venerdì 15 gennaio 2010

Agi 15.1.10
Riccardo Lombardi: Ventura, un pensiero rivoluzionario forte
Roma, 15 gen. - Oggi che la politica e' ridotta a pura gestione del potere riscoprire la figura e il pensiero di Riccardo Lombardi e' un esercizio assolutamente salutare. Lo scrive sul settimnale 'Left', Andrea Ventura, docente di Economia politica all'Universita' di Firenze, recensendo il libro di Carlo Patrignani in uscita il 21 prossimo 'Lombardi e il fenicottero' (Edizioni L'Asino d'oro). "Lombardi fa parte di quella generazione che, all'opposto, subordinava - sostiene l'economista - l'azione politica alla riflessione sui grandi nodi dello sviluppo sociale e civile del paese. Discutere delle sue idee quindi di per se' getta luce sulle miserie della politica odierna". Tanto che l'Ingegnere socialista previde con un decennio d'anticipo la fine dello stesso Psi. "Un Psi cosi' non ha motivo di esistere" fu la conclusione della sua arringa il 30 giugno 1984 ad un Comitato Centrale prima muto poi tutto in piedi a scandire il suo nome quando a fatica riguadagnava l'uscita. Dal libro emerge, "in modo lampante il passaggio storico, il cambio di clima, il cambio di paradigma politico e di assetto delle forze in campo che avviene tra gli anni '70 e gli anni '80 quasi che nello scorcio di pochi anni e in particolare tra il 1976 e il 1979, nel periodo cioe' che ha visto il Pci entrare nell'area di governo, si fosse consumata ogni possibilita' di offrire ai movimenti degli anni '70 uno sbocco in grado di avviare un mutamento negli assetti politici e sociali del paese". Lombardi, infatti, aveva ben chiari i limiti dall'assioma fondamentale del marxismo per il quale il superamento dei rapporti di produzione capitalistici costituisce la condizione essenziale per la costruzione di una societa' socialista, ma al contempo era convinto che ogni riflessione sull'economia dovesse partire dal concetto di alienazione di Marx. Egli era dunque distante sia dal riformismo del partito socialista, che comportava l'abbandono di ogni prospettiva di superamento del capitalismo, sia dalla proposta di "compromesso storico" avanzata nel 1973 dal Pci di Berlinguer. Lombardi non solo si definiva "a-comunista", ma riteneva che nessuna riflessione sulla scissione mezzi-fini e sui crimini dello stalinismo potesse prescindere da una critica piu' profonda al nucleo platonico cristiano di tutte quelle filosofie per le quali la storia avrebbe una sua razionalita' legata al compimento di un fine ultimo trascendente, del quale qualcuno, uomo, stato, partito o chiesa, sarebbe l'interprete". Lombardi fu "profondamente democratico ma anche rivoluzionario - continua Ventura - La sua pratica politica, definita come 'riformismo rivoluzionario' per il voler tenere insieme la prospettiva di governo con quella dei movimenti di massa, non poteva che basarsi su di una dimensione culturale". Il libro e' accompagnato da una prefazione di Marco Pannella e arricchito da interviste a Michele Ciliberto, Giorgio Ruffolo e Tullia Carettoni. (AGI)

Il Velino 14.1.10

CLT - Libri / E Lombardi scrisse a Fanfani: all’Eni appoggia Ruffolo
Roma, 14 gen Non una raccomandazione e nemmeno “un favore”, ma solo l’intenzione di “evitare un misconoscimento” tale da provocare un danno per l’Eni, già scosso dalla morte di Enrico Mattei. È il senso della lettera che l’8 novembre 1962 il leader della sinistra socialista Riccardo Lombardi inviò al presidente del Consiglio, il democristiano Amintore Fanfani, per caldeggiare il socialista Giorgio Ruffolo. A riportare la missiva, finora inedita, è il libro “Lombardi e il Fenicottero” (L’asino d'oro edizioni) di Carlo Patrignani, che l’ha ritrovata nel fondo Fanfani contenuto nell’archivio storico del Senato. “Caro Presidente, dopo la nomina del Prof. Girotti alla Direzione Generale dell’Eni - scriveva l’esponente del Psi - pare che nella scelta delle cariche più vicine e in particolare dei Vice Direttori, il nome del prof. Giorgio Ruffolo non sarebbe preso nella giusta considerazione. Se così stessero le cose non ti so dire quanto gravi e lesive per noi sarebbero considerate: la posizione difatti di Ruffolo nell’Eni costituisce, a nostro giudizio, una essenziale garanzia di serietà e di efficienza nella Direzione dell’Ente, specie nella Direzione della Programmazione Economica (…) Comunque - chiariva Lombardi - sia chiaro che questo mio intervento non è per nulla rivolto a sollecitare un favore, ma ad evitare un misconoscimento che obiettivamente non si risolverebbe favorevolmente al buon funzionamento dell’Ente: ed è a tal fine e a questo soltanto che mi permetto di contare sul tuo appoggio”.

Ruffolo, infatti, da poco entrato nelle fila socialiste dopo un passato trotzkista, era allora assieme a Giuliano Amato, Gino Giugni e Antonio Giolitti parte di quel gruppo di “ingegneri sociali” che con la programmazione economica puntava a ridurre gli squilibri Nord-Sud ma soprattutto a realizzare, come auspicato da Lombardi, le cosiddette “riforme di struttura” che avrebbero dovuto portare l’Italia verso il socialismo. Il libro di Patrignani riporta per la prima volta per intero anche la durissima lettera che Togliatti inviò a Pertini dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria, per chiedere un intervento contro Lombardi, che a furia di parlare della “non riformabilità” del sistema sovietico influenzava indirettamente il dibattito interno al Pci. “Si tratta dell’attività del compagno R. Lombardi - scriveva il 14 gennaio 1957 il Migliore al futuro capo dello Stato - per disgregare o tentare di disgregare il nostro partito. È cosa un po’ umiliante per lui, vederlo ridursi a questa funzione, di colui che cerca la spazzatura in casa altrui e crede di potersene nutrire. Mi pare che, poiché Lombardi è della vostra Direzione, ciò dovrebbe essere in seno a questa l’iniziativa di dargli un ammonimento”. Insomma, nel momento in cui accusava Lombardi di immischiarsi nelle faccende interne del Pci, Togliatti entrava a piedi uniti in quelle del Psi, invocando ripercussioni per il reprobo.

Fra le altre lettere inedite a Fanfani, invece, sono due quelle riportate nel volume a spiccare per rilevanza: una, nel ‘62, per sollecitare i contatti fra parti sociali per l’adozione dello Statuto dei lavoratori, che invece sarebbe stato istituito solo otto anni dopo (“mi permetto di insistere sull’opportunità di non ritardare almeno l’annuncio delle conversazioni coi sindacati”). L’altra è relativa all’attività per la riforma della mezzadria, che suscitava le ovvie preoccupazioni di quel blocco di potere democristiano rappresentato dal mondo agrario. A esprimere i propri timori a Fanfani è il presidente della Federconsorzi Paolo Bonomi, deputato Dc e fondatore della Coldiretti. “Caro Presidente, l’on. Riccardo Lombardi nell’intervista pubblicata il 5 febbraio sul Messaggero’ ha dichiarato: ‘(…) Il punto nero rimane la Federconsorzi. È quasi certo che su questo punto troveremo difficoltà e ostacoli notevoli. Noi non vogliamo liquidare la Federconsorzi, chiediamo però che sia riformata in modo da consentire l’accesso all’organizzazione di tutti gli agricoltori indistintamente. È una cosa che tocca direttamente Bonomi, lo so, ma così com’è la Federconsorzi non è utile al paese, ma a un solo partito’. E in una circolare inviata dalla Direzione del Psi alle proprie Federazioni si dice: ‘Saranno costituiti ovunque Enti di Sviluppo per l’agricoltura. Verranno promosse misure contro il monopolio degli ammassi della Federconsorzi e per la sua democratizzazione’”. Eloquente la conclusione del parlamentare a Fanfani: “Come benissimo puoi comprendere tutto ciò non può farmi star tranquillo”.

Agenzia Adn-Krons 14.1.10
Riccardo Lombardi, il politico che sognava “una società diversamente ricca”
Roma – Riscoprire tutta l’attualità di Riccardo Lombardi, un politico che sognava una “società diversamente ricca”, in nome di un “benessere” che volesse dire “più cultura, più soddisfazione dei bisogni umani, più capacità per gli operai di leggere Dante e di apprezzare Picasso”. Questo l’obiettivo che il giornalista Carlo Patrignani persegue nel saggio "Lombardi e il Fenicottero", il nuovo studio sul socialista di ‘ferro’ inviso a Togliatti in uscita a fine gennaio con L’Asino d’oro edizioni. Il libro - primo volume della collana di saggistica della casa editrice con il logo tratto dal romanzo di Apuleio, fondata da Matteo Fago e Lorenzo Fagioli - è arricchito dalla prefazione di Marco Pannella. Personalità rara, per sensibilità e concezione “alta” del fare politica, Lombardi fu tra i protagonisti della Liberazione prima e della Costituente poi: promotore nel 1946 della Repubblica presidenziale - al suo posto passò l’attuale Repubblica parlamentare -, non mancò mai di confrontarsi con i movimenti, con il ’68 e il ’69, respingendone fermamente le forme “deliranti”. Riccardo Lombardi ha attraversato le fasi cruciali della Repubblica, praticando sempre la “non violenza” anche verbale: progettò il primo centro sinistra riformatore, propose inascoltato l’alternativa di sinistra, ideò la programmazione economica e le riforme di struttura, coerente con il suo “riformismo rivoluzionario”.

Agenzia Adn-Krons 14.1.10
Libri: Carlo Patrignani firma “Lombardi e il fenicottero”
14 gennaio, Roma, 14 gen. - (Adnkronos) - Un politico che ha dato prova di integrita' morale e di impegno civile. Un'integrita' che appare molto lontana dal comportamento normale della maggior parte dei suoi colleghi. E' questo il ritratto di Riccardo Lombardi, - politico siciliano di lungo corso della Prima Repubblica, morto a Roma nel 1984 - che Carlo Patrignani propone nel saggio ''Lombardi e il fenicottero'' pubblicato da l'Asino d'oro. Secondo Patrignani, Riccardo Lombardi e' stato un uomo di cui ci si poteva fidare quasi ad occhi chiusi. Un riformista rivoluzionario che non e' stato sconfitto dal tempo ma che rappresenta ancora oggi un esempio da seguire. La figura di Riccardo Lombardi, spiega nel suo volume Patrignani, puo' costituire ancora oggi un esempio irrinunciabile. Nel corso della sua lunga carriera Lombardi ha attraversato i passaggi piu' significativi della storia della Prima Repubblica. L'autore mette in luce, per la prima volta, il ruolo della moglie Ena, il noto fenicottero, uno dei punti di riferimento imprescindibili per Lombardi. ''Questo libro - scrive Carlo Patrignani - vuole essere un modesto riconoscimento all'uomo politico tra i piu' ammirati e temuti ma anche, per la sua atipicita', tra i meno ascoltati. Al tempo stesso - aggiunge Patrignani - vuole rendere onore a una donna straordinaria, risoluta e tenace, Ena Viatto, l'intrepido fenicottero che seppe dire no al leader maximo del comunismo italiano e divorziare dal suo primo uomo, anche lui comunista, perche' innamoratasi dell'Ingegnere non comunista, ma amico degli antifascista''. Laureato in ingegneria industriale, Riccardo Lombardi nel 1942 fu tra i fondatori del partito d'Azione. Dopo il 25 luglio del 1943, e la caduta del regime di Mussolini, firmo' il patto costituivo dei Comitati di liberazione nazionale, rappresentando il suo partito nel Clnai (Comitati di Liberazione nazionale Alta Italia). Quando il partito d'Azione si sciolse entro' a far parte del partito Socialista italiano assumendo, secondo quando ricorda Patrignani, la posizione di un riformista rivoluzionario. Il racconto di Petrignani, ricco di ricordi, documenti e ricostruzioni mette in evidenza lo spessore culturale e politico di uno statista alla ricerca di una via d'uscita da una societa' ''spietata con i deboli, corriva coi potenti''.

l’Unità 15.1.10
Senza questa parte significativa della società non ci sarebbero stati i risultati su aborto e divorzio
Le scelte Radicali
I cattolici appoggeranno Emma Bonino
di Luigi Manconi

Ese, contrariamente a quanto vogliono i più pigri luoghi comuni, una delle principali risorse di cui può disporre Emma Bonino «fosse proprio il voto dei cattolici?»Da giorni, cattolici ardenti e laici autolesionisti, analisti senza fantasia e lobbies clericali si affannano a dire che la scelta della Bonino accelererebbe la «deriva laicista» del Pd.
Eppure, da almeno 35 anni si sa che la definizione omnicomprensiva di «mondo-cattolico» non regge: non uno, ma molti sono i mondi all’interno dello stesso cattolicesimo italianoE, dunque, molte le forme della fede e della pratica religiosa, tante e articolate le scelte di vita e le appartenenze, differenti fino alla più radicale contrapposizione le modalità della partecipazione pubblica e le opzioni di votoÈ quella che viene definita «la fine dell’unità politica dei cattolici».
Pertanto, hanno buon gioco i Radicali, ad argomentare che, da decenni, una parte rilevante del voto dei cattolici sostiene le loro battaglie: non si spiegherebbero altrimenti i risultati dei referendum su divorzio e abortoÈ un argomento decisivo, il cui significato va ben oltre l’epoca di quei referendum (1974 1981)È vero che, da allora, alcune fratture all’interno del cattolicesimo italiano, e tra credenti e gerarchie, si sono ricomposte, che «il dissenso» dei cattolici «di base», ha abbassato i toni e si è come acquietato, ma è altrettanto vero che lo «scisma sommerso», di cui ha scritto Pietro Prini, si è diffuso e sedimentato, senza insorgenze dirompenti ma anche senza abiure chiassoseIn quel libro, il filosofo cattolico parlava, appunto, del divario profondo, apertosi tra la dottrina ufficiale e le coscienze e i comportamenti dei fedeliUna delle conseguenze di quel divario è l’autonomia delle scelte politiche, che vengono formulate in base a considerazioni che sempre meno hanno a che vedere con le opzioni di fedeTale processo non riguarda solo i semplici credenti, ma coinvolge anche una parte delle gerarchie, quelle che sono meno inclini ad assumere posizioni pubblicheTutto ciò, in genere, viene classificato come secolarizzazione: ovvero la tendenza ad adottare comportamenti e modelli di vita immanenti, non derivati da dogmi di fede o da morali sovradeterminate. Ma il termine secolarizzazione è oggi inadeguato perché si limita a dichiarare solo ciò che non è.
E invece l’attuale realtà sociale è più fertile e ricca, attraversata da una pluralità di sistemi di valori che aspirano, tutti, a una propria fondazione moralePer capirci: la posizione dei Radicali sulle questioni di fine vita non può essere definita in alcun modo come amorale, quasi fosse l’esito ultimo di una secolarizzazione che avrebbe escluso qualsiasi considerazione etica nell’elaborazione delle proprie concezioniAl contrario: le politiche sulle questioni di fine vita, ma anche lo stesso antiproibizionismo, sono il frutto di una riflessione morale che pone al centro l’integrità della persona umana, la sua unicità e irripetibilità, la sua dignità e, dunque, i suoi dirittiIl recente impegno dei Radicali sull’immigrazione, dove l’incontro con la pastorale della Chiesa appare naturale, è lo sbocco di un percorso che vede il garantismo iniziale, perfino troppo freddo, farsi via via fatto intenso, incarnandoci nella concreta e dolente materialità dei corpi migranti (come in quella dei corpi reclusi)Se ciò è vero, l’antropologia radicale rivela profondi punti di contatto con l’antropologia cristiana, anch’essa fondata sui concetti di dignità e integrità della personaPoi, certo, le conseguenze politiche possono essere divergenti, ma resta una ineludibile necessità di interlocuzioneIn altre parole, le controversie etiche finiscono con l’avvicinare i cattolici (e anche le gerarchie) ai Radicali più di quanto li avvicinino ai titolari di una concezione agnostica e amorale della vitaL’«anarchia dei valori» rivendicata da Silvio Berlusconi può risultare comoda per il Vaticano solo perché inserita in un sistema di rapporti dove dominano interessi corposi e scelte pragmatiche, scambi in solido e mutuo soccorsoMa quando le questioni sciaguratamente definite «eticamente sensibili» si rivelano per quello che realmente sono (diritti sociali e diritti civili), e richiamano esperienze e sofferenze, le politiche che tutelano le libertà fondamentali di ognuno si rivelano le sole che muovono e commuovono il «popolo», credente o non credenteCome, quel 24 dicembre 2006, a Roma, quando una folla popolare partecipò alla cerimonia funebre per Piergiorgio Welby, davanti alle porte chiuse della chiesa di San Giovanni Bosco, che non aveva accolto la sua salma.❖

l’Unità 15.1.10
Perché Emma può piacere ai cattolici
di Giulia Rodano

A differenza di alcuni esponenti cattolici del Pd, da cattolica non provo alcun disagio per la candidatura di Emma Bonino a Presidente della Regione LazioCome cattolica non mi sono sentita in contrasto con la mia fede quando ho sostenuto la battaglia per l’introduzione del divorzio o quando ho votato per difendere la legge che consentiva l’interruzione della gravidanza o la legge sulla fecondazione assistita. Alla base di quelle scelte c’erano, per quel che mi riguarda, motivazioni diverse da quelle utilizzate in qualche caso dai radicaliPer me, ad esempio, la legalizzazione dell’aborto ha costituito la possibilità di combattere l’aborto clandestino e alla fine di poter ridurre il ricorso all’aborto, più che l’affermarsi di un nuovo diritto di libertàPer me tuttavia è essenziale affermare in ogni luogo e in ogni momento l’autonomia di valutazione di coloro che, impegnati in politica, devono scegliere ciò che, in coscienza, ritengono il bene comune raggiungibileAltrimenti, quando si decide per tutti e per tutte, per un intero Paese e non si valuta laicamente, non si assumono posizioni “cattoliche”, ma si rischiano posizioni illiberali.
Ho imparato dalle idee e dalle battaglie condotte per tutta la sua vita da mio padre che la divisione non è tra laici e cattolici, ma tra democratici e integralisti e che esistono democratici e integralisti sia tra i laici che tra i cattolici.
I credenti devono, se ne sono in grado, essere un lievito nella società, essere testimoni di visioni e comportamenti derivanti dalle loro scelteMa la testimonianza è forte se è libera e se sostiene e difende la libertà di tuttiNon esiste testimonianza senza libertàNessuno può sostenere che Emma Bonino sia mai venuta meno a questa impostazione.
A sinistra c’è preoccupazione che la candidatura di Emma Bonino non rappresenti quel punto di sintesi necessario per costruire una coalizione che possa battere quella di centro-destraConfesso che non mi è mai piaciuta l’idea che i candidati vincenti debbano essere incolori e insapori o quelli costruiti, come la Polverini, nei salotti televisiviNon mi spaventano la storia, le battaglie, la forte caratterizzazione politica del candidato presidente se so che il punto di forza di una candidatura sta soprattutto nella capacità di costruzione di una coalizione e nella condivisione di un programmaEmma Bonino ha l’esperienza politica per capire che la sua possibilità di successo non sta semplicemente nella sua biografia, che pure è importante, ma nella sua capacità di stringere con chi la sostiene un patto politico-programmatico all’altezza dei problemiCredo che «Sinistra, ecologia e libertà» debba cogliere questa occasione e, verificando le condizioni politiche e programmatiche, contribuire a costruire, nonostante le incertezze del Pd, un centrosinistra vincente anche per il peso significativo esercitato dalla sinistra.❖

il Fatto 15.1.10
“La Bonino può rappresentare i cattolici”
Avena, il direttore di Adista spiega che il voto identitario dei credenti riguarda solo una minoranza “Le indicazioni delle gerarchie contano relativamente, le scelte sono fatte di testa propria”
di Marco Politi

