solo.
(u.r.)


il Fatto 13.1.10
Cittadini in salita
Le mille fatiche degli extracomunitari per diventare italiani e una riforma civile che la Camera non riesce a discutere
di Vittorio d’Almaviva
Tredici anni di attesa. Un record europeo, se non addirittura mondiale. Lo straniero che aspiri a diventare
cittadino italiano è costretto a passare sotto queste scandalose forche caudine. Perché ai dieci anni di residenza legale obbligatoria per poter fare domanda di naturalizzazione, rispetto ai cinque degli Stati Uniti, della Francia, dell'Inghilterra, dei Paesi Bassi, della Svezia e della Finlandia, si aggiungono i tre anni di tempo medio burocratico per lavorare la pratica sino all'esito finale. Per questa ragione era ed è assolutamente urgente cambiare la legge 91 del 1992 che regola la cittadinanza, inviando così anche un segnale di distensione ai 4 milioni e mezzo di immigrati regolari, costretti oggi a vivere in un pesante clima di diffidenza. La Camera tuttavia ha deciso ieri sera, su proposta di Donato Bruno, presidente della Commissione Affari costituzionali (Pdl), di riportare il provvedimento dall'aula in commissione “per un ulteriore approfondimento”, rinviando così il confronto finale a dopo le elezioni. La maggioranza l’ha spuntata per 32 voti: l’opposizione si è schierata contro. Ma non è detto che il rinvio sia in assoluto una disgrazia. “Adesso gli animi sono troppo accesi e la Lega non cederà mai. Ad aprile il Pdl non avrà più alibi”, commen-
ta l’on. Andrea Sarubbi (Pd). “E’ molto meglio così, per non bruciare una grande opportunità che con pazienza si può costruire”, puntualizza il finiano Fabio Granata.
Granata e Sarubbi sono i firmatari della proposta bipartisan per ridurre da 10 a 5 gli anni di residenza legale, con tanto di verifica linguistica e giuramento sulla Costituzione. E soprattutto per concedere la cittadinanza alla nascita ai bimbi nati in Italia da famiglie straniere già integrate e ai minori nati all’estero ma che abbiano conseguito un titolo di studio in Italia: per sostenere la causa dello “jus soli” ieri è scesa in campo anche la Cei. Dopo le elezioni c’è la speranza di riportare alla ragionevolezza la componente “Forza Italia” del Pdl, che oggi è impegnata a gareggiare in xenofobia con il partito di Bossi. Tutto questo, naturalmente, a patto che la Lega non stravinca le regionali, altrimenti si rischierebbe di tornare al punto di partenza. Gli stranieri che sono regolarmente in Italia e pagano le imposte (in totale, secondo il Dossier Caritas 2009, versano 5,6 miliardi di euro fra tasse e contributi, una somma superiore agli introiti ottenuti con lo scudo fiscale) non avendo la cittadinanza italiana, si vedono esclusi da svariati benefici: non possono ad esempio accedere alla “social card” per le famiglie meno abbienti, né all’assegno sociale, e neppure ottenere il rimborso per l’acquisto di latte artificiale e di pannolini. Oltre a non godere, ovviamente, del diritto di voto attivo e passivo alle elezioni politiche. Tutti i principali paesi europei usano la naturalizzazione come uno strumento di integrazione. La stessa Germania, che per decenni ha pensato agli immigrati come a semplici “lavoratori ospiti”, ha ridotto a 8 anni il periodo di residenza obbligatoria per la cittadinanza: beninteso, senza poi costringere ad ulteriori attese burocratiche. Vero che il Regno Unito dopo i cinque anni di legge ora propone un “periodo di prova” da 1 a 3 anni, ma è altrettanto vero che persino la Grecia sta discutendo una riforma che dimezza a cinque anni la residenza obbligatoria, assieme a norme per contrastare severamente l’immigrazione clandestina. Un numero di anni un po’ più alto di cinque e più basso di dieci sarebbe un buon compromesso finale, secondo la professoressa Giovanna Zincone, studiosa di fama e autrice di numerosi libri sulla cittadinanza. Anche in Italia, comunque, negli ultimi anni è aumentato il numero delle naturalizzazioni. Nel 2004 ne erano state concesse appena 11 mila, nel 2008 siamo passati ad oltre 39 mila e nel primo semestre del 2009 abbiamo sfiorato quota 21 mila, che lascia prevedere un record di 42 mila nell’arco dei dodici mesi. Ciononostante, per naturalizzazioni restiamo soltanto al settimo posto in Europa, stigmatizza la Caritas: una classifica sproporzionata rispetto allo stock di immigrati regolari, che ci colloca già al terzo posto del continente dopo Germania e Spagna. Francia e Regno Unito hanno oggi meno stranieri, proprio perché questi diventano più agevolmente cittadini. C’è poi la vergogna dei tempi burocratici. In svariati casi i tre anni della media vengono sforati. E’ un dovere migliorare l’efficienza del servizio. Soprattutto dopo che, col pacchetto si-
curezza, si è deciso di far pagare 200 euro la domanda di cittadinanza. “Sarà dura fare grandi progressi – sospira una fonte del ministero dell’Interno –. L’intoppo sta nei pareri sul candidato cittadino da parte dei servizi segreti esterni (Aise, ex Sismi) e della polizia di prevenzione: non ce la fanno ad essere più veloci. E se scattano emergenze come la bomba di Reggio Calabria, le priorità diventano altre”.
