martedì 26 gennaio 2010

l’Unità 26.1.10
Sondaggio Crespi: Bonino avanti su Polverini: 40-37
È in vantaggio di stretta misura la candidata del centro sinistra, la radicale Emma Bonino su Renata Polverini (Pdl) per la carica di governatore del Lazio. È un sondaggio di Crespi per l’agenzia Omniroma: Bonino 40,5%, Polverini 37%. Molti gli indecisi.

l’Unità 26.1.10
Un altro ricordo
Costa, l’altro socialista
di Vittorio Emiliani

Fu il primo deputato socialista, nel 1882. Eletto mentre era al domicilio coatto, venuto dalla Romagna «a piantare la bandiera rossa su Montecitorio». Uscito dalle file anarchiche dove era emerso ventenne, ancora allievo di Carducci a Bologna, Andrea Costa viene ricordato stamattina alla Camera di cui fu vice-presidente, a cento anni dalla morte. Relatore generale al convegno, Giuseppe Tamburrano. Fu il primo extra o anti-parlamentare a rompere a sinistra – qualcuno disse anche per ispirazione della compagna di allora, la bella e intelligentissima Anna Kuliscioff il tabù delle elezioni e del giuramento di fedeltà al re, fra gli attacchi furenti dei compagni anarchici. Così aprì la strada ad un socialismo che, pur dicendosi ancora rivoluzionario, puntava al riformismo: nei Municipi (da lui definiti «focolari dell’istruzione e della libertà»), nelle cooperative allora fortemente autogestionarie (come la “colonia” ravennate di Ostia Antica), nella stessa Camera. Qui propose o appoggiò tutte le iniziative sociali. Pacifista, anti-colonialista («Né un uomo né un soldo per le guerre coloniali»), nemico della camorra degli appalti e dello sfruttamento del lavoro minorile, a favore della riduzione dell’orario di lavoro. Morì povero com’era vissuto, con allegria vitale, libertario e libertino (ma pagando i conti di tasca sua), il primo deputato poliglotta, divenuto tale in carcere. Impersonava un socialismo acceso di passioni, internazionalista. Comincia con lui una fitta serie di socialisti onesti e rigorosi: Turati, Treves, Prampolini, Matteotti, poi Nenni (sarà ricordato al Senato domani, a trent’anni dalla morte), Morandi, Lombardi, Pertini, Basso, Foa, De Martino, Santi e tanti altri. Da tenere bene a mente quando si associano socialismo e affarismo. ❖

l’Unità 26.1.10
In vista del loro primo sciopero leggiamo cosa succederebbe se tutti incrociassero le braccia
«Blacks out» Il giorno che scomparvero gli immigrati
di Iglaba Scego

Un giornalista d’invenzione, Valentino delle Donne, alle prese con uno scenario immaginario ma mille storie vere. In «Blacks out» badanti, raccoglitori, pastori, manovali immigrati all’improvviso scompaiono dall’Italia.

Valentino delle Donne è un giornalista. Non uno di quelli che contano pieni di soldi e privilegi. È un invisibile, un precario a tempo pieno, in lotta ogni anno con il rinnovo del contratto. Valentino è un satellite a cui raramente il grande capo del giornale rivolge la parola. Ma il 20 Marzo non è una giornata come le altre. Valentino viene convocato d’urgenza, deve precipitarsi dai suoi capi. Nel corridoio che lo separa dal gotha del giornale Valentino si chiede se ha fatto un errore in un articolo e se sia arrivata una smentita eccellente. Non immagina il motivo di quella convocazione. Saranno l’Ansa delle 9.40, l’Agi delle 10 e i volti preoccupati dei grandi capi del giornale a mettere luce in quel mistero. «Sono scomparsi» dice Colantonio, un suo collega. Valentino chiede chi, ignora l’accaduto. La risposta ha il tono di una sirena d’allarme «Ma come chi? I neri, i cinesi, i romeni, tutti!».
Così inizia il docu-fiction di Vladimiro Polchi Blacks out (Laterza, pp.161, euro 15)). Un libro a metà tra reportage e romanzo, tra sogno e incubo. Polchi immagina cosa succederebbe in Italia se tutti i migranti decidessero di incrociare le braccia e fare uno sciopero ad oltranza. Il sottotitolo del libro infatti è 20 marzo ore 00.01. Un giorno senza immigrati. Delle Donne alias Polchi pagina dopo pagina registra il panico che si diffonde nel paese. Chiudono le fabbriche, le mucche non vengono più munte, i cantieri edili si bloccano, le pizzerie (come pure i ristoranti e gli alberghi) sono costrette ad abbassare le saracinesche. Anche nelle famiglie scoppia il panico. Badanti, colf e baby sitter si dileguano. Nessuno più a prendersi cura degli anziani e dei poppanti. Le casse della frutta sono vuote, ma anche le banche piangono la perdita di clienti così fedeli come i migranti. Ma la vera disperazione è all’Inps, le casse lì tremano letteralmente di paura, senza i migranti il sistema previdenziale italiano cessa praticamente di esistere. Il libro di Polchi ricorda per il tema un film messicano del 2004,, Un día sin mexicanos di Sergio Arau. Nel film tutti i latinos scompaiono dallo stato della California e tutto si paralizza. Una nuvola viola diventa l’emblema di questa sparizione di massa. I sedicenti esperti si interrogano allora sul motivo di questo dissolvimento. Sono arrivati gli extraterresti a sequestrarli? È terrorismo biologico? È l’apocalisse e i latinos sono stati considerati il popolo eletto? O forse erano solo stufi di non essere considerati persone di valore?
Polchi nel suo Blacks Out, come del resto fa anche Arau nel film, mischia sapientemente finzione, realtà ed ironia. Il motore del romanzo è Valentino delle Donne e la sua vita un po’ in bilico, la realtà è fatta dai personaggi che incontra e dai dati che infarciscono il testo. I vari Aly Baba Faye, Martina Cvajner, Hu Lanbo, Marzio Barbagli sono persone in carne ed ossa. Come lo sono anche le storie dei migranti citate, le questioni dibattute, la lettera dei genitori della Pisacane, gli articoli di giornale, i deliri raccolti dal sito di Forza Nuova.
Una critica che è arrivata al libro in questi giorni è stata quella di considerare i migranti semplice forza lavoro (alla stregua di servi della gleba) e non persone. Ma leggendo attentamente Blacks Out in ogni riga si nota come l’autore abbia schivato ogni equivoco in tal senso dando ad ogni personaggio dignità, parola, indomabile senso di lotta e aspirazioni di ascesa sociale. Ora uno sciopero simile a quello immaginato dall’autore è stato indetto per il Primo Marzo, una giornata senza di noi, viene detto da più parti. Probabilmente non si arriverà alla paralisi completa, come auspicato dal libro, ma sarà un segno per l’Italia di questi nostri tristi giorni. Qualcosa sta cambiando. Il soggetto migrante è presente e vuole agire. I giorni della servitù sono finiti.❖

l’Unità 26.1.10
Ma gli stranieri sciopereranno davvero: il primo e il 20 marzo
di Cesare Buquicchio

Primo o venti marzo? Magari tutte e due. Già perché la realtà immaginata da Vladimiro Polchi nel suo libro Blacks Out prova a diventare realtà vera. Il merito è di quattro donne e dei francesi. Oltralpe la giornalista Nadia Lamarkbi ha lanciato nell’autunno scorso l’idea di uno sciopero di tutti gli immigrati (e di tutti i francesi al loro fianco) per il 1 ̊ marzo. L’idea, in Italia, ha contagiato Stefania, Daimarely, Nelly e Cristina che organizzano la stessa iniziativa per lo stesso giorno (lo stesso si farà in Grecia, Spagna, Belgio e Germania). È nato un sito web (http://primomarzo2010.blogspot. com) una pagina Facebook con 43mila iscritti e una mobilitazione con comitati locali dovunque. Dall’altra parte, sulla scia del libro Blacks Out, per il 20 marzo si organizzano mobilitazioni sostenute anche ufficialmente dai sindacati.
IL DILEMMA
Nessuno si nasconde le difficoltà di coinvolgere lavoratori spesso in nero, ricattati e ricattabili per cui la giornata di lavoro è l’unica forma di sostentamento. I comitati territoriali per coinvolgere i lavoratori stranieri che difficilmente sapranno dell’iniziativa andando su Facebook, stanno organizzando eventi che possano coinvolgere anche gli italiani, che prima di provare a stare «24 ore senza di loro» (uno degli slogan), possano trascorrere 24 ore «con» loro. Propongono iniziative simboliche anche per chi non potrà scioperare: dall’astensione dei consumi all’indossare indumenti o un nastrino giallo, il colore scelto come simbolo del 1 ̊ marzo. Qualcuno pensa a come far affrontare più a cuor leggero una giornata senza lavoro a chi della paga non può fare a meno: organizzando collette o offrendo a chi sciopererà e ai suoi familiari un pranzo collettivo. Resta il piccolo dilemma (che qualcuno prova a strumentalizzare): 1 ̊ o 20 marzo? Il buon senso suggerirebbe tutte e due (considerando la differenza tra un lunedì–il1 ̊marzo–eunsabato–il 20). Magari come prove generali per una terza data in autunno, tutti insieme e senza polemiche...

l’Unità 26.1.10
Italia-razzismo
L’impietoso confronto con l’America, quella di Kennedy (1957)

È stato appena ripubblicato un discorso di John F. Kennedy del 1957, dal titolo
Una nazione di immigrati. Leggendolo, si ha la sensazione di come i problemi siano simili, se non addirittura uguali, a ogni latitudine e in ogni tempo. Certo l’America, a differenza dell’Europa, nasce come un paese di immigrati, che fondano la loro nazione sul principio di uguaglianza. La loro, dunque, è una storia di immigrati, mentre la nostra è di emigranti. Nel Novecento, però, anche in America il problema si presentò in termini assai simili ai nostri; e anche lì suscitò polemiche la proposta di un test linguistico per immigrati adulti, rifiutato a lungo perché non fondato «sulle capacità di un individuo o sul suo potenziale valore di cittadino». E la diffusione della xenofobia, indusse Kennedy ad affermare che accanto ai versi incisi sul piedistallo della Statua della libertà («date a me le vostre stanche, povere, traboccanti masse anelanti uno spirito di libertà») si dovessero aggiungere le parole «a patto che vengano dall’Europa settentrionale, non siano troppo povere o stanche o malaticce, non abbiano mai rubato neanche un tozzo di pane». Ecco, forse la vera differenza è questa: in America ci fu un presidente che ebbe il coraggio di dire che «le leggi sull’immigrazione dovrebbero essere generose, eque e flessibili». E non basta. In America c’è oggi un presidente che dichiara nitidamente che «non siamo simili e non proveniamo dagli stessi luoghi, ma procediamo nella stessa direzione» (B. Obama, Sulla razza, 18 marzo 2008).
È questo il punto: da una parte, l’America del 1957 e l’America di oggi e, dall’altra, l’Italia incattivita del 2010. Nonostante che il suo presidente dica, sull’immigrazione, ottime cose. ❖

l’Unità 26.1.10
World Report 2010
La guerra ai diritti
Mille modi di fermare i paladini delle libertà. Li racconta il rapporto 2010 di Human Rights Watch La repressione nel mondo aumenta anche perché è cresciuta la capacità del movimento di battersi per la tutela delle persone Nella lista nera finiscono la Cina e l’Iran ma anche Corea del Nord e Burundi Le critiche agli Usa
di Umberto De Giovannangeli

