domenica 24 gennaio 2010

l’Unità 24.1.10
Emma, campagna fai-da-te «Subito club e comitati»
Prove di passo a due con il Pd. «Ma bisogna galvanizzare anche chi non fa politica». Via a comitati e club. E a coordinare la campagna, la radicale Bernardini insieme al Pd Milana. Ma su di lui nel Pd è bufera.
di Mariagrazia Gerina

«Ariosa», «parecchio fai-da-te», «creativa». Emma Bonino la sua campagna per conquistare gli elettori del Lazio la immagina così. «Se la lasci libera, poi prende il volo», sorride, pensando già ai Comitati Bonino che nasceranno mentre tra i banchi di frutta e verdura scambia sguardi e sorrisi, battute e strette di mano. Ma sembra che parli di sé. «Ciao, io sono Emma», si presenta, in un sabato mattina di sole invernale, come se, a cinquantuno anni, più di trenta dall’elezione in parlamento del ‘76, dovesse ricominciare tutto da capo. Attorno palazzoni di periferia, gente che sta attenta a risparmiare mentre fa la spesa. «Ce la facciamo?», le va incontro un signore con le buste in mano. «Ce la dobbiamo fare», corregge lei tenendolo per le braccia. Gesti spontanei, appena un po’ impacciati, come se davvero fosse un debutto per Emma questo cercare voti per sé e non per una causa, un’idea. «Emma, brava, sbaraglia gli schemi». «Non ti preoccupare se Libero ti diffama», la incoraggia la gente. «Le lotte per noi donne ce le ricordiamo». «L’anno del divorzio ero a in piazza».
COMINCIA IL VIAGGIO
Ecco, il ghiaccio è rotto, dopo le esitazioni e gli strappi, il viaggio elettorale di Emma Bonino candidata del centrosinistra alla Regione Lazio inizia. Nel più tradizionale dei modi. Con un bagno di folla vera. «Mi sembra d’essere la zia d’Italia», si schermisce lei. Di buon mattino, al mercato rionale di Casal de Pazzi. A mezzogiorno, in quello coperto di villa Gordiani. Scenari «popolari», scelti dal Pd per questa prima prova di passo a due con la candidata radicale. Chi le chiede di riprendere in mano la sanità («per mio figlio, autistico, c’è il nulla davanti»), chi non sa come fare con la pensione minima. Ci sono gli iscritti, il segretario regionale Mazzoli. «Ciao Emma, dove stanno i volantini?», arriva rispolverando l’entusiasmo di un neomilitante Nicola Zingaretti, «l’esploratore» nei giorni in cui il Pd doveva ancora decidere chi candidare. «Ciao Nicò», apprezza lei, prendendolo sotto braccio, mentre Zingaretti è già avanti a tirarle la volata. «Io non sono né per la destra né per la sinistra», lo blocca una signora. «Per questo candidiamo la Bonino», sorride lui. Funziona: «Ah Emma sì che mi piace». Scena spontanea on the road, meglio di uno spot televisivo. «Certo sono un bel ticket insieme», li guarda muoversi tra la folla un militante. E poi salire insieme in macchina, Nicola alla guida della sua auto. Emma che studia già la prossima fuga in avanti. «Emma ce la può fare anche contro le conventicole», dice il presidente della Provincia. «Ma dobbiamo pensare a una campagna che muova la creatività delle persone», ripete la Bonino, che, tra un banco e l’altro, accenna il suo primo discorso da candidata.
«La gente è uguale ovunque spiega -, le preoccupazioni sociali di chi ha malati a carico, quelle di chi non ha lavoro, i cittadini del Lazio sono in ansia per il futuro e insoddisfatti della classe politica: una buona amministrazione può dare risposte, purché abbia come priorità i più deboli ed esposti». Alla sinistra di popolo che incontra nei mercati convince. I nodi si sa quali sono: sanità, infrastrutture, rifiuti, ambiente. I limiti anche: il buco lasciato da Storace, dice Emma. La giunta Marrazzo ha iniziato il risanamento. Ma non basta: la «struttura amministrativa» è ancora troppo «opaca». «I posti letto ci sono ma vanno messi in rete». Trasparenza ed efficienza, le parole d’ordine su cui impostare il lavoro. Il comitato elettorale «è a buon punto», dice Emma. Sarà a Trastevere, via Ripense. Però bisogna «galvanizzare anche le persone che non fanno politica». Comitati e club per Emma Bonino. «Ci hanno già scritto per aprirne», fa sapere la candidata, che a fine giornata prova a sciogliere alla bega dei primi incarichi politici. Riccardo Milana, segretario del Pd romano, come voleva una parte del Pd (decisivo l’intervento di Marini), del tutto contraria l’altra (Zingaretti compreso), farà il coordinatore. «Scelta sbagliata», tuona Morassut, ala Franceschini. «Inspiegabile forzatura», dice l’ala Marino. Anche se sarà affiancato dalla radicale Rita Bernardini. «Ognuno sia propositivo e libero», fa da pompiere Emma, che sulle lotte intestine invoca il lavoro di squadra. ❖

il Fatto 24.1.10
Emma parte dai mercati
Inizia la campagna elettorale della Bonino
di Alberto Grossi

La pasionaria dei diritti civili tra banchi di frutta, famiglie e vecchiette sorridenti. In un gelido sabato mattina, Emma Bonino ha aperto la sua campagna come candidata presidente alla regione Lazio in due mercati della periferia romana, a Casal de’ Pazzi e a Villa Gordiani. Spiazzi colmi di gente e di curiosità, per la
donna che il centrodestra di Renata Polverini dipinge come l’Anticristo, abortista e anticlericale. Un “diavolo” che al mercato è arrivato in taxi, perché per gli impegni elettorali non usa l’auto che le spetta come vicepresidente del Senato. Ad attenderla, una selva di taccuini e microfoni, con l’inevitabile domanda sulla foto pubblicata da Libero, che la ritrae mentre pratica un aborto. “Quelle che avete visto sono cose risapute: rivendico quelle battaglie delle donne per l’aborto ma sono per la non violenza e la disobbedienza civile” replica subito Bonino. Ferma nel difendere Tinto Brass, probabile candidato per i Radicali nel Lazio e in Veneto: “Lui ci ha sempre sostenuti nei momenti difficili, e questo non ha mai fatto scandalo. E comunque delle liste nel Lazio non a ancora parlato”. Piccola nel suo cappottone nero, inizia il giro tra i banconi, assieme al presidente della provincia di Roma, Nicola Zingaretti, e al segretario del Pd del Lazio, Alessandro Mazzoli. Tanta gente e parecchio entusiasmo. Le più estroverse sono le vecchiette. “Ma lo sai che sei più bella che in televisione?” le dicono in parecchie. Bonino stringe la mano a tutti: “Ciao, sono Emma”. Un salumiere la indica: “Quella è l’unica onesta”. Le chiedono di fare “qualcosa per la gente”, e Bonino ribatte: “Facciamola assieme”. Per riprenderla, i fotografi si arrampicano anche sui camion della frutta. I militanti del Pd, che le hanno organizzato l’uscita, gongolano: “E’ andata bene, la Bonino è forte”. La candidata invece parla di programma: “Ci concentreremo su tre o quattro nodi fondamentali cercando soluzioni, non miracoli. La gente è uguale ovunque, ciò che le preme sono i malati a carico e i nodi del lavoro. I problemi del Lazio sono evidenti: la sanità, l’ambiente, le infrastrutture e i rifiuti”. Bagno di folla anche a Villa Gordiani. Un uomo le urla da dietro: “Marijuana libera”. Bonino lo ignora, e continua ad abbracciare signore con la sporta e farsi scattare foto con i telefonini. Alla fine non resiste, e si accende una sigaretta. Dopo i saluti, il ritorno alla sede dei Radicali in largo di Torre Argentina, da dove Bonino ha ricominciato a riannodare i fili del centrosinistra. Ieri pomeriggio ha nominato ufficialmente come coordinatore del suo comitato elettorale Riccardo Milana, senatore del Pd. Un nome proposto dal bersaniano Mazzoli e appoggiato anche dai Popolari, ma sgradito alla minoranza franceschiniana e a Michele Meta, ex coordinatore della mozione Marino. Venerdì sera i contrari avevano protestato sulle agenzie, ma Bonino ha ugualmente nominato Milana, ex Margherita e segretario del Pd di Roma. Che in serata ha precisato: “Non sono il futuro vicepresidente regionale, lavorerò solo per la candidatura. Le critiche? Il congresso è finito”. Rita Bernardini, radicale eletta in Senato per il Pd, farà da figura di collegamento tra Bonino e il comitato. La sede sarà in un’ex fabbrica a Trastevere, poco distante dalla casa della vicepresidente del Senato. Ora va definita l’alleanza di centrosinistra. Bonino ha già incontrato tutti i partiti. Deve chiudere l’intesa con l’Idv, che ha preso tempo ma garantirà il suo appoggio, e la Federazione della Sinistra, con cui la trattativa è più complicata: ma l’accordo resta possibile. Bonino ha sentito anche Linda Lanzillotta, deputato e possibile candidata alla regione per l’Api di Rutelli. Nei giorni scorsi la leader radicale è stata chiara: “Inutile lanciare appelli a Francesco, lui è un politico scafato”. Rutelli sembra però orientato a correre da solo. Intanto si lavora sull’agenda e sui temi della campagna. Pd e Radicali si aspettano nuovi attacchi sul tema dell’aborto e del rapporto dei cattolici: “Ma non ci fanno paura, e poi potrebbero essere controproducenti”. Questa mattina altri impegni romani per Bonino, nel mercato di Porta Portese e nel circolo Pd in via dei Giubbonari. Nel pomeriggio, giro dei Castelli Romani. La prossima settimana, la leader radicale sarà fuori Roma. Dopo due dibattiti a Torino (uno assieme a Mercedes Bresso), andrà a Berlino e poi a Davos, per “impegni internazionali improrogabili”.

il Fatto 24.1.10
Bonino, una Fatwa interessata
In questi giorni di attacchi frontali, si intuisce meglio il senso dell’ostracismo nei confronti di Emma, un’idiosincrasia dettata da ragioni economiche e industriali
di Furio Colombo

