Emma, campagna fai-da-te «Subito club e comitati»
Prove di passo a due con il Pd. «Ma bisogna galvanizzare anche chi non fa politica». Via a comitati e club. E a coordinare la campagna, la radicale Bernardini insieme al Pd Milana. Ma su di lui nel Pd è bufera.
di Mariagrazia Gerina
«Ariosa», «parecchio fai-da-te», «creativa». Emma Bonino la sua campagna per conquistare gli elettori del Lazio la immagina così. «Se la lasci libera, poi prende il volo», sorride, pensando già ai Comitati Bonino che nasceranno mentre tra i banchi di frutta e verdura scambia sguardi e sorrisi, battute e strette di mano. Ma sembra che parli di sé. «Ciao, io sono Emma», si presenta, in un sabato mattina di sole invernale, come se, a cinquantuno anni, più di trenta dall’elezione in parlamento del ‘76, dovesse ricominciare tutto da capo. Attorno palazzoni di periferia, gente che sta attenta a risparmiare mentre fa la spesa. «Ce la facciamo?», le va incontro un signore con le buste in mano. «Ce la dobbiamo fare», corregge lei tenendolo per le braccia. Gesti spontanei, appena un po’ impacciati, come se davvero fosse un debutto per Emma questo cercare voti per sé e non per una causa, un’idea. «Emma, brava, sbaraglia gli schemi». «Non ti preoccupare se Libero ti diffama», la incoraggia la gente. «Le lotte per noi donne ce le ricordiamo». «L’anno del divorzio ero a in piazza».
COMINCIA IL VIAGGIO
Ecco, il ghiaccio è rotto, dopo le esitazioni e gli strappi, il viaggio elettorale di Emma Bonino candidata del centrosinistra alla Regione Lazio inizia. Nel più tradizionale dei modi. Con un bagno di folla vera. «Mi sembra d’essere la zia d’Italia», si schermisce lei. Di buon mattino, al mercato rionale di Casal de Pazzi. A mezzogiorno, in quello coperto di villa Gordiani. Scenari «popolari», scelti dal Pd per questa prima prova di passo a due con la candidata radicale. Chi le chiede di riprendere in mano la sanità («per mio figlio, autistico, c’è il nulla davanti»), chi non sa come fare con la pensione minima. Ci sono gli iscritti, il segretario regionale Mazzoli. «Ciao Emma, dove stanno i volantini?», arriva rispolverando l’entusiasmo di un neomilitante Nicola Zingaretti, «l’esploratore» nei giorni in cui il Pd doveva ancora decidere chi candidare. «Ciao Nicò», apprezza lei, prendendolo sotto braccio, mentre Zingaretti è già avanti a tirarle la volata. «Io non sono né per la destra né per la sinistra», lo blocca una signora. «Per questo candidiamo la Bonino», sorride lui. Funziona: «Ah Emma sì che mi piace». Scena spontanea on the road, meglio di uno spot televisivo. «Certo sono un bel ticket insieme», li guarda muoversi tra la folla un militante. E poi salire insieme in macchina, Nicola alla guida della sua auto. Emma che studia già la prossima fuga in avanti. «Emma ce la può fare anche contro le conventicole», dice il presidente della Provincia. «Ma dobbiamo pensare a una campagna che muova la creatività delle persone», ripete la Bonino, che, tra un banco e l’altro, accenna il suo primo discorso da candidata.
«La gente è uguale ovunque spiega -, le preoccupazioni sociali di chi ha malati a carico, quelle di chi non ha lavoro, i cittadini del Lazio sono in ansia per il futuro e insoddisfatti della classe politica: una buona amministrazione può dare risposte, purché abbia come priorità i più deboli ed esposti». Alla sinistra di popolo che incontra nei mercati convince. I nodi si sa quali sono: sanità, infrastrutture, rifiuti, ambiente. I limiti anche: il buco lasciato da Storace, dice Emma. La giunta Marrazzo ha iniziato il risanamento. Ma non basta: la «struttura amministrativa» è ancora troppo «opaca». «I posti letto ci sono ma vanno messi in rete». Trasparenza ed efficienza, le parole d’ordine su cui impostare il lavoro. Il comitato elettorale «è a buon punto», dice Emma. Sarà a Trastevere, via Ripense. Però bisogna «galvanizzare anche le persone che non fanno politica». Comitati e club per Emma Bonino. «Ci hanno già scritto per aprirne», fa sapere la candidata, che a fine giornata prova a sciogliere alla bega dei primi incarichi politici. Riccardo Milana, segretario del Pd romano, come voleva una parte del Pd (decisivo l’intervento di Marini), del tutto contraria l’altra (Zingaretti compreso), farà il coordinatore. «Scelta sbagliata», tuona Morassut, ala Franceschini. «Inspiegabile forzatura», dice l’ala Marino. Anche se sarà affiancato dalla radicale Rita Bernardini. «Ognuno sia propositivo e libero», fa da pompiere Emma, che sulle lotte intestine invoca il lavoro di squadra. ❖
il Fatto 24.1.10
Emma parte dai mercati
Inizia la campagna elettorale della Bonino
di Alberto Grossi
La pasionaria dei diritti civili tra banchi di frutta, famiglie e vecchiette sorridenti. In un gelido sabato mattina, Emma Bonino ha aperto la sua campagna come candidata presidente alla regione Lazio in due mercati della periferia romana, a Casal de’ Pazzi e a Villa Gordiani. Spiazzi colmi di gente e di curiosità, per la
donna che il centrodestra di Renata Polverini dipinge come l’Anticristo, abortista e anticlericale. Un “diavolo” che al mercato è arrivato in taxi, perché per gli impegni elettorali non usa l’auto che le spetta come vicepresidente del Senato. Ad attenderla, una selva di taccuini e microfoni, con l’inevitabile domanda sulla foto pubblicata da Libero, che la ritrae mentre pratica un aborto. “Quelle che avete visto sono cose risapute: rivendico quelle battaglie delle donne per l’aborto ma sono per la non violenza e la disobbedienza civile” replica subito Bonino. Ferma nel difendere Tinto Brass, probabile candidato per i Radicali nel Lazio e in Veneto: “Lui ci ha sempre sostenuti nei momenti difficili, e questo non ha mai fatto scandalo. E comunque delle liste nel Lazio non a ancora parlato”. Piccola nel suo cappottone nero, inizia il giro tra i banconi, assieme al presidente della provincia di Roma, Nicola Zingaretti, e al segretario del Pd del Lazio, Alessandro Mazzoli. Tanta gente e parecchio entusiasmo. Le più estroverse sono le vecchiette. “Ma lo sai che sei più bella che in televisione?” le dicono in parecchie. Bonino stringe la mano a tutti: “Ciao, sono Emma”. Un salumiere la indica: “Quella è l’unica onesta”. Le chiedono di fare “qualcosa per la gente”, e Bonino ribatte: “Facciamola assieme”. Per riprenderla, i fotografi si arrampicano anche sui camion della frutta. I militanti del Pd, che le hanno organizzato l’uscita, gongolano: “E’ andata bene, la Bonino è forte”. La candidata invece parla di programma: “Ci concentreremo su tre o quattro nodi fondamentali cercando soluzioni, non miracoli. La gente è uguale ovunque, ciò che le preme sono i malati a carico e i nodi del lavoro. I problemi del Lazio sono evidenti: la sanità, l’ambiente, le infrastrutture e i rifiuti”. Bagno di folla anche a Villa Gordiani. Un uomo le urla da dietro: “Marijuana libera”. Bonino lo ignora, e continua ad abbracciare signore con la sporta e farsi scattare foto con i telefonini. Alla fine non resiste, e si accende una sigaretta. Dopo i saluti, il ritorno alla sede dei Radicali in largo di Torre Argentina, da