venerdì 22 gennaio 2010

Repubblica Roma 21.1.10
Parla Diego Bianchi. Oltre 14 mila contatti in quattro giorni per l´ultima video-storia dedicata alla candidata
"Emma? Un monumento" il blogger Zoro dà la carica al Pd
"E Giggi (Bersani) deve festeggiarla come deve: farsi una canna col suo solito sigaro"
di Simona Casalini

In quattro giorni è stato cliccato da quasi quattordicimila aficionados, mai visti tutti insieme nelle sezioni Pd. Erano in tanti in questi giorni, nel centrosinistra romano ma non solo, a chiedersi "E Zoro? Che dice della Bonino?". Lui, alla fine, nella sua video-storia amatoriale che solletica anche "Parla con me" della Dandini, ha esternato: ciak, Bonina la prima... e via affabulando nel tifare Emma. Diego Bianchi, quarantenne di San Giovanni col suo videoblog "Tolleranza Zoro" da quasi sei anni è il grillo parlante del Pd. Traccia la linea dei più scapigliati. E nell´ultimo video, che ora è quello che conta, promuove in pieno la candidata radicale, anzi, di più, invita "Giggi", il segretario Bersani, a festeggiarla come del caso, a farsi una canna col sigaro sempre spento.
Allora tutto bene, si va dritto: ciak, Bonino la prima...
«Beh, sì. Dopo tanto tempo, ho avuto subito la sensazione della botta di fortuna. E anche se perdo, sarò più contento delle ultime volte che ho comunque perso. Ma non è detto che ci dica sfiga ancora, non sono pessimista a priori»
Radicali e Pd. Nel video incespica sui punti di contatto...
«C´è da sempre amore-odio, ma la Bonino riporta il partito su battaglie laicità dove il partito, diciamo così, ha vacillato. Mal di pancia interni? Quelli dell´ex Pci che si sentono male? Mi pare poca roba. E se uno del Pd ha votato Rutelli anche se aveva altre idee, ora si può turare meno il naso»
Gira voce che la candidatura della Polverini potrebbe saltare, non piace troppo a Berlusconi
«Ecco, parliamo della Polverini. Ci mettiamo poco ad esaltare gli avversari e ancora meno a deprimerci dei nostri. Sembrava una specie di wonder women, donna, battagliera, un fenomeno... Ma sono stati loro stessi a sgonfiarla. Diciamolo, no? E´ una sindacalista che ha più bandiere che iscritti. La Bonino invece è un monumento, non c´è confronto. E poi, sì, sulla Polverini ci sono dissidi interni. Beh, quando siamo divisi noi, è sempre un casino, ma ‘na volta che sono divisi loro, io dico: godiamocela e approfittiamone. Insomma, giochiamocela»
C´è sempre il rebus Udc, lei sui "casini di Casini" ci scherza su
«Ma nel Lazio mi pare che, grazie alla Bonino, l´abbraccio con noi sia scampato. Che sia per le idee di Emma o per una compensazione delle altre regioni, manco lo so. Ma voterò più rilassato».
E i cattolici del Pd? Voteranno Bonino?
«Se ci credono davvero a ‘sto partito strano fatto di tante anime, facciano anche loro uno sforzo di maturità. Noi Prodi e Rutelli li abbiamo votati, no? E allora... un po´ di disciplina»
Come convincerebbe una mini Binetti romana?
«Con le parole della Bonino: gli scontenti sono i bigotti»
Cosa dice a Emma?
«Dajè»
E alla Polverini?
«Che se la deve suda´ più di quanto previsto»
E a suoi del Pd?
«Che non sempre il c. ci assiste, diamoci da fare».


il Riformista 22.1.10
l Pd e i cattolici
La Bonino Opportunità o problema?
La Bonino è forte ma pure problematica Il rischio è la guerra aperta con la Chiesa
di Peppino Caldarola


Non sarà una passeggiata la corsa di Emma Bonino per diventare presidente della Regione Lazio. Un Pd sfinito ha accolto la candidatura della leader radicale quasi come una liberazione da un impaccio terribile. Già lo scandalo Marrazzo aveva ridotto le possibilità di competere per la riconferma di una personalità di sinistra alla guida della regione, poi c’è stato tutto lo psicodramma del candidato introvabile. Lo scontro fra le correnti aveva azzoppato tutti i (e le) pretendenti e il buon Nicola Zingaretti ha pensato bene di sottrarsi a questo gioco al massacro. Di qui lo sbocco Bonino. L’ex ministra si è autocandidata e il Pd gli ha detto di sì scontando un forte dissenso interno, che ha portato alla fuoriuscita di Carra e Lusetti e al mugugno di cattolici come Castagnetti. Non solo Vendola a Bari, ma anche Bonino a Roma è protagonista della più minacciosa Opa lanciata sul partito leader della coalizione di centro-sinistra. Molti, anche noi, all’inizio hanno festeggiato lo scontro fra due donne nel Lazio. Polverini e Bonino si sono presentate come due novità nei reciproci schieramenti. Poi si è scoperto che sulla Polverini è iniziato il fuoco amico degli anti-finiani, e del “Giornale” in prima fila, è emerso il mal di pancia di Berlusconi sull’alleanza con Casini, la minaccia all’immagine della segretaria dell’Ugl dopo lo scandalo del tesseramento gonfiato.
il testo dell’articolo prosegue qui

Repubblica 22.1.10
L'annuncio di Letta dopo lo stop di Strasburgo al simbolo nelle scuole. La soddisfazione della Cei
Crocifisso, ricorso contro la Ue "Cancellate quella sentenza"
di Elsa Vinci

ROMA - Crocifisso, pronto il ricorso contro Strasburgo. Gianni Letta, sottosegretario alla presidenza del consiglio e gentiluomo di Sua Santità, mantiene la promessa fatta al Papa. Il governo impugna la sentenza della Corte europea che ha imposto la rimozione della croce nelle aule scolastiche italiane, perché lesiva «della libertà dei genitori ad educare i figli secondo le proprie convinzioni e della libertà di religione degli alunni». L´annuncio di Letta arriva durante una conferenza all´ambasciata italiana presso la Santa Sede. «Abbiamo fiducia - dice Letta - che la Corte dei diritti umani ripari a quello che consideriamo un grave torto alla cultura prima ancora che al diritto, allo spirito prima che al sentimento religioso». Angelo Bagnasco, presidente della Cei, ha lodato l´iniziativa. «La sentenza va contro l´oggettività storica dell´Europa e contro il sentire popolare della gente - ribadisce il cardinale - si deve auspicare che la Corte possa riequilibrare il suo pronunciamento nel rispetto di questa verità storica e del sentire delle persone».
Il caso era stato sollevato da una cittadina italiana di origine finlandese, Soile Lautsi, socia dell´Unione atei e agnostici razionalisti che, nel 2002, aveva chiesto all´istituto statale "Vittorino da Feltre" di Abano Terme, frequentato dai suoi due figli, di togliere la croce dalle aule. Il ministero dell´Istruzione rispose che il crocifisso era previsto da due Regi Decreti del 1924 e del 1928. La donna non si arrese e la battaglia proseguì davanti ai giudici. Prima di arrivare a Strasburgo la disputa è passata per il Tar del Veneto, per il Consiglio di Stato e la Consulta. Infine i sette componenti della Corte europea hanno sentenziato che la presenza dei crocifissi nelle aule può facilmente essere interpretata dai ragazzi di ogni età come un «evidente segno religioso» e disturbare quelli di altre religioni o gli atei. Stasburgo ha condannato l´Italia a risarcire con cinquemila euro la Lautsi.
Il ricorso è stato preparato ieri alla Farnesina. Letta è ottimista sull´esito del documento che sarà esaminato dalla Grande Camera della Corte europea. «Abbiamo fiducia perché per l´Italia è stato facile sollecitare la partecipazione di molti altri paesi dell´Ue, che stanno venendo sempre più numerosi a sostegno della nostra azione».
Intanto oggi al Csm arriva il caso del giudice Tosi, sospeso dal lavoro per il rifiuto del crocifisso nelle aule di tribunale.

Repubblica 22.1.10
L’anno orribile dell'Italia raccontato da Bocca
di Filippo Ceccarelli

"Sono anni che ci chiediamo se il fascismo tornerà Tranquilli... un po´ è già qui tra noi"
Un finale quasi elegiaco che lascia senza fiato e che sembra riscattare tutte le brutture
Nel suo nuovo libro un ritratto appassionato e amaro del nostro Paese e della vita
Uno sguardo sconsolato sulla modernità fraudolenta e servile

Quanta passione, ma quanta amarezza nell´ultimo libro di Giorgio Bocca! Se non fosse per i lampi di cattivo umore che di punto in bianco rischiarano la pagina, se non fosse per le zampate affibbiate in modo da sorprendere anche il lettore più scettico e smagato, o per quella specie di crudeltà colloquiale, «Sono anni ormai che ci chiediamo se il fascismo ritornerà, ma tranquilli amici, un po´ è già tornato...», si direbbe un libro sconsolatissimo, e niente più. Sull´Italia, com´è diventata, sulla modernità, sulla stessa vita, in fondo. E basti pensare a quei poveracci dell´Aquila, «sprovvisti di pass» nei giorni della grande festa dei potenti del G8. Bocca ci chiude un capitolo, e l´immagine resta lì sospesa.
E sì: Annus horribilis (Feltrinelli, pagg. 159, euro 15), ma il guaio supplementare è che il 2010 appena iniziato non è che butti poi molto meglio. Questo fascismo perenne e strisciante, tutto nostro, che oltrepassa le categorie della storia e della politica. Il piacere di servire «stampato addosso» ai portavoce dei potenti che si vedono all´ora del telegiornale, un marchio che si riflette «nei gesti, nello sguardo, nella voce». Il gusto, pure così italiano, di «accompagnare la fortuna» saltando sul carro del vincitore. Antiche maledizioni: Franza o Spagna pur che se magna. Nuovi consigli: sposatevi un miliardario. Seguono puntuali risatine.
Scrive Bocca, con misurato sgomento: «Abbiamo poco da stare allegri». Autoritarismo anarcoide. Retorica populista. Frenesia del comando «faso tuto mi» destinata a risolversi nell´inganno spettacolare, nella frode morale. Italia «mignottificio», «generale esibizione di gaglioffaggine», il «gigantesco swahili» che si parla sull´onda della televisione. Pure i nazisti si rifanno vivi, con le teste pelate, e i coltelli nei vicoli di Roma, violenza arcaica e tecnologia sfuggita di mano.
Berlusconi e Mussolini, per forza. I cinegiornali della bonifica delle paludi pontine e la vittoria del Cavaliere sull´immondizia a Napoli. Il melodramma e il Bagaglino. A un certo punto c´è una rivelazione piuttosto impegnativa dal punto di vista autobiografico, se non esistenziale. È piazzata circa a metà testo, dopo la descrizione di un quadretto vivente che in realtà dovrebbe essere la «foto scolastica» di chiusura del congresso fondativo del Pdl, con Berlusconi attorniato dai «nuovi gerarchi e gerarchetti», i ministri, e dalle ministre, «le gallinelle del padrone», tutti «con la faccina protesa verso il capo». Tra qualche istante – sembra di ricordare – intoneranno Fratelli d´Italia. E allora, conclude Bocca, questi «sono i giorni peggiori della nostra vita, quelli per cui possiamo mestamente pensare di averla vissuta invano».
E qui si metterebbe punto. Perché se «uomo di lunga vita», come si definisce lui; se un giornalista che ne ha viste tante arriva a tali apocalittiche conclusioni, è addirittura la speranza che se ne va alla malora. Sennonché, assegnato ai libri c´è anche il prezioso compito di commutare il male in bene, o se si preferisce di trasfigurare le peggiori disgrazie di un paese in una utile lettura, con il che accade che proprio da questo sconforto, da questa desolazione, da questa orribile annata vengano fuori dei gioielli di espressività giornalistica di cui, pur nel cupo combinarsi di sdegno e pessimismo, si rende grazie all´autore.
Sono immagini che paiono generate da stati d´animo viscerali, bozzetti venuti giù chiaramente di getto, considerazioni di varia natura per lo più atterrite o infastidite su una società, ad esempio, come «uno sciame di calabroni avidi». Il catalogo delle tristezze e delle idiosincrasie è ampio. I comici «da strapazzo che non fanno ridere neppure per sbaglio, neppure i carcerati di San Vittore, neppure i barboni del Giambellino». Il vuoto della piazza dopo il bagno di folla del demagogo. L´elogio della paura, «ma non per capriccio, per delle buonissime ragioni, a cominciare da quella fregatura delle fregature della creazione che è la morte».
Ancora. La metamorfosi delle scarpette da fondo «a forma di sommergibili atomici». Il «crampo» del lusso avvertito nella solitudine di una stanza d´albergo sulla costiera amalfitana. Gli applausi ai funerali. La rappresentazione dei covi dei camorristi, «arredati con gusto di adolescenti, il frigorifero, la televisione, l´immagine di Padre Pio, il passaggio sotterraneo di fuga». La tortura, infine, che tocca in sorte a chi scrive: «Al minimo errore il foglio strappato, un senso d´impotenza, il gusto giallo della sigaretta in bocca».
Racconta Bocca di un impiegato di banca, devoto ammiratore dei suoi libri, che gli fece fare degli investimenti poi rivelatisi un bidone. Perché anche l´economia infatti va a ramengo, i finanzieri rubano a man bassa, la pubblicità si mangia tutto, gli operai invidiano Berlusconi, perfino «i fabbricanti di pesto sostituiscono il basilico, che annerisce, con erbacce che conservano il verde in cui spargono profumo sintetico». E tuttavia, immersi nella dittatura morbida e nella democrazia autoritaria, posti di fronte a questo disfacimento che suona quasi pasoliniano, ci sono colleghi giornalisti che a suo tempo Giorgio Bocca hanno scelto come un ruvido maestro a distanza, che si portano dentro tanti suoi articoli, che considerano Il provinciale un meraviglioso romanzo e il Togliatti come un ineguagliabile modello di biografia politica, ecco, per loro la diagnosi del maestro stavolta suona come al solito autentica ed efficace, ma al tempo stesso è durissima da accettare.
Così alla fine ci si sorprende a cercare invano raggi di sole, ad almanaccare uscite di sicurezza che non ci sono. Ci sono invece due pagine e mezzo, le ultime, che tolgono il fiato per quanto sono belle, e si leggono come un´elegia a qualcosa che è quasi impossibile da designare perché troppe cose comprendono, in un unico capoverso. Gli estremi assoluti della vita, «l´immortalità divina», «la fragilità senza scampo», il bosco, le favole, la paura, il buio dei bambini, dei soldati, dei nemici. E allora sembra che la grazia della scrittura riscatti tutto il resto, l´annus horribilis e l´amarezza appassionata che lo alimenta.