“C’è un mondo cattolico che non ha paura della candidatura di Emma Bonino. E certamente le posizioni di una Binetti e di un Rutelli non hanno nulla a che fare con la realtà viva della maggioranza dei credenti”. Giovanni Avena, direttore dell’agenzia Adista, che da quarant’anni informa sul mondo cattolico e sulle esperienze religiose in Italia senza essere organo di nessuna struttura ecclesiastica, nega che la radicale Bonino spaventi l’elettorato credente. Enzo Carra e Renzo Lusetti abbandonano il Pd. La Binetti scalpita. L’Avvenire critica. Qualche vescovo ha cominciato a suonare l’allarme. Il tam-tam è che l’elettorato cattolico si possa allontanare. “E io sono convinto, invece, che Emma Bonino, pur venendo dall’esperienza dei radicali, può rispondere a esigenze e bisogni del mondo cattolico. Perché è una personalità europea, ha una storia personale seria, è un politico serio. Ma soprattutto perché il mondo cattolico non è fatto di bacchettoni (che esistono ma si vanno riducendo) bensì di gente che va a messa, legge, si istruisce, si impegna nelle parrocchie, ma discute, fa le sue scelte ed è pronta a discutere anche di temi etici da posizioni non dogmatiche”. D’accordo, il mondo cattolico non è monolitico.
“Direi di più. Coloro che nel voto intendono esprimere un identitarismo cattolico sono minoranza. La maggioranza dei cattolici vuole un Paese amministrato da gente seria, con esperienza. Personaggi come la Binetti o Rutelli non rappresentano in nessun modo il mondo cattolico, riflettono una presenza che deriva da una cultura ante e anti-conciliare. Un tipo di cultura che non si ritrova nemmeno nella maggior parte del clero, che per quanto moderato o modesto è pronto a discutere con la Bonino e il suo mondo”. Questioni come il testamento biologico o la fecondazione artificiale o le coppie di fatto, cavalli di battaglia dei Radicali e della Sinistra, non fanno da ostacolo?
“No. Perché lo stesso clero ha la gente addosso, che gli va a raccontare i propri problemi con la contraccezione, gli aborti, la fecondazione assistita, le convivenze, l’omosessualità. Gente che racconta di tragedie o di problemi quotidiani e che vuole essere, non legittimata, ma riconosciuta e accolta. E il clero li accoglie, mentre le posizioni alla Binetti no”.
Le massime autorità ecclesiastiche ribadiscono sempre che vi sono principi “non negoziabili”.
“Che non incidono molto nella vita quotidiana dei credenti, ma servono solo alla gerarchia per sedersi ai tavoli della politica e contare”.
Non pesano al momento del voto? “Non sono per niente dirimenti. Dopo le elezioni politiche del 2008 un sondaggio SWG tra i cattolici praticanti mostrò che i temi cosiddetti etici non avevano minimamente pesato. Il voto si è laicizzato ed è anche positiva la polarizzazione che contrappone un “cattolicesimo di presenza” ad un mondo cattolico libero da pastie, che ragiona autonomamente con il cuore e la testa”.
Si può calcolare l’incidenza diretta delle indicazioni ecclesiastiche sul voto? “Difficile quantificare. In certi luoghi è del 3-5 per cento, in altri arriva fino al 10. E’ un fenomeno a macchia di leopardo che dipende da tradizioni o personalità locali. Comunque è già un indicatore il fatto che l’Udc sia al di sotto del 10 per cento ed è chiaro che larga parte del voto Udc non viene da motivazioni cattoliche in senso stretto”.
Qual è allora la stella polare del voto dei credenti? “Un’idea di bene comune che si identifica in temi come la famiglia, la solidarietà, la giustizia, l’accoglienza dello straniero. Temi che scaturiscono dal cuore del Vangelo. I fatti di Rosarno, ad esempio, hanno svegliato molti cattolici e creato un senso di ribellione verso il regime politico-culturale del berlusconismo. Bene comune per il cattolico medio significa anche liberarsi dall’abbassamento dei livelli etici e culturali del berlusconismo. Non è una rivendicazione moralistica, è un moto di insofferenza in aumento. Ricordiamoci che quando Boffo intervenì sull’Avvenire sui comportamenti del premier, era perché i lettori cattolici praticanti protestavano per il silenzio del giornale. E pi la gente si è stufata delle leggi ad personam. Per un po’ ha preso parte al dibattito, adesso dice “Basta!”.
Sentono che sono problemi che non li riguardano”. Tutto lineare? “No. L’insofferenza che cresce porta con sé il rischio dell’indifferentismo e del qualunquismo. E dunque alla fine può dare a beneficio di Berlusconi. Però mentre in stagioni passate c’era una maggioranza di cattolici che era soddisfatta del collateralismo della Chiesa con la Democrazia cristiana, oggi cresce il numero dei fedeli che ritiene innaturale il collateralismo con Berlusconi. E non parlo di “cattolici del dissenso”, mi riferisco a semplici fedeli praticanti, che vanno a messa”.
Il fedele della normale quotidianità che posizione tende ad avere? “Vuole capire, anche se c’è molta confusione. Non si muove più in base ad una obbedienza cieca. Fa scelte autonome. Non ritiene gli altri “peggiori”. Gli sta a cuore un cristianesimo vissuto nel quotidiano, una esibizione di “cristianità” non gli interessa”.
Nell’urna si tratterà di scegliere tra la Polverini e la Bonino. “Precisamente. E sarà una scelta dettata dalla coscienza. Chi sente più l’appartenenza religiosa, sarà per la Polverini. Chi da cattolico accetta la sfida della storia, si troverà benissimo con la Bonino. Certamente la sfida con il futuro i credenti la vivranno meglio con la Bonino che con la Binetti”.

il Fatto 15.1.10
Fuga dal Pd e da Bonino
risponde Furio Colombo

Caro Colombo, grande fuga dei cattolici dal Pd, come se Emma Bonino fosse un incrocio fra Attila e Odifreddi. C’è una spiegazione?
Edoardo

PER LA VERITÀ non così tanti cattolici fuggono all’arrivo di Emma Bonino. Ma un giorno Ilvo Diamanti, che si è dedicato alla paura indotta dai media per la criminalità che non c’è, offrirà un po’ del suo lavoro specialistico all’altra grande distorsione, sempre a cura dei media, di ciò che pensano, temono e fanno i cattolici. A sentire batterie di commentatori e specialisti, i cattolici italiani si scostano di colpo, tutti insieme, nello stesso istante, al primo accenno di un non credente che si avvicina a qualunque tipo di responsabilità piccola o grande, dal maestro elementare che decide di non fare il presepe in classe, ora che il presepe è diventato manifestazione leghista (dopo il modesto successo dell’acqua del Po) al politico nazionale che osasse mettersi dalla parte della scienza nella difesa della libera ricerca scientifica. Devo dire che mi meraviglia un giudizio così modesto dei cattolici italiani a cui si deve (parlo della collaborazione fra credenti e non credenti altrettanto consapevoli della condizione italiana e dei nostri comuni problemi) tutto ciò che di moderno e di europeo c’è oggi in Italia. Osservo lo sdegno triste con cui Enzo Carra dichiara incompatibilità con la candidatura di Emma Bonino a presidente della regione Lazio. Osservo il suo fermo e austero transitare nella Udc. Penso ai gesti dei pochi che lo hanno preceduto e seguito e mi dico che, prima ancora di essere eletta, la Bonino sta già rendendo un servizio al Pd. Aiuta alcuni sperduti a orientarsi. Un saluto cordiale e rispettoso per Carra che ha identificato il suo posto giusto. E auguri a senatori, senatrici, deputati vari del Pd (però, ripeto, pochi rispetto al clamore dei giornali) che continuano a esprimere angoscia per la candidatura della miscredente Bonino, ciascuno con tre interviste quotidiane. E poi non se ne vanno. Questo vuol dire che, forse, i nostri veri credenti non hanno trovato finora centri di accoglienza adeguati alle loro legittime aspettative. Oppure che, una volta pagato il necessario tributo alla Cei e pronunciata la frase giusta per la citazione su Avvenire, non se ne vanno perché si aspettano dalla Bonino una seria campagna elettorale e un buon risultato politico. Se è così, ecco la prova di ciò che dicono e ripetono i Radicali. Molte cose importanti in questo paese si fanno assieme ai cattolici.

il Riformista 15.1.10
La strana guerra Polverini vs. Bonino destra e sinistra si scambiano candidate
Profili. La sindacalista vecchio stampo e la liberista reaganiana. Si affrontano con fair play femminile, ma intorno a loro è guerra campale.
DI Peppino Caldarola

Lo scontro Bonino-Polverini è senza dubbio il più interessante della prossima guerra regionale. In primo luogo perché è una battaglia dall’esito incerto. La sinistra considera la Polverini una candidata insidiosa, ma anche il centrodestra teme la Bonino. È stato proprio il capogruppo alla Camera del Pdl, Fabrizio Cicchitto, a mettere in guardia il proprio schieramento dalla sottovalutazione della leader radicale. Due donne che si fronteggiano è in ogni caso una novità assoluta nella politica italiana. E questo è un altro dato fuori dal comune. Paradossalmente le due rivali hanno anche altri tratti in comune. Sono, infatti, due scelte mediatiche. La Polverini è stata lanciata nella grande scena politica da un’ossessiva presenza in tv che ne ha fatto una vera star dei talk show. La Bonino fa notizia anche quando sta zitta, il che accade di rado. Sono anche due personalità politiche abbastanza eterodosse nel proprio campo. La Polverini con la sua militanza finiana non è certo nel cuore dei sentimenti del centrodestra a maggioranza berlusconiana. La Bonino ha sollevato ampie riserve non solo nell’area cattolica più tradizionalista del Pd, provocando i tormenti della Binetti e la fuoriuscita di Renzo Lusetti e Enzo Carra approdati nell’Udc, ma anche nell’area più di sinistra.
Si tratta inoltre di due candidature, per così dire, imposte. Né Polverini né Bonino sono la pri-
ma scelta dei rispettivi schieramenti ma sono state il punto di approdo di una difficile ricerca di altri nomi. Nel caso della Bonino si è trattato di una vera occupazione di uno spazio pubblico che il Pd aveva lasciato deserto dopo la rinuncia di Zingaretti. Nel caso della Polverini, il Pdl ha dovuto pagare un prezzo alla necessità di dare spazio al protagonismo finiano.
Il repertorio delle differenze fra le due rivali appare altrettanto ampio. L’una, la Polverini, è una sindacalista vecchio tipo. L’altra, la Bonino, è una antica reaganiana. Non è per caso che la Polverini abbia ricevuto tanti consensi nell’area di sinistra e che la Bonino piaccia ai vecchi liberisti di destra. Ciascuna delle due darà un’impronta alla campagna elettorale che potrà sfigurare il proprio campo. Il prezzo che paga il centrosinistra alla candidatura della Bonino è più alto. Bonino è una leader di lunga data, con un profilo politico assai pronunciato che corre dalle battaglie sui diritti civili, alla militanza libertaria, all’antigiustizialismo fino all’anti-sindacalismo. Tutti temi che non sono nel programma originario di questo centrosinistra. La Polverini appare come la prosecutrice di una tradizione politica che poggia l’azione pubblica sull’incremento della spesa, praticamente il contrario del tremontismo dilagante. Destra e sinistra per tanti aspetti si sono scambiate le candidate.
Ciascuna delle due ha punti deboli abbastanza significativi. Per la Polverini sarà un compito arduo convincere alla fedeltà quei settori del Pdl che non amano Gianfranco Fini e che soprattutto la considerano un outsider della battaglia politica. Per la Bonino vale il contrario. Molti nel centrosinistra la vedono come espressione di una vecchia classe dirigente, ancorché minoritaria come quella radicale, non in grado di riunire attorno a sé le varie anime della coalizione.
Finora Bonino e Polverini si sono ignorate. Probabilmente si ignoreranno per tutta la campagna elettorale. Ma i rispettivi supporter stanno affilando le armi. Se Europa, il quotidiano del Pd un tempo legato a Francesco Rutelli, sottolinea gli insuccessi sindacali della Polverini praticamente accusandola di aver guidato un sindacato inesistente con un tesseramento gonfiato, ieri sul Foglio Giuliano Ferrara ha letteralmente “massacrato” la Bonino non solo per le sue battaglie abortiste ma accusandola di essere una vanesia presenzialista e una noiosa vittimista.
La vittoria dell’una o dell’altra non sanerà i conflitti nelle coalizioni d’origine. La presenza della Polverini alla guida del Lazio rafforzerà la componente finiana dando una nuova postazione di potere al gruppo legato al presidente della Camera. Il Pdl di rito berlusconiano celebrerà in questo modo anche la propria estromissione dai gangli del potere laziale e romano dopo aver ceduto la poltrona di sindaco ad Alemanno. La Bonino ha già chiarito che non si considera una candidata del centrosinistra. Con una singolare inversione di collocazione ha dichiarato che non è stata lei a scegliere il centrosinistra, ma il centrosinistra a dover convergere su di lei. Una sua vittoria, che nelle caselle nazionali sarà iscritta a vantaggio di Bersani, nella pratica dei prossimi anni rivelerà la sua eccentricità. Bonino è stata un ministro leale del governo Prodi, è assai difficile che sarà una fedele rappresentante del centrosinistra una volta che dovesse insediarsi negli uffici di via Cristoforo Colombo a Roma.
Non sarà una battaglia fra il vecchio e il nuovo. Bonino, pur avendo molti più anni di militanza politica, è per tanti aspetti una candidata sorprendente. Per la prima volta con lei i radicali si misureranno con il tema del governo locale e dovranno pronunciarsi su questioni diverse da quelle battaglie sui diritti che ne hanno segnato tutto l’arco dell’esperienza politica. La Polverini, pur essendo alla sua prima uscita nel palcoscenico della grande politica, è invece per altri aspetti una candidata tradizionale affezionata ai temi sociali. La battaglia fra le rivali sarà vinta da chi riuscirà da un lato a perdere meno dal proprio campo, superando le diffidenze che ne hanno accompagnato la discesa in campo, dall’altra nella capacità di attrarre gli scontenti dell’altro schieramento. La sindacalista e la liberista frantumeranno probabilmente le vecchie appartenenze. Per il Pd del dopo-Marrazzo sarà una boccata d’ossigeno, per il Pdl che vuole uscire dal berlusconismo, un’occasione da non perdere. Quel che è certo è che alla fine vinceranno loro, e non gli schieramenti a nome dei quali combatteranno.

il Riformista 15.1.10
Cosa accomuna cattolici e radicali
di Marcello Buttazzo

Il centrosinistra dovrebbe per numerosi motivi appoggiare compattamente Emma Bonino, che potrebbe essere un’ottima e illuminata presidente di regione. Nei giorni scorsi, il senatore Franco Marini molto opportunamente aveva esortato il suo schieramento solitamente litigioso a porre fine ai nocivi dissapori e, facendo appello soprattutto ai cattolici, a dire basta alla distruttiva «lotta fra guelfi e ghibellini». Quando Marini sostiene con convinzione che i radicali e i cattolici hanno a cuore la centralità della persona, poiché il loro raggio d’intenti può essere assimilato a un riconosciuto e manifesto amore per la vita e per l’esistente, fa un’osservazione puntuale. Il bioeticista Francesco D’Agostino, invece, continua con argomentazioni fittizie a dividere gli uomini in categorie non facilmente coincidenti. Con un gioco di alta scuola sofistica, il presidente emerito del Comitato nazionale di bioetica recinta e sminuisce lo spettro d’azione dei radicali: essi si batterebbero non a tutela della persona, ma dell’individuo, sarebbero dei paladini dell’io soggettivo e mai del “noi”, mai del “bene comune”. Quindi i radicali, quando avanzano normative sulla legalizzazione delle droghe, sulla salvaguardia di tutte le famiglie, sulla procreazione medicalmente assistita, sul fine vita, sulla tutela dei malati, farebbero in sostanza dei danni. Ovviamente, non sono d’accordo con D’Agostino. I radicali sono dei paladini dell’individuo e quindi anche della persona e del bene comune. Non sono di certo sostenitori del nichilismo morale: questa è una vecchia vulgata che non regge, perché sconfessata dalla realtà dei fatti che è potentemente evocativa. Essi vogliono tutelare i vari modelli etici e quindi dare significato, voce, valore a tutti i cittadini. Altro che individualisti sfrenati. Anche se l’antropologia di riferimento dei libertari non è propriamente coincidente con quella cattolica, i radicali spendono la loro esistenza per la difesa dell’uomo, nella sua nudità ed essenzialità. Le campagne coraggiose contro le ingiustizie, contro le guerre, contro la fame, l’amore per i malati, la corretta amministrazione della cosa pubblica, l’onestà, sono carne comune, sono baluardi d’uno stesso obiettivo.