C’è chi li elimina fisicamente. Chi li sbatte in galera e butta la chiave. Chi usa norme penali particolarmente restrittive per dare una parvenza di legalità ad uno scempio dei diritti. Chi trasforma le carceri in centri di tortura. Chi brandisce la minaccia (praticata massicciamente) della radiazione dall' albo per colpire e dissuadere gli avvocati «scomodi». Chi pratica il ricatto economico, l'arma degli affari, per ottenere l'impunità internazionale. Chi mutua dalla mafia le vendette trasversali a mo' di avvertimento. Chi assolda killer e milizie private per compiere i lavori più sporchi. Chi censura e chiude d'imperio giornali, riviste, siti web a centinaia. I mille modi per combattere i paladini dei diritti umani. Oltre 600 pagine. È il rapporto più aggiornato e dettagliato sullo stato dei diritti umani nel mondo. È il World Report 2010, realizzato da Human Rights Watch, la più autorevole organizzazione per la difesa e promozione dei diritti umani con sede centrale negli Usa, premio Nobel per la pace nel 1997 per la Campagna anti-mine. Una sintesi è stata resa pubblica nei giorni scorsi. L'Unità ne ha potuto prendere visione nella sua completezza, avvalendosi di un interlocutore d'eccezione: il Direttore esecutivo di Hrw, Kenneth Roth.
Prima considerazione: la capacità del movimento dei diritti umani di esercitare pressioni per conto delle vittime è cresciuto enormemente negli ultimi anni – riflette Roth – e questo sviluppo ha generato una reazione da governi corrotti, che è cresciuta di particolare intensità nel 2009. «Gli attacchi contro i difensori dei diritti – annota il direttore esecutivo di Hrw potrebbero essere visti come un riconoscimento perverso al movimento dei diritti umani, ma questo non attenua il pericolo. «Con vari pretesti, governi corrotti stanno attaccando i fondamenti stessi del movimento dei diritti umani».
Attacchi ad attivisti dei diritti umani non sono limitati a governi autoritari come la Birmania e la Cina, sottolinea Hrw. Nei Paesi con governi eletti che si trovano ad affrontare le insurrezioni armate, si è registrato un forte aumento degli attacchi armati contro osservatori dei diritti umani.
Attacchi sistematici contro attivisti e organizzazioni dei diritti umani sono avvenuti da parte governativa in Eritrea, Corea del Nord, Turkmenistan. Repressione e abusi hanno segnato pesantemente anche la Russia, lo Sri Lanka, il Kenya, il Burundi e l'Afghanistan. Tra i Paesi chiusi ai diritti umani, il World Report 2010 annovera la Cina e il Sudan, mentre Iran e Uzbekistan vengono classificati tra i Paesi che adottano la detenzione arbitraria di attivisti dei diritti umani e di oppositori, praticando nelle carceri la tortura.
La repressione marchia anche Colombia, Venezuela, Nicaragua, Repubblica Democratica del Congo e Sri Lanka.
Alcuni governi, come quelli di Etiopia ed Egitto, utilizzano norme estremamente restrittive per soffocare il lavoro delle organizzazioni non governative. Altri Paesi utilizzano la radiazione di avvocati (Cina e Iran, per esempio), e accuse penali fondate su prove falsificate (Uzbekistan e Turkmenistan), e leggi sulla diffamazione (la Russia e Azerbaigian) per mettere a tacere i critici. «L'unico modo – dice Roth a l'Unità che i governi democratici hanno per sostenere i difensori dei diritti è fare di questo tema un aspetto centrale, vincolante delle loro relazioni bilaterali. I governi che sostengono i diritti umani devono alzare la voce, agire per fare del rispetto dei diritti della persona il fondamento della loro diplomazia e delle proprie pratiche, chiedendo, e operando di conseguenza, per un cambiamento reale di governi corrotti e liberticidi».
Una sottolineatura che chiama in causa l'Amministrazione Usa. «Obama – annota Roth – ha di fronte a sé la sfida di ripristinare la credibilità dell'America sui diritti umani. Finora i risultati sono “misti”, con un netto miglioramento nella retorica presidenziale, ma permane una discrasia tra l'enunciazione e la prassi». «Il governo statunitense – aggiunge il direttore esecutivo di Hrw ha chiuso il programma della CIA degli interrogatori coercitivi, ma deve ancora sostenere il diritto nazionale e internazionale contro la tortura, indagando e perseguendo che hanno ordinato, agevolato, o praticato la tortura e altri maltrattamenti».
Sulla chiusura del centro di detenzione di Guantanamo, il termine è slittato, «ma il problema più importante è come sarà chiuso». L'amministrazione Obama ha insistito sul mantenimento di commissioni militari che amministrano la giustizia e sul continuare a a trattenere i sospettati a tempo indeterminato senza accuse o processo: «Tutto questo avverte Roth rischia di perpetuare lo spirito di Guantanamo».
In molti Paesi, Human Rights Watch ha documentato le violazioni dei diritti umani subite da donne e ragazze, in gravidanza, nell'ambito familiare – lo stupro non è convertito in azione penale, il rapporto sessuale non regolamentato, o fuori dal matrimonio, assimilato all'adulterio -, nella vita pubblica, come badanti. Abusi che in diverse realtà assumono i caratteri e le dimensioni di una vera e propria schiavitù di massa.
In Cina, oltre a documentare la persecuzione e l'incarcerazione di difensori dei diritti umani, Human Rights Watch ha pubblicato un rapporto che descrive il funzionamento segreto di «prigioni nere», dove le autorità detenere persone che rapiscono largo le strade di Pechino e di altre importanti città. La maggior parte di questi detenuti sono firmatari di denunce contro gli abusi – dalla corruzione del governo alla tortura praticata dalle forze di polizia – delle autorità. Una pratica che si estende al continente africano e al Vicino Oriente. «I governi che si considerano difensori dei diritti umani, sono spesso silenti di fronti a questi abusi da parte degli alleati, giustificandosi con priorità diplomatiche o economiche», rimarca Roth. «Ma quel silenzio – conclude li rende complici di quei regimi che fanno scempio di diritti e di legalità».❖

il Fatto 26.1.10
Quel vecchio confine che inghiotte le anime
A Nova Gorica, il varco da cui ogni anno entrano in Italia migliaia di immigrati
di Elisabetta Reguitti

Le migrazioni irregolari a Gorizia le ha risolte il trattato di Schengen del 20 dicembre 2007, data della “caduta” del confine italo-sloveno. Fino a quel giorno questa città-simbolo fra est e ovest, considerata ai tempi della Guerra fredda il “confine più aperto d’Europa”, rappresentava un facile ingresso per chi fuggiva dalla miseria e dalla mancanza di libertà lungo i sentieri dei Balcani. C’era di tutto: dai turchi di etnia armena ai serbi fino ai pachistani. Solo gli sbarramenti confinari ufficiali di Sant’Andrea e della “Casa Rossa” non erano accessibili ai profughi. Ma già nelle immediate vicinanze, nella immediata periferia della città, e soprattutto lungo i sentieri di campagna e del Carso, per anni ci sono stati i massicci flussi di disperati che, con quel poco che avevano in tasca e con figli e vecchi sulle spalle, entravano in Italia accompagnati da spregiudicati passeurs la cui prestazione era pagata a peso d’oro. Prima di varcare la frontiera, quasi sempre di notte, si liberano dei propri documenti per diventare fantasmi anonimi. Il tragitto portava i più sulla statale Gorizia-Trieste (denominata il Vallone) che corre parallela al confine. Un confine “colabrodo” controllato a vista dai graniciari (milizia di frontiera) di Tito fino alla caduta della Jugoslavia, poi di fatto libero. E che in città, a Gorizia, era protetto da una rete solo davanti alla stazione della Transalpina, quella che il giornalista e scrittore triestino Paolo Rumiz – anche per fotografare la collaborazione che Gorizia e la dirimpettaia città slovena di Nova Gorica avevano saputo allacciare – aveva ribattezzato con efficacia il “muretto di Gorizia”. Contrapponendolo al più celebre e drammatico Muro di Berlino. Negli anni è diventato tutto più semplice sia per Trieste sia per Gorizia: di là, a Nova Gorica, ci sono i casinò e le file di auto italiane passano con un’attesa inferiore a quella sofferta ai caselli dell’autostrada. Ma nel 2000, attraverso il confine italo-sloveno, sono passati circa 17 mila irregolari e, di questi, solo il 10 per cento è stato rimandato indietro. Una vera e propria invasione silenziosa se paragonata, nello stesso periodo, alle più modeste cifre degli sbarchi sulle coste siciliane, calabresi e pugliesi, che però generano più allarme e fanno più notizia. Nel 2000, per ogni clandestino che approdava sulle coste italiane, ce ne erano 15 che varcavano il confine italo-sloveno. E dietro questo traffico c’erano organizzazioni criminali turche, croate, serbe, slovene e italiane: nel porto turco di Smirne, un clandestino pagava 5 mila euro per salire su una carretta del mare. Ce ne volevano 10 mila, invece, per stipare un nucleo familiare in un Tir che dalla Turchia viaggiava lungo la ex Jugoslavia fino a Nova Gorica, da dove i passeurs li guidavano in Italia. Oggi è diverso. Per gli irregolari il viaggio più difficile finisce al confine tra la Slovenia e la Croazia. Poi ad aspettarli ci sono le auto che li conducono lungo lo Stivale. Oggi non esiste nessun controllo di frontiera perché non esistono più i confini. E intercettare gli immigrati appartiene alla casistica dei fermi per i normali controlli su strade e autostrade. Oggi i problemi, per queste terre di confine (le ultime ad essere state smilitarizzate) un tempo ferite dall’odio tra italiani e sloveni, dalle foibe e dai campi di concentramento (come il lager nazista della risiera di San Sabba a Trieste) sono altri. Hanno nomi come Cie (centro di identificazione ed espulsione qualche anno fa denominato più cortesemente Cpt, centro di permanenza temporanea), Cara (centro accoglienza richiedenti asilo) oppure ancora Sprar (sistema protezione richiedenti asilo e rifugiati) o Cir (consiglio italiano dei rifugiati). Acronimi sempre nuovi per descrivere realtà di ospitalità “condizionata”. Mondi troppo spesso paralleli con regole diverse e in continua, frenetica evoluzione. Difficili da seguire anche per gli stessi operatori, impegnati a risolvere i problemi quotidiani di persone in fuga dai propri paesi di origine. Cibo, alloggi, vestiario. Ma soprattutto una possibilità di futuro per coloro che riescono a ottenere il riconoscimento di rifugiato politico: circa il 20% dei richiedenti. Sono loro, oggi, la vera emergenza lanciata dalla Caritas di Gorizia. Che rischia di scoppiare. Tra settembre 2008 e marzo 2009 ha accolto quasi 600 immigrati dimessi (allo scadere dei 6 mesi) dal Cara: oggi sono una sessantina a fronte di una capienza massima non superiore a 42 posti. I richiedenti asilo sono senza soldi, senza prospettive e non sanno dove andare. Sono persone che rischiano di essere inghiottite
Per ogni persona che sbarca irregolarmente sulle coste del sud, ce ne sono 15 che arrivano dalla Slovenia dalla criminalità perché non hanno occupazione. “Li manteniamo a spese nostre”, ci racconta il direttore della Caritas don Paolo Zuttion. Dieci euro al giorno per ogni immigrato in attesa del riconoscimento a fronte dei 40 euro del Cara dove si può stare sei mesi, non un’ora in più. Poi finisci per strada. Come nel caso di quella ragazza che era stata “gentilmente” invitata a lasciare il Cara. Si è scoperto, poi, che era incinta. “Noi abbiamo ospitato 620 persone in un anno. Allo Stato ognuna di loro sarebbe costata 800 euro – prosegue il sacerdote – Abbiamo chiesto al prefetto di Gorizia di sottoscrivere una convenzione ma stiamo ancora aspettando”. Non vanno certo meglio le cose rispetto ai contributi elargiti dall’amministrazione comunale, che tra il 2008 e il 2009 ha tagliato ben 16 mila euro sulla gestione del dormitorio di piazza Tommaseo: un servizio per i senza fissa dimora (pochi) che viene usato per i richiedenti asilo che escono dal Cara (tanti). Che raccontano storie tutte diverse, anche se uguali nella drammatica sostanza. Intanto però gli operatori e i volontari cercano di districarsi nella giungla degli acronimi dei tanti (troppi) progetti ministeriali funzionanti sulla carta ma meno nella realtà delle cose. Procedure complesse da capire, anche per i più esperti. Difficili da applicare. Soprattutto quando mancano le risorse.

Repubblica 26.1.10
Leggere il pensiero? è medicina non fantascienza
di Arnaldo D’Amico

La scoperta, semplice e geniale, alla Mayo Clinic di Boston su pazienti epilettici. Applicati a un elettroencefalografo i principi della videoscrittura
La lettera appare sullo schermo, il malato la guarda, sul pc compare la stessa lettera

Le lettere dell´alfabeto appaiono su uno schermo, una dopo l´altra. Due uomini le guardano e su un computer collegato ad un elettroencefalografo le stesse lettere appaiono, nella stessa sequenza. L´esperimento è stato realizzato nella sede di Boston della Mayo Clinic, l´organizzazione non profit più grande del mondo (3.700 ricercatori, 50.100 unità il personale di cura, 500mila i malati trattati ogni anno) dedicata allo sviluppo di terapie e soluzioni mediche pratiche. La scoperta che il pensiero si può leggere direttamente dal cervello ha del fantascientifico, ma alla base vi sono conoscenze e strumenti usati negli ospedali tutti i giorni. E un´idea semplice e geniale: applicare ai segni tracciati da un elettroencefalografo i principi con cui funzionano i programmi di videoscrittura installati su smart-phone e computer touch-screen, quello che traduce in testo dattilografico la propria grafia a mano. Ovviamente il software sviluppato per "leggere" le onde cerebrali è molto più sofisticato e potente.
Con questo armamentario, il gruppo di ricerca capitanato dal neurologo Jerry Shin si è lanciato nella verifica di una scommessa ardita: in un comune elettroencefalogramma - la registrazione delle onde elettriche cerebrali fatta con sensori appoggiati sulla testa - ci deve essere molto di più di quello che si vede ad occhio. Sonno, veglia, sogno, coma, epilessia e altri fenomeni che coinvolgono gran parte del cervello, corrispondono ad onde grandi, riconoscibili ad occhio dal medico. Vi devono essere, però, anche le onde elettriche debolissime, prodotte da piccole aree del cervello, come si ha per attività mentali minime, oscillazioni impercettibili all´occhio umano, ma non a un computer con un software in grado di rilevare, analizzare, confrontare e memorizzare milioni di piccole onde diverse.
Per verificare ciò, i ricercatori hanno chiesto la collaborazione di due pazienti epilettici. Per necessità terapeutiche, i due dovevano sottoporsi a un elettroencefalogramma con gli elettrodi appoggiati direttamente sulla corteccia cerebrale. È un´indagine che si pratica da decenni e richiede l´apertura di uno sportello nel cranio. Insieme ad altre indagini che si possono fare solo così, permette di individuare, con una precisione maggiore di quella ottenuta dagli elettrodi sulla pelle, la zona di cervello che scatena la crisi epilettica per poi rimuoverla.
Fatte le indagini per l´epilessia i pazienti si sono prestati all´esperimento. Mentre si concentravano su una lettera - si è iniziato con la "q" - il computer analizzava e memorizzava i segnali elettrici cerebrali. Nel frattempo i ricercatori dicevano al computer di associare la registrazione con la lettera "q". E così via per tutte le lettere dell´alfabeto. Come si fa coi programmini di videoscrittura: si scrive a mano la "q" sullo schermo e poi si digita "q": da quel momento quando il computer vede il nostro ghirigoro scrive "q". Poi hanno verificato se il computer così addestrato sapeva leggere l´alfabeto direttamente nel cervello.
Immaginabile lo stupore dei due pazienti quando hanno visto apparire sul computer le lettere che via via guardavano. E l´eccitazione dei ricercatori: quelle lettere dimostrano che l´attività elettrica ha in sé le tracce anche di eventi mentali semplicissimi, che comportano l´entrata in funzione di pochi neuroni rispetto ai miliardi coinvolti dal sonno o dal sogno. I passi successivi: verificare che il computer "legge" nel cervello anche con gli elettrodi appoggiati sulla testa, dove i segnali elettrici arrivano un po´ indeboliti; verificare che succede con pensieri via via più complessi come parole, frasi, discorsi. Ma anche suoni, melodie, colori, immagini. Infine, con comandi motori.