La proposta Sarubbi-Granata ritorna in Commisione: si attendono
le regionali e il risultato della Lega.


il Fatto 13.1.10
Lavorano come bestie, vivono come bestie
di Elisa Battistini

S erve una rivolta come quella di Rosarno per accendere i riflettori su un fenomeno legato a doppio filo, da sempre, alla condizione degli immigrati stagionali. Soprattutto nel settore agricolo, soprattutto al sud. Secondo il rapporto “Una stagione all’inferno” realizzato da Medici Senza Frontiere il 72% degli immigrati impiegati in agricoltura è privo del permesso di soggiorno. La gran parte della “manovalanza”, quindi, è composta da lavoratori ricattabili per la loro posizione irregolare, quindi più facilmente sottoposti a condizioni di lavoro e vita disumane. Alessandra Tramontano, responsabile dei progetti di Msf per l’Italia, afferma che in Puglia, Campania, Sicilia e Calabria ha visto situazioni paragonabili solo ai campi profughi nelle zone di guerra africane. E non da ieri, ma dal 1999. Quando l’onlus ha avviato i programmi d’azione sanitaria per gli immigrati nelle regioni meridionali del nostro paese. Distribuendo kit di primo soccorso e contribuendo all’assistenza sanitaria di base. Di recente, Msf era passata proprio per Rosarno. Dove aveva distribuito anche coperte e saponi ai circa 2 mila stagionali nella Piana di Gioia Tauro. Gli stagionali, spiega la responsabile, sono come una popolazione “nomade” che si sposta dalla Sicilia dove raccoglie patate, alla Calabria per le arance alla Puglia per i pomodori alla Campania per le fragole. Si seguono le necessità delle coltivazioni. E nel frat-
tempo si vive come animali. Il 65% degli immigrati stagionali vive in strutture abbandonate, il 53% dorme per terra e solo il 20% in spazi regolarmente affittati. Con compensi che, come abbiamo “scoperto” nell’ultima settimana, arrivano a 25 euro al giorno quando va bene. Il 64% degli immigrati non ha accesso all’acqua potabile, il 62% non dispone di servizi igienici. Le condizioni di vita sono “al di sotto degli standard minimi di sopravvivenza– dice la Tramontano – quindi proliferano le malattie”. Sfatando un luogo comune decisamente errato, che immagina gli immigrati (soprattutto africani) come portatori di malattie, i rilevamenti di Msf raccontano l’opposto. Gli immigrati si ammalano qui. Il 76% di loro ha meno di 30 anni e arriva in Italia in salute. Nella più totale mancanza di igiene contrae infezioni all’apparato respiratorio (13%), che se cronicizzate portano a gravi complicazioni polmonari, malattie osteomuscolari (22%), pesanti gastriti (12%). Fino ad arrivare a casi si scabbia e tubercolosi.
