sabato 16 gennaio 2010

l’Unità 17.1.10
Vogliamo Emma
di Lidia Ravera

Dicono che gli uomini “fanno rete” e noi no. Che loro si scambiano favori , si promettono fedeltà, uno porta all’altro l’acqua con le orecchie, poi passa a riscuotere e l’altro gli ammolla il posto blindato sulla lista vincente, una consulenza , la direzione di qualcosa. Codice paterno o abito mafioso? Inutile provare a peggiorare, siamo diver-
se. Vogliamo Emma Bonino alla regione Lazio, perché è intelligente e competente. Antiretorica e appassionata. Antirazzista e cittadina del mondo . Laica e ben decisa a non leccare i piedi al Papa né adesso né mai. Ci piace perché non bamboleggia, non mignoteggia e non indietreggia. Ci piace perché ha retto 40 anni in politica senza diventare una replicante. Ha mantenuto la sua voce, il suo stile, le sue idee e le sue rughe. Ci piace perché non ci darà niente in cambio del nostro sostegno. E nemmeno lo vogliamo. Il codice materno è: gratuità.

Repubblica 17.1.10
Il debutto di Emma "Rappresenterò i cattolici ma senza farmi benedire"
Prima uscita pubblica all´Eliseo: "Governare bene è scontato, altro è metterci ideali"
di Alessandra Longo

ROMA - «La principessa, dov´è la principessa?». Marco Pannella si guarda intorno in cerca di Emma Bonino. Il teatro Eliseo di Roma è affollatissimo. E´ la prima uscita della candidata presidente della Regione Lazio per il centrosinistra (e da subito rassicurerà cattolici, dipietristi e rifondaroli). Eccola arrivare, la «principessa»: un po´ in ritardo, affannata, giacca blu e felpa rossa, eccola infilarsi incredula e veloce nella sala gremita. Tutti in piedi, standing ovation. Per gli altri, i tanti rimasti fuori, maxi-schermo nel ridotto. Pannella la segue, un passo indietro. Con lui c´è lo psicanalista cult Massimo Fagioli, acceso sponsor di Emma e ormai in freddo con Bertinotti, dopo una bruciante passione («Ha puntato tutto su quel catto-comunista di Vendola...»).
Che ci fa qui la Bonino? E´ l´ospite d´onore che apre il dibattito politico-psichiatrico fra i due guru. Tema: «Il potere della non violenza». Un´iniziativa sulla carta da tempo, promossa da Quaderni Radicali, l´Asino d´oro editore e la rivista Left. Ovvio che la scesa in campo rivoluzioni l´agenda. Emma è in corsa, è lei la protagonista del giorno, ha appena incassato l´ok unanime del Pd laziale: «Una scelta che mi emoziona e responsabilizza. Ce la metterò tutta per rappresentare i valori e le passioni che tanto hanno segnato il popolo di sinistra, quello cattolico e, in generale, il popolo italiano in questi anni». Messaggio ai «credenti», così li chiama lei. «Credenti con i quali – dice in un´intervista a Left – non ho mai avuto problemi. Le grandi battaglie civili di questo Paese sono state vinte anche col sostegno del mondo cattolico».
L´aspetta «un´impresa in salita» ma è convinta che sia possibile «un nuovo grande inizio». Anche con Di Pietro e Ferrero: «In qualche modo sanno perfettamente non cosa rappresento ma chi sono». E chi è allora Emma Bonino? Una che ci crede ancora: «Marco dice che le uniche cose concrete che fanno girare il mondo sono le idee. Spero di rappresentare le aspirazioni degli italiani che vogliono una politica più responsabile, più coerente, più onesta».
Sa benissimo le priorità del Lazio: «Sanità, trasporti, rifiuti». Ha in mente di portare, con la sua candidatura, il «valore aggiunto della trasparenza» negli appalti, nelle nomine, nei curriculum, ma si prende la sala per volare più alto: «Vedete, senza cultura non c´è buona politica. Si può sempre dar vita ad un buon consiglio di amministrazione, governare una Regione, un Paese. Ed è scontato che ogni ruolo vada coperto al meglio. Altra cosa, però, è immetterci idee e ideali. Ecco, questo vi chiedo: «Metteteci qualcosa di vostro, della vostra individualità in questa sfida». «Fagiolini» in delirio, applausi a scroscio, «Emma, facci sognare». A Ilaria Bonaccorsi, direttrice editoriale di Left, che le siede accanto sul palco, rivela la sua ultima, «appassionante» lettura: il libro del dissidente liberal iraniano Ramin Jahanbegloo, «Leggere Gandhi a Teheran». Le piace quando l´autore dice: «Non esistono scontri di civiltà ma solo scontri di intolleranze». Le piace «la società aperta» della moschea di Cordoba, «dove il venerdì pregavano i musulmani, il sabato gli ebrei, la domenica i cristiani». Nel primo giorno da candidata ufficiale, Emma sceglie di far capire quanto sia lontana dal cinismo della politica e anche da Renata Polverini, sua avversaria: «Abbiamo una visione diversa del mondo. Certo non chiamerò il prete a far benedire il mio comitato elettorale...».

Repubblica 17.1.10
Cattolici in politica
Il monito di Prodi a Bersani "Il Pd non è un partito centrista"
Il Professore da l'ok alla Bonino: "Nel Lazio può vincere"
di Marco Marozzi

Si sente necessità del cristianesimo sociale. I cattolici hanno perduto la propria missione perché i loro valori non sono stati tradotti in politica

MODENA - Benedice Emma Bonino nella sua corsa per il Lazio. «Come mio ministro è stata bravissima e leale, molto leale. E tale è rimasta dopo. Se c´è qualcuno che può vincere, è Emma». Con un avvertimento: «Deve però dimostrare di essere la sintesi di una coalizione, di essere capace di unire». Romano Prodi fino ad ora ha evitato "incursioni" nella gestione "bersaniana" del Pd. Ma al convegno per ricordare Ermanno Gorrieri non riesce a trattenersi. E da il suo placet alla "corsa" dell´esponente radicale nel Lazio.
Nello stesso tempo veste i panni del "padre nobile" e trasmette qualche raccomandazione ai democratici. A cominciare dal rapporto con l´Udc di Pier Ferdinando Casini: va bene l´alleanza ma non può essere a trazione "casiniana". Bisogna evitare omologazioni «centriste». I punti di riferimento devono rimanere i «valori» e il «fare». «Sono un testone: bisogna essere coerenti in politica e nell´etica». E in questo senso più che il centrismo sarebbe indispensabile l´impegno dei cattolici in politica: «Se ne sente la mancanza». Il Professore, dunque, accetta il ruolo di "saggio": «Il rischio vero è che persino un settantenne si senta giovane, con questi chiari di luna».
Nel palazzo modenese voluto da Gorrieri e da un sindaco comunista, Prodi evoca l´Ulivo e il Pd. In prima fila i dirigenti regionali democratici, il bersaniano Bonaccini e la franceschiniana Bastico, parlamentari, professori, cooperatori, il capo degli europarlamentari Pd, Sassoli.
Clima da cantiere, con Prodi che parla del rapporto fra comunisti e cattolici. «Gorrieri fu di un anticomunismo totale e intransigente reso diverso dal rapporto con la vita quotidiana. In Italia invece dopo la caduta del Muro si è aperta la grande stagione dell´anticomunismo globale». Come reagire? «Si sente tantissimo la necessità del cristianesimo sociale» dice l´ex premier. «I cattolici hanno perduto la propria missione all´interno degli schieramenti poiché i loro valori non sono stati tradotti in politica. Bisogna annunciare i valori e starci dentro. Senza un progetto hai perso. I valori non tradotti in conseguente azione politica sono solo enunciazione. E le enunciazioni in politica non contano niente. Non farle seguire da atti coerenti lascia spazio a qualsiasi aberrazione».
Il ragionamento ricade nel confronto in vista delle prossime regionali. «Il rapporto quotidiano fra il politico e la sua gente - avverte Prodi - è reso impossibile dall´attuale legge elettorale per il Parlamento». Per questo chiama ancora una volta il Pd a mobilitarsi contro il sistema a liste bloccate voluto da Berlusconi nel 2005. «Ha creato l´anonimato fra i parlamentari. Con conseguenze enormi, terribili. La perdita di rapporti fra rappresentato e rappresentante rende inutile, senza senso, parlare di federalismo, localismo, autonomia. La politica sarà sempre sottoposta al potere centrale se non risponde nel quotidiano alla propria gente».
Il senatore veltroniano Giorgio Tonini dice che l´ex premier durante il suo governo «teneva conto della complessità della baracca». «In alcuni momenti - commenta l´interessato - tenevo conto solo io di questa complessità». Una riflessione che adesso riguarda il nuovo partito. La distanza con il gesuita padre Bartolomeo Sorge, presente al convegno, è su questo nettissima. Il religioso cita Lorenzo Dellai, ex-Margherita ora con Rutelli, e delinea la creazione di un aggregazione centrista, con il Pd e Casini. «L´onorevole Sorge - commenta con una punta di ironia - ci ha parlato di un partito politico... di centro». «Gorrieri - avvisa Prodi, al centro e a sinistra - non è mai stato innamorato del blairismo e su questo siamo stati felicemente d´accordo». E rispetto a «sindacato, partito, autorità ecclesiastica» era «non ribelle ma testone». Luciano Guerzoni, presidente della Fondazione Gorrieri, lo blandisce: «Siete uguali». Prodi ride e ringrazia. «Testone è un termine emiliano. Se non sei così, è difficile nella vita politica di oggi essere coerenti, fedeli ad un´etica, ad una direzione».

l’Unità 17.1.10
Il carciofo allo iodio piatto forte di Emma
Nel testa a testa con la Polverini potrebbe essere fondamentale l’antica scelta antinucleare. Possibilista invece la candidata Pdl

La Bonino in modo netto contro le centrali Quella foto di 20 anni fa

Una foto d’epoca quando dopo Chernobyl i radicali promossero i referendum contro il nucleare la ritrae con un carciofo in mano e un cartello: «Carciofo allo iodio». Adesso che si è candidata alla guida del Lazio, il no al piano nucleare del governo, alla centrale di Montalto di Castro e alle altre possibili localizzazioni che si prospettano nella regione, è stato uno dei primi temi, se non proprio il primo, che Emma Bonino ha lanciato in campagna elettorale. No alla localizzazione e no al metodo del «ve lo diciamo dopo». «Informare i cittadini è fondamentale», avverte Emma, che su questo terreno si è già spesa da vicepresidente del Senato e ora si prepara a dare battaglia alla sua avversaria, Renata Polverini. Che il tema sia ineludibile, in effetti, sembra averlo capito anche lei. Ma per il momento la sindacalista dell’Ugl si trincera dietro a un generico «va rivisto tutto, valuteremo con le comunità locali, alcuni siti individuati in passato sono molto cambiati». Senza ovviamente poter dire «no» al nucleare, uno dei punti su cui si salda la sua maggioranza, con o senza l’Udc. Per Emma, invece, i tempi del «non so, non sappiamo» sono finiti. «Abbiamo paura dell’ignoranza», recitava lo slogan dei radicali nel ’77: ma adesso «sul nucleare sappiamo tutto e anche che esistono delle alternative». Le ha indicate molto chiaramente la stessa Enea: «Efficienza energetica, energie alternative, ricerca». E su quelle Emma Bonino intende impostare il suo programma: «Anche perché sono soluzioni capaci di produrre molti posti di lavoro». La domanda piuttosto sul nucleare è: «Conviene davvero?». Al Sole 24 Ore, «quotidiano nuclearista», ha spiegato che no. «Non sono affetta dalla sindrome di Nimby, ma in Francia è stato un fiasco». E se vincerà, da presidente del Lazio, proverà a spiegarlo meglio anche al governo.❖

il Riformista 17.1.10
L’esordio di Bonino: «Non mi faccio benedire dal prete»
CONVEGNO. All’Eliseo si esibisce con Pannella e Fagioli, mentre tiene banco la questione cat- tolica. Emma: «Rappresento anche quel mon- do». Su YouTube video con presunta bestemmia.
di Angela Gennaro
scribd

il Fatto 17.1.10
Eutanasia di un partito
di Furio Colombo

La Binetti ci annuncia, come condizione per restare nel Partito democratico, non solo la sconfitta del suo stesso partito, ma promette anche un ruolo attivo per ottenere la desiderata sconfitta

Confesso che avrei voluto allargare l’orizzonte e riflettere con voi sul peggio (l’immenso dolore di Haiti) e sul meglio del mondo (navi, aerei, 10.000 soldati Usa partono per salvare donne e bambini dalle macerie, rovesciando le tipiche e tragiche sequenze delle vicende internazionali).
Ma, come voi, sono inchiavardato a un paese infelice, in cui il Male è Emma Bonino e il Bene (almeno secondo una disorientante visione di Paola Binetti) sarebbe l’esclusione della Bonino dal mondo politico. Tanto più che l’on. Binetti, prendendo atto della candidatura di Emma Bonino alla regione Lazio in rappresentanza Pd, ha detto una frase grave: “Questa è l’eutanasia di un partito”.
Verrebbe voglia di appartarsi un momento con questa signora colta e gentile per chiederle: “Dio chi?”. Voglio dire: come, quando, perché Dio ha deciso di rifiutare sempre e per sempre Emma Bonino? O meglio: quale Dio? In quali Scritture? Un chiarimento per i lettori, che a volte sembrano infastiditi dai troppi frequenti riferimenti amichevoli ai Radicali (ma non erano di destra?) quando provo a raccontare e commentare certi fatti della politica.
Guardate che io non sto parlando di Emma Bonino e della sua candidatura spontanea nel deserto di un’importante regione italiana, che è anche un simbolo perché qui c’è la Capitale.
Sto parlando del Pd che era in attesa, con ferma e dignitosa astensione da ogni iniziativa. Aspettava qualcuno da seguire, senza sapere e potere dire chi. E così da una parte arriva il miracolo – una persona estranea al Pd (ma non all’opposizione, non all’Italia pulita, non alle prove già date di buona, efficace politica), che però si è scelta da sola, sembra capace, interrompe la prolungata afasia del Pd ed è già al lavoro. Dall’altra arriva lo scisma. O la minaccia di scisma. O la minaccia di una minaccia, subordinata a condizioni strane, rovesciate, che ricordano alcuni passaggi del “Codice da Vinci”, cioè un thriller che racconta il mistero truccando le carte. Anche qui, nella solenne e drastica enunciazione della Binetti, c’è un trucco (o un rovesciamento logico, umano, politico, persino religioso) che lascerebbe increduli se non fosse pubblicato sul Corriere della Sera, p. 12, il 16 gennaio.
Dunque, in quell’articolo l’intervistatrice (Monica Guerzoni) domanda alla deputata Pd Paola Binetti: “Lascerà il Pd?”. La risposta è degna di essere riportata e ricordata. Anzi, su di essa il Pd dovrebbe aprire un convegno. “Lascerò il Pd se la leader radicale dovesse vincere le elezioni”.
Tratteniamo per un momento lo stupore (la frase è insensata dal punto di vista logico, assurda dal punto di vista politico, sconveniente quanto a minima lealtà al proprio club di appartenza). E cerchiamo di capire il senso del fenomeno a cui stiamo assistendo. Senza alcun giudizio su persona e valori della Bonino candidata, senza alcuna conoscenza del programma (che non è ancora stato presentato e discusso e che – comunque – non riguarda gli angeli e gli arcangeli, ma la regione Lazio), la deputata cattolica eletta nelle liste Pd dichiara che resterà fedele al suo partito solo in caso di sconfitta. Invece, se Emma Bonino – in questo momento la principale candidata Pd delle elezioni di marzo – vincerà le elezioni, umilierà il potente schieramento avversario, conquisterà la regione Lazio (un fatto che si presta a diventare subito notizia internazionale, come vincere la California o New York negli Usa) – se restituirà fiducia e speranza a tutto il centrosinistra, la deputata Pd Binetti sarà costretta ad andarsene. Lealmente, spiega a fine intervista che, per evitare un simile evento, da subito farà campagna contro la Bonino, dunque contro il Pd e la concreta possibilità di vittoria del suo partito che adesso, nel Lazio, potrebbe tornare in vita, dopo – e nonostante – il triste caso Marrazzo.
Niente di teologico in tutto ciò, e neppure quel tipo di dissenso (ogni dissenso) che giova sempre ai partiti.
La Binetti ci annuncia, come condizione per restare nel Partito democratico, la sconfitta del suo stesso partito, ma promette anche un ruolo attivo per ottenere la desiderata sconfitta. Un atto d’amore capovolto, se volete, simile al gesto di chi uccide la persona amata perché non sia mai di altri. Qualcosa non va. E la Binetti, medico e psichiatra, dovrebbe saperlo. Dovrebbero saperlo anche i leader del Pd, parlandone da vivi.

il Fatto 17.1.10
Il Pd è cattolico nonostante la Bonino
In riferimento alla candidatura della Bonino si parla della cosidetta fuga dei cattolici dal Partito democratico. La Binetti, per esempio, ha annunciato che se Emma dovesse vincere lei lascerebbe il partito. E’ un argomento molto di moda, quello della perdita dei voti dei cattolici. Anche nel Pd ne parlano spesso. Perché invece non parlano mai dei milioni di ex elettori del Pd non cattolici o laici che non votano più per questo partito perché si sentono traditi? Non si preoccupano affatto di perdere i nostri voti. Il Pd si è comportato in maniera vergognosa su tutte le vicende importanti, sui diritti civili, sui Pacs, non ha detto una parola per avallare l’uso in Italia della pillola abortiva. Il Pd sta confermando sempre più che non solo non ha nessuna intenzione di andare mai al governo, ma non vuole nemmeno fare l’opposizione!
Giulio

Il Giornale 17.1.10
Bonino-Polverini: il primo scontro è sui valori cari ai cattolici
http://www.ilgiornale.it/roma/bonino-polverini_primo_scontro_e_valori_cari_cattolici/17-01-2010/articolo-id=414516-page=0-comments=1

