Riccardo Lombardi: Ventura, un pensiero rivoluzionario forte
Roma, 15 gen. - Oggi che la politica e' ridotta a pura gestione del potere riscoprire la figura e il pensiero di Riccardo Lombardi e' un esercizio assolutamente salutare. Lo scrive sul settimnale 'Left', Andrea Ventura, docente di Economia politica all'Universita' di Firenze, recensendo il libro di Carlo Patrignani in uscita il 21 prossimo 'Lombardi e il fenicottero' (Edizioni L'Asino d'oro). "Lombardi fa parte di quella generazione che, all'opposto, subordinava - sostiene l'economista - l'azione politica alla riflessione sui grandi nodi dello sviluppo sociale e civile del paese. Discutere delle sue idee quindi di per se' getta luce sulle miserie della politica odierna". Tanto che l'Ingegnere socialista previde con un decennio d'anticipo la fine dello stesso Psi. "Un Psi cosi' non ha motivo di esistere" fu la conclusione della sua arringa il 30 giugno 1984 ad un Comitato Centrale prima muto poi tutto in piedi a scandire il suo nome quando a fatica riguadagnava l'uscita. Dal libro emerge, "in modo lampante il passaggio storico, il cambio di clima, il cambio di paradigma politico e di assetto delle forze in campo che avviene tra gli anni '70 e gli anni '80 quasi che nello scorcio di pochi anni e in particolare tra il 1976 e il 1979, nel periodo cioe' che ha visto il Pci entrare nell'area di governo, si fosse consumata ogni possibilita' di offrire ai movimenti degli anni '70 uno sbocco in grado di avviare un mutamento negli assetti politici e sociali del paese". Lombardi, infatti, aveva ben chiari i limiti dall'assioma fondamentale del marxismo per il quale il superamento dei rapporti di produzione capitalistici costituisce la condizione essenziale per la costruzione di una societa' socialista, ma al contempo era convinto che ogni riflessione sull'economia dovesse partire dal concetto di alienazione di Marx. Egli era dunque distante sia dal riformismo del partito socialista, che comportava l'abbandono di ogni prospettiva di superamento del capitalismo, sia dalla proposta di "compromesso storico" avanzata nel 1973 dal Pci di Berlinguer. Lombardi non solo si definiva "a-comunista", ma riteneva che nessuna riflessione sulla scissione mezzi-fini e sui crimini dello stalinismo potesse prescindere da una critica piu' profonda al nucleo platonico cristiano di tutte quelle filosofie per le quali la storia avrebbe una sua razionalita' legata al compimento di un fine ultimo trascendente, del quale qualcuno, uomo, stato, partito o chiesa, sarebbe l'interprete". Lombardi fu "profondamente democratico ma anche rivoluzionario - continua Ventura - La sua pratica politica, definita come 'riformismo rivoluzionario' per il voler tenere insieme la prospettiva di governo con quella dei movimenti di massa, non poteva che basarsi su di una dimensione culturale". Il libro e' accompagnato da una prefazione di Marco Pannella e arricchito da interviste a Michele Ciliberto, Giorgio Ruffolo e Tullia Carettoni. (AGI)
Il Velino 14.1.10
CLT - Libri / E Lombardi scrisse a Fanfani: all’Eni appoggia Ruffolo
Roma, 14 gen Non una raccomandazione e nemmeno “un favore”, ma solo l’intenzione di “evitare un misconoscimento” tale da provocare un danno per l’Eni, già scosso dalla morte di Enrico Mattei. È il senso della lettera che l’8 novembre 1962 il leader della sinistra socialista Riccardo Lombardi inviò al presidente del Consiglio, il democristiano Amintore Fanfani, per caldeggiare il socialista Giorgio Ruffolo. A riportare la missiva, finora inedita, è il libro “Lombardi e il Fenicottero” (L’asino d'oro edizioni) di Carlo Patrignani, che l’ha ritrovata nel fondo Fanfani contenuto nell’archivio storico del Senato. “Caro Presidente, dopo la nomina del Prof. Girotti alla Direzione Generale dell’Eni - scriveva l’esponente del Psi - pare che nella scelta delle cariche più vicine e in particolare dei Vice Direttori, il nome del prof. Giorgio Ruffolo non sarebbe preso nella giusta considerazione. Se così stessero le cose non ti so dire quanto gravi e lesive per noi sarebbero considerate: la posizione difatti di Ruffolo nell’Eni costituisce, a nostro giudizio, una essenziale garanzia di serietà e di efficienza nella Direzione dell’Ente, specie nella Direzione della Programmazione Economica (…) Comunque - chiariva Lombardi - sia chiaro che questo mio intervento non è per nulla rivolto a sollecitare un favore, ma ad evitare un misconoscimento che obiettivamente non si risolverebbe favorevolmente al buon funzionamento dell’Ente: ed è a tal fine e a questo soltanto che mi permetto di contare sul tuo appoggio”.
Ruffolo, infatti, da poco entrato nelle fila socialiste dopo un passato trotzkista, era allora assieme a Giuliano Amato, Gino Giugni e Antonio Giolitti parte di quel gruppo di “ingegneri sociali” che con la programmazione economica puntava a ridurre gli squilibri Nord-Sud ma soprattutto a realizzare, come auspicato da Lombardi, le cosiddette “riforme di struttura” che avrebbero dovuto portare l’Italia verso il socialismo. Il libro di Patrignani riporta per la prima volta per intero anche la durissima lettera che Togliatti inviò a Pertini dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria, per chiedere un intervento contro Lombardi, che a furia di parlare della “non riformabilità” del sistema sovietico influenzava indirettamente il dibattito interno al Pci. “Si tratta dell’attività del compagno R. Lombardi - scriveva il 14 gennaio 1957 il Migliore al futuro capo dello Stato - per disgregare o tentare di disgregare il nostro partito. È cosa un po’ umiliante per lui, vederlo ridursi a questa funzione, di colui che cerca la spazzatura in casa altrui e crede di potersene nutrire. Mi pare che, poiché Lombardi è della vostra Direzione, ciò dovrebbe essere in seno a questa l’iniziativa di dargli un ammonimento”. Insomma, nel momento in cui accusava Lombardi di immischiarsi nelle faccende interne del Pci, Togliatti entrava a piedi uniti in quelle del Psi, invocando ripercussioni per il reprobo.
Fra le altre lettere inedite a Fanfani, invece, sono due quelle riportate nel volume a spiccare per rilevanza: una, nel ‘62, per sollecitare i contatti fra parti sociali per l’adozione dello Statuto dei lavoratori, che invece sarebbe stato istituito solo otto anni dopo (“mi permetto di insistere sull’opportunità di non ritardare almeno l’annuncio delle conversazioni coi sindacati”). L’altra è relativa all’attività per la riforma della mezzadria, che suscitava le ovvie preoccupazioni di quel blocco di potere democristiano rappresentato dal mondo agrario. A esprimere i propri timori a Fanfani è il presidente della Federconsorzi Paolo Bonomi, deputato Dc e fondatore della Coldiretti. “Caro Presidente, l’on. Riccardo Lombardi nell’intervista pubblicata il 5 febbraio sul Messaggero’ ha dichiarato: ‘(…) Il punto nero rimane la Federconsorzi. È quasi certo che su questo punto troveremo difficoltà e ostacoli notevoli. Noi non vogliamo liquidare la Federconsorzi, chiediamo però che sia riformata in modo da consentire l’accesso all’organizzazione di tutti gli agricoltori indistintamente. È una cosa che tocca direttamente Bonomi, lo so, ma così com’è la Federconsorzi non è utile al paese, ma a un solo partito’. E in una circolare inviata dalla Direzione del Psi alle proprie Federazioni si dice: ‘Saranno costituiti ovunque Enti di Sviluppo per l’agricoltura. Verranno promosse misure contro il monopolio degli ammassi della Federconsorzi e per la sua democratizzazione’”. Eloquente la conclusione del parlamentare a Fanfani: “Come benissimo puoi comprendere tutto ciò non può farmi star tranquillo”.
Agenzia Adn-Krons 14.1.10
Riccardo Lombardi, il politico che sognava “una società diversamente ricca”
Roma – Riscoprire tutta l’attualità di Riccardo Lombardi, un politico che sognava una “società diversamente ricca”, in nome di un “benessere” che volesse dire “più cultura, più soddisfazione dei bisogni umani, più capacità per gli operai di leggere Dante e di apprezzare Picasso”. Questo l’obiettivo che il giornalista Carlo Patrignani persegue nel saggio "Lombardi e il Fenicottero", il nuovo studio sul socialista di ‘ferro’ inviso a Togliatti in uscita a fine gennaio con L’Asino d’oro edizioni. Il libro - primo volume della collana di saggistica della casa editrice con il logo tratto dal romanzo di Apuleio, fondata da Matteo Fago e Lorenzo Fagioli - è arricchito dalla prefazione di Marco Pannella. Personalità rara, per sensibilità e concezione “alta” del fare politica, Lombardi fu tra i protagonisti della Liberazione prima e della Costituente poi: promotore nel 1946 della Repubblica presidenziale - al suo posto passò l’attuale Repubblica parlamentare -, non mancò mai di confrontarsi con i movimenti, con il ’68 e il ’69, respingendone fermamente le forme “deliranti”. Riccardo Lombardi ha attraversato le fasi cruciali della Repubblica, praticando sempre la “non violenza” anche verbale: progettò il primo centro sinistra riformatore, propose inascoltato l’alternativa di sinistra, ideò la programmazione economica e le riforme di struttura, coerente con il suo “riformismo rivoluzionario”.