Repubblica 26.1.10
Il governo di Pechino lancia un sito per gli impiegati pubblici single Crollato il numero dei matrimoni, è in crisi anche la politica dei figli unici
Ai cuori solitari pensa il partito nasce la banca dell´amore di Stato
di Giampaolo Visetti

Ai tempi dell´imperatore, l´amore era un filo di seta, tessuto sulle nuvole. Gli innamorati, suggeriva il mito, dovevano seguire quel filo per incontrarsi una volta all´anno, sopra un ponte volante di gazze. Una ricetta magica, scorrendo i numeri della popolazione. La Cina, con le campagne, ha però sepolto il passato. Impegnata a scrollarsi di dosso anche l´ombra di Mao, prende atto che al nuovo popolo dei colletti bianchi i sogni degli dei non bastano più. Anche all´amore, da oggi, ci pensano così il partito e il capo ufficio. Pur considerando Internet il male assoluto, il governo ha lanciato un sito web per combinare incontri tra i milioni di impiegati pubblici di tutto il Paese. La banca dell´amore di Stato, riservata ai single, si autodefinisce «la piazza romantica più sicura della Cina». Cerca di risolvere quella che si profila come la nuova emergenza nazionale: la generazione dei figli unici, giunta all´età di mettere su famiglia, muta in generazione di single. «Se sei solo e triste - scrive il governo ai suoi dipendenti - affidati al tuo capo».
Nulla di romantico, ma una nazione in corsa per la leadership del secolo non si permette di badare ai particolari. In pochi giorni il sito per matrimoni pubblici è stato travolto da 45 mila offerte di nozze ministeriali. Le regole, da tradizione orientale, sono inflessibili. Gli impiegati pubblici in cerca di un partner da sposare devono presentare il proprio curriculum in ufficio, completo di certificato medico. Una commissione di dirigenti e sindacalisti verifica e dopo un colloquio registra l´offerta al ministero della pubblica sicurezza. «Una procedura - si spiega - che garantisce accuratezza e affidabilità». Il filtro governativo sta così selezionando una classe di aspiranti sposi cinesi «i cui membri sono di età opportuna, alto calibro, ben educati, istruiti e con un lavoro stabile». Se non il partner ideale, ha commentato la tivù di Stato - almeno un´alternativa alle truffe di siti e agenzie private, piene di dati personali falsi.
L´amore di Stato online, oltre a combattere i falsi «innamorati perfetti» che fuggono con i risparmi di famiglia, tenta in realtà di salvare la nazione. Cinquecento milioni di lavoratori migranti, scuole e università ipercompetitive e un´organizzazione del lavoro che cancella la vita, stanno facendo crollare i matrimoni. Nelle metropoli, in tre anni, affitti e prezzi delle case sono aumentati del 600 per cento, trasformandosi nell´incubo degli under trenta. «Per aumentare i consumi interni e alimentare il boom immobilitare - dice Zhou Meilin, direttore della Commissione nazionale di pianificazione famigliare - occorrono nuove famiglie. Dei nuovi nuclei, 100 milioni all´anno sono però formati da una persona sola. Il problema, più che i villaggi, minaccia le città».
Le statistiche delineano un futuro di metropoli simili a cronicari, formate da vecchi che, pur vivendo in quartieri-alveari, da giovani non sono mai riusciti ad incontrarsi. «Capisco che agli occidentali - dice Zhai Zhenwu, capo dell´Istituto per la popolazione della Renmin University di Pechino - l´idea di innamorarsi su consiglio del proprio capo ufficio possa apparire eccentrica. Noi però abbiamo una visione collettiva e se c´è un problema il governo se ne occupa. Meglio scegliere il partner con calma e tra migliaia di possibilità sicure, che in fretta tra qualche decina di sconosciuti in condomini e metrò». Il governo non punta infatti sulle love story, ma su matrimoni con figli. Dopo Shanghai, in questi giorni anche Pechino sta abbattendo la sacra legge del 1978 sul figlio unico. Presto le famiglie in cui o il marito o la moglie sono a loro volta figli unici, e non più entrambi, potranno avere più di un erede. «Il che significa - dice Mu Guanzong, ricercatore dell´Istituto demografico della capitale - che ai nuovi «coniugi d´ufficio» le autorità consentiranno di generare liberamente». Contro la difficoltà di trovare un amore, i cinesi si sono del resto organizzati anche da soli. Ogni sabato in milioni di piazze della Cina anziani genitori si incontrano per combinare incontri tra figli che non si conoscono. Ogni sei mesi a Pechino e a Shanghai vengono organizzati incontri al buio.
Migliaia di persone non impegnate vagano in saloni oscurati e rivedono la luce tenendo per mano la persona che hanno scelto per la vita. Gong Yelong, per favorire nuove unioni, ha lanciato la «banca degli amori finiti». Per pochi yuan si possono depositare gli oggetti-simbolo delle storie fallite: in casa imbarazzano, dopo le nozze. «Uno Stato agente matrimoniale - ha scritto il sociologo Ni Kaiquan - apre all´erotismo nuove prospettive. Ma non dimentichiamo che un dipendente sposato lavora meglio ed è più stabile». Il Giappone? Sorpasso concluso.

Repubblica 26.1.10
Il rapporto con la morte al tempo della tecnica
di Roberto Esposito

"Che cosa vuol dire morire" è il titolo di un libro che raccoglie sei interviste con Remo Bodei, Roberta de Monticelli, Vito Mancuso, Giovanni Reale, Aldo Schiavone e Emanuele Severino

Chi dovesse leggere le sei interviste curate da Daniela Monti con il titolo Che cosa vuol dire morire (Einaudi Stile Libero, pagg. 120, euro 14) in prossimità di un telegiornale di questi ultimi giorni potrebbe essere colto da un leggero senso di vertigine. Apprendere che la morte è sempre personale, che nel giro di un paio di generazioni sarà autogestita dall´uomo o che, addirittura, non è mai esistita, come sostengono alcuni dei filosofi intervistati, davanti alle immagini dei mucchi di morti in putrefazione nelle strade di Port-au-Prince non è boccone facile da ingoiare anche per palati molto sofisticati.
Ma ciò non vuol dire si tratti di discorsi inutili o astratti. Al contrario, le riflessioni di Aldo Schiavone, Giovanni Reale, Remo Bodei, Roberta de Monticelli, Vito Mancuso ed Emanuele Severino, sollecitate dalle intelligenti domande della curatrice, rispondono ad un´esigenza fortemente sentita. Che è quella di liberare la discussione sulla morte dai limiti specialistici del lessico medico o giuridico, situandola in un più ampio orizzonte di pensiero.
Vero è che fin dalla sua origine la filosofia, anche quando si è orientata sui problemi della vita, non ha mai smesso di riflettere su quella morte che ne costituisce non solo la pagina finale, ma anche la cornice inevitabile. E tuttavia neanche questo ricchissimo patrimonio può bastare nel momento in cui il fenomeno della morte – come del resto quello della nascita – sperimenta una radicale mutazione dovuta alla straordinaria capacità della tecnica a penetrarne i confini prima ermeticamente sigillati. Naturalmente tutto ciò, piuttosto che chiudere il problema, lo apre a una serie di domande e di conflitti di cui anche la cronaca recente, con i casi Welby ed Englaro, ha recato tragica testimonianza. Come prima Nietzsche e poi Foucault avevano precocemente intuito, l´oggetto centrale dello scontro, etico e politico, del nostro tempo è, e sempre più sarà, costituito precisamente dal corpo vivente, e morente, degli uomini. Qual è la frontiera tra la vita e la morte e chi è deputato a fissarla? Come si incrociano, su di essa, libertà individuale e interesse collettivo, diritto e medicina, teologia e politica?
La filosofia non poteva mancare di dire la sua – senza pretendere di risolvere questioni costitutivamente irresolubili, ma almeno cercando di fare chiarezza su di esse. Naturalmente, come sempre avviene in questi casi, provocando altri interrogativi ed aprendo nuove contraddizioni. Proverei a raggrupparle all´interno di tre bipolarità concettuali, seguendo il filo dei ragionamenti svolti nel libro. La prima è costituita dal rapporto tra storia e destino, al centro degli interventi di Schiavone e Bodei. Dire – come fanno entrambi – che il prodigioso sviluppo tecnologico spinge la vita, e dunque la morte, in un´orbita non più naturale, ma intensamente storica, perché aperta all´intervento umano, vuol dire che una lunghissima epoca, iniziata con la comparsa dell´uomo sulla terra, si va concludendo.
Senza poter sapere cosa ci riserva il futuro, e senza sottovalutare i rischi che tale trasformazione comporta, per i due autori il percorso verso la liberazione della specie umana dai vincoli della natura è ormai segnato. Nonostante il suo fascino, il problema di fondo che vedo in simile prospettiva non sta tanto nella perdita della dimensione naturale a favore di quella storica, quanto, piuttosto, in una concezione troppo fluida della stessa storia – e cioè in una possibile sottovalutazione dei traumi, o delle fughe di senso, che troppe volte l´hanno trascinata indietro quando si è illusa di fuggire verso il futuro, dimenticando la propria origine opaca.
Il secondo binomio che emerge dal libro è quello della relazione, altrettanto problematica, tra tecnica e fede. Certo, i processi di secolarizzazione che caratterizzano il mondo occidentale tendono a spostare il loro confronto a favore della prima. Le religioni perdono terreno, o si attestano sulla difensiva, davanti all´incalzare della conoscenza scientifica. Dopo aver perso sia la battaglia con Galileo sia quella con Darwin, la Chiesa cattolica rischia di perdere la guerra. La intangibilità della vita costituisce per essa l´ultima frontiera su cui attestarsi. Proprio qui, tuttavia, si determina un singolare rovesciamento di campo. Come osserva anche Reale, nell´uso di terapie sempre più aggressive volte a trattenere in vita corpi cerebralmente morti, è proprio la Chiesa a sostenere le ragioni della tecnica rispetto alla spontaneità dei processi naturali. Ma, all´altro capo del binomio, come da tempo insegna Severino, la tecnica a sua volta è diventata una fede, nel senso che ha sostituito la credenza in Dio come argine nei confronti del nulla che ci circonda.
L´ultima coppia bipolare – al centro delle risposte della de Monticelli e di Mancuso – è la relazione tra persona e corpo. Entrambi vedono nell´idea di persona ciò che riconduce il fenomeno della vita, nel suo rapporto con la morte, dal piano di una falda biologica indifferenziata a quello, individuale, del singolo essere vivente. Che solo nell´esperienza irripetibile di ciascun uomo e di ciascuna donna la vita sperimenti il suo valore irrinunciabile è una verità indubitabile. Così come il riferimento alla pari dignità di ogni essere umano. Meno certo, mi pare, che ad affermarla possa essere proprio quel dispositivo, filosofico e giuridico, della persona che, dalla sua origine romana e cristiana, è sempre servito a dividere il genere umano, e lo stesso corpo vivente, in categorie fornite di diverso valore. Come che sia, si tratta di sollecitazioni e di dubbi che attestano di per sé tutto l´interesse e il rilievo del libro.