Il Giornale 17.1.10
Bonino-Polverini, candidate sbagliate
di Vittorio Sgarbi
http://www.ilgiornale.it/interni/bonino-polverini_candidate_sbagliate/17-01-2010/articolo-id=414372-page=0-comments=1

Il Giornale 16.1.10
Pd senza cattolici
di Sandro Bondi
http://www.ragionpolitica.it/cms/index.php/201001162415/partiti-e-istituzioni/pd-senza-cattolici.html

Il Giornale 17.1.10
Rizzo-Diliberto, la guerra dei comunisti spariti
http://www.ilgiornale.it/interni/rizzo-diliberto_guerra_comunisti_spariti/17-01-2010/articolo-id=414379-page=0-comments=1

l’Unità 17.1.10
Rosarno, Italia
di Luigi De Magistris

ABruxelles si è discusso di quello che è accaduto a Rosarno, in Calabria, in Italia. Proprio così, in Italia. Tutti allibiti. Rosarno è una cittadina della piana di Gioia Tauro in cui ferreo è il controllo del territorio da parte della ‘ndrangheta. In quest’area profonde sono le collusioni della criminalità organizzata nelle amministrazioni pubbliche, impressionante la sua capacità economica. Non è solo una mafia capace di sviluppare un’enorme capacità militare, ma anche mafia imprenditrice, che fa politica, che governa. Nella piana vi sono migliaia di immigrati che vivono in condizioni disumane, considerati rifiuti sociali, non-persone da un governo che pratica politiche xenofobe e razziste. Dimorano in baracche, lavorano la terra per pochi spiccioli, coltivano latifondi controllati dalla criminalità organizzata, senza diritti, ma con gli obblighi dei nuovi schiavi. Una realtà che la società opulenta non vuole vedere e che accetta come effetto collaterale di un capitalismo senza regole, dimenticando che italiani all’estero hanno subito nel passato medesime condizioni. Accade che un giorno d’inverno, in periodo di campagna elettorale, pochi giorni dopo le intimidazioni alla magistratura reggina, la criminalità organizzata apre il fuoco, comincia a sparare verso gli schiavi, contro coloro che procurano ricchezza ai loro padroni. Il Governo sapeva, ma scopre oggi Rosarno, come si ricorda della Calabria dopo Fortugno. Se ti sparano, magari perché hai chiesto dignità, reagisci, è umano anche per uno schiavo. Gli immigrati protestano: per paura, per far sentire che esistono, per rabbia, perché la dignità la conservano anche loro. A questo punto interviene il Ministro dell’interno Maroni, esponente di quell’area politica xenofoba e razzista che istiga all’odio nei confronti degli immigrati. Quello stesso Ministro che delegittima le forze dell’ordine privatizzando la sicurezza con le ronde che magari gestiranno, con infiltrazioni delle cosche, le future ribellioni. E’ quello stesso Governo che non dà risorse e mezzi alle forze dell’ordine rendendo impossibile il controllo del territorio. Un Governo celere, però, nell’approvare leggi che favoriscono il crimine organizzato. Un Governo impegnato ad ostacolare servitori dello Stato che contrastano il crimine organizzato, anche quello dei colletti bianchi che è linfa vitale di un sistema criminale che piega la democrazia. Che fa il Governo a Rosarno? Per garantire sicurezza deporta gli immigrati. La ’ndrangheta spara ai migranti e gli spezza le ossa con le spranghe. Il Governo interviene e seda la rivolta portando via gli schiavi. Dopo le collusioni tra pezzi delle istituzioni e criminalità organizzata nella gestione della spesa pubblica in Calabria, si registrano anche convergenze parallele tra la ‘ndrangheta e il governo nei confronti dei migranti. Solo coincidenze, ovviamente. Non prendetevela, però, con il popolo calabrese. E’ un popolo che sa includere, che accoglie, che ha umanità. Ha nel sangue l’accoglienza dei più bisognosi. A Rosarno la legge l’ha dettata la ‘ndrangheta ed un Governo incapace di dare risposte degne di un Paese civile. Solo coincidenze, ovviamente.❖

l’Unità 17.1.10
L’Italia li respinge la Libia li tortura. Il silenzio del governo
di Umberto De Giovannangeli

Dal 3 marzo 2004 Palazzo Chigi sa cosa avviene nei centri di detenzione per migranti. Grazie a una relazione della Protezione civile, denuncia l’Espresso

Il ricorso di 84 migranti. Arrivati a Lampedusa nel 2005 sono stati rimandati a Tripoli
28 centri di detenzione. La denuncia di Fortress Europa: carceri, campi, centri di racolta...

uQuei morti nel deserto non sono le vittime di una catastrofe naturale. Quella tragica fine di immigrati espulsi dalla Libia non è imputabile a un destino cinico e baro. Perché non c’è nulla di «naturale» nella fuga disperata dai centri-lager libici di quell’umanità sofferente. Un’umanità senza diritti. Un’umanità sacrificata sull’altare degli Affari dall’accordo di Cooperazione Italia-Libia siglato da Silvio Berlusconi e Muammar Gheddafi. L’Unità ha, prima di chiunque altro, documentato questa tragedia «innaturale» con il prezioso contributo delle più importanti e autorevoli agenzie impegnate nella difesa dei diritti umani, da Amnesty International a Human Rights Watch, da Nessuno Tocchi Caino all’'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR).
L’Unità ha sempre accompagna-to questa corposa documentazione, con una domanda, reiterata, al Governo italiano, in particolare al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, al ministro degli Esteri Franco Frattini,: come è possibile non aver tenuto in conto questi rapporti, queste testimonianze, queste denunce nel definire i contenuti dell’Accordo di cooperazione Italia-Libia? Una domanda rimasta senza risposta.
Un silenzio assordante. Come nquello che ha accompagnato la rivelazione contenuta nell’ultimo numero del settimanale L’espresso in un articolo di Fabrizio Gatti. L’articolo racconta con il supporto di un video sconvolgente, registrato nel deserto del Sahara della tragica fine di donne e uomini, provenienti in maggioranza dall’Africa subsahariana, espulsi dal regime del Colonnello Gheddafi. Bloccati in Libia denuncia Gatti dall’accordo Roma-Tripoli e riconsegnati al deserto. Condannati ad una fine atroce. I rapporti delle agenzie umanitarie avevano documentato gli abusi, i maltrattamenti subiti dagli immigrati bloccati in Libia. Evidentemente queste denunce circostanziate non sono state ritenute credibili dal Presidente del Consiglio e dal suo governo. Ma la rivelazione de L’espresso inchioda Palazzo Chigi. Palazzo Chigi sa ufficialmente dal 3 marzo 2004 che cosa siano realmente i centri di «accoglienza» predisposti da Tripoli.
3 marzo: la data stampata su un rapporto riservato della presidenza del Consiglio. Gatti ne rivela il contenuto. Si tratta della relazione consegnata ai collaboratori del Cavaliere dopo la visita nel Sahara della delegazione della Protezione civile che deve progettare la costruzione dei centri di detenzione libici. Quel documento dà conto della conoscenza daparte della delegazione della Protezione civile, di quale sia il trattamento riservato dai libici ai cittadini extracomunitari, «di cui si allega documentazione fotografica». Il Cavaliere sapeva. Il suo staff era stato informato direttamente da una delegazione ufficiale, governativa. Quel documento non ha avuto seguito. Palazzo Chigi e la Farnesina non hanno smentito le rivelazioni de l’Espresso.
Gheddafi continua ad essere un interlocutore privilegiato per Berlusconi. Da ricevere come «amico personale» e illuminato statista. Un idillio che non deve essere scalfito da documenti scomodi, inquietanti. Le vessazioni perpetrate nei centri di detenzione libici non dovevano mettere in discussione i contratti miliardari. L’importante, oltre fare affari, è respingere gli immigrati che cercano di raggiungere le coste italiane. A occuparsene è la giustizia internazionale.
È approdato a Strasburgo, per l'esattezza alla Corte europea dei diritti dell'uomo, il caso di 84 immigrati (palestinesi, algerini, giordani, marocchini e tunisini) arrivati a Lampedusa nel 2005 e poi espulsi verso la Libia lo stesso anno dal governo italiano (guidato da Berlusconi). I ricorrenti sostengono che espellendoli l'Italia ha violato il loro diritto alla vita e a non essere sottoposti a tortura o trattamenti inumani e degradanti. Nel ricorso gli immigrati sostengono che non è stata data loro un'adeguata possibilità per ricorrere contro l’espulsione e che sono stati intralciati nel presentare il loro appello alla Corte di Strasburgo. I giudici, nel dichiarare ammissibile il ricorso nel 2006, avevano sottolineato che in quel momento non potevano pronunciarsi anche sul merito, alla luce della necessità di condurre un esame approfondito delle questioni sollevate. La sentenza della Corte è attesa martedì.
Sulla base delle testimonianze raccolte in questi anni, l'osservatorio Fortress Europe ha contato 28 centri di detenzione di immigrati. perlopiù concentrati sulla costa. Ne esistono di tre tipi. Ci sono dei veri e propri centri di raccolta, come quelli di Sebha, Zlitan, Zawiyah, Kufrah e Misratah, dove vengono concentrati i migranti e i rifugiati arrestati durante le retate o alla frontiera. Poi ci sono strutture più piccole, come quelle di Qatrun, Brak, Shati, Ghat, Khums dove gli stranieri sono detenuti per un breve periodo prima di essere inviati nei centri di raccolta.
E poi ci sono le prigioni: Jadida, Fellah, Twaisha, Ain Zarah, prigioni comuni, nelle quali intere sezioni sono dedicate alla detenzione degli stranieri senza documenti. Una detenzione segnata da abusi e violenze. ❖

l’Unità 17.1.10
Aumenti ai prof di religione Schiaffo ai precari della scuola
Una circolare del Tesoro di fine dicembre consente di calcolare gli scatti di anzianità anche sull’indennità integrativa speciale. Da maggio i prof di religione prenderanno di più e recupereranno il pregresso
di Bianca Di Giovanni

Per i docenti anche fuori ruolo, gli scatti di anzianità andranno calcolati anche sull’indennità
Il personale delle altre materie non ha scatti, e i precari percepiscono solo lo stipendio base
Numeri. Circa 25mila i prof di religione di cui 12mila con incarico annuale

Buste paga più ricche per i prof di religione. Il ministero dell'Economia lo scorso 28 dicembre ha, infatti, emanato una nota che riguarda la procedura di calcolo degli aumenti biennali per gli insegnanti di religione e stabilisce che questi incrementi i quali prima venivano calcolati nella misura del 2,5% del solo stipendio base dovranno ora
ammontare al 2,5% dello stipendio base comprensivo della indennità integrativa speciale. Non un dettaglio: quella quota può raggiungere un terzo dello stipendio. «Adesso dunque spiega lo Snadir, il sindacato nazionale autonomo degli insegnanti di religione dal primo maggio 2010 le direzioni provinciali del Tesoro dovranno procedere al pagamento degli arretrati. Dal pagamento saranno esclusi i docenti ai quali il mancato inserimento dell'indennità nel calcolo degli aumenti biennali era stato compensato, già a partire dal 2003, con un assegno ad personam». Critica l'Anief (Associazione nazionale insegnanti ed educatori in formazione) secondo cui questa concessione a una ristretta cerchia di docenti dimostrerebbe che «ancora una volta il governo dimentica i precari della
scuola». In effetti la circolare, emanata alla chetichella nell’ultimo giorno utile dell’anno, rinnova un conflitto già aspro all’interno del corpo insegnate. Una diversità di trattamento che risale almeno al 2003, quando sempre il governo di centrodestra varò l’immissione in ruolo dei docenti «selezionati» dalle Curie.
PLATEA
Il provvedimento del dicembre scorso riguarda tutti i circa 25mila insegnanti di religione impegnati su territorio nazionale. Sia quelli di ruolo, sia i precari (circa 12mila), che così incassano un doppio vantaggio rispetto agli altri. Gli insegnanti di ruolo di altre materie, infatti, non hanno scatti biennali di anzianità (quelli di religione li mantengono dal vecchio regime, quando erano tutti fuo-ri ruolo), mentre i precari godono solo dello stipendio base: solo al momento dell’ingresso in ruolo avviene la ricostruzione retroattiva di scatti e quindi aumenti. Su questo si è concentrata la battaglia della Cgil scuola, che chiede per tutti la ricostruzione di carriera.
PRIVILEGI
L’ultima decisione, dunque, è una vera beffa per chi chiede equità di trattamento. Un passo che si aggiunge a una lunga serie di privilegi: accesso alla cattedra su segnalazione dell'ordinario diocesano, assunzione sulla base di un successivo concorso riservato, passaggio ad altra cattedra in caso di perdita del requisito per insegnare la religione (l'attestato dell'ordinario diocesano) e scatti biennali anche per i precari. «Mentre il ministro Tremonti a dicembre ricorda alla Curia che presto saranno liquidati gli scatti biennali di anzianità al personale docente di religione con incarico annuale o di ruolo, che non ha mai richiesto tale indennità sotto forma di assegno ad personam, permane, purtroppo, il silenzio verso tutto il restante personale precario», dichiara Marcello Pacifico, presidente dell'Anief (l'Associazione nazionale insegnanti ed educatori in formazione).
SOLDI E AUMENTI
Secondo alcuni calcoli effettuati dai sindacati l’aumento potrebbe valere 220 euro in più in busta paga, arretrati esclusi. Per il rinnovo del contratto degli insegnanti, invece, i sindacati hanno chiesto un aumento di 200 euro mensili da erogarsi in tre anni, ma il ministro della Pubblica amministrazione è disposto a concederne appena 20. E non solo. Vorrebbe agganciare gli aumenti di stipendio dei docenti al merito.❖

Repubblica 17.1.10
Via libera di Tremonti: 220 euro al mese. Protestano gli altri precari
Scuola, aumenti ai professori ma solo a quelli di religione
di Salvo Intravaia

Busta paga più ricca per i prof di religione
Il ministero dell’Economia vara un provvedimento ad hoc. Ed è polemica: dimenticati gli altri precari
Si parla di aumenti mensili di 220 euro lordi per 26mila docenti di ruolo e supplenti

«A seguito degli approfondimenti effettuati in merito, si comunica che questa direzione - scrive Roberta Lotti, dirigente del ministero dell´Economia preposta ai Servizi informativi - ha programmato, sulla mensilità di maggio 2010, le necessarie implementazioni per il calcolo degli aumenti biennali spettanti agli insegnanti di religione anche sulla voce IIS (l´indennità integrativa speciale, ndr) a decorrere dal 1 gennaio 2003». Fra 5 mesi, in poche parole, alcune migliaia di insegnanti di Religione si ritroveranno sullo stipendio aumento, che secondo stime sindacali, potrebbe arrivare a 220 euro lordi, ed arretrati: da mille a 2 mila euro. Perché la quota di stipendio rimasta fuori in questi anni dal computo è consistente: pari a un quarto dell´intera retribuzione. A beneficiare del provvedimento saranno alcune migliaia di insegnanti. I supplenti annuali, spiega lo Snadir (il Sindacato nazionale autonomo degli insegnanti di Religione), "che non abbiano maturato i requisiti per la ricostruzione di carriera", quelli di ruolo "che non avevano maturato il diritto alla ricostruzione di carriera prima della nomina a tempo indeterminato", e coloro che tale diritto lo hanno maturato "successivamente al primo gennaio 2003". Se fossero soltanto 5 mila il giochetto costerebbe ai contribuenti 10 milioni di euro, più tutti gli arretrati. In tutto, i precari di Religione sono quasi 12 mila, più 14 mila docenti di Religione di ruolo. E la restante parte dei supplenti, oltre 100 mila? Nulla, anche se precari da dieci o vent´anni. «È un provvedimento che provoca ingiustizia e discrimina lavoratori della stessa categoria, per questa ragione è incostituzionale», commenta Alessandra Siragusa (Pd), componente della commissione Cultura alla Camera. «Nulla in contrario al riconoscimento - aggiunge il collega Tonino Russo (Pd) - di un diritto, ma non si può fare una discriminazione sulla base della Religione. Anche tanti precari in cattedra ogni giorno professano la stessa religione ed avrebbero diritto agli aumenti di stipendio». La querelle nasce dal fatto che per i prof di Religione, anche precari, una legge del 1980 prevede scatti biennali del 2,5 per cento. Ma a quel tempo erano tutti precari i docenti di Religione e la norma serviva ad agganciare la retribuzione all´aumento del costo della vita. Poi, nel 2005, lo Stato ha immesso in ruolo i docenti di Religione, ma il privilegio è rimasto.

l’Unità 17.1.10
Nanerottoli
Grati a Basaglia
di Toni Jop
S i incrociano le storie nella storia. Esce un film tv sulla vita e l’esperienza di liberazione di Franco Basaglia, lo psichiatra che ha promosso la chiusura dei manicomi. In questi giorni si celebra il centenario di Mario Tobino, egregio scrittore e, in particolare, psichiatra innamorato delle Antiche Scale del dolore custodite dai manicomi. Non che ne amasse la coercizione, immaginava solo che si potessero rendere più umani, discreti, accoglienti. E qui conviene prendere atto che non è vero che niente cambia, che vincono sempre i peggiori, alla faccia della dura lezione che questi tempi pretendono di impartire alle nostre ansie. Infatti, Tobino ha perso la sua battaglia, e, virtù della rima, ha vinto Basaglia: i manicomi sono stati chiusi per legge, ed è stata respinta al mittente e alla sua triste poetica l’idea che quegli orrori si potessero imbellettare con mazzolini di fiori. Così, eccoci grati verso Basaglia e quell’Italia per i quali proviamo nostalgia mentre non ci manca per niente, cucù, Tobino.❖

Corriere della Sera 17.1.10
Con Freud e Roth Newton Compton riparte dall’inizio
di Severino Colombo
scribd
l’Unità 16.1.10
Lazio, sì unanime del Pd a Bonino
di Jolanda Bufalini