dove Bonino ha ricominciato a riannodare i fili del centrosinistra. Ieri pomeriggio ha nominato ufficialmente come coordinatore del suo comitato elettorale Riccardo Milana, senatore del Pd. Un nome proposto dal bersaniano Mazzoli e appoggiato anche dai Popolari, ma sgradito alla minoranza franceschiniana e a Michele Meta, ex coordinatore della mozione Marino. Venerdì sera i contrari avevano protestato sulle agenzie, ma Bonino ha ugualmente nominato Milana, ex Margherita e segretario del Pd di Roma. Che in serata ha precisato: “Non sono il futuro vicepresidente regionale, lavorerò solo per la candidatura. Le critiche? Il congresso è finito”. Rita Bernardini, radicale eletta in Senato per il Pd, farà da figura di collegamento tra Bonino e il comitato. La sede sarà in un’ex fabbrica a Trastevere, poco distante dalla casa della vicepresidente del Senato. Ora va definita l’alleanza di centrosinistra. Bonino ha già incontrato tutti i partiti. Deve chiudere l’intesa con l’Idv, che ha preso tempo ma garantirà il suo appoggio, e la Federazione della Sinistra, con cui la trattativa è più complicata: ma l’accordo resta possibile. Bonino ha sentito anche Linda Lanzillotta, deputato e possibile candidata alla regione per l’Api di Rutelli. Nei giorni scorsi la leader radicale è stata chiara: “Inutile lanciare appelli a Francesco, lui è un politico scafato”. Rutelli sembra però orientato a correre da solo. Intanto si lavora sull’agenda e sui temi della campagna. Pd e Radicali si aspettano nuovi attacchi sul tema dell’aborto e del rapporto dei cattolici: “Ma non ci fanno paura, e poi potrebbero essere controproducenti”. Questa mattina altri impegni romani per Bonino, nel mercato di Porta Portese e nel circolo Pd in via dei Giubbonari. Nel pomeriggio, giro dei Castelli Romani. La prossima settimana, la leader radicale sarà fuori Roma. Dopo due dibattiti a Torino (uno assieme a Mercedes Bresso), andrà a Berlino e poi a Davos, per “impegni internazionali improrogabili”.
il Fatto 24.1.10
Bonino, una Fatwa interessata
In questi giorni di attacchi frontali, si intuisce meglio il senso dell’ostracismo nei confronti di Emma, un’idiosincrasia dettata da ragioni economiche e industriali
di Furio Colombo
Ammettiamolo, tanti di noi si sono onestamente domandati – con comprensibile ansia – se sia mai possibile
passare fuori dalla Chiesa per entrare – con il voto popolare – nella stanza di governatore del Lazio, il Lazio di tante cattedrali, di tanti conventi, di tanti pellegrinaggi, di San Pietro, del Vaticano, di Castel Gandolfo, dell’Opus Dei, di quattro università pontificie. Ci siamo detti: ma questa gente di fede e di secolari radici nella religione del Papa potrà, vorrà mai votare Bonino, laica, indipendente, senza connessioni con il sistema ecclesiastico-organizzativo, libera da impegni che non siano di questa terra? Domande infondate, campate in aria. Al fitto brusio di perplessità ha risposto con tempestività e con apprezzabile lealtà il quotidiano Libero. Ha pubblicato un articolo-rivelazione-denuncia sul rapporto tra Emma Bonino e l’aborto.
Qui, però, si può usare la frase tipica di tante commedie: questo scoop non è quello che sembra. Non riguarda la santità della vita, ma la sanità come industria. Riguarda le cliniche e il controllo dei bilanci, la nomina dei primari, l’origine delle forniture mediche, dei servizi. Un affare immenso, altro che i bambini mai nati. Come molti lettori immaginano non c’è stato bisogno di una talpa per arrivare a questa constatazione.
È lo stesso quotidiano Libero a chiarire il senso di questa storia (e di queste elezioni) con quel tipo di aperta ma anche apprezzabile sfacciataggine (basta con i dietrismi!) che è ormai tipica di quest’ultima epoca berlusconiana. Libero, infatti, è il giornale di Angelucci, il re delle cliniche e della sanità nel Lazio; non solo nel Lazio, come ci dicono le cronache giudiziarie. Ma il centro strategico è qui. Si può tollerare l’incursione Bonino?
No, la Bonino non va bene. Non perché estranea alla fede, non perché si è occupata di aborto, ma perché non sembra incline a lasciarsi distrarre dai conti e dalla missione della sanità, che in Italia è pubblica. Lo sa anche Libero. Quando scatena la campagna sul legame diabolico tra Bonino e l’aborto, non sta parlando di morale cristiana. Sta dicendo: “Signori e monsignori, attenti al volume di affari”.
Hanno capito in fretta. Il pericolo non è la Bonino che viene avanti con la tenebrosa sinistra e forse il diavolo. Il pericolo è la Bonino stessa, che ha la sgradevole abitudine di leggere bilanci e contratti ad alta voce. E – con il suo ostinato laicismo – non solo ferisce le migliori tradizioni di fede dei credenti, ma scoperchia i benevoli spostamenti dall’interesse pubblico a quello privato (religioso e laico). E coltiva l’arcaica mania che i soldi pubblici debbano servire a fini pubblici, perciò ai cittadini, se possibile senza sprechi. Un pericolo non da poco. Ed ecco perché sto parlando del Lazio anche ai lettori che vivono lontani da questa regione. L’offensiva di Libero contro Bonino rivela ben altro che una inchiesta sull’impegno della Bonino in favore della libertà di scelta delle donne. Un impegno che è il suo marchio di fabbrica da sempre. Vediamo.
Primo. Il federalismo caro alla Lega, è una replica dello statalismo centrale nella sua versione peggiore: tutti a tavola. Ovvero tutti coloro che – non sempre per buone ragioni – hanno accesso alla tavola. Chi può decide. Chi ha i voti si spartisce i privilegi e le nomine.
Secondo. Come in un cannocchiale rovesciato i cittadini di colpo si trovano più lontani e non più vicini ai centri di decisione dei governi regionali. L’Italia continua a vivere nella percezione – fortemente sostenuta dai programmi politici della tv – che tutto ciò che conta si svolga a Roma. A volte solo l’arrivo dei giudici accende i riflettori su gravi realtà e illegalità locali. Ma anche questi fatti vengono commentati e capiti in relazione al danno o vantaggio dei partiti nazionali di maggioranza o opposizione in Parlamento e nel paese, non sul luogo. E senza mai calcolare il danno per i cittadini, sudditi di ogni singolo decisione locale.
Terzo. Iniziative di governo regionale arbitrarie e inspiegate – come l’improvvisa chiusura e smantellamento di un grande, ben funzionante ospedale romano (l’unico del vasto centro storico, il San Giacomo) poteva avvenire solo a opera di un’istituzione che può prendere decisioni gravissime senza rendere conto, senza dibattito e senza notizie. Il vero punto critico del centrosinistra nel Lazio non è il dramma triste e personale di Marrazzo. E’ la distruzione senza ragioni conosciute di un grande centro sanitario in zona strategica. Non c’è stata risposta alle domande pressanti di medici e cittadini. Ma la ragione non può che essere nell’ombra che copre i passaggi in cui il “pubblico” devolve le sue risorse al “privato”. Sono cose che, nel federalismo mutilato nel quale viviamo non si devono discutere con nessuno. Sotto gli occhi di tutti rimane il valore di un immenso immobile vuoto.