Agenzia Adn-Krons 14.1.10
Libri: Carlo Patrignani firma “Lombardi e il fenicottero”
14 gennaio, Roma, 14 gen. - (Adnkronos) - Un politico che ha dato prova di integrita' morale e di impegno civile. Un'integrita' che appare molto lontana dal comportamento normale della maggior parte dei suoi colleghi. E' questo il ritratto di Riccardo Lombardi, - politico siciliano di lungo corso della Prima Repubblica, morto a Roma nel 1984 - che Carlo Patrignani propone nel saggio ''Lombardi e il fenicottero'' pubblicato da l'Asino d'oro. Secondo Patrignani, Riccardo Lombardi e' stato un uomo di cui ci si poteva fidare quasi ad occhi chiusi. Un riformista rivoluzionario che non e' stato sconfitto dal tempo ma che rappresenta ancora oggi un esempio da seguire. La figura di Riccardo Lombardi, spiega nel suo volume Patrignani, puo' costituire ancora oggi un esempio irrinunciabile. Nel corso della sua lunga carriera Lombardi ha attraversato i passaggi piu' significativi della storia della Prima Repubblica. L'autore mette in luce, per la prima volta, il ruolo della moglie Ena, il noto fenicottero, uno dei punti di riferimento imprescindibili per Lombardi. ''Questo libro - scrive Carlo Patrignani - vuole essere un modesto riconoscimento all'uomo politico tra i piu' ammirati e temuti ma anche, per la sua atipicita', tra i meno ascoltati. Al tempo stesso - aggiunge Patrignani - vuole rendere onore a una donna straordinaria, risoluta e tenace, Ena Viatto, l'intrepido fenicottero che seppe dire no al leader maximo del comunismo italiano e divorziare dal suo primo uomo, anche lui comunista, perche' innamoratasi dell'Ingegnere non comunista, ma amico degli antifascista''. Laureato in ingegneria industriale, Riccardo Lombardi nel 1942 fu tra i fondatori del partito d'Azione. Dopo il 25 luglio del 1943, e la caduta del regime di Mussolini, firmo' il patto costituivo dei Comitati di liberazione nazionale, rappresentando il suo partito nel Clnai (Comitati di Liberazione nazionale Alta Italia). Quando il partito d'Azione si sciolse entro' a far parte del partito Socialista italiano assumendo, secondo quando ricorda Patrignani, la posizione di un riformista rivoluzionario. Il racconto di Petrignani, ricco di ricordi, documenti e ricostruzioni mette in evidenza lo spessore culturale e politico di uno statista alla ricerca di una via d'uscita da una societa' ''spietata con i deboli, corriva coi potenti''.
l’Unità 15.1.10
Senza questa parte significativa della società non ci sarebbero stati i risultati su aborto e divorzio
Le scelte Radicali
I cattolici appoggeranno Emma Bonino
di Luigi Manconi
Ese, contrariamente a quanto vogliono i più pigri luoghi comuni, una delle principali risorse di cui può disporre Emma Bonino «fosse proprio il voto dei cattolici?»Da giorni, cattolici ardenti e laici autolesionisti, analisti senza fantasia e lobbies clericali si affannano a dire che la scelta della Bonino accelererebbe la «deriva laicista» del Pd.
Eppure, da almeno 35 anni si sa che la definizione omnicomprensiva di «mondo-cattolico» non regge: non uno, ma molti sono i mondi all’interno dello stesso cattolicesimo italianoE, dunque, molte le forme della fede e della pratica religiosa, tante e articolate le scelte di vita e le appartenenze, differenti fino alla più radicale contrapposizione le modalità della partecipazione pubblica e le opzioni di votoÈ quella che viene definita «la fine dell’unità politica dei cattolici».
Pertanto, hanno buon gioco i Radicali, ad argomentare che, da decenni, una parte rilevante del voto dei cattolici sostiene le loro battaglie: non si spiegherebbero altrimenti i risultati dei referendum su divorzio e abortoÈ un argomento decisivo, il cui significato va ben oltre l’epoca di quei referendum (1974 1981)È vero che, da allora, alcune fratture all’interno del cattolicesimo italiano, e tra credenti e gerarchie, si sono ricomposte, che «il dissenso» dei cattolici «di base», ha abbassato i toni e si è come acquietato, ma è altrettanto vero che lo «scisma sommerso», di cui ha scritto Pietro Prini, si è diffuso e sedimentato, senza insorgenze dirompenti ma anche senza abiure chiassoseIn quel libro, il filosofo cattolico parlava, appunto, del divario profondo, apertosi tra la dottrina ufficiale e le coscienze e i comportamenti dei fedeliUna delle conseguenze di quel divario è l’autonomia delle scelte politiche, che vengono formulate in base a considerazioni che sempre meno hanno a che vedere con le opzioni di fedeTale processo non riguarda solo i semplici credenti, ma coinvolge anche una parte delle gerarchie, quelle che sono meno inclini ad assumere posizioni pubblicheTutto ciò, in genere, viene classificato come secolarizzazione: ovvero la tendenza ad adottare comportamenti e modelli di vita immanenti, non derivati da dogmi di fede o da morali sovradeterminate. Ma il termine secolarizzazione è oggi inadeguato perché si limita a dichiarare solo ciò che non è.
E invece l’attuale realtà sociale è più fertile e ricca, attraversata da una pluralità di sistemi di valori che aspirano, tutti, a una propria fondazione moralePer capirci: la posizione dei Radicali sulle questioni di fine vita non può essere definita in alcun modo come amorale, quasi fosse l’esito ultimo di una secolarizzazione che avrebbe escluso qualsiasi considerazione etica nell’elaborazione delle proprie concezioniAl contrario: le politiche sulle questioni di fine vita, ma anche lo stesso antiproibizionismo, sono il frutto di una riflessione morale che pone al centro l’integrità della persona umana, la sua unicità e irripetibilità, la sua dignità e, dunque, i suoi dirittiIl recente impegno dei Radicali sull’immigrazione, dove l’incontro con la pastorale della Chiesa appare naturale, è lo sbocco di un percorso che vede il garantismo iniziale, perfino troppo freddo, farsi via via fatto intenso, incarnandoci nella concreta e dolente materialità dei corpi migranti (come in quella dei corpi reclusi)Se ciò è vero, l’antropologia radicale rivela profondi punti di contatto con l’antropologia cristiana, anch’essa fondata sui concetti di dignità e integrità della personaPoi, certo, le conseguenze politiche possono essere divergenti, ma resta una ineludibile necessità di interlocuzioneIn altre parole, le controversie etiche finiscono con l’avvicinare i cattolici (e anche le gerarchie) ai Radicali più di quanto li avvicinino ai titolari di una concezione agnostica e amorale della vitaL’«anarchia dei valori» rivendicata da Silvio Berlusconi può risultare comoda per il Vaticano solo perché inserita in un sistema di rapporti dove dominano interessi corposi e scelte pragmatiche, scambi in solido e mutuo soccorsoMa quando le questioni sciaguratamente definite «eticamente sensibili» si rivelano per quello che realmente sono (diritti sociali e diritti civili), e richiamano esperienze e sofferenze, le politiche che tutelano le libertà fondamentali di ognuno si rivelano le sole che muovono e commuovono il «popolo», credente o non credenteCome, quel 24 dicembre 2006, a Roma, quando una folla popolare partecipò alla cerimonia funebre per Piergiorgio Welby, davanti alle porte chiuse della chiesa di San Giovanni Bosco, che non aveva accolto la sua salma.❖
l’Unità 15.1.10
Perché Emma può piacere ai cattolici
di Giulia Rodano
A differenza di alcuni esponenti cattolici del Pd, da cattolica non provo alcun disagio per la candidatura di Emma Bonino a Presidente della Regione LazioCome cattolica non mi sono sentita in contrasto con la mia fede quando ho sostenuto la battaglia per l’introduzione del divorzio o quando ho votato per difendere la legge che consentiva l’interruzione della gravidanza o la legge sulla fecondazione assistita. Alla base di quelle scelte c’erano, per quel che mi riguarda, motivazioni diverse da quelle utilizzate in qualche caso dai radicaliPer me, ad esempio, la legalizzazione dell’aborto ha costituito la possibilità di combattere l’aborto clandestino e alla fine di poter ridurre il ricorso all’aborto, più che l’affermarsi di un nuovo diritto di libertàPer me tuttavia è essenziale affermare in ogni luogo e in ogni momento l’autonomia di valutazione di coloro che, impegnati in politica, devono scegliere ciò che, in coscienza, ritengono il bene comune raggiungibileAltrimenti, quando si decide per tutti e per tutte, per un intero Paese e non si valuta laicamente, non si assumono posizioni “cattoliche”, ma si rischiano posizioni illiberali.