A Roma l’assemblea del Pd ha ribadito, all’unanimità, il via libera a Emma Bonino. «Emozionata e determinata», ha commentato la neo-candidata. «Dopo decenni di profondissima intesa con la gente di sinistra e cattolica ha aggiunto che tanto ha contribuito alle grandi vittorie di civiltà nel nostro Paese, quest’assemblea ci mostra che l’alternativa alla quale ormai da tanto lavoriamo controcorrente stiamo forse riuscendo a realizzarla anche a livelli partitici». Quanto allo spazio che i cattolici del Pd rivendicano, Bonino ha sottolinea: «La mia vita dimostra l’attenzione alle diversità, ai più deboli e ai grandi problemi sociali o di negazione del diritto, perché legge e diritto sono il fondamento della convivenza».

l’Unità 16.1.10
Il cuore della politica
Emma, i cattolici e le ragioni del bene comune
di Sandra Zampa

La candidatura di Emma Bonino alla guida della Regione Lazio ha aperto nel Partito Democratico una discussione vivace. La critica più aspra è stata formulata soprattutto da alcuni esponenti della parte cattolica del partito. Da coloro che usano la definizione cattolico per collocarsi nel partito. In quei giorni accadevano i fatti di Rosarno le cui immagini sarà impossibile dimenticare. Benché la televisione pubblica ne abbia diffuse poche e selezionate con cura, sono state immagini di una caccia all’uomo nelle strade di un paese povero e abbandonato come quasi tutto il sud. Sarà impossibile dimenticare le parole di uno di quegli uomini: «cercavamo il paradiso, abbiamo trovato l’inferno».
Chi sta in politica in prima fila, non può non sentirsi chiamato in causa in prima persona. Troppe responsabilità ̆nella vicenda e tanto diffuse da permettere oggi il solito scaricabarile, il gioco preferito nel nostro Paese.
In quei giorni ho letto (Avvenire) la notizia che metteva a raffronto gli immigrati che raccolgono mele nella Val di Non con i poveri cristi finiti nell’inferno. Due situazioni simili in partenza ma opposte nel risultato, a riprova che quando si fa il proprio dovere nelle istituzioni e nella politica si possono ottenere risultati. Con capaci governanti e amministratori Rosarno poteva non esserci. Una banalità? Può darsi.
Qui vengo al punto che riguarda i cattolici del Pd ancor più che quelli di altre formazioni politiche. Sono convinta che la definizione “cattolico” debba scomparire nella gestione della cosa pubblica. Credo che il servizio del bene comune sia una straordinaria opportunità per un cattolico che fa politica. ̆Non c’è un bene comune “cattolico” e un bene comune di altri. A me l’hanno spiegata così l’evangelica espressione che ci invita «a dare a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio». A me hanno insegnato che la politica è forma di carità. Vogliamo dirci che chi si candida a farlo con senso di responsabilità piena, facendo il proprio dovere fino in fondo, dovrebbe andare bene ai cattolici prima di tutto? Ancora più vera questa riflessione dovrebbe rivelarsi per i cattolici che presero parte alla stagione riformista dell’Ulivo. Cosa potrebbe mai significare, se non questo, l’impegno a mettere in comune le culture di provenienza per dar luogo a una nuova e più ricca cultura comune? La Bonino può essere annoverata tra i politici che si mettono al servizio del bene comune. Anche se Radicale. A lei e al suo partito dobbiamo dire che nessun laicismo può essere tollerato perché ferirebbe le ragioni di altri. Ma la piena assolvenza dei doveri che la responsabilità di governo porta con sé e la dedizione alle ragioni del bene comune dovrebbe garantirci tutti: cattolici e non cattolici. Oggi più che mai. Rosarno insegna.❖

Liberazione 15.1.10
Ieri faccia a faccia sul programma
Bonino-sinistra lavori in corso

Stefano Galieni
«Incontro interlocutorio, ci rivedremo all'inizio della prossima settimana». Questa la sintesi di un ora di colloquio fra i rappresentanti della Federazione della Sinistra, il portavoce Paolo Ferrero, Rosa Rinaldi, del Prc, Orazio Licandro e Alessandro Pigniatiello (Pdci) Cesare Salvi (Socialismo 2000) la segretaria regionale del Lazio del Prc, Loredana Fraleone e la candidata alla presidenza della Regione Lazio Emma Bonino. Tanto l'esponente radicale quanto il portavoce della Federazione hanno convenuto sulla necessità di approfondire quelli che sono i temi programmatici nevralgici da cui dipende unicamente la possibilità di giungere ad una alleanza. Ferrero ha posto ancora una volta la centralità delle questioni connesse al lavoro, le modalità con cui si intende affrontare la crisi, alle privatizzazioni di acqua e trasporti, la necessità di aumentare gli ammortizzatori sociali, ma ha anche fatto notare gli elementi comuni: dal rifiuto al nucleare ai diritti civili. Anche Emma Bonino ha evidenziato la necessità di approfondire alcuni punti programmatici. Una discussione che nelle prossime ore dovrà essere fatta anche all'interno della Federazione e che dovrà portare a capire se sarà possibile trovare una intesa, non su un voluminoso e fumoso libro dei sogni, ma su pochi ed essenziali elementi. I tempi stringono e la candidata radicale sembra voler smussare le divergenze dichiarando di avere a cuore l'interesse dei lavoratori e l'estensione in maniera universalistica della sanità. «Ma alcune risposte ancora non sono giunte- ricorda Loredana Fraleone - le attendiamo per decidere il da farsi». Nel frattempo è slittato ad oggi l'incontro fra Emma Bonino e i "Verdi", mentre la prossima settimana ci sarà l'IdV.

l’Unità 16.1.10
Il feroce razzismo italiano
Castelvolturno resta la vicenda simbolo Un paese che insorge non contro i camorristi ma contro gli immigrati. Rosarno, la replica
di Claudio Fava

Per capire cosa stia accadendo in questo paese, non nelle sue cronache ma nel senso profondo delle cose che accadono, bisogna tornare con la memoria a Castelvolturno. Alla strage dei sei immigrati africani abbattuti a raffiche di mitra dai sicari dei Casalesi nell’autunno di due anni fa. Una strage senza movente, se per movente non s’intenda l’improvvisa vocazione della camorra e delle altre mafie ad assumersi funzioni di supplenza civile: troppi negri per strada, troppi africani nelle nostre periferie, troppo rumore attorno ai nostri traffici criminali. Insomma li ammazzano, uno per uno, gli sparano addosso centotrenta pallottole, poi se ne vanno con le facce ebbre e stravolte di chi ha dimostrato chi comanda laggiù, chi fa le leggi, chi è dio in terra. Il giorno dopo cinquecento extracomunitari si ritrovano in una manifestazione spontanea e sfilano per le vie desolate del paese dicendo quello che tutti sanno e che pochi hanno il coraggio di balbettare: è stata la camorra, hanno ucciso per far capire che tocca solo a loro, ai macellai dei Casalesi, decidere quale colore debba avere la pelle degli altri. Si fa il corteo, un po’ di cori, molta rabbia, qualche vetrina rotta: finisce tutto lì. Passano due giorni e anche la brava gente di Castelvolturno decide di far sentire la propria voce. Meglio: il proprio silenzio. Una serrata, tutti i negozi restano chiusi, le saracinesche calate, le vetrine listate a lutto. I commercianti di Castelvolturno dicono che così non si può andare avanti, che non ce la fanno più, che non li vogliono più: i camorristi? No. Gli immigrati. Sei li hanno ammazzati? Che se ne vadano anche gli altri! Che tornino nei loro paesi, alle loro miserie, in fondo alle loro vite!
Quindici anni dopo la «discesa in campo» di Silvio Berlusconi e il rigor mortis del centrosinistra, l’Italia è tutta dentro questo fotogramma, che adesso si è arricchito di altri momenti di gloria patria in Calabria. Riepiloghiamo: i Casalesi sparano e ammazzano sei immigrati, colpevoli solo di sporcare il paesaggio, e tre giorni dopo il paese insorge non contro gli assassini ma contro le loro vittime chiedendo che se ne vadano a morire altrove. Passa un anno e mezzo e troviamo un signore che s’arrampica sul proprio trattore, spiana le sue pulegge d’acciaio ad altezza d’uomo e carica contro i braccianti africani che protestavano per essere stati presi a fucilate dai guappi del paese. Se fosse stato intervistato ad Anno Zero, anche l’uomo del trattore avrebbe detto,come altri ospiti, che lui non è razzista, che non ce l’ha con i negri: non li vuole tra le palle, solo questo, e se per farglielo capire bisogna inseguirli con la ruspa, che ci vuole fare, dottor Santoro, questa è casa nostra, sono loro che se ne devono andare...
Cinquant’anni fa, lungo le coste del Mississippi, i bravi borghesi bianchi (fattori, impiegati, maestri di scuola, giudici di pace...) che si travestivano di bianco per dare la caccia ai neri, usavano in pubblico gli stessi miti ragionamenti: non siamo razzisti, ci mancherebbe, solo che non li vogliamo vedere attorno alle nostre case, sui nostri autobus, vicino alle nostre donne. Gli italiani, brava gente, che ai film di Sidney Poitier si commuovevano, adesso derubricano la caccia al negro di Rosarno come una questione di ordine pubblico, come le scazzottate in curva allo stadio. Ai forconi, in Calabria hanno sostituito le doppiette e i bulldozer: un dettaglio.
Una differenza in verità c’è. Sulle rive del Mississippi cinquant’anni fa i negri dovevano difendersi da una minoranza di bianchi bigotti e ottusi. Oggi in Italia, gli extracomunitari devono difendersi dai caporali che li sfruttano per lucrare sulle loro paghe da fame, dai camorristi che li ammazzano per dimostrare che sono loro a comandare, dai ministri leghisti che li additano alla tolleranza zero per raccattare qualche voto in più anche alla periferia del regno. A Rosarno quegli africani vivevano in baracche di cartone, in cinque a dividersi un materasso, senza acqua né luce, quindici euro di paga al giorno con un terzo trattenuto dalle cosche della ’ndrangheta, la loro tassa sul permesso di soggiorno. E quando qualcuno li ha presi a fucilate (così, solo per gioco...), hanno fatto pure male ad arrabbiarsi. In tivù c’era un signore con l’aria di chi ha lavorato parecchio, uno che avrà avuto come ciascuno di noi un pezzo della sua famiglia costretta a emigrare per mettere insieme il pranzo e la cena in qualche altra parte del mondo. Diceva: non sono razzista, però quando ci vuole ci vuole...
Ecco, a volta basterebbe conservare memoria di qualche vecchio film per avvertire il senso del ridicolo che ormai si prende cura delle nostre vite e delle nostre parole.❖

il Fatto 16.1.10
Dopo i fatti di Rosarno cresce la mobilitazione per il primo marzo
Un giorno senza immigrati, lo sciopero
che metterebbe in ginocchio il Paese
Il Web vuole lo sciopero
La proposta: un primo marzo senza immigrati al lavoro. I sindacati frenano e parlano di astensione dai consumi
Badanti, infermieri, contadini Se incrociano le braccia siamo fritti
di Elisa Battistini

C hissà se dopo il Popolo viola nascerà un nuovo movimento orizzontale per porre con forza la questione del lavoro immigrato in Italia. O chissà se, invece, dopo la riunione di ieri mattina a Roma (nella sede della Cgil), non sia stato soprattutto messo un freno alla proposta nata su Facebook. Quella di realizzare il primo sciopero degli immigrati in Italia (su modello delle proteste francesi dei sans papiers), “proclamato” online
per il primo marzo. Per ora le braccia degli stranieri continueranno a lavorare e quella del primo marzo dovrebbe diventare una giornata di astensione dai consumi. Una scelta ben più soft, che aprirebbe la stagione di “Primavera antirazzista”, una serie di iniziative che dal primo al 20 marzo dovrebbero affrontare i temi caldi della discriminazione e del lavoro immigrato.
Cgil, Uil, Ugl, Arci, Acli e associazioni di immigrati hanno incontrato infatti ieri i fondatori del gruppo “Primo marzo 2010Sciopero degli stranieri” nato a fine novembre su Facebook. Il gruppo, che conta oltre 33 mila iscritti, ha come obiettivo l’organizzazione di uno sciopero nazionale degli immigrati. Per rendere evidente a tutti quale enorme ruolo ricoprano gli stranieri nel sostenere l’economia nazionale. “Questo gruppo nasce meticcio – si legge sulla pagine di Facebook – Siamo collegati e ci ispiriamo a La journée sans immigrés: 24h sans nous, il movimento che da qualche mese, in Francia, sta camminando verso lo sciopero degli immigrati per il 1 marzo 2010”. Separato e parallelo, nasce però negli ultimi mesi anche il movimento Blacks out, che riunisce associazioni di immigrati, l’Arci, le Acli, l’Asgi. E i sindacati. Cisl esclusa. Il gruppo propone, in data 20 marzo, una giornata di mobilitazione. Non uno sciopero insomma. Quanto piuttosto una serie di iniziative per sensibilizzare gli italiani sull’apporto, assai importante, degli stranieri al sistema-paese. I due movimenti sono quanto mai attuali. Soprattutto dopo Rosarno. Ma anche dopo White Christmas e le ordinanze razziste di molti comuni lombardi. Le strade di Blacks Out e del gruppo Primo marzo si sono incontrate ieri mattina, per dare vita a un “coordinamento” e alla campagna “Primavera antirazzista”. L’idea dello sciopero, però, dopo la riunione appare lontana. “Ci sono delle leggi – dice Kurosh Danesh, della Cgil – che regolano gli scioperi. Non esiste lo sciopero generale etnico. Esiste lo sciopero generale dei lavoratori. Semmai potremmo ragionare su uno sciopero generale che abbia al centro il tema dell’immigrazione”. Per ora, però, le associazioni, i sindacati e il gruppo Primo marzo, hanno stabilito solo una “piattaforma” operativa che prevede venti giorni di appuntamenti in via di definizione. Ma senza incrociare le braccia. “Questi movimenti – dice il responsabile immigrazione della Cgil, Piero Soldini – dovevano incontrarsi per realizzare qualcosa di costruttivo. La campagna “Primavera antirazzista” vuole essere questo. E vuole porre al centro i temi importanti legati all’immigrazione, ai diritti dei lavoratori attraverso manifestazioni territoriali e nazionali. Per esempio, stiamo pensando a un grande concerto a Milano.
Cristina Seynabou Sebastiani, una delle fondatrici del gruppo su Facebook, ritiene utile l’incontro e la creazione di un coordinamento ma non rinuncia all’idea di partenza. “É giusto lavorare assieme, ma noi continuiamo a pensare che un grande sciopero servirebbe. E faremo appello nuovamente al sindacato affinchè si realizzi. Per noi, insomma, non è una partita chiusa”. Il 17 gennaio a Milano ci sarà la presentazione ufficiale del movimento Primo marzo che, dice Cristina “avrà anche dei comitati locali”. E che, a quanto pare, spingerà i sindacati verso lo sciopero. Impresa difficile. Tanto che, per certi aspetti, la “cabina di regia” nata ieri sembra proprio servire a far tramontare quell’idea. “Non si può scherzare sugli scioperi – dice ancora Soldini – ed è il sindacato che deve occuparsene. La cosa importante è che ieri ci siamo incontrati. Non aveva senso continuare a lavorare isolati. Gli obiettivi sono gli stessi”.
La verità è che senza le organizzazioni sindacali è davvero difficile fare sciopero, quindi il gruppo nato su Facebook ha davvero bisogno delle organizzazioni dei lavoratori. Ma queste sembrano mantenere una linea assai prudente. Senza appropriarsi (o forse assumersi fino in fondo la responsabilità) di una mobilitazione nata in rete, Cgil, Uil e Ugl preferiscono realizzare delle iniziative. Così, tra il primo e il 20 marzo (il giorno precedente la giornata mondiale contro il razzismo) si terrà un grande concerto “sul modello del primo maggio, dice Aly Baba Faye, uno dei fondatori del gruppo “Blacks-out”. Si organizzeranno assemblee sui luoghi di lavoro per parlare di razzismo e discriminazione con i colleghi italiani. Forse si farà una manifestazione regionale del settore agricolo in Calabria. Ma ancora non c’è un calendario definito. Ancora sono idee sparse. “Vogliamo lavorare sui territori – dice Aly Baba Faye – l’organizzazione sarà orizzontale, non verticistica. Ieri mattina abbiamo proposto di far firmare un decalogo antirazzista ai candidati per le regionali. O di chiedere alla Federazione italiana gioco calcio di esporre striscioni antirazzisti il 20 marzo, durante gli anticipi. Vorremmo fare un 8 marzo dedicato alle donne straniere. Le Arci si sono offerte per la formazione nelle scuole, e le Acli vorrebbero inviare ai datori di lavoro di colf e badanti un “vademecum” antirazzista”. Insomma,
tutto molto bello. Tutto molto gestibile. Ma sarà incisivo come un grande sciopero? In quanto all’assente, la Cisl (il sindacato con il più alto numero di iscritti stranieri), il segretario generale Bonanni dice di non sapere nulla dell’incontro (ma dalla Cgil assicurano che la Cisl era stata invitata). “Ci impegniamo tutti i giorni – ci dice Bonanni – per i lavoratori immigrati. Forse qualcuno si accorge tardi del tema. Noi intanto martedì 19 gennaio parteciperemo alla manifestazione a Reggio Calabria organizzata dal Siulp, per chiedere legalità, sicurezza e promuovere la convivenza. Non vogliamo mettere il cappello sulle iniziative spontanee né fare confusione”.

il Fatto 16.1.10
Paralisi Italia: Se “loro” incrociano le braccia
di Vladimiro Polchi

Un libro racconta un giorno senza stranieri
Pubblichiamo uno stralcio del romanzo “Blacks out Un giorno senza immigrati” di Vladimiro Polchi (editori Laterza), uscito pochi giorni fa. Il giornalista e scrittore immagina di svegliarsi un giorno e trovare un paese in cui gli immigrati sono “scomparsi”. Da un minuto all’altro, nell’arco della notte. Il libro racconta sotto forma di fiction, e usando articoli tratti da giornali e dati di indagini statistiche, cosa accadrebbe se il 20 marzo gli immigrati facessero sciopero.