Repubblica 22.1.10
L’Austria offre Croce d´onore per l´impegno a Boris Pahor

TRIESTE - L´Austria offre al novantesettenne scrittore triestino Boris Pahor, autore di Necropoli, la Gran Croce d´onore per la scienza e l´arte, in considerazione della sua opera e del suo impegno antifascista.
A consegnare l´onoreficenza sarà il Presidente della Repubblica austriaca Heinz Fischer, durante una cerimonia che si terrà a Vienna all´inizio di febbraio.
Lo scrittore italiano di lingua slovena, già candidato al Nobel, nelle settimane scorse era stato al centro di polemiche per avere rifiutato la benemerenza assegnatagli dal Comune di Trieste perché non conteneva, nella motivazione, alcun riferimento al regime fascista, ma solo a quello nazista, per l´internamento nel lager di Natzweiler-Struthof.

Repubblica 22.1.10
"Si poteva dire no" i cinquanta fascisti che salvarono gli ebrei
La Rai nel "Giorno della Memoria"
di Silvia Fumarola

Col documentario presentato anche il film di Negrin "Mi ricordo di Anna Frank"

L´abisso della crudeltà e il coraggio di chi non voltò la testa: la Rai celebra la Giornata della Memoria, mercoledì su RaiUno, con il film di Alberto Negrin Mi ricordo di Anna Frank e il documentario 50 Italiani di Flaminia Lubin, sulle storie di diplomatici, militari e gerarchi che salvarono migliaia di ebrei dai campi di concentramento. «Il ruolo della tv è essenziale per la Giornata della Memoria. Un grande impegno che pone problemi: come si può mantenere viva la memoria facendo in modo che l´inondazione di immagini, messaggi e parole non si riduca a una banalizzazione?», si chiede il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni ospite alle anteprime alla Settimana della Fiction Rai a New York, con il presidente della Comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici e il presidente della Rai, Paolo Garimberti. «Eichmann, che è un genio del male - spiega Di Segni - sa che quando il numero delle vittime supera le centinaia diventa statistica e perde l´aspetto umano. Per questo il caso di Anna Frank è stato importante perché l´enormità del male è visto attraverso la storia di una singola persona, un´unica vittima simbolica». Nel film di Alberto Negrin prodotto da Fulvio Lucisano, interpretato dalla tredicenne Rosabell Laurenti Sellers, con Emilio Solfrizzi nel ruolo di Otto Frank, il padre di Anna, e Moni Ovadia in quello del Rabbino, spicca la figura Miep Gies (Bakonyi Csilla), la donna che nascose la famiglia Frank e salvò il diario di Anna, morta la scorsa settimana a 100 anni. La storia è ispirata al libro di Alison Leslie Gold basato sulla commovente testimonianza di Hanneli Goslar, la grande amica di Anna. «Rappresentare lo sterminio è impossibile - spiega Negrin - si possono restituire solo i sentimenti. Nella storia di Anna contano le domande. Quelle dei bambini: "Perché tanta cattiveria?", e l´interrogativo del rabbino al comandante del campo: "Dov´è finita la tua coscienza?"».
Il documentario 50 Italiani prodotto da Francesco Pamphili racconta invece come esponenti di spicco del regime fascista, militari e diplomatici (fra cui il console Guelfo Zamboni, il commissario Guido Lo Spinoso e il sottosegretario al ministero degli Esteri, Giuseppe Bastianini), salvarono oltre 50 mila ebrei nei Balcani e a Salonicco, sottraendoli alle deportazioni con ogni mezzo, producendo documenti falsi come il "permesso di cittadinanza provvisorio". «50 Italiani fa capire che si poteva disobbedire agli ordini - osserva il presidente della comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici - Far vedere uomini che hanno agito secondo coscienza smentisce quella che è stata la litania al processo di Norimberga: "Dovevamo eseguire gli ordini"».

Repubblica 22.1.10
E l´attore presenta "Binario 21" uno spettacolo dal poema di Yitzhak Katzenelson che ora è diventato libro +dvd
Ovadia: urlo di dolore, dai lager a Rosarno
di Anna Bandettini

ROMA, «È un poemetto in 17 canti che per lucidità, rabbia, disperazione non è paragonabile a nessun altro. È un urlo che incarna la tragedia vissuta dagli ebrei nel suo svolgersi, senza infingimenti. E senza speranza. È una cosa che squassa l´anima. Un grido di dolore che oggi è contro tutti i genocidi. Da Auschwitz a Rosarno». Moni Ovadia torna a parlare di Olocausto: inevitabile per chi come lui, ebreo sefardita, ha nei confronti delle proprie radici e della propria storia un sentire particolare, la conoscenza e l´emozione giusti per capirla, per farne un monito contro i razzismi di oggi.
Lo fa con l´oratorio Binario 21. Il canto del popolo ebraico massacrato, tratto dall´omonimo poema di Yitzhak Katzenelson, che ora ha trasformato (per la Promomusic) in un libro e un dvd molto speciale perché vi si vedrà la registrazione, a firma di Felice Cappa, dello spettacolo in un luogo simbolo come il binario 21, il luogo della Stazione Centrale di Milano dove gli ebrei italiani partivano per essere deportati nei lager e dove il 26 gennaio, vigilia della Giornata della Memoria, verrà posta la prima pietra del Memoriale della Shoa. Non solo: lo spettacolo è stato registrato davanti a una sola spettatrice, Liliana Segre, «testimone unica - spiega l´attore - perché Liliana è una donna che ha attraversato quell´inferno», spiega.
E "quell´inferno" in Binario 21 è descritto in un oratorio duro e senza redenzione, carico di rabbia, pieno di dolore. Katzenelson, che era stato un intellettuale socialista, vivace animatore della vita culturale polacca, lo maturò proprio durante la Resistenza nel ghetto di Varsavia, dove perse moglie e figli. «Fu fatto fuggire proprio per raccontare al mondo la vita lì dentro, cosa vi succedeva. Scrisse in Francia questo poema, unico perché è la voce di un testimone simultaneo della tragedia. Quando fu poi arrestato, si dice, che prima di morire ad Auschwitz, seppellì il suo poema nei pressi di un albero. È l´ultimo Giobbe della storia dell´umanità», dice Ovadia.
«Questo oratorio per me è un monito: voglio farmi testimone per far sì che il giorno della Memoria non diventi il giorno della falsa coscienza, di chi visita Auschwitz e poi deporta gli africani. L´Olocausto riguardò milioni di slavi, rom, sinti oltre che di ebrei. Guai a togliere alla Shoa il suo valore universale. Io voglio cantare la grande battaglia che toccò agli ebrei per tutti quelli che subiscono altri genocidi, per quanti ancora oggi sopportano la malapianta dell´intolleranza. Da Auschwitz a Rosarno».

giovedì 21 gennaio 2010

Repubblica 21.1.10
Intervista con Massimo Recalcati
Così l’uomo ha perso l’inconscio
di Luciana Sica

Intervista con Massimo Recalcati autore di un libro provocatorio: "La nostra epoca minaccia l´intimità del soggetto. L´eccesso di stimolazioni uccide il desiderio"
"Assistiamo a una metamorfosi inquietante che ci impone il godimento"
"Quel ‘luogo´ non è un dato di natura: dobbiamo farlo esistere anche rischiando"