Ho imparato dalle idee e dalle battaglie condotte per tutta la sua vita da mio padre che la divisione non è tra laici e cattolici, ma tra democratici e integralisti e che esistono democratici e integralisti sia tra i laici che tra i cattolici.
I credenti devono, se ne sono in grado, essere un lievito nella società, essere testimoni di visioni e comportamenti derivanti dalle loro scelteMa la testimonianza è forte se è libera e se sostiene e difende la libertà di tuttiNon esiste testimonianza senza libertàNessuno può sostenere che Emma Bonino sia mai venuta meno a questa impostazione.
A sinistra c’è preoccupazione che la candidatura di Emma Bonino non rappresenti quel punto di sintesi necessario per costruire una coalizione che possa battere quella di centro-destraConfesso che non mi è mai piaciuta l’idea che i candidati vincenti debbano essere incolori e insapori o quelli costruiti, come la Polverini, nei salotti televisiviNon mi spaventano la storia, le battaglie, la forte caratterizzazione politica del candidato presidente se so che il punto di forza di una candidatura sta soprattutto nella capacità di costruzione di una coalizione e nella condivisione di un programmaEmma Bonino ha l’esperienza politica per capire che la sua possibilità di successo non sta semplicemente nella sua biografia, che pure è importante, ma nella sua capacità di stringere con chi la sostiene un patto politico-programmatico all’altezza dei problemiCredo che «Sinistra, ecologia e libertà» debba cogliere questa occasione e, verificando le condizioni politiche e programmatiche, contribuire a costruire, nonostante le incertezze del Pd, un centrosinistra vincente anche per il peso significativo esercitato dalla sinistra.❖
il Fatto 15.1.10
“La Bonino può rappresentare i cattolici”
Avena, il direttore di Adista spiega che il voto identitario dei credenti riguarda solo una minoranza “Le indicazioni delle gerarchie contano relativamente, le scelte sono fatte di testa propria”
di Marco Politi
“C’è un mondo cattolico che non ha paura della candidatura di Emma Bonino. E certamente le posizioni di una Binetti e di un Rutelli non hanno nulla a che fare con la realtà viva della maggioranza dei credenti”. Giovanni Avena, direttore dell’agenzia Adista, che da quarant’anni informa sul mondo cattolico e sulle esperienze religiose in Italia senza essere organo di nessuna struttura ecclesiastica, nega che la radicale Bonino spaventi l’elettorato credente. Enzo Carra e Renzo Lusetti abbandonano il Pd. La Binetti scalpita. L’Avvenire critica. Qualche vescovo ha cominciato a suonare l’allarme. Il tam-tam è che l’elettorato cattolico si possa allontanare. “E io sono convinto, invece, che Emma Bonino, pur venendo dall’esperienza dei radicali, può rispondere a esigenze e bisogni del mondo cattolico. Perché è una personalità europea, ha una storia personale seria, è un politico serio. Ma soprattutto perché il mondo cattolico non è fatto di bacchettoni (che esistono ma si vanno riducendo) bensì di gente che va a messa, legge, si istruisce, si impegna nelle parrocchie, ma discute, fa le sue scelte ed è pronta a discutere anche di temi etici da posizioni non dogmatiche”. D’accordo, il mondo cattolico non è monolitico.
“Direi di più. Coloro che nel voto intendono esprimere un identitarismo cattolico sono minoranza. La maggioranza dei cattolici vuole un Paese amministrato da gente seria, con esperienza. Personaggi come la Binetti o Rutelli non rappresentano in nessun modo il mondo cattolico, riflettono una presenza che deriva da una cultura ante e anti-conciliare. Un tipo di cultura che non si ritrova nemmeno nella maggior parte del clero, che per quanto moderato o modesto è pronto a discutere con la Bonino e il suo mondo”. Questioni come il testamento biologico o la fecondazione artificiale o le coppie di fatto, cavalli di battaglia dei Radicali e della Sinistra, non fanno da ostacolo?
“No. Perché lo stesso clero ha la gente addosso, che gli va a raccontare i propri problemi con la contraccezione, gli aborti, la fecondazione assistita, le convivenze, l’omosessualità. Gente che racconta di tragedie o di problemi quotidiani e che vuole essere, non legittimata, ma riconosciuta e accolta. E il clero li accoglie, mentre le posizioni alla Binetti no”.
Le massime autorità ecclesiastiche ribadiscono sempre che vi sono principi “non negoziabili”.
“Che non incidono molto nella vita quotidiana dei credenti, ma servono solo alla gerarchia per sedersi ai tavoli della politica e contare”.
Non pesano al momento del voto? “Non sono per niente dirimenti. Dopo le elezioni politiche del 2008 un sondaggio SWG tra i cattolici praticanti mostrò che i temi cosiddetti etici non avevano minimamente pesato. Il voto si è laicizzato ed è anche positiva la polarizzazione che contrappone un “cattolicesimo di presenza” ad un mondo cattolico libero da pastie, che ragiona autonomamente con il cuore e la testa”.
Si può calcolare l’incidenza diretta delle indicazioni ecclesiastiche sul voto? “Difficile quantificare. In certi luoghi è del 3-5 per cento, in altri arriva fino al 10. E’ un fenomeno a macchia di leopardo che dipende da tradizioni o personalità locali. Comunque è già un indicatore il fatto che l’Udc sia al di sotto del 10 per cento ed è chiaro che larga parte del voto Udc non viene da motivazioni cattoliche in senso stretto”.
Qual è allora la stella polare del voto dei credenti? “Un’idea di bene comune che si identifica in temi come la famiglia, la solidarietà, la giustizia, l’accoglienza dello straniero. Temi che scaturiscono dal cuore del Vangelo. I fatti di Rosarno, ad esempio, hanno svegliato molti cattolici e creato un senso di ribellione verso il regime politico-culturale del berlusconismo. Bene comune per il cattolico medio significa anche liberarsi dall’abbassamento dei livelli etici e culturali del berlusconismo. Non è una rivendicazione moralistica, è un moto di insofferenza in aumento. Ricordiamoci che quando Boffo intervenì sull’Avvenire sui comportamenti del premier, era perché i lettori cattolici praticanti protestavano per il silenzio del giornale. E pi la gente si è stufata delle leggi ad personam. Per un po’ ha preso parte al dibattito, adesso dice “Basta!”.
Sentono che sono problemi che non li riguardano”. Tutto lineare? “No. L’insofferenza che cresce porta con sé il rischio dell’indifferentismo e del qualunquismo. E dunque alla fine può dare a beneficio di Berlusconi. Però mentre in stagioni passate c’era una maggioranza di cattolici che era soddisfatta del collateralismo della Chiesa con la Democrazia cristiana, oggi cresce il numero dei fedeli che ritiene innaturale il collateralismo con Berlusconi. E non parlo di “cattolici del dissenso”, mi riferisco a semplici fedeli praticanti, che vanno a messa”.
Il fedele della normale quotidianità che posizione tende ad avere? “Vuole capire, anche se c’è molta confusione. Non si muove più in base ad una obbedienza cieca. Fa scelte autonome. Non ritiene gli altri “peggiori”. Gli sta a cuore un cristianesimo vissuto nel quotidiano, una esibizione di “cristianità” non gli interessa”.
Nell’urna si tratterà di scegliere tra la Polverini e la Bonino. “Precisamente. E sarà una scelta dettata dalla coscienza. Chi sente più l’appartenenza religiosa, sarà per la Polverini. Chi da cattolico accetta la sfida della storia, si troverà benissimo con la Bonino. Certamente la sfida con il futuro i credenti la vivranno meglio con la Bonino che con la Binetti”.
il Fatto 15.1.10
Fuga dal Pd e da Bonino
risponde Furio Colombo
Caro Colombo, grande fuga dei cattolici dal Pd, come se Emma Bonino fosse un incrocio fra Attila e Odifreddi. C’è una spiegazione?