Il 75% degli stranieri non accede ai servizi sanitari di base, neppure a quelli pensati (ai tempi della Turco-Napolitano) per gli irregolari, ovvero gli ambulatori Stp (per Stranieri temporaneamente presenti). Il 71% risulta privo di tessera sanitaria. Ma ci sono altre ragioni che spingono uno stagionale a non cercare assistenza: la paura di essere denunciati, l’assenza di ambulatori che applichino il codice Stp in molte regioni (ma la Puglia, lo scorso
anno, ha preso provvedimenti in materia) e la necessità di non perdere la paga giornaliera. Per quanto misera. “In Italia – chiosa il responsabile di Msf, Loris De Filippi – ci sono tante Rosarno. La crisi esiste da ormai dieci anni. Msf lavora nei contesti di guerra e molte zone del sud Italia, per gli stranieri, sono contesti di guerra. O di schiavismo. Perché quello che vediamo non è tanto dissimile alla realtà raccontata nel primo rapporto sui lavoratori agricoli al sud, del 1884. Sono cose che denunciamo da tempo. Fa riflettere che serva una Rosarno per parlare delle latrine a cielo aperto, delle tende igloo in cui si ammassano quattro o cinque persone, della barbarie a cui siamo arrivati”. Il rapporto di Msf, infatti, è precedente alla tragedia calabrese. E basta aprirne una
pagina a caso, per esempio quella relativa alla Campania, per leggere: “La Piana del Sele rivela un quadro scioccante, che mostra con crudezza il dramma di individui che, pur contribuendo all’economia locale, vivono in condizioni disumane”. Per non vederle, dopo la raccolta, spesso si sgombera. Accade a Rosarno. Ma è successo anche nel giugno del 2006 a Cassibile, nel siracusano. Dove dopo la raccolta delle patate un misterioso incendio rase al suolo l’accampamento degli stagionali. Che scappano. Impauriti dalla loro condizione di clandestinità. Con il risultato che, Rosarno a parte (la raccolta non è ancora finita), ci si assicura il “Pil” della stagione poi si fanno sparire le tracce di quella schiavitù contemporanea necessaria alla sua creazione. Un’ipocrisia che si commenta da sola.

il Fatto 13.1.10
Quando l’Africa
era davvero nera
non moriva di fame
Il colonialismo economico ha affamato il continente
di Massimo Fini
S ui fattacci di Rosarno anche la
stampa più bieca e razzista è stata costretta a prendere le parti degli immigrati (“Hanno
ragione i negri”, ha titolato il Giornale, 9/1), sfruttati fino all'osso per i famosi lavori che “gli italiani non vogliono più fare”, costretti a vivere in case di cartone e, come se non bastasse, presi anche a pallettoni. Ed è assolutamente ipocrita chiamarli “neri”, in linguaggio politically correct, come fa la sinistra se poi li si tratta da “negri” che è il senso ironico del titolo di Feltri. Quando però si analizzano le cause di queste migrazioni ormai bibliche, che portano a situazioni tipo Rosarno in Europa e negli Stati Uniti, la stampa occidentale resta sempre, e non innocentemente, in superficie. Si dice che costoro sono attratti dalle bellurie del nostro modello di sviluppo. Ora, no c'è immigrato che non possegga almeno un cellulare e che non sia in grado di avvertire chi è rimasto a casa di che “lacrime grondi e di che sangue” questo modello, per tutti e in particolare per chi, come l'immigrato, è l'ultima ruota del carro.
Si dice allora che costoro sono costretti a venire qui a fare una vita da schiavi a causa della povertà e della fame che strazia i loro Paesi. E questo è vero. Ma non si spiega come mai queste migrazioni di massa
sono cominciate solo da qualche decennio e vanno aumentando in modo esponenziale. In fondo le navi esistevano anche prima e pure i gommoni. Il fatto che gli immigrati di Rosarno siano prevalentemente provenienti dall'Africa nera ci dà l'opportunità di spiegarlo.
L'opinione pubblica occidentale, anche a causa della disinformatia sistematica dei suoi media, è convinta che la fame in Africa sia endemica, che esista da sempre. Non è così. Ai primi del Novecento l'Africa nera era alimentarmente autosufficiente. Lo era ancora, in buona sostanza (al 98%), nel 1961. Ma da quando ha cominciato ad essere aggredita dalla pervasività del modello di sviluppo industriale alla ricerca di sempre nuovi mercati, per quanto poveri, perché i suoi sono saturi, la situazione è precipitata. L'autosufficienza è scesa all'89% nel 1971, al 78% nel 1978. Per sapere quello che è successo dopo non sono necessarie le statistiche, basta guardare le drammatiche immagini che ci giungono dal Continente Nero o anche osservare a cosa siano disposti i neri africani, Rosarno docet, pur di venir via.