Un requiem per l´inconscio. È quello che intona Massimo Recalcati in un libro sorprendente, originalissimo, decisamente provocatorio. Cinquantenne fascinoso, si sente a suo agio nel ruolo di battitore libero: è un antiaccademico ma insegna all´università di Pavia, è un analista lacaniano ma assolutamente leggibile (quasi un ossimoro). Tutti i suoi saggi vantano questa cifra rarissima: argomenti solidi e mai scontati, nessun collage di citazioni roboanti e noiosissime, scrittura brillante e tutt´altro che banale. Ora questo suo nuovo libro, in uscita da Cortina, lo celebra come testa pensante della psicoanalisi contemporanea: L´uomo senza inconscio, si chiama titolo folgorante, di per sé destinato a far discutere (pagg. 336, euro 26).
«A mio giudizio, è un grave errore non contemplare la possibilità disastrosa che il soggetto dell´inconscio possa declinare, eclissarsi, persino estinguersi», si legge nelle primissime righe. In questa nuova mutazione antropologica c´è aria da thriller, e allora viene voglia di parlarne con l´autore, nel suo studio all´ultimo piano di un palazzo al centro di Milano.
Professore, chi è il killer dell´inconscio?
«È il nostro tempo che minaccia l´intimità più radicale e scabrosa del soggetto: è l´epoca dei turboconsumatori, dell´inebetimento maniacale, della gadgettizzazione della vita, della burocrazia robotizzata, del culto narcisistico dell´Io, dell´estasi della prestazione, della spinta compulsiva al godimento immediato come nuovo comandamento assoluto. L´inconscio è invece il luogo della verità, del desiderio più particolare, impossibile da redimere e da adattare "dal carattere indistruttibile", per dirla con Freud. Non è però un dato di natura, qualcosa che esiste in quanto tale, come un´espressione ontologica della realtà umana immune dalle trasformazioni sociali».
L´inconscio ha una sua valenza etica, lei dice con Lacan.
«Sì, è qualcosa che dobbiamo assumere, far esistere. Esige rigore, perseveranza, ma anche disponibilità a perdersi, a incontrare il caos, l´imprevisto. Soprattutto la capacità di esporsi al rischio della solitudine e del conflitto... Per la psicoanalisi è proprio questo l´infelicità: è tradire il programma inconscio del desiderio, quando non è solo mascherato ma soppresso da un funzionamento dell´Io che si modella unicamente sulle attese degli altri».
Perché la Civiltà ipermoderna è così antagonista a quello che lei definisce "il soggetto dell´inconscio"?
«Perché, come si esprimeva Heidegger riprendendo Nietzsche, "il deserto cresce" e il mondo si riduce a mero calcolabile. È il trionfo della misura a sostituire la questione della verità contrastando l´esperienza dell´incommensurabile. Il nostro tempo è sordo al tempo "lungo" del pensiero, maniacalizza l´esistenza con un eccesso di stimolazioni e oggetti di consumo, cancella la spinta singolare del desiderio in nome di un iperedonismo ben integrato al sistema, dell´affermazione entusiasta e disincantata dell´homo felix».
Scompare il vecchio Super-io, col suo carico insopportabile di sensi colpa, e quel che conta è l´imperativo al godimento illimitato. Si può dire così?
«Non proprio. Più che a un´abrogazione del Super-io sociale freudiano di tipo kantiano, oggi assistiamo a una metamorfosi inquietante nel senso che il comandamento sociale prevalente non impone la rinuncia al piacere immediato, in nome dell´inclusione nella morale civile, ma al contrario impone il godimento come forma inaudita del dover essere, come obbligazione. Sullo sfondo c´è quello che, già alla fine degli anni Sessanta, Lacan definiva l´evaporazione del Padre, inteso come principio fondativo della famiglia e del corpo sociale. Senza l´ombrello protettivo del Padre, l´insicurezza emerge senza più schermi difensivi: la vita va alla deriva, caotica, spaesata, priva di punti di riferimento, destabilizzata, smarrita, vulnerabile».
Devi godere! è questo il nuovo imperativo categorico?
«Sì, ma il godimento si dissocia, si sgancia dal desiderio e si afferma come volontà tirannica in una dissipazione sadiana, nociva, maledetta. Èuna sregolazione dove non c´è nessuno scambio con l´Altro non c´è Eros, che in psicoanalisi rappresenta il legame fondamentale tra gli esseri umani. Qui prevale Thanatos, una pulsione nel segno dell´autoaggressione e della potenza oscura della ripetizione che appunto attenta la vita, la porta alla distruzione e solleva lo scandalo della tendenza degli esseri umani a perseguire il proprio Male».
Leggendo le sue pagine, non c´è però soltanto quello che lei definisce lo strapotere dell´Es. C´è anche una soppressione conformistica del desiderio, l´aderenza assoluta del soggetto alla maschera sociale. Ma davvero potrà esserci un Io senza inconscio?
«Molte forme che oggi assume la sofferenza hanno interrotto ogni contatto con l´inconscio. La nostra non è solo la società dei legami liquidi, come dice Bauman, dello sbriciolamento dei legami sociali, dell´assenza dei confini simbolici che facevano da bussola nei percorsi della vita. La nostra è anche l´epoca delle identificazioni solide, dell´eccesso di alienazione, di integrazione, di assimilazione conformista. Il soggetto non mostra alcun desiderio, si ancora al mondo esterno fino a perdere ogni contatto con se stesso, si annulla attraverso il rafforzamento narcisistico. Al posto del conflitto freudiano tra principio di piacere e principio di realtà s´impone un culto sociale che incalza la soggettività come un inedito dover essere».
È l´estasi della prestazione, un´immagine di segno mistico. Sembra un paradosso.
«Solo all´apparenza. Perché nel rafforzamento della volontà e dell´efficacia pratica, la prestazione si declina essenzialmente come un principio di godimento e non come un principio morale di sacrificio del godimento. È l´uomo della burocrazia anonima che prende il posto dell´uomo freudiano».
"Figure della nuova clinica psicoanalitica" è il sottotitolo del suo nuovo libro. Disordini alimentari, dipendenze dalle sostanze, depressioni, attacchi di panico, somatizzazioni: sono tutte patologie che confermano la progressiva abrogazione dell´inconscio?
«Sì, vanno in questa direzione e rappresentano il tratto decisivo del totalitarismo ipermoderno. Io ne parlo come di una clinica dell´antiamore, utilizzando il riferimento alla psicosi piuttosto che alla nevrosi. È infatti la difesa dall´angoscia, la vera chiave di lettura del disagio contemporaneo».
Clinica dell´antiamore, bella espressione: che vuol dire?
«Nella varietà delle sue forme nevrotiche, la clinica è essenzialmente legata alle vicissitudini sentimentali. Per le donne è la ricerca dell´uomo che può farle sentire uniche, per gli uomini è l´eterno conflitto tra possederle tutte o averne una sola due fantasmi inconciliabili, com´è evidente. La nevrosi è malattia dell´amore, paura della perdita, tradimento, gelosia... Oggi però prevale il problema di trovare dei rimedi all´angoscia di esistere, e qui la nostra cura può dare prove della sua forza».
Missione possibile, ne è proprio certo?
«Solo se è chiara la posta in gioco. Per non essere ridotta a una superstizione arcaica, la psicoanalisi ha l´obbligo di ritrovare pienamente la ragione che fonda la sua pratica, diventando uno dei luoghi di resistenza a una mutazione devastante e però non ancora del tutto compiuta. Oggi il suo compito etico è quello di promuovere la singolarità irriducibile degli esseri umani contro quelle cure egemoni chi si limitano ad "aggiustarli"».

Freud e la cultura contemporanea
ROMA "Freud, ancora e sempre. Che cosa la cultura di oggi deve al padre della psicoanalisi". È il titolo di un incontro, domani a Roma, a settant´anni dalla morte di Freud (23 settembre del ´39). Ne parlano Simona Argentieri, Stefano Bolognini, Renata Colorni e Alberto Oliverio (coordina Anna Oliverio Ferraris). L´appuntamento organizzato dalla Bollati Boringhieri è alle tre del pomeriggio presso la facoltà di Psicologia in via dei Marsi, 78 (terzo piano, aula 13).

il Fatto 21.1.10
Marx 2.0: il ritorno
di Stefano Feltri

U na volta può essere una bizzarria, due una coincidenza, ma tre episodi
fanno una prova: Karl Marx è tornato a fornire un’interpretazione della finanza dopo l’autodafé delle opere ultraliberiste di Alan Greenspan e Milton Friedman. Prima il libro di Vladimiro Giacché, partner del fondo Sator di Matteo Arpe, “Il capitalismo e la crisi” (Derive e approdi editore): una selezione di scritti marxiani preceduta da una lunga introduzione che spiega come – marxianamente – la crisi non sia un incidente di percorso del capitalismo, ma un suo elemento imprescindibile che serve a risolvere gli squilibri dovuti a un accumulo di eccesso di capacità produttiva, all’eccesso strutturale di credito e al doppio ruolo delle merci (valore d’uso-valore di scambio). Poi esce lo studio di una serissima banca d’affari francese come Natixis che propone “A Marxist interpretation of the crisis”. Sulla base dell’andamento dell’economia reale e soprattutto dell’economia monetaria, questo studio appena uscito arriva alla conclusione che è plausibile proporre un’analisi marxiana (o almeno marxista) di quello che è successo: tutto comincia con un eccesso di accumulazione di capitali, continua con un boom della speculazione accompagnato dalla compressione degli stipendi dei lavoratori e finisce in una crisi finanziaria: “L’euforia dei business leader porta a un eccesso di accumulazione di capitale che a sua volta determina un declino del saggio di profitto se le compagnie non reagiscono comprimendo i salari e quindi una riduzione dei consumi” che trasferisce la crisi all’economia reale. Terza prova del ritorno di Marx: il Sole 24 Ore inizia a pubblicare in allegato al giornale i grandi classici dell’economia. Si comincia con Adam Smith e David Ricardo ma presto si arriverà a Marx in tre volumi. Vedremo chi venderà di più tra il teorico degli animal spirits e il barbuto filosofo di Treviri.

il Fatto 21.1.10
Costituzione, diritti e libertà
di Lorenza Carlassare

La Costituzione non soltanto tutela la persona dagli arresti arbitrari e da ogni altro intervento limitativo, ma le assicura anche una sfera libera intorno: nei luoghi in cui dimora (art. 14), nelle relazioni con gli altri (art. 15), nei movimenti (art. 16). L’art. 14 proclama “Il domicilio è inviolabile“, vietando “ispezioni perquisizioni o sequestri se non nei casi e modi previsti dalla legge secondo le garanzie prescritte per la libertà personale” . La garanzia è la stessa assicurata dall’art. 13 per la libertà personale: le limitazioni sono consentite soltanto se previste da un atto legislativo del Parlamento (e non da un atto normativo del governo) e disposte con atto motivato di un magistrato (non di un’autorità amministrativa o di polizia). Lo schema di tutela delle libertà è costante: “Riserva di legge” e “riserva di giurisdizione”; qui però subisce un’attenuazione in nome di un interesse pubblico preminente: “Gli accertamenti e le ispezioni per motivi di sanità e di incolumità pubblica, o a fini economici e fiscali sono regolati da leggi speciali” (comma 3). L’importante è che non se ne abusi a fini repressivi (penso alle norme che consentono perquisizioni per “blocchi” di edifici, davvero discutibili); l’art. 14 è in qualche modo un allargamento della libertà personale alla sfera più prossima alla persona, inviolabile al pari di questa. La tutela non riguarda solo l’abitazione, ma comprende i luoghi in cui la persona dimora o svolge la sua attività (purché chiusi e non aperti al pubblico). Lo studio professionale, ad esempio, la camera d’albergo, l’automobile o il mezzo di trasporto quando serve a scopi diversi dal trasporto stesso: la cabina del camion dove il camionista riposa, la barca per il navigatore (anche occasionale), il camper o l’autovettura per chi temporaneamente vi abita. Un concetto molto ampio, dunque, quello di domicilio, considerato la “proiezione spaziale” della persona: ricca e varia è la giurisprudenza in proposito.
L’art. 14 si colloca in una più ampia dimensione riguardante in generale la tutela da ingerenze esterne, il diritto alla “riservatezza”: da qualche tempo si è affermato il concetto di “domicilio informatico” e di “riservatezza informatica” (protetta art. 615 ter, Codice penale, introdotto nel 1993). Ma la difesa della privacy ha un largo campo di applicazione e traversa situazioni tutelate da diverse norme costituzionali, in primo luogo dall’art. 15 “La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili”. Intorno alla persona si costruisce una rete di tutela che comprende la sfera spaziale e anche la sfera delle relazioni con gli altri. Di questa sfera si occupa l’art. 15, inviolabile anch’essa e nelle consuete forme tutelata: ma la garanzia, qui, è la più forte. Il comma 2 riprende la formula consueta – “La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge” – ribadendo la competenza della “legge” e la necessità dell’atto motivato di un giudice.
La Carta non soltanto tutela la persona dagli arresti arbitrari, ma le assicura anche una sfera libera intorno: nei luoghi in cui dimora (art. 14), nelle relazioni con gli altri (art. 15), nei movimenti (art. 16)
Ma, a differenza di quanto stabilito per le altre libertà, la “riserva di giurisdizione” è invalicabile. Mai è consentita, nemmeno in situazioni eccezionali, la sostituzione provvisoria dell’autorità di pubblica sicurezza al giudice: solo il magistrato, e nessun altro, può interferire. L’art. 15 tutela non soltanto la libertà, ma anche la segretezza di ogni forma di comunicazione personale che, oltre al mittente, riguarda i destinatari della corrispondenza e, dunque la loro riservatezza è egualmente in gioco. Purché la forma sia davvero riservata (un telegramma, ad esempio, non lo è) la segretezza della corrispondenza, toccando la sfera personalissima e più intima della persona, non può dunque essere violata. Soltanto ragioni forti e inderogabili, collegate alla necessità di tutelare interessi costituzionalmente rilevanti come prevenire e reprimere i reati, possono legittimare restrizioni alla libertà di comunicazione. E il provvedimento del giudice deve avere una specifica e adeguata motivazione, diretta a dimostrare l’esistenza in concreto di esigenze istruttorie: varie sentenze della Corte costituzionale lo confermano. Rispettando la riserva di legge e la riserva di giurisdizione è possibile dunque il sequestro della corrispondenza, l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni verbali, le intercettazioni telefoniche. Alcune norme relative a queste ultime hanno destato perplessità: ora comunque è intenzione del governo limitarne fortemente l’uso, con il rischio, in alcuni casi, di pregiudicare le indagini, soprattutto le più difficili e delicate.
Diritti e libertà, pur garantiti da articoli diversi della Costituzione sono legati fra loro e talvolta non è facile distinguerli nettamente: il fatto di avere dei destinatari, e dunque di essere diretti “a persone determinate”, distingue la libertà di comunicazione dell’art. 15 dalla libertà di manifestazione del pensiero garantita dall’art. 21, uno dei cardini della democrazia. Poiché la tutela è diversa (quella dell’art.
15 è la più forte), interessa molto distinguerle: eppure in alcuni casi, soprattutto riguardo a nuove forme di comunicazione in rete, non è sempre agevole. L’incertezza della linea di confine fra corrispondenza intersoggettiva (ad esempio le mailing list chiuse) e attività comunicativa di tipo diffusivo pone problemi nuovi che toccano la stessa normativa antitrust (per le esigenze legate al pluralismo comunicativo). Il processo di convergenza tecnologica determinerà nuovi incroci tra chi opera in settori distinti; la comunicazione democratica può essere maggiormente a rischio.

l’Unità 21.1.10
Superiori, passano i regolamenti-riforma
L’opposizione dice no
Ora manca il via libera del Senato e il varo del Consiglio dei ministri. Licei e tecnici con meno ore in tutte le materie Ma Valentina Aprea, Pdl, esulta: ci sarà maggiore qualita
di F.L.