Edoardo
PER LA VERITÀ non così tanti cattolici fuggono all’arrivo di Emma Bonino. Ma un giorno Ilvo Diamanti, che si è dedicato alla paura indotta dai media per la criminalità che non c’è, offrirà un po’ del suo lavoro specialistico all’altra grande distorsione, sempre a cura dei media, di ciò che pensano, temono e fanno i cattolici. A sentire batterie di commentatori e specialisti, i cattolici italiani si scostano di colpo, tutti insieme, nello stesso istante, al primo accenno di un non credente che si avvicina a qualunque tipo di responsabilità piccola o grande, dal maestro elementare che decide di non fare il presepe in classe, ora che il presepe è diventato manifestazione leghista (dopo il modesto successo dell’acqua del Po) al politico nazionale che osasse mettersi dalla parte della scienza nella difesa della libera ricerca scientifica. Devo dire che mi meraviglia un giudizio così modesto dei cattolici italiani a cui si deve (parlo della collaborazione fra credenti e non credenti altrettanto consapevoli della condizione italiana e dei nostri comuni problemi) tutto ciò che di moderno e di europeo c’è oggi in Italia. Osservo lo sdegno triste con cui Enzo Carra dichiara incompatibilità con la candidatura di Emma Bonino a presidente della regione Lazio. Osservo il suo fermo e austero transitare nella Udc. Penso ai gesti dei pochi che lo hanno preceduto e seguito e mi dico che, prima ancora di essere eletta, la Bonino sta già rendendo un servizio al Pd. Aiuta alcuni sperduti a orientarsi. Un saluto cordiale e rispettoso per Carra che ha identificato il suo posto giusto. E auguri a senatori, senatrici, deputati vari del Pd (però, ripeto, pochi rispetto al clamore dei giornali) che continuano a esprimere angoscia per la candidatura della miscredente Bonino, ciascuno con tre interviste quotidiane. E poi non se ne vanno. Questo vuol dire che, forse, i nostri veri credenti non hanno trovato finora centri di accoglienza adeguati alle loro legittime aspettative. Oppure che, una volta pagato il necessario tributo alla Cei e pronunciata la frase giusta per la citazione su Avvenire, non se ne vanno perché si aspettano dalla Bonino una seria campagna elettorale e un buon risultato politico. Se è così, ecco la prova di ciò che dicono e ripetono i Radicali. Molte cose importanti in questo paese si fanno assieme ai cattolici.
il Riformista 15.1.10
La strana guerra Polverini vs. Bonino destra e sinistra si scambiano candidate
Profili. La sindacalista vecchio stampo e la liberista reaganiana. Si affrontano con fair play femminile, ma intorno a loro è guerra campale.
DI Peppino Caldarola
Lo scontro Bonino-Polverini è senza dubbio il più interessante della prossima guerra regionale. In primo luogo perché è una battaglia dall’esito incerto. La sinistra considera la Polverini una candidata insidiosa, ma anche il centrodestra teme la Bonino. È stato proprio il capogruppo alla Camera del Pdl, Fabrizio Cicchitto, a mettere in guardia il proprio schieramento dalla sottovalutazione della leader radicale. Due donne che si fronteggiano è in ogni caso una novità assoluta nella politica italiana. E questo è un altro dato fuori dal comune. Paradossalmente le due rivali hanno anche altri tratti in comune. Sono, infatti, due scelte mediatiche. La Polverini è stata lanciata nella grande scena politica da un’ossessiva presenza in tv che ne ha fatto una vera star dei talk show. La Bonino fa notizia anche quando sta zitta, il che accade di rado. Sono anche due personalità politiche abbastanza eterodosse nel proprio campo. La Polverini con la sua militanza finiana non è certo nel cuore dei sentimenti del centrodestra a maggioranza berlusconiana. La Bonino ha sollevato ampie riserve non solo nell’area cattolica più tradizionalista del Pd, provocando i tormenti della Binetti e la fuoriuscita di Renzo Lusetti e Enzo Carra approdati nell’Udc, ma anche nell’area più di sinistra.
Si tratta inoltre di due candidature, per così dire, imposte. Né Polverini né Bonino sono la pri-
ma scelta dei rispettivi schieramenti ma sono state il punto di approdo di una difficile ricerca di altri nomi. Nel caso della Bonino si è trattato di una vera occupazione di uno spazio pubblico che il Pd aveva lasciato deserto dopo la rinuncia di Zingaretti. Nel caso della Polverini, il Pdl ha dovuto pagare un prezzo alla necessità di dare spazio al protagonismo finiano.
Il repertorio delle differenze fra le due rivali appare altrettanto ampio. L’una, la Polverini, è una sindacalista vecchio tipo. L’altra, la Bonino, è una antica reaganiana. Non è per caso che la Polverini abbia ricevuto tanti consensi nell’area di sinistra e che la Bonino piaccia ai vecchi liberisti di destra. Ciascuna delle due darà un’impronta alla campagna elettorale che potrà sfigurare il proprio campo. Il prezzo che paga il centrosinistra alla candidatura della Bonino è più alto. Bonino è una leader di lunga data, con un profilo politico assai pronunciato che corre dalle battaglie sui diritti civili, alla militanza libertaria, all’antigiustizialismo fino all’anti-sindacalismo. Tutti temi che non sono nel programma originario di questo centrosinistra. La Polverini appare come la prosecutrice di una tradizione politica che poggia l’azione pubblica sull’incremento della spesa, praticamente il contrario del tremontismo dilagante. Destra e sinistra per tanti aspetti si sono scambiate le candidate.
Ciascuna delle due ha punti deboli abbastanza significativi. Per la Polverini sarà un compito arduo convincere alla fedeltà quei settori del Pdl che non amano Gianfranco Fini e che soprattutto la considerano un outsider della battaglia politica. Per la Bonino vale il contrario. Molti nel centrosinistra la vedono come espressione di una vecchia classe dirigente, ancorché minoritaria come quella radicale, non in grado di riunire attorno a sé le varie anime della coalizione.
Finora Bonino e Polverini si sono ignorate. Probabilmente si ignoreranno per tutta la campagna elettorale. Ma i rispettivi supporter stanno affilando le armi. Se Europa, il quotidiano del Pd un tempo legato a Francesco Rutelli, sottolinea gli insuccessi sindacali della Polverini praticamente accusandola di aver guidato un sindacato inesistente con un tesseramento gonfiato, ieri sul Foglio Giuliano Ferrara ha letteralmente “massacrato” la Bonino non solo per le sue battaglie abortiste ma accusandola di essere una vanesia presenzialista e una noiosa vittimista.
La vittoria dell’una o dell’altra non sanerà i conflitti nelle coalizioni d’origine. La presenza della Polverini alla guida del Lazio rafforzerà la componente finiana dando una nuova postazione di potere al gruppo legato al presidente della Camera. Il Pdl di rito berlusconiano celebrerà in questo modo anche la propria estromissione dai gangli del potere laziale e romano dopo aver ceduto la poltrona di sindaco ad Alemanno. La Bonino ha già chiarito che non si considera una candidata del centrosinistra. Con una singolare inversione di collocazione ha dichiarato che non è stata lei a scegliere il centrosinistra, ma il centrosinistra a dover convergere su di lei. Una sua vittoria, che nelle caselle nazionali sarà iscritta a vantaggio di Bersani, nella pratica dei prossimi anni rivelerà la sua eccentricità. Bonino è stata un ministro leale del governo Prodi, è assai difficile che sarà una fedele rappresentante del centrosinistra una volta che dovesse insediarsi negli uffici di via Cristoforo Colombo a Roma.
Non sarà una battaglia fra il vecchio e il nuovo. Bonino, pur avendo molti più anni di militanza politica, è per tanti aspetti una candidata sorprendente. Per la prima volta con lei i radicali si misureranno con il tema del governo locale e dovranno pronunciarsi su questioni diverse da quelle battaglie sui diritti che ne hanno segnato tutto l’arco dell’esperienza politica. La Polverini, pur essendo alla sua prima uscita nel palcoscenico della grande politica, è invece per altri aspetti una candidata tradizionale affezionata ai temi sociali. La battaglia fra le rivali sarà vinta da chi riuscirà da un lato a perdere meno dal proprio campo, superando le diffidenze che ne hanno accompagnato la discesa in campo, dall’altra nella capacità di attrarre gli scontenti dell’altro schieramento. La sindacalista e la liberista frantumeranno probabilmente le vecchie appartenenze. Per il Pd del dopo-Marrazzo sarà una boccata d’ossigeno, per il Pdl che vuole uscire dal berlusconismo, un’occasione da non perdere. Quel che è certo è che alla fine vinceranno loro, e non gli schieramenti a nome dei quali combatteranno.