Un altro grande centro di eccellenza medica di Roma, il Santa Lucia, stava per essere liquidato, benché indispensabile.
Una vera rivolta popolare lo ha impedito. Ma ci riporta alle domande fondamentali: perché? E come mai i governi regionali possono – più di ogni altra burocrazia politica – operare nel buio, intendersi (o prendere ordini) da chi vogliono e rifiutare spiegazioni?
Quarto. L’allarme Bonino si spiega così: come tollerare la mania, mostrata per decenni da questa radicale di rendere conto in pubblico (la famosa accountability americana)? E se lo fa davvero?
Non è la fede o mancanza di fede. Non è il dramma dell’aborto a preoccupare. E’ la fine del silenzio. Negli scambi discreti richiesti dal privato, o imposti, se necessario, con tempestive, umilianti, vendette.
Naturalmente questo discorso vale per molte altre situazioni regionali in Italia. Ma qui stiamo parlando del Lazio.
Credo che sia chiaro a tutti che il violento attacco contro Emma Bonino non è di natura teologica.
Repubblica Roma 24.1.10
Regionali, Bonino lancia la sfida
Nascono gli "Emma club"
Ma nel Pd è scontro sulla nomina di Milana coordinatore
di Chiara Righetti
"Diamo aria alla campagna elettorale". Pd diviso su Milana coordinatore
Primo bagno di folla per Emma Bonino che ieri, con Nicola Zingaretti, ha fatto visita ai mercati rionali di Casal de´ Pazzi e villa Gordiani. Oggi la candidata del centrosinistra, che ha lanciato gli "Emma club per Bonino presidente", sarà al circolo Pd di via dei Giubbonari. Polemiche intanto sui saluti romani che hanno aperto la convention per Renata Polverini della Destra di Storace. Francesco Carducci, segretario dell´Udc romana: «Non abbiamo siglato nessun accordo col centrodestra, solo un´intesa con Renata Polverini sui temi di governo».
«C´avete portato la magica Bonino». «Emma, ce l´hai ‘n par de piotte?». Il primo tour elettorale della candidata del centrosinistra ha un sapore informale, come piace a lei: «Bisogna dare aria a questa campagna, galvanizzare chi non fa politica, magari con dei "club per Emma presidente". Ognuno sia protagonista, la tecnologia lo consente». Al mercato di Casal de´ Pazzi c´è folla, un megafono che passa di mano in mano, Zingaretti e Mazzoli che distribuiscono volantini. Arrivata in taxi, la Bonino sorride, stringe mani, si presenta con semplicità: «Ciao, io sono Emma». La gente fa la fila per salutare: «A me non me piacciono destra né sinistra, ma lei è una brava persona». Lei ascolta senza scomporsi, anche il macellaio che grida: «C´ha le cosiddette, pure se è donna». C´è chi le racconta del figlio disabile, chi confida: «Me la ricordo ai tempi del divorzio, ero con lei a un corteo». Tra un banco e l´altro Bonino trova il tempo per un comizio improvvisato: «Il programma sarà pronto a breve, su 3-4 nodi: sanità, infrastrutture, rifiuti». Ciò che preme ai cittadini «sono i temi sociali, il lavoro. Temi cui una buona amministrazione può dare risposte, con un´attenzione ai più deboli».
Oggi Emma sarà a Porta Portese, poi al circolo Pd di via dei Giubbonari. Prenderanno il via domani i lavori nella sede del comitato elettorale, a Trastevere. Ma intanto nel Pd non si placa la guerra sul coordinatore della campagna elettorale. Ieri pomeriggio, su indicazione del segretario Mazzoli, i radicali hanno ufficializzato la nomina di Riccardo Milana, con Rita Bernardini in un ruolo di collegamento. Ma la scelta dell´asse bersaniani-popolari di forzare la mano, senza una riunione (Mazzoli nel pomeriggio era a Viterbo), sul nome del coordinatore romano suscita una ridda di proteste. Ad aprirle il franceschiniano Morassut, che parla di nomina «sbagliata, espressione di un equilibrio attento solo ai posti». E di un partito «senza una guida» in cui il problema «è diventato costruire le condizioni per una buonuscita del segretario di Roma». Poco dopo anche l´area Marino in una nota esprime «contrarietà» per una «forzatura inspiegabile». E se il capogruppo in Campidoglio Marroni augura a Milana buon lavoro, viene subito smentito da un nutrito gruppo di consiglieri (Masini, Valeriani, Nanni, Panecaldo, Stampete): «Marroni sbaglia parlando a nome di tutti». In campo anche l´assessore regionale Mario Di Carlo, che con Foschi e D´Amato chiede che sia convocata d´urgenza la direzione del partito per fare chiarezza.
Repubblica Roma 24.1.10
Il presidente della Provincia accompagna la candidata del centrosinistra nel primo giorno del tour elettorale: è la persona giusta per un progetto trasparente
Zingaretti: "Con lei il Lazio può spiccare il volo"
di Anna Rita Cillis
In macchina dal mercato rionale di Casal de´ Pazzi, sulla Tiburtina, a quello di viale Venezia Giulia, a villa Gordiani, sulla Prenestina con lui alla guida della sua monovolume e lei seduta affianco. Emma Bonino, la candidata Pd alle elezioni per la presidenza della Regione, e il presidente della Provincia, insieme per la prima giornata tra la folla della vice presidente del Senato. Una «scelta» quella di candidare Bonino che il presidente della Provincia non solo condivide ma appoggia pienamente: «È la persona giusta - dice - è una seria amministratrice, quello di cui il Lazio ha bisogno anche per proseguire il lavoro avviato in questi anni. Una donna capace di dare risalto a valori di carattere generale. In questo momento la Regione ha bisogno di lei perché sono convinto che è in grado di garantire un progetto di governo trasparente. Bonino rappresenta un salto di qualità per la politica, locale e non».
Un sabato mattina tra la gente a stringere mani, a raccontare come questa regione potrebbe trarre vantaggio da una presidente come Bonino, ad ascoltare cosa pensano i romani di cosa hanno bisogno cosa vorrebbero dal governo regionale. E nel "giorno di Emma" lui è lì accanto convinto che tutti debbano puntare alla sua elezione «perché si sta correndo il serio rischio di ritornare a una cultura di governo che soffochi di nuovo il Lazio come è successo alcuni anni fa».
E va oltre il credo politico il presidente dalle Provincia quando afferma con totale convinzione che «la campagna elettorale di Emma Bonino non coinvolgerà solo chi guida la coalizione del centrosinistra». Per Zingaretti, infatti, lei è l´unica, in questo momento con l´attitudine a "tirar dentro" cittadini con credo e diversi e orientamenti politici diversi. Lei, dunque, la figura del futuro.
Un futuro vincente non per un partito ma per le persone «dove dar spazio alla sostanza, al lavoro svolto, alla trasparenza del proprio operato»: un nodo centrale, quest´ultimo, su cui Zingaretti punta molto. Secondo il presidente della Provincia di Roma, infine «più Emma Bonino si fa conoscere e più cresce l´entusiasmo. Il mio augurio è che tutti possano dare il proprio contributo per farla vincere, che nascano comitati, club che appoggino la sua candidatura». Con lei, per Zingaretti «il Lazio può spiccare il volo».
l’Unità 24.1.10
Una pandemia psichiatrica
risponde Luigi Cancrini
Negli Stati Uniti in soli dieci anni il numero di ragazzi affetti da disturbo bipolare si è moltiplicato di 40 volte. Le vittime sono soprattutto i bambini tra i 2 e i 5 anni e nella metà dei casi viene prescritto un antipsicotico come Zyprexa, Seroquel o Risperdal: che di bambini ne hanno già uccisi 45.