Repubblica 26.1.10
Torino, 1938 "Montalcini sospesa"
di Massimo Novelli

È il 18 ottobre del 1938 quando il rettore Azzo Azzi, in base alla legge del 5 settembre di quell´anno, decreta che «la dott. Levi Rita, Assistente volontaria alla Clinica delle malattie nervose e mentali della R. Università di Torino, è sospesa dal servizio, a decorrere dal 16 ottobre 1938-XVI». Il futuro premio Nobel per la medicina, che di lì a poco sarà costretta a emigrare in Belgio, è una delle vittime nel mondo accademico delle leggi razziali, appena promulgate da Mussolini e da Vittorio Emanuele III. Il documento della sua cacciata dall´insegnamento e dalla ricerca, così come altre carte della vergogna fascista e monarchica, è custodito presso l´Archivio storico dell´Università di Torino. Da domani sarà esposto in Prefettura, nell´ambito di una mostra sulla persecuzione degli ebrei in Italia.
Molte altre, però, sono le testimonianze, poco note, della pulizia etnica che i fascisti compirono nelle Università nei confronti del personale di "razza ebraica", nel sostanziale silenzio della maggior parte degli altri docenti. Una seconda esposizione, in questo caso proprio all´Archivio storico dell´ateneo torinese (s´intitola "A difesa della razza" e apre domani), propone leggi, circolari e decreti emanati da Giuseppe Bottai, ministro dell´Educazione nazionale, che chiariscono in che modo il razzismo italiano divenne una materia d´insegnamento, oltre che di lavoro ordinario d´ufficio, da sbrigare senza porsi problemi di sorta. È il caso della nota ministeriale del 20 ottobre ‘40, inviata al rettore di Torino a proposito dell´istituzione di «un nuovo posto di ruolo presso codesta Facoltà di Scienze». Da Roma, Bottai scrive di ritenere «opportuno avvertire che tale posto, come risulta anche dai lavori preparatori della legge, deve intendersi riservato all´insegnamento dell´Antropologia oppure ad altro insegnamento razziale». Due anni prima, l´11 giugno ‘38, sempre il ministro, che avrebbe avuto un ruolo di primo piano nella caduta di Mussolini, rende noto di avere disposto che «nelle sessioni di esami sia osservata netta separazione studenti razza ariana da studenti razza ebraica ed sia data precedenza gruppo studenti ariani negli esami orali».
La burocrazia della persecuzione, che sfocerà nella deportazione nei lager, non si differenzia nella forma da qualsiasi altro atto ministeriale. Anche quando, il 14 ottobre ‘38, nel comunicare i nominativi dei professori torinesi sospesi «si fa riserva d´integrare l´elenco coni i nomi di coloro che, secondo le direttive del Gran Consiglio del Fascismo, eventualmente dovranno essere considerati di razza ebraica e come tali sospesi anch´essi dal servizio». Intanto ne facevano le spese «Cino Vitta, Giuseppe Samuele Ottolenghi, Santorre Zaccaria Debenedetti, Giorgio Falco, Arnaldo Momigliano, Alessandro Terracini, Amedeo Herlitzka, Giuseppe Levi, Gino Fano». E poi «Amos Foà, Luciano Jona, Renato Segre, Marcello Foà, Leonardo Herlitzka, Renzo Olivetti, Sergio Bachi, Raffaele Lattes, Alberto Vita, Vittorio Giulio Segre, Roberto Bolaff, Rita Levi, Walter Momigliano, Mario Nizza, Paolo Ravenna».

il Riformista 26.1.10
Il segreto di Vendola
Vi spiego perché Nichi piace e vince
Terremoto? La forza tranquilla di Vendola
di Rina Gagliardi

Con il successo di domenica, Nichi Vendola è riuscito a superare in un colpo solo tre ostacoli dall’apparenza di altrettanti macigni. In primis, sia pure all’interno del proprio elettorato, ha battuto la così detta “legge del pendolo”: il popolo di sinistra e di centrosinistra lo ha riconfermato; il consenso, dopo cinque anni di governatorato, si è considerevolmente allargato.
Un fatto quasi inaudito, anzi pressoché inedito. In secundis, ha sconfitto un (coraggioso) concorrente, sostenuto, almeno a parole, dall’intero gruppo dirigente nazionale del Pd. Infine, ha fronteggiato, con forza, pazienza e tenacia, la guerra che gli è stata scatenata contro da vari poteri, a cominciare dalla magistratura e dai media. Tutto questo, senza usufruire del sostegno di nessuna potenza politica, nemmeno nel campo della sinistra alternativa “Sinistra e Libertà” essendo notoriamente una forza in fieri. E dunque è d’obbligo l’interrogativo: come ha fatto? Come ha fatto a diventare così popolare, così amato, così rispettato?
Chi lo conosce, ne riconosce agevolmente il fascino personale, la straordinaria capacità comunicativa, la raffinatezza intellettuale. Ma queste virtù, da sole, non fanno né un leader politico né un governatore al secondo mandato. In Vendola c’è qualcosa di più solido e, perfino, di più importante: che incarna, in se stesso, una felice sintesi di culture politiche, e anche di stili. Non è, nient’affatto, un estremista, come è stato scioccamente scritto o detto. Nichi è all’origine un “comunista italiano”, come tale “naturalmente” propenso al dialogo, all’arte della costruzione politica, all’allargamento del consenso, che negli anni ha saputo innovare e ricercare, senza mai buttare via le sue radici. Per diventare, più o meno, ingraiano, ambientalista, “rifondazionista” , nutrire dei dubbi sulla scelta di non appoggiare un governo borghese (come accadde nel lontano 1995), radicalizzarsi negli anni in cui in Italia e nel mondo esplodeva il movimento no global.
Non è un “demagogo”, Nichi, come dicono le malelingue. Piuttosto, è una “talpa democratica” che si rapporta alla società civile organizzata (più che a un popolo generico o inneggiante), senza mai far venir meno la dimensione della duttilità tattica. Così, la gente di Puglia vede in lui la sinistra che vorrebbe: nuova, certo, anche audacemente nuova, ma non pentita. Moderna e antica. Capace non di riformismo (che spesso è solo ideologia o chiacchiera) ma di riforme vere, che cambiano magari la faccia di un territorio.
Questa autenticità politica si rispecchia anche nella sua personalità non va dimenticato che ha saputo declinare pubblicamente la propria omosessualità, in tempi in cui una tale dichiarazione richiedeva un coraggio da leone, e mantenere la propria fede cattolica. Anche dal punto di vista umano e personale, convivono in lui attitudini spesso considerate antitetiche: la passione e la razionalità. Il cuore e il cervello. La capacità di commuoversi, davvero e la capacità di analizzare i processi reali.
Il Vendola “grande comunicatore” nasce da quest’altra felice sintesi: un intellettuale me-
ridionale che è andato sì nel “mondo che conta”, ma ha mantenuto un legame viscerale con la terra, l’infanzia, la religiosità, la radice suprema dell’esistenza. Non si è perduto, insomma, nei meandri dei palazzi romani. Non si è umanamente corrotto, come capita molto spesso ai figli del popolo quando varcano la soglia dell’“Alto”. Ha saputo crescere e decrescere, questo sì, senza inseguire modelli o ideali perfezionistici, sempre insieme a compagni di ventura o intrapresa, ma con la dose di individualismo necessaria nel Ventunesimo secolo. Oggi, Nichi ha l’età “giusta” quei cinquant’anni o giù di lì in cui si hanno ancora tante energie da spendere, ma si è accumulata una esperienza ragguardevole.
Cari amici giornalisti, voi che vi domandate stupiti che cos’è il “fenomeno”, il “ciclone”, il “terremoto” Vendola, provate a leggerlo con gli occhi di un’altra politica. E fate un po’ di sana autocritica.

il Riformista 26.1.10
Germania, addio di Oskar “il rosso” L’unità a sinistra ora è più vicina
Lafontaine. Il leader che ha sdoganato a Ovest i post-comunisti della Ddr si ritira. La sua Linke rischia il caos. E la scena politica può cambiare.
di Tonia Mastrobuoni

Una conferenza stampa ufficiale nel quartier generale del partito e una motivazione drammatica – un cancro alla prostata – non sono bastati a tranquillizzare gli scettici. Il ritiro dell’“uomo politico” Oskar Lafontaine come si è autodefinito durante l’incontro di sabato scorso con i giornalisti, è una notizia bomba che sconquassa il panorama tedesco. Ma qualcuno ancora non si fida.
Molti continuano a rivangare il precedente del 1999 – quando Oskar “il rosso” ruppe con il cancelliere Schroeder, si dimise da ministro, lasciò la guida della Spd e si fece fotografare versione “uomo privato” con il figlio. Quel “tradimento” non gli fu perdonato dai socialdemocratici. Tanto più che pochi anni dopo il “Napoleone della Saar” smentì l’uscita di scena e divenne l’artefice della convergenza tra le sinistre radicali dei due lati dell’Elba. Una fusione a freddo tra chi a Ovest non si riconosceva nello spostamento su posizioni riformiste della Spd di Gerhard Schroeder e tra chi, a Est, continuava a sognare la terza via tra comunismo totalitario honeckeriano e capitalismo. Cioè con il partito di Gregor Gysi, la Pds (che vanta non poche incursioni inquietanti di nostalgici puri della Germania est ed ex aguzzini della Stasi).
Ora che “Oskar il Rosso” è uscito di scena, le due anime della Linke potrebbero nuovamente dividersi e dilaniare il partito. Perché la leadership del “Napoleone della Saar”, basata su un populismo di sinistra, un forte carisma e una retorica accattivante un combinato disposto che indusse l’ex cancelliere Helmut Schmidt a paragonarlo ad Adolf Hitler non è mai stata digerita del tutto a Est. Ma i successi crescenti del partito a Ovest sino al trionfo delle ultime elezioni federali del 27 settembre hanno sempre messo a tacere i malumori interni.
Quello del leader della Linke non è neanche formalmente un ritiro definitivo dalla vita politica: Lafontaine ha già rinunciato a fare il capogruppo dopo la vittoria clamorosa delle ultime elezioni. Qualche settimana dopo, la conferma di rumors sul suo stato di salute: cancro alla prostata. Da sabato scorso è ufficiale che si dimetterà a breve come parlamentare e lascerà la presidenza della Linke a maggio, mese “caldo” delle elezioni in Nordreno-Westfalia e del congresso del partito a Rostock. Ma gli scettici ricordano che Lafontaine ha anche detto che rimarrà capogruppo della Linke nel senato della sua regione, la Saar. Il minuscolo Land che confina con la Francia è da sempre il suo “fortino”, la base dalla quale potrebbe continuare ad esercitare un’influenza forte sulla sinistra tedesca.
Ma al di là degli scetticismi, l’abbandono della leadership della Linke da parte di Lafontaine è una novità enorme, che condizionerà molto la scena politica tedesca. Per il suo partito è insieme una buona e una cattiva notizia. “Oskar il rosso” è l’uomo che ha sdoganato l’indigesta organizzazione di postcomunisti della Ddr a Ovest: il rischio concreto nei prossimi mesi e anni è il riflusso. È la ritirata della Linke nelle regioni al di là della vecchia Cortina di ferro, in mancanza di altri leader con lo stesso piglio populista e carismatico che possano convincere socialdemocratici delusi dell’Ovest a votare per un partito che non ha mai fatto i conti in modo trasparente con la tirannìa comunista della Germania est. E questa è la cattiva notizia, assieme a quella già menzionata di una guerra intestina.
La buona notizia è che senza Lafontaine alla Linke si aprono prospettive concrete di un’alleanza con la Spd a livello federale. Lafontaine ha continuato a ripetere anche di recente i suoi mantra, i suoi eterni «no» all’Afghanistan, ai tagli sociali di Hartz IV, al pensionamento a 67 anni ma per una convergenza con il partito di Sigmar Gabriel i nuovi capi dovranno cominciare a dimostrare di saper governare meglio quella scienza che i politologi italiani amano citare in tedesco, la “realpolitik”. E i “realos”, i realisti tra le nuove leve, più netti nel fare i conti con il passato comunista della Ddr e meno massimalisti, ci sono ed emergeranno. Uno in particolare, l’ex tesoriere Dietmar Bartsch, poteva aspirare alla leadership ma è stato silurato dai vertici per presunta mancanza di lealtà nei confronti di Lafontaine (accusato di aver spifferato dettagli della sua vita privata alla stampa). In pole position per la successione c’è ora il tandem Gesine Loetsch-Klaus Ernst, la conferma dunque di una leadership sdoppiata (come quella attuale tra Lafontaine e Gysi) che unirebbe est e ovest ma regalerebbe anche un coté rosa alla dirigenza. Tuttavia, dal partito c’è anche chi fa circolare l’ipotesi che a mantenere il timone del partito potrebbe essere l’eterno Gysi. D’ora in poi, da solo.
I socialdemocratici, intanto, festeggiano. La Spd è pronta a spostarsi a sinistra e rubare consensi alla Linke in crisi di identità (non solo consensi: al “traditore” Bartsch è stato offerto di passare armi e bagagli alla Spd) e allo stesso tempo prepara il terreno per una futura coalizione, come si dice nel gergo tedesco, rosso-rossa. Una prospettiva impensabile, fino a poco tempo fa. Finché a capo del partito c’era, appunto, il “traditore” Lafontaine.

lunedì 25 gennaio 2010

l’Unità 25.1.10
Divario netto anche a Gallipoli, nel “seggio” di D’Alema, che si è battuto per Boccia
Primarie, la notte di Vendola Il governatore sconfigge il Pd
di Simone Collini