il Riformista 15.1.10
Cosa accomuna cattolici e radicali
di Marcello Buttazzo
Il centrosinistra dovrebbe per numerosi motivi appoggiare compattamente Emma Bonino, che potrebbe essere un’ottima e illuminata presidente di regione. Nei giorni scorsi, il senatore Franco Marini molto opportunamente aveva esortato il suo schieramento solitamente litigioso a porre fine ai nocivi dissapori e, facendo appello soprattutto ai cattolici, a dire basta alla distruttiva «lotta fra guelfi e ghibellini». Quando Marini sostiene con convinzione che i radicali e i cattolici hanno a cuore la centralità della persona, poiché il loro raggio d’intenti può essere assimilato a un riconosciuto e manifesto amore per la vita e per l’esistente, fa un’osservazione puntuale. Il bioeticista Francesco D’Agostino, invece, continua con argomentazioni fittizie a dividere gli uomini in categorie non facilmente coincidenti. Con un gioco di alta scuola sofistica, il presidente emerito del Comitato nazionale di bioetica recinta e sminuisce lo spettro d’azione dei radicali: essi si batterebbero non a tutela della persona, ma dell’individuo, sarebbero dei paladini dell’io soggettivo e mai del “noi”, mai del “bene comune”. Quindi i radicali, quando avanzano normative sulla legalizzazione delle droghe, sulla salvaguardia di tutte le famiglie, sulla procreazione medicalmente assistita, sul fine vita, sulla tutela dei malati, farebbero in sostanza dei danni. Ovviamente, non sono d’accordo con D’Agostino. I radicali sono dei paladini dell’individuo e quindi anche della persona e del bene comune. Non sono di certo sostenitori del nichilismo morale: questa è una vecchia vulgata che non regge, perché sconfessata dalla realtà dei fatti che è potentemente evocativa. Essi vogliono tutelare i vari modelli etici e quindi dare significato, voce, valore a tutti i cittadini. Altro che individualisti sfrenati. Anche se l’antropologia di riferimento dei libertari non è propriamente coincidente con quella cattolica, i radicali spendono la loro esistenza per la difesa dell’uomo, nella sua nudità ed essenzialità. Le campagne coraggiose contro le ingiustizie, contro le guerre, contro la fame, l’amore per i malati, la corretta amministrazione della cosa pubblica, l’onestà, sono carne comune, sono baluardi d’uno stesso obiettivo.
l’Unità 15.1.10
I neri cacciati perché hanno osato denunciare le ’ndrine
Giuseppe Lavorato, ex sindaco di Rosarno racconta il passato recente, la solidarietà e la convivenza possibili, l’ossessione della ‘ndrangheta per il controllo del territorio in Calabria
di Jolanda Bufalini
Con honneur, total rispetto, grande dolore e lacrime....vogliamo dichiarare, con grande dignità, onestà e orgoglio, che siamo vittime da quando arrivati a Rosarno anche durante il riposo notturno...di una violenza ultra razzista....martedì 10 novembre alcuni lavoratori onesti dell’Africa sono stati vittime di giovani stupidi armati illegalmente che facevano tiro a segno davanti i ghetti...»La lettera scritta a penna, chiara pur con gli errori di ortografia, firmata «il rappresentante dei lavoratori africani di Rosarno» è datata 12 novembre 1999 ed è indirizzata all’allora sindaco di Rosarno Giuseppe Lavorato.
«Le violenze c’erano – racconta Lavorato ma io avevo fatto eleggere un rappresentante per ciascuna comunitàLi facevo riunire in assemblea, loro scrivevano i documenti di denuncia, andavano nelle scuoleIl municipio era la loro casaIl 6 gennaio si teneva la festa “della fratellanza universale”Ricorda ora l’ex sindaco: “Mi appoggiavo alle comunità religiose, c’erano tutti , rosarnesi e immigratisi cucinavano le frittoleSuor Raffaella ballava con gli immigrati, alcuni dei quali piangevano ascoltando le canzoni dei loro paesi”.
Anche Giuseppe Lavorato, ora, si commuove, ricordando un trentennio di lotte sociali che conquistarono per i braccianti mille ettari di terra: «Bosco selvaggio che è stato trasformato in giardini rigogliosi di agrumi»E poi si controlla e stringe i denti: “Nessuno ci poteva piegare, ci sentivamo invulnerabili”.
Giovani e invulnerabili si erano sentiti dagli anni sessanta sino a una notte del 1980, quando, con Giuseppe Vallarioti, segretario della sezione del Pci, erano andati a festeggiare in campagna la vittoria elettorale: “Dal buio di una siepe partirono due colpi di lupara” e il giovane segretario di sezione morì fra le braccia del compagno: ”L’indomani il paese doveva essere in festa”Stringe i pugni, serra i denti e con un sibilo di voce Giuseppe Lavorato continua a raccontare: “ma per quelli non ci doveva essere nessuna festaDovevamo piangere”.
L’epopea eroica e tragica delle battaglie contro la mafia si arricchisce di un nuovo capitolo nel 1994, quando una telefonata di Giorgio Napolitano convince l’amico di Vallarioti a presentarsi candidato sindaco“Fummo i primi, nel 1999, a costituirci parte civileNell’aula bunker la gabbia era stracolma, ci guardavano...se quegli occhi fossero stati fucili ci avrebbero raso al suolo”.
Il 15 novembre 1999 i fatti oggetto della denuncia degli immigrati che abbiamo riportato all’inizio, sono all’esame del Consiglio comunale che approva: “Interpretando i nobili sentimenti dei rosarnesi si esprime solidarietà a tutti i lavoratori extracomunitari per le gravi violenze subite” e esprime un forte allarme perché “la mafia e i delinquenti soffocano l’economia di Rosarno”.
Quelle vecchie carte di denuncia e di risposta democratica spiegano molto di ciò che è successo la settimana scorsa, perché in quel modo di operare si era radicata la fiducia degli africani nella legalità“Adesso ti spiego perché hanno sparato dice l’ex sindaco con la droga e il traffico delle armi, con gli appalti la ‘ndrangheta ha accumulato una ricchezza enormeMa per mantenerla deve avere il controllo del territorio”.
E invece nel 2008, quando alcuni immigrati neri furono feriti con armi da fuoco, la risposta non si limitò a una protesta pacificaFecero denuncia e i colpevoli sono stati arrestati e condannatiIl vecchio sindaco passa al dialetto: “La ndrangheta non è cchiu’ fissa (non è piu’ fessa) Capisce, interpretaHa colto l’occasione”.
Ormai mancano “la forza e la salute”, conclude Peppino Lavorato: “Posso fare solo un appello”“Ho visto – dice – che anche le persone solidali, la stragrande maggioranza a Rosarno, erano terrorizzate dalla furia devastatrice dei piu’ deboliSu questo si è innescata l’azione delle squadracce che hanno ottenuto la cacciata di quelli che l’hanno scorso avevano denunciato la sopraffazione”Per rimarginare “l’immensa ferita non basta un corteoDonne e uomini puliti e generosi devono tutti insieme ricostruire sentimenti di fratellanza e isolare la ndrangheta, proporsi con questo lavoro come nuova classe dirigente”❖
il Fatto 15.1.10
Rosarno, schiavi nascosti nelle campagne
Anche l’Economist definisce quello che è successo in Calabria un episodio di pulizia etnica
di Enrico Fierro
Ci sono almeno 500 lavoratori di colore che vivono in capanne e alloggi precari, spesso cibandosi solo di frutta
Non tutti sono andati via. Non tutti hanno accettato di lasciare Rosarno e la Piana di Gioia Tauro dopo gli scontri, le barricate, i raid e la caccia all'uomo. “Ci sono almeno altri 500 lavoratori di colore sparsi nelle campagne, vivono in capanne e alloggi precari, spesso cibandosi solo di frutta”. É l’allarme lanciato ieri da Agazio Loiero, il governatore della Calabria. Che si dice pronto a fare la sua parte, e invita il governo a dare una mano. Allarma fondato? In parte sì. “Forse non sono quelle le cifre – dice don Pino De Masi, prete e referente dell'associazione antimafia Libera – ma il fenomeno esiste. Ci sono ancora lavoratori di colore che vivono in casolari sparsi, a Rosarno come a Gioia Tauro e a Rizziconi. Molti li abbiamo aiutati e accompagnati fino a Lamezia Terme per prendere il treno e scappare, ne sono rimasti alcuni, ma non sono certo quelle le cifre”. C’è la campagna elettorale alle porte e il rischio di strtumentalizzare il dramma degli schiavi neri è altissimo. Ma un dato è certo, nei giorni della rivolta e della caccia al nero che rischiava di concludersi con un morto, in tanti hanno lavorato per salvare i lavoratori di colore rimasti isolati. Molti erano scappati dall’inferno dell'ex Opera Sila e della Rognetta, i due lager diventati la Soweto della Piana, per rifugiarsi nelle campagne. I più “fortunati” nelle vecchie case coloniche costruite negli aranceti, gli altri in capanne e baracche. Per giorni carabinieri, volontari della Caritas e di Medicdi senza frontiere, hanno battuto i campi per assisterli e salvarli da quella che il settimanale britanico “Economist” ha definito una vera e propria pulizia etnica. “Una pulizia etnica di una velocità, una completezza e una cattiveria balcaniche”. Un giudizio che certamente verrà giudicato esagerato, ma bastava essere a Rosarno per capire che così non è. La fila di uomini che trascinavano borsoni, gli autobus e le vecchie macchine con targhe straniere scortate dalla polizia, ricordavano molto da vicino le scene degli esodi forzati durante le guerre etniche. Fatti come quelli successi a Rosarno, avvengono quando si vede negli altri “solo oggetti, forza di lavoro, braccianti e non persone da rispettare”, è il giudizio di don Cesare Atuire, un sacerdote ghanese dell'Opera romana pellegrinaggi. Per troppo tempo nella Piana di Gioia Tauro si è lasciata marcire una situazione molto al di là del limite dell'inciviltà. Tutti sapevano che dentro i capannoni, tra i silos e le strutture abbandonate della ex Opera Sila viveva una comunità di centinaia di persone tra il degrado e l'abbandono. I volontari di “Medici senza frontiere” hanno più volte lanciato l'allarme. In pochi lo hanno raccolto, come in pochi hanno visto il reportage della Bbc girato all'interno dell'inferno della Rognetta. Assenti le istituzioni locali, assente il governo, complici i proprietari degli aranceti che per anni hanno trovato conveniente usare una manodopera a prezzi stracciati, ora è il momento della polemica politica. Ieri è arrivata a Rosarno Margherita Boniver, presidente del Comitato Schengen e ha denunciato “il collasso delle istituzioni locali”. Nei mesi scorsi il Comitato forse ignorava finanche dove si trovassero Rosarno, i ghetti dei neri e quali forme di brutale sfruttamento lì si attuavano. Si vota per le regionali e la polemica paga. Dal canto suo, la Regione ha risposto ricordando impegno e fondi stanziati. “Solo il Presidente Loiero ha dedicato una attenzione continua e concreta al problema”, ha dichiarato Pantaleone Sergi, portavoce del governatore, ricordando le cifre stanziate: “50mila euro, di questi ne abbiamo anticipato un terzo in attesa della rendicontazione dei comuni interessati, documenti essenziali che però sono arrivati solo il 2 dicembre 2009”, appena un mese prima della rivolta. Insomma, i soldi impegnati dalla Regione erano già di per sé pochi (basta dare uno sguardo alle immagini dei due ghetti di Rosarno per rendersene conto e ai pochi cessi chimici lì impiantati), sono stati utilizzati in minima parte perché i Comuni non hanno fatto quello che dovevano. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. “In questa vicenda sono troppe le questioni banalizzate dal governo”, ha detto Pierluigi Bersani, ieri a Rosarno per una manifestazione del Pd. Forse ha ragione, ma anche le istituzioni locali sono state cieche e sorde. La situazione era sotto gli occhi di tutti. Bastava vedere e non lasciare da soli preti e volontari, a non permettere che lavoro nero e sfruttamento diventassero schiavismo. A Rosarno, puntino d'Europa, dove ora gli schiavi vivono in improvvisate capanne.