Davis Fiore
RISPOSTA Molti sono gli psichiatri oggi che diagnosticano il disturbo bipolare a persone che incautamente riferiscono di avere dei giorni buoni e dei giorni meno buoni. Generosamente il disturbo bipolare viene ipotizzato del resto anche alle persone che stanno male e piangono perché hanno perso un gatto o un nonno, un padre o un figlio, un lavoro o un amore ed a cui sempre più spesso si prescrivono gli antidepressivi (bisognerebbe altrimenti parlare con loro), gli stabilizzatori dell’umore (potrebbero ricadere) e un po’ di antipsicotici (per evitare che diventino troppo allegri dopo dimenticando). Epigoni moderni dei cacciatori di streghe al tempo dell’Inquisizione, vanno per il mondo di oggi gli psichiatri “biologici”, dunque, cercando quelli che nel loro delirio sono “bipolari”. Sapendo che per trovarli è sufficiente non collegare tristezza e allegria ai fatti della vita e sapendo che chi ne trova di più riceve più regali dall’industria farmaceutica, va a più congressi e fa più carriera. Evitando, per sé, la fatica e il dolore del confronto con il dolore dell’altro. Di cui nessuno ha insegnato loro a non avere paura.
Repubblica 24.1.10
Il Pd, un partito senza fissa dimora
di Ilvo Diamanti
Il clima d´opinione è grigio. Economia e lavoro. Politica. Anche la fiducia nel premier e nel governo, passata la benefica onda emotiva prodotta dall´aggressione a Milano, un mese fa, si è ripiegata.
Senza, peraltro, che l´opposizione ne abbia tratto vantaggio. Il Partito Democratico, in particolare. Nelle stime elettorali naviga intorno al 30%. Un po´ sotto, per la verità. È sceso, rispetto a qualche mese fa. L´elezione di Bersani l´aveva rafforzato. Ragionevole e competente, guardato con simpatia anche dagli elettori di centrodestra. Poi, la sospensione delle ostilità interne: non c´erano più abituati gli elettori del Pd. Così la nave del Pd aveva ripreso il suo viaggio.
Oggi, all´avvio della campagna che conduce alle elezioni regionali di fine marzo, sembra essersi incagliata di nuovo. Senza una rotta. Senza una bussola. Le stesse primarie per scegliere i candidati stanno frenando il Pd. Ciò è significativo, visto che le primarie sono, al tempo stesso, «mito e rito fondativo» (la formula è di Arturo Parisi) del Partito Unitario di Centrosinistra. L´Ulivo di Prodi, dapprima, e, quindi, il Partito Democratico di Veltroni. Diversi modelli di un comune progetto politico e istituzionale: maggioritario e bipolare. La risposta di centrosinistra al modello imposto da Berlusconi.
Oggi le primarie sembrano, invece, un´arena dove regolare i conflitti interni al partito e alla coalizione. Perlopiù, un ostacolo di fronte ai disegni del gruppo dirigente del partito. D´altronde, è difficile ricorrere alle primarie se si privilegia l´alleanza con l´Udc. Che ha fatto del proporzionale una ragione di vita. E che, comunque, non avrebbe una base elettorale adeguata a imporre i propri candidati in una consultazione popolare. Più in generale, è arduo cogliere una strategia coerente nelle scelte del Pd, in questa fase. Quasi dovunque il partito appare diviso. In contrasto al proprio interno e con i dirigenti centrali. Spesso incapace di decidere. Nel Lazio si è piegato - senza discussioni - all´autocandidatura della Bonino. Non proprio in accordo con l´intenzione di accostarsi alle componenti cattoliche moderate e all´Udc. In Puglia, invece, oggi le primarie celebrano lo scontro - più che il confronto - tra Vendola e Boccia (trainato da D´Alema). Divisi su molti temi. Non ultimo l´intesa con l´Udc. Anche a Venezia la scelta del candidato sindaco avviene in un clima acceso. Da vicende personali e dalla questione del rapporto con i moderati. Insomma, le primarie, invece di mobilitare e unificare gli elettori del Pd e del centrosinistra intorno alla ricerca di un candidato comune, si stanno trasformando in una resa dei conti.
Il Pd nazionale non sembra, peraltro, capace di regolare le scelte assunte in ambito regionale. Semmai, le complica ulteriormente. Somma le proprie divisioni a quelle locali. Rischia, così, di affermarsi un "modello balcanizzato", come l´ha definito Edmondo Berselli. Ciò avviene perché il Pd resta sospeso in una zona d´ombra. A metà fra la tentazione - implicita e inconfessa - di rifare il "partito di massa" fondato sulle appartenenze e sull´apparato. E l´imperativo - esplicito - di costruire il "partito dei cittadini", maggioritario e bipolare. Il percorso congressuale ha accentuato questa incertezza. Dapprima, la lunga sequenza dei congressi a livello territoriale ha mimato il "partito di iscritti". Le primarie, poi, hanno evocato il modello americano, che coinvolge elettori e simpatizzanti. Bersani è stato eletto da entrambi i modelli di partito. Avrebbe potuto, sfruttando la legittimazione conquistata, imprimere una svolta chiara al Pd. Indicare un progetto, definire un programma, con obiettivi chiari. Ai "suoi" elettori, anzitutto. Fin qui non l´ha fatto. Anche se continua a riscuotere ampia fiducia personale, mentre il Pd perde consensi. Una contraddizione significativa. Riflesso dell´incerta identità del Pd, ma anche di una leadership personale ancora incompiuta. Bersani, infatti, è simpatico a molti, non solo a sinistra, anche perché le sue parole non fanno male. Non segnano confini netti. Non marcano appartenenze né differenze chiare. Nello stesso Pd, dove emergono posizioni diverse e talora contraddittorie, ad esempio: sui temi della giustizia e dell´immunità. E ciò lascia trapelare il dubbio che le decisioni importanti vengano prese altrove, da altri. I soliti noti. Magari è una scelta meditata. Ha deciso di non decidere, di lasciare in sospeso le scelte strategiche, in vista di tempi migliori. Per non tradurre le divisioni interne in fratture. Ma allora meglio dirlo apertamente, per non passare da debole. In-deciso.
Insomma, il Pd oggi è un partito in grado di aggregare il 30% dei voti. Ma non dà speranza. Gli riesce difficile allargare i propri consensi. (E perfino tenere quelli che ha). Da solo ma anche attraverso alleanze. Perché non dice chi è, cosa intende fare e insieme a chi. È un ibrido. Forse: un equivoco. Un partito di massa senza apparato, con una debole presenza nella società e un ceto politico resistente. Al centro e in periferia. Un partito americano provincialista. Senza territorio ma condizionato dalle oligarchie locali.
Un partito americano all´italiana.
Parla un linguaggio difficile da capire. Anche perché non ha un vocabolario e neppure un sillabario. Non sa gridare uno slogan che risuoni forte nell´aria. Non ha una bandiera riconoscibile, dai sostenitori e dagli avversari. Le parole che usa hanno perso il significato di un tempo. Come il "riformismo". Oggi che le riforme le vogliono tutti. A partire dal premier e dal centrodestra, che pensano alla giustizia, al "legittimo impedimento" e al presidenzialismo. Il Pd: quali riforme vuole? E quali "non" vuole? Detti la sua agenda. Dica due o tre cose "memorabili". Che restino nella memoria.