Ammettiamolo, tanti di noi si sono onestamente domandati – con comprensibile ansia – se sia mai possibile
passare fuori dalla Chiesa per entrare – con il voto popolare – nella stanza di governatore del Lazio, il Lazio di tante cattedrali, di tanti conventi, di tanti pellegrinaggi, di San Pietro, del Vaticano, di Castel Gandolfo, dell’Opus Dei, di quattro università pontificie. Ci siamo detti: ma questa gente di fede e di secolari radici nella religione del Papa potrà, vorrà mai votare Bonino, laica, indipendente, senza connessioni con il sistema ecclesiastico-organizzativo, libera da impegni che non siano di questa terra? Domande infondate, campate in aria. Al fitto brusio di perplessità ha risposto con tempestività e con apprezzabile lealtà il quotidiano Libero. Ha pubblicato un articolo-rivelazione-denuncia sul rapporto tra Emma Bonino e l’aborto.
Qui, però, si può usare la frase tipica di tante commedie: questo scoop non è quello che sembra. Non riguarda la santità della vita, ma la sanità come industria. Riguarda le cliniche e il controllo dei bilanci, la nomina dei primari, l’origine delle forniture mediche, dei servizi. Un affare immenso, altro che i bambini mai nati. Come molti lettori immaginano non c’è stato bisogno di una talpa per arrivare a questa constatazione.
È lo stesso quotidiano Libero a chiarire il senso di questa storia (e di queste elezioni) con quel tipo di aperta ma anche apprezzabile sfacciataggine (basta con i dietrismi!) che è ormai tipica di quest’ultima epoca berlusconiana. Libero, infatti, è il giornale di Angelucci, il re delle cliniche e della sanità nel Lazio; non solo nel Lazio, come ci dicono le cronache giudiziarie. Ma il centro strategico è qui. Si può tollerare l’incursione Bonino?
No, la Bonino non va bene. Non perché estranea alla fede, non perché si è occupata di aborto, ma perché non sembra incline a lasciarsi distrarre dai conti e dalla missione della sanità, che in Italia è pubblica. Lo sa anche Libero. Quando scatena la campagna sul legame diabolico tra Bonino e l’aborto, non sta parlando di morale cristiana. Sta dicendo: “Signori e monsignori, attenti al volume di affari”.
Hanno capito in fretta. Il pericolo non è la Bonino che viene avanti con la tenebrosa sinistra e forse il diavolo. Il pericolo è la Bonino stessa, che ha la sgradevole abitudine di leggere bilanci e contratti ad alta voce. E – con il suo ostinato laicismo – non solo ferisce le migliori tradizioni di fede dei credenti, ma scoperchia i benevoli spostamenti dall’interesse pubblico a quello privato (religioso e laico). E coltiva l’arcaica mania che i soldi pubblici debbano servire a fini pubblici, perciò ai cittadini, se possibile senza sprechi. Un pericolo non da poco. Ed ecco perché sto parlando del Lazio anche ai lettori che vivono lontani da questa regione. L’offensiva di Libero contro Bonino rivela ben altro che una inchiesta sull’impegno della Bonino in favore della libertà di scelta delle donne. Un impegno che è il suo marchio di fabbrica da sempre. Vediamo.
Primo. Il federalismo caro alla Lega, è una replica dello statalismo centrale nella sua versione peggiore: tutti a tavola. Ovvero tutti coloro che – non sempre per buone ragioni – hanno accesso alla tavola. Chi può decide. Chi ha i voti si spartisce i privilegi e le nomine.
Secondo. Come in un cannocchiale rovesciato i cittadini di colpo si trovano più lontani e non più vicini ai centri di decisione dei governi regionali. L’Italia continua a vivere nella percezione – fortemente sostenuta dai programmi politici della tv – che tutto ciò che conta si svolga a Roma. A volte solo l’arrivo dei giudici accende i riflettori su gravi realtà e illegalità locali. Ma anche questi fatti vengono commentati e capiti in relazione al danno o vantaggio dei partiti nazionali di maggioranza o opposizione in Parlamento e nel paese, non sul luogo. E senza mai calcolare il danno per i cittadini, sudditi di ogni singolo decisione locale.
Terzo. Iniziative di governo regionale arbitrarie e inspiegate – come l’improvvisa chiusura e smantellamento di un grande, ben funzionante ospedale romano (l’unico del vasto centro storico, il San Giacomo) poteva avvenire solo a opera di un’istituzione che può prendere decisioni gravissime senza rendere conto, senza dibattito e senza notizie. Il vero punto critico del centrosinistra nel Lazio non è il dramma triste e personale di Marrazzo. E’ la distruzione senza ragioni conosciute di un grande centro sanitario in zona strategica. Non c’è stata risposta alle domande pressanti di medici e cittadini. Ma la ragione non può che essere nell’ombra che copre i passaggi in cui il “pubblico” devolve le sue risorse al “privato”. Sono cose che, nel federalismo mutilato nel quale viviamo non si devono discutere con nessuno. Sotto gli occhi di tutti rimane il valore di un immenso immobile vuoto.
Un altro grande centro di eccellenza medica di Roma, il Santa Lucia, stava per essere liquidato, benché indispensabile.
Una vera rivolta popolare lo ha impedito. Ma ci riporta alle domande fondamentali: perché? E come mai i governi regionali possono – più di ogni altra burocrazia politica – operare nel buio, intendersi (o prendere ordini) da chi vogliono e rifiutare spiegazioni?
Quarto. L’allarme Bonino si spiega così: come tollerare la mania, mostrata per decenni da questa radicale di rendere conto in pubblico (la famosa accountability americana)? E se lo fa davvero?
Non è la fede o mancanza di fede. Non è il dramma dell’aborto a preoccupare. E’ la fine del silenzio. Negli scambi discreti richiesti dal privato, o imposti, se necessario, con tempestive, umilianti, vendette.
Naturalmente questo discorso vale per molte altre situazioni regionali in Italia. Ma qui stiamo parlando del Lazio.
Credo che sia chiaro a tutti che il violento attacco contro Emma Bonino non è di natura teologica.

Repubblica Roma 24.1.10
Regionali, Bonino lancia la sfida
Nascono gli "Emma club"
Ma nel Pd è scontro sulla nomina di Milana coordinatore
di Chiara Righetti

"Diamo aria alla campagna elettorale". Pd diviso su Milana coordinatore

Primo bagno di folla per Emma Bonino che ieri, con Nicola Zingaretti, ha fatto visita ai mercati rionali di Casal de´ Pazzi e villa Gordiani. Oggi la candidata del centrosinistra, che ha lanciato gli "Emma club per Bonino presidente", sarà al circolo Pd di via dei Giubbonari. Polemiche intanto sui saluti romani che hanno aperto la convention per Renata Polverini della Destra di Storace. Francesco Carducci, segretario dell´Udc romana: «Non abbiamo siglato nessun accordo col centrodestra, solo un´intesa con Renata Polverini sui temi di governo».

«C´avete portato la magica Bonino». «Emma, ce l´hai ‘n par de piotte?». Il primo tour elettorale della candidata del centrosinistra ha un sapore informale, come piace a lei: «Bisogna dare aria a questa campagna, galvanizzare chi non fa politica, magari con dei "club per Emma presidente". Ognuno sia protagonista, la tecnologia lo consente». Al mercato di Casal de´ Pazzi c´è folla, un megafono che passa di mano in mano, Zingaretti e Mazzoli che distribuiscono volantini. Arrivata in taxi, la Bonino sorride, stringe mani, si presenta con semplicità: «Ciao, io sono Emma». La gente fa la fila per salutare: «A me non me piacciono destra né sinistra, ma lei è una brava persona». Lei ascolta senza scomporsi, anche il macellaio che grida: «C´ha le cosiddette, pure se è donna». C´è chi le racconta del figlio disabile, chi confida: «Me la ricordo ai tempi del divorzio, ero con lei a un corteo». Tra un banco e l´altro Bonino trova il tempo per un comizio improvvisato: «Il programma sarà pronto a breve, su 3-4 nodi: sanità, infrastrutture, rifiuti». Ciò che preme ai cittadini «sono i temi sociali, il lavoro. Temi cui una buona amministrazione può dare risposte, con un´attenzione ai più deboli».
Oggi Emma sarà a Porta Portese, poi al circolo Pd di via dei Giubbonari. Prenderanno il via domani i lavori nella sede del comitato elettorale, a Trastevere. Ma intanto nel Pd non si placa la guerra sul coordinatore della campagna elettorale. Ieri pomeriggio, su indicazione del segretario Mazzoli, i radicali hanno ufficializzato la nomina di Riccardo Milana, con Rita Bernardini in un ruolo di collegamento. Ma la scelta dell´asse bersaniani-popolari di forzare la mano, senza una riunione (Mazzoli nel pomeriggio era a Viterbo), sul nome del coordinatore romano suscita una ridda di proteste. Ad aprirle il franceschiniano Morassut, che parla di nomina «sbagliata, espressione di un equilibrio attento solo ai posti». E di un partito «senza una guida» in cui il problema «è diventato costruire le condizioni per una buonuscita del segretario di Roma». Poco dopo anche l´area Marino in una nota esprime «contrarietà» per una «forzatura inspiegabile». E se il capogruppo in Campidoglio Marroni augura a Milana buon lavoro, viene subito smentito da un nutrito gruppo di consiglieri (Masini, Valeriani, Nanni, Panecaldo, Stampete): «Marroni sbaglia parlando a nome di tutti». In campo anche l´assessore regionale Mario Di Carlo, che con Foschi e D´Amato chiede che sia convocata d´urgenza la direzione del partito per fare chiarezza.

Repubblica Roma 24.1.10
Il presidente della Provincia accompagna la candidata del centrosinistra nel primo giorno del tour elettorale: è la persona giusta per un progetto trasparente
Zingaretti: "Con lei il Lazio può spiccare il volo"
di Anna Rita Cillis

In macchina dal mercato rionale di Casal de´ Pazzi, sulla Tiburtina, a quello di viale Venezia Giulia, a villa Gordiani, sulla Prenestina con lui alla guida della sua monovolume e lei seduta affianco. Emma Bonino, la candidata Pd alle elezioni per la presidenza della Regione, e il presidente della Provincia, insieme per la prima giornata tra la folla della vice presidente del Senato. Una «scelta» quella di candidare Bonino che il presidente della Provincia non solo condivide ma appoggia pienamente: «È la persona giusta - dice - è una seria amministratrice, quello di cui il Lazio ha bisogno anche per proseguire il lavoro avviato in questi anni. Una donna capace di dare risalto a valori di carattere generale. In questo momento la Regione ha bisogno di lei perché sono convinto che è in grado di garantire un progetto di governo trasparente. Bonino rappresenta un salto di qualità per la politica, locale e non».
Un sabato mattina tra la gente a stringere mani, a raccontare come questa regione potrebbe trarre vantaggio da una presidente come Bonino, ad ascoltare cosa pensano i romani di cosa hanno bisogno cosa vorrebbero dal governo regionale. E nel "giorno di Emma" lui è lì accanto convinto che tutti debbano puntare alla sua elezione «perché si sta correndo il serio rischio di ritornare a una cultura di governo che soffochi di nuovo il Lazio come è successo alcuni anni fa».
E va oltre il credo politico il presidente dalle Provincia quando afferma con totale convinzione che «la campagna elettorale di Emma Bonino non coinvolgerà solo chi guida la coalizione del centrosinistra». Per Zingaretti, infatti, lei è l´unica, in questo momento con l´attitudine a "tirar dentro" cittadini con credo e diversi e orientamenti politici diversi. Lei, dunque, la figura del futuro.
Un futuro vincente non per un partito ma per le persone «dove dar spazio alla sostanza, al lavoro svolto, alla trasparenza del proprio operato»: un nodo centrale, quest´ultimo, su cui Zingaretti punta molto. Secondo il presidente della Provincia di Roma, infine «più Emma Bonino si fa conoscere e più cresce l´entusiasmo. Il mio augurio è che tutti possano dare il proprio contributo per farla vincere, che nascano comitati, club che appoggino la sua candidatura». Con lei, per Zingaretti «il Lazio può spiccare il volo».

l’Unità 24.1.10
Una pandemia psichiatrica
risponde Luigi Cancrini

Negli Stati Uniti in soli dieci anni il numero di ragazzi affetti da disturbo bipolare si è moltiplicato di 40 volte. Le vittime sono soprattutto i bambini tra i 2 e i 5 anni e nella metà dei casi viene prescritto un antipsicotico come Zyprexa, Seroquel o Risperdal: che di bambini ne hanno già uccisi 45.
Davis Fiore

RISPOSTA Molti sono gli psichiatri oggi che diagnosticano il disturbo bipolare a persone che incautamente riferiscono di avere dei giorni buoni e dei giorni meno buoni. Generosamente il disturbo bipolare viene ipotizzato del resto anche alle persone che stanno male e piangono perché hanno perso un gatto o un nonno, un padre o un figlio, un lavoro o un amore ed a cui sempre più spesso si prescrivono gli antidepressivi (bisognerebbe altrimenti parlare con loro), gli stabilizzatori dell’umore (potrebbero ricadere) e un po’ di antipsicotici (per evitare che diventino troppo allegri dopo dimenticando). Epigoni moderni dei cacciatori di streghe al tempo dell’Inquisizione, vanno per il mondo di oggi gli psichiatri “biologici”, dunque, cercando quelli che nel loro delirio sono “bipolari”. Sapendo che per trovarli è sufficiente non collegare tristezza e allegria ai fatti della vita e sapendo che chi ne trova di più riceve più regali dall’industria farmaceutica, va a più congressi e fa più carriera. Evitando, per sé, la fatica e il dolore del confronto con il dolore dell’altro. Di cui nessuno ha insegnato loro a non avere paura.