il Fatto 15.1.10
Il Paese in cui viviamo
di Bruno Tinti
A Rosarno le cose sono andate così: una banda di ubriachi e primitivi ha pensato bene di andare a rompere le scatole agli
immigrati che se ne stavano a dormire nella loro bidonville; qualcuno aveva un fuciletto ad aria compressa (capacità lesiva pressoché zero se non lo pigli in un occhio) e ha sparato qualche colpo; gli immigrati se la sono presa e hanno reagito invadendo alcune strade cittadine, bruciando cassonetti e spaventando i cittadini, tra cui una signora che ha subìto una vera e propria aggressione e la cui macchina è stata bruciata. I cittadini di Rosarno hanno messo in piedi una spedizione punitiva, questa volta con fucili veri, e hanno cominciato una vera e propria caccia al negro (non so se ci fossero immigrati di altri colori); gli immigrati sono stati respinti e, siccome le cose si mettevano male e le forze dell’ordine non riuscivano a impedire ai rosarnesi di percorrere le strade in armi, trasferiti altrove; le loro cose sono rimaste nella bidonville dove abitavano e molti non sono stati nemmeno pagati per il lavoro fatto fino ad allora; infine la bidonville è stata rasa al suolo.
Adesso, stabilire chi ha avuto ragione e chi torto mi pare difficile; anni di processi per rissa mi hanno insegnato che la violenza è l’ultimo rifugio degli incapaci e che tutti i violenti sono sempre colpevoli. Ma non mi pare nemmeno importante. A me sembra che importante sia altro.
Gli immigrati lavoravano per 20 euro al giorno, senza contratto, senza assicurazione, senza contributi; e tutto questo avveniva sotto gli occhi di tutti. E nessuno trovava ignobile questo indegno sfruttamento. Quell’Ispettorato del lavoro, quei funzionari Inps che, nella mia procura, mi inondavano di denunce per contributi non versati e per figli, mogli e fratelli che lavoravano nel negozio del padre, marito, ecc, senza essere in regola, a Rosarno non facevano niente. Gli immigrati vivevano accampati in una fabbrica abbandonata; dormivano sul pavimento e appendevano il loro cibo (quale?) in sacchi di plastica perché i topi non glielo mangiassero; defecavano in terra e si sdraiavano tra i loro escrementi. E quei vigili urbani che facevano arrivare alla mia procura decine di denunce per verande illegali e mansarde di lusso con altezza pari a 2,75 metri e dunque non agibili, non sono mai intervenuti a Rosarno. E nemmeno l’ufficio d’igiene del comune ha trovato niente da ridire; e il governo ha speso parecchi soldi per mettere le mutande ai quadri di Palazzo Chigi perché occuparsi degli ultimi della terra non procura voti. Gli immigrati sono stati cacciati come bestie; e il ministro dell’Interno, che qualche mese fa ha mandato l’esercito nelle strade come avviene nelle “repubbliche” africane, ha dichiarato: “Troppa tolleranza con gli immigrati”.
Gli immigrati adesso sono in un campo di concentramento, proprio come si è fatto per i giudei, i froci e i comunisti. E io sto qui a chiedermi che fine ha fatto il rispetto della vita che stava tanto a cuore a questo governo feroce e inumano quando si trattava di comprarsi i voti dei cattolici con la persecuzione di povere larve come Welby ed Eluana. Sto qui a chiedermi perché l’opposizione non va, tutta ma proprio tutta, a Rosarno portando a quei poveracci acqua, cibo e vestiti, dimostrando finalmente che non è uguale alla maggioranza. Sto qui a chiedermi in che diavolo di paese mi tocca vivere e se davvero è in questo paese che dovrò morire.
il Fatto 15.1.10
Vecchie e nuove schiavitù
Antifonte diceva che i Greci sono più barbari dei barbari in quanto non capiscono che gli uomini per natura sono tutti uguali: “Respiriamo tutti col naso e prendiamo tutti il cibo con le mani”
di Giovanni Ghiselli
Imisfatti di Rosarno ci inducono a una riflessione sulla schiavitù. Questa piaga orrenda, disonorevole per l’umanità, ha radici antiche, come tutti sanno. Al tempo dei Greci e dei Romani venivano schiavizzati i popoli sconfitti in guerra. I più lo consideravano un fatto naturale, ma già allora le menti rette denunciavano l’asservimento dell’uomo da parte dell’uomo come un abominio. Nel Peloponneso gran parte della popolazione era costituita da Iloti, sottoposti agli Spartiati, gli Spartani di razza, che, calati dal nord alla fine del secondo millennio a. C., avevano conquistato la splendida “isola di Pelope” sottomettendone gli autoctoni. Ebbene nel IV secolo vengono scritti due opuscoli contrapposti sul problema della legittimità di tale asservimento. Isocrate, il principe ateniese della retorica, lo strapagato maestro della parola persuasiva, nell’Archidamo, dedicato a un re spartano, sostiene che Sparta aveva pienamente diritto a tenere i Messenii in schiavitù. Con l'Archidamo il retore Isocrate può considerarsi lo storico della mentalità schiavistica spartana in senso stretto: il discorso, infatti, è imperniato sulla ricostruzione dell’antichissima vittoria degli Spartani, per mostrare il loro buon diritto a tenere i Messenii sotto il giogo della tremenda schiavitù. Un altro maestro di retorica però, Alcidamante, scrisse il Messeniaco per mostrare, al contrario del suo eterno avversario Isocrate, che gli Spartani non avevano il diritto di schiavizzare: "Liberi tutti ci lasciò il dio e la natura non ha fatto schiavo nessuno”.