Le primarie che si svolgono a partire da oggi e le elezioni di marzo, per il Pd, sono un´occasione importante. Importantissima. Da non perdere. Per non perdersi definitivamente. Ma chi lo guida deve tracciare un orizzonte. Che vada oltre i prossimi tre mesi. Per non rischiare che il Pd venga percepito come un partito provvisorio. Soprattutto dai suoi elettori.
Repubblica 24.1.10
E le torri crollano dalla vergogna
In altri tempi sarebbe già partita la richiesta di dimissioni, ma i dirigenti non hanno il controllo del partito
Bologna, la crisi sotto le Due Torri e sfuma la moralità emiliana del Pci
di Edmondo Berselli
Si sapeva della propensione irrefrenabile per l´altro sesso dell´economista
Tra i cittadini c´è un senso di scoraggiamento, come di qualcosa di irrimediabile
Prima di analizzare la contorta vicenda di Flavio Delbono sarà meglio capire chi è e che cos´è il sindaco di Bologna. Subito dopo la Liberazione, Giuseppe Dozza si toglieva il cappello di fronte a tutti i concittadini che incontrava.
Era il sindaco «di tutti» a cui si ispirò Giorgio Guazzaloca lanciando la propria candidatura «a 360 gradi», seppure di destra tradizionalista. Dopo di lui, rimangono nella memoria i sindaci «storici», come Guido Fanti e Renato Zangheri, sindaci eterni, immutabili perfino nella fisionomia, a cui non si può ricondurre nessuna caratteristica che non sia il comunismo. Era il comunismo emiliano. Un pragmatismo senza pari nel rapporto con l´economia e un´ortodossia studiatissima e prudentissima sul piano ideologico. Il tutto mediato da facce di legno che rendevano immutabili volti e corpi, e rendevano perfettamente credibili quei volti immobili come depositi di moralità socialista, credibili per sempre e per tutti. Così quando arrivò Sergio Cofferati, fu fin troppo facile scherzare sul Cinese («è come comprare i tortellini in Svezia» disse Luca Cordero di Montezemolo»), ma l´aspetto principale fu che Cofferati fece una campagna a tappeto, dalle polisportive ai partigiani e alle associazioni di donne, accompagnato dalla moglie, rapidamente liquidata per stanchezza matrimoniale dopo la facile vittoria elettorale.
E poi, evviva. Si era mai visto un sindaco con una compagna, Raffaella Rocca, di venticinque anni più giovane? In una città non morale, figurarsi, ma certamente moralista? Bastava attendere il successivo turno elettorale, con tanto di primarie, per essere soddisfatti: ecco a voi Flavio Delbono, giovane, prodiano, di sinistra ma non comunista, noto a tutte le istituzioni pubbliche che ha frequentato per la sua propensione irrefrenabile per l´altro sesso.
Tanto che quando si comincia a parlare del suo passaggio dalla vicepresidenza della Regione alla poltrona di Palazzo D´Accursio, qualcuno storce il naso con l´ambiente di Romano Prodi: «Non è che gli piacciono troppo le donne?». Ma dai, che cosa vuoi che sia, rispondono dal Pd, dove non ci sono candidati alternativi. Inoltre lo qualificano come cattolico, viene dalla Margherita, sembra avere tutti i requisiti in regola per la moralità prodiana. Per la verità, Delbono convive con una signora bene, Cinzia Cracchi, elegante sul genere Prada, occhiali sempre vistosi, pantaloni alla grande. Ma per giungere a questo legame informale, Delbono ha dovuto lasciare la prima e la seconda moglie (quest´ultima mentre era incinta, dice il gossip bolognese). E poi, mentre era in Regione, darsi a una vita goliardica, fatta di assunzioni clientelari (diciamo così) e di viaggi più o meno di lavoro, in Messico, a Santo Domingo. A cui si aggiunge una incomprensibile storia di bancomat, di auto blu, e piccole spese sulla carta di credito della Regione, che Delbono ieri ha cercato di spiegare al procuratore Morena Piazzi in un lungo colloquio (mentre Delbono si dice in grado di spiegare tutto, il procuratore continua a contestargli il reato di truffa aggravata).
In un altro momento, e in un´altra situazione politica, a Delbono avrebbero già chiesto (e da lui ottenuto) le dimissioni. Figurarsi: Bologna, ovvero la capitale della questione morale. La città dove Pertini tenne stretta la mano a Zangheri dopo la strage del 2 agosto 1980. Ma non solo: Bologna come simbolo assoluto della moralità comunista e del suo modello alternativo rispetto al malgoverno romano. Oggi questo simbolo cade mediocremente e forse tragicamente per alcune storielle prive di peso ma drammaticamente importanti perché coinvolgono la psicologia dei cittadini e la loro identità. Perché sono le due Torri a crollare, il profilo della città, il senso di una diversità su cui si è formata l´immagine di Bologna.
A parlare con i cittadini di Bologna si avverte un senso di scoraggiamento, come se fosse avvenuto qualcosa di irrimediabile, ma anche di prevedibile. Stiamo tornando nella normalità, sembrano dire i mugugni della gente di fronte alle domande sul caso Delbono. Anzi, ai tentativi di domanda. Gianfranco Pasquino, politologo, che si candidò alle primarie facendo perdere a Delbono quel due per cento virgola qualcosa che impedì al primo competitore e vincitore designato Flavio Delbono di vincere al primo turno, scrive in questi giorni che chi ha responsabilità pubbliche deve essere il più trasparente possibile, portatore di etica. Non è neppure una vendetta. E semplicemente la dimostrazione che il Pd, erede del Pci, non è mai stato in grado di autogestirsi.
Il vecchio Pci era un blocco di potere che non permetteva a nessuno di trovare strade diverse o alternative. Nel Pd invece ci sono numerosi nuclei che tentano di gestire il potere a loro volta. Sarà un vantaggio perché ciò significa la fine dello stalinismo, ma è uno svantaggio perché questo rappresenta la perdita di controllo dei dirigenti sul partito. Segretari di sezione, di federazione o di qualsiasi cosa imperversano sui quotidiani, senza che il loro ruolo sia mai stato chiarito. Basta leggere le cronache locali per osservare il calvario per tutto ciò che rappresenta la scelta delle candidature alle regionali. Ma soprattutto per avere la sensazione di una netta distanza fra la città e la sua nuova classe politica. Nei salotti, intanto, la borghesia bolognese ridacchia sulle ultime tragedie della sinistra. Un ceto che aveva sempre scelto la sinistra per opportunismo e per abitudine si trova a sghignazzare grazie ai regali di una classe dirigente malcresciuta.
C´era l´abitudine, in tempi elettorali, di ritrovarsi nelle migliori case di Bologna, in compagnia di Andreatta, Prodi e un po´ di supermanager (Gnudi, Clò). Era il luogo in cui si formavano le opinioni; si discutevano i problemi del paese, si generavano amicizie. Adesso anche quella Bologna tace. Si è indebolita come il Partito democratico. Dovrà trovare un nuovo referente politico. Ma per Bologna, la grassa eccetera, dov´è il partito nuovo capace di sostituire le parole, e soprattutto i silenzi e l´etica, di quel partito che veniva da lontano?
il Fatto 24.1.10
Bologna-Gate, un po’ di decoro
di Silvia Truzzi
Nell’età di Internet, può succedere che qualche volta le notizie le dia ancora la radio. E così è stato per l’alba del sex gate bolognese, dove il ragù è a base di amori svaniti, potere, soldi e rancore: ricetta vecchia, solito – cattivo – retrogusto. Tutto iniziò quando Alfredo Cazzola (con la consueta classe e i modi da Lord) ai microfoni di Città del Capo, emittente di resistenza locale, durante un faccia a faccia prima del ballottaggio per le comunali disse: “Le porto i saluti della signora Cinzia, la sua ex compagna che ha molte cose da dire sulla sua moralità”. La signora Cinzia fu convocata in procura, dove si presentò abbigliata come se dovesse andare a un matrimonio, fasciata in un vestito di seta color glicine, décolleté in vista, tacchi alti e tutto quanto. Flash, fotografi e dichiarazioni. Delbono fu eletto, la procura chiese l’archiviazione e non ci fece una gran bella figura. Finché il gip si fece venire dei dubbi e decise che era meglio darci una guardatina.