Nichi Vendola arriva nella sua Fabbrica, il comitato elettorale arredato a scatoloni di cartone e rosso ovunque e nonostante la cautela che si impone ha un sorriso che la dice lunga. Allora è meglio andarsi a chiudere in una stanzetta, ad aspettare almeno un po’. I seggi delle primarie si sono appena chiusi, iniziano a squillare i cellulari, inizia l’euforia dei volontari che occupano questo negozio di «materie plastiche» trasformato nel quartier generale di una campagna fortunata. Solo a notte fonda si sapranno i risultati definitivi di questa sfida che va ben oltre i confini della Puglia. Ma i primi dati che arrivano dalle città grandi e piccole dicono che Vendola è in vantaggio sul deputato del Pd Francesco Boccia, e di un bel po’. Tra i 30 e i 40 punti di distacco.
Alle dieci e mezza a Taranto hanno finito di contare le schede, il governatore uscente è al 65%. In provincia di Foggia è mille voti avanti. Alla «Fabbrica di Nichi» c'è una specie di boato quando arriva il risultato di Gallipoli, dove per anni è stato eletto quello che è stato il principale sostenitore di Boccia in questa settimana di campagna, Massimo D’Alema: Vendola 684, Boccia 204. L’affluenza è stata alta, file interminabili sono rimaste ben visibili davanti ad alberghi, negozi, centri polifunzionali, parchi trasformati dalle 8 della mattina alle 9 della sera in seggi elettorali. Il dato definitivo tarda ad arrivare, ma poco importa. È alto, tra i 150 e i 200mila votanti. Ma adesso c’è soprattutto un risultato da tenere a mente, perché condizionerà le regionali pugliesi e anche i rapporti interni al Pd e tra il Pd e le altre forze politiche. Un risultato che come primo effetto ha quello di mandare in mille pezzi il «laboratorio pugliese», ovvero l’alleanza con l’Udc che doveva servire come primo passo verso una coalizione organica, di impronta meridionalista, da contrapporre a un governo targato Pdl-Lega.
I DUE SFIDANTI
Boccia è alla sede regionale del partito dal pomeriggio. Quando iniziano ad arrivare i primi dati si allontana un po’. Dicono che tornerà, per una conferenza stampa congiunta che era stata preventivata per mezzanotte. Fin dall’inizio il quarantunenne economista è stato dato per sfavorito. Ha giocato la sua partita chiedendo al Pd di sostenerlo compattamente per riuscire a dar vita a un’alleanza nuova, senza risparmiarsi anche quando consiglieri, assessori e parlamentari pugliesi della minoranza del partito hanno iniziato a dire apertamente che avrebbero votato Vendola. «Oggi deve essere la giornata dell’orgoglio del Pd», dice non a caso subito dopo aver votato nella sua città natale, Bisceglie. Esce dal seggio allestito nell’Auditorium Santa Croce, parla con un filo di voce per una brutta raucedine. Comunque vada, dice, questa giornata sarà ricordata come «un momento straordinario di democrazia». È quel che si dice in questi casi e del resto Boccia, che dopo varie esitazioni ha accettato di correre alle primarie quando si è capito che era l'unica soluzione per tenere unito il partito e evitare due candidati del centrosinistra alle regionali di fine marzo: «Ci ho messo la faccia, la testa e il cuore perché credo che l’alternativa sia l’unica strada nuova che abbiamo davanti». La strada però non sarà questa bensì quella tracciata da Vendola. Il governatore uscente è andato a votare nella sua Terlizzi: «È un giorno importante per la politica ha detto perché col processo democratico delle primarie i partiti sono obbligati a confrontarsi con i pensieri e i sentimenti di una platea molto più vasta di quanto non siano gli apparati. Per me si tratta di una vittoria della buona politica, quella che si fa all' aperto e con tanta gente. E la democrazia non può che far bene alla salute del centrosinistra». A marzo, sarà lui a guidarlo nella sfida contro il centrodestra.

l’Unità 25.1.10
Primarie e populismo
di Francesco Piccolo

In un paese dove le primarie sono state digerite, si lotta con molta passione e fino ai limiti del consentito per battere l’avversario dello stesso partito; poi ci si compatta dal giorno dopo. Casomai non con allegria, ma con senso del dovere. Si accetta di aver perso e allo stesso tempo si accetta di stare dalla parte di chi ha vinto. Perché le primarie sono fatte tra persone che la pensano allo stesso modo, ma hanno sfumature diverse, sfumature che possono anche diventare diversità sostanziali.
Qui non è così. Qui le primarie non sono state affatto digerite, e si cerca di combatterne la fallibilità alzando la posta, allargandole a ogni grado di elezione. Le regionali, le provinciali. Ci saranno presto anche tra aspiranti amministratori di condominio. Ma quanto più piccole si fanno le comunità, tanto più evidente diventa l’ipocrisia. Da noi le primarie dividono, non uniscono. Basta guardare a quello che succede dopo. Gli sconfitti fanno finta di accettare, poi nell’ombra lavorano contro. I vincitori promettono di coinvolgere anche i perdenti per unire il partito, ma poi se ne guardano bene. Più si fa uso di primarie, più si creano divisioni chiare. Il risultato delle coalizioni di centro-sinistra prima e dopo le primarie, è visibile a tutti. Forse perché le primarie si fanno quando i partiti non sanno decidere. Ma con atteggiamento ipocrita si sostiene che questa è la vera democrazia. Non è vero. La vera democrazia bisogna conquistarsela negli anni, non inventarsela con una trovata populistica.

l’Unità 25.1.10
Bonino a Libero: «Rivendico tutta la mia storia»
Nella storica sezione di Giubbonari, scatta il feeling tra Bonino e il Pd. Ma intanto è bufera sulla scelta del democratico Milana come coordinatore. E intanto Rutelli minaccia una terza candidata, Linda Lanzillotta.
di Mariagrazia Gerina

«Tu non ti ricordi di me, ma io sì, trent'anni fa mi hai aiutata... fisicamente...», le si avvicina una ex ragazza mentre distribuisce volantini «Bonino presidente». E che sono gli attacchi di Libero a “Emma l’abortista”, a fronte di quello sguardo tra donne che si riconoscono e trent’anni dopo sanno da dove ripartire? «Io la mia storia la rivendico tutta, disobbedienza civile, autodenunce, non violenza praticata in prima persona, non ho nulla di cui vergognarmi», snocciola la sua replica Emma Bonino, «gli altri con la loro storia facciano come credono», dice a proposito dei saluti romani, accolta dagli applausi e dai «tutti per Emma», in quella che un tempo sarebbe stata la «tana del lupo». «Sezione P.C.I.», recita ancora in via dei Giubbonari la targa di marmo accanto a quella più moderna di «Circolo Pd». Storica sezione, attualmente senza segretario: Matteo Costantini, un giovane ex Dl (la sua elezione fece scalpore), per protesta si è dimesso quando il Pd ha deciso di appoggiare la Bonino. E al B-Day non si fa vedere. «Ma sbaglia, per me i radicali sono la sinistra libertaria, senza, rischiamo di essere una riedizione del compromesso storico», teorizza Livio, militante ventenne, circondato da foto di Moro e Gramsci, Berlinguer e Pietro Scoppola. Non è il solo che spera in nuove sintesi politiche per uscire dal guado. «Democrazia, diritti, uguaglianza nel senso più grande, sono strade su cui si può fare insieme un cammino di cui l’Italia ha tanto bisogno», parla anche a nome dei più anziani Anita Pasquali: «Per sostenere la semplice e fortissima Emma».
Emma la semplice ringrazia commossa. «Io non sono voi, voi non siete me, ma questa è una forza se ci uniscono i valori di fondo», conia un mezzo slogan, parlando all’insegna della schiettezza. Tinto Brass? «Ci è stato vicino quando ci sputavano tutti, lo candideremo in Veneto o Lombardia», risponde a Edda Billi, che parla a nome della Casa delle donne. «Siamo in subbuglio, le differenze ci sono, ma ci stiamo schierando con te». La campagna «sguaiata» di certi giornali? «Dipenderà dai loro valori, regionali più che universali». Allude agli editori Angelucci? «Anche». «Ma il nervosismo volgare della destra è segno di debolezza, se vogliono continuare posso dare persino suggerimenti». Emma battagliera. Promette «un’operazione trasparenza», se sarà eletta. Drizzando il tiro anche di chi l’ha preceduta, se necessario: «Ma il risanamento avviato da Marrazzo è un punto di partenza, Storace aveva lasciato il disastro». Poi spiega «la buona amministrazione non basta, ci vuole una visione». Tipo: «Lazio regione d’Europa, non solo Vaticano». E invoca una campagna «libera e fantasiosa», iniziative, club. «Dobbiamo convincere anche la gente per bene che non si riconosce nei partiti», dice sperando che altri seguano l’esempio del suo vicino di casa che alla finestra ha appeso una foto con Emma presidente. Con lei non c’è il neo-coordinatore Riccardo Milana. Sulla sua nomina (appoggiata da Marini) impazza la bufera Pd. E anche sul segretario Mazzoli, a cui l’ala Franceschini chiede subito un’assemblea regionale. E intanto Rutelli minaccia di candidare l’ex ministro Linda Lanzillotta. «Sia lei che Rutelli sapranno fare le loro scelte», replica Emma proponendo un nuovo incontro: «Certo trasparenza e merito non sono punti programmatici che ci dividono».

Repubblica 25.1.10
Piccoli sogni crescono assenti nei bimbi si formano con l´età
Scoperta in Usa: la vera attività onirica inizia a 5 anni
Solo nel 20% dei piccoli il sonno è animato da qualche scena. Quasi mai d´azione. Le prime storie interessanti arrivano dopo
di Elena Dusi

ROMA - Anche a sognare si impara. Le trame piene di azioni ed emozioni non sono affare da bambini ma si costruiscono solo crescendo. Nonostante quel che si immagina osservando le smorfie o i movimenti del corpo, le notti dei piccoli sono calme e placide come specchi d´acqua senza vento. E ai genitori svegliati da pianti o resoconti di incubi i neuroscienziati spiegano che non dal sonno quelle paure scaturiscono, ma da stati incompleti di veglia in cui i piccoli si ritrovano confusi e disorientati.
Allo sviluppo dell´attività onirica nei bambini dedicano un capitolo Giulio Tononi e Yuval Nir, del dipartimento di psichiatria dell´università del Wisconsin a Madison, in uno studio più generale sulla natura dei sogni pubblicato dalla rivista Trends in cognitive sciences. Prima di elaborare scene ricche di movimenti, colori, interazioni ed emozioni, secondo i ricercatori, un bambino deve aver sviluppato le proprie capacità cognitive e arricchito la propria immaginazione. E questo avverrebbe attorno ai 7 anni di età.
Il pioniere degli studi sui sogni nell´infanzia fu lo psicologo americano David Foulkes che con infinita pazienza passò gli anni ´80 e ´90 a svegliare bimbi in piena notte nel suo laboratorio per farsi raccontare tra uno stropicciamento di occhi e un mugugno cosa stavano sognando. Fu lui il primo a stupirsi del fatto che, mentre gli adulti hanno quasi sempre una scena bizzarra da ricordare se svegliati durante la fase Rem (quella in cui si concentra l´attività onirica), solo il 20 per cento dei bambini riferiva di aver avuto un sogno in corso fino a un attimo prima.
«La natura statica dei sogni prima dell´età scolare - scrivono Tononi e Nir - si accorda con la difficoltà di pensare gli oggetti durante le rotazioni o le trasformazioni in genere» e con «lo sviluppo incompleto della facoltà di immaginazione, in particolare di quella visuale e spaziale». La mancanza di un vocabolario adatto a descrivere la bizzarria dei sogni o la scarsa voglia di collaborare con quel signore col camice bianco che li ha svegliati sul più bello del riposo non bastano a spiegare, secondo i ricercatori di Madison, perché i più piccoli non abbiano quasi mai sogni da raccontare.
I sogni piuttosto crescono insieme ai bambini. Fino a 5 anni le scene sono fisse e i protagonisti immobili. Nel sogno appare magari un animale, o si ha desiderio di mangiare. Le emozioni sono assenti, come pure le interazioni fra i personaggi. I ricordi delle giornate trascorse non bussano alle porte della notte e i bambini non riferiscono mai scene di aggressione, situazioni spiacevoli, paura o altre emozioni.
È a partire dai 5 anni che i sogni cominciano ad avere una trama, ancora molto banale. I protagonisti si muovono e scambiano qualche parola. Ma la frequenza degli episodi onirici è ancora bassa, lontana da quell´80-90 per cento registrata negli adulti svegliati durante il sonno Rem, anche fra coloro che sono convinti di non sognare mai semplicemente perché al mattino la memoria ha perso ogni traccia della movimentata vita notturna del cervello.
L´incapacità dei bambini di sognare scene complesse fa pensare a Tononi e Nir che neanche gli animali sappiano elaborare trame di caccia, corsa o avventurosi salti fra gli alberi. E che la loro attività onirica si limiti piuttosto a scene semplici e prive di azione. Nelle persone che hanno perso la vista invece (purché questo sia avvenuto dopo i 5-7 anni di età) le immagini e gli oggetti registrati durante l´infanzia tornano per tutte le notti della vita a riproporsi nella corteccia visiva, come se gli occhi non avessero perso la loro funzione.
I piccoli sognatori cominciano ad avere storie interessanti da raccontare a partire dai 7 anni. Ecco allora affacciarsi le emozioni nelle loro notti. I bambini in sogno si ritrovano a pensare, provano gioie o paure. Rivivono episodi avvenuti durante la giornata o ripescati dalla memoria autobiografica. E diventano finalmente protagonisti di trame sempre più colorate, complicate e - come in ogni sogno che si rispetti - bizzarre e divertentissime da raccontare.

Repubblica 25.1.10
Giulio Tononi, neuroscienziato dell´Università del Wisconsin
"Di notte il film d´un regista maldestro che ci saccheggia il fondo del cervello"
La corteccia cerebrale "suggerisce" un tema, per esempio la paura, e lì parte un’elaborazione piuttosto disorganizzata
di e. d.