Questa esaltazione della rivolta degli schiavi messenii, lasciò una grande eco: più tardi, Aristotele porrà il Messeniaco di Alcidamante accanto all’Antigone di Sofocle. Il maestro di Alessandro Magno nella Politica afferma che lo schiavo è un oggetto di proprietà animato: esso non sarebbe necessario se le spole tessessero da sé. Canfora definisce lo schiavo il “convitato di pietra” della polis classica. Certamente la condizione degli iloti spartani era tra le più dure. Ma anche le masse di schiavi impiegati nelle miniere dell’Attica vivevano in condizioni terribili, tanto che il sofista Antifonte diceva che i Greci sono più barbari dei barbari in quanto non capiscono che gli uomini per natura sono tutti uguali: “Respiriamo tutti col naso e prendiamo tutti il cibo con le mani”. Dunque la schiavitù anche secondo Antifonte è un’istituzione contro natura. Gli schiavi domestici vivevano in condizioni meno disperate: nella commedia greca, e ancor più nel mondo carnevalesco, rovesciato, di quella latina, essi appaiono risolutivi, volenterosi e quasi sempre capaci di aiutare i padroni. Negli ultimi anni della guerra del Peloponneso Atene era a corto di mezzi e di uomini, e dovette rimpiazzare tanti caduti con gli schiavi; questi anzi, dopo l’ultima battaglia vinta alle Arginuse, vennero liberati con un decreto che provocò la reazione di Aristofane il quale diede voce all’esclusivismo degli Ateniesi facendo dire al coro delle Rane: “è uno scandalo che alcuni per una sola battaglia diventino cittadini e padroni invece che schiavi (vv. 693-694). Essere cittadini significava automaticamente essere padroni e questi non volevano condividere i loro privilegi. Tocqueville e altri storici che oggi si chiamerebbero di destra ricordavano ai giacobini della rivoluzione francese che le città antiche prese a modello erano in realtà repubbliche schiavistiche. E’ vero. Tuttavia sono Greci e Latini i primi autori che provarono turbamento per la schiavitù ed ebbero scrupoli sullo schiavismo. Omero considera la schiavitù un evento terribile che può capitare a chiunque e portare via all’uomo una parte della sua umanità. Euripide fa dire a Ecuba che la schiavitù riguarda tutti: “non c'è tra i mortali chi sia libero: infatti siamo schiavi delle ricchezze oppure del destino, della folla oppure delle leggi”. Su questa linea Seneca replica a uno schiavista, ribattezzando gli schiavi “uomini”, “umili amici”, “coabitanti”, “compagni di schiavitù”. Aristotele ha la caratteristica, già fatta notare da Marcuse, di essere, un cultore del senso comune il quale gli suggerisce che la schiavitù era un’istituzione necessaria alla società e la sua abolizione avrebbe comportato l’anarchia, forse la carestia. Neppure Platone era favorevole alla democrazia, eppure nella sua Repubblica abolisce silenziosamente la schiavitù per il semplice fatto di edificare uno Stato senza schiavi. Arriano, storico di Alessandro Magno, in una descrizione dell’India racconta che tutti gli Indiani sono liberi e nessuno è schiavo. Essi sono invece divisi in sette caste. Leopardi nello Zibaldone commenta questa assenza di schiavitù come conseguenza delle caste: “Ecco la ragione perché gl’indiani non usavano schiavitù. Perché sebben liberi, non avevano l’uguaglianza”. La riflessione successiva è che, nonostante l’assenza della schiavitù, gli Indiani non erano davvero liberi, poiché la divisione in caste senza speranza di avanzamento non presenta “i grandi vantaggi della libertà”, e la libertà senza uguaglianza, non è vera libertà.
l’Unità 15.1.10
Il governo prepara il giro di vite per la Rete
di Natalia Lombardo
Alla Camera il decreto che prevede controlli su Internet, regali a Mediaset e tagli al cinema
L’opposizione denuncia la manovra e chiede il ritiro del provvedimento
Il governo tenta un altro colpo di mano: limiti per i filmati sul web; tagli a fiction e cinema indipendenti; regala più pubblicità a Mediaset togliendola a SkyL’opposizione accusa: da Romani eccesso di delega.
«Una mossa che sembra ispirata da Mediaset, non è un sospetto troppo lontano dal vero», commenta Vincenzo Vita, senatore PdCosa? Il decreto governativo che, senza passare al vaglio del Parlamento, vuole segnare tre colpi: «Dà un colpo mortale alla produzione di fiction e cinema italiano, rappresenta un evidente regalo a Mediaset e contiene un giro di vite allarmante su Internet per la parte che trasmette servizi audiovisivi»Un capolavoro di «conflitto d’interessi», spiega Paolo Gentiloni, responsabile comunicazioni del PdIl quale accusa «un clamoroso eccesso di delega» esercitato da Paolo Romani, viceministro alle ComunicazioniRomani, uomo tv da sempre vicino a Berlusconi, respinge l’accusa con motivazioni tecniche ma a stabilire se l’eccesso c’è stato può intervenire il Consiglio di Stato entro 40 giorni.
Il decreto avrebbe dovuto solo recepire la direttiva europea che estende alle televisioni il cosiddetto «product placement», ovvero la pubblicità che compare in un film (per esempio la marca di un pacchetto di sigarette), vietata solo nelle trasmissioni per bambini (che, come denuncia Emilia De Biase, del Pd, «vengono aggrediti comunque con ore di pubblicità)In una conferenza stampa dell’opposizione (i due esponenti Pd, poi Rao per l’Udc, Giulietti di Articolo21 e Borghesi per l’Idv), hanno denunciato la manovra«Romani», spiega Gentiloni, «a fonte di una legge delega di 11 righe» aggiunge in 40 pagine «una riforma radicale delle norme italiane su tv e Internet», il tutto «usando il Parlamento come casella postale»Perché è previsto solo un parere, non vincolante, delle commissioni entro il 27 gennaioNella riunione di ieri le commissioni Trasporti e Cultura della Camera (il 19 lo farà il Senato), l’opposizione ha chiesto il ritiro del decretoE il capogruppo Pd Franceschini ha scritto al presidente Fini perché allunghi i tempi di discussione; i presidenti Aprea e Valducci sembrano disponibili a fare delle audizioniAnche Luca Barbareschi, attore, produttore e deputato Pdl, ha condiviso le critiche dell’opposizione.
LE MANI SUL WEB
Il governo interviene pesantemente sulla diffusione di audiovisivi in Rete (da YouTube alle web tv dei giornali o universitarie): qualunque sito che trasmette filmati in modo «non incidentale» ma sistematica, tutti i giorni, devono chiedere l’autorizzazione al ministero, il che vuol dire che serve un direttore responsabileE si aumenta il controlloSi impone poi l’obbligo di rettifica e di rispondere alle norme sul diritto d’autoreIn pratica siti e blog sono equiparati alle televisioni o alla carta stampataDietro le quinte c’è anche un ricorso Mediaset fatto a YouTube per la diffusione di spezzoni del Grande FratelloAltri tentativi restrittivi, come l’emendamento D’Alia (Udc) nel pacchetto sicurezza erano stati respintiOra, avverte Athos Gualazzi, presidente del «Partito Pirata», «se il governo cerca di mettere paletti o favorire qualcuno la Rete reagirà»Come? «Crittograferemo i pacchettiNon serve imbrigliare la condivisione e la democrazia della Rete, aggireremo la norma con soluzioni tecniche»E oggi una sentenza stabilirà se Telecom (che si è opposta) dovrà o no fornire alla Fapav (federazione antipirateria audiovisiva) gli indirizzi web di chi ha condiviso opere con copyright.
TAGLI A AL CINEMA INDIPENDENTE
Il governo cancella le norme che avevano introdotto i ministri Veltroni nel 1998 e Gentiloni nel 2007: che le emittenti televisive sostenessero la fiction e il cinema indipendenti con quote di tempo di trasmissione e con investimenti.
PIÙ PUBBLICITÀ PER MEDIASET
Ridotta la pubblicità per il satellite e ampliata quella per Mediaset: le interruzioni con gli spot da ogni 30 minuti anziché 45E se finora tutte le tv commerciali avevano un tetto orario del 18%, il decreto impone che Sky in tre anni passi dal 18 al 12%, un terzo in menoIl che danneggia anche i canali in onda sul satelliteMediaset, invece, mantiene il limite al 18% ma può arrivare al 20 perché sono inserite le telepromozioni e aumenta il numero con la frequenza degli spotIl decreto, inoltre, blocca l’indagine che l’Authority per le Tlc, stava compiendo per accertare lo sfondamento del 20% da parte di Mediaset (nel decreto gli spot nei programmi a pagamento e le repliche non vanno conteggiati).
Sul piede di guerra anche Roberto Rao dell’Udc, che si aspetta una «mobilitazione della Rete e di massa, perché nel web c’è l’unica informazione non soggetta allo spoil system e alle gabbie».❖
l’Unità 15.1.10
Il conflitto di interessi dietro le leggi speciali contro la libera rete
Giuseppe Civati presidente per il Pd del Forum dei nuovi linguaggi e delle nuove culture: colpire chi è indipendente è sempre sbagliato, farlo in modo sistematico è più grave. Non vogliono rompiscatole
di N.L.