l’Unità 15.1.10
I neri cacciati perché hanno osato denunciare le ’ndrine
Giuseppe Lavorato, ex sindaco di Rosarno racconta il passato recente, la solidarietà e la convivenza possibili, l’ossessione della ‘ndrangheta per il controllo del territorio in Calabria
di Jolanda Bufalini

Con honneur, total rispetto, grande dolore e lacrime....vogliamo dichiarare, con grande dignità, onestà e orgoglio, che siamo vittime da quando arrivati a Rosarno anche durante il riposo notturno...di una violenza ultra razzista....martedì 10 novembre alcuni lavoratori onesti dell’Africa sono stati vittime di giovani stupidi armati illegalmente che facevano tiro a segno davanti i ghetti...»La lettera scritta a penna, chiara pur con gli errori di ortografia, firmata «il rappresentante dei lavoratori africani di Rosarno» è datata 12 novembre 1999 ed è indirizzata all’allora sindaco di Rosarno Giuseppe Lavorato.
«Le violenze c’erano – racconta Lavorato ma io avevo fatto eleggere un rappresentante per ciascuna comunitàLi facevo riunire in assemblea, loro scrivevano i documenti di denuncia, andavano nelle scuoleIl municipio era la loro casaIl 6 gennaio si teneva la festa “della fratellanza universale”Ricorda ora l’ex sindaco: “Mi appoggiavo alle comunità religiose, c’erano tutti , rosarnesi e immigratisi cucinavano le frittoleSuor Raffaella ballava con gli immigrati, alcuni dei quali piangevano ascoltando le canzoni dei loro paesi”.
Anche Giuseppe Lavorato, ora, si commuove, ricordando un trentennio di lotte sociali che conquistarono per i braccianti mille ettari di terra: «Bosco selvaggio che è stato trasformato in giardini rigogliosi di agrumi»E poi si controlla e stringe i denti: “Nessuno ci poteva piegare, ci sentivamo invulnerabili”.
Giovani e invulnerabili si erano sentiti dagli anni sessanta sino a una notte del 1980, quando, con Giuseppe Vallarioti, segretario della sezione del Pci, erano andati a festeggiare in campagna la vittoria elettorale: “Dal buio di una siepe partirono due colpi di lupara” e il giovane segretario di sezione morì fra le braccia del compagno: ”L’indomani il paese doveva essere in festa”Stringe i pugni, serra i denti e con un sibilo di voce Giuseppe Lavorato continua a raccontare: “ma per quelli non ci doveva essere nessuna festaDovevamo piangere”.
L’epopea eroica e tragica delle battaglie contro la mafia si arricchisce di un nuovo capitolo nel 1994, quando una telefonata di Giorgio Napolitano convince l’amico di Vallarioti a presentarsi candidato sindaco“Fummo i primi, nel 1999, a costituirci parte civileNell’aula bunker la gabbia era stracolma, ci guardavano...se quegli occhi fossero stati fucili ci avrebbero raso al suolo”.
Il 15 novembre 1999 i fatti oggetto della denuncia degli immigrati che abbiamo riportato all’inizio, sono all’esame del Consiglio comunale che approva: “Interpretando i nobili sentimenti dei rosarnesi si esprime solidarietà a tutti i lavoratori extracomunitari per le gravi violenze subite” e esprime un forte allarme perché “la mafia e i delinquenti soffocano l’economia di Rosarno”.
Quelle vecchie carte di denuncia e di risposta democratica spiegano molto di ciò che è successo la settimana scorsa, perché in quel modo di operare si era radicata la fiducia degli africani nella legalità“Adesso ti spiego perché hanno sparato dice l’ex sindaco con la droga e il traffico delle armi, con gli appalti la ‘ndrangheta ha accumulato una ricchezza enormeMa per mantenerla deve avere il controllo del territorio”.
E invece nel 2008, quando alcuni immigrati neri furono feriti con armi da fuoco, la risposta non si limitò a una protesta pacificaFecero denuncia e i colpevoli sono stati arrestati e condannatiIl vecchio sindaco passa al dialetto: “La ndrangheta non è cchiu’ fissa (non è piu’ fessa) Capisce, interpretaHa colto l’occasione”.
Ormai mancano “la forza e la salute”, conclude Peppino Lavorato: “Posso fare solo un appello”“Ho visto – dice – che anche le persone solidali, la stragrande maggioranza a Rosarno, erano terrorizzate dalla furia devastatrice dei piu’ deboliSu questo si è innescata l’azione delle squadracce che hanno ottenuto la cacciata di quelli che l’hanno scorso avevano denunciato la sopraffazione”Per rimarginare “l’immensa ferita non basta un corteoDonne e uomini puliti e generosi devono tutti insieme ricostruire sentimenti di fratellanza e isolare la ndrangheta, proporsi con questo lavoro come nuova classe dirigente”❖

il Fatto 15.1.10
Rosarno, schiavi nascosti nelle campagne
Anche l’Economist definisce quello che è successo in Calabria un episodio di pulizia etnica
di Enrico Fierro

Ci sono almeno 500 lavoratori di colore che vivono in capanne e alloggi precari, spesso cibandosi solo di frutta

Non tutti sono andati via. Non tutti hanno accettato di lasciare Rosarno e la Piana di Gioia Tauro dopo gli scontri, le barricate, i raid e la caccia all'uomo. “Ci sono almeno altri 500 lavoratori di colore sparsi nelle campagne, vivono in capanne e alloggi precari, spesso cibandosi solo di frutta”. É l’allarme lanciato ieri da Agazio Loiero, il governatore della Calabria. Che si dice pronto a fare la sua parte, e invita il governo a dare una mano. Allarma fondato? In parte sì. “Forse non sono quelle le cifre – dice don Pino De Masi, prete e referente dell'associazione antimafia Libera – ma il fenomeno esiste. Ci sono ancora lavoratori di colore che vivono in casolari sparsi, a Rosarno come a Gioia Tauro e a Rizziconi. Molti li abbiamo aiutati e accompagnati fino a Lamezia Terme per prendere il treno e scappare, ne sono rimasti alcuni, ma non sono certo quelle le cifre”. C’è la campagna elettorale alle porte e il rischio di strtumentalizzare il dramma degli schiavi neri è altissimo. Ma un dato è certo, nei giorni della rivolta e della caccia al nero che rischiava di concludersi con un morto, in tanti hanno lavorato per salvare i lavoratori di colore rimasti isolati. Molti erano scappati dall’inferno dell'ex Opera Sila e della Rognetta, i due lager diventati la Soweto della Piana, per rifugiarsi nelle campagne. I più “fortunati” nelle vecchie case coloniche costruite negli aranceti, gli altri in capanne e baracche. Per giorni carabinieri, volontari della Caritas e di Medicdi senza frontiere, hanno battuto i campi per assisterli e salvarli da quella che il settimanale britanico “Economist” ha definito una vera e propria pulizia etnica. “Una pulizia etnica di una velocità, una completezza e una cattiveria balcaniche”. Un giudizio che certamente verrà giudicato esagerato, ma bastava essere a Rosarno per capire che così non è. La fila di uomini che trascinavano borsoni, gli autobus e le vecchie macchine con targhe straniere scortate dalla polizia, ricordavano molto da vicino le scene degli esodi forzati durante le guerre etniche. Fatti come quelli successi a Rosarno, avvengono quando si vede negli altri “solo oggetti, forza di lavoro, braccianti e non persone da rispettare”, è il giudizio di don Cesare Atuire, un sacerdote ghanese dell'Opera romana pellegrinaggi. Per troppo tempo nella Piana di Gioia Tauro si è lasciata marcire una situazione molto al di là del limite dell'inciviltà. Tutti sapevano che dentro i capannoni, tra i silos e le strutture abbandonate della ex Opera Sila viveva una comunità di centinaia di persone tra il degrado e l'abbandono. I volontari di “Medici senza frontiere” hanno più volte lanciato l'allarme. In pochi lo hanno raccolto, come in pochi hanno visto il reportage della Bbc girato all'interno dell'inferno della Rognetta. Assenti le istituzioni locali, assente il governo, complici i proprietari degli aranceti che per anni hanno trovato conveniente usare una manodopera a prezzi stracciati, ora è il momento della polemica politica. Ieri è arrivata a Rosarno Margherita Boniver, presidente del Comitato Schengen e ha denunciato “il collasso delle istituzioni locali”. Nei mesi scorsi il Comitato forse ignorava finanche dove si trovassero Rosarno, i ghetti dei neri e quali forme di brutale sfruttamento lì si attuavano. Si vota per le regionali e la polemica paga. Dal canto suo, la Regione ha risposto ricordando impegno e fondi stanziati. “Solo il Presidente Loiero ha dedicato una attenzione continua e concreta al problema”, ha dichiarato Pantaleone Sergi, portavoce del governatore, ricordando le cifre stanziate: “50mila euro, di questi ne abbiamo anticipato un terzo in attesa della rendicontazione dei comuni interessati, documenti essenziali che però sono arrivati solo il 2 dicembre 2009”, appena un mese prima della rivolta. Insomma, i soldi impegnati dalla Regione erano già di per sé pochi (basta dare uno sguardo alle immagini dei due ghetti di Rosarno per rendersene conto e ai pochi cessi chimici lì impiantati), sono stati utilizzati in minima parte perché i Comuni non hanno fatto quello che dovevano. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. “In questa vicenda sono troppe le questioni banalizzate dal governo”, ha detto Pierluigi Bersani, ieri a Rosarno per una manifestazione del Pd. Forse ha ragione, ma anche le istituzioni locali sono state cieche e sorde. La situazione era sotto gli occhi di tutti. Bastava vedere e non lasciare da soli preti e volontari, a non permettere che lavoro nero e sfruttamento diventassero schiavismo. A Rosarno, puntino d'Europa, dove ora gli schiavi vivono in improvvisate capanne.

il Fatto 15.1.10
Il Paese in cui viviamo
di Bruno Tinti

A Rosarno le cose sono andate così: una banda di ubriachi e primitivi ha pensato bene di andare a rompere le scatole agli
immigrati che se ne stavano a dormire nella loro bidonville; qualcuno aveva un fuciletto ad aria compressa (capacità lesiva pressoché zero se non lo pigli in un occhio) e ha sparato qualche colpo; gli immigrati se la sono presa e hanno reagito invadendo alcune strade cittadine, bruciando cassonetti e spaventando i cittadini, tra cui una signora che ha subìto una vera e propria aggressione e la cui macchina è stata bruciata. I cittadini di Rosarno hanno messo in piedi una spedizione punitiva, questa volta con fucili veri, e hanno cominciato una vera e propria caccia al negro (non so se ci fossero immigrati di altri colori); gli immigrati sono stati respinti e, siccome le cose si mettevano male e le forze dell’ordine non riuscivano a impedire ai rosarnesi di percorrere le strade in armi, trasferiti altrove; le loro cose sono rimaste nella bidonville dove abitavano e molti non sono stati nemmeno pagati per il lavoro fatto fino ad allora; infine la bidonville è stata rasa al suolo.
Adesso, stabilire chi ha avuto ragione e chi torto mi pare difficile; anni di processi per rissa mi hanno insegnato che la violenza è l’ultimo rifugio degli incapaci e che tutti i violenti sono sempre colpevoli. Ma non mi pare nemmeno importante. A me sembra che importante sia altro.
Gli immigrati lavoravano per 20 euro al giorno, senza contratto, senza assicurazione, senza contributi; e tutto questo avveniva sotto gli occhi di tutti. E nessuno trovava ignobile questo indegno sfruttamento. Quell’Ispettorato del lavoro, quei funzionari Inps che, nella mia procura, mi inondavano di denunce per contributi non versati e per figli, mogli e fratelli che lavoravano nel negozio del padre, marito, ecc, senza essere in regola, a Rosarno non facevano niente. Gli immigrati vivevano accampati in una fabbrica abbandonata; dormivano sul pavimento e appendevano il loro cibo (quale?) in sacchi di plastica perché i topi non glielo mangiassero; defecavano in terra e si sdraiavano tra i loro escrementi. E quei vigili urbani che facevano arrivare alla mia procura decine di denunce per verande illegali e mansarde di lusso con altezza pari a 2,75 metri e dunque non agibili, non sono mai intervenuti a Rosarno. E nemmeno l’ufficio d’igiene del comune ha trovato niente da ridire; e il governo ha speso parecchi soldi per mettere le mutande ai quadri di Palazzo Chigi perché occuparsi degli ultimi della terra non procura voti. Gli immigrati sono stati cacciati come bestie; e il ministro dell’Interno, che qualche mese fa ha mandato l’esercito nelle strade come avviene nelle “repubbliche” africane, ha dichiarato: “Troppa tolleranza con gli immigrati”.
Gli immigrati adesso sono in un campo di concentramento, proprio come si è fatto per i giudei, i froci e i comunisti. E io sto qui a chiedermi che fine ha fatto il rispetto della vita che stava tanto a cuore a questo governo feroce e inumano quando si trattava di comprarsi i voti dei cattolici con la persecuzione di povere larve come Welby ed Eluana. Sto qui a chiedermi perché l’opposizione non va, tutta ma proprio tutta, a Rosarno portando a quei poveracci acqua, cibo e vestiti, dimostrando finalmente che non è uguale alla maggioranza. Sto qui a chiedermi in che diavolo di paese mi tocca vivere e se davvero è in questo paese che dovrò morire.

il Fatto 15.1.10
Vecchie e nuove schiavitù
Antifonte diceva che i Greci sono più barbari dei barbari in quanto non capiscono che gli uomini per natura sono tutti uguali: “Respiriamo tutti col naso e prendiamo tutti il cibo con le mani”
di Giovanni Ghiselli

Imisfatti di Rosarno ci inducono a una riflessione sulla schiavitù. Questa piaga orrenda, disonorevole per l’umanità, ha radici antiche, come tutti sanno. Al tempo dei Greci e dei Romani venivano schiavizzati i popoli sconfitti in guerra. I più lo consideravano un fatto naturale, ma già allora le menti rette denunciavano l’asservimento dell’uomo da parte dell’uomo come un abominio. Nel Peloponneso gran parte della popolazione era costituita da Iloti, sottoposti agli Spartiati, gli Spartani di razza, che, calati dal nord alla fine del secondo millennio a. C., avevano conquistato la splendida “isola di Pelope” sottomettendone gli autoctoni. Ebbene nel IV secolo vengono scritti due opuscoli contrapposti sul problema della legittimità di tale asservimento. Isocrate, il principe ateniese della retorica, lo strapagato maestro della parola persuasiva, nell’Archidamo, dedicato a un re spartano, sostiene che Sparta aveva pienamente diritto a tenere i Messenii in schiavitù. Con l'Archidamo il retore Isocrate può considerarsi lo storico della mentalità schiavistica spartana in senso stretto: il discorso, infatti, è imperniato sulla ricostruzione dell’antichissima vittoria degli Spartani, per mostrare il loro buon diritto a tenere i Messenii sotto il giogo della tremenda schiavitù. Un altro maestro di retorica però, Alcidamante, scrisse il Messeniaco per mostrare, al contrario del suo eterno avversario Isocrate, che gli Spartani non avevano il diritto di schiavizzare: "Liberi tutti ci lasciò il dio e la natura non ha fatto schiavo nessuno”.
Questa esaltazione della rivolta degli schiavi messenii, lasciò una grande eco: più tardi, Aristotele porrà il Messeniaco di Alcidamante accanto all’Antigone di Sofocle. Il maestro di Alessandro Magno nella Politica afferma che lo schiavo è un oggetto di proprietà animato: esso non sarebbe necessario se le spole tessessero da sé. Canfora definisce lo schiavo il “convitato di pietra” della polis classica. Certamente la condizione degli iloti spartani era tra le più dure. Ma anche le masse di schiavi impiegati nelle miniere dell’Attica vivevano in condizioni terribili, tanto che il sofista Antifonte diceva che i Greci sono più barbari dei barbari in quanto non capiscono che gli uomini per natura sono tutti uguali: “Respiriamo tutti col naso e prendiamo tutti il cibo con le mani”. Dunque la schiavitù anche secondo Antifonte è un’istituzione contro natura. Gli schiavi domestici vivevano in condizioni meno disperate: nella commedia greca, e ancor più nel mondo carnevalesco, rovesciato, di quella latina, essi appaiono risolutivi, volenterosi e quasi sempre capaci di aiutare i padroni. Negli ultimi anni della guerra del Peloponneso Atene era a corto di mezzi e di uomini, e dovette rimpiazzare tanti caduti con gli schiavi; questi anzi, dopo l’ultima battaglia vinta alle Arginuse, vennero liberati con un decreto che provocò la reazione di Aristofane il quale diede voce all’esclusivismo degli Ateniesi facendo dire al coro delle Rane: “è uno scandalo che alcuni per una sola battaglia diventino cittadini e padroni invece che schiavi (vv. 693-694). Essere cittadini significava automaticamente essere padroni e questi non volevano condividere i loro privilegi. Tocqueville e altri storici che oggi si chiamerebbero di destra ricordavano ai giacobini della rivoluzione francese che le città antiche prese a modello erano in realtà repubbliche schiavistiche. E’ vero. Tuttavia sono Greci e Latini i primi autori che provarono turbamento per la schiavitù ed ebbero scrupoli sullo schiavismo. Omero considera la schiavitù un evento terribile che può capitare a chiunque e portare via all’uomo una parte della sua umanità. Euripide fa dire a Ecuba che la schiavitù riguarda tutti: “non c'è tra i mortali chi sia libero: infatti siamo schiavi delle ricchezze oppure del destino, della folla oppure delle leggi”. Su questa linea Seneca replica a uno schiavista, ribattezzando gli schiavi “uomini”, “umili amici”, “coabitanti”, “compagni di schiavitù”. Aristotele ha la caratteristica, già fatta notare da Marcuse, di essere, un cultore del senso comune il quale gli suggerisce che la schiavitù era un’istituzione necessaria alla società e la sua abolizione avrebbe comportato l’anarchia, forse la carestia. Neppure Platone era favorevole alla democrazia, eppure nella sua Repubblica abolisce silenziosamente la schiavitù per il semplice fatto di edificare uno Stato senza schiavi. Arriano, storico di Alessandro Magno, in una descrizione dell’India racconta che tutti gli Indiani sono liberi e nessuno è schiavo. Essi sono invece divisi in sette caste. Leopardi nello Zibaldone commenta questa assenza di schiavitù come conseguenza delle caste: “Ecco la ragione perché gl’indiani non usavano schiavitù. Perché sebben liberi, non avevano l’uguaglianza”. La riflessione successiva è che, nonostante l’assenza della schiavitù, gli Indiani non erano davvero liberi, poiché la divisione in caste senza speranza di avanzamento non presenta “i grandi vantaggi della libertà”, e la libertà senza uguaglianza, non è vera libertà.

l’Unità 15.1.10
Il governo prepara il giro di vite per la Rete
di Natalia Lombardo

Alla Camera il decreto che prevede controlli su Internet, regali a Mediaset e tagli al cinema
L’opposizione denuncia la manovra e chiede il ritiro del provvedimento

Il governo tenta un altro colpo di mano: limiti per i filmati sul web; tagli a fiction e cinema indipendenti; regala più pubblicità a Mediaset togliendola a SkyL’opposizione accusa: da Romani eccesso di delega.