L’applicazione. Dovrebbe valere la riforma solo per le prime classi

Che il posticipo in marzo delle iscrizioni fosse l’anticamera di una accelerazione sulla riforma della secondaria se n’è avuta conferma ieri. In commissione alla Camera sono passati i regolamenti per la suddetta riforma (licei, istituti tecnici e professionali). «Abbiamo approvato i provvedimenti ha riferito la presidente della commissione Cultura della Camera Valentina Aprea a maggioranza compatta. L'opposizione (Udc compresa, ndr) su tutti e tre i regolamenti ha votato contro e ritengo che ciò sia un'occasione mancata per la scuola e una sconfitta della politica». «Ora finalmente ha concluso Valentina Aprea i nostri studenti si misureranno con ordinamenti che sono il frutto di una concezione moderna ed europea della scuola, che offrono maggiore qualità e che da un lato superano l'autoreferenzialità della scuola e dall'altra l'eccessiva frammentazione del nostro sistema che era arrivato ad avere oltre 600 indirizzi». La settimana prossima i regolamenti saranno al vaglio del Senato e tra una decina di giorni dovrebbero tornare al consiglio dei ministri per l'ok definitivo.
La scuola ha già perso. Per almeno tre motivi. 1) Passa una riforma scritta con la scure imposta dalla Finanziaria lacrime e sangue (ma solo per la scuola) di Tremonti del 2008; 2) La conseguenza è che si sono scritti regolamenti che partono da esigenze contabili e non formative. Che riducono secondo la logica della partita doppia le ore in tutte le superiori, con sottrazione di formazione generalizzata, altro che sfida europea. Finiscono le sperimentazioni, finisce lo studio della seconda lingua (disattendendo una direttiva europea); 3) Per la prima volta passa una riforma così importante per il futiro del nostro Paese senza un dibattito parlamentare vero né un autentico confronto culturale, né, tanto meno, il coinvolgimento dei principali attori, professori, ragazzi e famiglie.
La Aprea, autrice di un disegno di legge che una volta approvato lascerà alla mercè dei fondi privati l’istruzione pubblica, esulta e con lei il ministro. «Modernizzazione dei percorsi, superamento dell'autoreferenzialità delle scuole, personalizzazione dei percorsi, competenze europee e qualificate, queste saranno le caratteristiche della scuola italiana nei prossimi anni. Più italiano, più matematica, più inglese, più scienze, ma anche, a scelta ha osservato la presidente della VII commissione più musica più lingue più informatica, più arte, più tecnologie e maggior raccordo con il mondo del lavoro costituiscono da oggi opportunità a portata di mano delle giovani generazioni dentro un sistema scolastico più autonomo e che riscopre una nuova responsabilità sociale per una scuola nazionale e sussidiaria allo stesso tempo. Spiace aver dovuto constatare ha concluso Valentina Aprea la strumentalità dell'opposizione del Partito democratico, che ha preferito rinnegare i provvedimenti di Fioroni per cercare di intercettare un facile consenso in vista delle elezioni. E spiace anche osservare la pilatesca posizione dell'Udc, di solito più ricettiva delle istanze di innovazione del sistema scolastico».
Andate a vedere il sito http://nuovilicei.indire.it/ e vi accorgerete che tanto trionfalismo è del tutto immotivato.❖

Repubblica 21.1.10
Apre il primo centro di igiene mentale in Cina: sul modello di istituti analoghi a Trento
Il treno dei matti italiani scuote Pechino al via l´esperimento "manicomi aperti"
di Giampaolo Visetti

pechino La follia può fare miracoli. A Pechino, è successo. Ci sono voluti più di due anni, ma il viaggio più pazzo del mondo ha portato lontano. Nel 2007, tra mille scandali, un treno con a bordo 210 malati di mente italiani partiti da Venezia era arrivato in Cina. La via di Marco Polo, per dimostrare che solo l´amore, assieme alle medicine, può salvare chi è colpito dai disturbi psichiatrici. Ieri, nel quartiere Balizhuan della capitale, autorità italiane (guidate dall´ambasciatore Riccardo Sessa) e cinesi hanno inaugurato il primo centro di salute mentale del Paese.
Per la Cina è l´inizio di una rivoluzione. Le malattie psichiatriche, come ogni deficit, restano una vergogna da nascondere. Milioni di persone vengono recluse in casa dai famigliari, o abbandonate, lasciate prive di cure, o recluse in manicomi simili a quelli smantellati in Italia da Basaglia. Gli ospedali, spesso contigui alle carceri, sono inaccessibili. In questi due anni, il viaggio straordinario dei matti italiani ha però colpito i medici cinesi. Con l´umiltà e la curiosità che sta portando la nazione alla guida del pianeta, hanno voluto scoprire il segreto che aveva consentito a duecento malati di arrivare fino nel cuore della Città Proibita, iniziando l´uscita dal tunnel.
Scienziati e funzionari comunisti, ripercorrendo il tragitto al contrario, sono arrivati così a Trento, dove da una decina d´anni si è dato vita ad un´esperienza unica al mondo: gli Ufe, ossia "Utenti e Famigliari Esperti" coinvolti nella conduzione dei servizi psichiatrici. Un progetto semplice, capace di migliorare la vita dei malati di mente grazie all´affetto e alle responsabilità che ricevono. Gli Ufe trentini, che l´anno scorso hanno attraversato l´Atlantico in barca a vela, hanno folgorato la Cina. Al punto che il governo, dopo ripetuti scambi e corsi di formazione, ha deciso di ripensare il proprio sistema di cure.
Per tre giorni, a Pechino, i più importanti ospedali psichiatrici hanno aperto le porte ai visitatori. I primi tredici Ufe cinesi, già inseriti nella clinica di Haidian, hanno potuto raccontare pubblicamente la loro vita. Un incontro commovente, con i malati italiani. La clinica universitaria della capitale, centro di cura più importante del Paese, si è impegnata a diffondere sul territorio sia i centri di salute mentale che il nuovo rapporto con i pazienti. E´ la filosofia del «fare insieme», promossa dallo psichiatra Renzo De Stefani e adottata dal professor Yao Guizhong, responsabile del piano cinese. Non significa che la Cina abbia deciso di riconoscere come essenziale la centralità della persona e il suo diritto alla libertà. Ma se irrompe sulla scena la follia, non si sa mai. Prossima tappa: uno scambio di Ufe Italia-Cina, modello Erasmus, per dimostrare che dai malati c´è molto da imparare.

Liberazione 20.1.10
No Cgil, la Fiom discute. Le RdB: «Favorevoli, ma non il 1° marzo»
Sciopero degli stranieri, i sindacati frenano
di Roberto Farneti

La prima giornata di sciopero degli immigrati può attendere. I tempi non sono ancora maturi e in ogni caso, se sciopero sarà, dovrà riguardare tutti i lavoratori, italiani e stranieri. I sindacati frenano sull'idea di celebrare così la "Giornata senza immigrati" del primo marzo. La proposta, nata in Francia, ha raccolto molte adesioni da parte di associazioni politiche, soprattutto del volontariato di sinistra, ed è esplosa su internet (oltre 40mila gli iscritti al gruppo nato su Facebook). E tuttavia per fare uno sciopero non basta che sia giusto: bisogna che riesca, perché non si trasformi in un boomerang.
Da qui i dubbi dei sindacati. «Noi della Cgil - chiarisce Piero Soldini, responsabile immigrazione - stiamo con il gruppo del 1° marzo e con il gruppo del 20 marzo per organizzare iniziative comuni che siano più forti possibili. L'obiettivo è porre all'attenzione del paese la condizione dei migranti e il tema del razzismo istituzionale». La Cgil è però contraria a uno sciopero fatto da soli immigrati «perché - spiega Soldini - sarebbe "autoisolante"». Insomma, se c'è un problema di diritti da difendere, come c'è, questi devono essere difesi da tutti i lavoratori. «E' con questo spirito - ricorda il dirigente della Cgil - che abbiamo realizzato la manifestazione del 17 ottobre e che intendiamo costruire iniziative che possano coinvolgere tutti dal 1° al venti marzo». Tra l'altro la Cgil ha già fatto il 12 dicembre 2008 uno sciopero generale in cui, tra le rivendicazioni, c'era l'abolizione della Bossi-Fini». E il paragone con la Francia? «Anche lì non ci sarà uno sciopero dei lavoratori, né migranti né francesi, bensì uno sciopero dei consumi accompagnato da altre iniziative, proprio come vogliamo fare qui», replica Soldini.
Di come essere presenti il 1° marzo, così come nelle altre iniziative che si stanno costruendo, ancora si discute dentro il coordinamento migranti della Fiom e comunque la decisione «spetta alla Fiom». A precisarlo è Sveva Haertter, responsabile immigrazione dei metalmeccanici Cgil: «Il coordinamento migranti della Fiom - ricorda la sindacalista - ha mantenuto una interlocuzione con quella parte del comitato 17 ottobre che si è riunita in assemblea a dicembre, lanciando una assemblea nazionale aperta a tutti, che si terrà domenica prossima a Roma. Appuntamento che, dopo i fatti di Rosarno, assume una valenza ancora maggiore, perché è chiara - sottolinea Haertter - l'urgenza di costruire un percorso di mobilitazione che riparta dalla questione del lavoro e, all'interno di questa, del lavoro migrante».
A differenza della Cgil, le RdB sono «favorevoli» a uno sciopero dei migranti. «Ci stiamo lavorando ogni giorno - rende noto Aboubakar Soumahoro - con assemblee nei luoghi di lavoro. Pensiamo a una giornata di lotta nella quale i lavoratori migranti si ritrovino gomito a gomito in piazza con quelli italiani e i cassintegrati per rivendicare i diritti di tutti noi e per la salvaguardia della nostra dignità». Quando lo proclamerete? «Non appena i lavoratori ci faranno capire che ci sono le condizioni per farlo - risponde Soumahoro - 40mila adesioni su Facebook non bastano, preferisco lavorare su dati reali. Comunque noi il 1° marzo ci saremo, con varie iniziative, per segnalare la drammatica condizione dei migranti in Italia».
Filippo Miraglia dell'Arci non parla di occasione perduta ma avverte: «Su questa vicenda dell'immigrazione si sta giocando una partita decisiva per la nostra democrazia. Perciò penso che le condizioni siano mature - afferma - per uno sciopero generale specifico in difesa dei diritti di chi viene nel nostro paese per lavorare. Quando e come, spetta ai sindacati deciderlo, anche se auspico che sia il prima possibile».