Difficile sapere come andrà a finire la vicenda giudiziaria, come prefigurare scenari politici. Ma si saprà molto poco. Quel che invece già si può dire è che un po’ di riservatezza non avrebbe guastato affatto. Il che naturalmente non significa che la ex aspirante first lady si doveva tenere per sé le accuse e i sospetti, anche se gli scrupoli morali sembrerebbero essere arrivati dopo la fine della storia d’amore. Il che più che con l’etica c’entra con la vendetta. Tutto è lecito in amore e in guerra è una stupidaggine. Ma è legittimo sentirsi defraudati, quando si viene lasciati? Sì e no: i sentimenti possono cambiare nel giro di cinque minuti, contro questo non si può combattere. Si accetta, con l’amore, il rischio della fine e del dolore. Però è umana la rivolta contro l’abbandono, il tentativo di lottare, forse anche di reagire scompostamente, come Cinzia: “Se Flavio dovrà dimettersi, non sarà la fine del mondo. Uno come lui, cadrà sempre in piedi. Tutti sono solidali con lui, tutti lo proteggono. Se si dimette, vuol dire che pagherà le conseguenze delle sue azioni”. La frase può essere letta in due modi: se ha commesso reati, dovrà risponderne, come cittadino e soprattutto come amministratore. Oppure: mi hai fatto male, ora tocca a te. E infatti la signora sembra aver fatto il giro delle sette chiese (mica per niente sono a Bologna) per svergognare l’ex innamorato. Consiglieri comunali, amici, avversari politici. Finché ha incontrato Cazzola, e il resto è storia. Una storia che ha portato ieri Mario Giordano a scrivere su Libero, sotto un titolo che recitava “Il bordello della sinistra”: Flavio Delbono, che si presentava come un mite professore di Economia, un Prodi minore, in realtà è un casanova con il tortellino impazzito (la metafora culinaria impazza). Chi poteva, avrebbe potuto risparmiarci questo spettacolo. È una brutta pagina della storia di Bologna – che sarà anche “una strana signora, volgare e matrona” – però a questo non ci era abituata. Si possono fare le cose senza urlare, con il sentimento di quello che può accadere a un’intera comunità di persone e non solo a sé. Si può fare la beneficenza anonima e la “maleficenza” in silenzio. I giudici avrebbero ascoltato la signora, anche senza tutto questo circo. Che purtroppo non restituirà alla signora né il suo amore, né l’orgoglio ferito.
Repubblica 24.1.10
Ritorno a Fossoli stazione per l'inferno
di Tahar Ben Jelloun
Carpi, una delle più graziose cittadine dell´Italia settentrionale, cinquantotto chilometri da Bologna, non va confusa con Capri. Un gruppo di turisti americani vi si è ritrovato qualche mese fa, e si è chiesto per quale motivo il mare non si vedesse. Carpi ha sessantamila abitanti, più di diecimila dei quali immigrati in buona parte da Pakistan, Marocco e Cina e al lavoro nei campi e nell´industria dell´abbigliamento. È una cittadina tranquilla che va fiera della propria piazza, la più grande in Europa: si chiama piazza dei Martiri in memoria di sedici partigiani, i cui cadaveri furono esposti per tre giorni dai soldati fascisti nell´agosto 1944. Carpi, da sempre di sinistra, conserva una buona qualità della vita. Ma questa città che a fine Ottocento contava oltre cinquemila ebrei oggi se ne ritrova soltanto sette, un numero insufficiente per aprire una sinagoga. Gli ebrei di Carpi erano andati incontro a persecuzioni tra il 1290 e il 1294, ma soltanto nel 1719 il ghetto fu chiuso e ricevettero l´autorizzazione a costruirsi un luogo di culto.
Ciò non rese loro in ogni caso la vita facile. Se ne andarono: nel 1898 a Carpi erano rimasti non più di trenta ebrei, e ciò portò alla chiusura della sinagoga nel 1922. Quando nel 1938 furono promulgate le leggi razziali - sulla falsariga delle leggi tedesche del 1935 - gli ebrei italiani furono presi apertamente di mira. Formavano l´élite intellettuale, appartenevamo alla borghesia o a una classe media molto agiata. Per loro quelle leggi furono veramente inimmaginabili. Non pensavano affatto che un giorno sarebbero stati discriminati nel loro stesso Paese, scacciati dalle scuole, esclusi dai mezzi pubblici, umiliati pubblicamente dai fascisti. Attesero il peggio e il peggio arrivò. Il premio Nobel per la medicina del 1986 Rita Levi Montalcini, oggi centenaria, nel 1938 era scappata in Belgio. Il governo di Mussolini aprì alcuni campi di concentramento per ammassarvi l´opposizione politica da una parte e gli ebrei dall´altra.
Ciò accadde proprio nei dintorni di Carpi, per la precisione a Fossoli, in aperta campagna. Agli ebrei furono destinate otto baracche, nelle quali furono rinchiuse intere famiglie. In ogni camerata c´erano tra le centocinquanta e le centosessanta persone. Le condizioni di detenzione erano «più o meno corrette» - raccontano oggi alcuni dei sopravvissuti -, soprattutto se paragonate a quelle che avrebbero vissuto a Auschwitz o a Bergen-Belsen, dove il novantadue per cento dei prigionieri fu sterminato dai nazisti. Gli oppositori politici furono spediti a Mauthausen, in Austria.
Primo Levi fu arrestato per motivi politici il 13 dicembre 1943 in Val d´Aosta, ma nel suo interrogatorio confessò di essere anche ebreo. Fu spedito immediatamente nel campo di Fossoli dove rimase un mese nelle baracche riservate agli ebrei, per la precisione nella sesta. Poi, il 22 febbraio 1944, fu deportato ad Auschwitz. Nel suo libro Se questo è un uomo parla poco di Fossoli: «Ci caricarono sui torpedoni, e ci portarono alla stazione di Carpi. Qui ci attendeva il treno e la scorta per il viaggio. Qui ricevemmo i primi colpi e la cosa fu così nuova e insensata che non provammo dolore, nel corpo né nell´anima. Soltanto uno stupore profondo: come si può percuotere un uomo senza collera?».
La discrezione e il coraggio di Levi furono notati dai suoi compatrioti, come testimoniamo alcuni sopravvissuti. Egli aveva assistito all´esecuzione di donne incinte e di anziani, perché in attesa della morte in ogni caso certa non erano risultati adatti a lavorare nei campi. Quell´uomo ferito così profondamente si convinse che le parole non potessero bastare a reggere il peso di una simile tragedia.
Il 12 luglio 1944 i nazisti uccisero nel campo di Fossoli settanta antifascisti, i cui nomi sono scritti sulle pareti del museo di Carpi. Il campo di Fossoli è diventato oggi un luogo della memoria. È visitato dalle scolaresche (fino a quarantamila studenti ogni anno), da stranieri, da storici, dai familiari di chi vi perse la vita. Una mostra permanente ricorda che cosa fu quel luogo, cosa fu quell´epoca. È interessante vedere il primo numero della rivista fascista La difesa della razza, datato agosto 1938, un mese prima che entrassero in vigore le leggi razziali. Foto, testimonianze, disegni, modellini, tutto ciò che serve a rendere l´idea di quello che accadde in quegli anni disgraziati è lì esposto.