Repubblica 24.1.10
Il Pd, un partito senza fissa dimora
di Ilvo Diamanti

Il clima d´opinione è grigio. Economia e lavoro. Politica. Anche la fiducia nel premier e nel governo, passata la benefica onda emotiva prodotta dall´aggressione a Milano, un mese fa, si è ripiegata.
Senza, peraltro, che l´opposizione ne abbia tratto vantaggio. Il Partito Democratico, in particolare. Nelle stime elettorali naviga intorno al 30%. Un po´ sotto, per la verità. È sceso, rispetto a qualche mese fa. L´elezione di Bersani l´aveva rafforzato. Ragionevole e competente, guardato con simpatia anche dagli elettori di centrodestra. Poi, la sospensione delle ostilità interne: non c´erano più abituati gli elettori del Pd. Così la nave del Pd aveva ripreso il suo viaggio.
Oggi, all´avvio della campagna che conduce alle elezioni regionali di fine marzo, sembra essersi incagliata di nuovo. Senza una rotta. Senza una bussola. Le stesse primarie per scegliere i candidati stanno frenando il Pd. Ciò è significativo, visto che le primarie sono, al tempo stesso, «mito e rito fondativo» (la formula è di Arturo Parisi) del Partito Unitario di Centrosinistra. L´Ulivo di Prodi, dapprima, e, quindi, il Partito Democratico di Veltroni. Diversi modelli di un comune progetto politico e istituzionale: maggioritario e bipolare. La risposta di centrosinistra al modello imposto da Berlusconi.
Oggi le primarie sembrano, invece, un´arena dove regolare i conflitti interni al partito e alla coalizione. Perlopiù, un ostacolo di fronte ai disegni del gruppo dirigente del partito. D´altronde, è difficile ricorrere alle primarie se si privilegia l´alleanza con l´Udc. Che ha fatto del proporzionale una ragione di vita. E che, comunque, non avrebbe una base elettorale adeguata a imporre i propri candidati in una consultazione popolare. Più in generale, è arduo cogliere una strategia coerente nelle scelte del Pd, in questa fase. Quasi dovunque il partito appare diviso. In contrasto al proprio interno e con i dirigenti centrali. Spesso incapace di decidere. Nel Lazio si è piegato - senza discussioni - all´autocandidatura della Bonino. Non proprio in accordo con l´intenzione di accostarsi alle componenti cattoliche moderate e all´Udc. In Puglia, invece, oggi le primarie celebrano lo scontro - più che il confronto - tra Vendola e Boccia (trainato da D´Alema). Divisi su molti temi. Non ultimo l´intesa con l´Udc. Anche a Venezia la scelta del candidato sindaco avviene in un clima acceso. Da vicende personali e dalla questione del rapporto con i moderati. Insomma, le primarie, invece di mobilitare e unificare gli elettori del Pd e del centrosinistra intorno alla ricerca di un candidato comune, si stanno trasformando in una resa dei conti.
Il Pd nazionale non sembra, peraltro, capace di regolare le scelte assunte in ambito regionale. Semmai, le complica ulteriormente. Somma le proprie divisioni a quelle locali. Rischia, così, di affermarsi un "modello balcanizzato", come l´ha definito Edmondo Berselli. Ciò avviene perché il Pd resta sospeso in una zona d´ombra. A metà fra la tentazione - implicita e inconfessa - di rifare il "partito di massa" fondato sulle appartenenze e sull´apparato. E l´imperativo - esplicito - di costruire il "partito dei cittadini", maggioritario e bipolare. Il percorso congressuale ha accentuato questa incertezza. Dapprima, la lunga sequenza dei congressi a livello territoriale ha mimato il "partito di iscritti". Le primarie, poi, hanno evocato il modello americano, che coinvolge elettori e simpatizzanti. Bersani è stato eletto da entrambi i modelli di partito. Avrebbe potuto, sfruttando la legittimazione conquistata, imprimere una svolta chiara al Pd. Indicare un progetto, definire un programma, con obiettivi chiari. Ai "suoi" elettori, anzitutto. Fin qui non l´ha fatto. Anche se continua a riscuotere ampia fiducia personale, mentre il Pd perde consensi. Una contraddizione significativa. Riflesso dell´incerta identità del Pd, ma anche di una leadership personale ancora incompiuta. Bersani, infatti, è simpatico a molti, non solo a sinistra, anche perché le sue parole non fanno male. Non segnano confini netti. Non marcano appartenenze né differenze chiare. Nello stesso Pd, dove emergono posizioni diverse e talora contraddittorie, ad esempio: sui temi della giustizia e dell´immunità. E ciò lascia trapelare il dubbio che le decisioni importanti vengano prese altrove, da altri. I soliti noti. Magari è una scelta meditata. Ha deciso di non decidere, di lasciare in sospeso le scelte strategiche, in vista di tempi migliori. Per non tradurre le divisioni interne in fratture. Ma allora meglio dirlo apertamente, per non passare da debole. In-deciso.
Insomma, il Pd oggi è un partito in grado di aggregare il 30% dei voti. Ma non dà speranza. Gli riesce difficile allargare i propri consensi. (E perfino tenere quelli che ha). Da solo ma anche attraverso alleanze. Perché non dice chi è, cosa intende fare e insieme a chi. È un ibrido. Forse: un equivoco. Un partito di massa senza apparato, con una debole presenza nella società e un ceto politico resistente. Al centro e in periferia. Un partito americano provincialista. Senza territorio ma condizionato dalle oligarchie locali.
Un partito americano all´italiana.
Parla un linguaggio difficile da capire. Anche perché non ha un vocabolario e neppure un sillabario. Non sa gridare uno slogan che risuoni forte nell´aria. Non ha una bandiera riconoscibile, dai sostenitori e dagli avversari. Le parole che usa hanno perso il significato di un tempo. Come il "riformismo". Oggi che le riforme le vogliono tutti. A partire dal premier e dal centrodestra, che pensano alla giustizia, al "legittimo impedimento" e al presidenzialismo. Il Pd: quali riforme vuole? E quali "non" vuole? Detti la sua agenda. Dica due o tre cose "memorabili". Che restino nella memoria.
Le primarie che si svolgono a partire da oggi e le elezioni di marzo, per il Pd, sono un´occasione importante. Importantissima. Da non perdere. Per non perdersi definitivamente. Ma chi lo guida deve tracciare un orizzonte. Che vada oltre i prossimi tre mesi. Per non rischiare che il Pd venga percepito come un partito provvisorio. Soprattutto dai suoi elettori.

Repubblica 24.1.10
E le torri crollano dalla vergogna
In altri tempi sarebbe già partita la richiesta di dimissioni, ma i dirigenti non hanno il controllo del partito
Bologna, la crisi sotto le Due Torri e sfuma la moralità emiliana del Pci
di Edmondo Berselli

Si sapeva della propensione irrefrenabile per l´altro sesso dell´economista
Tra i cittadini c´è un senso di scoraggiamento, come di qualcosa di irrimediabile

Prima di analizzare la contorta vicenda di Flavio Delbono sarà meglio capire chi è e che cos´è il sindaco di Bologna. Subito dopo la Liberazione, Giuseppe Dozza si toglieva il cappello di fronte a tutti i concittadini che incontrava.
Era il sindaco «di tutti» a cui si ispirò Giorgio Guazzaloca lanciando la propria candidatura «a 360 gradi», seppure di destra tradizionalista. Dopo di lui, rimangono nella memoria i sindaci «storici», come Guido Fanti e Renato Zangheri, sindaci eterni, immutabili perfino nella fisionomia, a cui non si può ricondurre nessuna caratteristica che non sia il comunismo. Era il comunismo emiliano. Un pragmatismo senza pari nel rapporto con l´economia e un´ortodossia studiatissima e prudentissima sul piano ideologico. Il tutto mediato da facce di legno che rendevano immutabili volti e corpi, e rendevano perfettamente credibili quei volti immobili come depositi di moralità socialista, credibili per sempre e per tutti. Così quando arrivò Sergio Cofferati, fu fin troppo facile scherzare sul Cinese («è come comprare i tortellini in Svezia» disse Luca Cordero di Montezemolo»), ma l´aspetto principale fu che Cofferati fece una campagna a tappeto, dalle polisportive ai partigiani e alle associazioni di donne, accompagnato dalla moglie, rapidamente liquidata per stanchezza matrimoniale dopo la facile vittoria elettorale.
E poi, evviva. Si era mai visto un sindaco con una compagna, Raffaella Rocca, di venticinque anni più giovane? In una città non morale, figurarsi, ma certamente moralista? Bastava attendere il successivo turno elettorale, con tanto di primarie, per essere soddisfatti: ecco a voi Flavio Delbono, giovane, prodiano, di sinistra ma non comunista, noto a tutte le istituzioni pubbliche che ha frequentato per la sua propensione irrefrenabile per l´altro sesso.
Tanto che quando si comincia a parlare del suo passaggio dalla vicepresidenza della Regione alla poltrona di Palazzo D´Accursio, qualcuno storce il naso con l´ambiente di Romano Prodi: «Non è che gli piacciono troppo le donne?». Ma dai, che cosa vuoi che sia, rispondono dal Pd, dove non ci sono candidati alternativi. Inoltre lo qualificano come cattolico, viene dalla Margherita, sembra avere tutti i requisiti in regola per la moralità prodiana. Per la verità, Delbono convive con una signora bene, Cinzia Cracchi, elegante sul genere Prada, occhiali sempre vistosi, pantaloni alla grande. Ma per giungere a questo legame informale, Delbono ha dovuto lasciare la prima e la seconda moglie (quest´ultima mentre era incinta, dice il gossip bolognese). E poi, mentre era in Regione, darsi a una vita goliardica, fatta di assunzioni clientelari (diciamo così) e di viaggi più o meno di lavoro, in Messico, a Santo Domingo. A cui si aggiunge una incomprensibile storia di bancomat, di auto blu, e piccole spese sulla carta di credito della Regione, che Delbono ieri ha cercato di spiegare al procuratore Morena Piazzi in un lungo colloquio (mentre Delbono si dice in grado di spiegare tutto, il procuratore continua a contestargli il reato di truffa aggravata).
In un altro momento, e in un´altra situazione politica, a Delbono avrebbero già chiesto (e da lui ottenuto) le dimissioni. Figurarsi: Bologna, ovvero la capitale della questione morale. La città dove Pertini tenne stretta la mano a Zangheri dopo la strage del 2 agosto 1980. Ma non solo: Bologna come simbolo assoluto della moralità comunista e del suo modello alternativo rispetto al malgoverno romano. Oggi questo simbolo cade mediocremente e forse tragicamente per alcune storielle prive di peso ma drammaticamente importanti perché coinvolgono la psicologia dei cittadini e la loro identità. Perché sono le due Torri a crollare, il profilo della città, il senso di una diversità su cui si è formata l´immagine di Bologna.
A parlare con i cittadini di Bologna si avverte un senso di scoraggiamento, come se fosse avvenuto qualcosa di irrimediabile, ma anche di prevedibile. Stiamo tornando nella normalità, sembrano dire i mugugni della gente di fronte alle domande sul caso Delbono. Anzi, ai tentativi di domanda. Gianfranco Pasquino, politologo, che si candidò alle primarie facendo perdere a Delbono quel due per cento virgola qualcosa che impedì al primo competitore e vincitore designato Flavio Delbono di vincere al primo turno, scrive in questi giorni che chi ha responsabilità pubbliche deve essere il più trasparente possibile, portatore di etica. Non è neppure una vendetta. E semplicemente la dimostrazione che il Pd, erede del Pci, non è mai stato in grado di autogestirsi.
Il vecchio Pci era un blocco di potere che non permetteva a nessuno di trovare strade diverse o alternative. Nel Pd invece ci sono numerosi nuclei che tentano di gestire il potere a loro volta. Sarà un vantaggio perché ciò significa la fine dello stalinismo, ma è uno svantaggio perché questo rappresenta la perdita di controllo dei dirigenti sul partito. Segretari di sezione, di federazione o di qualsiasi cosa imperversano sui quotidiani, senza che il loro ruolo sia mai stato chiarito. Basta leggere le cronache locali per osservare il calvario per tutto ciò che rappresenta la scelta delle candidature alle regionali. Ma soprattutto per avere la sensazione di una netta distanza fra la città e la sua nuova classe politica. Nei salotti, intanto, la borghesia bolognese ridacchia sulle ultime tragedie della sinistra. Un ceto che aveva sempre scelto la sinistra per opportunismo e per abitudine si trova a sghignazzare grazie ai regali di una classe dirigente malcresciuta.
C´era l´abitudine, in tempi elettorali, di ritrovarsi nelle migliori case di Bologna, in compagnia di Andreatta, Prodi e un po´ di supermanager (Gnudi, Clò). Era il luogo in cui si formavano le opinioni; si discutevano i problemi del paese, si generavano amicizie. Adesso anche quella Bologna tace. Si è indebolita come il Partito democratico. Dovrà trovare un nuovo referente politico. Ma per Bologna, la grassa eccetera, dov´è il partito nuovo capace di sostituire le parole, e soprattutto i silenzi e l´etica, di quel partito che veniva da lontano?

il Fatto 24.1.10
Bologna-Gate, un po’ di decoro
di Silvia Truzzi

Nell’età di Internet, può succedere che qualche volta le notizie le dia ancora la radio. E così è stato per l’alba del sex gate bolognese, dove il ragù è a base di amori svaniti, potere, soldi e rancore: ricetta vecchia, solito – cattivo – retrogusto. Tutto iniziò quando Alfredo Cazzola (con la consueta classe e i modi da Lord) ai microfoni di Città del Capo, emittente di resistenza locale, durante un faccia a faccia prima del ballottaggio per le comunali disse: “Le porto i saluti della signora Cinzia, la sua ex compagna che ha molte cose da dire sulla sua moralità”. La signora Cinzia fu convocata in procura, dove si presentò abbigliata come se dovesse andare a un matrimonio, fasciata in un vestito di seta color glicine, décolleté in vista, tacchi alti e tutto quanto. Flash, fotografi e dichiarazioni. Delbono fu eletto, la procura chiese l’archiviazione e non ci fece una gran bella figura. Finché il gip si fece venire dei dubbi e decise che era meglio darci una guardatina.
Difficile sapere come andrà a finire la vicenda giudiziaria, come prefigurare scenari politici. Ma si saprà molto poco. Quel che invece già si può dire è che un po’ di riservatezza non avrebbe guastato affatto. Il che naturalmente non significa che la ex aspirante first lady si doveva tenere per sé le accuse e i sospetti, anche se gli scrupoli morali sembrerebbero essere arrivati dopo la fine della storia d’amore. Il che più che con l’etica c’entra con la vendetta. Tutto è lecito in amore e in guerra è una stupidaggine. Ma è legittimo sentirsi defraudati, quando si viene lasciati? Sì e no: i sentimenti possono cambiare nel giro di cinque minuti, contro questo non si può combattere. Si accetta, con l’amore, il rischio della fine e del dolore. Però è umana la rivolta contro l’abbandono, il tentativo di lottare, forse anche di reagire scompostamente, come Cinzia: “Se Flavio dovrà dimettersi, non sarà la fine del mondo. Uno come lui, cadrà sempre in piedi. Tutti sono solidali con lui, tutti lo proteggono. Se si dimette, vuol dire che pagherà le conseguenze delle sue azioni”. La frase può essere letta in due modi: se ha commesso reati, dovrà risponderne, come cittadino e soprattutto come amministratore. Oppure: mi hai fatto male, ora tocca a te. E infatti la signora sembra aver fatto il giro delle sette chiese (mica per niente sono a Bologna) per svergognare l’ex innamorato. Consiglieri comunali, amici, avversari politici. Finché ha incontrato Cazzola, e il resto è storia. Una storia che ha portato ieri Mario Giordano a scrivere su Libero, sotto un titolo che recitava “Il bordello della sinistra”: Flavio Delbono, che si presentava come un mite professore di Economia, un Prodi minore, in realtà è un casanova con il tortellino impazzito (la metafora culinaria impazza). Chi poteva, avrebbe potuto risparmiarci questo spettacolo. È una brutta pagina della storia di Bologna – che sarà anche “una strana signora, volgare e matrona” – però a questo non ci era abituata. Si possono fare le cose senza urlare, con il sentimento di quello che può accadere a un’intera comunità di persone e non solo a sé. Si può fare la beneficenza anonima e la “maleficenza” in silenzio. I giudici avrebbero ascoltato la signora, anche senza tutto questo circo. Che purtroppo non restituirà alla signora né il suo amore, né l’orgoglio ferito.