Liberazione 20.1.10
I migranti sfidano Maroni:
«Permesso di soggiorno per tutti»
di Stefano Galieni

Parola del ministro Maroni:«Quello che è accaduto a Rosarno non sarebbe avvenuto se fosse stata applicata la Bossi Fini». Viene da domandarsi se trattasi di ignoranza o di cattiva fede. In ambedue i casi, dopo quanto è avvenuto nella piana di Gioia Tauro, logica vorrebbe che il ministro fosse già stato sostituito. La situazione di Rosarno, come in gran parte del lavoro agricolo nel meridione, non conosce altra legge che quella dello sfruttamento paraschiavistico da almeno 15 anni. Altro che responsabilità degli enti locali: nelle regioni in cui si è provato a proporre leggi di emersione dal lavoro nero, i governi di centro destra hanno fatto barricate. Maroni ieri era a Reggio Calabria e ancora una volta ha parlato di troppa tolleranza nei confronti del degrado, omettendo di nominare i veri responsabili di condizioni di vita a suo tempo denunciate da Msf come peggiori rispetto a quelle che si trovano nei campi profughi dei paesi in guerra. Oggi il ministro sarà a Caserta, definita dallo stesso una "Rosarno al cubo" per la alta concentrazione di lavoratori migranti presenti. Maroni ha reiterato il discorso che vede un discrimine fra "regolari" (buoni per natura e da accogliere) e "irregolari" (inevitabilmente fonte di problemi e da allontanare con ogni mezzo), non volendo accettare l'idea che solo attraverso pratiche di regolarizzazione si potrebbe combattere quello che lui chiama degrado.
Assurdo poi che in città e aree controllate dalle più grandi organizzazioni criminali del continente, il ministro si ostini a voler "far fuori" coloro che, rifiutando lo sfruttamento, si oppongono concretamente allo strapotere delle mafie. Il 28, per dare un segnale di lotta alla 'ndrangheta, ci sarà una riunione straordinaria del Consiglio dei ministri a Reggio Calabria e già è partita la mobilitazione. Ieri in numerose città italiane si sono tenuti presidi per riconnettere i fatti di Rosarno a questioni di rilevanza sia locale che nazionale. Proprio a Reggio Calabria, nel pomeriggio, si è tenuta una manifestazione sotto la prefettura. Una delegazione di manifestanti è stata ricevuta dal Prefetto. Tra le richieste: protezione per tutti gli immigrati ancora presenti nella piana di Gioia Tauro, molti dei quali, anche se regolari, hanno raccontato di maltrattamenti subiti in questura; piano di accoglienza; "sburocratizzazione" delle pratiche per l'ottenimento dei permessi di soggiorno; contrasto reale al lavoro nero e non ai lavoratori. Il prefetto ha chiesto un rapporto dettagliato alle associazioni e alle forze presenti riservandosi di fornire risposte entro pochi giorni. I manifestanti hanno concluso il presidio lasciando alcune decine di chili di letame in piazza sormontati da un cartello recante la scritta "Maroni ancora 'cca stai?"
A Caserta c'è stata una grande giornata antirazzista iniziata all'alba, per il rilascio e il rinnovo dei permessi di soggiorno. Molti degli immigrati fuggiti da Rosarno, circa 300, vivono in questi giorni nei paesi del casertano. L'iniziativa, molto partecipata, ha portato anche lì ad un incontro con il Prefetto, il quale ha garantito la velocizzazione delle oltre 600 pratiche di soggiorno ancora inevase e maggiore attenzione verso i "rastrellamenti" operati in Campania verso i lavoratori dell'agricoltura. Chi era in piazza ha polemizzato con l'idea di legalità esportata dal ministro dell'Interno fatta di esercito nelle strade e nessuna soluzione politica, quando la vera legalità potrebbe nascere garantendo chi denuncia di essere vittima dello sfruttamento. Da Caserta si è poi rinnovata la richiesta di una nuova regolarizzazione non limitata alle categorie del lavoro domestico, e si è chiesta una interlocuzione diretta con Maroni.
A Roma, alcune centinaia di persone si sono radunate sotto la prefettura sia per perorare la causa di chi è fuggito da Rosarno (alcuni erano in piazza) sia per chiedere nella città una politica di accoglienza reale e di contrasto al lavoro nero diffuso anche nella provincia romana anche se in condizioni diverse da quelle del meridione. Un ampia delegazione è stata ricevuta dal vicario del prefetto, dottoressa Giaquinto e da altri funzionari. La delegazione ha chiesto che la prefettura di Roma, come le altre di Italia si facciano carico della richiesta al ministro di un intervento di politiche sociali tali da impedire il ripetersi di condizioni simili a quelle meridionali. Esistono nella capitale numerose e mai risolte emergenze, lavorative e in primo luogo abitative che colpiscono soprattutto i migranti. Tra le richieste quella della proroga dei tempi di "attesa occupazione" (oggi di 6 mesi), scaduti i quali chi è licenziato finisce in clandestinità. Tra le novità emerse, la conferma che il Cie di Ponte Galeria verrà in tempi certi chiuso, anche se se ne costruirà un altro.

mercoledì 20 gennaio 2010

l’Unità 20.1.10
Cinque consigli ad Emma Bonino per governare il Lazio
L’onorevole Pd, già segretario del partito democratico in regione, chiede alla propria candidata di combattere la solitudine delle classi medie e un secco no al nucleare
di Roberto Morassut

La candidatura di Emma Bonino è una opportunità straordinaria. Emma ha la forza di una storia di coerenza che oggi, in politica, è merce rara. Questo tratto speciale e l’autorevolezza acquisita attraverso esperienze di governo sono la sua forza d’urto. Però una Regione come il Lazio si conquista anche assumendo un forte carattere popolare.
Il Lazio è una strana regione perché nei suoi confini amministrativi convivono territori e popolazioni tra loro lontane. Il Lazio deve diventare quella “comunità” che oggi non è. Vorrei dare qualche titolo per una messaggio “comunitario” e “popolare” di cui Emma e noi abbiamo bisogno per vincere: Sviluppo, Igiene, Persona e Famiglia.
Sviluppo. Il Lazio ha bisogno di un potente programma di modernizzazione delle infrastrutture e del sapere. I progetti ci sono ma vanno accelerati. Occorre avvicinare i territori, rendere intermodale il sistema di connessione tra aria, mare, ferro e gomma, favorire un consolidamento delle imprese – che nel Lazio sono tante ma piccole ed esportano poco migliorare il sistema formativo anche in rapporto alla produzione (il numero di brevetti e la percentuale di ricerca per unità di prodotto è molto bassa).
Igiene. Fermiamo la devastazione del territorio dicendo di no alle centrali nucleari di Borgo Sabotino e di Montalto, ridefinendo un Piano per i rifiuti più realistico, approvando i Piani paesistici e varando una moderna legge urbanistica che riduca i tempi delle procedure per combattere l’illegalità e rimettere sullo stesso piano i diritti privati e gli spazi pubblici. Igiene significa anche lotta alla illegalità ed alla degenerazione diffusa delle classi dirigenti. Penso che si debba varare una riforma elettorale che superi la preferenza unica e introduca i collegi uninominali.
Persona e famiglia, infine. Le persone sono sempre più sole e le famiglie impoveriscono dentro una crisi mondiale che inghiotte i ceti medio piccoli. La Regione può fare molto per creare «comunità» e parlare a tanto «popolo minuto», soprattutto urbano e che oggi appare sfibrato, attraverso una politica per la casa e per la salute a sostegno delle famiglie. Aiutare le persone a stare insieme e a costruire insieme progetti di vita non è di destra né di sinistra. Semplicemente è necessario. Ed è possibile con una visione aperta che guardi alla famiglia in modo non ideologico, che consideri le famiglie in tutte le loro forme giuridiche e possibilità, da quelle tradizionali a quelle più aperte.
Vincere la solitudine, combattere l’atomismo sociale e la disgregazione della convivenza, favorire un’idea della vita finalizzata a dei progetti e non solo all’autonomo, egoistico consumo del tempo, dei beni e dei desideri è importante e necessario per chiunque laico o cattolico abbia un senso della comunità. ❖

il Messaggero 20.1.10
Le priorità della Bonino: reddito garantito, più sociale, meno sprechi
di C. Mar.

L'apprezzamento arriva da chi non t`aspetti: «E una candidatura bella, conosco Emma da anni, è una donna importante, forte e cocciuta». Parole e musica di Pippo Baudo. E se lo dice Pippo, icona Rai, che con i radicali spesso e volentieri qualche disputa per sua stessa ammissione l`ha avuta, vuol dire che la candidatura Bonino può entrare davvero in tutte le case, come fa Baudo, appunto, e da anni. «Lei e Adele Faccio mi contestavano, dicevano che facevo programmi banali ma anche noi ci siamo occupati della fame nel mondo», ha fatto notare ieri l`artista, intervistato da Radio Radicale. Più scontata pare l`adesione di Alessandro Baricco: «Emma mi semplifica la scelta». Lo scrittore che ammette di votare a sinistra «per convinzioni antropologiche» coglie però un aspetto che nell`urna il 28 e il 29 marzo potrebbe avere il suo peso: «Io sono di Torino e quando sento Emma parlare mi chiedo se "passerà" nel Lazio. Bisogna vedere quanto gli elettori valuteranno il fatto che è una persona non del territorio». Fin qui le dichiarazioni di voto. Ma a tenere banco ieri è stata la preparazione delle varie liste, l`organizzazione del Comitato elettorale «una priorità» e del programma, che in realtà avrebbe dovuto essere al primo posto. La Bonino ieri tra gli altri ha incontrato Alagna, leader delle Reti civiche. Si dà per scontato che ci sarà una "lista civica per la Bonìno" con molti cattolici «che non sono però "un pacco di voti"» ha avvertito la candidata. L`unica battuta l`ha riservata a Giuliano Ferrara, «i suoi articoli mi porteranno fortuna, ma mi sembra un po` carico di bile e ossessionato da me» A parte l`Elefantino, c`è grande attenzione a quel che accade nello schieramento avversario. Un`eventuale rottura dell`accordo Pdl-Udc finirebbe per danneggiare paradossalmente proprio la Bonino. «Sono valutazioni che farà Berlusconi. e non credo che avranno conseguenze nel Lazio», ha commentato l`ex ministra del governo Prodi
L`altro tema che promette sviluppi da qui ai prossimi giorni è la doppia candidatura della Bonino in lista anche in Lombardia dove i radicali andranno da soli per Cappato presidente. «Sono 8 mesi che lo diciamo, saremo presenti in modo autonomo in alcune regioni», si meraviglia di tanto stupore la leader radicale. Che in quanto all`equiparazione con l`Udc e con la politica dei due forni, chiarisce: «Non c`entra proprio nulla, ci sono delle Regioni in cui andiamo da soli ma in nessuna di esse abbiamo una coalizione con il Pdl». E` un fatto però che la candidatura "esterna" per il Pd rappresenti una discreta anomalia. E` appena il caso di ricordare che i Radicali non hanno mai sostenuto la giunta laziale e su alcune questioni di fondo hanno sempre marcato una certa distanza. Per la prima volta la Bonino ha parlato del caso-Marrazzo, che ha «risvolti giudiziari di cui si occupa la magistratura», «risvolti di compassione umana», «risvolti di comportamento politico da condannarsi senza se e senza ma». Ci sarebbe infine il programma. Stenderlo vuol dire limare differenze che in alcuni casi sono solchi. La Bonino in attesa si limita ad anticipare le priorità, «trasparenza, sviluppo delle tecnologie, utilizzo dei fondi Ue. più controllo sul sociale, meno sprechi, reddito minimo garantito e no al nucleare». II 23 e 24 weekend nei circoli del Pd per «dibattiti e scambi di idee».
l’Unità 20.1.10
«La Polverini rinunci all’appoggio di Casini, altrimenti la ostacoleremo»
di Mariagrazia Gerina

È stato uno dei primi ad appoggiare Renata Polverini. Adesso Francesco Giro, fedelissimo di Berlusconi, avverte: «Se l’Udc resta diventa difficile riconoscermi nella sua candidatura». Anche lei del partito di Feltri anti-Polverini?
«Mi ci iscrivo se questo significa contrastare i pateracchi con l’Udc che nel Lazio si accorda direttamente con la Polverini e in Puglia invece trattare con D’Alema. La riunione del Pdl sarà molto franca e chiederà all’Udc segni chiari di convergenza a livello nazionale, poi si vedrà».
E se l’Udc non fa marcia indietro come si mette con la Polverini? «Se l’ambiguità dovesse rimanere è chiaro che io in una candidata che non garantisce l’intera coalizione di centrodestra non mi riconosco. La Polverini non può dire, da una parte, all’Udc ci penso io, e dall’altra, al Pdl ci penso io. E in giunta che farà riunioni separate? Non a caso in Lombardia Udc e Pdl non vanno insieme».
La Polverini deve rompere con l’Udc?
«Dovrebbe dire all’Udc che se fa l’accordo con lei lo fa con il Pdl. E invece hanno fatto la divisione dei pani e dei pesci sui posti in listino e su quelli in giunta. Così non va. E continuerò a dirlo in campagna elettorale. Vogliono i voti di Berlusconi per vincere e poi il giorno dopo usarli contro di noi. Anche a livello regionale come si farà a governare con questa maggioranza?».
Farà campagna contro Polverini?
«Aspetto la riunione del Pdl e la risposta dell’Udc: dopodiché capirò se i miei voti saranno utilizzati per Berlusconi o contro Berlusconi. Certo se le cose non si ricompongano non sarà una passeggiata. La Bonino è da temere, soprattutto a Roma».
Che fa tifa Bonino?
«No, ma devo essere motivato per sostenere la Polverini, nelle prime battute l’ho vista con il cappello in mano e obbediente a logiche di potere». Spera nella sconfitta?
«No ma se continuiamo così rischiamo di perdere non per colpa mia».

l’Unità 20.1.10
Lakoff: sinistra perdente? Ovvio, utilizza le parole e le emozioni della destra!
Le parole per dire qualcosa di sinistra... ma anche i «frame». Ecco cosa consiglia alla «sinistra perdente» il linguista americano George Lakoff: articolare un proprio linguaggio e recuperare l’empatia.
di Marco Rovelli