20 marzo. Ore 00.01. É il caos, anzi la paralisi. I cantieri edili si fermano di colpo. Chiudono le fabbriche. Si raffreddano i forni a ciclo continuo nelle aziende di ceramica. Vuoti i mercati ortofrutticoli. Chiusi ristoranti, alberghi e pizzerie. Tra le famiglie si scatena il panico: scompaiono badanti, colf e babysitter. É boom di ricoveri d’anziani e disabili negli ospedali. La sanità è in tilt. Si fermano i campionati di calcio, basket e pallavolo. Molte parrocchie restano senza preti. Tremano le casse dell’Inps. Nessuno se lo aspettava. Lo sciopero degli immigrati avrebbe paraliz-
zato il paese.
Nel capitolo che riportiamo qui sotto, il protagonista (un cronista precario) cerca di capire cosa stia accadendo e che cosa succederà telefonando ai sindacati. Che gli danno un quadro dell’enorme e sottovalutato contributo del lavoro immigrato per il nostro paese.
Cerco sulla mia vecchia agenda il numero di Mauro Bova, un amico sindacalista. Negli ultimi cinque anni il numero dei lavoratori stranieri iscritti ai sindacati è più che raddoppiato, sfiorando quota un milione. In testa c’è la Cisl. Dopo un duello con la Cgil a colpi di numeri, l’ha spuntata: le sue 334 mila tessere le assicurano il primato tra i lavoratori immigrati. La Cgil si ferma a 300 mila, segue la Uil con 190 mila e l’Ugl con 103 mila iscritti stranieri. Le loro tessere costituiscono il 12% degli iscritti attivi (senza cioè tenere conto dei pensionati). Gli stranieri fanno gola ai sindacati: portano nuovi iscritti, dunque maggiore potere contrattuale e soldi. Secondo un’indagine del giornale online Stranieri initalia.it , nel 2005 gli immigrati – tra trattenute sindacali, attività di Caaf e patronati – avrebbero portato in dote alle casse dei confederali ben 55 milioni di euro. Peccato però che ancora oggi siano pochi i lavoratori stranieri inseriti nei ruoli apicali dei sindacati. Sono un esercito senza gradi, né stellette. Tutti soldati semplici, nessun ufficiale. Non manca qualche rara eccezione: Abdou Faye, cinquantenne senegalese di Dakar, è da qualche anno al vertice della Cgil del Friuli Venezia Giulia; Moulay El Akkioui, marocchino, è segretario nazionale della Fillea Cgil; Liliana Ocmin, 37 anni, peruviana, è membro della segreteria confederale della Cisl; Clarisse Essane Niagne, nata in Costa d’Avorio, è responsabile provinciale Ugl a Viterbo. Mi ricordo di un sondaggio dell’istituto di ricerca Eures dell’ottobre 2008. Ne conservo una sintesi nell’armadietto che sono riuscito a farmi assegnare dal giornale: 8 immigrati su 10 vorrebbero un sindacato fatto solo di lavoratori stranieri e il 76% sarebbe pronto a uno sciopero per rivendicare i propri diritti. [...]
Trovo il numero di Mauro in agenda e lo chiamo. Il suo cellulare è occupato. Riprovo. Mi risponde. “Mauro, sono Valentino Delle Donne”.
“Ciao, giornataccia eh?”. “Sai qualcosa? Hai visto queste agenzie sulle fabbriche ferme?”. “Sì, certo. Sta scoppiando un casino. Il problema è diffuso anche in altre regioni. Stiamo ricevendo segnalazioni da mezza Italia”. “Spiegati meglio. Cosa sta succedendo?”. “Sembra che gli immigrati in blocco siano rimasti a casa. Operai, muratori, braccianti agricoli, commercianti. Tutti fermi. Praticamente scomparsi!”. “Ma avevate indetto uno sciopero?”. “Noi no e neppure gli altri sindacati. Non ne sapevamo niente. Qui qualcuno si è mosso senza di noi. Ma se credono di farci fuori...”.
“Mauro, ma com’e possibile? Sei sicuro che il caso sia così esteso? Le agenzie parlano solo di Veneto e Brescia”.
“Aspetta e vedrai. Mi hanno chiamato i tuoi colleghi dell’Ansa e dell’Adnkronos. Fra un po’ non si parlera d’altro”.
“Colf e badanti stanno lavorando?”. “E che ne so. Lì è difficile capire: all’interno delle famiglie non abbiamo le nostre rappresentanze”. “Ma i vostri iscritti immigrati cosa dicono?”. “Nessuno risponde al telefono. Neppure i delegati”. “Va bene. Tienimi al corrente, ti prego”. “D’accordo, ciao”. “No, aspetta! Consigliami qualcuno da intervistare”. “Che vuoi che ti dica? Prova a sentire Pietro Soldini, il responsabile nazionale delle politiche migratorie della Cgil”. “Sì. Buona idea. Ho il suo numero. Ciao”. Attacco e chiamo Soldini. Dopo pochi squilli mi risponde. Gli chiedo un’intervista e parto subito con le domande. “Primo, cosa succederebbe se davvero si fermassero tutti i lavoratori immigrati?”.
“Il caos, anzi la paralisi. Il primo settore ad arrestarsi sarebbe quello delle costruzioni. Soprattutto nelle grandi città, dove la manodopera straniera raggiunge punte del 50%. I cantieri si fermerebbero di colpo. Poi toccherebbe all’industria manifatturiera: tessile, metalmeccanica, alimentare. Nelle fabbriche, infatti, i migranti svolgono ruoli chiave e sono difficilmente sostituibili. Un esempio? Gli addetti ai forni a ciclo continuo delle aziende di ceramica. Dopo l’industria, entrerebbe in crisi l’agricoltura: la raccolta è in mano a immigrati stagionali e irregolari. Pensa agli sterminati campi di pomodori in Puglia. Resterebbero vuoti i mercati ortofrutticoli. Poi sarebbe la volta delle aziende zootecniche: nella macellazione degli animali gli stranieri superano il 50% della forza lavoro. E ancora: nelle grandi città dovrebbero chiudere molti ristoranti, alberghi e pizzerie. Tra le famiglie si scatenerebbe il panico e un crollo della qualità della vita, per la scomparsa di badanti, colf e babysitter. Infine, ne risentirebbe la sanità: quella privata dove lavorano quasi centomila infermieri stranieri, e quella pubblica, che si avvale del loro lavoro tramite cooperative e piccole società di servizi”. “Aspetta, non correre”. Finisco di scrivere. “Secondo te cosa vogliono? Quali sono i principali problemi dei lavoratori stranieri?”.
“Intanto sono i meno tutelati: secondo l’Inail corrono il doppio dei rischi d’infortunio rispetto ai lavoratori italiani e, a parità di mansione, percepiscono fino al 40% di reddito in meno”.
“In questi anni, però, molti si sono iscritti al sindacato”. “E’ vero: da noi sono ora trecentomila. I delegati di origine straniera sono circa duemila. L’identikit dell’iscritto? Vive per lo più in Lombardia ed Emilia Romagna, è maschio, maghrebino, ha meno di 35 anni. Lavora nel settore edilizio, agricolo e metalmeccanico”.
“E il lavoro domestico?” “La sindacalizzazione degli immigrati impiegati all’interno delle famiglie resta difficile: il loro lavoro è spesso in nero o precario. Inoltre abbiamo difficoltà a coinvolgere appieno i lavoratori dell’est Europa, che restano legati all’esperienza storica negativa del sindacato avuta nei loro paesi d’origine”. “Se gli immigrati scomparissero di colpo, ne soffrirebbe anche il sindacato?”. “Certo. Fino a poco tempo fa oltre il 50% degli iscritti alla Cgil erano pensionati. Poi, nel corso degli ultimi quattro anni, la tendenza si è invertita, con un incremento degli iscritti tra i lavoratori attivi, soprattutto grazie agli immigrati. Insomma, senza di loro, il tesseramento Cgil arretrerebbe vistosamente”. “Eppure pochi immigrati ricoprono ruoli dirigenziali nel vostro sindacato”. “Stiamo facendo qualche passo avanti. Ora nel nostro direttivo nazionale siedono nove immigrati. Ma hai ragione. Ancora oggi la Cgil non fa davvero i conti con questa nuova realtà. La presenza dei migranti nei ruoli di vertice è troppo bassa. Ti faccio un esempio: nella Fiom il 20% degli iscritti è straniero. Eppure su cinquemila quadri solo 80 sono immigrati”.

Liberazione 15.1.10
«Scioperiamo tutti o niente»
Le voci dei migranti sul 1° marzo
I portavoce delle comunità straniere spingono i sindacati a proclamare una generale astensione dal lavoro
di Laura Eduati

Il primo marzo Rehhal Oudghough, infermiere di origine marocchina, non si presenterà al suo posto di lavoro ovvero al Pronto Soccorso dell'ospedale Galliera di Genova. Con lui rimarranno a casa due infermiere, una ecuadoregna e una rumena. 
Tutti e tre hanno deciso così di aderire alla giornata contro il razzismo "24 ore senza di noi" presa a prestito dalla Francia e che da alcuni giorni sta mobilitando le comunità straniere presenti in Italia. Non senza difficoltà. 
I sindacati sono freddi poiché è tecnicamente impossibile proclamare uno sciopero che coinvolga soltanto i lavoratori di origine straniera. E dunque ogni città e ogni migrante sceglierà una forma di protesta. 
«Non una ma cinque giornate di sciopero dal lavoro dovremmo fare, dopo Rosarno», spiega Oudghough, che fu il primo infermiere straniero ad ottenere l'assunzione in una struttura sanitaria italiana. A Genova la comunità ecuadoregna, maggioritaria, pensa ugualmente di incrociare le braccia. Gli studenti stranieri non andranno a scuola, i mediatori culturali non lavoreranno. 
Così fara anche Marie Lobe, ivoriana presidente dell'Auser di Treviso e operatrice socio-sanitaria. Nemmeno lei, quel giorno, andrà all'ospedale. E poiché non potrà dichiarare di essere in sciopero, come Oudghough prenderà un giorno di ferie o di permesso. «In realtà vorrei che il sindacato mi tutelasse, oppure che dichiarasse uno sciopero generale, anche di un'ora. Gli italiani devono capire che cosa significa vivere senza di noi».
Soltanto una piccola parte dei migranti, però, ha la fortuna di poter scegliere. La maggior parte, e specialmente le colf e le badanti, non potranno astenersi dal lavoro. Nemmeno i tanti lavoratori in nero nei cantieri edili. Ed è ancora prematuro capire come si comporteranno i commercianti.
«L'iniziativa si chiama "una giornata senza di noi", ma quel "noi" non significa soltanto nel lavoro. Possiamo scegliere di non acquistare nulla, di non fare telefonate all'estero oppure di girare con una fascia di colore giallo al braccio», commenta Edda Pando, peruviana da due decenni a Milano, presidente dell'associazione Todo Cambia. 
«Il massimo sarebbe ottenere un'ora di sciopero generale proclamato da Cgil, Cisl, Uil e Ugl», dice Ibrahim Dijallo della Filcem-Cgil di Brescia. Nella città lombarda, come in moltissime altre, sono in corso assemblee per decidere le iniziative. I migranti sono felici perché finalmente qualcosa si muove, sono anni che speravano nello sciopero. Dal lavoro o dai consumi, non importa.
C'è chi, invece, si dichiara contrario all'idea dello sciopero-apartheid. «Peggiorerebbe l'isolamento dei cittadini di origine straniera», ragiona Hicham Mourtadi, operaio metalmeccanico a Varese e nella dirigenza del Prc locale: «Dobbiamo capovolgere la prospettiva. Noi stranieri lavoriamo, studiamo, andiamo a fare la spesa negli stessi luoghi degli italiani. Dobbiamo fare lo sforzo di aderire ancora di più alla società, facendo gli auguri per Natale e festeggiando il 25 aprile, per esempio. E se sciopero deve essere, che sia sciopero per tutti. Italiani compresi».
A Roma la discussione è ancora aperta. L'idea dell'astensione dal lavoro è ormai fuori discussione specialmente perché la stragrande maggioranza dei migranti è impiegato nel terzo settore oppure è lavoratore autonomo. «Finalmente ci stiamo impegnando per una iniziativa che darà visibilità agli invisibili», è il parere di Andrés Barreto, impegnato da anni nel movimento dei migranti della capitale. Il 24 gennaio ci sarà una riunione del Comitato 17 ottobre, che promosse la manifestazione antirazzista dello scorso autunno. Soltanto dopo sarà possibile conoscere la gamma delle iniziative.
Secondo Aly Baba Faye, responsabile immigrazione per Sinistra democratica, è positivo che non vi sia un coordinamento nazionale. «Tutto sta nascendo dal basso, ogni realtà è impegnata a trovare la sua formula ideale». Faye non critica i sindacati: «Capisco che sia impossibile organizzare uno sciopero classico, ma bisognerebbe spingerli a fermare il lavoro per almeno un'ora. Tutti. Questo per far capire che la nostra non è una lotta separata. Se ripetiamo la contrapposizione neri/bianchi come a Rosarno, avremo perso. E soprattutto nessun partito deve mettere il cappello al primo marzo»

l’Unità 16.1.10
Tobino, la follia dello scrivere
di Maria serena Palieri

Quella qui sopra è un’immagine di altri tempi, scattata nella seconda metà del ‘900 ma con un sapore di ‘800: Mario Tobino a passeggio col camice di psichiatra nel «suo» manicomio di Maggiano. Cosa dà alla fotografia il sapore di un tempo che non c’è più? L’iconografia d’un vecchio che non sfoggia smaglianti denti incapsulati né fisico da pantera grigia, e a passeggio, come non si fa più, in un viale come non se ne fanno più. Ma soprattutto quanto sta dietro lo scatto. Se Tobino usa il bastone a seguito di una caduta, siamo nel 1974, quando si ruppe tibia e perone, quindi quattro anni prima della chiusura di Maggiano,
insieme con tutti gli altri ospedali psichiatrici della penisola, in conformità con la legge Basaglia. Quello che passeggia, poi, in camice, è anche un tipo di scrittore in via rapidissima di estinzione, il modello d’artista nato nell’800 ed ereditato dal ‘900. Ovvero lo scrittore non più aristocratico rentier o beneficiato di qualche corte, ma che deve «borghesemente» mantenersi e lo fa con qualche mestiere, «vita vera» da cui trae ispirazione o da cui, scrivendo, rifugge, e non è quindi ancora lo scrittore-professionista di oggi (secondo il modello egemone) che vive della propria penna ma anche, da un festival all’altro, della propria immagine, esperto dello scrivere e troppo poco di altro.
VITA E ROMANZO
Di Mario Tobino oggi è il centenario: nasceva un secolo fa a Viareggio. L’intreccio tra autobiografia e scrittura è nella sua opera particolarissimo: in Una giornata con Dufenne ha raccontato il collegio in cui venne spedito dopo essere stato espulso da scuola, in Sulla spiaggia e di là dal molo l’amatissima Versilia, nella Brace dei Biassoli l’imprinting della ligure famiglia materna, nel Deserto di Libia (da cui l’altro viareggino quasi coetaneo Mario Monicelli ha tratto il film Le rose del deserto) la sua campagna d’Africa, nel Clandestino la sua Resistenza e nel suo titolo più amato, in Italia e all’estero, Le libere donne di Magliano, il «suo» manicomio. Rileggere Mario Tobino, nella ripubblicazione periodica che Mondadori fa dei suoi libri, o nel Meridiano curato da Paola Italia, è un’esperienza emozionante: per lo stile fatto di «vigoria, allegria, occhio, denti» come glielo diagnosticava Cesare Garboli, per la sua toscana accesa e virulenta misteriosità, ma soprattutto per l’intreccio tra la sua scrittura e la sua reclusione. Da psichiatra a Maggiano, nelle sue due stanze spartane, da cui fuggiva per le sue avventure amorose più giovanili e le sue ubriacature (come racconta in lettere e diari), ma dove visse per 43 anni, anche dopo la pensione, in compagnia delle sue «libere donne»: le sue matte. E i suoi matti. Con questa parola semplice, «matti», che per lui racchiudeva la sua esperienza di psichiatria umana affrontò negli anni ‘70 la guerra che lo vide catapultato nei panni di reazionario sul fronte antibasagliano. Eugenio Borgna, nell’introduzione al Meridiano, nel 2007, gli ha restituito luce. Cosa scriveva Tobino nel 1982 negli Ultimi giorni di Magliano? «Io credo che la follia esista e i miei oppositori invece sono convinti che, chiuso il manicomio, svanisca la cupa malinconia, l’architettura della paranoia, le catene delle ossessioni. Che il manicomio sia al massimo libero, fraterno, civile, umano, questo il nostro primo dovere, ma io penso che un luogo che accolga chi sia stato colpito dall’insania sia necessario, un tale luogo esista per il bene dei malati». Rileggere questo Tobino, nel centenario, non è farsi tentare dal revisionismo. È scoprire quante diverse ricchezze di pensiero e di esperienza c’erano, di qua e di là, nell’Italia di quegli anni. ●

il Fatto 16.1.10
Wiesel parlerà alla Camera il Giorno della Memoria
di Paola Zanca