Repubblica 24.1.10
Ritorno a Fossoli stazione per l'inferno
di Tahar Ben Jelloun

Carpi, una delle più graziose cittadine dell´Italia settentrionale, cinquantotto chilometri da Bologna, non va confusa con Capri. Un gruppo di turisti americani vi si è ritrovato qualche mese fa, e si è chiesto per quale motivo il mare non si vedesse. Carpi ha sessantamila abitanti, più di diecimila dei quali immigrati in buona parte da Pakistan, Marocco e Cina e al lavoro nei campi e nell´industria dell´abbigliamento. È una cittadina tranquilla che va fiera della propria piazza, la più grande in Europa: si chiama piazza dei Martiri in memoria di sedici partigiani, i cui cadaveri furono esposti per tre giorni dai soldati fascisti nell´agosto 1944. Carpi, da sempre di sinistra, conserva una buona qualità della vita. Ma questa città che a fine Ottocento contava oltre cinquemila ebrei oggi se ne ritrova soltanto sette, un numero insufficiente per aprire una sinagoga. Gli ebrei di Carpi erano andati incontro a persecuzioni tra il 1290 e il 1294, ma soltanto nel 1719 il ghetto fu chiuso e ricevettero l´autorizzazione a costruirsi un luogo di culto.
Ciò non rese loro in ogni caso la vita facile. Se ne andarono: nel 1898 a Carpi erano rimasti non più di trenta ebrei, e ciò portò alla chiusura della sinagoga nel 1922. Quando nel 1938 furono promulgate le leggi razziali - sulla falsariga delle leggi tedesche del 1935 - gli ebrei italiani furono presi apertamente di mira. Formavano l´élite intellettuale, appartenevamo alla borghesia o a una classe media molto agiata. Per loro quelle leggi furono veramente inimmaginabili. Non pensavano affatto che un giorno sarebbero stati discriminati nel loro stesso Paese, scacciati dalle scuole, esclusi dai mezzi pubblici, umiliati pubblicamente dai fascisti. Attesero il peggio e il peggio arrivò. Il premio Nobel per la medicina del 1986 Rita Levi Montalcini, oggi centenaria, nel 1938 era scappata in Belgio. Il governo di Mussolini aprì alcuni campi di concentramento per ammassarvi l´opposizione politica da una parte e gli ebrei dall´altra.
Ciò accadde proprio nei dintorni di Carpi, per la precisione a Fossoli, in aperta campagna. Agli ebrei furono destinate otto baracche, nelle quali furono rinchiuse intere famiglie. In ogni camerata c´erano tra le centocinquanta e le centosessanta persone. Le condizioni di detenzione erano «più o meno corrette» - raccontano oggi alcuni dei sopravvissuti -, soprattutto se paragonate a quelle che avrebbero vissuto a Auschwitz o a Bergen-Belsen, dove il novantadue per cento dei prigionieri fu sterminato dai nazisti. Gli oppositori politici furono spediti a Mauthausen, in Austria.
Primo Levi fu arrestato per motivi politici il 13 dicembre 1943 in Val d´Aosta, ma nel suo interrogatorio confessò di essere anche ebreo. Fu spedito immediatamente nel campo di Fossoli dove rimase un mese nelle baracche riservate agli ebrei, per la precisione nella sesta. Poi, il 22 febbraio 1944, fu deportato ad Auschwitz. Nel suo libro Se questo è un uomo parla poco di Fossoli: «Ci caricarono sui torpedoni, e ci portarono alla stazione di Carpi. Qui ci attendeva il treno e la scorta per il viaggio. Qui ricevemmo i primi colpi e la cosa fu così nuova e insensata che non provammo dolore, nel corpo né nell´anima. Soltanto uno stupore profondo: come si può percuotere un uomo senza collera?».
La discrezione e il coraggio di Levi furono notati dai suoi compatrioti, come testimoniamo alcuni sopravvissuti. Egli aveva assistito all´esecuzione di donne incinte e di anziani, perché in attesa della morte in ogni caso certa non erano risultati adatti a lavorare nei campi. Quell´uomo ferito così profondamente si convinse che le parole non potessero bastare a reggere il peso di una simile tragedia.
Il 12 luglio 1944 i nazisti uccisero nel campo di Fossoli settanta antifascisti, i cui nomi sono scritti sulle pareti del museo di Carpi. Il campo di Fossoli è diventato oggi un luogo della memoria. È visitato dalle scolaresche (fino a quarantamila studenti ogni anno), da stranieri, da storici, dai familiari di chi vi perse la vita. Una mostra permanente ricorda che cosa fu quel luogo, cosa fu quell´epoca. È interessante vedere il primo numero della rivista fascista La difesa della razza, datato agosto 1938, un mese prima che entrassero in vigore le leggi razziali. Foto, testimonianze, disegni, modellini, tutto ciò che serve a rendere l´idea di quello che accadde in quegli anni disgraziati è lì esposto.
La sinagoga principale, situata all´angolo tra la piazza dei Martiri e via Giulio Rovighi, è vuota. Funge da ufficio per la Fondazione dell´ex-campo di Fossoli. Più lontano, il museo della memoria è situato di fronte alla più vecchia chiesa di Carpi, Santa Maria del Castello detta la Sagra. Sulle sue pareti sono incisi migliaia di nomi. Vi sono delle voci registrate, dei disegni su pietra, uno dei quali di Picasso, e un muro dipinto da Guttuso in ricordo delle Fosse Ardeatine, l´esecuzione di 335 civili nella rappresaglia per l´attentato del 23 marzo 1944 a Roma nel quale erano stati uccisi trentatré tedeschi.
Le pareti del museo sono interamente ricoperte di brani di lettere scritte dai deportati: «Le porte si aprono… ed ecco i nostri assassini. Sono vestiti di nero. Le loro mani sporche indossano guanti bianchi» (Esther); «Io muoio, ma vivrò» (Alekscin); «Se tu avessi visto, come io ho visto in questa prigione, ciò che fanno patire agli ebrei, rimpiangeresti di non averne salvati in numero maggiore» (Odoardo); «Sono fiero di meritare questa pena» (Pierre); «Che cosa può fare un uomo che si trova in prigione e che è minacciato di morte sicura? Eppure mi temono» (Sawa); «La mia bocca vi porterà sulle labbra mute» (Emile).
E così Carpi mantiene viva la memoria delle vittime del fascismo e del nazismo. I suoi abitanti amano altresì ricordare che è una regione ricca, che non ha mai votato a destra e che coltiva le sue tradizioni culinarie, famose per il parmigiano e l´aceto balsamico. C´è un centro culturale molto attivo, e ogni anno si organizza un grande festival letterario, la Festa del racconto. Alcuni ricordano con umorismo che i genitori dell´attore americano Ernest Borgnine sono di Carpi. Dicono: «Carpi ha regalato al cinema il più celebre interprete di ruoli secondari, spesso cattivo e crudele. Ma Ernesto Bordino (il suo vero nome) è un uomo così affascinante!».
Traduzione di Anna Bissanti

l’Unità 24.1.10
Intervista con l’autrice di «Quando Nina Simone ha smesso di cantare»
«Il dramma femminile è l’assumere su di sé il giudizio maschile»
Darina Al Joundi: “Io, donna araba, mi appartengo”
di Monica Capuani

Quarant’anni e tante vite diverse vissute insieme. Dalla Siria, a Beirut a Parigi passando per un’esperienza di reclusione in manicomio. Fino al successo in Francia. E tutto nasce nella polveriera tragica del Medioriente