Empatia
Senza la percezione del vissuto degli altri c’è solo predazione

Se la sinistra perde, è anche perché non ha compreso come funziona la mente umana. In Pensiero politico e scienza della mente (traduzione di G. Barile, pp. 339, euro 26,00, Bruno Mondadori), George Lakoff, uno dei più eminenti linguisti americani, torna a invitare la sinistra ad articolare un proprio linguaggio piuttosto che inseguire la destra sul suo terreno. Secondo Lakoff questa rincorsa ha segnato negativamente il destino dei liberal americani nei confronti dei repubblicani ma viene naturale riportare il suo discorso anche alle derive politiche italiane. Il fatto è che per vincere occorre comprendere l’inconscio cognitivo, il sistema di concetti che organizza la nostra mente, strutturata da «frame», cornici concettuali metaforiche di cui per la maggior parte siamo inconsapevoli ma che orientano in maniera decisiva la nostra interpretazione dei temi e dei discorsi politici. Questi frame sono indipendenti da noi, è circuiteria neurale che si è formata fin dai primi anni della nostra vita, è «esperienza incorporata». «I modelli culturali sono nel nostro cervello. E noi li usiamo automaticamente».
Due sono i modelli fondamentali secondo Lakoff: quello dei genitori premurosi e quello del padre severo. Danno vita a modalità profondamente di concepire la politica (Moralità è Cura versus Moralità è Obbedienza all’autorità), e bisogna esserne consapevoli per poter produrre un discorso politico vincente. Non basta citare fatti e cifre: bisogna partire dal significato morale, dai frame metaforici che strutturano la nostra mente, dal «mobile esercito di metafore» che percorre i nostri tracciati neurali. E «quando una verità importante passa inosservata perché priva di frame e di nome, può diventare importante costruire un frame concettuale e un nome»: Lakoff lo ha fatto coniando un termine, privateering, la «privatizzazione predatoria» che designa l’insieme di una serie di politiche repubblicane. Ma lo si potrebbe fare anche in Italia, senza aver paura di essere tacciati di «ideologia» («la paura, dice Lakoff, di come l’altra parte presenterà il nostro voto e la paura di mostrare la verità su noi stessi»). Accettare il frame dell’avversario (dalla sicurezza alle riforme...) significa essere sconfitti in partenza. Così come si è sconfitti quando si accetta l’impostazione di conduttori di talk-show conservatori («Siete a favore di una riduzione/alleggerimento delle imposte?»; «Dobbiamo vincere la guerra al terrore o ritirarci?»), senza avere il coraggio di opporgli un altro tipo di impostazione, di frame. Non è solo questione di parole, ma di idee e di valori che stanno dietro alle parole.
E poi, alla radice di tutto questo, Lakoff sottolinea come troppo spesso la politica progressista si sia dimenticata del suo valore fondante, l’empatia, che determina la cura degli altri come necessità, e che assegna allo Stato i ruoli sia di protezione (libertà da) che di empowerment (libertà di: le possibilità concrete di uguaglianza, insomma). L’empatia, ricorda Lakoff, si fonda sulla attivazione dei neuroni specchio, che si attivano sia quando eseguiamo un’azione che quando la vediamo eseguire, e che sono dunque responsabili della nostra identificazione nell’altro, dalla quale riceviamo piacere: empatia e cooperazione sono dunque una valori fondanti dell’umano, e occorre coltivarli e rivendicarli, invece di accettare i frame della paura e dell’obbedienza tipici delle narrazioni metaforiche dei conservatori.❖

l’Unità 20.1.10
Vivere a metò
di Igiaba Scego

Dove eravate la sera del 15 marzo 1977? Molti della mia generazione erano incollati davanti alla tv a vedere «Supergulp, i fumetti in Tv» con la sua miriade di personaggi da Cocco Bill a Corto Maltese. Il mio preferito era Nick Carter un investigatore privato con assistenti molto imbranati. Quando ho letto la lettera del signor Mesfin Fremicael Hagi ho pensato «sicuramente anche lui come me ha visto Supergulp!». E non solo direi. Il paese lui lo potrebbe raccontare in ogni dettaglio. Il signor Mesfin, classe ’68, è arrivato in Italia il 28 luglio 1976, non aveva ancora compiuto i 10 anni. Ha sempre risieduto a Bologna e non ha mai lasciato il territorio nazionale. In regola con tutti i permessi richiesti dalla legge, non ha mai commesso reato. Da un po’ di anni l’amore ha visitato la sua vita, ha una coniuge italiana e il 20 marzo del 2000 la sua vita è stata allietata dalla nascita di un figlio. Il signor Mesfin non ha la cittadinanza italiana (pur di fatto essendolo) per motivi burocratici. Ha tutti i requisiti, ma mancano alcuni documenti impossibili purtroppo da reperire perché dal paese d’origine, l’Eritrea, non gli concedono tale documentazione. Come uscire da questo vicolo cieco? Nella lettera (che lui giustamente chiama richiesta d’aiuto) spedita all’Unità dice «non riesco ad ottenere quella dignità per ̆ migliorare la mia vita e quella dei miei cari». Quello che chiede il signor Mesfin è rispetto. In questo è in compagnia di tanti figli di migranti nati o venuti piccolissimi in Italia che vedono la loro vita bloccata dalla mancanza di questo riconoscimento. La mancanza di cittadinanza ti fa sentire straniero nella tua nazione, una persona comunque bollata come «estranea». Inoltre non ti puoi iscrivere agli albi professionali, non puoi votare, non puoi viaggiare liberamente, hai una vita a metà.❖

Repubblica 20.1.10
"Io, ladro di libri per colpa di Albert Camus"
di Roberto Bolano

L´anticipazione/ Esce una raccolta di saggi dell´autore cileno, tra cui un autoritratto e una confessione sul passato di ladro nelle librerie
"Le mie poesie non le conosce quasi nessuno: il che è un bene probabilmente"
"Volevo leggere tutto e a lungo continuai con i furti, ma un giorno mi beccarono"

Pubblichiamo due brani tratti dal libro "Tra parentesi" che esce oggi per Adelphi
Sono nato nel 1953, l´anno in cui morirono Stalin e Dylan Thomas. Nel 1973 fui incarcerato per otto giorni dai militari golpisti del mio paese, e nella palestra dove venivano tenuti i prigionieri politici trovai una rivista inglese con un reportage fotografico sulla casa di Dylan Thomas nel Galles. Io credevo che Dylan Thomas fosse morto povero e quella casa mi parve magnifica, come una casa incantata nel bosco. Di reportage su Stalin non ce n´erano. Ma quella notte sognai Stalin e Dylan Thomas: erano in un bar di Città del Messico, seduti a un tavolino rotondo, un tavolino di quelli per fare a braccio di ferro, solo che non facevano a braccio di ferro, facevano a chi reggeva meglio l´alcol. Il poeta gallese beveva whisky e il dittatore sovietico vodka. Con il procedere del sogno l´unico ad avere la nausea e a sentirsi sempre peggio ero io. Questo per quanto riguarda la mia nascita. Per quanto riguarda i miei libri devo dire che ho pubblicato cinque raccolte di poesie, un libro di racconti e sette romanzi. Le mie poesie non le conosce quasi nessuno, il che probabilmente è un bene. I miei libri di prosa hanno un certo numero di lettori fedeli, il che probabilmente è immeritato. In Consigli di un discepolo di Jim Morrison a un fanatico di Joyce (1984, scritto in collaborazione con Antoni García Porta) parlo della violenza. Nella Pista di ghiaccio (1993) parlo della bellezza, che dura poco e finisce quasi sempre in modo disastroso. Nella Letteratura nazista in America (1996) parlo della miseria e della sovranità della pratica letteraria. In Stella distante (1996) tento un approccio, molto modesto, al male assoluto. Nei Detective selvaggi (1998) parlo dell´avventura, che è sempre inaspettata. In Amuleto (1999) cerco di consegnare al lettore la voce esaltata di un´uruguaiana con una vocazione da greca. Tralascio il mio terzo romanzo, Monsieur Pain, il cui tema è indecifrabile. Anche se da più di vent´anni vivo in Europa, la mia sola nazionalità è quella cilena, ma ciò non impedisce che io mi senta profondamente spagnolo e latinoamericano. Nel corso della mia vita ho vissuto in tre paesi diversi: Cile, Messico e Spagna. Ho fatto quasi tutti i mestieri, tranne i tre o quattro che chiunque abbia un minimo di decoro rifiuterà sempre di esercitare. Mia moglie si chiama Carolina López e mio figlio Lautaro Bolaño. Entrambi sono catalani. In Catalogna, inoltre, ho appreso la difficile arte della tolleranza. Sono molto più felice quando leggo che quando scrivo.
***
Chi ne ha il coraggio
I libri che più ricordo sono quelli che rubai a Città del Messico fra i sedici e i diciannove anni, e quelli che comprai in Cile quando avevo vent´anni, nei primi mesi dopo il golpe. A Città del Messico c´era una libreria straordinaria. Si chiamava la Librería de Cristal ed era al parco dell´Alameda. Le pareti, perfino il soffitto, erano di vetro. Vetro e travi di ferro. A vederla da fuori pareva impossibile che si potesse rubare un libro lì dentro. Eppure la tentazione fu più forte della prudenza e dopo un po´ ci provai. Il primo libro che mi capitò fra le mani fu un volumetto di Pierre Louÿs, con le pagine sottili di carta bibbia, non so più se fosse Afrodite o Le canzoni di Bilitis. So che avevo sedici anni e che per un po´ Louÿs divenne il mio maestro. Poi rubai libri di Max Beerbohm (L´ipocrita felice), di Champfleury, di Samuel Pepys, dei fratelli Goncourt, di Alphonse Daudet, dei messicani Rulfo e Arreola, che allora erano, a modo loro, ancora attivi, e che quindi avrei potuto perfino incontrare un mattino qualunque sull´affollata Avenida Niño Perdido, una strada che oggi le cartine di Città del Messico mi nascondono, come se fosse esistita solo nella mia immaginazione o come se davvero, con i suoi negozi sotterranei e i suoi spettacoli, si fosse perduta, proprio come mi ero perduto io a sedici anni. Di quelle brume, di quegli assalti furtivi, ricordo molti libri di poesie. Libri di Amado Nervo, di Alfonso Reyes, di Renato Leduc, di Gilberto Owen, di Huerta e di Tablada, e di poeti nordamericani come General William Booth Enters Into Heaven del grande Vachel Lindsay. Ma fu un romanzo a tirarmi fuori dall´inferno e a gettarmici di nuovo. Quel romanzo è La caduta di Camus, e tutto quel che lo riguarda me lo ricordo come intrappolato in una luce spettrale, di crepuscolo immobile, anche se lo lessi, lo divorai, nella luce di quelle mattine privilegiate di Città del Messico, che sono o erano di una luminosità rossa e verde assediata dai rumori, su una panchina dell´Alameda, senza un soldo in tasca e con tutta la giornata, ossia tutta la vita, davanti. Dopo Camus cambiò tutto. Ricordo la copia del libro: era stampato a caratteri molto grandi, come un abbecedario, di poche pagine, rilegato e con un disegno orrendo in copertina, un libro difficile da sottrarre che non sapevo se nascondere sotto l´ascella o dietro la schiena, perché mal si adattava alla mia giacchetta da liceale che ha marinato la scuola, e che alla fine portai via sotto gli occhi di tutti i commessi della Librería de Cristal, che è uno dei modi migliori per rubare, come avevo appreso da un racconto di Edgar Allan Poe. Di lì in poi, da quel furto e da quella lettura, da lettore prudente divenni lettore vorace, e da ladro di libri divenni rapinatore di libri. Volevo leggere tutto, e questo, nella mia ingenuità, equivaleva a voler scoprire o tentare di scoprire quale meccanismo del caso avesse spinto il personaggio di Camus ad accettare il suo atroce destino. Contro ogni pronostico, la mia carriera di rapinatore di libri fu lunga e proficua, ma un giorno mi beccarono. Per fortuna non fu alla Librería de Cristal ma alla Librería del Sótano, che si trova o si trovava di fronte all´Alameda, in Avenida Juárez, e che come dice il suo nome era un seminterrato di dimensioni considerevoli nel quale si impilavano lucenti le ultime novità arrivate da Buenos Aires o da Barcellona. Il mio arresto fu ignominioso. Sembrava che i samurai della libreria avessero messo una taglia sulla mia testa. Minacciarono di farmi espellere dal paese, di riempirmi di botte nei sotterranei della Librería del Sótano, cosa che a me suonò come se quei neofilosofi parlassero fra loro della distruzione della distruzione, e alla fine, dopo lungo confabulare, mi rimisero in libertà, non senza appropriarsi di tutti i libri in mio possesso, fra i quali c´era La caduta, e nessuno dei quali avevo rubato lì.
Traduzione di Maria Nicola