ROMA - Dai tempi di Aristotele l´uomo scrive e si interroga sulla natura dei sogni. E per Giulio Tononi, neuroscienziato dell´università del Wisconsin, oggi disponiamo dei mezzi tecnici per svelare molti dei suoi misteri. «Mi occupo di sonno e di studi sulla coscienza» spiega. «E il sogno si trova esattamente all´incrocio fra questi due mondi».
Qual è il nesso fra sonno e coscienza?
«Prendiamo la fase del sonno a onde lente all´inizio della notte. Se qualcuno ci sveglia non abbiamo nulla da dire, da ricordare. Non c´eravamo, avevamo perso coscienza. Durante l´attività onirica invece, tipica ma non esclusiva del sonno Rem, il cervello genera un intero universo di esperienze coscienti. E tutto questo pur essendo disconnesso dalla realtà esterna».
Il cervello non risponde agli stimoli ma la coscienza funziona.
«Esatto, e ancora non sappiamo perché e in che modo questo avvenga. Abbiamo sperimentato che mantenendo le palpebre aperte in una persona che dorme e proiettando un film, le immagini vengono percepite dagli occhi e sono trasportate dai nervi ottici fino alla corteccia cerebrale. Ma lì si bloccano. Perché? Quale interruttore entra in funzione? È uno dei misteri più affascinanti del sonno, e speriamo di potervi rispondere presto».
L´altra domanda che affrontate è quale sia la sorgente dei sogni.
«Esistono due idee generali. La prima è che dalla parte profonda del cervello partano degli stimoli sensoriali piuttosto disordinati verso la corteccia, e che questa faccia il possibile per dare un´interpretazione a questi segnali. La seconda ipotesi, per la quale io propendo e che nasce dalle teorie di Freud, prevede che sia la corteccia a "suggerire" un tema che le sta molto a cuore. La paura, per esempio. E da lì un regista piuttosto disorganizzato cerchi di mettere insieme un film con gli elementi più disparati presi dalle aree profonde del cervello».

Repubblica 25.1.10
Apocalisse
La violenza dell’uomo e la furia di Dio
di René Girard

Le riflessioni dell´antropologo francese dopo l´11 settembre
Alle origini del Cristianesimo era una promessa, adesso è una forza distruttiva
Se studiamo i capitoli del Libro scopriamo che annunciano rivoluzioni e guerre

L´apocalisse non ha una connotazione storica ma religiosa, per questo non possiamo farne a meno. E´ questo che il cristianesimo moderno non capisce. Nel futuro apocalittico, il buono e il cattivo sono mischiati insieme in modo che, da un punto di vista cristiano, non si può parlare di pessimismo, si tratta di essere semplicemente cristiani.
Equivale a dire che i testi sacri fanno tutti parte di un unico organico. Per capirlo, basti citare la Prima Lettera ai Corinzi: se «i poteri», intendendo con essi chi gestiva il potere terreno, avessero saputo quello che sarebbe successo, non avrebbero mai crocefisso Gesù, perché sarebbe stato come firmare la propria condanna. Perché, mettendo sulla croce il Re della Gloria, il meccanismo del potere, quello della persecuzione ingiusta, viene rivelato.
Mostrare la crocifissione come il sacrificio di una vittima innocente equivale a rivelare la natura collettiva dell´omicidio, permettendoci di capire che si tratta di un fenomeno mimetico. E «i poteri» che l´hanno messo in scena sono destinati a estinguersi a seguito di questa rivelazione.
E la storia non è altro che la realizzazione di questa profezia. Chi dice che i cristiani sono anarchici ha in un certo senso ragione. I cristiani obliterano «i poteri» di questo mondo cancellando la legittimità di qualsiasi forma di violenza. Lo Stato vede il cristianesimo come forza anarchica. Ogni volta che il cristianesimo recupera vigore spirituale, questo aspetto riemerge.
Di conseguenza il conflitto con i musulmani è davvero ben più significativo di quanto pensino gli stessi integralisti. I fondamentalisti pensano che l´apocalisse sia l´ira violenta di Dio. Ma se leggiamo con attenzione i capitoli sull´Apocalisse, capiamo che in realtà parlano della violenza dell´uomo liberata dalla distruzione dei poteri secolari, e cioè degli Stati, che è quello a cui stiamo ora assistendo. (...)
Se studiamo i capitoli sull´Apocalisse, scopriamo che ci annunciano proprio questo: ci saranno rivoluzioni e guerre; gli stati si solleveranno gli uni contro gli altri, e così faranno le Nazioni. Questi sono i doppi. Questo è il potere anarchico presente oggi, dotato di una forza capace di distruggere il mondo. Così che è possibile vedere l´apocalisse avvicinarsi come mai in precedenza. Alle origini del cristianesimo l´apocalisse era considerata in termini magici: il mondo finirà, andremo tutti in paradiso e tutto sarà apposto. «L´errore» dei primi cristiani fu quello di credere che l´apocalisse sarebbe stata questione di un attimo. I primi testi cristiani, cronologicamente parlando, sono le lettere ai Tessalonicesi ed esse sono una risposta alla domanda: perché il mondo continua quando la sua fine è stata annunciata? San Paolo dice che qualcosa trattiene i poteri, i katochos. L´interpretazione più comune è che si riferisca all´Impero Romano. La crocifissione non ha ancora completamente dissolto tutti gli ordini. Se consideriamo i capitoli sull´apocalisse, essi descrivono una situazione simile al caos dei nostri giorni, che tale non era invece all´inizio dell´Impero Romano: come poteva finire il mondo se era così saldamente tenuto insieme dalle forze dell´ordine? (...)
Fondamentalmente è la religione che annuncia il mondo che verrà. Non si tratta di combattere per questo mondo. E´ il cristianesimo moderno che dimentica le sue origini e la sua vera direzione. L´apocalisse alle origini del cristianesimo era una promessa, non una minaccia, perché i primi cristiani avevano fiducia nel mondo ultraterreno. (...)
Ognuno di noi può vedere che l´apocalisse si fa sempre più concreta ogni giorno che passa: una forza distruttiva capace di cancellare il mondo, armi sempre più potenti e altre minacce ancora si moltiplicano davanti ai nostri occhi. Continuiamo a credere che tutti questi problemi siano gestibili dall´uomo, ma quando poi li consideriamo unitamente vediamo che non è così. Acquistano una sorta di valore soprannaturale. Come per i fondamentalisti, i capitoli dei Vangeli sull´Apocalisse ricordano a chi li legge la situazione in cui viviamo.
Ma i fondamentalisti credono che la violenza finale arriverà da Dio, e non danno per tanto il giusto valore a ciò che sta accadendo ora tutto intorno a noi: la rilevanza degli eventi dei nostri tempi dal punto di vista religioso.
E questo dimostra quanto poco siano cristiani sotto certi aspetti. E´ la violenza degli uomini a minacciare il mondo oggigiorno; e tutto ciò è molto più in conformità con i temi apocalittici del Vangelo di quanto loro non si rendano conto. (...)
Nell´islamismo l´uso della violenza fa inevitabilmente del martire uno strumento di Dio. Questo in realtà equivale a dire che la violenza apocalittica viene da Dio. Negli Stati Uniti è lo stesso per i fondamentalisti cristiani, ma non per le grandi confessioni religiose. Tuttavia, non c´è abbastanza coerenza da pensare che se la violenza non viene da Dio allora viene dagli uomini, e che quindi noi uomini ne siamo responsabili. Infatti, accettiamo che le nostre vite siano protette da ordigni nucleari. Questo è probabilmente il peccato più grave dell´Occidente, basti pensare a quello che comporta. (...)
Bisogna distinguere fra sacrificio dell´altro e sacrificio di sé. Cristo dice al Padre: «Non volevi né un olocausto né un sacrificio e io ho risposto «Eccomi»». In altre parole: preferisco sacrificare me stesso piuttosto che un altro. Ma questo rimane un «sacrificio». Nelle lingue moderne la parola «sacrificio» è intesa solo nel suo significato cristiano, la passione, quindi, è assolutamente giustificata. Dio dice: se nessuno è abbastanza buono da sacrificarsi al posto di suo fratello, lo farò io. Così facendo porto a compimento quello che Dio richiede all´uomo: preferisco morire che uccidere. Tutti gli altri, però, preferiscono uccidere, piuttosto che morire. (...)
Nel cristianesimo non ci si martirizza. Non si diventa volontari della morte. Ma, osservando i precetti di Dio (porgi l´altra guancia, ad esempio), ci si mette nella condizione di essere uccisi. E il cristiano morirà solo perché sono i suoi simili a volerlo uccidere non perché si è offerto volontariamente alla morte. Non è il kamikaze giapponese. Il concetto cristiano implica di essere pronti a morire piuttosto che a uccidere. E´ l´atteggiamento della prostituta buona nel giudizio di re Salomone che dice: «Da´ mio figlio alla mia rivale ma non ucciderlo». Il sacrificio del figlio equivale al proprio sacrificio: accettando l´equivalente della morte, lei sacrifica se stessa. E quando Salomone riconosce in lei la vera madre del bambino, parla non tanto di madre biologica ma di madre spirituale.
Questa parabola è tratta dal libro dei Re, che è un libro piuttosto cruento. Ma direi che non vi è simbolo pre-cristiano dell´atto sacrificale di Cristo superiore a questo.
© 2010 Robert Doran, Jean-Pierre Dupuy
© 2010 Pier Vittorio e associati, Transeuropa

Repubblica 25.1.10
Albert Camus
Così Jean Daniel racconta le passioni di un inviato speciale
di Bernardo Valli

In "Resistere all´aria del tempo" il fondatore del "Nouvel Observateur" ritrae lo scrittore quando era cronista di "Alger républicain": la sua etica professionale, il grande amore per il giornalismo e la verità
Il primo articolo sul quotidiano algerino parla del potere d´acquisto dei lavoratori
Come reporter debutta su una nave di prigionieri destinati alla Cayenna
Sognava un giornale ispirato ai principi di "giustizia, onore e felicità"
Nella Parigi liberata, su "Combat" il suo famoso editoriale "la lotta continua"