Nel 2002, da leader di Alleanza nazionale e vicepremier, aveva lasciato a bocca aperta deputati e senatori presentandosi alla celebrazione del Giorno della Memoria. L’Olocausto? Disse: “Una mostruosità”. Ora da presidente della Camera, Gianfranco Fini chiama per la prima volta a parlare nell’aula di Montecitorio una persona che con la politica e il potere non ha niente a che fare.Nonèunoacaso.ÈElie Wiesel, uno dei pochi sopravvissuti ad Auschwitz ancora in vita, premio Nobel per la Pace, che da cinquant’anni, con le armi dei libri, combatte la sua battaglia contro “i nemici della memoria”. Finora, alla Camera avevano parlato solo capi di Stato, rappresentanti di istituzioni: Papa Wojtyla, il re di Spagna Juan Carlos. Fini ha alzato il telefono, chiamato New York e proposto a Wiesel, che dagli anni Sessanta vive in America, di venire in Italia a ricordare quell’orrore. Il Giorno della Memoria si celebra da dieci anni: per ricordare lo sterminio e le persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti si sono organizzate mostre, visite istituzionali, concerti, proiezioni, iniziative nelle scuole. A proporre la sua istituzione, nel gennaio del 2000, fu il deputato Furio Colombo. La data scelta fu il 27 gennaio, la stessa in cui nel 1945 vennero abbattuti i cancelli di Auschwitz. “Si era molto discusso, a destra, se non fosse il caso di parlare anche di foibe e di gulag – ricorda Colombo – Io allora spiegai al Parlamento che foibe e gulag sono orrendi delitti, ma la Shoah è un delitto italiano: senza la partecipazione italiana, il progetto tedesco non avrebbe mai potuto diventare europeo. È vero che ci furono generali e comandanti, come Giorgio Perlasca, che salvarono anziché condannare, ma ricordo anche che le leggi razziali furono approvate all’unanimità. Per questo – prosegue il deputato Pd – nel 2000 chiesi all’aula di comportarsi allo stesso modo nel voto sulla legge che istituiva il Giorno della Memoria. Devo dire che la mia implorazione fu accolta. L’invito a Wiesel è il coronamento di questo percorso: la Giornata diventa così importante non solo per il paese, per i giovani, per le scuole, ma anche per il Parlamento che ascolterà la testimonianza di uno dei pochi sopravvissuti ancora viventi”. Wiesel, nato in Romania nel 1928, fu deportato assieme alla famiglia, perché ebreo. Ad Auschwitz condivise la prigionia con Primo Levi, poi finì a Buchenwald dove gli americani lo trovarono, stipato in mezzo ad altri mille ragazzini, quando entrarono nel campo. Un mese fa, dopo il furto dell’insegna di Auschwitz, scriveva: “In questa nostra era di confusione e sfiducia, la Verità è sempre in prima linea, al fronte, e i suoi nemici sono i nemici della Memoria”. Il pomeriggio del 27 lo ricorderà ai nostri parlamentari. Anche a chi ogni tanto ha la memoria corta.

venerdì 15 gennaio 2010

Agi 15.1.10
Riccardo Lombardi: Ventura, un pensiero rivoluzionario forte
Roma, 15 gen. - Oggi che la politica e' ridotta a pura gestione del potere riscoprire la figura e il pensiero di Riccardo Lombardi e' un esercizio assolutamente salutare. Lo scrive sul settimnale 'Left', Andrea Ventura, docente di Economia politica all'Universita' di Firenze, recensendo il libro di Carlo Patrignani in uscita il 21 prossimo 'Lombardi e il fenicottero' (Edizioni L'Asino d'oro). "Lombardi fa parte di quella generazione che, all'opposto, subordinava - sostiene l'economista - l'azione politica alla riflessione sui grandi nodi dello sviluppo sociale e civile del paese. Discutere delle sue idee quindi di per se' getta luce sulle miserie della politica odierna". Tanto che l'Ingegnere socialista previde con un decennio d'anticipo la fine dello stesso Psi. "Un Psi cosi' non ha motivo di esistere" fu la conclusione della sua arringa il 30 giugno 1984 ad un Comitato Centrale prima muto poi tutto in piedi a scandire il suo nome quando a fatica riguadagnava l'uscita. Dal libro emerge, "in modo lampante il passaggio storico, il cambio di clima, il cambio di paradigma politico e di assetto delle forze in campo che avviene tra gli anni '70 e gli anni '80 quasi che nello scorcio di pochi anni e in particolare tra il 1976 e il 1979, nel periodo cioe' che ha visto il Pci entrare nell'area di governo, si fosse consumata ogni possibilita' di offrire ai movimenti degli anni '70 uno sbocco in grado di avviare un mutamento negli assetti politici e sociali del paese". Lombardi, infatti, aveva ben chiari i limiti dall'assioma fondamentale del marxismo per il quale il superamento dei rapporti di produzione capitalistici costituisce la condizione essenziale per la costruzione di una societa' socialista, ma al contempo era convinto che ogni riflessione sull'economia dovesse partire dal concetto di alienazione di Marx. Egli era dunque distante sia dal riformismo del partito socialista, che comportava l'abbandono di ogni prospettiva di superamento del capitalismo, sia dalla proposta di "compromesso storico" avanzata nel 1973 dal Pci di Berlinguer. Lombardi non solo si definiva "a-comunista", ma riteneva che nessuna riflessione sulla scissione mezzi-fini e sui crimini dello stalinismo potesse prescindere da una critica piu' profonda al nucleo platonico cristiano di tutte quelle filosofie per le quali la storia avrebbe una sua razionalita' legata al compimento di un fine ultimo trascendente, del quale qualcuno, uomo, stato, partito o chiesa, sarebbe l'interprete". Lombardi fu "profondamente democratico ma anche rivoluzionario - continua Ventura - La sua pratica politica, definita come 'riformismo rivoluzionario' per il voler tenere insieme la prospettiva di governo con quella dei movimenti di massa, non poteva che basarsi su di una dimensione culturale". Il libro e' accompagnato da una prefazione di Marco Pannella e arricchito da interviste a Michele Ciliberto, Giorgio Ruffolo e Tullia Carettoni. (AGI)

Il Velino 14.1.10

CLT - Libri / E Lombardi scrisse a Fanfani: all’Eni appoggia Ruffolo
Roma, 14 gen Non una raccomandazione e nemmeno “un favore”, ma solo l’intenzione di “evitare un misconoscimento” tale da provocare un danno per l’Eni, già scosso dalla morte di Enrico Mattei. È il senso della lettera che l’8 novembre 1962 il leader della sinistra socialista Riccardo Lombardi inviò al presidente del Consiglio, il democristiano Amintore Fanfani, per caldeggiare il socialista Giorgio Ruffolo. A riportare la missiva, finora inedita, è il libro “Lombardi e il Fenicottero” (L’asino d'oro edizioni) di Carlo Patrignani, che l’ha ritrovata nel fondo Fanfani contenuto nell’archivio storico del Senato. “Caro Presidente, dopo la nomina del Prof. Girotti alla Direzione Generale dell’Eni - scriveva l’esponente del Psi - pare che nella scelta delle cariche più vicine e in particolare dei Vice Direttori, il nome del prof. Giorgio Ruffolo non sarebbe preso nella giusta considerazione. Se così stessero le cose non ti so dire quanto gravi e lesive per noi sarebbero considerate: la posizione difatti di Ruffolo nell’Eni costituisce, a nostro giudizio, una essenziale garanzia di serietà e di efficienza nella Direzione dell’Ente, specie nella Direzione della Programmazione Economica (…) Comunque - chiariva Lombardi - sia chiaro che questo mio intervento non è per nulla rivolto a sollecitare un favore, ma ad evitare un misconoscimento che obiettivamente non si risolverebbe favorevolmente al buon funzionamento dell’Ente: ed è a tal fine e a questo soltanto che mi permetto di contare sul tuo appoggio”.

Ruffolo, infatti, da poco entrato nelle fila socialiste dopo un passato trotzkista, era allora assieme a Giuliano Amato, Gino Giugni e Antonio Giolitti parte di quel gruppo di “ingegneri sociali” che con la programmazione economica puntava a ridurre gli squilibri Nord-Sud ma soprattutto a realizzare, come auspicato da Lombardi, le cosiddette “riforme di struttura” che avrebbero dovuto portare l’Italia verso il socialismo. Il libro di Patrignani riporta per la prima volta per intero anche la durissima lettera che Togliatti inviò a Pertini dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria, per chiedere un intervento contro Lombardi, che a furia di parlare della “non riformabilità” del sistema sovietico influenzava indirettamente il dibattito interno al Pci. “Si tratta dell’attività del compagno R. Lombardi - scriveva il 14 gennaio 1957 il Migliore al futuro capo dello Stato - per disgregare o tentare di disgregare il nostro partito. È cosa un po’ umiliante per lui, vederlo ridursi a questa funzione, di colui che cerca la spazzatura in casa altrui e crede di potersene nutrire. Mi pare che, poiché Lombardi è della vostra Direzione, ciò dovrebbe essere in seno a questa l’iniziativa di dargli un ammonimento”. Insomma, nel momento in cui accusava Lombardi di immischiarsi nelle faccende interne del Pci, Togliatti entrava a piedi uniti in quelle del Psi, invocando ripercussioni per il reprobo.

Fra le altre lettere inedite a Fanfani, invece, sono due quelle riportate nel volume a spiccare per rilevanza: una, nel ‘62, per sollecitare i contatti fra parti sociali per l’adozione dello Statuto dei lavoratori, che invece sarebbe stato istituito solo otto anni dopo (“mi permetto di insistere sull’opportunità di non ritardare almeno l’annuncio delle conversazioni coi sindacati”). L’altra è relativa all’attività per la riforma della mezzadria, che suscitava le ovvie preoccupazioni di quel blocco di potere democristiano rappresentato dal mondo agrario. A esprimere i propri timori a Fanfani è il presidente della Federconsorzi Paolo Bonomi, deputato Dc e fondatore della Coldiretti. “Caro Presidente, l’on. Riccardo Lombardi nell’intervista pubblicata il 5 febbraio sul Messaggero’ ha dichiarato: ‘(…) Il punto nero rimane la Federconsorzi. È quasi certo che su questo punto troveremo difficoltà e ostacoli notevoli. Noi non vogliamo liquidare la Federconsorzi, chiediamo però che sia riformata in modo da consentire l’accesso all’organizzazione di tutti gli agricoltori indistintamente. È una cosa che tocca direttamente Bonomi, lo so, ma così com’è la Federconsorzi non è utile al paese, ma a un solo partito’. E in una circolare inviata dalla Direzione del Psi alle proprie Federazioni si dice: ‘Saranno costituiti ovunque Enti di Sviluppo per l’agricoltura. Verranno promosse misure contro il monopolio degli ammassi della Federconsorzi e per la sua democratizzazione’”. Eloquente la conclusione del parlamentare a Fanfani: “Come benissimo puoi comprendere tutto ciò non può farmi star tranquillo”.

Agenzia Adn-Krons 14.1.10
Riccardo Lombardi, il politico che sognava “una società diversamente ricca”
Roma – Riscoprire tutta l’attualità di Riccardo Lombardi, un politico che sognava una “società diversamente ricca”, in nome di un “benessere” che volesse dire “più cultura, più soddisfazione dei bisogni umani, più capacità per gli operai di leggere Dante e di apprezzare Picasso”. Questo l’obiettivo che il giornalista Carlo Patrignani persegue nel saggio "Lombardi e il Fenicottero", il nuovo studio sul socialista di ‘ferro’ inviso a Togliatti in uscita a fine gennaio con L’Asino d’oro edizioni. Il libro - primo volume della collana di saggistica della casa editrice con il logo tratto dal romanzo di Apuleio, fondata da Matteo Fago e Lorenzo Fagioli - è arricchito dalla prefazione di Marco Pannella. Personalità rara, per sensibilità e concezione “alta” del fare politica, Lombardi fu tra i protagonisti della Liberazione prima e della Costituente poi: promotore nel 1946 della Repubblica presidenziale - al suo posto passò l’attuale Repubblica parlamentare -, non mancò mai di confrontarsi con i movimenti, con il ’68 e il ’69, respingendone fermamente le forme “deliranti”. Riccardo Lombardi ha attraversato le fasi cruciali della Repubblica, praticando sempre la “non violenza” anche verbale: progettò il primo centro sinistra riformatore, propose inascoltato l’alternativa di sinistra, ideò la programmazione economica e le riforme di struttura, coerente con il suo “riformismo rivoluzionario”.

Agenzia Adn-Krons 14.1.10
Libri: Carlo Patrignani firma “Lombardi e il fenicottero”
14 gennaio, Roma, 14 gen. - (Adnkronos) - Un politico che ha dato prova di integrita' morale e di impegno civile. Un'integrita' che appare molto lontana dal comportamento normale della maggior parte dei suoi colleghi. E' questo il ritratto di Riccardo Lombardi, - politico siciliano di lungo corso della Prima Repubblica, morto a Roma nel 1984 - che Carlo Patrignani propone nel saggio ''Lombardi e il fenicottero'' pubblicato da l'Asino d'oro. Secondo Patrignani, Riccardo Lombardi e' stato un uomo di cui ci si poteva fidare quasi ad occhi chiusi. Un riformista rivoluzionario che non e' stato sconfitto dal tempo ma che rappresenta ancora oggi un esempio da seguire. La figura di Riccardo Lombardi, spiega nel suo volume Patrignani, puo' costituire ancora oggi un esempio irrinunciabile. Nel corso della sua lunga carriera Lombardi ha attraversato i passaggi piu' significativi della storia della Prima Repubblica. L'autore mette in luce, per la prima volta, il ruolo della moglie Ena, il noto fenicottero, uno dei punti di riferimento imprescindibili per Lombardi. ''Questo libro - scrive Carlo Patrignani - vuole essere un modesto riconoscimento all'uomo politico tra i piu' ammirati e temuti ma anche, per la sua atipicita', tra i meno ascoltati. Al tempo stesso - aggiunge Patrignani - vuole rendere onore a una donna straordinaria, risoluta e tenace, Ena Viatto, l'intrepido fenicottero che seppe dire no al leader maximo del comunismo italiano e divorziare dal suo primo uomo, anche lui comunista, perche' innamoratasi dell'Ingegnere non comunista, ma amico degli antifascista''. Laureato in ingegneria industriale, Riccardo Lombardi nel 1942 fu tra i fondatori del partito d'Azione. Dopo il 25 luglio del 1943, e la caduta del regime di Mussolini, firmo' il patto costituivo dei Comitati di liberazione nazionale, rappresentando il suo partito nel Clnai (Comitati di Liberazione nazionale Alta Italia). Quando il partito d'Azione si sciolse entro' a far parte del partito Socialista italiano assumendo, secondo quando ricorda Patrignani, la posizione di un riformista rivoluzionario. Il racconto di Petrignani, ricco di ricordi, documenti e ricostruzioni mette in evidenza lo spessore culturale e politico di uno statista alla ricerca di una via d'uscita da una societa' ''spietata con i deboli, corriva coi potenti''.

l’Unità 15.1.10
Senza questa parte significativa della società non ci sarebbero stati i risultati su aborto e divorzio
Le scelte Radicali
I cattolici appoggeranno Emma Bonino
di Luigi Manconi

Ese, contrariamente a quanto vogliono i più pigri luoghi comuni, una delle principali risorse di cui può disporre Emma Bonino «fosse proprio il voto dei cattolici?»Da giorni, cattolici ardenti e laici autolesionisti, analisti senza fantasia e lobbies clericali si affannano a dire che la scelta della Bonino accelererebbe la «deriva laicista» del Pd.
Eppure, da almeno 35 anni si sa che la definizione omnicomprensiva di «mondo-cattolico» non regge: non uno, ma molti sono i mondi all’interno dello stesso cattolicesimo italianoE, dunque, molte le forme della fede e della pratica religiosa, tante e articolate le scelte di vita e le appartenenze, differenti fino alla più radicale contrapposizione le modalità della partecipazione pubblica e le opzioni di votoÈ quella che viene definita «la fine dell’unità politica dei cattolici».
Pertanto, hanno buon gioco i Radicali, ad argomentare che, da decenni, una parte rilevante del voto dei cattolici sostiene le loro battaglie: non si spiegherebbero altrimenti i risultati dei referendum su divorzio e abortoÈ un argomento decisivo, il cui significato va ben oltre l’epoca di quei referendum (1974 1981)È vero che, da allora, alcune fratture all’interno del cattolicesimo italiano, e tra credenti e gerarchie, si sono ricomposte, che «il dissenso» dei cattolici «di base», ha abbassato i toni e si è come acquietato, ma è altrettanto vero che lo «scisma sommerso», di cui ha scritto Pietro Prini, si è diffuso e sedimentato, senza insorgenze dirompenti ma anche senza abiure chiassoseIn quel libro, il filosofo cattolico parlava, appunto, del divario profondo, apertosi tra la dottrina ufficiale e le coscienze e i comportamenti dei fedeliUna delle conseguenze di quel divario è l’autonomia delle scelte politiche, che vengono formulate in base a considerazioni che sempre meno hanno a che vedere con le opzioni di fedeTale processo non riguarda solo i semplici credenti, ma coinvolge anche una parte delle gerarchie, quelle che sono meno inclini ad assumere posizioni pubblicheTutto ciò, in genere, viene classificato come secolarizzazione: ovvero la tendenza ad adottare comportamenti e modelli di vita immanenti, non derivati da dogmi di fede o da morali sovradeterminate. Ma il termine secolarizzazione è oggi inadeguato perché si limita a dichiarare solo ciò che non è.
E invece l’attuale realtà sociale è più fertile e ricca, attraversata da una pluralità di sistemi di valori che aspirano, tutti, a una propria fondazione moralePer capirci: la posizione dei Radicali sulle questioni di fine vita non può essere definita in alcun modo come amorale, quasi fosse l’esito ultimo di una secolarizzazione che avrebbe escluso qualsiasi considerazione etica nell’elaborazione delle proprie concezioniAl contrario: le politiche sulle questioni di fine vita, ma anche lo stesso antiproibizionismo, sono il frutto di una riflessione morale che pone al centro l’integrità della persona umana, la sua unicità e irripetibilità, la sua dignità e, dunque, i suoi dirittiIl recente impegno dei Radicali sull’immigrazione, dove l’incontro con la pastorale della Chiesa appare naturale, è lo sbocco di un percorso che vede il garantismo iniziale, perfino troppo freddo, farsi via via fatto intenso, incarnandoci nella concreta e dolente materialità dei corpi migranti (come in quella dei corpi reclusi)Se ciò è vero, l’antropologia radicale rivela profondi punti di contatto con l’antropologia cristiana, anch’essa fondata sui concetti di dignità e integrità della personaPoi, certo, le conseguenze politiche possono essere divergenti, ma resta una ineludibile necessità di interlocuzioneIn altre parole, le controversie etiche finiscono con l’avvicinare i cattolici (e anche le gerarchie) ai Radicali più di quanto li avvicinino ai titolari di una concezione agnostica e amorale della vitaL’«anarchia dei valori» rivendicata da Silvio Berlusconi può risultare comoda per il Vaticano solo perché inserita in un sistema di rapporti dove dominano interessi corposi e scelte pragmatiche, scambi in solido e mutuo soccorsoMa quando le questioni sciaguratamente definite «eticamente sensibili» si rivelano per quello che realmente sono (diritti sociali e diritti civili), e richiamano esperienze e sofferenze, le politiche che tutelano le libertà fondamentali di ognuno si rivelano le sole che muovono e commuovono il «popolo», credente o non credenteCome, quel 24 dicembre 2006, a Roma, quando una folla popolare partecipò alla cerimonia funebre per Piergiorgio Welby, davanti alle porte chiuse della chiesa di San Giovanni Bosco, che non aveva accolto la sua salma.❖