Repubblica 20.1.10
Il sospetto
di Gustavo Zagrebelsky

C´è una gran voglia di voltare pagina e guardare avanti. Quello che è stato un Paese riconosciuto e rispettato per la sua politica, la sua cultura, la civiltà dei rapporti sociali, è ormai identificato con l´impasse in cui è caduto a causa di un conflitto di principio al quale, finora, non si è trovata soluzione. Sono quasi vent´anni che il nodo si stringe, dalla fine della cosiddetta prima repubblica a questa situazione, che rischia d´essere la fine della seconda. La terza che si preannuncia ha tratti tutt´altro che rassicuranti.
Siamo probabilmente al punto di una sorta di redde rationem, il cui momento culminante si avvicina. Sarà subito dopo le prossime elezioni regionali. A meno che si trovi una soluzione condivisa, che si addivenga cioè a un compromesso. È possibile? E quale ne sarebbe il prezzo? Se consideriamo i termini del conflitto - la politica contro la legalità; un uomo politico legittimato dal voto contro i giudici legittimati dal diritto - l´impresa è ardua, quasi come la quadratura del cerchio. Per progressivi cedimenti che ora hanno fatto massa anche nell´opinione pubblica, dividendo gli elettori in opposti schieramenti, i due fattori su cui si basa lo stato di diritto democratico, il voto e la legge, sono venuti a collisione.
Questa è la rappresentazione oggettiva della situazione, che deliberatamente trascura le ragioni e i torti. Trascura cioè le reciproche e opposte accuse, che ciascuna parte ritiene fondate: che la magistratura sia mossa da accanimento preconcetto, da un lato; che l´uomo politico si sia fatto strada con mezzi d´ogni genere, inclusi quelli illeciti, dall´altro. Se si guarda la situazione con distacco, questo è ciò che appare come dato di fatto e le discussioni sui torti e le ragioni, come ormai l´esperienza dovrebbe avere insegnato, sono senza costrutto.
I negoziatori che sono all´opera si riconosceranno, forse, nelle indicazioni che precedono. Ma, probabilmente, non altrettanto nelle controindicazioni che seguono.
Per raggiungere un accordo, si è disposti a "diluire" il problema pressante in una riforma ad ampio raggio della Costituzione. Per ora, la disponibilità dell´opposizione al dialogo o, come si dice ora, al confronto, è tenuta nel vago (no a norme ad personam, ma sì a interventi "di sistema" per "riequilibrare" i rapporti tra politica e giustizia), è coperta dalla reticenza (partire da dove s´era arrivati nella passata legislatura, ma per arrivare dove?) o è nascosta col silenzio (la separazione tra potere politico, economico e mediatico, cioè il conflitto d´interessi, è o non è questione ancora da porsi?).
Vaghezza, reticenza e silenzio sono il peggior avvio d´un negoziato costituzionale onesto. La materia costituzionale ha questa proprietà: quando la si lascia tranquilla, alimenta fiducia; quando la si scuote, alimenta sospetti. Per questo, può diventare pericolosa se non la si maneggia con precauzione. Tocca convinzioni etiche e interessi materiali profondi. Non c´è bisogno di evocare gli antichi, che conoscevano il rischio di disfacimento, di discordia, di "stasi", insito già nella proposta di mutamento costituzionale. Per questo lo circondavano d´ogni precauzione. Chi si esponeva avventatamente correva il rischio della pena capitale. Per quale motivo? Prevenire il sospetto di secondi fini, di tradimento delle promesse, di combutta con l´avversario. Quando si tratta di "regole del gioco", tutti i giocatori hanno motivo di diffidare degli altri. La riforma è come un momento di sospensione e d´incertezza tra il vecchio, destinato a non valere più, e il nuovo che ancora non c´è e non si sa come sarà. In questo momento, speranze e timori si mescolano in modo tale che le speranze degli uni sono i timori degli altri. È perciò che non si gioca a carte scoperte. Ma sul sospetto, sentimento tra tutti il più corrosivo, non si costruisce nulla, anzi tutto si distrugge.
Il veleno del sospetto non circola solo tra le forze politiche, ma anche tra i cittadini e i partiti che li rappresentano. Nell´opposizione, che subisce l´iniziativa della maggioranza, si fronteggiano, per ora sordamente, due atteggiamenti dalle radici profonde. L´uno è considerato troppo "politico", cioè troppo incline all´accordo, purchessia; l´altro, troppo poco, cioè pregiudizialmente contrario. Sullo sfondo c´è l´idea, per gli uni, che in materia costituzionale l´imperativo è di evitare l´isolamento, compromettendosi anche, quando è necessario; per gli altri, l´imperativo è, al contrario, difendere principi irrinunciabili senza compromessi, disposti anche a stare per conto proprio. La divisione, a dimostrazione della sua profondità, è stata spiegata ricorrendo alla storia della sinistra: da un lato la duttilità togliattiana (che permise il compromesso tra Partito Comunista e Democrazia Cristiana sui Patti Lateranensi), dall´altro l´intransigenza azionista (che condusse il Partito d´azione all´isolamento).
Tali paragoni, indipendentemente dalla temerarietà, sono significativi. Corrispondono a due paradigmi politici, rispettivamente, la convenienza e la coerenza: una riedizione del perenne contrasto tra l´etica delle conseguenze e l´etica delle convinzioni. L´uomo politico degno della sua professione - colui che rifugge tanto dall´opportunismo quanto dal fanatismo e cerca di conciliare responsabilmente realtà e idealità - conosce questo conflitto e sa che esistono i momenti delle decisioni difficili. Sono i momenti della grande politica.
Ma da noi ora non è così. Ciò che è nobile nei concetti, è spregevole nella realtà. La buona convenienza appare cattiva connivenza. Il sospetto è che, dietro un gioco delle parti, sia in atto la coscientemente perseguita assimilazione in un "giro" di potere unico e autoreferenziale, una sorta di nuovo blocco o "arco costituzionale", desiderando appartenere al quale si guarda ai propri elettori, che non ci stanno, come pericolo da neutralizzare e non come risorsa da mobilitare. Vaghezza, silenzi, e reticenze sono gl´ingredienti di questo rapporto sbagliato, basato sulla sfiducia reciproca. È banale dirlo, ma spesso le cose ovvie sono quelle che sfuggono agli strateghi delle battaglie perdute: in democrazia, occorrono i voti e la fiducia li fa crescere; la sfiducia, svanire.
Il sospetto si dissipa in un solo modo: con la chiarezza delle posizioni e la risolutezza nel difenderle. La chiarezza si fa distinguendo, secondo un ordine logico e pratico, le cose su cui l´accordo c´è, quelle su cui potrebbe esserci a determinate condizioni e quelle su cui non c´è e non ci potrà essere. La risolutezza si dimostra nella convinzione con cui si difendono le proprie ragioni. Manca l´una e l´altra. Manca soprattutto l´idea generale che darebbe un senso al confronto costituzionale che si preannuncia. Così si procede nell´ordine sparso delle idee, preludio di sfaldamento e sconfitta. Per esempio, sulla difesa del sistema parlamentare contro i propositi presidenzialisti, la posizione è ferma? Sulle istituzioni di garanzia, magistratura e Corte costituzionale, fino a dove ci si vuol spingere? Sul ripristino dell´immunità parlamentare c´è una posizione, o ci sono ammiccamenti?
Quest´ultimo è il caso che si può assumere come esemplare della confusione. Nella strategia della maggioranza, è il tassello di un disegno che richiede stabilità della coalizione e immunità di chi la tiene insieme, per procedere alla riscrittura della Costituzione su punti essenziali: l´elezione diretta del capo del governo, la riduzione del presidente della Repubblica a un ruolo di rappresentanza, la soggezione della giustizia alla politica, eccetera, eccetera. L´opposizione? Incertezze e contraddizioni che non possono che significare implicite aperture, come quando si dice che "il problema c´è", anche se non si dice come lo si risolve. Ci si accorge ora di quello che allora, nel 1993, fu un errore: invece del buon uso dell´immunità parlamentare, si preferì abolirla del tutto. Fu il cedimento d´una classe politica che non credeva più in se stessa. Ma il ripristino oggi suonerebbe non come la correzione dell´errore, ma come la presunzione d´una classe politica che non ama la legalità. Occorrerebbe spiegare le ragioni del rischio che si corre, nell´appoggiare questo ritorno; rischio doppio, perché una volta reintrodotta l´immunità con norma generale, la si dovrà poi concedere all´interessato, con provvedimento ad personam. Due forche caudine per l´opposizione. Ma allora, perché?
Perché, si dice, se non ci sono aperture, il confronto non inizia nemmeno e la maggioranza andrà avanti per conto proprio. Appunto: dove non c´è il consenso, avendo i voti, vada avanti e poi, senza l´apporto dell´opposizione, ci potrà essere il referendum, dove ognuno apertamente giocherà le sue carte. Ne riparleremo.

Repubblica 20.1.10
Sono sempre più diffuse le difficoltà linguistiche Lo dice uno studio inglese, lo confermano gli esperti
Un bimbo su sei non parla a 2 anni "Colpa della tv e dello stress"
di Vera Schiavazzi

"La sordità o un deficit uditivo sono una delle possibili cause dei disturbi di linguaggio ma sono anche la più facile da indagare"

A diciotto mesi, un bambino inglese su quattro non è ancora in grado di pronunciare quelle 20 diverse parole che gli standard internazionali hanno individuato come ‘soglia minima´ al di sotto della quale si può diagnosticare un ritardo nel linguaggio. E la percentuale sale a uno su quattro se si considerano soltanto i maschi, dei quali si conosce da sempre una maggiore precocità motoria e una ‘pigrizia´ nell´esprimersi. La ricerca, realizzata da YouGov per BBC, non fa che rispecchiare un´ansia sempre più diffusa tra le mamme (e i papà), non soltanto in Gran Bretagna. L´ansia delle mamme rimbalza sul Web: "Il mio tesoro di 21 mesi dice soltanto ‘baba´ per indicare la pappa e ‘gnogna´ per chiamare mia madre, il pediatra dice che non è nulla ma sono tanto preoccupata…", o ancora "dove posso eseguire un test audiometrico per essere sicura che senta correttamente?", "sapete indicarmi un bravo specialista in Lazio?" e così via. E se le ragioni di inquietudine non mancano (eccesso di televisione anche da piccolissimi, mancanza di tempo per leggere le fiabe, abbondanza di figli unici sono universalmente riconosciuti come altrettanti fattori che potrebbero contribuire a spiegare il fenomeno) è vero anche che i genitori di oggi sono molto attenti, forse troppo, al benché minimo sintomo che potrebbe rallentare il loro bambino nella sua marcia verso la crescita. Spiega Stefano Vicari, direttore di Neurospicologia Infantile al Bambin Gesù di Roma: «Un tempo, molti pediatri avrebbero detto alla signora che lamentava la scarsa propensione a parlare del figlio di due anni ‘non si preoccupi, è pigro, recupererà in seguito´. Ora, per fortuna, nessuno lo fa più. Ogni bambino è diverso dagli altri e sarebbe sbagliato restare aggrappati a criteri troppo rigidi. Ma a due anni un bambino deve manifestare capacità di espressione e pronunciare delle parole, più o meno correttamente: se non la fa, è bene approfondire le ragioni».
L´esperienza quotidiana dei pediatri italiani, i primi a dover dare risposte e a formulare diagnosi, conferma i dati inglesi. E se la ricerca britannica parla di un 34 per cento di bambine e di un 27% di maschietti che hanno pronunciato la loro prima parola già a nove mesi (in inglese dada, o daddy, proprio come ‘papà´ per i coetanei italiani), in Italia cresce l´attenzione per il ritardo nel linguaggio. E, insieme a questa, la rapidità nell´individuarne e curarne le ragioni: «Abbiamo chiesto e ottenuto di introdurre uno screening audiologico fin dalla nascita in alcune città-pilota come Lecce - spiega Giuseppe Mele, segretario della Federazione italiana medici pediatri - La sordità, o un deficit uditivo, sono naturalmente soltanto una delle possibili cause dei disturbi di linguaggio dei quali osserviamo quotidianamente l´aumento, ma sono anche quella più facile da indagare fin dalla nascita». Dove lo screening non viene fatto già durante il ricovero per il parto, a sette, otto mesi si può ricorrere al Boel-Test, un insieme di stimoli acustici e di parametri che consentono di stabilire se il bambino sente correttamente. E che i problemi aumentino si spiega, come afferma Mele, «con l´aumento di parti prematuri, di bambini a rischio per altre cause e di neonati che pesano meno dei parametri previsti». «Ma - osserva da un diverso punto di vista Tilde Giani Gallino, psicologa dell´età evolutiva - bisognerebbe tener conto anche di come è cambiato il rapporto tra genitori e figli, anche piccolissimi. Un tempo i neonati e i bambini fino a uno o due anni di età vivevano perlopiù a contatto solo con i parenti stretti, dormivano molto, uscivano di casa solo per andare ai giardinetti. Ora gli stimoli e il confronto sono costanti, e ogni genitore si aspetta che il suo bambino faccia tutto subito, e si preoccupa se questo non accade». «I gesti - osserva ancora Giani Gallino - hanno almeno in parte sostituito le parole, e bisogna dire che la maggior parte dei bambini che tardano a parlare si fa, comunque, capire benissimo dagli adulti che lo circondano. In questo senso, pronunciare correttamente le parole diventa meno necessario e nessun genitore passa più ore e ore a correggere un figlio che non dice bene la ‘r´ o la ‘d´». «Non dimentichiamo - conferma Vicari - che i bambini agiscono per imitazione: camminano se vedono altre persone farlo, parlano per ripetere i suoni emessi dai genitori. Anche per imparare a parlare, comunque, la tv può avere un impatto negativo, nonostante qualcuno pensi il contrario: si tratta di un ascolto passivo, molto meglio l´interazione che si stabilisce tra bambino e adulto, magari aiutata da un libretto illustrato, da una filastrocca o da una canzone». Che cosa fare e che cosa evitare? Lasciar parlare il piccolo senza interromperlo, anche se sbaglia, ascoltandolo con attenzione, favorire i suoi gesti, ripetere correttamente le parole senza pretendere che lo faccia anche lui. Da evitare invece la presa in giro o - peggio - l´abitudine di far finta di non aver sentito perché la parola è stata pronunciata in modo approssimativo.