«Una mossa che sembra ispirata da Mediaset, non è un sospetto troppo lontano dal vero», commenta Vincenzo Vita, senatore PdCosa? Il decreto governativo che, senza passare al vaglio del Parlamento, vuole segnare tre colpi: «Dà un colpo mortale alla produzione di fiction e cinema italiano, rappresenta un evidente regalo a Mediaset e contiene un giro di vite allarmante su Internet per la parte che trasmette servizi audiovisivi»Un capolavoro di «conflitto d’interessi», spiega Paolo Gentiloni, responsabile comunicazioni del PdIl quale accusa «un clamoroso eccesso di delega» esercitato da Paolo Romani, viceministro alle ComunicazioniRomani, uomo tv da sempre vicino a Berlusconi, respinge l’accusa con motivazioni tecniche ma a stabilire se l’eccesso c’è stato può intervenire il Consiglio di Stato entro 40 giorni.
Il decreto avrebbe dovuto solo recepire la direttiva europea che estende alle televisioni il cosiddetto «product placement», ovvero la pubblicità che compare in un film (per esempio la marca di un pacchetto di sigarette), vietata solo nelle trasmissioni per bambini (che, come denuncia Emilia De Biase, del Pd, «vengono aggrediti comunque con ore di pubblicità)In una conferenza stampa dell’opposizione (i due esponenti Pd, poi Rao per l’Udc, Giulietti di Articolo21 e Borghesi per l’Idv), hanno denunciato la manovra«Romani», spiega Gentiloni, «a fonte di una legge delega di 11 righe» aggiunge in 40 pagine «una riforma radicale delle norme italiane su tv e Internet», il tutto «usando il Parlamento come casella postale»Perché è previsto solo un parere, non vincolante, delle commissioni entro il 27 gennaioNella riunione di ieri le commissioni Trasporti e Cultura della Camera (il 19 lo farà il Senato), l’opposizione ha chiesto il ritiro del decretoE il capogruppo Pd Franceschini ha scritto al presidente Fini perché allunghi i tempi di discussione; i presidenti Aprea e Valducci sembrano disponibili a fare delle audizioniAnche Luca Barbareschi, attore, produttore e deputato Pdl, ha condiviso le critiche dell’opposizione.
LE MANI SUL WEB
Il governo interviene pesantemente sulla diffusione di audiovisivi in Rete (da YouTube alle web tv dei giornali o universitarie): qualunque sito che trasmette filmati in modo «non incidentale» ma sistematica, tutti i giorni, devono chiedere l’autorizzazione al ministero, il che vuol dire che serve un direttore responsabileE si aumenta il controlloSi impone poi l’obbligo di rettifica e di rispondere alle norme sul diritto d’autoreIn pratica siti e blog sono equiparati alle televisioni o alla carta stampataDietro le quinte c’è anche un ricorso Mediaset fatto a YouTube per la diffusione di spezzoni del Grande FratelloAltri tentativi restrittivi, come l’emendamento D’Alia (Udc) nel pacchetto sicurezza erano stati respintiOra, avverte Athos Gualazzi, presidente del «Partito Pirata», «se il governo cerca di mettere paletti o favorire qualcuno la Rete reagirà»Come? «Crittograferemo i pacchettiNon serve imbrigliare la condivisione e la democrazia della Rete, aggireremo la norma con soluzioni tecniche»E oggi una sentenza stabilirà se Telecom (che si è opposta) dovrà o no fornire alla Fapav (federazione antipirateria audiovisiva) gli indirizzi web di chi ha condiviso opere con copyright.
TAGLI A AL CINEMA INDIPENDENTE
Il governo cancella le norme che avevano introdotto i ministri Veltroni nel 1998 e Gentiloni nel 2007: che le emittenti televisive sostenessero la fiction e il cinema indipendenti con quote di tempo di trasmissione e con investimenti.
PIÙ PUBBLICITÀ PER MEDIASET
Ridotta la pubblicità per il satellite e ampliata quella per Mediaset: le interruzioni con gli spot da ogni 30 minuti anziché 45E se finora tutte le tv commerciali avevano un tetto orario del 18%, il decreto impone che Sky in tre anni passi dal 18 al 12%, un terzo in menoIl che danneggia anche i canali in onda sul satelliteMediaset, invece, mantiene il limite al 18% ma può arrivare al 20 perché sono inserite le telepromozioni e aumenta il numero con la frequenza degli spotIl decreto, inoltre, blocca l’indagine che l’Authority per le Tlc, stava compiendo per accertare lo sfondamento del 20% da parte di Mediaset (nel decreto gli spot nei programmi a pagamento e le repliche non vanno conteggiati).
Sul piede di guerra anche Roberto Rao dell’Udc, che si aspetta una «mobilitazione della Rete e di massa, perché nel web c’è l’unica informazione non soggetta allo spoil system e alle gabbie».❖

l’Unità 15.1.10
Il conflitto di interessi dietro le leggi speciali contro la libera rete
Giuseppe Civati presidente per il Pd del Forum dei nuovi linguaggi e delle nuove culture: colpire chi è indipendente è sempre sbagliato, farlo in modo sistematico è più grave. Non vogliono rompiscatole
di N.L.

Giuseppe Civati è fresco di nomina, da parte di Bersani, come presidente per il Partito democratico del «Forum dei Nuovi linguaggi e delle Nuove culture»Una dizione fascinosa e anche se poco sinteticaE lui, che ha naturalmente un suo blog, ci tiene a far capire «ai politici che il web non è una realtà marginale, spesso si considera così, mentre la convergenza, lo scambio di contenuti tra la Rete, la televisione e il digitale fanno parte della societàMi interessa l’aspetto quotidiano della Rete»Come giudica il fatto che il governo ancora una volta stia cercando di imbrigliare Internet con regole che permettono maggiore controllo? «Bisogna stare sempre attenti quando si affaccia l’ombra di “leggi speciali”Noi semmai abbiamo proposto, anche con la manifestazione sempre aperta “Libera rete in libero scambio”, di specializzare i saperi e l’uso della tecnologia, di estendere la comunicazioneDal governo invece siamo alla bassa cucina, per difendere quel fastidio che Berlusconi e la maggioranza esprimono verso la democrazia della Rete».
Ora il viceministro Paolo Romani usa il recepimento di una direttiva europea sulla pubblicità per «legare le mani al web», come ha detto Gentiloni, e favorire Mediaset nei tetti pubblicitariVede una connessione? «Mi sembra un caso esemplare di conflitto d’interessi, non c’è sintesi maggiore che in questi due ambitiCi sono stati tentativi sinergici anche in passato per colpire la libertà della rete o di You TubeIn questo caso un grande magnate della tv non può dimenticare il suo “core businnes”, dal momento che non pare dedicarsi solo alla politica.
E Paolo Romani è un uomo che viene dal mondo delle tv, non a caso è stato messo lì da BerlusconiÈ significativo, però, che si sia visto sfumare il progetto di allargamento della banda larga da parte dei colleghi di governoInsomma, quando si deve allargare la comunicazione non si interviene, si è solerti invece nel restringere gli spazi di democrazia».
I limiti che si vogliono imporre potrebbero, alla lunga, creare situazioni simili a quelle repressive e censorie praticate dalla Cina o dall’Iran? «Colpire chi è indipendente è sempre sbagliato, farlo in modo sistematico è più graveE il tentativo più clamoroso è stato con il caso Tartaglia: le prime mosse di reazione, da parte del governo, sono state sì “cinesi” o “iraniane”, poi hanno capito che sarebbe stato impossibile mettere in atto censure e controlli similiE, appena hanno avuto un confronto con Facebook, hanno visto che il controllo già esiste, che ci sono delle norme ordinarie sull’offesa e la diffamazione, non servono leggi specialiQuindi l’approccio è stato tremendo, ma alla fine non hanno fatto nulla»Vuol dire che il governo è piuttosto approssimativo nella comprensione delle dinamiche di internet?
«A volte fingono di non capire, altre volte tentano interventi chirurgici scatenando l’ira dei blogger, oltre che degli espertiPerò il conflitto d’interessi è sempre un filo conduttore: meno rompiscatole ci sono in giro e meglio è».❖

l’Unità 15.1.10
Sempre meno libertà
Più di due miliardi senza diritti nel mondo
Il rapporto di Freedom House: nel 2009 sono cresciuti repressione e conflittiLa lista nera dal Medio Oriente all’Africa, dall’Asia ai Paesi ex Urss
di Umberto De Giovannangeli

Due miliardi e trecento milioni di personeSenza diritti, senza libertàDal Medio Oriente all'Africa, dall'Asia alle repubbliche dell'ex Unione SovieticaLibertà civili e diritti umani sempre più in crisi a livello mondialePer la quarta volta consecutiva, negli ultimi 40 anni di storia, si registra un peggioramento sostanziale delle libertà nei cinque continentiA certificarlo è Freedom House, l'autorevole osservatorio americano fondato da Eleanor Roosevelt che, dal 1972, si occupa di registrare ogni piccola variazione sul fronte del rispetto e della tutela dei diritti in tutti i Paesi del pianeta.
È un quadro inquietante, drammatico, quello che emerge dal rapporto annuale di Freedom House, «Freedom in the world 2010»I risultati di quest'anno riflettono le crescenti pressioni sui giornalisti e sui blogger, le restrizioni alla libertà di associazione, la repressione esercitata sugli attivisti civili impegnati a promuovere le riforme politiche e il rispetto dei diritti umani.
Il Medio Oriente comprensivo dell'Iran resta la regione più repressiva del mondo, l'Africa quella che ha subito il calo (di libertà) più significativoI miglioramenti più rilevanti, rispetto all'anno precedente, si sono registrati in Asia, in virtù delle elezioni democratiche svoltesi in In-dia, Indonesia, Giappone, a fronte, però, di un peggioramento registrato in Afghanistan, con le contestate elezioni presidenziali, e nelle Filippine, dopo il massacro di civili e di giornalisti e la successiva dichiarazione delle legge marziale.
«Nel 2009 dice a l'Unità Jennifer Windsor, direttrice esecutiva di Freedom House abbiamo assistito ad una preoccupante erosione di alcune libertà fondamentali, la libertà di espressione e di associazione, e ad innumerevoli attacchi contro gli attivisti in prima linea in questi settori»«Dalla brutale repressione a Teheran agli arresti dei dissidenti in Cina, agli omicidi di giornalisti e attivisti dei diritti umani in Russia rimarca la direttrice di Freedom House abbiamo registrato un ulteriore, pesantissimo giro di vite nei confronti di donne e uomini che nel mondo si battono per far valere quei diritti umani riconosciuti dalla Dichiarazione dell'Uomo delle Nazioni Unite e dalle più importanti Convenzioni internazionali».
In un anno segnato dall'intensificarsi della repressione contro i difensori dei diritti umani e attivisti civili, un declino delle libertà è stato registrato in 47 Paesi in Africa, America Latina, Medio Oriente, e le repubbliche dell'ex Unione Sovietica, che rappresentano il 20% del totale dei sistemi politici del mondo Stati autoritari come l'Iran, la Russia, il Venezuela sono diventati ancor più repressivi. Un declino delle libertà si è registrato anche in quei Paesi che avevano registrato un andamento positivo negli anni precedenti, tra i quali il Bahrein, la Giordania, il Kenya e il Kirghizistan,
La maglia nerissima tra i 47 Paesi classificati «Not Free»negazione dei diritti politici e delle libertà civili spetta a Birmania, Guinea Equatoriale, Eritrea, Libia, Corea del Nord, Somalia, Sudan, Turkmenistan e UzbekistanNel complesso, oltre 2,3 miliardi di persone vivono in società nelle quali fondamentali diritti politici e le libertà civili non vengono rispettatiLa Cina rappresenta la metà di questo universo illiberale.
Inoltre è calato il numero di democrazie elettive, passato da 119 a 116, il più basso dal 1995 a questa parteAd aggravare la situazione i tanti fronti di guerra e la violenta repressione delle proteste di piazza dei dissidenti, dall'Iran alla CinaCi sono poi gli attentati terroristici in Pakistan, Afghanistan, Iraq, Somalia e Yemen«I dati registrati nel 2009 sono motivo di reale preoccupazione ci dice Arch Puddington, direttore responsabile del settore ricerca di Freedom House -Il calo è globale e interessa Paesi con il potere militare ed economico, investe Paesi che in precedenza avevano mostrato segni di potenziali riforme, e mette in evidenza una maggiore persecuzione dei dissidenti politici e giornalisti indipendentiA peggiorare le cose, i più potenti regimi autoritari sono diventati ancor più repressivi, più influenti sulla scena internazionale, più intransigenti»Pochi i segnali positivi: nel 2009 appena 16 Paesi, su 194 monitorati, sono più liberi rispetto al passatoTra questi alcuni Paesi dei Balcani, tra cui Kosovo, Montenegro, Croazia, Moldavia e SerbiaIn questa lista compaiono anche Libano, Malawi e TogoIl numero dei Paesi designati da «Freedom in the World» come “Free” nel 2009 ammonta a 89,
che rappresentano il 46% di 194 Paesi del mondo e il 46% della popolazione mondialeIl numero dei Paesi “Partly Free” (Parzialmente liberi) è sceso a 58, il 30% di tutti i Paesi valutati nel sondaggioIl numero dei Paesi “Not Free” è aumentato a 47, il 24% del numero totale di PaesiAd essere declassata è anche la Russia, seguita a ruota da tutti i Paesi del Mar Baltico e dell' ex Unione Sovietica, tra cui il Kazakistan e il KirghizistanIn America Latina, l'Honduras ha perso lo status di democrazia elettorale a causa del colpo di stato; un significativo calo degli standard democratici hanno riguardato Guatemala, Nicaragua e Venezuela.
Quanto all’Europa, il rapporto cita le tensioni culturali e sociali collegate al grande flusso di immigranti provenienti da Paesi musulmaniMigrazioni che, sostiene Freedom House, «sfidano la tradizione europea fatta di tolleranza e tutela delle libertà civili»«Preoccupazioni sull'immigrazione conclude il rapporto hanno portato all' avanzata elettorale dei partiti di destra che propongono maggiori restrizioni al fenomeno»L'incremento delle politiche anti-immigrazione ha portato al declassamento di Svizzera e Malta❖

giovedì 14 gennaio 2010

l’Unità 14.1.10
Su Facebook da due mesi
La candidatura di Emma era già nella rete
di Ivana Della Portella

Qualche mese fa (era il 29 ottobre 2009) ho fondato su Facebook un gruppo dal titolo esplicativo «Emma Bonino presidente della regione Lazio: Yes we can».
Quella decisione nasceva da un’esigenza speciale: non si trattava solo di riflettere su una personalità politica in grado di ridare speranze di vittoria al centro-sinistra dopo l’episodio controverso e triste del caso Marrazzo, quanto piuttosto di rinsaldare con gli “amici” di Facebook (molti sono militanti e dirigenti delle formazioni di centro-sinistra) un sentimento di valore verso la Politica, fortemente scossa soprattutto dalla mancanza di prospettiva e visione maiuscola. Immediatamente, soprattutto a seguito dei commenti di chi si iscriveva a quel gruppo, ebbi la sensazione che quell’esigenza mia era molto diffusa in chi guarda ancora alla politica con la speranza che essa meriterebbe. Di fatto Emma Bonino raccoglie alcuni elementi simbolici del valore alto che la politica può rappresentare come strumento insostituibile per il benessere sociale. Senza voler esaltare oltre certi limiti l'individualismo, che spesso cozza con l’esercizio equilibrato del bene pubblico, mi è parso però evidente come in Emma siano accumulate e valorizzate con grande evidenza, alcune peculiarità (la serietà e il rigore del proprio impegno, la disponibilità a mettersi continuamente in discussione, il senso di sacrificio per la causa sociale) in grado di rilanciare un messaggio di positività della pratica politica che oggi restituirebbero dignità all'intera comunità civica. Quella intuizione (non così straordinaria, tra l’altro) ebbe immediato riscontro e fece crescere quel gruppo raggiungendo in breve termine una quota di iscrizioni alquanto ragguardevole considerando gruppi analoghi (siamo oggi ad oltre 5000 iscritti). La cosa che mi meravigliò, devo dirlo con franchezza e tristezza, fu l’assenza di un’immediata risposta politica che raccogliesse quel messaggio e lo rilanciasse (per esempio attraverso il metodo delle primarie) trasformando un bisogno condiviso in ipotesi di lavoro. Gli sviluppi politici conseguenti li conosciamo. Oggi, dopo uno stallo di azione politica del centro-sinistra e del Pd in particolare (più alla ricerca di raccordi tra decisori che di analisi dei bisogni: il giusto sarebbe nell’equilibrio dei fattori), e dopo che i dirigenti del Partito Radicale hanno deciso di definire la candidatura di Emma Bonino, siamo verosimilmente di fronte ad una scelta obbligata. Credo che nonostante si sia perso del tempo e si sia data l’impressione di rincorrere gli eventi piuttosto che di governarli, si sia ancora in tempo per prospettare, almeno ai cittadini del Lazio, un “concreto sogno” di seria politica.❖

il Fatto 14.1.10
La “fuoriclasse” salita sul carro vuoto del centrosinistra

Emma Bonino, il 5 gennaio, annuncia dalla sede dei Radicali italiani la sua candidatura alla guida del Lazio per la lista Bonino-Pannella. Il Pd non ha ancora un candidato. E ha affidato a Nicola Zingaretti, presidente della provincia di Roma, un “mandato esplorativo” per capire “la candidatura più idonea e coerente per le elezioni regionali e il prima possibile”. Già, il tempo stringe. La Bonino lo sa, e serve l’assist ai democrat: “Per il Pd sarebbe una grande opportunità scegliere me invece di impantanarsi in altre candidature improbabili”. Comincia, all’interno del partito, il braccio di ferro tra sostenitori e detrattori della leader radicale. Ad essere contrari sono soprattutto i teodem (Lusetti, Carra e Binetti) che parlano di un candidato “doppiamente perdente” per il Lazio, perché si perderebbero i voti dei cattolici. Ma di traverso si mettono anche alcuni “franceschiniani”: vorrebbero le primarie. Finché non si esprime il segretario del Pd Pier Luigi Bersani: “La Bonino è una fuoriclasse”. Pure Zingaretti è d’accordo, insieme all’80 per cento circa della direzione regionale. E i sondaggi danno la Bonino appaiata alla Polverini. Martedì 12 gennaio la radicale, dopo un incontro con Bersani, diventa la candidata del Pd per il Lazio.