La sinagoga principale, situata all´angolo tra la piazza dei Martiri e via Giulio Rovighi, è vuota. Funge da ufficio per la Fondazione dell´ex-campo di Fossoli. Più lontano, il museo della memoria è situato di fronte alla più vecchia chiesa di Carpi, Santa Maria del Castello detta la Sagra. Sulle sue pareti sono incisi migliaia di nomi. Vi sono delle voci registrate, dei disegni su pietra, uno dei quali di Picasso, e un muro dipinto da Guttuso in ricordo delle Fosse Ardeatine, l´esecuzione di 335 civili nella rappresaglia per l´attentato del 23 marzo 1944 a Roma nel quale erano stati uccisi trentatré tedeschi.
Le pareti del museo sono interamente ricoperte di brani di lettere scritte dai deportati: «Le porte si aprono… ed ecco i nostri assassini. Sono vestiti di nero. Le loro mani sporche indossano guanti bianchi» (Esther); «Io muoio, ma vivrò» (Alekscin); «Se tu avessi visto, come io ho visto in questa prigione, ciò che fanno patire agli ebrei, rimpiangeresti di non averne salvati in numero maggiore» (Odoardo); «Sono fiero di meritare questa pena» (Pierre); «Che cosa può fare un uomo che si trova in prigione e che è minacciato di morte sicura? Eppure mi temono» (Sawa); «La mia bocca vi porterà sulle labbra mute» (Emile).
E così Carpi mantiene viva la memoria delle vittime del fascismo e del nazismo. I suoi abitanti amano altresì ricordare che è una regione ricca, che non ha mai votato a destra e che coltiva le sue tradizioni culinarie, famose per il parmigiano e l´aceto balsamico. C´è un centro culturale molto attivo, e ogni anno si organizza un grande festival letterario, la Festa del racconto. Alcuni ricordano con umorismo che i genitori dell´attore americano Ernest Borgnine sono di Carpi. Dicono: «Carpi ha regalato al cinema il più celebre interprete di ruoli secondari, spesso cattivo e crudele. Ma Ernesto Bordino (il suo vero nome) è un uomo così affascinante!».
Traduzione di Anna Bissanti
l’Unità 24.1.10
Intervista con l’autrice di «Quando Nina Simone ha smesso di cantare»
«Il dramma femminile è l’assumere su di sé il giudizio maschile»
Darina Al Joundi: “Io, donna araba, mi appartengo”
di Monica Capuani
Quarant’anni e tante vite diverse vissute insieme. Dalla Siria, a Beirut a Parigi passando per un’esperienza di reclusione in manicomio. Fino al successo in Francia. E tutto nasce nella polveriera tragica del Medioriente
Ci sono donne che a quarant’anni hanno già vissuto diecimila vite. Per intensità, dolore, capacità di ribaltare situazioni. Darina Al Joundi, quelle diecimila vite le porta scritte negli occhi fondi e scuri come le foglie dei cedri che nel suo Libano non ci sono più. E nel corpo minuto,
vibrante ed energico, che muove sulla scena come unico e imprescindibile strumento per raccontare una storia, la sua, affidata all’inizio all’urgenza di un monologo teatrale che ha toccato in gennaio anche l’Italia. Al Festival di Avignone del 2007, il piccolo spettacolo ha lasciato tutti senza respiro, approdando con successo a Parigi e inanellando innumerevoli date in tutta la Francia e la Svizzera francofona. In seguito, ha preso la forma con la complicità dello scrittore algerino Mohamed Kacimi di un romanzo autobiografico intitolato, come la pièce, Quando Nina Simone ha smesso di cantare. La scrittura di Darina accende un turbinoso caleidoscopio di episodi forti: la nascita in un paese cruciale nella polveriera del Medio Oriente; un padre siriano, esule, intellettuale, maestro di libertà e di visioni idealistiche; una madre emancipata, coraggiosa, ma potenzialmente nemica. E poi la guerra, la gioventù vissuta pericolosamente, la febbre di una sessualità vitalistica, la recitazione come fuga nell’arte, lo stupro, il tradimento degli amici, l’ospedale psichiatrico. E infine, la rinascita.
Ci incontriamo a Parigi al Café La Palette, a Saint-Germain-des-Près. Un luogo in cui il padre di Darina avrebbe passato ore a conversare dei massimi sistemi con i vicini di tavolo, all’ombra delle piante che lo schermano dal via vai dei passanti frettolosi. Darina Al Joundi racconta di sé come un fiume in piena, consumando avidamente una Gitanes dopo l’altra. Partiamo da suo padre, una figura statuaria ma di grande tenerezza. Un uomo libero, fino alle estreme conseguenze.
«Mio padre aveva cinque fratelli, tutti nella sua famiglia avevano una particolare follia e un amore sfrenato per la libertà. Il piccolo villaggio d’origine di mio padre ai margini del deserto in Siria, Salamiyah, è un luogo apertissimo, che ha dato i natali a una quantità incredibile di poeti. La gente comincia a farsi visita alle undici di sera, beve fiumi di arak e fa festa, recita poesie arabe, ascolta molto jazz. Il centro culturale di Salamiyah ha ospitato intellettuali, filosofi, scrittori da tutto il mondo, e la percentuale di analfabeti all’epoca di mio padre era pari a zero. Forse quell’apertura di spirito dipendeva dalla struttura della società e della famiglia ismaelita, al vertice della quale c’è la donna».
Nel libro lei descrive sua madre come una donna indipendente, una giornalista che rischiava la vita in tempo di guerra per far sì che la sua trasmissione radiofonica andasse in onda. «Sì, durante l’invasione israeliana rischiava la vita tutti i giorni per andare alla radio, dove erano rimasti solo in tre a far funzionare le cose. Non ha mai smesso di lavorare e in più ha dovuto crescere tre figlie da sola. Aveva un marito che era in esilio, in prigione o ricercato, e che alla fine rimase vittima di un grave attentato. Mia madre aveva cominciato a lavorare alla fine degli anni Cinquanta, quando non era affatto consueto nel mondo arabo che una donna si guadagnasse da vivere, tanto meno nell’ambiente della carta stampata. Nel ’62 debuttò alla radio nazionale, era la terza donna che riusciva a entrare in un universo esclusivamente maschile e la prima a condurre una trasmissione in diretta. Non ha mai portato il velo, e neanche sua madre. Era una donna di carattere, che ha saputo difendere le sue scelte».
Alla fine del libro però è una madre che sceglie di far rinchiudere sua figlia in manicomio... «Quando mio padre ci ha lasciate, mia madre si è resa conto di quanto potesse pesare il giudizio della società. Lui non c’era più e lei non poteva più godere della libertà che, in realtà, ci aveva sempre garantito mio padre. La gente diceva che sua figlia era completamente deviata e in quel genere di società in cui vivevamo la colpa di una cosa del genere ricade sulla madre. Amici e parenti non facevano altro che dirle di reagire in maniera forte. Aveva perso l’uomo della sua vita e in quella circostanza ha preso la decisione sbagliata. Nessuno ha mosso un dito, nessuno ha cercato di intercedere per me, cercando di farla ragionare quando perse la testa e mi fece rinchiudere in manicomio».