l’Unità 15.1.10
Perché Emma può piacere ai cattolici
di Giulia Rodano

A differenza di alcuni esponenti cattolici del Pd, da cattolica non provo alcun disagio per la candidatura di Emma Bonino a Presidente della Regione LazioCome cattolica non mi sono sentita in contrasto con la mia fede quando ho sostenuto la battaglia per l’introduzione del divorzio o quando ho votato per difendere la legge che consentiva l’interruzione della gravidanza o la legge sulla fecondazione assistita. Alla base di quelle scelte c’erano, per quel che mi riguarda, motivazioni diverse da quelle utilizzate in qualche caso dai radicaliPer me, ad esempio, la legalizzazione dell’aborto ha costituito la possibilità di combattere l’aborto clandestino e alla fine di poter ridurre il ricorso all’aborto, più che l’affermarsi di un nuovo diritto di libertàPer me tuttavia è essenziale affermare in ogni luogo e in ogni momento l’autonomia di valutazione di coloro che, impegnati in politica, devono scegliere ciò che, in coscienza, ritengono il bene comune raggiungibileAltrimenti, quando si decide per tutti e per tutte, per un intero Paese e non si valuta laicamente, non si assumono posizioni “cattoliche”, ma si rischiano posizioni illiberali.
Ho imparato dalle idee e dalle battaglie condotte per tutta la sua vita da mio padre che la divisione non è tra laici e cattolici, ma tra democratici e integralisti e che esistono democratici e integralisti sia tra i laici che tra i cattolici.
I credenti devono, se ne sono in grado, essere un lievito nella società, essere testimoni di visioni e comportamenti derivanti dalle loro scelteMa la testimonianza è forte se è libera e se sostiene e difende la libertà di tuttiNon esiste testimonianza senza libertàNessuno può sostenere che Emma Bonino sia mai venuta meno a questa impostazione.
A sinistra c’è preoccupazione che la candidatura di Emma Bonino non rappresenti quel punto di sintesi necessario per costruire una coalizione che possa battere quella di centro-destraConfesso che non mi è mai piaciuta l’idea che i candidati vincenti debbano essere incolori e insapori o quelli costruiti, come la Polverini, nei salotti televisiviNon mi spaventano la storia, le battaglie, la forte caratterizzazione politica del candidato presidente se so che il punto di forza di una candidatura sta soprattutto nella capacità di costruzione di una coalizione e nella condivisione di un programmaEmma Bonino ha l’esperienza politica per capire che la sua possibilità di successo non sta semplicemente nella sua biografia, che pure è importante, ma nella sua capacità di stringere con chi la sostiene un patto politico-programmatico all’altezza dei problemiCredo che «Sinistra, ecologia e libertà» debba cogliere questa occasione e, verificando le condizioni politiche e programmatiche, contribuire a costruire, nonostante le incertezze del Pd, un centrosinistra vincente anche per il peso significativo esercitato dalla sinistra.❖

il Fatto 15.1.10
“La Bonino può rappresentare i cattolici”
Avena, il direttore di Adista spiega che il voto identitario dei credenti riguarda solo una minoranza “Le indicazioni delle gerarchie contano relativamente, le scelte sono fatte di testa propria”
di Marco Politi

“C’è un mondo cattolico che non ha paura della candidatura di Emma Bonino. E certamente le posizioni di una Binetti e di un Rutelli non hanno nulla a che fare con la realtà viva della maggioranza dei credenti”. Giovanni Avena, direttore dell’agenzia Adista, che da quarant’anni informa sul mondo cattolico e sulle esperienze religiose in Italia senza essere organo di nessuna struttura ecclesiastica, nega che la radicale Bonino spaventi l’elettorato credente. Enzo Carra e Renzo Lusetti abbandonano il Pd. La Binetti scalpita. L’Avvenire critica. Qualche vescovo ha cominciato a suonare l’allarme. Il tam-tam è che l’elettorato cattolico si possa allontanare. “E io sono convinto, invece, che Emma Bonino, pur venendo dall’esperienza dei radicali, può rispondere a esigenze e bisogni del mondo cattolico. Perché è una personalità europea, ha una storia personale seria, è un politico serio. Ma soprattutto perché il mondo cattolico non è fatto di bacchettoni (che esistono ma si vanno riducendo) bensì di gente che va a messa, legge, si istruisce, si impegna nelle parrocchie, ma discute, fa le sue scelte ed è pronta a discutere anche di temi etici da posizioni non dogmatiche”. D’accordo, il mondo cattolico non è monolitico.
“Direi di più. Coloro che nel voto intendono esprimere un identitarismo cattolico sono minoranza. La maggioranza dei cattolici vuole un Paese amministrato da gente seria, con esperienza. Personaggi come la Binetti o Rutelli non rappresentano in nessun modo il mondo cattolico, riflettono una presenza che deriva da una cultura ante e anti-conciliare. Un tipo di cultura che non si ritrova nemmeno nella maggior parte del clero, che per quanto moderato o modesto è pronto a discutere con la Bonino e il suo mondo”. Questioni come il testamento biologico o la fecondazione artificiale o le coppie di fatto, cavalli di battaglia dei Radicali e della Sinistra, non fanno da ostacolo?
“No. Perché lo stesso clero ha la gente addosso, che gli va a raccontare i propri problemi con la contraccezione, gli aborti, la fecondazione assistita, le convivenze, l’omosessualità. Gente che racconta di tragedie o di problemi quotidiani e che vuole essere, non legittimata, ma riconosciuta e accolta. E il clero li accoglie, mentre le posizioni alla Binetti no”.
Le massime autorità ecclesiastiche ribadiscono sempre che vi sono principi “non negoziabili”.
“Che non incidono molto nella vita quotidiana dei credenti, ma servono solo alla gerarchia per sedersi ai tavoli della politica e contare”.
Non pesano al momento del voto? “Non sono per niente dirimenti. Dopo le elezioni politiche del 2008 un sondaggio SWG tra i cattolici praticanti mostrò che i temi cosiddetti etici non avevano minimamente pesato. Il voto si è laicizzato ed è anche positiva la polarizzazione che contrappone un “cattolicesimo di presenza” ad un mondo cattolico libero da pastie, che ragiona autonomamente con il cuore e la testa”.
Si può calcolare l’incidenza diretta delle indicazioni ecclesiastiche sul voto? “Difficile quantificare. In certi luoghi è del 3-5 per cento, in altri arriva fino al 10. E’ un fenomeno a macchia di leopardo che dipende da tradizioni o personalità locali. Comunque è già un indicatore il fatto che l’Udc sia al di sotto del 10 per cento ed è chiaro che larga parte del voto Udc non viene da motivazioni cattoliche in senso stretto”.
Qual è allora la stella polare del voto dei credenti? “Un’idea di bene comune che si identifica in temi come la famiglia, la solidarietà, la giustizia, l’accoglienza dello straniero. Temi che scaturiscono dal cuore del Vangelo. I fatti di Rosarno, ad esempio, hanno svegliato molti cattolici e creato un senso di ribellione verso il regime politico-culturale del berlusconismo. Bene comune per il cattolico medio significa anche liberarsi dall’abbassamento dei livelli etici e culturali del berlusconismo. Non è una rivendicazione moralistica, è un moto di insofferenza in aumento. Ricordiamoci che quando Boffo intervenì sull’Avvenire sui comportamenti del premier, era perché i lettori cattolici praticanti protestavano per il silenzio del giornale. E pi la gente si è stufata delle leggi ad personam. Per un po’ ha preso parte al dibattito, adesso dice “Basta!”.
Sentono che sono problemi che non li riguardano”. Tutto lineare? “No. L’insofferenza che cresce porta con sé il rischio dell’indifferentismo e del qualunquismo. E dunque alla fine può dare a beneficio di Berlusconi. Però mentre in stagioni passate c’era una maggioranza di cattolici che era soddisfatta del collateralismo della Chiesa con la Democrazia cristiana, oggi cresce il numero dei fedeli che ritiene innaturale il collateralismo con Berlusconi. E non parlo di “cattolici del dissenso”, mi riferisco a semplici fedeli praticanti, che vanno a messa”.
Il fedele della normale quotidianità che posizione tende ad avere? “Vuole capire, anche se c’è molta confusione. Non si muove più in base ad una obbedienza cieca. Fa scelte autonome. Non ritiene gli altri “peggiori”. Gli sta a cuore un cristianesimo vissuto nel quotidiano, una esibizione di “cristianità” non gli interessa”.
Nell’urna si tratterà di scegliere tra la Polverini e la Bonino. “Precisamente. E sarà una scelta dettata dalla coscienza. Chi sente più l’appartenenza religiosa, sarà per la Polverini. Chi da cattolico accetta la sfida della storia, si troverà benissimo con la Bonino. Certamente la sfida con il futuro i credenti la vivranno meglio con la Bonino che con la Binetti”.

il Fatto 15.1.10
Fuga dal Pd e da Bonino
risponde Furio Colombo

Caro Colombo, grande fuga dei cattolici dal Pd, come se Emma Bonino fosse un incrocio fra Attila e Odifreddi. C’è una spiegazione?
Edoardo

PER LA VERITÀ non così tanti cattolici fuggono all’arrivo di Emma Bonino. Ma un giorno Ilvo Diamanti, che si è dedicato alla paura indotta dai media per la criminalità che non c’è, offrirà un po’ del suo lavoro specialistico all’altra grande distorsione, sempre a cura dei media, di ciò che pensano, temono e fanno i cattolici. A sentire batterie di commentatori e specialisti, i cattolici italiani si scostano di colpo, tutti insieme, nello stesso istante, al primo accenno di un non credente che si avvicina a qualunque tipo di responsabilità piccola o grande, dal maestro elementare che decide di non fare il presepe in classe, ora che il presepe è diventato manifestazione leghista (dopo il modesto successo dell’acqua del Po) al politico nazionale che osasse mettersi dalla parte della scienza nella difesa della libera ricerca scientifica. Devo dire che mi meraviglia un giudizio così modesto dei cattolici italiani a cui si deve (parlo della collaborazione fra credenti e non credenti altrettanto consapevoli della condizione italiana e dei nostri comuni problemi) tutto ciò che di moderno e di europeo c’è oggi in Italia. Osservo lo sdegno triste con cui Enzo Carra dichiara incompatibilità con la candidatura di Emma Bonino a presidente della regione Lazio. Osservo il suo fermo e austero transitare nella Udc. Penso ai gesti dei pochi che lo hanno preceduto e seguito e mi dico che, prima ancora di essere eletta, la Bonino sta già rendendo un servizio al Pd. Aiuta alcuni sperduti a orientarsi. Un saluto cordiale e rispettoso per Carra che ha identificato il suo posto giusto. E auguri a senatori, senatrici, deputati vari del Pd (però, ripeto, pochi rispetto al clamore dei giornali) che continuano a esprimere angoscia per la candidatura della miscredente Bonino, ciascuno con tre interviste quotidiane. E poi non se ne vanno. Questo vuol dire che, forse, i nostri veri credenti non hanno trovato finora centri di accoglienza adeguati alle loro legittime aspettative. Oppure che, una volta pagato il necessario tributo alla Cei e pronunciata la frase giusta per la citazione su Avvenire, non se ne vanno perché si aspettano dalla Bonino una seria campagna elettorale e un buon risultato politico. Se è così, ecco la prova di ciò che dicono e ripetono i Radicali. Molte cose importanti in questo paese si fanno assieme ai cattolici.

il Riformista 15.1.10
La strana guerra Polverini vs. Bonino destra e sinistra si scambiano candidate
Profili. La sindacalista vecchio stampo e la liberista reaganiana. Si affrontano con fair play femminile, ma intorno a loro è guerra campale.
DI Peppino Caldarola

Lo scontro Bonino-Polverini è senza dubbio il più interessante della prossima guerra regionale. In primo luogo perché è una battaglia dall’esito incerto. La sinistra considera la Polverini una candidata insidiosa, ma anche il centrodestra teme la Bonino. È stato proprio il capogruppo alla Camera del Pdl, Fabrizio Cicchitto, a mettere in guardia il proprio schieramento dalla sottovalutazione della leader radicale. Due donne che si fronteggiano è in ogni caso una novità assoluta nella politica italiana. E questo è un altro dato fuori dal comune. Paradossalmente le due rivali hanno anche altri tratti in comune. Sono, infatti, due scelte mediatiche. La Polverini è stata lanciata nella grande scena politica da un’ossessiva presenza in tv che ne ha fatto una vera star dei talk show. La Bonino fa notizia anche quando sta zitta, il che accade di rado. Sono anche due personalità politiche abbastanza eterodosse nel proprio campo. La Polverini con la sua militanza finiana non è certo nel cuore dei sentimenti del centrodestra a maggioranza berlusconiana. La Bonino ha sollevato ampie riserve non solo nell’area cattolica più tradizionalista del Pd, provocando i tormenti della Binetti e la fuoriuscita di Renzo Lusetti e Enzo Carra approdati nell’Udc, ma anche nell’area più di sinistra.
Si tratta inoltre di due candidature, per così dire, imposte. Né Polverini né Bonino sono la pri-
ma scelta dei rispettivi schieramenti ma sono state il punto di approdo di una difficile ricerca di altri nomi. Nel caso della Bonino si è trattato di una vera occupazione di uno spazio pubblico che il Pd aveva lasciato deserto dopo la rinuncia di Zingaretti. Nel caso della Polverini, il Pdl ha dovuto pagare un prezzo alla necessità di dare spazio al protagonismo finiano.
Il repertorio delle differenze fra le due rivali appare altrettanto ampio. L’una, la Polverini, è una sindacalista vecchio tipo. L’altra, la Bonino, è una antica reaganiana. Non è per caso che la Polverini abbia ricevuto tanti consensi nell’area di sinistra e che la Bonino piaccia ai vecchi liberisti di destra. Ciascuna delle due darà un’impronta alla campagna elettorale che potrà sfigurare il proprio campo. Il prezzo che paga il centrosinistra alla candidatura della Bonino è più alto. Bonino è una leader di lunga data, con un profilo politico assai pronunciato che corre dalle battaglie sui diritti civili, alla militanza libertaria, all’antigiustizialismo fino all’anti-sindacalismo. Tutti temi che non sono nel programma originario di questo centrosinistra. La Polverini appare come la prosecutrice di una tradizione politica che poggia l’azione pubblica sull’incremento della spesa, praticamente il contrario del tremontismo dilagante. Destra e sinistra per tanti aspetti si sono scambiate le candidate.
Ciascuna delle due ha punti deboli abbastanza significativi. Per la Polverini sarà un compito arduo convincere alla fedeltà quei settori del Pdl che non amano Gianfranco Fini e che soprattutto la considerano un outsider della battaglia politica. Per la Bonino vale il contrario. Molti nel centrosinistra la vedono come espressione di una vecchia classe dirigente, ancorché minoritaria come quella radicale, non in grado di riunire attorno a sé le varie anime della coalizione.
Finora Bonino e Polverini si sono ignorate. Probabilmente si ignoreranno per tutta la campagna elettorale. Ma i rispettivi supporter stanno affilando le armi. Se Europa, il quotidiano del Pd un tempo legato a Francesco Rutelli, sottolinea gli insuccessi sindacali della Polverini praticamente accusandola di aver guidato un sindacato inesistente con un tesseramento gonfiato, ieri sul Foglio Giuliano Ferrara ha letteralmente “massacrato” la Bonino non solo per le sue battaglie abortiste ma accusandola di essere una vanesia presenzialista e una noiosa vittimista.
La vittoria dell’una o dell’altra non sanerà i conflitti nelle coalizioni d’origine. La presenza della Polverini alla guida del Lazio rafforzerà la componente finiana dando una nuova postazione di potere al gruppo legato al presidente della Camera. Il Pdl di rito berlusconiano celebrerà in questo modo anche la propria estromissione dai gangli del potere laziale e romano dopo aver ceduto la poltrona di sindaco ad Alemanno. La Bonino ha già chiarito che non si considera una candidata del centrosinistra. Con una singolare inversione di collocazione ha dichiarato che non è stata lei a scegliere il centrosinistra, ma il centrosinistra a dover convergere su di lei. Una sua vittoria, che nelle caselle nazionali sarà iscritta a vantaggio di Bersani, nella pratica dei prossimi anni rivelerà la sua eccentricità. Bonino è stata un ministro leale del governo Prodi, è assai difficile che sarà una fedele rappresentante del centrosinistra una volta che dovesse insediarsi negli uffici di via Cristoforo Colombo a Roma.
Non sarà una battaglia fra il vecchio e il nuovo. Bonino, pur avendo molti più anni di militanza politica, è per tanti aspetti una candidata sorprendente. Per la prima volta con lei i radicali si misureranno con il tema del governo locale e dovranno pronunciarsi su questioni diverse da quelle battaglie sui diritti che ne hanno segnato tutto l’arco dell’esperienza politica. La Polverini, pur essendo alla sua prima uscita nel palcoscenico della grande politica, è invece per altri aspetti una candidata tradizionale affezionata ai temi sociali. La battaglia fra le rivali sarà vinta da chi riuscirà da un lato a perdere meno dal proprio campo, superando le diffidenze che ne hanno accompagnato la discesa in campo, dall’altra nella capacità di attrarre gli scontenti dell’altro schieramento. La sindacalista e la liberista frantumeranno probabilmente le vecchie appartenenze. Per il Pd del dopo-Marrazzo sarà una boccata d’ossigeno, per il Pdl che vuole uscire dal berlusconismo, un’occasione da non perdere. Quel che è certo è che alla fine vinceranno loro, e non gli schieramenti a nome dei quali combatteranno.