Ci sono donne che a quarant’anni hanno già vissuto diecimila vite. Per intensità, dolore, capacità di ribaltare situazioni. Darina Al Joundi, quelle diecimila vite le porta scritte negli occhi fondi e scuri come le foglie dei cedri che nel suo Libano non ci sono più. E nel corpo minuto,
vibrante ed energico, che muove sulla scena come unico e imprescindibile strumento per raccontare una storia, la sua, affidata all’inizio all’urgenza di un monologo teatrale che ha toccato in gennaio anche l’Italia. Al Festival di Avignone del 2007, il piccolo spettacolo ha lasciato tutti senza respiro, approdando con successo a Parigi e inanellando innumerevoli date in tutta la Francia e la Svizzera francofona. In seguito, ha preso la forma con la complicità dello scrittore algerino Mohamed Kacimi di un romanzo autobiografico intitolato, come la pièce, Quando Nina Simone ha smesso di cantare. La scrittura di Darina accende un turbinoso caleidoscopio di episodi forti: la nascita in un paese cruciale nella polveriera del Medio Oriente; un padre siriano, esule, intellettuale, maestro di libertà e di visioni idealistiche; una madre emancipata, coraggiosa, ma potenzialmente nemica. E poi la guerra, la gioventù vissuta pericolosamente, la febbre di una sessualità vitalistica, la recitazione come fuga nell’arte, lo stupro, il tradimento degli amici, l’ospedale psichiatrico. E infine, la rinascita.
Ci incontriamo a Parigi al Café La Palette, a Saint-Germain-des-Près. Un luogo in cui il padre di Darina avrebbe passato ore a conversare dei massimi sistemi con i vicini di tavolo, all’ombra delle piante che lo schermano dal via vai dei passanti frettolosi. Darina Al Joundi racconta di sé come un fiume in piena, consumando avidamente una Gitanes dopo l’altra. Partiamo da suo padre, una figura statuaria ma di grande tenerezza. Un uomo libero, fino alle estreme conseguenze.
«Mio padre aveva cinque fratelli, tutti nella sua famiglia avevano una particolare follia e un amore sfrenato per la libertà. Il piccolo villaggio d’origine di mio padre ai margini del deserto in Siria, Salamiyah, è un luogo apertissimo, che ha dato i natali a una quantità incredibile di poeti. La gente comincia a farsi visita alle undici di sera, beve fiumi di arak e fa festa, recita poesie arabe, ascolta molto jazz. Il centro culturale di Salamiyah ha ospitato intellettuali, filosofi, scrittori da tutto il mondo, e la percentuale di analfabeti all’epoca di mio padre era pari a zero. Forse quell’apertura di spirito dipendeva dalla struttura della società e della famiglia ismaelita, al vertice della quale c’è la donna».
Nel libro lei descrive sua madre come una donna indipendente, una giornalista che rischiava la vita in tempo di guerra per far sì che la sua trasmissione radiofonica andasse in onda. «Sì, durante l’invasione israeliana rischiava la vita tutti i giorni per andare alla radio, dove erano rimasti solo in tre a far funzionare le cose. Non ha mai smesso di lavorare e in più ha dovuto crescere tre figlie da sola. Aveva un marito che era in esilio, in prigione o ricercato, e che alla fine rimase vittima di un grave attentato. Mia madre aveva cominciato a lavorare alla fine degli anni Cinquanta, quando non era affatto consueto nel mondo arabo che una donna si guadagnasse da vivere, tanto meno nell’ambiente della carta stampata. Nel ’62 debuttò alla radio nazionale, era la terza donna che riusciva a entrare in un universo esclusivamente maschile e la prima a condurre una trasmissione in diretta. Non ha mai portato il velo, e neanche sua madre. Era una donna di carattere, che ha saputo difendere le sue scelte».
Alla fine del libro però è una madre che sceglie di far rinchiudere sua figlia in manicomio... «Quando mio padre ci ha lasciate, mia madre si è resa conto di quanto potesse pesare il giudizio della società. Lui non c’era più e lei non poteva più godere della libertà che, in realtà, ci aveva sempre garantito mio padre. La gente diceva che sua figlia era completamente deviata e in quel genere di società in cui vivevamo la colpa di una cosa del genere ricade sulla madre. Amici e parenti non facevano altro che dirle di reagire in maniera forte. Aveva perso l’uomo della sua vita e in quella circostanza ha preso la decisione sbagliata. Nessuno ha mosso un dito, nessuno ha cercato di intercedere per me, cercando di farla ragionare quando perse la testa e mi fece rinchiudere in manicomio».
Non era stata sua madre, ma suo padre a spiegarle tutto sulla sessualità e il piacere, quando era ancora giovanissima. «Forse mio padre voleva vedere se era all’altezza della libertà che aveva predicato tutta la vita. Rispetto alla sessualità di una figlia femmina, un uomo dimostra chi è veramente. Era una sfida con se stesso. A volte era difficile per lui digerire le mie scelte, ma cercava di superare se stesso. È grazie a lui se oggi ho un rapporto sano con la mia sessualità. Il problema delle donne è che assumono su di sé il giudizio degli altri, guardano se stesse con gli stessi occhi sprezzanti della gente. Mio padre non ha mai giudicato la mia vita, e gliene sono davvero grata».
Dopo una serie di rapporti infelici con gli uomini, suo padre le ha perfino consigliato di tentare con le donne... «Tirò fuori una lettera che aveva scritto a tredici anni a un suo compagno di classe. La sua prima poesia, l’aveva dedicata a un ragazzo. Mi spiegò che, nei rapporti, niente è una verità rivelata. La cosa fondamentale, diceva, è seguire il proprio desiderio, cercare la propria felicità. A tutti i costi».
Da giovanissima, lei ha trovato un modo ingegnoso di sbarazzarsi del problema ingombrante della verginità... «È un problema universale, in Oriente come in Occidente. L’uomo che ci toglie la verginità esercita inevitabilmente un potere e un’autorità su di noi. E lo sa. Quando quell’uomo ci incontra, anche dopo venticinque anni, ha sempre quel sorrisetto stampato sulla faccia come a lasciar intendere: “Ti ho creata io”. È orribile. Nella pièce dico che per me la verginità è come la valvola di sicurezza nelle con-
fezioni di caffè sottovuoto. Ci ho pensato io a sbarazzarmene, da sola. Se penso che oggi una quantità di ragazze si sottopongono alla chirurgia per farsi ricucire lì sotto, mi vengono i brividi».
La fine del libro segna l’inizio di una nuova esistenza in Francia... «Volevo scrivere una pièce teatrale e mi sono presa la libertà di mescolare pezzi della mia esistenza come in un frullatore. Il cinema mi aveva insegnato l’importanza dei tagli e il valore del montaggio. Quando sono uscita dal manicomio, sono rimasta tre anni in Libano prima di venire in Francia. Ho cominciato a lavorare in tv dove, grazie a una notorietà che risaliva all’infanzia, potevo guadagnare soldi rapidamente e pagare i miei debiti. Prima di trasferirmi qui, ho voluto riconciliarmi con mia madre, sono riuscita a perdonarla. Abbiamo parlato a lungo, le ho chiesto: “Come hai potuto farmi una cosa del genere?”. Lei continuava a ripetere: “La gente diceva che...”. Ha agito confidando sulla malvagità degli altri. Ci sono state discussioni devastanti, in cui abbiamo tirato fuori tutto quello che avevamo dentro, senza risparmiarci nulla. Ma alla fine ne siamo uscite vive».
Nina Simone, alla quale fa omaggio nel titolo del suo libro, cosa rappresenta per lei? «L’ho scoperta grazie a mio padre, che adorava il jazz. Negli anni ho sviluppato con Nina Simone un rapporto fusionale e appassionato. Mi sembrava che la sua interpretazione si accordasse sempre con il mio stato d’animo. Era come se mi parlasse. Quando andai a trovare mio padre a Cipro, dove si era rifugiato, passavamo notti intere a parlare, spostandoci da un bar all’altro, senza mai chiudere occhio. Lui adorava la notte. Quando tornavamo a casa, gli facevo ascoltare le mie canzoni del momento, e c’era sempre un pezzo di Nina Simone. Poi, una sera, sono stata picchiata selvaggiamente in un bar, e in quel momento c’era Nina Simone. Per tre anni non ho più ascoltato musica. Quella sera, Nina Simone ha smesso di cantare».
Oggi lei ha ricominciato a vivere...
«Sì, e sono molto grata. Nel 2001, durante le riprese di un film in Libano, ho incontrato l’uomo della mia vita che ho sposato quest’anno. È regista, produttore, direttore di post-produzione, metà egiziano e metà norvegese. È lui che ha prodotto la pièce insieme a me. Sono andata a presentare il progetto al regista Karim Boutros-Ghali, che poi ha montato lo spettacolo, e lui mi ha chiesto: “Perché lo vuoi fare?”. Gli ho risposto che se non lo avessi scritto forse sarei morta, e che adesso avevo bisogno di dirlo, di gridarlo».

l’Unità 24.1.10
Dolorosi ricordi di migranti
Un doc di Andrea Segre dà voce e corpo alle storie terribili degli immigrati rimandati in Libia
“Come un uomo sulla terra” di Andrea Segre, Dagmawi Yimer e Riccardo Biadene
di Dario Zonta

Del film Come un uomo sulla terra di Andrea Segre, Dagmawi Yimer e Riccardo Biadene, questo giornale ne ha scritto compiutamente al tempo del suo esordio pubblico al festival di Salinas, dove vinse come miglior documentario. Ora, dopo un percorso festivaliero ricco e numerosi riscontri di critica e pubblico, e dopo aver sollevato una discussione «politica» necessaria sulle conseguenze dell’accordo tra Italia e Libia riguardo i flussi migratori, il film si è trasformato in un libro, che contiene il film stesso, di fatto molto poco visto al di là dei circuiti indipendenti. Infinito edizioni (a cura di Marco Carsetti e Alessandrto Triuli) ha mandato alle stampe un operazione meritoria e ancora una volta necessaria, perché muovendo dal film riprende tutti quei fili che hanno permesso il suo farsi, a partire dalle storie dei migranti, testimoni e protagonisti di un attraversamento epico, doloroso e assurdo.
IL PROGETTO SUL CAMPO
Il libro, con la bella copertina del disegnatore Marco Lovisatti, è diviso in tre parti e approfondisce non solo i temi evocati nel film (soprattutto nel secondo capitolo dedicato alle «Memorie e corpi migranti»), ma anche il metodo e il progetto che accoglie un’operazione di siffatta calibratura. Andrea Segre firma insieme ad altri due autori, Riccardo Biadene (autore di documentari e operatore culturale) e Dagmawi Yimer (migrante etiope, diventato regista per necessità di racconto e riscatto), portandoci ancora una volta un esempio comunitario e allargato di fare documentario. Sociologo di formazione, Segre ha caratterizzalo i suoi lavori (Marghera Canale Nord, A sud di Lampedusa) non solo per il verso di un certo impegno civile, dentro le cose del presente con le sue storture e malignità, ma lo ha fatto attivando una rete di collaborazioni e mettendosi in contatto con aree più grandi, ricevendo impulso, forza e creatività. Il suo percorso lo ha portato sempre ha occuparsi di temi urgenti, senza cadere mai nella dittatura del referente e cedere alle molestie del contenuto sociale e civile. Le storie che ha scelto sono il frutto di indagini, conoscenze, vissuti che vengono prima del film e in occasione di progetti strutturati. Questo di Come un uomo sulla terra si ricollega a un progetto che sostanzia il film. Lo ricorda Triulzi nell’introduzione: «L’idea di iniziare a comporre un Archivio delle memorie migranti basato sulle attività didattiche e di cura della persona presso la Scuola di italiano per rifugiati e richiedenti asilo Asinitas di Viale Ostiense a Roma, è nata dall’incontro tra alcuni studiosi di storia dell’Africa coloniale e post coloniale, con esperienze di terreno in Etiopia ed Eritrea, un gruppo di rifugiati provenienti dai Paesi del Corno, e gli operatori della scuola Asinitas». Intrecci di figure diverse in contesti diversi che si uniscono per dar vita a un Archivio della Memoria, di cui il film è una esemplificazione, di grande impatto emotivo e cinematografico.

sabato 23 gennaio 2010

l’Unità 23.1.10
Oggi Emma Bonino inizia il proprio tour elettorale dai mercati della Capitale.
Con Emma Bonino che questa mattina, più o meno alla stessa ora del summit Polverini-Storace, sarà con Nicola Zingaretti testimonial e insieme al segretario regionale del Pd Mazzoli, tra i banchi del mercato di Casal de Pazzi e poi in quello di via Gordiani. Un inizio dalla periferia romana. Prima tappa della due giorni di mobilitazione del Pd (domani sarà a Porta Portese, Campo de Fiori e nel circolo Giubbonari, dove il coordinatore si è dimesso contro il «metodo» Bonino) con cui di fatto prende avvio il tour elettorale di Emma.
Trovato anche il comitato, sul Lungotevere, non lontano da Santa Cecilia. E, non senza contrasti, si sta decidendo anche il coordinatore: in pole l’attuale segretario romano Riccardo Milana, che dovrebbe essere sostituito pro-tempore da un’altra ex popolare, Serena Visintin. Un modo per rimotivare, diciamo così, anche l’ala cattolica. ❖

l’Unità 23.1.10
La nostra civiltà la loro libertà
I figli degli immigrati
di Marta Meo

La fine dell’incubo del matrimonio combinato per Almas Mahmood è da considerare un successo e un monito perché purtroppo nel nostro Paese casi come questo sono solo la punta di un iceberg di realtà fatte di soprusi e violenze ai danni delle giovani e dei giovani figli di immigrati che, cresciuti nel nostro Paese, chiedono semplicemente di vivere una vita normale come un qualsiasi loro coetaneo.
Oggi sono contenta per Almas, ma scrivo queste righe soprattutto per Saana e per Hina e per le tante e i tanti giovani che purtroppo non ce l’hanno fatta, che hanno subito e continuano a subire. Scrivo queste righe per queste giovani donne e per chi vive in solitudine il peso del passaggio culturale che l’integrazione porta con sé perché credo che in nome delle grandi battaglie di civiltà di cui le nostre tradizioni politiche possono fregiarsi sia importantissimo che oggi il tema della libertà, della scelta, del rispetto dell’individuo, siano questioni che attraverso l’immigrazione tornano ad essere prepotentemente attuali.
Matrimoni combinati, delitti d’onore e segregazioni, sono cose che fortunatamente non appartengono più alla nostra “cultura” ma che tuttavia ci riguardano molto da vicino.
Casi come questi ci riportano prepotentemente ad una questione su cui si gioca un grande e grave interrogativo: siamo in grado di sostenere che, pur nel rispetto delle tradizioni, esistono leggi ed esiste un valore, quello della libertà individuale, per il quale siamo disposti a batterci? Siamo in grado di dire che noi democratici siamo portatori di un’idea di libertà che non si ferma sulla soglia delle tradizioni nostre ed altrui, sulla soglia delle case e delle comunità che vivono nel nostro Paese? Possiamo affermare che questi sono valori che difendiamo senza esitazioni, perché ci siamo liberati dai lacci di una subalternità culturale che per un certo periodo è stata pervasiva nella nostra riflessione politica che ha erroneamente prevalso sui nostri valori, prepolitici, di esseri umani? Siamo in grado, solo per fare un esempio, di non lasciare al silenzio o alla destra il tema delle più di 4000 donne che in Veneto, la mia regione, hanno subito mutilazioni sessuali?
Se deve esistere un luogo della politica italiana dove la crescita sana, serena e libera deve diventare un valore condiviso da tutti, credo che quello non possa che essere il Partito Democratico. Facciamo dunque di queste questioni una battaglia che ci veda uniti di fronte al Paese nell’affermare che la nostra civiltà oggi si misura anche attraverso la libertà che riusciamo a garantire alle giovani e ai giovani nuovi italiani.❖

Repubblica 23.1.10
Tra gli immigrati-fantasma di Rosarno "Nascosti nei ruderi, usciamo col buio"
di Attilio Bolzoni

Dopo la "caccia al nero" di due settimane fa sono rimasti in pochi, qualche decina I padroncini li vanno a prendere all´alba E dopo una giornata di lavoro nei campi li riportano indietro al tramonto
Ghienni, ventenne del Burkina Faso: "Perché non sono fuggito? Non sapevo dove andare". Minacce e insulti per i ragazzi dell´associazione contro il razzismo "Africalabria"