Giuseppe Civati è fresco di nomina, da parte di Bersani, come presidente per il Partito democratico del «Forum dei Nuovi linguaggi e delle Nuove culture»Una dizione fascinosa e anche se poco sinteticaE lui, che ha naturalmente un suo blog, ci tiene a far capire «ai politici che il web non è una realtà marginale, spesso si considera così, mentre la convergenza, lo scambio di contenuti tra la Rete, la televisione e il digitale fanno parte della societàMi interessa l’aspetto quotidiano della Rete»Come giudica il fatto che il governo ancora una volta stia cercando di imbrigliare Internet con regole che permettono maggiore controllo? «Bisogna stare sempre attenti quando si affaccia l’ombra di “leggi speciali”Noi semmai abbiamo proposto, anche con la manifestazione sempre aperta “Libera rete in libero scambio”, di specializzare i saperi e l’uso della tecnologia, di estendere la comunicazioneDal governo invece siamo alla bassa cucina, per difendere quel fastidio che Berlusconi e la maggioranza esprimono verso la democrazia della Rete».
Ora il viceministro Paolo Romani usa il recepimento di una direttiva europea sulla pubblicità per «legare le mani al web», come ha detto Gentiloni, e favorire Mediaset nei tetti pubblicitariVede una connessione? «Mi sembra un caso esemplare di conflitto d’interessi, non c’è sintesi maggiore che in questi due ambitiCi sono stati tentativi sinergici anche in passato per colpire la libertà della rete o di You TubeIn questo caso un grande magnate della tv non può dimenticare il suo “core businnes”, dal momento che non pare dedicarsi solo alla politica.
E Paolo Romani è un uomo che viene dal mondo delle tv, non a caso è stato messo lì da BerlusconiÈ significativo, però, che si sia visto sfumare il progetto di allargamento della banda larga da parte dei colleghi di governoInsomma, quando si deve allargare la comunicazione non si interviene, si è solerti invece nel restringere gli spazi di democrazia».
I limiti che si vogliono imporre potrebbero, alla lunga, creare situazioni simili a quelle repressive e censorie praticate dalla Cina o dall’Iran? «Colpire chi è indipendente è sempre sbagliato, farlo in modo sistematico è più graveE il tentativo più clamoroso è stato con il caso Tartaglia: le prime mosse di reazione, da parte del governo, sono state sì “cinesi” o “iraniane”, poi hanno capito che sarebbe stato impossibile mettere in atto censure e controlli similiE, appena hanno avuto un confronto con Facebook, hanno visto che il controllo già esiste, che ci sono delle norme ordinarie sull’offesa e la diffamazione, non servono leggi specialiQuindi l’approccio è stato tremendo, ma alla fine non hanno fatto nulla»Vuol dire che il governo è piuttosto approssimativo nella comprensione delle dinamiche di internet?
«A volte fingono di non capire, altre volte tentano interventi chirurgici scatenando l’ira dei blogger, oltre che degli espertiPerò il conflitto d’interessi è sempre un filo conduttore: meno rompiscatole ci sono in giro e meglio è».❖
l’Unità 15.1.10
Sempre meno libertà
Più di due miliardi senza diritti nel mondo
Il rapporto di Freedom House: nel 2009 sono cresciuti repressione e conflittiLa lista nera dal Medio Oriente all’Africa, dall’Asia ai Paesi ex Urss
di Umberto De Giovannangeli
Due miliardi e trecento milioni di personeSenza diritti, senza libertàDal Medio Oriente all'Africa, dall'Asia alle repubbliche dell'ex Unione SovieticaLibertà civili e diritti umani sempre più in crisi a livello mondialePer la quarta volta consecutiva, negli ultimi 40 anni di storia, si registra un peggioramento sostanziale delle libertà nei cinque continentiA certificarlo è Freedom House, l'autorevole osservatorio americano fondato da Eleanor Roosevelt che, dal 1972, si occupa di registrare ogni piccola variazione sul fronte del rispetto e della tutela dei diritti in tutti i Paesi del pianeta.
È un quadro inquietante, drammatico, quello che emerge dal rapporto annuale di Freedom House, «Freedom in the world 2010»I risultati di quest'anno riflettono le crescenti pressioni sui giornalisti e sui blogger, le restrizioni alla libertà di associazione, la repressione esercitata sugli attivisti civili impegnati a promuovere le riforme politiche e il rispetto dei diritti umani.
Il Medio Oriente comprensivo dell'Iran resta la regione più repressiva del mondo, l'Africa quella che ha subito il calo (di libertà) più significativoI miglioramenti più rilevanti, rispetto all'anno precedente, si sono registrati in Asia, in virtù delle elezioni democratiche svoltesi in In-dia, Indonesia, Giappone, a fronte, però, di un peggioramento registrato in Afghanistan, con le contestate elezioni presidenziali, e nelle Filippine, dopo il massacro di civili e di giornalisti e la successiva dichiarazione delle legge marziale.
«Nel 2009 dice a l'Unità Jennifer Windsor, direttrice esecutiva di Freedom House abbiamo assistito ad una preoccupante erosione di alcune libertà fondamentali, la libertà di espressione e di associazione, e ad innumerevoli attacchi contro gli attivisti in prima linea in questi settori»«Dalla brutale repressione a Teheran agli arresti dei dissidenti in Cina, agli omicidi di giornalisti e attivisti dei diritti umani in Russia rimarca la direttrice di Freedom House abbiamo registrato un ulteriore, pesantissimo giro di vite nei confronti di donne e uomini che nel mondo si battono per far valere quei diritti umani riconosciuti dalla Dichiarazione dell'Uomo delle Nazioni Unite e dalle più importanti Convenzioni internazionali».
In un anno segnato dall'intensificarsi della repressione contro i difensori dei diritti umani e attivisti civili, un declino delle libertà è stato registrato in 47 Paesi in Africa, America Latina, Medio Oriente, e le repubbliche dell'ex Unione Sovietica, che rappresentano il 20% del totale dei sistemi politici del mondo Stati autoritari come l'Iran, la Russia, il Venezuela sono diventati ancor più repressivi. Un declino delle libertà si è registrato anche in quei Paesi che avevano registrato un andamento positivo negli anni precedenti, tra i quali il Bahrein, la Giordania, il Kenya e il Kirghizistan,
La maglia nerissima tra i 47 Paesi classificati «Not Free»negazione dei diritti politici e delle libertà civili spetta a Birmania, Guinea Equatoriale, Eritrea, Libia, Corea del Nord, Somalia, Sudan, Turkmenistan e UzbekistanNel complesso, oltre 2,3 miliardi di persone vivono in società nelle quali fondamentali diritti politici e le libertà civili non vengono rispettatiLa Cina rappresenta la metà di questo universo illiberale.
Inoltre è calato il numero di democrazie elettive, passato da 119 a 116, il più basso dal 1995 a questa parteAd aggravare la situazione i tanti fronti di guerra e la violenta repressione delle proteste di piazza dei dissidenti, dall'Iran alla CinaCi sono poi gli attentati terroristici in Pakistan, Afghanistan, Iraq, Somalia e Yemen«I dati registrati nel 2009 sono motivo di reale preoccupazione ci dice Arch Puddington, direttore responsabile del settore ricerca di Freedom House -Il calo è globale e interessa Paesi con il potere militare ed economico, investe Paesi che in precedenza avevano mostrato segni di potenziali riforme, e mette in evidenza una maggiore persecuzione dei dissidenti politici e giornalisti indipendentiA peggiorare le cose, i più potenti regimi autoritari sono diventati ancor più repressivi, più influenti sulla scena internazionale, più intransigenti»Pochi i segnali positivi: nel 2009 appena 16 Paesi, su 194 monitorati, sono più liberi rispetto al passatoTra questi alcuni Paesi dei Balcani, tra cui Kosovo, Montenegro, Croazia, Moldavia e SerbiaIn questa lista compaiono anche Libano, Malawi e TogoIl numero dei Paesi designati da «Freedom in the World» come “Free” nel 2009 ammonta a 89,
che rappresentano il 46% di 194 Paesi del mondo e il 46% della popolazione mondialeIl numero dei Paesi “Partly Free” (Parzialmente liberi) è sceso a 58, il 30% di tutti i Paesi valutati nel sondaggioIl numero dei Paesi “Not Free” è aumentato a 47, il 24% del numero totale di PaesiAd essere declassata è anche la Russia, seguita a ruota da tutti i Paesi del Mar Baltico e dell' ex Unione Sovietica, tra cui il Kazakistan e il KirghizistanIn America Latina, l'Honduras ha perso lo status di democrazia elettorale a causa del colpo di stato; un significativo calo degli standard democratici hanno riguardato Guatemala, Nicaragua e Venezuela.
Quanto all’Europa, il rapporto cita le tensioni culturali e sociali collegate al grande flusso di immigranti provenienti da Paesi musulmaniMigrazioni che, sostiene Freedom House, «sfidano la tradizione europea fatta di tolleranza e tutela delle libertà civili»«Preoccupazioni sull'immigrazione conclude il rapporto hanno portato all' avanzata elettorale dei partiti di destra che propongono maggiori restrizioni al fenomeno»L'incremento delle politiche anti-immigrazione ha portato al declassamento di Svizzera e Malta❖