Non era stata sua madre, ma suo padre a spiegarle tutto sulla sessualità e il piacere, quando era ancora giovanissima. «Forse mio padre voleva vedere se era all’altezza della libertà che aveva predicato tutta la vita. Rispetto alla sessualità di una figlia femmina, un uomo dimostra chi è veramente. Era una sfida con se stesso. A volte era difficile per lui digerire le mie scelte, ma cercava di superare se stesso. È grazie a lui se oggi ho un rapporto sano con la mia sessualità. Il problema delle donne è che assumono su di sé il giudizio degli altri, guardano se stesse con gli stessi occhi sprezzanti della gente. Mio padre non ha mai giudicato la mia vita, e gliene sono davvero grata».
Dopo una serie di rapporti infelici con gli uomini, suo padre le ha perfino consigliato di tentare con le donne... «Tirò fuori una lettera che aveva scritto a tredici anni a un suo compagno di classe. La sua prima poesia, l’aveva dedicata a un ragazzo. Mi spiegò che, nei rapporti, niente è una verità rivelata. La cosa fondamentale, diceva, è seguire il proprio desiderio, cercare la propria felicità. A tutti i costi».
Da giovanissima, lei ha trovato un modo ingegnoso di sbarazzarsi del problema ingombrante della verginità... «È un problema universale, in Oriente come in Occidente. L’uomo che ci toglie la verginità esercita inevitabilmente un potere e un’autorità su di noi. E lo sa. Quando quell’uomo ci incontra, anche dopo venticinque anni, ha sempre quel sorrisetto stampato sulla faccia come a lasciar intendere: “Ti ho creata io”. È orribile. Nella pièce dico che per me la verginità è come la valvola di sicurezza nelle con-
fezioni di caffè sottovuoto. Ci ho pensato io a sbarazzarmene, da sola. Se penso che oggi una quantità di ragazze si sottopongono alla chirurgia per farsi ricucire lì sotto, mi vengono i brividi».
La fine del libro segna l’inizio di una nuova esistenza in Francia... «Volevo scrivere una pièce teatrale e mi sono presa la libertà di mescolare pezzi della mia esistenza come in un frullatore. Il cinema mi aveva insegnato l’importanza dei tagli e il valore del montaggio. Quando sono uscita dal manicomio, sono rimasta tre anni in Libano prima di venire in Francia. Ho cominciato a lavorare in tv dove, grazie a una notorietà che risaliva all’infanzia, potevo guadagnare soldi rapidamente e pagare i miei debiti. Prima di trasferirmi qui, ho voluto riconciliarmi con mia madre, sono riuscita a perdonarla. Abbiamo parlato a lungo, le ho chiesto: “Come hai potuto farmi una cosa del genere?”. Lei continuava a ripetere: “La gente diceva che...”. Ha agito confidando sulla malvagità degli altri. Ci sono state discussioni devastanti, in cui abbiamo tirato fuori tutto quello che avevamo dentro, senza risparmiarci nulla. Ma alla fine ne siamo uscite vive».
Nina Simone, alla quale fa omaggio nel titolo del suo libro, cosa rappresenta per lei? «L’ho scoperta grazie a mio padre, che adorava il jazz. Negli anni ho sviluppato con Nina Simone un rapporto fusionale e appassionato. Mi sembrava che la sua interpretazione si accordasse sempre con il mio stato d’animo. Era come se mi parlasse. Quando andai a trovare mio padre a Cipro, dove si era rifugiato, passavamo notti intere a parlare, spostandoci da un bar all’altro, senza mai chiudere occhio. Lui adorava la notte. Quando tornavamo a casa, gli facevo ascoltare le mie canzoni del momento, e c’era sempre un pezzo di Nina Simone. Poi, una sera, sono stata picchiata selvaggiamente in un bar, e in quel momento c’era Nina Simone. Per tre anni non ho più ascoltato musica. Quella sera, Nina Simone ha smesso di cantare».
Oggi lei ha ricominciato a vivere...
«Sì, e sono molto grata. Nel 2001, durante le riprese di un film in Libano, ho incontrato l’uomo della mia vita che ho sposato quest’anno. È regista, produttore, direttore di post-produzione, metà egiziano e metà norvegese. È lui che ha prodotto la pièce insieme a me. Sono andata a presentare il progetto al regista Karim Boutros-Ghali, che poi ha montato lo spettacolo, e lui mi ha chiesto: “Perché lo vuoi fare?”. Gli ho risposto che se non lo avessi scritto forse sarei morta, e che adesso avevo bisogno di dirlo, di gridarlo».
l’Unità 24.1.10
Dolorosi ricordi di migranti
Un doc di Andrea Segre dà voce e corpo alle storie terribili degli immigrati rimandati in Libia
“Come un uomo sulla terra” di Andrea Segre, Dagmawi Yimer e Riccardo Biadene
di Dario Zonta
Del film Come un uomo sulla terra di Andrea Segre, Dagmawi Yimer e Riccardo Biadene, questo giornale ne ha scritto compiutamente al tempo del suo esordio pubblico al festival di Salinas, dove vinse come miglior documentario. Ora, dopo un percorso festivaliero ricco e numerosi riscontri di critica e pubblico, e dopo aver sollevato una discussione «politica» necessaria sulle conseguenze dell’accordo tra Italia e Libia riguardo i flussi migratori, il film si è trasformato in un libro, che contiene il film stesso, di fatto molto poco visto al di là dei circuiti indipendenti. Infinito edizioni (a cura di Marco Carsetti e Alessandrto Triuli) ha mandato alle stampe un operazione meritoria e ancora una volta necessaria, perché muovendo dal film riprende tutti quei fili che hanno permesso il suo farsi, a partire dalle storie dei migranti, testimoni e protagonisti di un attraversamento epico, doloroso e assurdo.
IL PROGETTO SUL CAMPO
Il libro, con la bella copertina del disegnatore Marco Lovisatti, è diviso in tre parti e approfondisce non solo i temi evocati nel film (soprattutto nel secondo capitolo dedicato alle «Memorie e corpi migranti»), ma anche il metodo e il progetto che accoglie un’operazione di siffatta calibratura. Andrea Segre firma insieme ad altri due autori, Riccardo Biadene (autore di documentari e operatore culturale) e Dagmawi Yimer (migrante etiope, diventato regista per necessità di racconto e riscatto), portandoci ancora una volta un esempio comunitario e allargato di fare documentario. Sociologo di formazione, Segre ha caratterizzalo i suoi lavori (Marghera Canale Nord, A sud di Lampedusa) non solo per il verso di un certo impegno civile, dentro le cose del presente con le sue storture e malignità, ma lo ha fatto attivando una rete di collaborazioni e mettendosi in contatto con aree più grandi, ricevendo impulso, forza e creatività. Il suo percorso lo ha portato sempre ha occuparsi di temi urgenti, senza cadere mai nella dittatura del referente e cedere alle molestie del contenuto sociale e civile. Le storie che ha scelto sono il frutto di indagini, conoscenze, vissuti che vengono prima del film e in occasione di progetti strutturati. Questo di Come un uomo sulla terra si ricollega a un progetto che sostanzia il film. Lo ricorda Triulzi nell’introduzione: «L’idea di iniziare a comporre un Archivio delle memorie migranti basato sulle attività didattiche e di cura della persona presso la Scuola di italiano per rifugiati e richiedenti asilo Asinitas di Viale Ostiense a Roma, è nata dall’incontro tra alcuni studiosi di storia dell’Africa coloniale e post coloniale, con esperienze di terreno in Etiopia ed Eritrea, un gruppo di rifugiati provenienti dai Paesi del Corno, e gli operatori della scuola Asinitas». Intrecci di figure diverse in contesti diversi che si uniscono per dar vita a un Archivio della Memoria, di cui il film è una esemplificazione, di grande impatto emotivo e cinematografico.