ROSARNO - Sono nascosti nei casolari, fra gli aranceti. Alla fine del viottolo ci sono le case abbandonate di uno dei tanti baroni Cordopatri di Calabria e nel campo davanti c´è Ghienni, uno dei braccati, uno di quei neri che cercavano per sparargli addosso. Siamo tornati dopo la grande caccia all´uomo, quindici giorni dopo siamo tornati fra i fantasmi di Rosarno.
Perché non sei fuggito? «Perché non sapevo dove andare», risponde Ghienni, ragazzo di vent´anni che viene dal Burkina Faso e che è rintanato come un topo fra queste mura cadenti e fradice di pioggia. La contrada si chiama Fabiana di sopra, un paradiso di orti e di alberi che è diventato l´inferno di Ghienni. È la sua prigione. All´alba lo viene a prendere con il buio il suo "padroncino" che lo porta dall´altra parte della Piana a raccogliere arance, al tramonto lo riporta lì. Sempre con il buio. Nessuno li deve vedere. Nessuno deve sapere che il ragazzo nero è ancora a Rosarno.
Dicono che sono centinaia. Ma non è vero. Sono solo voci che si rincorrono in un paese che, sulle voci, ha scatenato l´ignobile tumulto. I neri rimasti qui dopo la cacciata dei duemila africani di sabato 9 gennaio sono pochi: forse trenta, forse quaranta. Tutti segregati in qualche rudere come Ghienni. Tutti spaventati. Tutti al riparo dalle ronde e dai cacciatori di Rosarno.
In un altro casolare sulla strada che va verso Vibo Valentia sono in quattro. Due sono usciti sei giorni fa dall´ospedale di Reggio Calabria, altri due ieri mattina da quello di Gioia Tauro. Uno è Haiwa, il primo dei feriti nei giorni del disonore di Rosarno. «È stato alle tre del pomeriggio, ero vicino alla fabbrica dove dormivamo, mi hanno inseguito e mi hanno sparato con una pistola mirando in mezzo alle gambe», ricorda Haiwa, ragazzino del Togo che domani se ne andrà lontano da questa Calabria che non vuol sentirsi dire che è razzista e che è mafiosa. Con Haiwa ci sono anche Kunate e Musa, uno della Costa d´Avorio e l´altro della Guinea, tutti e due «sparati» venerdì sera vicino alla stazione di Rosarno. Raccontano: «Eravamo terrorizzati, stavamo provando a fuggire dalla folla quando si è avvicinata un´auto e hanno cominciato a tirarci contro». Musa, il più piccolo, ha ancora le gambe martoriate dai pallini. Se ne andranno via anche loro. Via da Rosarno, via per sempre.
Sulla strada per Nicotera c´è uno splendido vivaio dove lavora ancora Sogorobbea, uno del Mali. Da qualche giorno dorme in paese, per una settimana Nello Navarra – il proprietario del vivaio – gli ha sistemato una branda nel suo ufficio. Gli portava da mangiare, a mattina e a sera. Lo ha nascosto come se fosse un latitante. «Un giorno qualcuno mi ha visto con Sogorobbea e mi ha detto: ma tu ti fai vedere in macchina con i neri?». Rosarno Burning, Italia gennaio 2010.
L´ufficio della Western Union è sulla statale 118. Un ghaniano che è tornato in paese per prendere i soldi che gli doveva dare ancora il suo padrone («Ventidue giorni di paga») incontra Mamaduc del Mali, anche lui dimesso ieri l´altro dall´ospedale per una sprangata alla testa. «Uno sbaglio, non l´hanno riconosciuto, Mamaduc lavora per un possidente di rispetto: se l´avessero riconosciuto non gli avrebbero fatto niente perché qui Mamaduc è protetto», bisbigliano in paese. «Mamaduc non ha paura, Mamaduc non parla con i giornalisti», ringhia un giovane abitante di Rosarno, uno di quelli avvelenati contro chi ha raccontato le barricate dei bianchi e la grande caccia agli africani.
Ponte sul fiume Mesima, contrada Passo Nicotera, ore 11 del mattino. I vigili urbani di Rosarno sono di fronte a uno stabilimento dove una volta raccoglievano le arance. È diroccato e pieno di magrebini. «Il medico provinciale ha ordinato che ve ne dovete andare tutti fra oggi e domani», dice il capo della polizia municipale. Erano centoventi ieri l´altro, sono rimasti una trentina. Parla per tutti il marocchino Aziz: «È la nostra casa, se ci mandano via andremo a dormire per le strade». Il parroco del Duomo don Pino Varrà ha appena portato qualche panino. Ma i magrebini non riescono a mangiare, sono storditi. Denuncia Michele Trungadi di Africalabria, l´osservatorio dei migranti di Rosarno: «Solo poche ore fa abbiamo sentito le belle parole del presidente della Repubblica che tutti dobbiamo fare di più per gli immigrati di Rosarno. Ecco cosa fa di più il giorno dopo lo Stato per loro: li caccia».
I volontari di Africalabria un anno fa hanno fondato su Facebook un gruppo che oggi ha quattromila fan. «Gli africani salveranno Rosarno», c´è scritto sulla loro pagina. Un paio di settimane dopo, in paese, alcuni hanno fatto anche loro una pagina su Facebook: «Gli africani hanno rotto il cazzo a Rosarno». Giuseppe Pugliese, uno di Africacalabria, da una settimana non gira più per il suo paese. Gli hanno mandato messaggi, minacce. Ce l´hanno con lui perché «è amico dei negri». Benvenuti a Rosarno, Calabria, quindicimila abitanti, duecento affiliati alla ‘ndrangheta, tutti servitori di uomini che si chiamano Pesce e che si chiamano Bellocco.
È tutto un deserto alla fine della Gioia Tauro Road, la strada dove prima c´erano i neri e adesso ci sono soltanto i loro resti. Bombole del gas, biciclette, calzini, uova, materassi, scarponi, felpe, pentole, tende, specchi rotti. Gli oggetti della loro vita, lasciati nella fuga. È diventata una città spettrale questa vecchia fabbrica dove in duemila avevano trovato rifugio, era una Cayenna ed è diventata il simbolo di una Calabria cupa, prepotente. Un marchio.

Liberazione 22.1.10
Sindacato e migranti, un problema c'è
di Dino Greco

Il quotidiano di Vittorio Feltri ha avviato una nuova campagna denigratoria contro il sindacato confederale, questa volta prendendo a pretesto la difficoltà di quest'ultimo nell'offrire copertura, formale e politica, ad uno sciopero generale dei migranti, tema carsicamente riaffiorante nelle comunità immigrate e nei loro coordinamenti sindacali, ma ora - dopo i drammatici fatti di Rosarno - ripropostosi con nuova forza. Ora, che il neonato interesse de il Giornale per la sorte degli immigrati sia "peloso" è cosa certa e manifesta. Non abbiamo mai letto nulla (né mai nulla leggeremo) su quelle pagine, che somigliasse ad una critica, pur velata, alla legislazione xenofoba che genera clandestinità, o che contestasse al centrodestra il rifiuto di riconoscere il permesso di soggiorno a quanti, fra i migranti regolari, provassero a portare alla luce la propria condizione di sfruttati. Che oggi il Giornale usi la loro voglia di riscatto e la loro rivendicazione di dignità come corpo contundente contro i sindacati è una acrobazia politica talmente palese che è difficile immaginare possa trovare, persino fra i propri lettori, chi sia disposto a prestarvi fede.
C'è tuttavia un nodo, questo sì reale, che il sindacato non ha sino ad oggi saputo o voluto sciogliere. I migranti rappresentano ormai una percentuale a due cifre di tutti gli iscritti, fra gli "attivi". In alcune categorie, soprattutto nei settori manifatturieri, gli stranieri toccano o superano il 20% delle adesioni. Ebbene, accade che finché la tutela dei loro diritti e dei loro interessi coinvolge i diritti e gli interessi dell'insieme dei lavoratori, tutto fila liscio. Quando invece entra in gioco la specificità della condizione migrante, non direttamente assimilabile a quella dei nativi, le cose si complicano. Perché delle due l'una: o i lavoratori migranti si muovono come parte nel tutto - e si danno propri strumenti di rappresentanza, di decisione e di azione - ma questo urterebbe fragorosamente contro il carattere universalistico dell'azione sindacale; oppure tutti i lavoratori devono essere chiamati a sostenere la causa di una minoranza emarginata e discriminata. Se, dunque, uno sciopero generale "etnico", promosso cioè per una sola porzione del mondo del lavoro nel disinteresse dell'altra contraddice l' imprinting solidaristico e la natura confederale del sindacato, è del tutto evidente come la proclamazione di un'astensione di tutti i lavoratori debba fare i conti con i retaggi culturali, le tossine xenofobe largamente diffuse fra ampi strati dei lavoratori dipendenti, soprattutto del nord.
E' dunque ora che il problema - per troppo tempo rimosso ed eluso per il timore di contraccolpi non governabili - sia afferrato per le corna. Nel solo modo possibile. Vale a dire promuovendo una grande discussione di massa, dentro ogni luogo di lavoro. Se questo non si farà e se i migranti matureranno la convinzione che la loro diversità sia - persino dentro il loro sindacato - un ostacolo alla piena uguaglianza, finiranno fatalmente per trovare altre strade. E, paradossalmente, potrebbe essere proprio la destra a trarne beneficio.

l’Unità Firenze 23.1.10
Il candidato governatore della Toscana
Rossi ai lavoratori immigrati: «Appoggio il vostro sciopero»

(…) Incontro del candidato di Toscana democratica a Santa Croce «L’11 febbraio sarò alla manifestazione antirazzista della Cgil»
E Rossi ha espresso il suo sostegno alle 24 ore senza di noi promosse autonomamente dalle associazioni di migranti e che sul social network facebook hanno già raccolto oltre 40mila adesioni. Annunciando però, nello stesso tempo, la propria adesione ufficiale alla manifestazione regionale antirazzista Contro altre Rosarno indetta dalla Cgil al Mandela forum di Firenze per l’11 febbraio.
Ma soprattutto ha ribadito la sua idea di accoglienza, che «va regolata, altrimenti diventa caos». «L’immigrazione è una ricchezza e una risorsa fondamentale per la nostra macchina produttiva ha sottolineato Rossi ma l’accoglienza non può prescindere dalla legalità».
Tema su cui lo Stato deve costantemente vigilare e, naturalmente, non contribuire a crearla, come invece spesso accade: «Nel 2009 spiega il candidato sono stati richiesti 46mila permessi di soggiorno e ne sono stati rilasciati solo 13mila, ingrossando così il fiume umano della clandestinità».
Se sarà eletto, promette l’uscente assessore regionale alla Sanità, chiederà conto di questi ed altri paradossi al governo in carica e ai ministeri preposti e si impegnerà con atti concreti per favorire l’integrazione dei migranti.
Tra le sue proposte, l’istituzione, insieme ai sindacati, alle associazioni di categoria e al mondo della cooperazione e del volontariato, di un fondo di sostegno e solidarietà alle lotte dei lavoratori immigrati. Ma anche l’idea di favorire, attraverso sgravi fiscali da parte della Regione, le aziende che si offrano come garanti presso le banche, in modo da permettere ai lavoratori stranieri di accedere a forme di microcredito: «Mettiamo che un lavoratore immigrato abbia bisogno di un prestito per ammobiliare casa ha spiegato Rossi Bene, l’azienda in cui lavora faccia da garante presso la banca e da tutor per l’immigrato: in cambio avrà vari tipi di facilitazioni economiche da parte della Regione». ❖

l’Unità 23.1.10
«Sogno che uccidono papà»
La guerra di Gaza negli incubi dei bambini
Nel rapporto di Amnesty i racconti dei sopravvissuti all’operazione Piombo Fuso lanciata da Israele un anno fa. Il blocco strangola la Striscia: disoccupazione al 40%
di Umberto De Giovannangeli