il Fatto 14.1.10
Cattolici anti-Emma ma nei sondaggi vola
Avvenire contro Marini per il sì, Binetti, Lusetti e Carra critici
E lei precisa: “Problemi con le gerarchie ne ho molti, ma nessuno con i preti e le suore”
di LucaTelese

Domanda. Quante armate mobiliterà (o sta mobilitando) il Papa, per contrastare la candidatura di Emma Bonino alla guida della regione Lazio? Se si può parafrasare una celebre battuta di Stalin (che si chiedeva con una sarcastica sottovalutazione, di quante armate disponesse il Pontefice), la risposta sarebbe più d’una. Infatti, su Emma, si sta abbattendo in queste ore un fuoco concentrico di sapore vagamente papalino: dichiarazioni di politici, fondi di giornali, veti. Eppure, negli stessi giorni si assiste a uno strano paradosso. Mentre si moltiplicano le prese di posizione di molti politici (soprattutto di area cattolico-progressista) contro l’ex ministro, mentre si dispiegano i pronunciamenti delle testate di area cattolica contro di lei, la candidata radicale del centrosinistra appare molto ben posizionata nei sondaggi: in alcuni è solo un punto al di sotto della sua avversaria, Renata Polverini. In quello di Luigi Crespi (pubblicato su Il Clandestino) addirittura in parità. E questo senza nemmeno aver iniziato la sua campagna elettorale. Un risultato su cui nessuno avrebbe scommesso, nella regione che ospita lo Stato pontificio, men che meno nel Pd, tanto titubante sulla sua candidatura, fino alla presa di posizione dell’esploratore Nicola Zingaretti.
Radicale cattolica. Lei, Emma, era preparata fin dal primo giorno: “Mi chiedete se ho dei problemi con i cattolici? Con i preti e con le suore proprio nessuno. Ci siamo spesso incontrati nei luoghi dove soffrono gli ultimi. Con le gerarchie cattoliche sì, ne ho avuti tanti. E non da ora”. E ancora: “Io non credo. Però mia madre è cattolica, vengo da quella cultura”. Avvenire e Marini. Intanto Avvenire, il quotidiano dei vescovi, è tornato a sparare sulla sua candidatura. Ieri, un editoriale di Francesco D’Agostino, polemizzava con Franco Marini che aveva invitato i cattolici del Pd a sostenere la Bonino e a superare le divisioni fra “Guelfi e Ghibellini”. A individuare nelle battaglie della Bonino “un elemento che fa parte del retroterra dello stesso mondo cattolico: accettare la centralità della persona” . Il quotidiano dei vescovi invece non ha apprezzato affatto la sua posizione, e ha attaccato in punta di dottrina l’ex presidente del Senato: “I diritti per i quali si battono i Radicali non sono i diritti della persona, ma dell’individuo”. Spiega Avvenire: “La differenza fra queste due categorie è molto netta. Parlare di persone significa parlare di relazionalità, solidarietà, dignità, ricerca di un bene comune ed oggettivo, consapevolezza di una comune appartenenza alla famiglia umana”. Mentre invece, quello dei Radicali, secondo Avvenire: “E’ l’orizzonte del primato della soggettività, che relativizza l’oggettività del bene e assolutizza come insindacabili le preferenze dei singoli”. La chiusa dell’editoriale è prevedibile: “Questioni come la legalizzazione degli stupefacenti, la difesa del matrimonio e della famiglia, la tutela della vita (della vita prenatale, della vita in provetta, dei malati) marcano l’inconciliabilità tra il mondo radicale e il modo personalistico di pensare i diritti”.
Il coro dei politici. Un attacco che forse apparirebbe scontato, se non si inserisse in un piccolo coro. Scegliere la Bonino sarebbe un suicidio politico! – ha tuonato l’ex Popolare del Pd, Renzo Lusetti – il suo nome fa fuggire l’elettorato cattolico”. “Se la Bonino vince me ne vado dal Pd”, ha aggiunto Paola Binetti, la teodem di via del Nazareno. E persino un ex Dc con un pedigree liberal e non confessionale come Enzo Carra ha fatto sentire la sua voce con un complimento a doppio taglio: “Sono un grande ammiratore di Emma Bonino. E’ molto brava, molto preparata. Ma devo anche dire che per perdere la sua candidatura va benissimo”.
I radicali tranquilli. E a via di Torre Argentina? Sembrano preparati a reggere l’urto. Massimo Bordin, la voce di RadioRadicale che in questi giorni compulsa ogni riga sul tema nella sua rassegna, è addirittura ironico: “Verrebbe da farsi questa domanda. Ma quanto conta questo benedetto elettorato cattolico, se poi Emma viene indicata testa a testa con la cattolicissima Polverini prima ancora di aprire ufficialmente la sua campagna?”. Maria Pia Garavaglia chiede alla candidata “di valorizzare i temi cattolici”, Silvia Costa – grande raccoglitrice di voti nel Lazio – si è astenuta sul nome dell’ex ministro, nel voto decisivo in direzione regionale. Anche Marco Di Stefano, uomo di riferimento di Enrico Letta le ha fatto la guerra, Francesco Storace tuona: “C’è un baratto fra emendamenti pro-eutanasia e candidatura nel Lazio”. Eppure, malgrado tutto, la nave di Emma va.

l’Unità 14.1.10
Pd-Prc: accordo difficile in almeno quattro regioni. Ma c’è una schiarita con Sl
Incontro tra Bersani e Ferrero, ma restano i nodi. In una regione su tre la sinistra radicale sosterrà candidati alternativi a quelli del Pd. La proposta dove c’è l’accordo con l’Udc: «Coalizioni istituzionali, non di governo».
di Simone Collini

Allearsi con l’Udc senza rompere con la sinistra radicale. È a questo che punta il Pd, per le regionali di marzo. Impresa non facile. E se la schiarita che pare arrivare in Puglia sta portando Sinistra e libertà a sedersi ai tavoli delle trattative sospesi in tutte le regioni da giorni, il rapporto del Pd con Rifondazione comunista e Pdci è più complicato.
Pier Luigi Bersani ha incontrato Paolo Ferrero al Nazareno ma il colloquio non è bastato a sciogliere i nodi. Il segretario del Pd è convinto che non sia possibile lavorare insieme al Prc per «creare un progetto di governo alternativo». E quello del Prc, nella veste di portavoce della Federazione della sinistra, ha sostenuto che il Pd «ha un profilo troppo moderato». In più laddove ha già chiuso o sta per chiudere l’accordo con i Democratici ovvero Piemonte, Liguria, Marche e Basilicata l’Udc sta ponendo una sorta di veto sulla presenza della sinistra radicale nell’alleanza per il governo regionale. Una situazione da cui Bersani pensa di uscire proponendo alle parti «coalizioni istituzionali, non di governo»: non ci sarebbero assessori della sinistra radicale, con la quale però verrebbe stipulato un «patto di consultazione e collaborazione» in Consiglio regionale. È soprattutto nelle Marche, dove il lavoro per avere il sì dell’Udc ha prodotto una lacerazione con Prc, Pdci e Sel, che si sta tentando questa strada.
ROTTURA IN UNA REGIONE SU TRE
Il rischio di allargare da una parte e perdere pezzi dall’altra non è di poco conto perché in diverse sfide il voto della sinistra radicale sarà tutt’altro che ininfluente. A cominciare dal Lazio, dove stando ai sondaggi la partita sarà sul filo di lana. Sinistra e libertà, dopo averla incontrata, ha già detto che sosterrà Emma Bonino. Ferrero la vedrà tra oggi e domani. Dice di avere «riserve sul suo profilo politico» e all’incontro chiederà garanzie
soprattutto per quel che riguarda le «politiche sociali». Ma Rifondazione sa che si assumerebbe una delicata responsabilità a rompere col resto del centrosinistra in una regione dove la partita è così aperta.
La rottura appare invece inevitabile in almeno quattro regioni. In Calabria, Prc e Pdci sono orientate a sostenere insieme all’Idv il re del tonno Pippo Callipo, sia che il Pd schieri il vincitore delle primarie (probabilmente Agazio Loiero) sia che lasci all’Udc la scelta del candidato (Roberto Occhiuto, se si chiude l’accordo). La stessa minicoalizione dovrebbe presentare come candidato governatore della Campania Riccardo Realfonzo (Prc), che a correre sia il sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, l’assessore bassoliniano Ennio Cascetta o il rettore universitario Raimondo Pasquino (gradito all’Udc). Stesso schema in Veneto se il Pd chiuderà con l’Udc sulla candidatura del centrista Antonio De Poli: Idv e sinistra radicale sosterranno Massimo Donadi. Tutto ciò, se non ci saranno le conseguenze minacciate dalla Federazione della sinistra («ora in discussione accordi tra noi e Sel in tutte le regioni») dopo che Sinistra e libertà è entrata nella coalizione che sosterrà in Lombardia Filippo Penati, che ha invece chiuso a Prc e Pdci.❖

l’Unità 14.1.10
D’Alema ottiene il via libera di Casini: l’Udc non partecipa ma aspetta l’esito dei gazebo
Il 30 gennaio la data più probabile. Boccia pone condizioni e domande al veleno. Nichi risponde
Primarie, il Pd ci ripensa Sì alla sfida Vendola-Boccia
Centrosinistra in Puglia verso le primarie il 30 gennaio. Casini dà il suo ok (sofferto) a D’Alema, Boccia frena e pone condizioni, Vendola esulta: si esce dalla confusione nel modo migliore.
di Andrea Carugati

Il condizionale è ancora d’obbligo, ma la tormentata vicenda delle regionali pugliesi con tutta probabilità si risolverà con le primarie. Nichi Vendola contro Francesco Boccia, come nel 2005. La data è già pronta, il 30 gennaio.
PRIMARIE, CADE IL VETO DI CASINI
Ieri mattina la situazione si è sbloccata. Il pressing condotto da giorni da Massimo D’Alema su Pierferdinando Casini ha ottenuto un risultato decisivo: il leader Udc, spiegano i suoi uomini, pur restando «allergico» ai gazebo, si è detto pronto ad attendere l’esito delle primarie. Manca però ancora l’ufficialità. Casini non esce ancora allo scoperto, e l’Udc è intenzionata a non partecipare ai gazebo e resta pronta ad allearsi con il Pdl in caso di vittoria di Vendola. «Correre da soli? È un regalo che non faremmo mai a Vendola, non se lo merita», dice Rocco Buttiglione. Boccia non ha ancora sciolto la sua riserva, aspetta l’assemblea di sabato del Pd pugliese, e pone due condizioni: che tutto il partito (o almeno una larga maggioranza) si dica favorevole alla sua ipotesi politica, e cioè la nuova coalizione “per il Sud” allargata ai centristi; e la disponibilità ufficiale di Casini ad attendere l’esito delle primarie senza rompere con i democratici. «Se l’assemblea avallerà la nuova coalizione andrò avanti, altrimenti no. E chi pensa che le primarie con Vendola e l’adesione dell’Udc siano compatibili ad oggi fa solo esercizi di bella retorica». «Fino a questo momento Udc, Idv, Pdci, Socialisti e Verdi hanno confermato di non partecipare alle primarie», aggiunge Boccia. Parole prudenti, ma chi lo conosce bene assicura che ben presto Boccia annuncerà la sua disponibilità a sfidare il governatore uscente alle primarie, dopo aver ottenuto un congruo numero di firme in calce al documento politico sulla nuova coalizione elaborato da Sergio Blasi, segretario del Pd pugliese. Che ieri mattina ha visto Bersani insieme a Boccia a Roma e dice: «Le primarie non le abbiamo mai escluse, sono nel nostro statuto». Boccia, poi, sul suo blog lancia 10 domande al veleno al rivale, alle quali Vendola risponde puntualmente. Sui rapporti con l’Udc chiarisce di aver «posto alla sinistra italiana il tema di un nuovo compromesso con forze moderate e centriste, incluso l’Udc di Casini». Sulla sanità spiega nel dettaglio le politiche di prevenzione attuate. Sui rifiuti dice di aver «cancellato dal Piano quella porcheria che erano gli inceneritori di vecchia generazione». Chiarisce di aver «bocciato» il raddoppio della raffineria Eni di Taranto. Risponde, ancora, di «non aver licenziato» il presidente dell’acquedotto Petrella. E, ancora, riferisce sugli investimenti culturali e sulle assunzioni che dice di aver incentivato attraverso concorsi pubblici.
VENDOLA ESULTA
Intanto Vendola si gode l’ipotesi delle primarie. «Si comincia a uscire dalla confusione nel modo migliore: le primarie il vero antidoto alla rottura, sono una vittoria del buon senso, del popolo democratico e anche delle ragioni costitutive Pd». D’Alema resta abbottonato: «In Puglia stiamo lavorando per riportare l’unità del centrosinistra intorno alla soluzione che garantisca l’alleanza più ampia». Se l’operazione andrà in porto, l’assemblea pugliese di sabato si scaricherà delle ten-
sioni che potevano portare a una sanguinosa conta. E si limiterà a prendere atto dell’intesa raggiunta e a dare il via libera alle primarie, ufficializzando l’appoggio del Pd al candidato Boccia.
In Umbria invece la situazione è ancora ingarbugliata. Ieri il coordinatore della segreteria di Bersani Maurizio Migliavacca ha indicato la governatrice Maria Rita Lorenzetti come il candidato «più autorevole» per succedere a se stessa: «Rappresenta il meglio dell’esperienza del centrosinistra in Umbria». Ma Antonello Giacomelli, autorevole esponente dell’area Franceschini che chiede sostiene il candidato Mauro Agostini, gli ha risposto a muso duro: «Ci sono delle regole da rispettare, per avere la deroga per il terzo mandato serve una maggioranza dei due terzi in assemblea». Le consultazioni del segretario del Pd umbro Bottini, che ha il mandato di trovare un nome di sintesi, non sono ancora iniziate. «Mancano le condizioni», spiegano dal Nazareno.❖

l’Unità 14.1.10
Manifestazione antirazzista
Con gli immigrati senza se e senza ma
di Roberto Della Seta Francesco Ferrante

A che serve, che futuro ha il Partito Democratico se non reagisce con veemenza e nettezza dopo i gravissimi fatti di Rosarno? Che ci sta a fare un partito come il Pdse non mobilita la sua forza organizzata, non mette in gioco le sue facce più autorevoli, per gridare che la “caccia al negro” di Rosarno, qualunque sia la sua dinamica, è un abominio razzista; per dare voce a quella parte di Calabria, d’Italia, che rifiuta l’idea d’un Paese dove migliaia di persone vengono lasciate vivere e lavorare come vivevano e lavoravano i migranti africani a Rosarno, come vivono e lavorano decine di migliaia di altri migranti in tutta Italia?
Il razzismo, la xenofobia, come ogni altro fenomeno collettivo, hanno sempre le loro spiegazioni sociali, culturali. È giusto ricercarle e approfondirle, è giusto e necessario in questo caso capire rapidamente da cosa nasce la rabbia di molti rosarnesi contro gli immigrati. Come è altrettanto giusto, urgente e importante capire il ruolo giocato dalla ’ndrangheta in tutta questa vicenda dai risvolti oscuri e inquietanti.
Ma qualunque ne siano le cause, la “caccia al negro” è e resta un “effetto” schifoso e indegno, punto e basta. Ogni atteggiamento neutrale o cerchiobottista sarebbe insopportabile: si può e si deve stare solo da una parte, dalla parte delle vittime. Per questo, ora più che mai, s’impone una grande reazione pubblica che vada oltre a quello che già fanno le associazioni quotidianamente impegnate nell’assistenza e nella solidarietà agli immigrati e alla Chiesa, che veda in prima fila le forze politiche che si richiamano ai valori della coesione sociale, dell’anti-razzismo, dell’accoglienza verso chi viene in Italia spinto dalla miseria e chiamato – chiamato da “noi” – per lavorare. Che veda in prima fila, protagonista, il Partito Democratico.
Un giorno di marzo, per 24 ore, centinaia di migliaia di lavoratori immigrati incroceranno le braccia per mostrare concretamente all’Italia che senza di loro il nostro Paese è zoppo, non funziona. Questa iniziativa, che ne replica una analoga organizzata recentemente in Francia, per ora è promossa da un insieme di organizzazioni di immigrati e di forze dell’associazionismo e del volontariato.
L’appello che noi lanciamo da questo giornale è che il Partito Democratico aderisca a questa protesta, ne faccia un elemento fondante della sua identità collettiva, e che quel giorno si mobiliti in una manifestazione nazionale anti-razzista. Se non ora, quando?
Roberto Della Seta e Francesco Ferrante sono parlamentari del Partito Democratico

l’Unità 14.1.10
Le anime belle di Rosarno
di Lidia Ravera

I lavoratori stranieri che raccoglievano agrumi a Rosarno abitavano baracche simili a quelle della sterminata periferia di Bombay. Cartoni, copertoni, lamiere ondulate. Bene che vada una branda sfondata. Zero igiene. Buio. Bestie. I lavoratori stranieri che raccoglievano agrumi a Rosarno guadagnavano in media 2 euro l’ora e lavoravano un numero di ore che nessuna legge di nessun paese civile consente. I lavoratori stranieri che raccoglievano agrumi a Rosarno non avevano affetti né conforto. Lavoravano e basta. Tutti maschi, giovani, di pelle nera. I cittadini di Rosarno, che non raccolgono agrumi a Rosarno, erano disturbati dalla vista di quell’esercito di sfruttati silenziosi, rassegnati, forti e soli. C’è da comprenderli: non era un bello spettacolo. Era uno di quegli spettacoli che mettono disagio e vergogna. Ma alcuni cittadini di Rosarno, di quelli che non raccolgono agrumi, hanno manifestato l’intenzione di scacciare quegli stranieri che raccoglievano agrumi a Rosarno, quasi fosse colpa loro, quasi fossero loro, i reponsabili, gli autori, i registi di quel brutto spettacolo. Erano soltanto gli attori, e recitavano il ruolo per forza, non certo per sfizio. A nessuno piace far pena, meno ancora fare ribrezzo. Alcuni a Rosarno si sono sentiti minacciati da tutto quel dolore, da tutta quella fatica, da tutta quella disperazione, compresse lì, alla periferia della loro ridente cittadina. E che cosa hanno fatto? Li hanno aiutati? No: hanno aperto la caccia. La caccia è pur sempre uno sport, e come gli sport serve a scaricare i nervi. Così, in piazza coi forconi, sono scesi anche diversi nullafacenti annoiati. Quelli che non raccolgono niente, neanche la spazzatura. «Fuori i negri da casa nostra», urlavano. E menavano duro. Ma naturalmente nessuno di loro era razzista. Il razzismo è un’invenzione dei comunisti o di chi ne fa le veci. In Italia, siamo tutti anime belle.❖

il Fatto 14.1.10
“Non avevo mai visto esseri umani trattati così”
Parola del fotografo olandese che ha documentato la vita dei braccianti stranieri in puglia
di Elisa Battistini