il Riformista 15.1.10
Cosa accomuna cattolici e radicali
di Marcello Buttazzo

Il centrosinistra dovrebbe per numerosi motivi appoggiare compattamente Emma Bonino, che potrebbe essere un’ottima e illuminata presidente di regione. Nei giorni scorsi, il senatore Franco Marini molto opportunamente aveva esortato il suo schieramento solitamente litigioso a porre fine ai nocivi dissapori e, facendo appello soprattutto ai cattolici, a dire basta alla distruttiva «lotta fra guelfi e ghibellini». Quando Marini sostiene con convinzione che i radicali e i cattolici hanno a cuore la centralità della persona, poiché il loro raggio d’intenti può essere assimilato a un riconosciuto e manifesto amore per la vita e per l’esistente, fa un’osservazione puntuale. Il bioeticista Francesco D’Agostino, invece, continua con argomentazioni fittizie a dividere gli uomini in categorie non facilmente coincidenti. Con un gioco di alta scuola sofistica, il presidente emerito del Comitato nazionale di bioetica recinta e sminuisce lo spettro d’azione dei radicali: essi si batterebbero non a tutela della persona, ma dell’individuo, sarebbero dei paladini dell’io soggettivo e mai del “noi”, mai del “bene comune”. Quindi i radicali, quando avanzano normative sulla legalizzazione delle droghe, sulla salvaguardia di tutte le famiglie, sulla procreazione medicalmente assistita, sul fine vita, sulla tutela dei malati, farebbero in sostanza dei danni. Ovviamente, non sono d’accordo con D’Agostino. I radicali sono dei paladini dell’individuo e quindi anche della persona e del bene comune. Non sono di certo sostenitori del nichilismo morale: questa è una vecchia vulgata che non regge, perché sconfessata dalla realtà dei fatti che è potentemente evocativa. Essi vogliono tutelare i vari modelli etici e quindi dare significato, voce, valore a tutti i cittadini. Altro che individualisti sfrenati. Anche se l’antropologia di riferimento dei libertari non è propriamente coincidente con quella cattolica, i radicali spendono la loro esistenza per la difesa dell’uomo, nella sua nudità ed essenzialità. Le campagne coraggiose contro le ingiustizie, contro le guerre, contro la fame, l’amore per i malati, la corretta amministrazione della cosa pubblica, l’onestà, sono carne comune, sono baluardi d’uno stesso obiettivo.

l’Unità 15.1.10
I neri cacciati perché hanno osato denunciare le ’ndrine
Giuseppe Lavorato, ex sindaco di Rosarno racconta il passato recente, la solidarietà e la convivenza possibili, l’ossessione della ‘ndrangheta per il controllo del territorio in Calabria
di Jolanda Bufalini

Con honneur, total rispetto, grande dolore e lacrime....vogliamo dichiarare, con grande dignità, onestà e orgoglio, che siamo vittime da quando arrivati a Rosarno anche durante il riposo notturno...di una violenza ultra razzista....martedì 10 novembre alcuni lavoratori onesti dell’Africa sono stati vittime di giovani stupidi armati illegalmente che facevano tiro a segno davanti i ghetti...»La lettera scritta a penna, chiara pur con gli errori di ortografia, firmata «il rappresentante dei lavoratori africani di Rosarno» è datata 12 novembre 1999 ed è indirizzata all’allora sindaco di Rosarno Giuseppe Lavorato.
«Le violenze c’erano – racconta Lavorato ma io avevo fatto eleggere un rappresentante per ciascuna comunitàLi facevo riunire in assemblea, loro scrivevano i documenti di denuncia, andavano nelle scuoleIl municipio era la loro casaIl 6 gennaio si teneva la festa “della fratellanza universale”Ricorda ora l’ex sindaco: “Mi appoggiavo alle comunità religiose, c’erano tutti , rosarnesi e immigratisi cucinavano le frittoleSuor Raffaella ballava con gli immigrati, alcuni dei quali piangevano ascoltando le canzoni dei loro paesi”.
Anche Giuseppe Lavorato, ora, si commuove, ricordando un trentennio di lotte sociali che conquistarono per i braccianti mille ettari di terra: «Bosco selvaggio che è stato trasformato in giardini rigogliosi di agrumi»E poi si controlla e stringe i denti: “Nessuno ci poteva piegare, ci sentivamo invulnerabili”.
Giovani e invulnerabili si erano sentiti dagli anni sessanta sino a una notte del 1980, quando, con Giuseppe Vallarioti, segretario della sezione del Pci, erano andati a festeggiare in campagna la vittoria elettorale: “Dal buio di una siepe partirono due colpi di lupara” e il giovane segretario di sezione morì fra le braccia del compagno: ”L’indomani il paese doveva essere in festa”Stringe i pugni, serra i denti e con un sibilo di voce Giuseppe Lavorato continua a raccontare: “ma per quelli non ci doveva essere nessuna festaDovevamo piangere”.
L’epopea eroica e tragica delle battaglie contro la mafia si arricchisce di un nuovo capitolo nel 1994, quando una telefonata di Giorgio Napolitano convince l’amico di Vallarioti a presentarsi candidato sindaco“Fummo i primi, nel 1999, a costituirci parte civileNell’aula bunker la gabbia era stracolma, ci guardavano...se quegli occhi fossero stati fucili ci avrebbero raso al suolo”.
Il 15 novembre 1999 i fatti oggetto della denuncia degli immigrati che abbiamo riportato all’inizio, sono all’esame del Consiglio comunale che approva: “Interpretando i nobili sentimenti dei rosarnesi si esprime solidarietà a tutti i lavoratori extracomunitari per le gravi violenze subite” e esprime un forte allarme perché “la mafia e i delinquenti soffocano l’economia di Rosarno”.
Quelle vecchie carte di denuncia e di risposta democratica spiegano molto di ciò che è successo la settimana scorsa, perché in quel modo di operare si era radicata la fiducia degli africani nella legalità“Adesso ti spiego perché hanno sparato dice l’ex sindaco con la droga e il traffico delle armi, con gli appalti la ‘ndrangheta ha accumulato una ricchezza enormeMa per mantenerla deve avere il controllo del territorio”.
E invece nel 2008, quando alcuni immigrati neri furono feriti con armi da fuoco, la risposta non si limitò a una protesta pacificaFecero denuncia e i colpevoli sono stati arrestati e condannatiIl vecchio sindaco passa al dialetto: “La ndrangheta non è cchiu’ fissa (non è piu’ fessa) Capisce, interpretaHa colto l’occasione”.
Ormai mancano “la forza e la salute”, conclude Peppino Lavorato: “Posso fare solo un appello”“Ho visto – dice – che anche le persone solidali, la stragrande maggioranza a Rosarno, erano terrorizzate dalla furia devastatrice dei piu’ deboliSu questo si è innescata l’azione delle squadracce che hanno ottenuto la cacciata di quelli che l’hanno scorso avevano denunciato la sopraffazione”Per rimarginare “l’immensa ferita non basta un corteoDonne e uomini puliti e generosi devono tutti insieme ricostruire sentimenti di fratellanza e isolare la ndrangheta, proporsi con questo lavoro come nuova classe dirigente”❖

il Fatto 15.1.10
Rosarno, schiavi nascosti nelle campagne
Anche l’Economist definisce quello che è successo in Calabria un episodio di pulizia etnica
di Enrico Fierro

Ci sono almeno 500 lavoratori di colore che vivono in capanne e alloggi precari, spesso cibandosi solo di frutta

Non tutti sono andati via. Non tutti hanno accettato di lasciare Rosarno e la Piana di Gioia Tauro dopo gli scontri, le barricate, i raid e la caccia all'uomo. “Ci sono almeno altri 500 lavoratori di colore sparsi nelle campagne, vivono in capanne e alloggi precari, spesso cibandosi solo di frutta”. É l’allarme lanciato ieri da Agazio Loiero, il governatore della Calabria. Che si dice pronto a fare la sua parte, e invita il governo a dare una mano. Allarma fondato? In parte sì. “Forse non sono quelle le cifre – dice don Pino De Masi, prete e referente dell'associazione antimafia Libera – ma il fenomeno esiste. Ci sono ancora lavoratori di colore che vivono in casolari sparsi, a Rosarno come a Gioia Tauro e a Rizziconi. Molti li abbiamo aiutati e accompagnati fino a Lamezia Terme per prendere il treno e scappare, ne sono rimasti alcuni, ma non sono certo quelle le cifre”. C’è la campagna elettorale alle porte e il rischio di strtumentalizzare il dramma degli schiavi neri è altissimo. Ma un dato è certo, nei giorni della rivolta e della caccia al nero che rischiava di concludersi con un morto, in tanti hanno lavorato per salvare i lavoratori di colore rimasti isolati. Molti erano scappati dall’inferno dell'ex Opera Sila e della Rognetta, i due lager diventati la Soweto della Piana, per rifugiarsi nelle campagne. I più “fortunati” nelle vecchie case coloniche costruite negli aranceti, gli altri in capanne e baracche. Per giorni carabinieri, volontari della Caritas e di Medicdi senza frontiere, hanno battuto i campi per assisterli e salvarli da quella che il settimanale britanico “Economist” ha definito una vera e propria pulizia etnica. “Una pulizia etnica di una velocità, una completezza e una cattiveria balcaniche”. Un giudizio che certamente verrà giudicato esagerato, ma bastava essere a Rosarno per capire che così non è. La fila di uomini che trascinavano borsoni, gli autobus e le vecchie macchine con targhe straniere scortate dalla polizia, ricordavano molto da vicino le scene degli esodi forzati durante le guerre etniche. Fatti come quelli successi a Rosarno, avvengono quando si vede negli altri “solo oggetti, forza di lavoro, braccianti e non persone da rispettare”, è il giudizio di don Cesare Atuire, un sacerdote ghanese dell'Opera romana pellegrinaggi. Per troppo tempo nella Piana di Gioia Tauro si è lasciata marcire una situazione molto al di là del limite dell'inciviltà. Tutti sapevano che dentro i capannoni, tra i silos e le strutture abbandonate della ex Opera Sila viveva una comunità di centinaia di persone tra il degrado e l'abbandono. I volontari di “Medici senza frontiere” hanno più volte lanciato l'allarme. In pochi lo hanno raccolto, come in pochi hanno visto il reportage della Bbc girato all'interno dell'inferno della Rognetta. Assenti le istituzioni locali, assente il governo, complici i proprietari degli aranceti che per anni hanno trovato conveniente usare una manodopera a prezzi stracciati, ora è il momento della polemica politica. Ieri è arrivata a Rosarno Margherita Boniver, presidente del Comitato Schengen e ha denunciato “il collasso delle istituzioni locali”. Nei mesi scorsi il Comitato forse ignorava finanche dove si trovassero Rosarno, i ghetti dei neri e quali forme di brutale sfruttamento lì si attuavano. Si vota per le regionali e la polemica paga. Dal canto suo, la Regione ha risposto ricordando impegno e fondi stanziati. “Solo il Presidente Loiero ha dedicato una attenzione continua e concreta al problema”, ha dichiarato Pantaleone Sergi, portavoce del governatore, ricordando le cifre stanziate: “50mila euro, di questi ne abbiamo anticipato un terzo in attesa della rendicontazione dei comuni interessati, documenti essenziali che però sono arrivati solo il 2 dicembre 2009”, appena un mese prima della rivolta. Insomma, i soldi impegnati dalla Regione erano già di per sé pochi (basta dare uno sguardo alle immagini dei due ghetti di Rosarno per rendersene conto e ai pochi cessi chimici lì impiantati), sono stati utilizzati in minima parte perché i Comuni non hanno fatto quello che dovevano. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. “In questa vicenda sono troppe le questioni banalizzate dal governo”, ha detto Pierluigi Bersani, ieri a Rosarno per una manifestazione del Pd. Forse ha ragione, ma anche le istituzioni locali sono state cieche e sorde. La situazione era sotto gli occhi di tutti. Bastava vedere e non lasciare da soli preti e volontari, a non permettere che lavoro nero e sfruttamento diventassero schiavismo. A Rosarno, puntino d'Europa, dove ora gli schiavi vivono in improvvisate capanne.

il Fatto 15.1.10
Il Paese in cui viviamo
di Bruno Tinti

A Rosarno le cose sono andate così: una banda di ubriachi e primitivi ha pensato bene di andare a rompere le scatole agli
immigrati che se ne stavano a dormire nella loro bidonville; qualcuno aveva un fuciletto ad aria compressa (capacità lesiva pressoché zero se non lo pigli in un occhio) e ha sparato qualche colpo; gli immigrati se la sono presa e hanno reagito invadendo alcune strade cittadine, bruciando cassonetti e spaventando i cittadini, tra cui una signora che ha subìto una vera e propria aggressione e la cui macchina è stata bruciata. I cittadini di Rosarno hanno messo in piedi una spedizione punitiva, questa volta con fucili veri, e hanno cominciato una vera e propria caccia al negro (non so se ci fossero immigrati di altri colori); gli immigrati sono stati respinti e, siccome le cose si mettevano male e le forze dell’ordine non riuscivano a impedire ai rosarnesi di percorrere le strade in armi, trasferiti altrove; le loro cose sono rimaste nella bidonville dove abitavano e molti non sono stati nemmeno pagati per il lavoro fatto fino ad allora; infine la bidonville è stata rasa al suolo.
Adesso, stabilire chi ha avuto ragione e chi torto mi pare difficile; anni di processi per rissa mi hanno insegnato che la violenza è l’ultimo rifugio degli incapaci e che tutti i violenti sono sempre colpevoli. Ma non mi pare nemmeno importante. A me sembra che importante sia altro.
Gli immigrati lavoravano per 20 euro al giorno, senza contratto, senza assicurazione, senza contributi; e tutto questo avveniva sotto gli occhi di tutti. E nessuno trovava ignobile questo indegno sfruttamento. Quell’Ispettorato del lavoro, quei funzionari Inps che, nella mia procura, mi inondavano di denunce per contributi non versati e per figli, mogli e fratelli che lavoravano nel negozio del padre, marito, ecc, senza essere in regola, a Rosarno non facevano niente. Gli immigrati vivevano accampati in una fabbrica abbandonata; dormivano sul pavimento e appendevano il loro cibo (quale?) in sacchi di plastica perché i topi non glielo mangiassero; defecavano in terra e si sdraiavano tra i loro escrementi. E quei vigili urbani che facevano arrivare alla mia procura decine di denunce per verande illegali e mansarde di lusso con altezza pari a 2,75 metri e dunque non agibili, non sono mai intervenuti a Rosarno. E nemmeno l’ufficio d’igiene del comune ha trovato niente da ridire; e il governo ha speso parecchi soldi per mettere le mutande ai quadri di Palazzo Chigi perché occuparsi degli ultimi della terra non procura voti. Gli immigrati sono stati cacciati come bestie; e il ministro dell’Interno, che qualche mese fa ha mandato l’esercito nelle strade come avviene nelle “repubbliche” africane, ha dichiarato: “Troppa tolleranza con gli immigrati”.
Gli immigrati adesso sono in un campo di concentramento, proprio come si è fatto per i giudei, i froci e i comunisti. E io sto qui a chiedermi che fine ha fatto il rispetto della vita che stava tanto a cuore a questo governo feroce e inumano quando si trattava di comprarsi i voti dei cattolici con la persecuzione di povere larve come Welby ed Eluana. Sto qui a chiedermi perché l’opposizione non va, tutta ma proprio tutta, a Rosarno portando a quei poveracci acqua, cibo e vestiti, dimostrando finalmente che non è uguale alla maggioranza. Sto qui a chiedermi in che diavolo di paese mi tocca vivere e se davvero è in questo paese che dovrò morire.

il Fatto 15.1.10
Vecchie e nuove schiavitù
Antifonte diceva che i Greci sono più barbari dei barbari in quanto non capiscono che gli uomini per natura sono tutti uguali: “Respiriamo tutti col naso e prendiamo tutti il cibo con le mani”
di Giovanni Ghiselli