Quella tragedia è racchiusa in numeri, in storie, in volti. Quella tragedia non ha nulla di «naturale». È la tragedia di Gaza un anno dopo la fine dell’offensiva militare israeliana. A raccontarla è Amnesty International. L’organizzazione per i diritti umani ha raccolto una serie di testimonianze di persone che ancora hanno difficoltà a ricostruire le loro vite a seguito dell’operazione «Piombo fuso», che provocò 1400 morti e alcune migliaia di feriti. «Le autorità israeliane affermano che il blocco di Gaza, in vigore dal giugno 2007, è la risposta al lancio indiscriminato di razzi contro il sud d’Israele da parte dei gruppi armati palestinesi. La realtà, tuttavia, è che il blocco non prende di mira i gruppi armati ma piuttosto punisce l’intera popolazione di Gaza, limitando l’ingresso di cibo, forniture mediche, strumenti educativi e materiale da costruzione», afferma Malcolm Smart, direttore del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International. «Ai sensi del diritto internazionale, il blocco rappresenta una punizione collettiva e va tolto immediatamente».
A Israele, in quanto potenza occupante, il diritto internazionale richiede di assicurare il benessere degli abitanti di Gaza, tra cui i loro diritti alla salute, all’educazione, al cibo e a un alloggio adeguato. Durante l’operazione «Piombo fuso», dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009, furono uccisi 13 israeliani tra i quali tre civili nel sud d’Israele e decine furono i feriti a seguito del lancio indiscriminato di razzi da parte dei gruppi armati palestinesi. A Gaza, gli attacchi israeliani danneggiarono o distrussero edifici e infrastrutture civili, tra cui scuole, ospedali e impianti idrici ed elettrici. Migliaia di case vennero distrutte o furono gravemente lesionate. Delle 641 scuole di Gaza, 280 vennero danneggiate e 18 distrutte. Poiché più della metà della popolazione di Gaza ha meno di 18 anni l’interruzione dei programmi educativi a causa dei danni provocati dall’operazione «Piombo fuso» sta avendo un impatto devastante.
Un anno dopo, Amal 10 anni, porta ancora nella tasca ovunque vada due foto consunte di suo padre e di suo fratello morti durante l’offensiva di Tsahal. «Voglio guardarli sempre», dice, un anno dopo che sono stati uccisi. «La mia casa non è bella senza di loro». Anche Amal è stata ferita e dice che la testa e l’occhio destro le fanno ancora male. Ma il trauma psicologico di Amal è aggravato dal fatto che scappò prima che la madre e i fratelli e sorelle lasciassero la casa dopo gli spari. Quattro giorni dopo fu trovata, semisepolta sotto le macerie, disidratata e in stato di shock, una dei 15 altri sopravvissuti trovati nelle immediate vicinanze quando le ambulanze della Croce Rossa finalmente ottennero il permesso di avvicinarsi abbastanza per tirarli fuori. A scuola, le materie preferite di Amal sono inglese e arabo. «Non conosco molto l’inglese, ma mi piace», dice la ragazzina, che da grande vuole fare il dottore.
Kannan, adesso 13enne, ancora zoppica per il colpo di pistola alla coscia sinistra. Prima della guerra, era un appassionato centrocampista ma ora non gioca più a calcio. Anche per lui, l’impatto non è stato solo fisico. Nei mesi successivi alla sparatoria, ha avuto degli incubi – e fu trovato numerose volte a piangere nel sonno o a gridare «Vogliono uccidere mio padre». «Non va al bagno da solo», dice Zahawa, sua madre, aggiungendo che si spaventa facilmente – per esempio al suono dei colpi di pistola del vicino centro di addestramento di polizia di Hamas. Anche Kannan ha un album per gli schizzi – il consulente che lo ha seguito per quattro mesi dopo la guerra lo ha incoraggiato a disegnare. Dipinge la sparatoria contro suo padre... Bambini spaventati dagli aerei sopra di loro... Una moschea distrutta. Anche gli ospedali hanno subito le conseguenze dell’offensiva militare e del blocco. Le autorità israeliane negano spesso, senza fornire spiegazione, l’ingresso a Gaza dei camion dell’Organizzazione mondiale della sanità, contenenti aiuti sanitari.
I pazienti con gravi patologie che non possono essere curati sul posto continuano a vedersi negare o ritardare il permesso di lasciare la Striscia. Il 1 ̊ novembre 2009, Samir al-Nadim, padre di tre figli è deceduto dopo che il permesso di lasciare Gaza per subire un’operazione al cuore era stato rimandato per 22 giorni. Amnesty International ha parlato con molte famiglie, le cui abitazioni vennero distrutte. Un anno fa, durante il conflitto, Mohammed e Halima Mslih lasciarono il villaggio di Juhor al-Dik insieme ai loro quattro bambini. Mentre erano assenti, la loro casa venne demolita dai bulldozer israeliani. «Quando siamo tornati, c’erano tutte macerie», racconta Mohammed Mslih. La famiglia Mslih ha trascorso i primi sei mesi dopo il cessate il fuoco in una tenda di nylon. Ora è riuscita a costruire un’abitazione permanente ma teme che le continue incursioni israeliane possano abbatterla nuovamente. La disoccupazione a Gaza sta crescendo vorticosamente. Lo scorso dicembre, le Nazioni Unite hanno reso noto che il dato era superiore al 40%. «Il blocco sta strangolando praticamente ogni aspetto della vita della popolazione di Gaza. Il crescente isolamento e la sofferenza degli abitanti di Gaza non possono continuare. Il governo israeliano deve rispettare i propri obblighi legali in quanto potenza occupante e togliere il blocco senza ulteriore ritardo», conclude Smart. ❖

Repubblica 23.1.10
Fausto e Lella, fulmini in casa Bertinotti
di Filippo Ceccarelli

Il sito Dagospia parla di rottura tra l´ex presidente della Camera e la moglie. Lei avverte: attenti alle querele
Sul web la crisi della coppia Bertinotti Lella al telefono: ma Fausto è qui con me...
La signora reagisce: "Storia costruita da chi mi odia. Chi non ha momenti difficili?"
Una persona amica evoca un litigio a causa del figlio Duccio. "Già acca-duto in passato"

Si dice a Roma, di norma si dice al mercato e nelle portinerie, ma anche nei salotti, nelle redazioni dei giornali e un po´ in tutti i luoghi dominati dal pettegolezzo: «Nun ce posso crede!». Espressione che suona di sublime e rinforzatissima ambiguità, tenendo insieme tanto la meraviglia che lo scetticismo dinanzi all´ultima maliziosa diceria, dinanzi all´ennesimo «crostino scottadito».
Con tale spirito si è appreso ieri, intorno alle 16, dal preclaro sito Dagospia: «La gente mormora, il salotto gorgoglio» questo il piccolo rullio di tamburi che precedeva la rivelazione; e quindi, finalmente: «Sora Lella ha mollato Fausto Bertinotti». Sotto si vedeva la grafica di un gran cuore spezzato, con le foto della celebre coppia pure in frantumi. Presunti frantumi però, come occorre specificare sulla base dei successivi sviluppi.
L´esordio del servizio mostrava in effetti un certo deficit di autorevolezza, e non solo perché anonimo, ma soprattutto per il tono dichiaratamente parodistico: «Una mattina mi son svegliato,/ o Lella, ciao! Lella, ciao! Lella, ciao, ciao, ciao!/ Una mattina mi son svegliato/ e non ho trovato più l´amor...». Seguiva disamina sulla signora Bertinotti che da un po´ di tempo si recava ai ricevimenti triste, sola e a digiuno. Questa, in buona sostanza, la prova della rottura. Mentre la conclusione della nota, invero un po´ sibillina, recitava: «I nostri eroi si erano sposati nel ´65 in chiesa (of course) e dopo 45 anni hanno deciso che era sufficiente».
Il punto rimarchevole, se si vuole, o la premessa cognitiva, è che il giornalismo politico, entità divenuta al tempo stesso generica e polivalente, sta davvero abituandosi a tutto. Si pensi a ciò che, da Veronica in poi, è accaduto e continua ad accadere proprio in questi giorni in termini di impicci baresi, pochades bolognesi e paparazzate itineranti. Questo per dire che la famosa distinzione tra sfera pubblica e privata è andata definitivamente a farsi benedire; per cui rispetto al super-scoop di Dagospia il salvifico motto era destinato sì a risuonare, «Nun ce posso crede!», ma un po´ anche invano. Era vero o no?
Non solo, ma in linea con le più sinistre profezie di Debord sulla società dello spettacolo si è anche dilatata l´area del verosimile, o del falso realistico e simulacrale, o della verità manipolata per lieto scherzo, oppure da carbonizzare sull´ara di un nobile fine, tipo dimostrare la frivola ottusità dei media che si buttano sulle crisi coniugali così oscurando i grandi temi sociali della disoccupazione, della sanità, che di sicuro sono decisivi, ma intanto: che succedeva ai «Berty-nights»?
Chi ha parlato con gli assistenti di lui, che era la prima cosa da fare, l´ha trovati abbottonati, ma compresi del momento. Mentre lei, che con i giornalisti ha un rapporto di tipo catulliano (ne tecum ne sine te vivere possum, libera traduzione: siete degli adorabili scocciatori) restava sulla negativa, pure esternando il suo sdegno - come si può umanamente comprendere. Nel sottofondo telefonico si potevano sentire le voci dei nipotini e a un certo punto, per dare più energia al suo ridimensionare l´indiscrezione di Dagospia, Sora Lella ha passato l´apparecchio al marito, che era lì, anche se non ha ritenuto di intervenire sul tema.
Tale il quadro che si è raccolto «allo stato degli atti», come si diceva ai tempi di Forlani e del preambolo. Confermato del resto, poco prima delle 20, da un flash dell´agenzia Ansa intitolato: «Tranquilli, io e Fausto non ci lasciamo». Alla giornalista, la cui tranquillità non sembrava per la verità risentire della presunta crisi matrimoniale, la moglie dell´ex presidente della Camera ha anche detto: «È una storia costruita ad arte da una persona che vuole screditarmi e mi odia». Chi? Silenzio. «Questa stessa persona era presenta a una serata dove sono stata invitata e dove, tengo a sottolineare, ho mangiato tre piatti di pasta, altro che a digiuno perché triste». Al che la giornalista ha insistito sulla crisi: «Siamo nell´ambito del privato... quale coppia non litiga e non ha attraversato momenti più difficili di altri? Figuriamoci, allora, due come me e Fasto che stanno insieme da tanti anni... Ma non è neanche il caso di parlarne». Ecco, sì: «Nun ce se po´ crede».

Repubblica 23.1.10
Bari, il ciclone Vendola e la "capagira" del Pd
«Guaglio', calmi, che la capa gira!». È diventato lo slogan amaro nei quartier generali del Pd pugliese.
Ciclone Vendola in Puglia quell´Opa ostile sul Pd alla ricerca di un leader
Domani la sfida del "Berlusconi rosso" con Boccia
di Curzio Maltese

La "capagira", dicono a Bari, a indicare il misto di stordimento e rabbia con cui il partitone s´avvia a una sconfitta annunciata
Nel quartier generale del presidente il pellegrinaggio di consiglieri comunali e militanti democratici pronti ad appoggiarlo

La «capagira» significa il misto di stordimento, rabbia e impotenza col quale oggi il partitone s´avvia a una sconfitta annunciata contro il guerrigliero Nichi Vendola. «Uno che era finito sei mesi fa e noi siamo stati capaci di trasformare in Che Guevara» dicono i vecchi militanti. Soffiano mazzate di vento gelido sul lungomare di Bari e perfino quelle tirano per Vendola. Domenica la gente non andrà in gita e più gente va a votare le primarie, tanto più sale il vantaggio del governatore sullo sfidante. La domanda della gente pugliese non è se vincerà «Nichi o Boccia», dove già la scelta di nome o cognome segna una distanza. Piuttosto «di quanto vincerà Nichi». Se con il dieci, il venti o il trenta per cento. È raro in effetti assistere a una vigilia tanto univoca. Non solo nei sondaggi, per quel che valgono.
Ma nei discorsi, negli umori, nei segni sparsi per le strade. Almeno a Bari e dintorni, dove si gioca, cifre alla mano, la metà della partita. Basta confrontare la mestizia delle sedi del Pd con l´allegra sarabanda giovanile di Fabrica, il quartier generale di Vendola. Confrontare i muti e radi manifesti di Boccia con gli squillanti e felicemente populisti del Comandante Nichi, «Solo con(tro) tutti». Misurare con lo sguardo i luoghi della contesa. Mentre i dirigenti del partitone viaggiano per salette da convegno, sezioni desertiche e studi televisivi, Vendola attraversa bagni di folla e prenota per il gran finale di oggi Piazza Prefettura, roba da ventimila persone, che soltanto il Berlusconi dei tempi d´oro è riuscito a riempire con un comizio. L´altro giorno è arrivato finalmente a Bari il segretario Pier Luigi Bersani per sostenere la candidatura di Boccia e l´evento non è riuscito a colmare le trecento poltrone di una sala della Fiera. «Uno spettacolo avvilente e preoccupante» ammette il senatore dalemiano Nicola Latorre. «Non c´era uno della minoranza del partito. Tutti a sostenere l´Opa ostile di Vendola sul Pd». Lo sfascio del partitone in questa guerra insensata è del resto facilissimo da misurare. Nelle due ore trascorse a Fabrica ho assistito al pellegrinaggio di una decina di consiglieri comunali del Pd e all´arrivo di una comitiva di giovani di Molfetta decisa a organizzare una serata «pro Vendola». «Siete di Sinistra e Libertà?» «Macchè, siamo del Pd!».
«Per quale motivo, di preciso, avete deciso di suicidarvi?» ha risposto lo scrittore e senatore Pd Gianrico Carofiglio ai messi di Bersani e D´Alema che gli avevano chiesto se «almeno lui» se la sentisse di pronunciarsi per il candidato ufficiale. Dopo che decine di artisti, intellettuali, scienziati e premi Nobel, da Margherita Hack a Dario Fo, avevano aderito agli appelli di Vendola. Dalla parte di Boccia, a sorpresa, è arrivato un solo testimonial e piuttosto bizzarro: Franco Califano. Ma sì, il mitico. Sempre stato «nero». «Ma che te devo di´? Francesco è n´ amico. E poi ‘sto Vendola che fa la vittima m´ha veramente rotto li…». Così oggi Francesco Boccia, che sembra molto più solo contro tutti, si è consolato sfrecciando fra Foggia e Bisceglie su un´Alfa con al fianco "Er Califfo". «Alla faccia della sinistra da bere, meglio il Califfo» dice lo sfidante. «Prima o poi gli elettori capiranno che quella di Vendola è una truffa, retorica allo stato brado».
Prima di domani però pare difficile. Quanto all´altro califfo, Massimo D´Alema, ha deciso di rinviare la nomina romana al Copasir a martedì e di rimanere sulla barca del suo candidato fino all´ultima ora utile. Soltanto che la barca continua a prendere acqua e il ventennale califfato di D´Alema in Puglia rischia di chiudersi.
Chi l´ha fatto fare a D´Alema, a Bersani e al Pd tutto di ficcarsi nella trappolona pugliese? Alessandro Piva, regista barese che di «capagira» se ne intende, ha la sua teoria: «Vendola è un Berlusconi rosso e li ha fregati con lo stesso metodo che il Cavaliere usa da anni. E´ bravo a far la vittima, quello contro il sistema, quello che si è fatto da solo. E´ più moderno, è un comunicatore, si rivolge direttamente al popolo ed è capace di emozionare. Con lui gli avvisi di garanzia funzionano alla rovescia. È un combattente e ha dimostrato di avere nove vite come i gatti. È come Berlusconi».
Almeno un po´ deve essere vero, se il «Berlusconi rosso» non s´offende al paragone, sembra anzi quasi compiaciuto. Ma sugli errori degli ex compagni del Pci, Nichi Vendola ha anche un´altra spiegazione: «Hanno un rapporto nevrotico con la modernità e non hanno mai davvero chiuso i conti col passato. Ma di tutta la grande narrazione politica comunista, quelli come D´Alema e Bersani hanno conservato un solo tratto, il fascino supremo del comando. L´illusione di poter imporre alla base qualsiasi scelta, per quanto impopolare, in nome del fine superiore del partito. Soltanto che questo fine superiore non esiste più. E alla lunga, senza un´utopia, una trascendenza, la gente prima o poi si stufa di obbedire».
L´impressione è che il «poi» sia arrivato di colpo, oggi, qui, in Puglia. Dove il Pd di Bersani rischia di correre incontro a una crisi dura, non soltanto locale, ma nazionale. Per la tigna dalemiana, per incapacità di fiutare il vento, per il «rapporto nevrotico con la modernità», va´ a sapere. In ogni caso, a quarantotto ore dal voto delle primarie, perfino nel fronte fedele al candidato ufficiale, si discuteva soltanto di come rimediare alla sconfitta. Come rimettere insieme, da lunedì, i cocci di un´alleanza devastata dal palio delle sinistre. Michele Emiliano, il sindaco di Bari che appoggia Boccia, ma non perde mezza occasione di fare l´elogio di «Nichi», si ritaglia fin da subito il ruolo di grande mediatore per il dopo disastro: «Comunque vada a finire, le primarie del Pd hanno cancellato dalla scena politica il centrodestra e segnalato la ricchezza del centrosinistra agli elettori pugliesi. Boccia e Vendola sono due facce di una bella politica, destinate a collaborare da lunedì se il centrosinistra vuole davvero vincere. Ed è già troppo tardi. Perché se Francesco Boccia fosse stato in questi anni il vice presidente della Puglia e l´assessore al bilancio, come in molti avevamo suggerito a Nichi, oggi la Regione non avrebbe buchi, ma risorse da destinare allo sviluppo». Su una linea pragmatica è Alessandro Laterza, editore e presidente degli industriali pugliesi, che finora si è tenuto lontano dalla rissa: «Aspetto che finisca la disfida per tornare a parlare dei fatti. Per esempio dei tre miliardi di fondi europei che finora non siamo stati in grado di ottenere per la Puglia e che potrebbero cambiare la faccia all´economia della regione.
La sconfitta del Pd è annunciata, ma la catastrofe si può ancora evitare. Soprattutto se la vittoria di Vendola non sarà schiacciante, come dicono i sondaggi e il popolo del blog. Perchè altrimenti il vento si porta via tutti i personaggi. Magari al suono di una musica da circo, come nel finale di Otto e Mezzo di Fellini, che ieri mezza Bari bene è corsa ad applaudire al Petruzzelli, nella versione holliwodiana di «Nine». Per distrarsi col festival del cinema dal festival della politica, per sorridere alla fine di un´altra giornata amara.