Ha scattato fotografie in tutto il mondo, l’olandese Piet den Blanken. Documentando la vita degli afghani a Kabul dopo i bombardamenti, le carceri in San Salvador, gli immigrati che passando da Tenerife cercano di arrivare in Europa e quelli che, già in Europa, da Calais vogliono andare in Gran Bretagna. Ma la situazione che ha incontrato a settembre nel Tavoliere delle Puglie (dove ogni anno circa 70 mila braccianti stranieri raccolgono i pomodori) lo ha lasciato senza fiato. “Dopo aver scattato alcune immagini mi sono messo a piangere”, ci dice. “Nella mia vita ho ascoltato molte storie di immigrazione e conosco bene le frontiere europee. Ho visto in faccia la disperazione delle persone e situazioni molto drammatiche, anche nel nostro continente. Ma non avevo mai visto, in Europa, condizioni di lavoro come quelle degli stagionali stranieri nel foggiano”. Che a den Blanken hanno fatto venire in mente le condizioni di vita dei braccianti nella Repubblica Domenicana, o quelle dei raccoglitori del caffè in Messico. Oppure gli allevatori delle capre in Ecuador. Che sono poverissimi e vivono nell’indigenza assoluta. “Sono venuto in Puglia per raccontare la vita di queste persone dimenticate – dice – che nessuno vuole vedere e di cui nessuno si vuole occupare. E non solo da voi, in Italia, ma in tutta Europa. Gli immigrati sono il sintomo di un sistema economico che ha bisogno di schiavi per continuare ad esistere. Sono una conseguenza dell’ingiustizia prodotta dall’economia neoliberista. Di problemi molto grandi, insomma, che nessuno vuole affrontare”.
Di fronte al suo obiettivo gli stranieri avevano due atteggiamenti: “Alcuni si vergognavano e cercavano di non mostrarsi malati, sporchi. Altri al contrario volevano far vedere la loro vita e far capire a tutti cosa significa essere irregolari, schiavizzati”. Girando per quell’inferno fatto di baraccopoli, ghetti fatiscenti, case ricoperte di nylon per isolarle dalla pioggia, Piet ha provato emozioni molto forti. “Ricordo in particolare un ragazzo che mi ha invitato a entrare nella sua ‘casa’. Era un tugurio di cartone senza servizi igienici né acqua corrente. Mi ha offerto un tè, preparato su un fornellino con l’acqua che teneva in una tanica. Nonostante tutto, le persone non vogliono perdere la propria dignità: questo ragazzo mi ha trattato come si fa con gli ospiti. Ma l’emozione è nata perché, guardando lui, ho pensato a mio figlio. Che va all’università e ha una vita completamente diversa solo perché è nato in Olanda. Un pensiero così semplice ma così efficace: quel ragazzo in quella baracca poteva essere mio figlio”.

il Fatto 14.1.10
Arance senza succo
Dietro la guerra di Rosarno, la decisione dell’Europa di dare contributi non a chi produce, ma a chi possiede
Costano meno i prodotti che arrivano dall’estero. Ecco perché gli schiavi neri non servono più di Daniele Martini

Dove scoppierà la prossima Rosarno? C’è una parola brutta che gli esperti agricoli usano con insistenza per spiegare che le ragioni economiche alla base della cosidetta guerra delle arance probabilmente faranno da innesco ad altre battaglie. Il termine è “disaccoppiamento”. Tradotto in soldoni significa questo: per ottenere gli aiuti ad integrazione del reddito dalla Comunità europea, senza i quali l’impresa agricola spesso rischia di finire a gambe all’aria, in particolare nel Mezzogiorno, da qualche tempo non è più necessario produrre o, almeno, far finta di produrre. Basta dimostrare che si possiede un appezzamento e i quattrini arrivano. Tra produzione e proprietà c’è, appunto, un disaccoppiamento, una scissione, un disgiungimento. Una follia? Un incentivo a lasciare le terre incolte? Il colpo finale ad un’agricoltura malata? Sì e no. Di certo il disaccoppiamento è un cambiamento epocale per le campagne italiane, meridionali in primo luogo. Una rivoluzione di cui pochi si sono accorti, ma che ora nel bene e nel male comincia a produrre i suoi effetti.
Rosarno è il frutto avvelenato del cambiamento in atto e quasi sicuramente non resterà isolato. “Non voglio fare la Cassandra, oggi è capitato qui, ma tra un po’ capiterà da un’altra parte, è inevitabile”, sostiene senza enfasi e quasi scusandosi per la previsione nera Pietro Molinaro, presidente della Coldiretti calabra, l’organizzazione agricola che con 30 mila iscritti è la più rappresentativa e forte della regione. Con il disaccoppiamento in alcuni casi è più conveniente lasciar marcire i prodotti nei campi o sugli alberi piuttosto che raccoglierli, anche utilizzando i disperati neri a 25 euro al giorno come succedeva a Rosarno, figurarsi poi se si usa manodopera regolare che tra contributi e assicurazioni costa un’ottantina di euro. E se il lavoro agricolo irregolare o regolare serve di meno, le conseguenze sociali, razziali e di ordine pubblico sono facilmente immaginabili, soprattutto in zone povere come Calabria e sud Italia.
In Calabria, in particolare, il disaccoppiamento deciso a livello comunitario nel 2005, è entrato in vigore per le arance da poco e ora si sta sommando agli effetti della concorrenza agricola straniera arrembante, spesso in grado di offrire merci a prezzi incredibilmente bassi, quasi stracciati. Le arance della Piana di Gioia Tauro rimarranno a sciuparsi sui rami perché sono di una qualità particolare, selezionata non per la tavola, ma per la spremitura e la trasformazione, per effetto di una scelta in parte casuale degli agricoltori e in parte a suo tempo ritenuta oculata, effettuata con l’intento di sottrarre il prodotto alle oscillazioni del mercato delle arance fresche, sottoposte ai cambi repentini dei gusti e delle mode dei consumatori. Anni fa pochi potevano prevedere che l’Europa avrebbe scelto il disaccoppiamento e che l’industria locale di trasformazione sarebbe arrivata a ritenere non più convenienti le arance della Piana, perché costano troppo, nonostante l’utilizzo degli schiavi neri, ed è economicamente più vantaggioso far arrivare il succo via nave dal Brasile fino al porto di Gioia Tauro.
Le imprese calabresi che fino all’altr’anno ritiravano il prodotto, per poi ricollocarlo presso i grandi marchi per la lavorazione successiva fino all’aranciata o al succo in bottiglia o nel tetra pak, quest’anno offrono dai 5 ai 7 centesimi al chilo, pur sapendo che i costi sopportati dagli agricoltori sono da 2 a 3 volte maggiori anche con l’uso di manodopera irregolare per la raccolta. Tutto ciò non significa che dagli scaffali dei superrmercati o dai frigo dei bar nel 2010 scomparirà l’aranciata “made in Calabria”.
Sfruttando una legge che non impone l’obbligo di indicare l'origine del succo nelle bevande, le aziende italiane di trasformazione spacceranno più o meno legalmente come made in Italy e in alcuni casi addirittura calabrese doc, aranciate e succhi che di italiano hanno solo l’etichetta. I consumatori probabilmente neanche si accorgeranno del trucco, ma per gli agricoltori è un pugno in faccia e per gli schiavi neri è la condanna certa all’espulsione da parte di chi li ha sfruttati e brutalizzati senza scrupoli per anni e anni.
Le prime avvisaglie dello stravolgimento delle convenienze in atto nelle campagne si sono avute con la raccolta delle olive, subito dopo è toccato alle arance, ma prima o poi la campana suonerà anche per altre produzioni, sia quelle seminate, sia quelle agricole. Nella disattenzione quasi generale, è da questa estate che il mondo agricolo europeo è in fermento, con proteste e manifestazioni che interessano perfino i paesi ricchi da un punto di vista agricolo, dalla Germania alla Francia alla Spagna. Per quanto riguarda l’Italia il disaccoppiamento è solo un po’ rinviato per alcune produzioni tipiche come il pomodoro che, come spiegano gli esperti, fino alla prossima estate resta “accoppiato” (dicono proprio così) al pari delle pere Williams e delle pesche. Poi che succederà? Quando l’Unione europea approvò il disaccoppiamento certo non sapeva che le conseguenze avrebbero potuto essere così devastanti. Come spiega con franchezza Francesco Postorino, direttore del servizio economico Confagricoltura, l’Europa era ossessionata dalle spese crescenti per l’agricoltura e decise di darci un taglio abolendo gli aiuti concessi sulla base delle quantità di prodotti coltivati e sostituendo questo sistema variabile con un meccanismo a cifra fissa. Stabilì che i contributi sarebbero stati erogati indipendentemente dal prodotto coltivato, sulla base della media di aiuti ottenuti per ettaro da ciascun agricoltore nei tre anni precedenti. I legislatori pensavano di prendere più piccioni con una fava: risparmiare quattrini, stroncare gli abusi e nello stesso tempo non incentivare le produzioni in eccedenza (ricordate proprio lo scandalo delle arance distrutte con le ruspe?) favorendo in qualche modo anche le esportazioni dei paesi agricoli in via di sviluppo. Come spesso succede, la via dell’inferno è lastricata di buone intenzioni. Nessuno previde che l’inferno si sarebbe materializzato presto, con una guerra tra bianchi e neri e le barricate nelle strade di un paese in Calabria, sud Italia.


il Fatto 14.1.10
Il fondamentalismo padano: una “Jihad” in salsa lumbard
Additato come nemico, il modello più vicino all’intolleranza del Carroccio è proprio il fanatismo islamico Dicono che nei paesi musulmani non ci sono le chiese ma è una colossale
bugia
di Massimiliano Boschi

Entrambi auspicano una guerra santa, entrambi vogliono i propri simboli religiosi sulle bandiere nazionali, entrambi utilizzano la religione per pura propaganda e alimentano la paura per volontà di potere. Le vicinanze tra i fondamentalisti islamici e i leghisti nostrani non sono mai state così evidenti. Ovviamente fare propaganda alla guerra santa tra i campi profughi piuttosto che nei bar della Padania produce effetti diversi. La violenza da una parte è solo evocata, dall’altra praticata ma, nei fatti, i leghisti inseguono gli integralisti sul loro stesso terreno.
Un esempio è l’articolo del 29 dicembre scorso sulla Padania dove Enrico Macchi attacca la Chiesa “schiacciata com'è su posizioni solidaristiche del tutto perdenti” e invoca una nuova battaglia di Lepanto “perché a volte la guerra, metaforica o meno, è necessaria per ottenere la pace”. Dalla Padania, quindi, l’invito a tutti i cristiani a coalizzarsi contro i mussulmani come fece Pio V a Lepanto. Una “Lega santa” per una “Jihad” in versione “lumbard”. Che i leghisti si ispirino ai fondamentalisti è poi esplicitato da loro stessi. Si veda la proposta di un referendum contro le moschee in Italia in nome di una presunta reciprocità: “là niente chiese, qua nessuna moschea”. In Marocco, però la Chiesa cattolica è presente con 18 chiese che possono ospitare i 20.000 fedeli presenti. In Tunisia le parrocchie sono 6, mentre i luoghi di culto in generale sono circa 15. La chiesa cattolica è presente persino in Pakistan con sette diocesi. É invece in Arabia Saudita, terra di Bin Laden, che sono proibiti gli edifici cristiani. Non risulta, però che la maggior parte degli immigrati presenti in Italia sia di origine saudita. Senza contare che centinaia di moschee sono presenti in Germania, Francia, Olanda. Evidentemente la Lega ha altre fonti di ispirazione e preferisce il modello saudita.
Ultimamente gli unici europei che stanno simpatici ai leghisti sono gli svizzeri solo perché hanno votato contro i minareti. Anche se la Svizzera ospita comunque 200 tra moschee e luoghi di preghiera islamici. Restano proprio solo i sauditi. Altrove hanno compreso che se si chiede il rispetto per la propria religione si deve rispettare quella dell’altro. In caso contrario si rischia di arrivare a quella guerra santa che sembra tanto affascinare i fanatici di ogni religione. Quelli che insieme al fanatismo coltivano un identico vittimismo. Si legga quanto scriveva Bin Laden nel sua “fatwa” del 1996: “Non dovrebbe venirvi nascosto che il popolo dell’Islam ha sofferto per le aggressioni, le iniquità e le ingiustizie infertegli dall’alleanza di crociati e sionisti e dai loro collaboratori; a tal punto che il sangue dei musulmani è diventato quello meno prezioso e il loro benessere è il bottino nelle mani dei nemici. Il loro sangue è stato versato in Palestina e in Iraq. Le orrende immagini del massacro di Cana, in Libano, sono ancora vive nella nostra memoria. Massacri in Tajikistan, (...) Filippine, Somalia, Eritrea, Cecenia e Bosnia. Massacri che danno i brividi e scuotono le coscienze”. Questo “invece” (si fa per dire), ha scritto il Gruppo Consiliare della Lega Nord in Emilia Romagna nell’introduzione all’opuscoloIslam e immigrazione. I numeri di un’invasione: “Nelle capitali dei paesi islamici si assaltano sedi diplomatiche, si bruciano simboli dell’odiato occidente, si distruggono chiese e si uccidono preti e missionari, si mettono bombe per annientare quel poco che resta delle comunità cristiane che da centinaia di secoli popola quei paesi”. Da “Al Qaeda” alla Lega: stesso tono, stesso vittimismo, stesso invito alla rivolta contro il nemico religioso. Così, se da una parte si semina il terrore, dall’altra una più gestibile “fifa”, ma intanto si innalza il muro attraverso una propaganda assillante su quanto “l’altro” sia pericoloso, tra provocazioni reciproche. E se da un parte si bruciano le bandiere occidentali, dall’altra si cammina con i maiali sui terreni adibiti alle costruzione delle moschee.
Ma l’effetto più assurdo e preoccupante è quello per cui per difendere “le nostre libertà”, i leghisti propongono di limitarle costantemente e in molti, anche a sinistra, si adeguano. Si veda per esempio la costante “talibanizzazione” delle città italiane. Ovvero il lunghissimo elenco di divieti in cui sono maestri i sindaci leghisti, seguiti purtroppo da primi cittadini di ogni colore politico in cerca di facile consenso. E così ci ritroviamo a vivere in città in cui è vietato lo stazionamento “a più di tre persone nei parchi nelle ore notturne” (come a Novara), in cui si multa un bambino di quattro anni perché mangia un panino davanti a una chiesa (Verona) in cui non si può camminare a torso nudo (Sanremo) o si segano le panchine dei parchi pubblici come a Treviso. Mentre il ministro dell’Interno, il leghista Roberto Maroni, vieta le manifestazioni davanti ai luoghi di culto. Destino inevitabile, perché quello che spaventa realmente leghisti e fondamentalisti non è la religione altrui, ma la libertà.