Il primo articolo, non letterario, di Albert Camus appare sul quotidiano Alger républicain il 12 ottobre 1938 e tratta del potere d´acquisto dei lavoratori. Il giornalista debuttante ha ben in mente il prezzo del pane, della carne, delle uova, del latte, quando parla dei salari degli operai europei e arabi nell´Algeria francese in cui è nato e in cui vive. È figlio di Lucien Camus, discendente di una vecchia famiglia di coloni francesi che non ha fatto fortuna. Prima di andare soldato nel 1914 (e di morire nella battaglia della Marna, quando Albert aveva un anno) Lucien Camus era un bracciante e lavorava in una fattoria vinicola di Mondovi, nella provincia algerina di Costantina. La madre è invece di origine spagnola, si chiama Catherine Sintes, e dopo la morte del marito per mantenere i due figli ha fatto la donna di servizio a ore. È semisorda e analfabeta. Sa leggere soltanto sulle labbra di chi le sta di fronte. Albert Camus l´adora. Lui, che sarà fino alla morte un´incarnazione di Don Giovanni, la considera la donna della sua vita. Per fedeltà a lei, alla sua condizione, vent´anni dopo, nel pieno della guerra d´Algeria, mentre riceve il Premio Nobel della letteratura, lui, anticolonialista da sempre, dirà che tra la giustizia, vale a dire l´indipendenza dell´Algeria, e la madre, sceglie la madre, la quale appartiene alla classe sociale degli europei poveri, esposti al terrorismo del Fln algerino, e non favoriti dal colonialismo.
È una "scelta" affettiva che solleverà polemiche politiche e ideologiche. Per Camus non si ripara un´ingiustizia, quella nei confronti degli arabi, con un´altra ingiustizia, nei confronti dei petits blancs, dei quali la madre è un´espressione. Insomma, secondo lui, la compassione per la vittima può trasformarci in carnefici. La violenza gli fa orrore anche quando non investe la madre. L´accetta durante la Resistenza.
In quel periodo della sua vita, in Francia, la giustifica sia pure a malincuore. A renderla inevitabile è, allora, la lotta contro il nazismo, la forza del male, e per nascita di una repubblica esemplare, non come quella dominata dal denaro morta sotto le rovine della guerra. Ma poi condannerà, e sarà uno dei pochi, la bomba atomica di Hiroshima. Placatesi le emozioni, ritorna al principio (non hegeliano) che nega alla violenza la capacità di partorire la storia.
Nel 1938 il giovane redattore di Alger républicain conosce comunque bene le difficoltà della vita. Sa quanto guadagnano gli operai europei e gli ancora più malpagati (e discriminati) operai arabi, a contatto dei quali ha vissuto a Belcourt, il quartiere di Algeri in cui è cresciuto, dopo la morte del padre. Non li ha dimenticati, anche se nel ‘38, a venticinque anni, Camus è laureato in filosofia ed è un intellettuale apprezzato. Oltre alle doti personali, l´hanno aiutato negli studi la sua condizione di "pupillo della nazione" (ossia di figlio di un caduto in guerra a cui la République deve riconoscenza), i sacrifici della madre e l´aiuto dei parenti, tra i quali uno zio macellaio.
La tubercolosi di cui soffre dall´adolescenza gli ha tuttavia impedito di diventare un professore di ruolo. La qualifica gli avrebbe garantito un incarico stabile e uno stipendio a vita. Ma lo Stato non vuole assumersi il carico di insegnanti malandati in salute. Sono spesso assenti e costano cari. Il concorso superato con successo non ha contato; né ha pesato la qualità letteraria della tesi su "Metafisica cristiana e neoplatonismo: Plotino e Sant´Agostino"; né sono stati presi in considerazione il saggio sui paradossi della condizione umana (L´Envers et l´Endroit) e la raccolta di scritti sulle bellezze naturali, sulla felicità e l´ottimismo (Noces), appena pubblicati. Per la burocrazia ha scarsa importanza che il candidato sia l´animatore di rilevanti attività culturali, in teatro e sul piano editoriale.
Queste qualità sono invece apprezzate dai fondatori del quotidiano di sinistra, sul punto di uscire ad Algeri. Cosi gli viene offerto un posto di redattore. Dopo qualche esitazione Camus lo accetta. Ha bisogno di uno stipendio. Il mestiere di cronista - spera - non ostacolerà l´attività di scrittore. È del resto l´epoca della letteratura impegnata e i suoi maestri sono Malraux e Gide, entrambi portatori di messaggi. Il giornale è un veicolo indispensabile per diffonderli. Non per fare propaganda, ma per raccontare con rigore e con spirito critico la realtà. La tisi ha moltiplicato la sua smania di vivere, ha fretta, teme di non avere il tempo di dire quel che ha in corpo e vuole dirlo ovunque.
Cosi Jean Daniel parla di Camus giornalista, al quale dedica un libro: Resistere all´"aria del tempo" (con Camus), (traduzione di Caterina Pastura, editore Mesogea, pagg. 192, euro 16): un piccolo capolavoro, un modello di asciutta prosa classica, scrive Claudio Magris nella prefazione, in cui il cronista Camus è presentato come il difensore di un´etica professionale riassumibile in tre principi: giustizia, onore e felicità. Meravigliosi principi, purtroppo poco familiari alla gente del mestiere, sia essa di sinistra o di destra o agnostica.
Di ieri o di oggi.
Come reporter Camus debutta su una nave nelle cui stive sono rinchiusi prigionieri destinati al penitenziario della Cayenna. E già in quel reportage si vede come le opere teatrali e i romanzi ai quali pensa o ai quali già lavora servano al giornalista, che, a sua volta, ispira lo scrittore (sottolinea Olivier Todd nella biografia di Albert Camus, pubblicata da Gallimard nel 1996). Non discute la fondatezza o l´ingiustizia delle condanne inflitte ai forzati, si limita a descrivere le loro condizioni disumane ed esprime la sua morale: «Non si tratta di pietà, ma di tutt´altra cosa. Non c´è spettacolo più abietto di quello di uomini ridotti al di sotto della condizione umana». Fa il giro dei commissariati, come un semplice cronista, per raccogliere notizie cui dedicare qualche riga; frequenta i tribunali, dove si imbatte in casi e immagini utili ai suoi futuri romanzi. È impossibile non pensare a Lo straniero, forse in gestazione.
Negli articoli pubblicati su Alger républicain c´è già il tono vibrante, coinciso che più tardi lo renderà famoso e che non affascina soltanto Jean Daniel. Il quale insorge contro chi sostiene che Camus non amasse il giornalismo. Certo non amava i suoi inestirpabili vizi: la tentazione di distribuire biasimi ed elogi, la sottomissione al culto della moda (dell´"aria del tempo"), la lotta tra rivali, la calunnia eletta a sistema e i cortigiani di ogni potere.
Il giornalismo è anche tutto questo: ed è quel che faceva dire a Balzac, nelle Illusioni perdute, che «se la stampa non esistesse, bisognerebbe soprattutto non inventarla».
I ritmi della vita di un giornalista, cosi come lui la vedeva e la viveva, piacevano a Camus. Alla stessa maniera lo affascinava il teatro. La redazione e il palcoscenico erano un po´ come dei pulpiti. Lo seduceva un´esistenza fatta di «entusiasmi e frustrazioni, intensa e futile, urgente e precaria».
Anche Jean Daniel è nato in Algeria e ha sentimenti mediterranei simili a quelli di Camus: appassionato giornalista ha scoperto le sue stesse passioni nell´amico più anziano e ammirato come un inarrivabile modello.
Camus sognava un giornale che non ha avuto né la possibilità né il tempo di realizzare. Nel suo giornale ideale doveva essere bandita ogni forma di menzogna; ma la serietà avrebbe assunto toni gradevoli; i tre principi - giustizia, onore e felicità - sarebbero stati strenuamente difesi.
Su Caliban (periodico creato da Jean Daniel nel dopoguerra) Camus scrisse che il giornalismo era «il mestiere più bello del mondo».
Come tutti i grandi scrittori, in particolare americani, Camus non ha esercitato a lungo quel mestiere. Quando lavora per Alger républicain, alla fine degli anni Trenta, prevale in Algeria una stampa che esprime tutto quello che il giovane redattore detesta e rifiuta: dal razzismo alla volgarità intellettuale, dalla banalità dei benpensanti alla rapacità di un capitalismo di rapina. Ha da poco dato le dimissioni dal partito comunista, in cui si sentiva a disagio, e di cui non condivideva l´idea secondo la quale l´anticolonialismo dovesse essere messo in disparte, vista la precedenza da dare all´antifascismo. Per lui colonialismo e fascismo andavano combattuti insieme. Il patto germano-sovietico del 1939 l´avrebbe comunque allontanato dal Pc, come accadde a molti intellettuali francesi del suo stesso stampo.
Penso a Paul Nizan.
In Algeria Camus si impegna con passione in vari processi. Quello in cui è sul banco degli accusati un colono povero, monsieur Hodent, impiegato di un´azienda agricola, lo interessa in particolare. Hodent è stato ingiustamente arrestato in seguito all´equivoca denuncia del suo padrone, un colono facoltoso. Il giovane cronista giudiziario contribuisce, almeno in parte, alla sua assoluzione. Continua con tenacia a occuparsi della vicenda, anche quando l´interesse del pubblico si è ormai spento. Questa fedeltà a una causa non più alla moda, non più nell´"aria del tempo", è un primo modesto esempio di giornalismo, che Camus seguirà poi in altre occasioni. Con il processo Hodent, vive il suo piccolo "caso Calas" (l´affaire che impegnò Voltaire nel Settecento e che è rimasto negli annali giudiziari e letterari).
Con l´assidua frequentazione dei tribunali il cronista fornisce un materiale prezioso allo scrittore nella cui mente comincia disegnarsi la figura di Meursault, l´eroe del futuro celebre romanzo - Lo straniero - che finisce in Assise e poi sulla ghigliottina. Il travaso di idee e immagini tra il cronista e lo scrittore è continuo e inevitabile nei due sensi.
Gli undici articoli sovrastati dal titolo "Miseria della Kabylia", e pubblicati tra il marzo e il giugno 1939, rappresentano il suo più grande contributo all´effimero quotidiano della sinistra algerina, e anche la testimonianza più netta delle sue convinzioni anticoloniali. Europeo d´Algeria e figlio di petits blancs, di bianchi poveri, prova dei rimorsi incontrando nel suo viaggio mendicanti, donne spossate dalle maternità e dal lavoro nei campi, scolari che svengono in classe per la fame, borghi senza fogne e senza medici.
L´inviato speciale di Alger républicain studia i salari, le abitazioni, il sistema scolastico, l´usura, l´artigianato. E conclude che il lavoro in Kabylia è una schiavitù, una vergogna, e che per ridare dignità alla popolazione bisogna assimilarla a quella francese. In quegli articoli, che indigneranno la destra, l´anticolonialismo di Camus non arriva a invocare l´indipendenza dell´Algeria. Chiede in sostanza la parità dei diritti tra il milione di europei e i sei milioni di "indigeni", come si dice a quei tempi.
Il meglio di sé il Camus giornalista lo dà come direttore di Combat, nella Parigi appena liberata. È già uno scrittore conosciuto. Lo straniero e Il Mito di Sisifo sono stati pubblicati da Gallimard nel 1942. Ha partecipato alla resistenza non con le armi, ma redigendo e diffondendo giornali clandestini.
Di Combat sono stati stampati 58 numeri clandestini, il 59esimo viene venduto dagli strilloni per le strade di Parigi. È il 21 agosto 1944 e l´editoriale anonimo di prima pagina, con il titolo "La lotta continua", è stato scritto da Albert Camus: «Oggi, 21 agosto, nel momento in cui usciamo, giunge al termine la Liberazione di Parigi. Ma sarebbe dannoso ricominciare a vivere nell´illusione che la libertà che spetta all´individuo gli venga accordata senza sforzo e dolore».
Sono trascorsi appena dieci giorni dalla liberazione di Parigi, quando il direttore di Combat (al quale collaborano saltuariamente Sartre, Malraux, Aron) denuncia la stampa, non più imbavagliata dalla censura, che sta recuperando i vecchi vizi. Lui è per un´informazione critica. Un editoriale deve essere «un´idea, due esempi, tre cartelle». E deve sempre prevalere la sintesi, che lui chiama la «formula».
La sua presenza a Combat dura fino al 1947. Poi getta la spugna. Il giornale ideale, appena abbozzato, resta un sogno.
I due anni li ha vissuti intensamente: in redazione, in tipografia, nei caffè di Saint-Germain la sera, dopo la chiusura del giornale. Scriveva in quei mesi La Peste. Ed era spesso in compagnia di Maria Casares, l´attrice, che era l´intenso amore cominciato durante la resistenza. Camus diceva ai giovani redattori: «Vi chiederò di fare delle cose noiose, ma mai sporche». Molto dopo, nel 1955, sarebbe ritornato di nuovo al giornalismo collaborando per più di nove mesi a L´Express, il settimanale della sinistra liberale.

Repubblica 25.1.10
Su "Reset" un filosofo agnostico spiega le ragioni della fede
Perché io ateo difendo la religione
di Eugene Goodheart

Sono tempi duri per una difesa razionale della religione. Durante la maggior parte della mia vita ho pensato a me stesso come a un ateo (e in certi momenti ancora mi considero tale), per questo motivo non avrei mai immaginato che mi sarei ritrovato a difendere la religione. La prevalenza del fondamentalismo, sotto varie forme e soprattutto nelle sue manifestazioni fanatiche e criminali, sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo, potrebbe suonare come un monito contro l´adozione di una religione. Che cosa ha spinto un agnostico come me a difendere l´esistenza della religione (senza tuttavia abbracciarla)? In primo luogo, l´eredità che essa ha lasciato nella letteratura e nell´arte e, secondariamente, la sordità dei neo-darwinisti che nella religione non vedono altro che superstizione e fanatismo.
Inizierò con un commento tratto dalla Democrazia in America di Alexis de Tocqueville: «Solo tra tutti gli esseri, l´uomo mostra un naturale disgusto per l´esistenza e un immenso desiderio di esistere: disprezza la vita e teme il nulla. Questi diversi istinti spingono incessantemente la sua anima verso la contemplazione di un altro mondo, ed è la religione che ve lo conduce. La religione dunque non è che una forma particolare della speranza. Soltanto attraverso una forma di aberrazione dell´intelletto e con l´aiuto di una sorta di violenza morale esercitata sulla loro stessa natura gli uomini si allontanano dalle credenze religiose; un´invincibile inclinazione li riconduce a esse». Le informazioni sulla sua vita non lo fanno apparire un gran credente. Avrebbe detto di aver esercitato su se stesso «una sorta di violenza morale»?
Io non sono credente e non considero la mia miscredenza la conseguenza di «una violenza morale esercitata sulla mia stessa natura». Tuttavia, trovo avvincente questo passaggio di Tocqueville. La prima frase suona come un´anticipazione dell´esistenzialismo (...). Per l´esistenzialista ateo, trascendenza significa una specie di autocreazione, il che, da un punto di vista religioso, è una blasfemia o un´eresia. In quanto esseri condizionati, possiamo solo sperare di modificare e rimodellare le condizioni, ma non di ricreare noi stessi ex nihilo (dal nulla). Tocqueville non conosceva l´esistenzialismo, conosceva però l´Illuminismo e la sua ostilità alla religione istituzionale. Naturalmente, molti dei philosophes erano dei deisti, ma il loro deismo fondeva la creazione al creatore e qualunque speranza nutrissero era diretta alla possibilità di istituire un paradiso terreno.
Si può vivere in modo appagante e «significativo» senza religione? Ovviamente, la risposta empirica a questa domanda è «sì». Dovremmo allora liquidare come un´esagerazione ciò che scrive Tocqueville? Tale domanda esige una risposta sfumata. Tocqueville parla della religione come di una forma della speranza, implicando che la speranza può assumere altre forme, ad esempio la speranza laica di un mondo giusto e armonioso.
Certo, l´Illuminismo incoraggiava questo tipo di speranza, sebbene la storia della sua realizzazione è, per lo più, una storia di delusioni. La scienza moderna, un portato dell´Illuminismo, ha compiuto enormi progressi nella cura delle malattie e nel prolungamento della vita umana, ma la moderna storia politica e sociale è stata anche una storia di violenza senza precedenti, per lo più in conseguenza del contributo dato dalla scienza allo sviluppo tecnologico. Inoltre, partendo dall´assunto che sia possibile una scienza della società, l´Illuminismo ha fornito ai tiranni una giustificazione ideologica alla tirannia. Coloro che sostenevano la Rivoluzione francese o quella russa si ispiravano alla fiducia che gli esseri umani potessero trascendere i loro impulsi irrazionali ed egoistici e realizzare la libertà, la fraternità e l´uguaglianza universali. Si trattava di una fiducia non destinata a sopravvivere alla disillusione. (...)
In La Vita della Mente, Hanna Arendt opera una distinzione tra pensiero e cognizione. La cognizione (scienza?) è la ricerca della conoscenza e della verità; il pensiero è la ricerca di un significato. «Dietro a tutti gli interrogativi cognitivi ai quali l´uomo trova risposta, si nascondono quelli a cui non è possibile rispondere. È più che probabile che gli uomini, se dovessero perdere interesse per il significato che chiamiamo pensiero e cessare di porre interrogativi a cui non è possibile rispondere, perderebbero non soltanto la capacità di produrre quelle opere del pensiero che definiamo opere d´arte, ma anche quella di porre le domande che possono ricevere una risposta e sulle quali si basa ogni civiltà». È vero? Credo che lo sia certamente per ciò che riguarda la religione e le «opere d´arte» in cui, ad esempio, la domanda «perché soffriamo?» è ricorrente. La differenza tra religione e arte è che per la religione, nelle sue manifestazioni dogmatiche, tale domanda riceve una risposta, anche se non necessariamente convincente, mentre per ciò che riguarda l´arte, l´interrogativo, per quanto necessario, resta controverso o impossibile da rispondere.
(Traduzione di Antonella Cesarini)

domenica 24 gennaio 2010

l’Unità 24.1.10
Emma, campagna fai-da-te «Subito club e comitati»
Prove di passo a due con il Pd. «Ma bisogna galvanizzare anche chi non fa politica». Via a comitati e club. E a coordinare la campagna, la radicale Bernardini insieme al Pd Milana. Ma su di lui nel Pd è bufera.
di Mariagrazia Gerina