Cos'è successo? L'integrazione nel mercato mondiale ha distrutto le economie di sussistenza (autoproduzione e autoconsumo) su cui quelle popolazioni avevano vissuto, e a volte prosperato, per secoli
e millenni, oltre al tessuto sociale che teneva in equilibrio quel mondo (come è avvenuto in Europa agli albori della Rivoluzione industriale quando il regime parlamentare di Cromwell, preludio della democrazia, decretò la fine del regime dei “campi aperti” (open fields), cosa a cui le case regnanti dei Tudor e degli Stuart si erano opposte per un secolo e mezzo, buttando così milioni di contadini alla fame pronti per andare a farsi massacrare nelle filande e nelle fabbri-
che così ben descritte da Marx ed Engels). Oggi, nell'integrazione mondiale del mercato, nella globalizzazione, i Paesi africani esportano qualcosa ma queste esportazioni sono ben lontane dal colmare il deficit alimentare che si è venuto così a creare. E quindi la fame.
Senza per questo volerlo giustificare il colonialismo classico è stato molto meno devastante dell'attuale colonialismo economico. Fra i due c'è una differenza sostanziale, di qualità. Il colonialismo classico si limitava a conquistare territori e a rapinare materie prime di cui spesso gli indigeni non sapevano che farsi, ma poiché le due comunità rimanevano separate e distinte poco cambiava per i colonizzati che, a parte il fatto di avere sulla testa quegli stronzi, continuavano a vivere come avevano sempre vissuto, secondo la loro storia, tradizioni, costumi, socialità, economia.
Il colonialismo economico, invece, ha bisogno di conquistare mercati e per farlo deve omologare le popolazioni africane (come del resto le altre del cosiddetto Terzo Mondo) alla nostra way of life, ai nostri costumi, possibilmente anche alle nostre istituzioni (la creazione dello Stato, per soprammercato democratico o fintamente democratico, ha avuto un impatto disgregante sulle società tribali), per piegarle ai nostri consumi. In Africa si vedono neri con i RayBan (con quegli occhi!) e il cellulare, che costano niente, ma manca il cibo. Perché il cibo non va dove ce n'è bisogno, va dove c'è il denaro per comprarlo. Va ai maiali dei ricchi americani e, in generale, al bestiame dei Paesi industrializzati, se è vero che il 66% della produzione mondiale di cereali è destinato alla alimentazione degli animali dei Paesi ricchi (dato Fao). E adesso ci si è messa anche la Cina, new entry in questo gioco assassino, che compra, con la complicità dei governanti corrotti, intere regioni dell'Africa nera la cui produzione, alimentare e non, non va ai locali, sfruttati peggio degli immigrati di Rosarno, ma finisce a Pechino e dintorni. Ma l'invasione del modello di sviluppo egemone ha anche ulteriori conseguenze, quasi altrettanto gravi della fame. Sradicati, resi eccentrici rispetto alla propria stessa cultura che è finita nell'angolo, scontano una pesantissima perdita di identità. A ciò si devono le feroci guerre intertribali cui abbiamo assistito, con ipocrita orrore, negli ultimi decenni. Perché le guerre in Africa, sia pur con le ovvie eccezioni di una storia millenaria, avevano sempre avuto una parte minoritaria rispetto alla composizione pacifica fra le sue mille etnie (J.Reader, “Africa”, Mondadori, 2001). E così fra fame, miseria, guerre, sradicamento, distruzione del loro habitat, costretti a vivere con i materiali di risulta del mondo industrializzato (si vada a Lagos, a Nairobi o in qualsiasi altra capitale africana) i neri migrano verso il centro dell'Impero cercandovi una vita migliore. O semplicemente una vita. E i nostri “aiuti”, anche quando non sono pelosi, non solo non sono riusciti a tamponare il fenomeno della fame e della miseria, in Africa e altrove, come è emerso dal recente vertice della Fao tenuto a Roma, ma l'hanno aggravato perché tendono ad integrare ulteriormente le popolazioni del Terzo Mondo nel mercato unico mondiale, stringendo così ancor di più il cappio intorno al loro collo. Alcuni Paesi e intellettuali del Terzo Mondo lo avevano capito per tempo. Una ventina di anni fa, in contemporanea con una delle periodiche riunioni del G7 (allora c'era ancora il G7), i sette Paesi più poveri del mondo, con alla testa l'africano Benin, organizzarono un polemico controsummit al grido: “Per favore non aiutateci più!”. Ma non vennero ascoltati.