Repubblica 14.1.10
Quei silenzi sul lavoro nero
di Tito Boeri

I fatti di Rosarno sono la dimostrazione che le nostre leggi sembrano essere fatte per aumentare i benefici privati della clandestinità e per scaricarne i costi sull´intera collettività

Mi sono chiesto molte volte perché in Italia le associazioni imprenditoriali non protestino mai o quasi mai contro le nostre stringenti e anacronistiche politiche dell´immigrazione. Altrove sono le rappresentanze dei datori di lavoro ad alzare la voce quando si abbassano le quote di ingresso, impedendo l´arrivo di nuovi immigrati. Chi paga il lavoro di altri ha tutto da guadagnare nell´avere manodopera a basso costo, come quella immigrata. Paradossalmente in Italia sono invece i sindacati, tra le cui fila ci sono molti lavoratori poco qualificati che possono legittimamente temere la competizione salariale dei nuovi arrivati, che si sono opposti, soprattutto per ragioni ideologiche, alla chiusura delle frontiere, mentre le associazioni di categoria sono state silenti nell´accogliere leggi, come la Bossi-Fini, che impongono vere e proprie forche caudine ai lavoratori e datori di lavoro che vogliano mettersi in regola. Perché?
La risposta ci viene da vicende come quella di Rosarno e dalla prima indagine rappresentativa degli immigrati clandestini, condotta in Italia. Gli immigrati arrivano comunque perché le restrizioni sugli ingressi non vengono minimamente rispettate. Sarà così fin quando continueremo a tollerare il lavoro nero: gli immigrati vengono da noi sfidando ogni restrizione perché in Italia si trova facilmente lavoro senza aver bisogno di avere un permesso di soggiorno. Quindi i datori di lavoro trovano comunque le braccia a basso costo di cui hanno bisogno. Ma c´è di più: dato che si tratta di immigrati irregolari, in attesa di regolarizzare la loro posizione, possono pagarli ancora meno di quanto pagherebbero gli immigrati regolari. È una forma più o meno esplicita di ricatto: o accetta queste condizioni, oppure il lavoratore viene denunciato o comunque non aiutato a regolarizzarsi alla prossima sanatoria. Reati come quello di immigrazione clandestina servono solo a permettere di meglio esercitare questo ricatto, non certo a ridurre gli arrivi di irregolari.
I disperati che raccoglievano le arance a Rosarno guadagnavano 18 euro al giorno, con una paga oraria di due euro. Avevano paghe cinesi in un paese in cui il costo della vita è quasi cinque volte superiore che a Pechino, dove peraltro i datori di lavoro offrono agli immigrati un alloggio, seppur precario. Non solo in Italia, ma in tutto il mondo, la televisione ha fatto vedere in che condizioni vivevano gli immigrati di Rosarno. La Bbc, che aveva denunciato casi come quelli di Rosarno più di un anno fa senza stimolare alcuna reazione da parte delle autorità nazionali o locali, ha sottolineato come fossero condizioni peggiori che nelle baraccopoli dei paesi in via di sviluppo.
Questo uso delle leggi dell´immigrazione per pagare ancora di meno il lavoro degli immigrati non è limitato al solo Mezzogiorno. Anche al Nord chi è senza permesso di soggiorno o in attesa del suo rinnovo viene pagato, a parità di altre condizioni (tipo di lavoro, età, qualifica e genere), molto di meno di chi è in regola. Questo fatto emerge da un´indagine svolta da Erminero&Co per conto della Fondazione Rodolfo Debenedetti, nei mesi di novembre e dicembre 2009, in 8 città italiane ad alta densità di immigrati (Alessandria, Bologna, Brescia, Lucca, Milano, Prato, Rimini e Verona). Sin qui i dati sugli immigrati venivano raccolti mediante interviste a persone casualmente estratte dall´Anagrafe, che non contiene chi non è regolarmente in Italia. Oppure c´erano state indagini presso i centri della Caritas o di altre organizzazioni umanitarie che forniscono assistenza agli immigrati: il problema con questo metodo di rilevazione è che raccoglie informazioni solo su quegli immigrati irregolari che hanno talmente bisogno di vitto e alloggio da correre il rischio di rivolgersi a dei centri nei pressi dei quali ci potrebbero essere più frequenti controlli di polizia. L´indagine svolta nelle 8 città si è basata, invece, sul campionamento casuale di isolati, in aree ad alta densità di immigrati.
Ecco i primi dati: il 40 per cento di coloro che non hanno un permesso di soggiorno viene pagato meno di 5 euro all´ora contro il 10% tra chi è in regola. Otto irregolari su dieci lavorano anche il sabato e in quattro su dieci anche la domenica; tra chi ha un permesso di soggiorno queste percentuali sono significativamente più basse.
Chi assume un lavoratore immigrato, traendo benefici dal basso costo del suo lavoro, dovrebbe contribuire a sostenere le spese per la sua integrazione (scuola, sanità e servizi sociali) e pagarlo al punto da fargli raggiungere uno standard di vita tale da permettergli una convivenza civile con la popolazione autoctona. Da noi, invece, avviene esattamente l´opposto. Si entra facilmente ma poi la regolarizzazione è un percorso ad ostacoli che attribuisce un forte potere contrattuale al datore di lavoro. Insomma le nostre leggi sembrano essere fatte apposta per aumentare i benefici privati dell´immigrazione e per socializzarne i costi. Tra questi costi bisognerebbe aggiungere anche quello di non permettere agli immigrati di avere diritti civili. È un costo anche quello perché se avessero una voce, una rappresentanza a livello locale e nazionale, il loro disagio potrebbe esprimersi in modo civile, prima che si superi il livello di guardia.

il Fatto 14.1.10
Gela, un carcere lungo 50 anni e 2 inaugurazioni
Alfano annuncia piani mirabolanti ma le celle ci sarebbero già
di Giuseppe Lo Bianco

Gela . Q uello giovane è in tuta, leggermente stempiato. Il più anziano è in divisa, con i gradi di maresciallo. Sono gentili e annoiati, sorridono e non parlano. “Dobbiamo essere autorizzati dal ministero”. Si affacciano davanti la palazzina gialla perfettamente rifinita appena scorgono l’auto sconosciuta che entra tranquillamente dal cancello aperto nel cortile, schivando tubi elettrici, condotte fognanti e pezzi di lamiera in attesa di essere collocati. “Ce la fate a finire entro luglio?” domandiamo agli operai. “Sempre che non piove”, rispondono sorridendo. Fuori una Panda blu notte con le insegne della Polizia Penitenziaria parcheggiata accanto a tre auto degli operai al lavoro in un cantiere aperto in contrada Balate, ci ricorda che siamo in un’area di reclusione. Benvenuti nel carcere fantasma di Gela, dove il giovane ed il più anziano sono gli unici due agenti di custodia di una struttura vuota, perfettamente efficiente, eppure mai entrata in funzione. Sono i guardiani del tempo, più che dei detenuti, che qui non hanno mai messo piede. E quando il più giovane apprende che il carcere è stato progettato nel 1959, sorride ancora: “Non ero neanche nato”. Inaugurato due volte in 50 anni, consegnato ufficialmente lo scorso anno all’amministrazione penitenziaria, ma oggi non ancora pronto, il carcere di Gela è il simbolo paradossale delle opere pubbliche incompiute siciliane. E una spina nel fianco dei governi di centrosinistra e di centrodestra che sulla città hanno vomitato promesse mai mantenute, lasciando il Comune a gestire un appalto infinito che non si è ancora concluso. Nella città teatro della più sanguinosa guerra tra Cosa Nostra e la “stidda”, dei 150 incendi dolosi l’anno, delle estorsioni a tappeto, dove chi viene offeso da una parola ingiuriosa attende ancora sotto casa l’avversario per sparargli ai piedi, il carcere desolatamente vuoto diventa paradossalmente una “presenza rassicurante”, come dice un funzionario di polizia: “L’idea del carcere, per i gelesi, ancora oggi non è un’idea concreta”.
E così i detenuti, decine a settimana, vengono trasferiti nella struttura vicina di Caltagirone “che lavora solo con noi” ,dicono le forze dell’ordine, con notevole dispendio di tempo, uomini, e mezzi, costringendo anche i magistrati a lunghe trasferte per gli interrogatori. Lo progettarono nel 1959, come un carcere mandamentale, perchè a Gela esisteva solo la Pretura, il progetto fu approvato nel 1978 e i lavori iniziarono solo quattro anni dopo, nell’82. Ma otto morti in una notte, nel novembre del ’90, consigliarono il ministero della Giustizia ad istituire il Tribunale, dimenticando però un dettaglio burocratico: da casa mandamentale, il carcere avrebbe dovuto essere adeguato agli standard di casa circondariale. E così lo Stato contro i delinquenti gelesi si mosse a due velocità: pensò alla pena, con il Tribunale, ma non alla sua applicazione. Fra progetti, autorizzazioni, ricerca di investimenti e nuovi appalti volarono gli anni: mentre Gela scalava le classifiche delle città a maggior rischio criminale, e il governo mandava plotoni di agenti e carabinieri per fronteggiare una criminalità mafiosa e comune sempre più agguerrita, ad occuparsi del completamento del carcere è rimasto il Comune, stretto dalle denunce contro i mafiosi e le infiltrazioni negli appalti pubblici.
Sono gli anni delle inchieste sul calcestruzzo depotenziato, e il sospetto sfiora pure il penitenziario mai aperto: ma le indagini non accertarono nulla. Nel ’92 l’amministrazione di centro sinistra riuscì infine ad appaltare il terzo lotto, con cui furono costruite la palazzina degli uffici direzionali, della mensa e del personale penitenziario e la restante parte del muro di cinta, ancora oggi incompiuto. Costo, 5 milioni di euro. Un’iniezione di entusiasmo, dopo anni di paralisi, che convinse il ministro Mastella ad organizzare una finta inaugurazione: il 26 novembre del 2007 si presentò a Gela per ricevere da Crocetta le chiavi del carcere, trasferito formalmente al demanio; chiavi che il Guardasigilli continuò, purtroppo, a non usare. Mancavano, infatti, la cucina, la lavanderia e altri servizi, per un costo di ulteriori due milioni di euro. Nuovo appalto, nuovi lavori e nuova attesa: al Dap hanno impiegato mesi interi per stabilire l’esatta qualificazione di un carcere del tutto sconosciuto, eppure esistente da circa 25 anni. Sui ritardi biblici non è mai stata aperta alcuna inchiesta. “Se ci sono reati sono ormai prescritti – dicono in procura – e lo stesso codice non offre molti appigli”. Oggi la conclusione dei lavori è prevista nel luglio prossimo: il carcere ospiterà 96 detenuti in 48 celle con bagno, avrà 80 agenti di custodia e altri educatori e personale amministrativo. Una piuma nel programma di interventi del ministero della Giustizia, che ha bisogno di 20 mila posti letto. “Gela – ha detto uno dei fedelissimi del guardasigilli, il deputato Alessandro Pagano – è la prima delle risposte volute dal ministro Alfano, che vanno in tale direzione”. Sempre, come dicono gli operai, che non piova.

il Fatto 14.1.10
13, l’articolo della libertà personale
Il 4° comma punisce “ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà”, ma talora è disatteso: di recente, persone indifese sono state sottoposte alla violenza dei loro custodi
di Lorenza Carlassare

Con l’articolo 13 “La libertà personale è inviolabile” inizia la Parte I della Costituzione relativa ai “diritti e doveri dei cittadini”. È l’uomo nella sua fisicità che innanzitutto viene tutelato. Non a caso l’habeas corpus, la libertà dagli arresti arbitrari e da interferenze sulla persona, apre il capitolo dei diritti: senza di essa il resto non ha valore. È un diritto antico la cui prima affermazione ci porta lontano, nell’Inghilterra medievale: è vero che non riguardava tutti ed erano i signori feudali a rivendicarla contro il re, ma la formula è la stessa. Le Costituzioni attuali riprendono l’antico testo riproducendo i meccanismi di tutela fissati nella Magna Charta (1225): “Nessun uomo libero sarà arrestato, imprigionato, spossessato delle sue terre o della libertà... o molestato in qualsiasi modo, né metteremo né faremo mettere la mano su di lui se non in virtù di un giudizio legale dei suoi pari e secondo la legge del paese”. Nello storico documento sono fissate le garanzie di oggi: “riserva di giurisdizione” e “riserva di legge” ripetute nell’art. 13, comma 2: “Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale se non per atto motivato dell’Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge”. Solo la “legge”, atto solenne del Parlamento, può stabilire in via generale, eguale per tutti, i casi e modi nei quali la libertà può essere limitata. E solo al “magistrato” spetta emanare l’atto restrittivo della libertà di un persona. Atto “motivato” che indica le ragioni che lo giustificano e la norma di legge in base alla quale è emesso. Previo “giudizio legale”, diceva la Magna Charta, e “secondo la legge del paese”: non per decisione del re, ma solo mediante un giudizio legale poteva essere preso un provvedimento restrittivo; e non in base a un decreto regio, ma secondo la legge del paese. Lo schema della tutela, come dicevo, è ancora il medesimo.
Perché il giudice e non l’autorità di polizia? Perché la legge del Parlamento e non il decreto del governo? La ragione è importante e coinvolge l’organizzazione costituzionale intera, il cuore stesso del costituzionalismo e della democrazia. La legge è garanzia di libertà perché è una fonte democratica, votata dai rappresentanti del popolo, in un Parlamento in cui oltre alla maggioranza siedono le opposizioni, le quali, se non riescono a condizionare l’esito del voto, possono far sentire la loro voce, e, per la pubblicità dei lavori parlamentari, raggiungere i cittadini tramite i “media”, suscitando reazioni che in una democrazia normale dovrebbero indurre a modificare o ritirare il progetto. I decreti del governo, invece, presi nel chiuso del Consiglio dei ministri, senza la presenza delle minoranze e senza pubblicità, non sono una garanzia. Norme restrittive o discriminatorie possono essere approvate senza contrasto .
La magistratura è garanzia in ragione della sua indipendenza, condizione prima dell’imparzialità di giudizio. Indipendenza derivante dalle norme che eliminano le cause della “parzialità”, in primo luogo dipendenze o legami col potere politico: “I giudici sono soggetti soltanto alla legge” (art. 101, comma 2); “La magistratura costituisce un ordine autonomo indipendente da ogni altro potere” (art. 104, comma1); “I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni (art.107, comma 3) e non hanno capi gerarchici. Ad evitare interferenze e condizionamenti che alterino l’imparziale esercizio della giurisdizione, fra magistratura e organi politici c’è il Consiglio superiore della magistratura. Ad esso sono affidati tutti i provvedimenti sulle persone e la carriera dei magistrati – assunzioni, assegnazioni, trasferimenti, promozioni, provvedimenti disciplinari (art. 105) – sottratti al governo ad evitare che li usi in modo favorevole o punitivo per incidere sull’imparzialità di chi amministra la giustizia. L’autorità di pubblica sicurezza, per la sua stretta dipendenza dal governo, non può essere garanzia; dunque non può assumere provvedimenti restrittivi della libertà personale tranne in “casi eccezionali di necessità ed urgenza indicati tassativamente dalla legge” (art. 13, comma 3), “provvedimenti provvisori” da comunicare entro 48 ore all’autorità giudiziaria che, se non li convalida entro 48 ore, “s’intendono revocati e restano privi di ogni effetto”. Il 4° punisce “ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà”, ma talora è disatteso: di recente, persone indifese sono sottoposte alla violenza dei loro custodi. Il 5°, “La legge stabilisce i termini massimi della carcerazione preventiva”, vuol mitigare una situazione grave per la vita di persone poi, magari, riconosciute innocenti: i termini dovrebbero essere brevi e la detenzione, prima del processo, eccezionale. L’art. 13 ha interessanti aperture: talora è riferito anche alla libertà spirituale, o inteso come garanzia non solo da arresti arbitrari, ma da qualunque intervento sul corpo: nella questione dei trattamenti sanitari e del “fine vita” l’habeas corpus può dunque giocare un ruolo.

l’Unità 14.1.10
Coppia fertile ottiene diagnosi preimpianto. Legge 40 a rischio

Le reazioni. Per la Roccella è eugenetica, ma avevano già perso 4 bimbi

Una coppia fertile è stata autorizzata a sottoporsi alla fecondazione assistita ricorrendo alla diagnosi genetica preimpianto. Il Giudice Antonio Scarpa del Tribunale di Salerno ha dato il via libera, per la prima volta in Italia, alla diagnosi genetica a genitori che non hanno problemi di sterilità ma sono portatori di una grave malattia ereditaria, l'Atrofia muscolare spinale di tipo 1(SMA1). La donna fertile che potrà ora ricorrere alle tecniche di fecondazione assistita e che potrà ricorrere alla diagnosi preimpianto ha quasi 40anni, lombarda, con un marito quasi coetaneo e fertile come lei, è riuscita ad ottenere in tribunale quello che la legge 40 sulla fecondazione assistita le negava. La coppia infatti nel 2003 videmorire una figlia di appena 7 mesi, colpita “Atrofia Muscolare Spinale di tipo 1” (SMA1) che causa la paralisi e atrofia di tutta la muscolatura scheletrica e costituisce oggi la più comune causa genetica di morte dei bambini nel primo anno di vita, con una morte per asfissia. «Siamo riusciti ad avere un bambino sano nel 2005 ma siamo stati costretti ha spiegato senza nascondere la grande emozione a tre aborti perchè questa malattia è assolutamente incompatibile con la vita». La sottosegretario Roccella insorge: «È una sentenza gravissima. Così si introduce il principio che la disabilità è un criterio di discriminazione rispetto al diritto di nascere». La legge 40 scricchiola.❖

l’Unità 14.1.10
Intervista a Shulamit Aloni
«La sinistra non c’è più Il nostro Israele si è imbarbarito»
«Ciò che stiamo facendo in Cisgiordania è peggio dei pogrom contro gli ebrei compiuti dai cosacchi tanto cari a Lieberman»
La fondatrice di Peace Now: la democrazia è incompatibile con l’oppressione su un altro popolo. Il peggiore è il ministro Barack. Pericoloso uomo di guerra che ha rivendicato l’attacco a Gaza
di Umberto De Giovannangeli

Deriva fondamentalista
«Oggi il Paese per cui ho combattuto si è trasformato in una etnocrazia. Occorre una rivolta morale»

Un pesante j’accuse: «Ciò che stiamo facendo in Cisgiordania è peggio dei pogrom contro gli ebrei compiuti dai cosacchi tanto cari a Lieberman»

Chi è. L’ex ministra di Rabin che fondò «Peace Now»
SHULAMIT ALONI FONDATRICE DEL MERETZ E DI «PEACE NOW» 81 ANNI
Fondatrice del movimento pacifista «Peace Now» e del Meretz, scrittrice, è stata ministra dell’Educazione nel governo guidato da Yitzhak Rabin, finendo nel mirino della destra ortodossa e ultranazionalista.