Repubblica 23.1.10
Csm, radiato il giudice anti-crocifisso
La sanzione per il rifiuto di tenere udienza anche senza simboli religiosi in aula
Si astenne nelle aule dove era appesa la Croce. Ora, dice, farò ricorso
di Elsa Vinci

ROMA - Perde la toga il giudice anti-crocifisso. Luigi Tosti, il magistrato di Camerino noto per essersi rifiutato di tenere udienza nelle aule con il simbolo del Cristianesimo, è stato rimosso dall´ordine giudiziario. La durissima sanzione è stata inflitta dalla sezione disciplinare del Csm, che nel 2006 lo aveva già sospeso dalle funzioni e dallo stipendio. Il giudice si era astenuto dal trattare 15 udienze tra il maggio e il luglio del 2005, comunicando il rifiuto con pochissimo anticipo. «Un atteggiamento mantenuto - ha sottolineato il procuratore generale della Cassazione - nonostante un´aula priva di simboli religiosi messa a disposizione dal presidente del tribunale». Per gli stessi fatti, un anno fa, la Suprema Corte aveva annullato una condanna a sette mesi per omissione di atti d´ufficio, ma solo perché il magistrato era stato sostituito e le udienze erano state regolarmente celebrate. Tosti, che davanti alla "disciplinare" si è difeso da solo, annuncia ricorso. In Cassazione e a Strasburgo.
«Non avevano scelta - ammette - o me o i crocifissi nelle aule di giustizia. Ne ho fatto un problema di carattere generale». E ricorda due sentenze di piazza Cavour, quella con cui la Corte giustificò il rifiuto di uno scrutatore di sedersi al seggio elettorale in cui era esposta la Croce, e il suo proscioglimento. Quando gli "ermellini" invitarono ad un «approfondimento».
È legittima l´esposizione del simbolo della cristianità nei luoghi pubblici? Offende la libertà di religione, viola il principio di laicità dello Stato? Nei tribunali il crocifisso è previsto da una circolare del 29 maggio 1926, firmata dal ministro Alfredo Rocco. Motivo di ripetute e recenti polemiche è stata la presenza della Croce nelle scuole pubbliche, voluta da due Regi Decreti del 1924 e del 1928. Il Consiglio di Stato ha deciso che va tenuta in cattedra «per la funzione simbolica altamente educativa a prescindere dalla religione degli alunni», ma lo scorso 3 novembre la Corte di Strasburgo ha imposto la rimozione nelle scuole italiane. Il governo ha già annunciato ricorso.
«Il Csm non è né la Corte Costituzionale né la Corte Europea. Non doveva risolvere e non ha risolto la questione della legittimità o meno di tenere il crocifisso in un´aula di giustizia - ha spiegato il vicepresidente del Csm Nicola Mancino - Tosti è stato giudicato per essersi rifiutato di celebrare udienza fino a quando in tutti i tribunali d´Italia non fosse stato rimosso il simbolo. Con l´intenzione di risolvere una questione di principio è venuto meno agli obblighi e ai doveri di magistrato».
Un giudice di lungo corso come Felice Casson non ritiene che il crocifisso infici il principio di laicità dello Stato. «E´ il magistrato - dice - che deve giudicare in maniera laica e garantire la Costituzione». Taglia corto il filosofo Massimo Cacciari: «Mi pare assurdo che uno si rifiuti di andare a lavorare».

Repubblica 23.1.10
Michele Ainis, costituzionalista a Roma: il ricorso gli darà ragione
"È una decisione gravissima in conflitto con la Cassazione"
di Vladimiro Polchi

ROMA - «È una decisione gravissima che apre, sotto traccia, un conflitto tra Csm e Cassazione». Michele Ainis, costituzionalista a Roma, difende il giudice Luigi Tosti.
Un conflitto, addirittura?
«Tosti era stato assolto dall´accusa d´omissione d´atti d´ufficio. Dunque la Cassazione gli aveva dato ragione sugli stessi profili che ora lo condannano davanti al Csm. Nei ricorsi, Tosti dovrebbe avere partita vinta».
La rimozione è dunque un errore?
«La giurisprudenza del Csm è spesso di difesa corporativa. Raramente usa il bastone. La sensazione è che si sia incattivita contro un giudice, perché isolato all´interno della stessa corporazione giudiziaria. E poi si tollera solo l´obiezione di coscienza per motivi religiosi, mai per motivi laici».

Liberazione 21.1.10
Luciano Canfora docente di filologia greca e latina all'università di Bari
1921, nasceva il Pcd'I Chi lo studia più oggi?
di Tonino Bucci

Ventun gennaio 1921, quel giorno nasceva, da una scissione, il Pci, anzi il Pcd'I. Un partito che oggi non c'è più. Non è per nulla facile parlarne, visto anche il perdurare di una damnatio memoriae cui hanno contribuito gli stessi ex dirigenti di quel partito, riluttanti ad ammettere il proprio passato comunista. Qualche tentativo, a vent'anni dalla Bolognina, c'è stato, i più recenti quelli di Lucio Magri con Il sarto di Ulm e di Guido Liguori, La morte del Pci . Forse un accenno ad andare oltre la memorialistica. O forse no. «Non sarei così ottimista. Il panorama non cambia», commenta Luciano Canfora, docente di filologia greca e latina all'università di Bari. «Siamo al livello di una nobile memorialistica, ma non c'è ancora un cambio di direzione. La storiografia sul Pci non esiste più, fatta eccezione per il volume di Martinelli in coda allo Spriano. Ognuno ha scelto la strada della salvazione individuale. Gli intellettuali che di quel partito erano considerati il nerbo, sono passati ad altre sponde, ad altri interessi».

Probabilmente si pensa che studiare la storia del Pci non serva a nulla perché si tratta di un'esperienza morta e sepolta. Non è così?
Da parte degli ex comunisti italiani è un alibi di comodo dire che, siccome è una storia finita, non vale la pena studiarla. Non si capirebbe allora perché si debba continuare a studiare il fascismo o le guerre puniche. L'argomento "è finito, ergo non ne parlo" non esiste. E' un alibi della coscienza. Forse nasconde il timore che parlando del Pci si possa apparire ancora legati a quella storia. Gli ex comunisti non vogliono che si pensi a loro come a dei nostalgici. Questo è il vero motivo, non perché l'esperienza del Pci è storicamente finita. Dover ammettere che la storia dei comunisti in questo paese ha un ampio residuo positivo, significherebbe per questi signori apparire dei nostalgici.

Un altro stereotipo è quello del Pci partito "istituzionale" e "moderato". Ma come, un partito che ragionò sull'egemonia, sul blocco storico, radicato nella società e artefice di una pedagogia popolare di massa, può essere etichettato "moderato"?
Sparare sul Pci andava di moda quando ci si poteva ancora permettere di ballare sulla tolda del Titanic. Quando si pensava che "papà" Pci sarebbe vissuto in eterno e sarebbe stato sempre forte. Poi si è scoperto che eterno non era e neppure fortissimo. Oggi che non c'è più stanno tutti a piangerne la scomparsa.

Alla Bolognina si diceva che il Pci andava sciolto perché ormai la crisi dell'Urss era irreversibile. Ma, oltre che della Rivoluzione d'Ottobre il Pci non è anche figlio della situazione specifica italiana, delle occupazioni delle fabbriche del '19-'20? è stato solo un riflesso della rivoluzione d'ottobre oppure è stato anche un prodotto specifico della situazione italiana?
Il PcdI è nato perché c'è stata la rivoluzione d'Ottobre, ovvio. La nascita di questo partito è stata molto controversa, molto sofferta, tanto che poco dopo la sua nascita Lenin spinse alla riunificazione con i socialisti - cosa che il gruppo dirigente d'allora, Bordiga in testa, respinse con forza. Lenin capì meglio degli italiani come dopo la Marcia su Roma fosse paradossale fare a pezzi la sinistra. La scissione del '21 è un fatto strettamente connesso alle dinamiche internazionali, al 1917, alla diffusione della rivoluzione in Germania e in Ungheria. La nascita del Pcd'I si lega a una crisi epocale. Il 1917 precede tutti i fatti nominati, viene prima delle occupazioni delle fabbriche e spiega tutto. La Rivoluzione russa è il figlio più importante della Prima guerra mondiale, è la risposta al conflitto. Gli sviluppi successivi sono una conseguenza di quella grande rottura. Poi, naturalmente, la storia del Pci prenderà una sua piega originale. Il partito di Togliatti sarà un "partito nuovo" nel vero senso della parola, un partito di massa e non più di sola avanguardia, impegnato a scrivere la Costituzione con gli altri e che si propone le riforme di struttura. Anche i giacobini italiani nascono sull'onda del '93 francese, però dopo imboccano una loro storia autonoma, persino conflittuale con la Francia. Peccato che non ci sono più storici a sinistra.

Nei "Quaderni" di Gramsci il Pci ha trovato un'analisi formidabile della storia nazionale: il Risorgimento mancato, la passività secolare delle masse, l'arretratezza culturale della borghesia nazionale, il fascismo. Eppure, oggi tutte le patologie di antica data della società italiana sembrano riemergere. Tutta fatica sprecata?
Nulla è definitivo nella storia. I partiti hanno svolto un'opera di educazione come mai forse è accaduto nella nostra storia. Oggi i partiti sono finiti, è subentrata una politica di tipo americana, carismatica, mediatica. La società si è trasformata, è diventata una società di ceti medi. La classe operaia è in estinzione numerica. Verranno fuori contraddizioni nuove che per ora non possiamo prevedere. Per esempio, lo sfruttamento del lavoro intellettuale e forme di schiavitù dei lavoratori immigrati. Per ora è la Lega che incamera il voto proletario di tipo razzista. Siamo alla guerra tra poveri.