il Fatto 13.1.10
Detenuti ammassati nelle celle, persino Alfano se ne è accorto
di Silvia D’Onghia
Alla fine se n’è accorto persino il ministro della Giustizia, Angelino Alfano: la situazione delle
carceri richiede provvedimenti di emergenza. Tanto che oggi il Guardasigilli porterà in Consiglio dei ministri il suo “piano”, “confidando” che i colleghi comprendano la gravità del momento. Un piano, per la verità più volte annunciato, che dovrebbe vertere su tre punti: un incremento dell’edilizia penitenziaria che porti la capienza a 80 mila posti (dagli attuali 43 mila disponibili); riforme di accompagnamento, che “atterranno il sistema sanzionatorio e riguarderanno coloro che devono scontare un piccolo residuo di pena” (possibile ricorso a misure alternative come gli arresti domiciliari); un aumento di organico di “oltre duemila unità” nella polizia penitenziaria. “Dobbiamo immaginare – ha annunciato Alfano – una strada diversa rispetto a quella percorsa in questi 60 anni di storia repubblicana che ha sempre fatto i conti con l’emergenza nelle carceri, con il sovraffollamento individuando sempre la stessa risposta: provvedimenti di amnistia e indulto”. Tanto per rispondere ai Radicali che, per bocca di Rita Bernardini, continua-
no a chiedere un’amnistia come base per risolvere il problema della giustizia. Bernardini ha però ieri incassato un risultato importante: la Camera ha approvato 12 dei 20 punti della mozione, presentata assieme ad altri 92 deputati, che impegna il governo ad un’ampia riforma del sistema carcerario. Via libera, per esempio, alla riduzione dei tempi di custodia cautelare per i reati meno gravi, ad una reale protezione del detenuto, al rafforzamento delle misure alternative, all’attuazione del principio di territorialità della pena, all’adeguamento degli organici del personale penitenziario. “Sappiamo che quando si strappa un contratto, poi bisogna lottare per farlo attuare – commenta la deputata radicale – dobbiamo fare la stessa cosa con quanto abbiamo strappato oggi. Quanto al piano carceri, il governo continua a non rispondere su questioni fondamentali. Il personale è già carente con l’attuale numero dei detenuti, figuriamoci per un numero superiore. Inoltre, girando per le carceri, ho visto io stessa interi reparti nuovissimi chiusi per mancanza di personale penitenziario. Poi non capiamo perché si devono costruire nuovi istituti se si pensa a misure alternative”.
Oltre tutto i duemila agenti in più annunciati da Alfano, che si è guardato bene dallo specificare i tempi di questi ingressi, sono già meno di quanti ne occorrerebbero oggi.
“Siamo sotto di 6.000 persone – commenta il segretario generale del sindacato Sappe, Donato Capece – speriamo che il Consiglio dei ministri licenzi un provvedimento che vada ben oltre il numero annunciato dal Guardasigilli, di cui comunque apprezziamo la volontà”. Giudizio cautamente positivo dalla Uilpa Penitenziari: “E’ un impegno politico concreto che va nella direzione che avevamo chiesto – afferma il segretario generale, Eugenio Sarno – ora ci aspettiamo di poter scrivere insieme, come lo stesso ministro aveva annunciato tempo fa, il piano carceri”. L’annuncio della costruzione di nuovi istituti però non convince molti, a cominciare dall’ex segretario del Pd Da-
rio Franceschini, che in aula ha chiesto al governo di “non abusare dello strumento d’ordinanza al posto dei normali provvedimenti legislativi”. Più duro ancora Patrizio Gonnella, presidente di Antigone: “Se l’emergenza significa secretare le gare d’appalto, affidandole al capo del Dap come commissario straordinario, non seguire le regole pubbliche, ma andare in trattativa privata, allora è meglio non fare il piano carceri. Il ministro ha poi sparato numeri a caso: se è bravissimo, entro un anno con le risorse a disposizione riesce al massimo ad avere 5 mila posti in più”. Un solo elemento positivo: la presa di coscienza”.
Che speriamo non diventi uno spot elettorale.