La sinistra dovrebbe incarnare una idea progressiva di democrazia. Dovrebbe essere portatrice di una visione aperta della società. Una sinistra degna di questo nome avrebbe dovuto denunciare l’imbarbarimento della società, dicendo chiaro e forte che democrazia e oppressione esercitata contro un altro popolo sono tra loro inconciliabili. E su questa linea avrebbe dovuto rappresentare un’alternativa ideale, politica, etica, alla destra fondamentalista e razzista che oggi governa. Una destra che alimenta l’estremismo fascista dei coloni, la destra che giudica i suoi avversari dei traditori da neutralizzare. Una sinistra, mi riferisco al partito laburista, che non solo non contrasta questa destra ma addirittura ci governa assieme, è una sinistra che non ha ragion d’essere». A sostenerlo è una delle figure storiche della sinistra laica e pacifista d’Israele: Shulamit Aloni. Con l’intervista alla fondatrice di «Peace Now», l’Unità prosegue l’inchiesta su Israele e la crisi della sinistra avviata con un articolo dello storico Zeev Sternhell e un’intervista all’ex segretario generale del Labour, Ophir Pines-Paz. Gli strali di Shulamit Aloni s’indirizzano soprattutto verso il leader laburista e attuale ministro della Difesa, Ehud Barak: «È un politico pericoloso, tronfio», afferma decisa.
Come giudica la sinistra israeliana?
«La sinistra? Perché esiste una sinistra oggi in Israele? Questa sì che sarebbe una notizia. La verità, amarissima, è che la destra ha due mani sinistre, ma oggi la sinistra semplicemente non esiste. Netanyahu chiude e apre...».
Ed Ehud Barak?
«Ha fatto del “poltronismo” la sua unica fede politica. È un politico pericoloso a causa del suo temperamento estremista e perché è un uomo di guerra. Ma come può continuare a definirsi di “sinistra” un uomo che ha rivendicato la guerra di Gaza con i crimini, le punizioni collettive, le devastazioni perpetrate?».Pericoloso quanto i coloni oltranzisti? .
«La loro protervia mi spaventa, il loro razzismo verso i palestinesi e gli arabi israeliani m’indigna. Costoro sono un cancro che rischia di propagarsi in tutto il corpo della società israeliana, devastando ciò che resta del nostro tessuto democratico. Questa destra non vuole la pace, ma l’intera Terrasanta senza arabi e moschee. Mi piange il cuore nel dire che oggi Israele, il Paese per cui ho combattuto, è marchiato dal fanatismo religioso».
Cosa dovrebbe fare una sinistra «degna di questo nome»? «Difendere la democrazia. E per farlo affermare con nettezza che democrazia e oppressione esercitata su un altro popolo sono tra loro inconciliabili. Una sinistra degna di questo nome , dovrebbe dire che ciò che stiamo facendo in Cisgiordania è peggiore di tutti i pogrom compiuti contro gli ebrei...».
Affermazione pesantissima...
«Mi riferisco ai pogrom compiuti da quei cosacchi tanto ammirati da Avigdor Lieberman (ministro degli Esteri e leader del partito russofono ultranazionalista Israel Beitenu, ndr). È straziante, ma lo Stato di Israele non è più una democrazia. Noi viviamo in una etnocrazia soggetta a un ordinamento “ebraico e democratico”».
Un tema che divide Israele è quello della trattativa con Hamas legata alla liberazione di Gilad Shalit, il giovane caporale di Tsahal rapito oltre tre ani è mezzo fa da un commando palestinese. Il premier Netanyahu ha affermato che non ha alcuna intenzione di liberare palestinesi che hanno le mani macchiate del sangue di ebrei...». «Nessuno dovrebbe tirare fuori questa sciocchezza del “sangue sulle mani”. Dal 2000, con lo scoppio della seconda intifada, abbiamo ucciso migliaia di persone. Anche noi abbiamo sangue sulle nostre mani. Non ci limitiamo a negare alla popolazione palestinese i diritti umani. Non rubiamo loro solo la libertà, la terra e l’acqua. Applichiamo punizioni collettive a milioni di persone. E tutto questo in nome di un diritto di difesa che tutto giustifica e legittima...Una sinistra degna di questo nome dovrebbe scatenare una rivolta morale contro questa ignominia...».
Non si sente sola in questo j’accuse...
«Per fortuna non lo sono, ma anche se lo fossi non smetterei di difendere quei valori, quei principi, quelle idee che hanno segnato la mia vita. Che mi hanno portato a combattere per difendere Israele, il suo diritto all’esistenza e la sua democrazia. Una democrazia oggi minacciata dall’interno».❖

l’Unità 14.1.10
Sibilla Aleramo «Le nuove donne costruiranno il mondo nuovo»
A cinquant’anni dalla morte di Sibilla Aleramo, l’Unità on line ripropone alcuni testi che l’autrice di «Una donna» pubblicò sul nostro giornale. Qui trovate «Donne di ieri donne di oggi» dal «Diario».

Da «l’Unità», 1959 Una riflessione sulla spinta femminile al cambiamento della società
Nobiltà collettiva «Siamo tante e manifestiamo il nostro valore e la nostra spiritualità»

Vita, opere e impegno di una scrittrice femminista
La vita, le opere, i commenti e gli articoli e i testi pubblicati su «l’Unità». Il nostro sito on line (www.unita.it) dedica uno speciale a Sibilla Aleramo nei 50 anni dalla morte. Nata Rina Faccio nel 1876, diventa Sibilla Aleramo nel 1906, firmando il suo primo romanzo, «Una donna». Seguono «Il passaggio, «Andando stando», «Gioie d’occasione», «Orsa minore» e «Amo, dunque sono». Antifascista, nel Pci dal ’49, scrive per «l’Unità» e «Noi donne». Il «Diario» scritto fra il ’45 e il ’60 uscirà postumo.

Giovani amiche, intellettuali, oppur casalinghe, o anche operaie (e perfino contadine come la brava emiliana N.N. che si fermò mesi fa a Roma per conoscermi di persona, qualche ora, reduce da Napoli con una medaglia vinta ad un concorso ove aveva recitato una mia poesia) molte giovani amiche, dicevo, mi chiedono spesso: «Tu, che ci hai tanto preceduto, tu che nel tuo romanzo Una donna, son cinquant’anni, vero? hai alzato il primo grido per la nostra indipendenza e per la nostra dignità, in pagine che ci sembrano scritte oggi, tu, che ne pensi di noi? E io... nessun compenso nella mia lunga vita m’è giunto mai più alto e commovente.
SIAMO IN TANTE
Donne di oggi. Diverse da quelle della mia giovinezza? Certo sì, dalle intellettuali e dalle borghesi d’allora, italiane che mi furono in gran parte ostili o finsero d’ignorarmi e n’ebbi profonda malinconia. Le altre, le massaie, le operaie, le agricole non immaginavano neppure di poter organizzarsi, di poter difendersi. Esisteva qualche grande semplare maggiore a me anche d’età, che mi sostenne e che non ho mai dimenticato, Alessandrina Ravizza sopra ogni altra che fu la fondatrice dell’Università Popolare amata come una mamma, e il suo ritratto è qua sul mio tavolo; Anna Kuliscioff, Linga Malnasi, fra le artiste la D. e, la Serao, la Deledda. Ma ecco, la differenza d’oggi è soprattutto questa, che le donne che lavorano non si sentono più sole, sanno di esser tante e d’essere una forza. E non soltanto le cosiddette lavoratrici del braccio, ma anche quelle del mondo culturale, anche se non tutte lo dichiarano. Deputate, giornaliste, medichesse, avvocatesse, pittrici, maestre elementari, libere docenti di tendenze sociali diverse, persone fra loro avversarie, eppure, eppure hanno quasi tutte, ben nitido o nel subcosciente, il senso di appartenere ad una esercito nuovissimo, insignite di una nobiltà che le antenate mai supposero.
Una nobiltà collettiva, ecco, e che nello stesso tempo distingue quell’esercito da quello maschile, inconfondibilmente. Queste donne manifestano il loro valore, la loro spiritualità in quanto donne, in modo che non era mai stato possibile sinché la specie femminea veniva considerata solo per i suoi attributi e i suoi meriti di moglie di madre, in nulla partecipe, in nulla responsabile, di quel che il mondo virile creava. Le donne, oggi concorrono nella creazione del mondo nuovo, della nuova società: e vi concorrono con le loro qualità intrinseche, mai manifestate se non nel leggendario matriarcato, chi sa?
Quando io, alcuni anni dopo la pubblicazione di Una donna, scrissi e pubblicai in un giornale letterario alcune pagine intitolate Apologia dello spirito femminile (poi raccolte nel volume Andando e stando e più di recente in Gioie d’occasione) pochi in Italia le rilevarono: vi su solo un critico americano, a me ignoto, ad affermarne l’originalità e l’importanza. In verità e le mie giovani amiche d’oggi sono certa non mi accuseranno di vanità per questo richiamo originali e importanti erano, quelle paginette, e il critico d’oltre Oceano diceva nientemeno che le sorelle di tutto il mondo dovevano essermene grate. Perché io affermavo nientemeno che la donna non s’era ancor mai rivelata nella sua vera intima essenza, diversa fondamentalmente da quella maschile (parlavo delle scrittrici ma il discorso poteva avere una estensione più vasta).
Ebbene, la sorte m’ha dato di vivere tanto da vedere profilarsi l’avvento di quella mia remota trepida intuizione.
Due tremende guerre si sono succedute da allora. Una nuova formidabile forma di vita sociale s’è instaurata nella metà quasi del nostro globo, ed anche dove ancora non s’è attuata i sistemi d’esistenza stanno ovunque mutando, e ovunque, ovunque, la donna più ancor dell’uomo sta modificandosi nella sua più profonda essenza, non è forse vero, giovani amiche mie, giovani compagne?
Nella sua più profonda, più segreta essenza la donna va rivelandosi a se stessa, ora che il campo della sua attività ogni di meravigliosamente s’estende. Quanto più ella si sente partecipe e necessaria nel grande lavoro di costruzione della nuova umanità, tanto più il suo spirito coglie le differenze con lo spirito maschile, le avverte d’uguale valore, ma direbbe, più fresche, più pure, sì, e ne prova un tacito stupore, che da al suo sorriso una grazia quasi infantile.
Un sorriso che credo sia avvertito dagli uomini e li sproni ad essere degni per la maggior gloria del tempo che sopraggiunge.❖
Da «l’Unità» 29 luglio 1959



Repubblica 14.1.10
Shoah
“Non esiste la banalità del male”
di Susanna Nirenstein

Lo storico Friedländer ribalta le tesi di Hannah Arendt: "Non è stata una macchina burocratica a portare avanti lo sterminio"
Non è d´accordo con Goldhagen: "Fu Hitler a giocare un ruolo fondamentale"
"Fu l´antisemitismo apocalittico, redentivo, a partorire questo abominio"

Nato a Praga pochi mesi prima che Hitler prendesse il potere, nascosto in un convento in Francia fino alla fine della guerra mentre i genitori venivano deportati e uccisi ad Auschwitz, battezzato e, infine, dopo aver capito di essere ebreo, emigrato clandestinamente in Israele nel ‘48, Saul Friedländer è il maestro dei maestri viventi della ricerca sulla Shoah, premio Pulitzer 2008: la sua opera più importante (i due volumi La Germania nazista e gli ebrei.1933-´39 e Gli anni dello sterminio. 1939-´45, ambedue usciti con Garzanti, ma non si può non menzionare il suo stupendo e autobiografico A poco a poco il ricordo) con un metodo del tutto innovativo, ha dipinto un affresco corale che non lascia nel silenzio nessuno dei protagonisti del periodo: non solo la leadership del III Reich e i loro provvedimenti dunque, ma i tedeschi nel loro complesso, governi e popolazioni delle nazioni intorno, le vittime, i loro atti, i loro pensieri riportati dai diari in tutto il continente. Ora, in un piccolo libro edito da Laterza (Aggressore e vittima, pagg.153, euro 15), in una serie di lezioni, tira le fila dei suoi studi e afferma, a dispetto di altri storici, la centralità dello sterminio nella politica nazista, constata la partecipazione attiva alla Shoah dei paesi conquistati dal III Reich (salvo l´Italia, ci tiene a dire), non è d´accordo su alcuni aspetti del lavoro di Hilberg e della Arendt né con chi vede nello sterminio un prodotto estremo della modernità ma invece lo inquadra come il prodotto principale dell´antisemitismo "redentivo", apocalittico, di Hitler e quindi di una ossessione pseudoreligiosa che fa molto pensare, in chi scrive, al fondamentalismo di oggi. Il volume contiene anche la storia di due storici ebrei, uno tedesco, Ernst Kantorowicz, l´altro il notissimo Marc Bloch, fondatore delle Annales, morto nella Resistenza: ambedue increduli della persecuzione a fronte del loro patriottismo, e disposti in un certo senso, in modo molto diverso l´uno dall´altro, a mettere da parte la propria identità: un focus speciale e conturbante.
Telefoniamo a Saul Friedländer, oggi professore all´Ucla di Los Angeles (ma anche all´università di Tel Aviv), e lui ci risponde con mille accenti, slavo, francese, anglosassone, israeliano... una summa della storia del Novecento.
Professore, il principio che lei ha adottato è l´ascolto di tutte le voci. Non si può limitare lo studio alle decisioni naziste e alle cifre della morte, ribadisce in questo libro. Una critica implicita ad altri storici, a chi?
«La storia in genere tende ad addomesticare gli eventi trovando delle spiegazioni logiche per tutto. Io invece volevo una narrazione precisa, erudita, in cui fossero però presenti le vittime che, col loro dolore, illusioni, paure, procurassero dei veri e propri momenti di incredulità, spezzassero l´autocompiacimento del distacco scientifico. Fare una storia "integrata", significa mostrare come ogni aspetto interagisce con l´altro, i tedeschi, gli altri paesi europei, e soprattutto gli ebrei e i loro comportamenti, le parole, che nel passato sono stati analizzati solo a parte. Solo con le testimonianze che arrivano dai diari e interferiscono con gli altri attori si riesce a dipingere il quadro così com´era. E solo così la storia diventa non addomesticabile».
Anche Raul Hilberg con La distruzione degli ebrei d´Europa (1961) ha addomesticato la storia?
«Sì, anche se il suo lavoro è meraviglioso, il primo, il più importante, ma in realtà è la storia della macchina burocratica nazista. Gli ebrei come soggetti ne stanno fuori. Poi ha aggiunto altri studi, ha attaccato i Consigli ebraici, gli Judenrät, ma non scrisse davvero cosa stava succedendo agli ebrei. Il cuore della ricerca rimase la politica nazista. Invece nel racconto devi sentire improvvisamente un bambino polacco di 12 anni che nel suo diario chiede a Dio cosa sta succedendo. Quello smarrimento è parte fondamentale della storia».
Tra le sue conclusioni, c´è quella sulla decisa partecipazione, o al massimo sul silenzio, di tutte le popolazioni laddove ci furono deportazione e sterminio. Come fu possibile?
«In Polonia, l´antisemitismo era profondo; perfino alcuni leader della resistenza antitedesca non furono scontenti che la Germania stesse risolvendo il "problema degli ebrei". In generale l´antisemitismo, che aveva origini religiose, creò indifferenza per la sorte del popolo ebraico».
Gli italiani, lei scrive, sono un enigma.
«Furono un´eccezione. Eppure doveva essere il contrario vista la forte influenza della Chiesa. Invece nel complesso gli italiani, compresi molti alti ufficiali di Mussolini, aiutarono gli ebrei, come ad esempio, ma non solo, nel Sud Est della Francia finché l´Italia ebbe il controllo della regione».
Hitler giocò un ruolo fondamentale, lei dice, non furono i tedeschi a chiedergli lo sterminio. Lei non la pensa come lo storico Goldhagen.
«Hitler non salì al potere per il suo antisemitismo, ma per motivi economici. Però era ossessionato dall´idea che gli ebrei fossero alla base della sconfitta della I Guerra Mondiale e, in quanto liberali e rivoluzionari al tempo stesso, corrodessero dal di dentro il paese, l´intera Europa. Portò avanti con sistematicità prima il progetto di escluderli dalla società, poi di spingerli fuori dal territorio, infine, quando la Russia contrattaccò e gli americani entrarono in guerra (anche Roosevelt secondo Hitler era controllato dagli ebrei) si convinse che se non fossero stati uccisi, avrebbero causato di nuovo la disfatta. L´ho definito antisemitismo redentivo, significa credere che per salvare il mondo devi liberarti degli ebrei. Prima fu il credo di un piccolo gruppo di nazionalisti: una volta al potere i nazisti, divenne la dottrina ufficiale di un paese, amplificata da una propaganda martellante».
Era un´ossessione ideologica, quasi religiosa.
«Esattamente. Se fosse stata solo la macchina burocratica a portare avanti lo sterminio, se Hilberg avesse ragione, allora il meccanismo si sarebbe fermato quando la guerra iniziò ad andare male. Tutto allora divenne difficile, pensi allo sforzo che richiedevano anche solo i trasporti verso i lager. Eppure, al contrario, i tedeschi più perdevano, più andavano veloci nella distruzione degli ebrei. In Ungheria, pochi mesi prima della caduta, lo stesso Hitler spiegò ad Antonescu che doveva liberarsi dei suoi 700 mila ebrei. Ne furono sterminati 400 mila».
Quindi lei non è d´accordo con Hannah Arendt e la sua "banalità del male".
«Il male non era affatto banale, gli uomini forse. Ma che il paese più avanzato del continente abbia concepito di sterminare in modo industriale tutti gli ebrei d´Europa e l´abbia fatto, è quanto di più estremo e inumano si possa immaginare. Gli altri stermini, e tanti ce ne sono stati, non hanno mai visto questa ricerca fino all´ultimo uomo, dietro ogni angolo. Hannah Arendt scrisse delle cose giuste, ma sono quelle che ha preso da Hilberg: il tono invece che ha usato verso gli Judenrät, quell´ironia... non sono affermazioni che vogliono capire, compatire. La sua tesi sugli Judenrät poi, che rendeva gli ebrei collaboratori della distruzione del loro stesso popolo, è largamente infondata, ogni loro influenza fu marginale».
Non è d´accordo nemmeno con gli storici, come Gotz Aly, che giudicano la Shoah un aspetto non primario rispetto agli obiettivi principali del Reich.
«È una scuola di ottimi storici, però considerano le politiche antiebraiche tedesche non secondarie, ma comunque come conseguenze automatiche della colonizzazione a Est e la redistribuzione del potere economico. Io penso che la persecuzione degli ebrei non fu l´unico scopo di Hitler ma certo fu centrale, e con la guerra lo divenne ancora di più. Il suo testamento è chiaro: quello è il tema fondamentale».
Crede anche che la Shoah non sia figlia della modernità, un´opinione invece largamente condivisa.
«Non si sarebbe potuta compiere senza l´industrializzazione della morte, è chiaro. Ma non fu la modernità a portare tanta inumanità. Non ha prodotto niente del genere in nessun paese sviluppato. È una forzatura. Fu invece l´aspetto ossessivo, ideologico, apocalittico a partorire questo abominio».