Imisfatti di Rosarno ci inducono a una riflessione sulla schiavitù. Questa piaga orrenda, disonorevole per l’umanità, ha radici antiche, come tutti sanno. Al tempo dei Greci e dei Romani venivano schiavizzati i popoli sconfitti in guerra. I più lo consideravano un fatto naturale, ma già allora le menti rette denunciavano l’asservimento dell’uomo da parte dell’uomo come un abominio. Nel Peloponneso gran parte della popolazione era costituita da Iloti, sottoposti agli Spartiati, gli Spartani di razza, che, calati dal nord alla fine del secondo millennio a. C., avevano conquistato la splendida “isola di Pelope” sottomettendone gli autoctoni. Ebbene nel IV secolo vengono scritti due opuscoli contrapposti sul problema della legittimità di tale asservimento. Isocrate, il principe ateniese della retorica, lo strapagato maestro della parola persuasiva, nell’Archidamo, dedicato a un re spartano, sostiene che Sparta aveva pienamente diritto a tenere i Messenii in schiavitù. Con l'Archidamo il retore Isocrate può considerarsi lo storico della mentalità schiavistica spartana in senso stretto: il discorso, infatti, è imperniato sulla ricostruzione dell’antichissima vittoria degli Spartani, per mostrare il loro buon diritto a tenere i Messenii sotto il giogo della tremenda schiavitù. Un altro maestro di retorica però, Alcidamante, scrisse il Messeniaco per mostrare, al contrario del suo eterno avversario Isocrate, che gli Spartani non avevano il diritto di schiavizzare: "Liberi tutti ci lasciò il dio e la natura non ha fatto schiavo nessuno”.
Questa esaltazione della rivolta degli schiavi messenii, lasciò una grande eco: più tardi, Aristotele porrà il Messeniaco di Alcidamante accanto all’Antigone di Sofocle. Il maestro di Alessandro Magno nella Politica afferma che lo schiavo è un oggetto di proprietà animato: esso non sarebbe necessario se le spole tessessero da sé. Canfora definisce lo schiavo il “convitato di pietra” della polis classica. Certamente la condizione degli iloti spartani era tra le più dure. Ma anche le masse di schiavi impiegati nelle miniere dell’Attica vivevano in condizioni terribili, tanto che il sofista Antifonte diceva che i Greci sono più barbari dei barbari in quanto non capiscono che gli uomini per natura sono tutti uguali: “Respiriamo tutti col naso e prendiamo tutti il cibo con le mani”. Dunque la schiavitù anche secondo Antifonte è un’istituzione contro natura. Gli schiavi domestici vivevano in condizioni meno disperate: nella commedia greca, e ancor più nel mondo carnevalesco, rovesciato, di quella latina, essi appaiono risolutivi, volenterosi e quasi sempre capaci di aiutare i padroni. Negli ultimi anni della guerra del Peloponneso Atene era a corto di mezzi e di uomini, e dovette rimpiazzare tanti caduti con gli schiavi; questi anzi, dopo l’ultima battaglia vinta alle Arginuse, vennero liberati con un decreto che provocò la reazione di Aristofane il quale diede voce all’esclusivismo degli Ateniesi facendo dire al coro delle Rane: “è uno scandalo che alcuni per una sola battaglia diventino cittadini e padroni invece che schiavi (vv. 693-694). Essere cittadini significava automaticamente essere padroni e questi non volevano condividere i loro privilegi. Tocqueville e altri storici che oggi si chiamerebbero di destra ricordavano ai giacobini della rivoluzione francese che le città antiche prese a modello erano in realtà repubbliche schiavistiche. E’ vero. Tuttavia sono Greci e Latini i primi autori che provarono turbamento per la schiavitù ed ebbero scrupoli sullo schiavismo. Omero considera la schiavitù un evento terribile che può capitare a chiunque e portare via all’uomo una parte della sua umanità. Euripide fa dire a Ecuba che la schiavitù riguarda tutti: “non c'è tra i mortali chi sia libero: infatti siamo schiavi delle ricchezze oppure del destino, della folla oppure delle leggi”. Su questa linea Seneca replica a uno schiavista, ribattezzando gli schiavi “uomini”, “umili amici”, “coabitanti”, “compagni di schiavitù”. Aristotele ha la caratteristica, già fatta notare da Marcuse, di essere, un cultore del senso comune il quale gli suggerisce che la schiavitù era un’istituzione necessaria alla società e la sua abolizione avrebbe comportato l’anarchia, forse la carestia. Neppure Platone era favorevole alla democrazia, eppure nella sua Repubblica abolisce silenziosamente la schiavitù per il semplice fatto di edificare uno Stato senza schiavi. Arriano, storico di Alessandro Magno, in una descrizione dell’India racconta che tutti gli Indiani sono liberi e nessuno è schiavo. Essi sono invece divisi in sette caste. Leopardi nello Zibaldone commenta questa assenza di schiavitù come conseguenza delle caste: “Ecco la ragione perché gl’indiani non usavano schiavitù. Perché sebben liberi, non avevano l’uguaglianza”. La riflessione successiva è che, nonostante l’assenza della schiavitù, gli Indiani non erano davvero liberi, poiché la divisione in caste senza speranza di avanzamento non presenta “i grandi vantaggi della libertà”, e la libertà senza uguaglianza, non è vera libertà.

l’Unità 15.1.10
Il governo prepara il giro di vite per la Rete
di Natalia Lombardo

Alla Camera il decreto che prevede controlli su Internet, regali a Mediaset e tagli al cinema
L’opposizione denuncia la manovra e chiede il ritiro del provvedimento

Il governo tenta un altro colpo di mano: limiti per i filmati sul web; tagli a fiction e cinema indipendenti; regala più pubblicità a Mediaset togliendola a SkyL’opposizione accusa: da Romani eccesso di delega.

«Una mossa che sembra ispirata da Mediaset, non è un sospetto troppo lontano dal vero», commenta Vincenzo Vita, senatore PdCosa? Il decreto governativo che, senza passare al vaglio del Parlamento, vuole segnare tre colpi: «Dà un colpo mortale alla produzione di fiction e cinema italiano, rappresenta un evidente regalo a Mediaset e contiene un giro di vite allarmante su Internet per la parte che trasmette servizi audiovisivi»Un capolavoro di «conflitto d’interessi», spiega Paolo Gentiloni, responsabile comunicazioni del PdIl quale accusa «un clamoroso eccesso di delega» esercitato da Paolo Romani, viceministro alle ComunicazioniRomani, uomo tv da sempre vicino a Berlusconi, respinge l’accusa con motivazioni tecniche ma a stabilire se l’eccesso c’è stato può intervenire il Consiglio di Stato entro 40 giorni.
Il decreto avrebbe dovuto solo recepire la direttiva europea che estende alle televisioni il cosiddetto «product placement», ovvero la pubblicità che compare in un film (per esempio la marca di un pacchetto di sigarette), vietata solo nelle trasmissioni per bambini (che, come denuncia Emilia De Biase, del Pd, «vengono aggrediti comunque con ore di pubblicità)In una conferenza stampa dell’opposizione (i due esponenti Pd, poi Rao per l’Udc, Giulietti di Articolo21 e Borghesi per l’Idv), hanno denunciato la manovra«Romani», spiega Gentiloni, «a fonte di una legge delega di 11 righe» aggiunge in 40 pagine «una riforma radicale delle norme italiane su tv e Internet», il tutto «usando il Parlamento come casella postale»Perché è previsto solo un parere, non vincolante, delle commissioni entro il 27 gennaioNella riunione di ieri le commissioni Trasporti e Cultura della Camera (il 19 lo farà il Senato), l’opposizione ha chiesto il ritiro del decretoE il capogruppo Pd Franceschini ha scritto al presidente Fini perché allunghi i tempi di discussione; i presidenti Aprea e Valducci sembrano disponibili a fare delle audizioniAnche Luca Barbareschi, attore, produttore e deputato Pdl, ha condiviso le critiche dell’opposizione.
LE MANI SUL WEB
Il governo interviene pesantemente sulla diffusione di audiovisivi in Rete (da YouTube alle web tv dei giornali o universitarie): qualunque sito che trasmette filmati in modo «non incidentale» ma sistematica, tutti i giorni, devono chiedere l’autorizzazione al ministero, il che vuol dire che serve un direttore responsabileE si aumenta il controlloSi impone poi l’obbligo di rettifica e di rispondere alle norme sul diritto d’autoreIn pratica siti e blog sono equiparati alle televisioni o alla carta stampataDietro le quinte c’è anche un ricorso Mediaset fatto a YouTube per la diffusione di spezzoni del Grande FratelloAltri tentativi restrittivi, come l’emendamento D’Alia (Udc) nel pacchetto sicurezza erano stati respintiOra, avverte Athos Gualazzi, presidente del «Partito Pirata», «se il governo cerca di mettere paletti o favorire qualcuno la Rete reagirà»Come? «Crittograferemo i pacchettiNon serve imbrigliare la condivisione e la democrazia della Rete, aggireremo la norma con soluzioni tecniche»E oggi una sentenza stabilirà se Telecom (che si è opposta) dovrà o no fornire alla Fapav (federazione antipirateria audiovisiva) gli indirizzi web di chi ha condiviso opere con copyright.
TAGLI A AL CINEMA INDIPENDENTE
Il governo cancella le norme che avevano introdotto i ministri Veltroni nel 1998 e Gentiloni nel 2007: che le emittenti televisive sostenessero la fiction e il cinema indipendenti con quote di tempo di trasmissione e con investimenti.
PIÙ PUBBLICITÀ PER MEDIASET
Ridotta la pubblicità per il satellite e ampliata quella per Mediaset: le interruzioni con gli spot da ogni 30 minuti anziché 45E se finora tutte le tv commerciali avevano un tetto orario del 18%, il decreto impone che Sky in tre anni passi dal 18 al 12%, un terzo in menoIl che danneggia anche i canali in onda sul satelliteMediaset, invece, mantiene il limite al 18% ma può arrivare al 20 perché sono inserite le telepromozioni e aumenta il numero con la frequenza degli spotIl decreto, inoltre, blocca l’indagine che l’Authority per le Tlc, stava compiendo per accertare lo sfondamento del 20% da parte di Mediaset (nel decreto gli spot nei programmi a pagamento e le repliche non vanno conteggiati).
Sul piede di guerra anche Roberto Rao dell’Udc, che si aspetta una «mobilitazione della Rete e di massa, perché nel web c’è l’unica informazione non soggetta allo spoil system e alle gabbie».❖

l’Unità 15.1.10
Il conflitto di interessi dietro le leggi speciali contro la libera rete
Giuseppe Civati presidente per il Pd del Forum dei nuovi linguaggi e delle nuove culture: colpire chi è indipendente è sempre sbagliato, farlo in modo sistematico è più grave. Non vogliono rompiscatole
di N.L.

Giuseppe Civati è fresco di nomina, da parte di Bersani, come presidente per il Partito democratico del «Forum dei Nuovi linguaggi e delle Nuove culture»Una dizione fascinosa e anche se poco sinteticaE lui, che ha naturalmente un suo blog, ci tiene a far capire «ai politici che il web non è una realtà marginale, spesso si considera così, mentre la convergenza, lo scambio di contenuti tra la Rete, la televisione e il digitale fanno parte della societàMi interessa l’aspetto quotidiano della Rete»Come giudica il fatto che il governo ancora una volta stia cercando di imbrigliare Internet con regole che permettono maggiore controllo? «Bisogna stare sempre attenti quando si affaccia l’ombra di “leggi speciali”Noi semmai abbiamo proposto, anche con la manifestazione sempre aperta “Libera rete in libero scambio”, di specializzare i saperi e l’uso della tecnologia, di estendere la comunicazioneDal governo invece siamo alla bassa cucina, per difendere quel fastidio che Berlusconi e la maggioranza esprimono verso la democrazia della Rete».
Ora il viceministro Paolo Romani usa il recepimento di una direttiva europea sulla pubblicità per «legare le mani al web», come ha detto Gentiloni, e favorire Mediaset nei tetti pubblicitariVede una connessione? «Mi sembra un caso esemplare di conflitto d’interessi, non c’è sintesi maggiore che in questi due ambitiCi sono stati tentativi sinergici anche in passato per colpire la libertà della rete o di You TubeIn questo caso un grande magnate della tv non può dimenticare il suo “core businnes”, dal momento che non pare dedicarsi solo alla politica.
E Paolo Romani è un uomo che viene dal mondo delle tv, non a caso è stato messo lì da BerlusconiÈ significativo, però, che si sia visto sfumare il progetto di allargamento della banda larga da parte dei colleghi di governoInsomma, quando si deve allargare la comunicazione non si interviene, si è solerti invece nel restringere gli spazi di democrazia».
I limiti che si vogliono imporre potrebbero, alla lunga, creare situazioni simili a quelle repressive e censorie praticate dalla Cina o dall’Iran? «Colpire chi è indipendente è sempre sbagliato, farlo in modo sistematico è più graveE il tentativo più clamoroso è stato con il caso Tartaglia: le prime mosse di reazione, da parte del governo, sono state sì “cinesi” o “iraniane”, poi hanno capito che sarebbe stato impossibile mettere in atto censure e controlli similiE, appena hanno avuto un confronto con Facebook, hanno visto che il controllo già esiste, che ci sono delle norme ordinarie sull’offesa e la diffamazione, non servono leggi specialiQuindi l’approccio è stato tremendo, ma alla fine non hanno fatto nulla»Vuol dire che il governo è piuttosto approssimativo nella comprensione delle dinamiche di internet?
«A volte fingono di non capire, altre volte tentano interventi chirurgici scatenando l’ira dei blogger, oltre che degli espertiPerò il conflitto d’interessi è sempre un filo conduttore: meno rompiscatole ci sono in giro e meglio è».❖

l’Unità 15.1.10
Sempre meno libertà
Più di due miliardi senza diritti nel mondo
Il rapporto di Freedom House: nel 2009 sono cresciuti repressione e conflittiLa lista nera dal Medio Oriente all’Africa, dall’Asia ai Paesi ex Urss
di Umberto De Giovannangeli

Due miliardi e trecento milioni di personeSenza diritti, senza libertàDal Medio Oriente all'Africa, dall'Asia alle repubbliche dell'ex Unione SovieticaLibertà civili e diritti umani sempre più in crisi a livello mondialePer la quarta volta consecutiva, negli ultimi 40 anni di storia, si registra un peggioramento sostanziale delle libertà nei cinque continentiA certificarlo è Freedom House, l'autorevole osservatorio americano fondato da Eleanor Roosevelt che, dal 1972, si occupa di registrare ogni piccola variazione sul fronte del rispetto e della tutela dei diritti in tutti i Paesi del pianeta.
È un quadro inquietante, drammatico, quello che emerge dal rapporto annuale di Freedom House, «Freedom in the world 2010»I risultati di quest'anno riflettono le crescenti pressioni sui giornalisti e sui blogger, le restrizioni alla libertà di associazione, la repressione esercitata sugli attivisti civili impegnati a promuovere le riforme politiche e il rispetto dei diritti umani.
Il Medio Oriente comprensivo dell'Iran resta la regione più repressiva del mondo, l'Africa quella che ha subito il calo (di libertà) più significativoI miglioramenti più rilevanti, rispetto all'anno precedente, si sono registrati in Asia, in virtù delle elezioni democratiche svoltesi in In-dia, Indonesia, Giappone, a fronte, però, di un peggioramento registrato in Afghanistan, con le contestate elezioni presidenziali, e nelle Filippine, dopo il massacro di civili e di giornalisti e la successiva dichiarazione delle legge marziale.
«Nel 2009 dice a l'Unità Jennifer Windsor, direttrice esecutiva di Freedom House abbiamo assistito ad una preoccupante erosione di alcune libertà fondamentali, la libertà di espressione e di associazione, e ad innumerevoli attacchi contro gli attivisti in prima linea in questi settori»«Dalla brutale repressione a Teheran agli arresti dei dissidenti in Cina, agli omicidi di giornalisti e attivisti dei diritti umani in Russia rimarca la direttrice di Freedom House abbiamo registrato un ulteriore, pesantissimo giro di vite nei confronti di donne e uomini che nel mondo si battono per far valere quei diritti umani riconosciuti dalla Dichiarazione dell'Uomo delle Nazioni Unite e dalle più importanti Convenzioni internazionali».
In un anno segnato dall'intensificarsi della repressione contro i difensori dei diritti umani e attivisti civili, un declino delle libertà è stato registrato in 47 Paesi in Africa, America Latina, Medio Oriente, e le repubbliche dell'ex Unione Sovietica, che rappresentano il 20% del totale dei sistemi politici del mondo Stati autoritari come l'Iran, la Russia, il Venezuela sono diventati ancor più repressivi. Un declino delle libertà si è registrato anche in quei Paesi che avevano registrato un andamento positivo negli anni precedenti, tra i quali il Bahrein, la Giordania, il Kenya e il Kirghizistan,
La maglia nerissima tra i 47 Paesi classificati «Not Free»negazione dei diritti politici e delle libertà civili spetta a Birmania, Guinea Equatoriale, Eritrea, Libia, Corea del Nord, Somalia, Sudan, Turkmenistan e UzbekistanNel complesso, oltre 2,3 miliardi di persone vivono in società nelle quali fondamentali diritti politici e le libertà civili non vengono rispettatiLa Cina rappresenta la metà di questo universo illiberale.
Inoltre è calato il numero di democrazie elettive, passato da 119 a 116, il più basso dal 1995 a questa parteAd aggravare la situazione i tanti fronti di guerra e la violenta repressione delle proteste di piazza dei dissidenti, dall'Iran alla CinaCi sono poi gli attentati terroristici in Pakistan, Afghanistan, Iraq, Somalia e Yemen«I dati registrati nel 2009 sono motivo di reale preoccupazione ci dice Arch Puddington, direttore responsabile del settore ricerca di Freedom House -Il calo è globale e interessa Paesi con il potere militare ed economico, investe Paesi che in precedenza avevano mostrato segni di potenziali riforme, e mette in evidenza una maggiore persecuzione dei dissidenti politici e giornalisti indipendentiA peggiorare le cose, i più potenti regimi autoritari sono diventati ancor più repressivi, più influenti sulla scena internazionale, più intransigenti»Pochi i segnali positivi: nel 2009 appena 16 Paesi, su 194 monitorati, sono più liberi rispetto al passatoTra questi alcuni Paesi dei Balcani, tra cui Kosovo, Montenegro, Croazia, Moldavia e SerbiaIn questa lista compaiono anche Libano, Malawi e TogoIl numero dei Paesi designati da «Freedom in the World» come “Free” nel 2009 ammonta a 89,
che rappresentano il 46% di 194 Paesi del mondo e il 46% della popolazione mondialeIl numero dei Paesi “Partly Free” (Parzialmente liberi) è sceso a 58, il 30% di tutti i Paesi valutati nel sondaggioIl numero dei Paesi “Not Free” è aumentato a 47, il 24% del numero totale di PaesiAd essere declassata è anche la Russia, seguita a ruota da tutti i Paesi del Mar Baltico e dell' ex Unione Sovietica, tra cui il Kazakistan e il KirghizistanIn America Latina, l'Honduras ha perso lo status di democrazia elettorale a causa del colpo di stato; un significativo calo degli standard democratici hanno riguardato Guatemala, Nicaragua e Venezuela.
Quanto all’Europa, il rapporto cita le tensioni culturali e sociali collegate al grande flusso di immigranti provenienti da Paesi musulmaniMigrazioni che, sostiene Freedom House, «sfidano la tradizione europea fatta di tolleranza e tutela delle libertà civili»«Preoccupazioni sull'immigrazione conclude il rapporto hanno portato all' avanzata elettorale dei partiti di destra che propongono maggiori restrizioni al fenomeno»L'incremento delle politiche anti-immigrazione ha portato al declassamento di Svizzera e Malta❖