Repubblica 20.1.10
Capire il XXI secolo

Per la Treccani, Tullio Gregory ha curato un´enciclopedia in sei volumi: dalle neuroscienze al diritto globale fino alla riscoperta del passato, le voci per comprendere il nostro tempo

er il periodo appena concluso, è stata già coniata la formula di Decennio breve. Un evo corto, ma denso di ambiguità e pulsioni contraddittorie, come illustra Tullio Gregory nel presentare la nuova opera enciclopedica della Treccani. Si intitola XXI secolo, è articolata in sei volumi (i primi tre già stampati), e rappresenta un ambizioso e riuscito tentativo di tratteggiare la complessità del presente. «Un´opera unica nel panorama internazionale», spiega Gregory, direttore di XXI secolo. Una bussola per non annegare nel maremoto della contemporaneità.
Il segno prevalente del decennio breve sembra proprio l´incertezza. Entrano in crisi consolidati equilibri politici internazionali, e insieme a essi gli ordinamenti giuridici. «Tutti i parametri tradizionali, anche del nostro vivere quotidiano, sembrano mutati senza poter immaginare il più immediato futuro», dice Gregory, riferendosi anche alla pervasività dei sistemi digitali. Dalla globalizzazione del diritto alla tecnopolitica, dalla costruzione del corpo elettronico ai progressi delle neuroscienze, dai nuovi modelli di un´informazione più ampia all´innovazione delle consuetudini lessicali, l´opera cerca di tracciare una sorta di mappa dei nuovi saperi. Nello scorrere l´indice del primo volume, Norme e idee, ci si imbatte tra gli altri nei giuristi Natalino Irti e Sabino Cassese, Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky. A investigare paure e depressioni sono stati chiamati gli psicoanalisti Umberto Galimberti e Simona Argentieri. Dalla voce Il "classico" oggi, firmata da Luciano Canfora, abbiamo tratto un brano pubblicato in questa pagina.
Nel secondo volume, incentrato su Comunicare e rappresentare, figurano saggi sull´informazione di Ezio Mauro e Tomás Maldonado, gli studi sul linguaggio di Tullio De Mauro, Luca Serianni e Giuseppe Antonelli, nuove forme letterarie investigate da Piero Boitani e un´indagine sul "viaggio virtuale" di Alberto Abruzzese. Di taglio storico il terzo volume, con contributi di Lucio Caracciolo, Carlo Galli, Gianfranco Pasquino, Franco Cardini, Francesco Benigno, Piero Ignazi, Ilvo Diamanti e Luigi Spaventa. «Non proponiamo soluzioni, ma strumenti critici», avverte Gregory nella Prefazione. Tracce provvisorie, senza esiti prevedibili.

Repubblica 20.1.10
Impero, schiavitù e democrazia quel mondo antico così presente
di Simonetta Fiori Luciano Canfora

Certi modelli servono come veri e propri strumenti di comprensione non solo come semplici, e più o meno gratificanti, analogie
Molte delle parole chiave della nostra epoca vengono riprese nei significati che avevano per la civiltà greca e quella romana

Anticipiamo parte della voce curata da Canfora per l´Enciclopedia del XXI secolo
Può sembrare paradossale, ma la forza di attrazione dei modelli (archetipi) classici si è consolidata alla svolta tra fine del XX e inizio del XXI secolo. Chiariamo subito che per "classico" si intende qui la realtà del mondo antico greco e romano nella vasta e contraddittoria gamma dei suoi molti aspetti, non certo un´idea aristocratica o estetica di quel mondo. Nel corso del XX secolo, le guerre, le rivoluzioni, le divisioni del mondo in due "campi" contrapposti ma ancorati entrambi a visioni e valori fortemente moderni avevano favorito un arretramento dei "modelli" antichi (fatta eccezione per l´Italia fascista e per la Germania nazionalsocialista). La reazione ai fascismi e poi la cosiddetta rivoluzione culturale dei tardi anni Sessanta e degli anni Settanta del Novecento avevano inferto un ulteriore colpo. Il declino delle "rivoluzioni culturali" e poi la fine del "socialismo reale" in Europa hanno riportato in primo piano, nella discussione pubblica e nella riflessione, forme di pensiero, concetti e questioni che il "moderno" conflitto novecentesco sembrava aver archiviato.
Non è detto che vi sia ovunque piena consapevolezza di ciò, ma il fatto significativo è che le parole-chiave del mondo antico siano ora tornate centrali. Potremmo indicarne alcune per intenderne il peso: schiavitù, impero, democrazia, costituzione mista, diritto naturale, libertà. (...)
Impero. La nozione di impero è stata anche un campo di battaglia ideologico-politica. Il Novecento avrebbe dovuto essere - e in larga misura fu - l´età della liquidazione degli imperi: con la fine del primo conflitto mondiale erano finiti di colpo, insieme, almeno quattro imperi territoriali (zarista, tedesco, austro-ungarico, ottomano) e la fine del secondo conflitto mondiale aveva visto il progressivo sgretolamento dei due massimi imperi coloniali (inglese e francese), per non parlare di Olanda e Portogallo o della vicenda, in Asia, dell´ascesa e poi caduta del Giappone. Erano in realtà subentrati, e dominarono nella seconda metà del secolo, due imperi ideologici di respiro planetario: quello americano e quello sovietico. (...). Con la fine di uno dei due imperi e la vittoria propagandistica dell´altro si è determinata una situazione ancora più paradossale: grazie alla forza che è del vincitore, il quale proprio perché è tale può influenzare l´intera macchina intellettuale (dal giornale quotidiano al raffinato saggio scientifico), è diventato senso comune che impero fosse soltanto quello risultato soccombente; per converso è percepito come segno di una certa audace e anticonformistica libertà di giudizio adottare la definizione di impero americano (con tutte le ovvie implicazioni connesse con tale diagnosi). Anche qui un aiuto viene dalla rinnovata adozione di modelli antichi come strumento di comprensione del presente, non come semplici, più o meno gratificanti, analogie (...).
Democrazia. Non meno significativo il destino di un´altra parola-chiave che, così come impero/imperium, è presa di peso dalla realtà antica (greca): democrazia/demokratía. Il destino novecentesco di questa parola era stato davvero curioso. Malvista nell´Europa liberale (e ancor più nella parte più autoritaria del continente) fino alla fine del primo conflitto mondiale, essa fece irruzione nell´Europa liberale devastata dalla Grande Guerra e dall´imprevista novità della rivoluzione comunista (considerata in potenziale espansione ancora nei primi anni Venti). Così da bandiera delle "opposizioni" o comunque della parte più avanzata dello schieramento politico, essa diventò l´ancora di salvezza e la parola d´ordine dell´Occidente in posizione di contrasto frontale verso la Russia bolscevica e il (presunto e temuto) contagio rivoluzionario. (...). La fine del socialismo in Europa, culminata nella scomparsa dell´Urss, ha prodotto un effetto non prevedibile: la riappropriazione di "democrazia" come termine di battaglia, non più come vuota icona propagandistica da guerra fredda. Democrazia torna a essere una parola problematica e di combattimento, come nelle sue origini ateniesi quando era perlopiù usata come disvalore da parte dei suoi implacabili critici. (...)
Cittadinanza e libertà. (...) La democrazia ritorna come domanda imperiosa e difficilmente contenibile di cittadinanza: esattamente come nella città antica e nelle comunità statali o sovrastatali di epoca romana. La lotta intorno alla cittadinanza - e le rinnovate forme di esclusione - sono il vero oggetto di scontro pro e contro la democrazia. Ancora una volta il punto di osservazione offerto dall´esperienza di età "classica" torna utile.

Repubblica 20.1.10
Luciano Canfora
"Perché Finite le ideologie si torna a Tucidide e Socrate"

La fortuna dei classici nella cultura italiana ha l´andamento del pendolo. A stagioni di enfasi propagandistica - ad esempio, la retorica fascista - sono succedute fasi di rigetto, fino all´attuale trionfo di modelli che sembravano definitivamente liquidati nel corso del Novecento. «Oggi usiamo categorie della classicità per comprendere meglio il presente», spiega Luciano Canfora, antichista illustre incline a frequenti incursioni nell´attualità. «Un recupero, quindi, di tipo ermeneutico, soprattutto se ci riferiamo alle nozioni di democrazia o di impero. Nel caso di cittadinanza, il ricorso alla classicità non ha un valore esclusivamente analitico o cognitivo, ma si arricchisce di una valenza etica».
Ma come spiega il successo dei classici in quella che è stata definita "ipermodernità"?
«Per spiegarne la fortuna oggi bisogna tornare un po´ indietro, quando la rivoluzione culturale del Sessantotto inghiottì passato e trapassato. Finirono in soffitta non solo Tucidide e Cicerone, ma anche Foscolo e Leopardi. Esistevano soltanto i testi sacri dell´ideologia. L´impopolarità dei classici si esaurì con il Settantasette. Al principio degli Ottanta già assistemmo a una nuova fioritura di collane dedicate ai testi antichi. Allora intervennero due fattori essenziali: la crisi verticale delle ideologie del decennio ‘68-´77 e il linguaggio. L´esaurimento della ventata dogmatica ebbe come effetto il ritorno ai testi durevoli, da Omero a Sant´Agostino. E sulla fumisteria della saggistica di quella stagione prevalse la straordinaria limpidezza dei maestri antichi».
Mi sta dicendo che l´esaurimento definitivo delle ideologie novecentesche è una chiave per capire l´attuale fortuna della classicità?
«Sul finire del XX secolo abbiamo assistito al crollo non soltanto di un sistema ideologico ma di consolidati equilibri mondiali. Per una sorta di paradosso della storia, il Novecento che avrebbe dovuto essere l´età della liquidazione degli imperi si concluse con la vittoria di un solo impero. Non deve sorprendere che la politologia americana ed europea abbia sentito il bisogno di leggere la contemporaneità attraverso l´archetipo ateniese o peloponnesiaco o romano: vediamo come è andata a finire in quell´altro impero... ».
Nel suo saggio Il "classico" oggi , lei lamenta anche un recupero improprio del mondo antico.
«Sì, una frase di Tucidide fu usata a sproposito nel Preambolo (poi dismesso) della Costituzione europea. Un monito potrebbe essere: studiamoli meglio, questi classici, proprio per non aggirarci ciechi nella confusione del presente».
S.Fio.