«Ariosa», «parecchio fai-da-te», «creativa». Emma Bonino la sua campagna per conquistare gli elettori del Lazio la immagina così. «Se la lasci libera, poi prende il volo», sorride, pensando già ai Comitati Bonino che nasceranno mentre tra i banchi di frutta e verdura scambia sguardi e sorrisi, battute e strette di mano. Ma sembra che parli di sé. «Ciao, io sono Emma», si presenta, in un sabato mattina di sole invernale, come se, a cinquantuno anni, più di trenta dall’elezione in parlamento del ‘76, dovesse ricominciare tutto da capo. Attorno palazzoni di periferia, gente che sta attenta a risparmiare mentre fa la spesa. «Ce la facciamo?», le va incontro un signore con le buste in mano. «Ce la dobbiamo fare», corregge lei tenendolo per le braccia. Gesti spontanei, appena un po’ impacciati, come se davvero fosse un debutto per Emma questo cercare voti per sé e non per una causa, un’idea. «Emma, brava, sbaraglia gli schemi». «Non ti preoccupare se Libero ti diffama», la incoraggia la gente. «Le lotte per noi donne ce le ricordiamo». «L’anno del divorzio ero a in piazza».
COMINCIA IL VIAGGIO
Ecco, il ghiaccio è rotto, dopo le esitazioni e gli strappi, il viaggio elettorale di Emma Bonino candidata del centrosinistra alla Regione Lazio inizia. Nel più tradizionale dei modi. Con un bagno di folla vera. «Mi sembra d’essere la zia d’Italia», si schermisce lei. Di buon mattino, al mercato rionale di Casal de Pazzi. A mezzogiorno, in quello coperto di villa Gordiani. Scenari «popolari», scelti dal Pd per questa prima prova di passo a due con la candidata radicale. Chi le chiede di riprendere in mano la sanità («per mio figlio, autistico, c’è il nulla davanti»), chi non sa come fare con la pensione minima. Ci sono gli iscritti, il segretario regionale Mazzoli. «Ciao Emma, dove stanno i volantini?», arriva rispolverando l’entusiasmo di un neomilitante Nicola Zingaretti, «l’esploratore» nei giorni in cui il Pd doveva ancora decidere chi candidare. «Ciao Nicò», apprezza lei, prendendolo sotto braccio, mentre Zingaretti è già avanti a tirarle la volata. «Io non sono né per la destra né per la sinistra», lo blocca una signora. «Per questo candidiamo la Bonino», sorride lui. Funziona: «Ah Emma sì che mi piace». Scena spontanea on the road, meglio di uno spot televisivo. «Certo sono un bel ticket insieme», li guarda muoversi tra la folla un militante. E poi salire insieme in macchina, Nicola alla guida della sua auto. Emma che studia già la prossima fuga in avanti. «Emma ce la può fare anche contro le conventicole», dice il presidente della Provincia. «Ma dobbiamo pensare a una campagna che muova la creatività delle persone», ripete la Bonino, che, tra un banco e l’altro, accenna il suo primo discorso da candidata.
«La gente è uguale ovunque spiega -, le preoccupazioni sociali di chi ha malati a carico, quelle di chi non ha lavoro, i cittadini del Lazio sono in ansia per il futuro e insoddisfatti della classe politica: una buona amministrazione può dare risposte, purché abbia come priorità i più deboli ed esposti». Alla sinistra di popolo che incontra nei mercati convince. I nodi si sa quali sono: sanità, infrastrutture, rifiuti, ambiente. I limiti anche: il buco lasciato da Storace, dice Emma. La giunta Marrazzo ha iniziato il risanamento. Ma non basta: la «struttura amministrativa» è ancora troppo «opaca». «I posti letto ci sono ma vanno messi in rete». Trasparenza ed efficienza, le parole d’ordine su cui impostare il lavoro. Il comitato elettorale «è a buon punto», dice Emma. Sarà a Trastevere, via Ripense. Però bisogna «galvanizzare anche le persone che non fanno politica». Comitati e club per Emma Bonino. «Ci hanno già scritto per aprirne», fa sapere la candidata, che a fine giornata prova a sciogliere alla bega dei primi incarichi politici. Riccardo Milana, segretario del Pd romano, come voleva una parte del Pd (decisivo l’intervento di Marini), del tutto contraria l’altra (Zingaretti compreso), farà il coordinatore. «Scelta sbagliata», tuona Morassut, ala Franceschini. «Inspiegabile forzatura», dice l’ala Marino. Anche se sarà affiancato dalla radicale Rita Bernardini. «Ognuno sia propositivo e libero», fa da pompiere Emma, che sulle lotte intestine invoca il lavoro di squadra. ❖

il Fatto 24.1.10
Emma parte dai mercati
Inizia la campagna elettorale della Bonino
di Alberto Grossi

La pasionaria dei diritti civili tra banchi di frutta, famiglie e vecchiette sorridenti. In un gelido sabato mattina, Emma Bonino ha aperto la sua campagna come candidata presidente alla regione Lazio in due mercati della periferia romana, a Casal de’ Pazzi e a Villa Gordiani. Spiazzi colmi di gente e di curiosità, per la
donna che il centrodestra di Renata Polverini dipinge come l’Anticristo, abortista e anticlericale. Un “diavolo” che al mercato è arrivato in taxi, perché per gli impegni elettorali non usa l’auto che le spetta come vicepresidente del Senato. Ad attenderla, una selva di taccuini e microfoni, con l’inevitabile domanda sulla foto pubblicata da Libero, che la ritrae mentre pratica un aborto. “Quelle che avete visto sono cose risapute: rivendico quelle battaglie delle donne per l’aborto ma sono per la non violenza e la disobbedienza civile” replica subito Bonino. Ferma nel difendere Tinto Brass, probabile candidato per i Radicali nel Lazio e in Veneto: “Lui ci ha sempre sostenuti nei momenti difficili, e questo non ha mai fatto scandalo. E comunque delle liste nel Lazio non a ancora parlato”. Piccola nel suo cappottone nero, inizia il giro tra i banconi, assieme al presidente della provincia di Roma, Nicola Zingaretti, e al segretario del Pd del Lazio, Alessandro Mazzoli. Tanta gente e parecchio entusiasmo. Le più estroverse sono le vecchiette. “Ma lo sai che sei più bella che in televisione?” le dicono in parecchie. Bonino stringe la mano a tutti: “Ciao, sono Emma”. Un salumiere la indica: “Quella è l’unica onesta”. Le chiedono di fare “qualcosa per la gente”, e Bonino ribatte: “Facciamola assieme”. Per riprenderla, i fotografi si arrampicano anche sui camion della frutta. I militanti del Pd, che le hanno organizzato l’uscita, gongolano: “E’ andata bene, la Bonino è forte”. La candidata invece parla di programma: “Ci concentreremo su tre o quattro nodi fondamentali cercando soluzioni, non miracoli. La gente è uguale ovunque, ciò che le preme sono i malati a carico e i nodi del lavoro. I problemi del Lazio sono evidenti: la sanità, l’ambiente, le infrastrutture e i rifiuti”. Bagno di folla anche a Villa Gordiani. Un uomo le urla da dietro: “Marijuana libera”. Bonino lo ignora, e continua ad abbracciare signore con la sporta e farsi scattare foto con i telefonini. Alla fine non resiste, e si accende una sigaretta. Dopo i saluti, il ritorno alla sede dei Radicali in largo di Torre Argentina, da dove Bonino ha ricominciato a riannodare i fili del centrosinistra. Ieri pomeriggio ha nominato ufficialmente come coordinatore del suo comitato elettorale Riccardo Milana, senatore del Pd. Un nome proposto dal bersaniano Mazzoli e appoggiato anche dai Popolari, ma sgradito alla minoranza franceschiniana e a Michele Meta, ex coordinatore della mozione Marino. Venerdì sera i contrari avevano protestato sulle agenzie, ma Bonino ha ugualmente nominato Milana, ex Margherita e segretario del Pd di Roma. Che in serata ha precisato: “Non sono il futuro vicepresidente regionale, lavorerò solo per la candidatura. Le critiche? Il congresso è finito”. Rita Bernardini, radicale eletta in Senato per il Pd, farà da figura di collegamento tra Bonino e il comitato. La sede sarà in un’ex fabbrica a Trastevere, poco distante dalla casa della vicepresidente del Senato. Ora va definita l’alleanza di centrosinistra. Bonino ha già incontrato tutti i partiti. Deve chiudere l’intesa con l’Idv, che ha preso tempo ma garantirà il suo appoggio, e la Federazione della Sinistra, con cui la trattativa è più complicata: ma l’accordo resta possibile. Bonino ha sentito anche Linda Lanzillotta, deputato e possibile candidata alla regione per l’Api di Rutelli. Nei giorni scorsi la leader radicale è stata chiara: “Inutile lanciare appelli a Francesco, lui è un politico scafato”. Rutelli sembra però orientato a correre da solo. Intanto si lavora sull’agenda e sui temi della campagna. Pd e Radicali si aspettano nuovi attacchi sul tema dell’aborto e del rapporto dei cattolici: “Ma non ci fanno paura, e poi potrebbero essere controproducenti”. Questa mattina altri impegni romani per Bonino, nel mercato di Porta Portese e nel circolo Pd in via dei Giubbonari. Nel pomeriggio, giro dei Castelli Romani. La prossima settimana, la leader radicale sarà fuori Roma. Dopo due dibattiti a Torino (uno assieme a Mercedes Bresso), andrà a Berlino e poi a Davos, per “impegni internazionali improrogabili”.

il Fatto 24.1.10
Bonino, una Fatwa interessata
In questi giorni di attacchi frontali, si intuisce meglio il senso dell’ostracismo nei confronti di Emma, un’idiosincrasia dettata da ragioni economiche e industriali
di Furio Colombo

Ammettiamolo, tanti di noi si sono onestamente domandati – con comprensibile ansia – se sia mai possibile
passare fuori dalla Chiesa per entrare – con il voto popolare – nella stanza di governatore del Lazio, il Lazio di tante cattedrali, di tanti conventi, di tanti pellegrinaggi, di San Pietro, del Vaticano, di Castel Gandolfo, dell’Opus Dei, di quattro università pontificie. Ci siamo detti: ma questa gente di fede e di secolari radici nella religione del Papa potrà, vorrà mai votare Bonino, laica, indipendente, senza connessioni con il sistema ecclesiastico-organizzativo, libera da impegni che non siano di questa terra? Domande infondate, campate in aria. Al fitto brusio di perplessità ha risposto con tempestività e con apprezzabile lealtà il quotidiano Libero. Ha pubblicato un articolo-rivelazione-denuncia sul rapporto tra Emma Bonino e l’aborto.
Qui, però, si può usare la frase tipica di tante commedie: questo scoop non è quello che sembra. Non riguarda la santità della vita, ma la sanità come industria. Riguarda le cliniche e il controllo dei bilanci, la nomina dei primari, l’origine delle forniture mediche, dei servizi. Un affare immenso, altro che i bambini mai nati. Come molti lettori immaginano non c’è stato bisogno di una talpa per arrivare a questa constatazione.
È lo stesso quotidiano Libero a chiarire il senso di questa storia (e di queste elezioni) con quel tipo di aperta ma anche apprezzabile sfacciataggine (basta con i dietrismi!) che è ormai tipica di quest’ultima epoca berlusconiana. Libero, infatti, è il giornale di Angelucci, il re delle cliniche e della sanità nel Lazio; non solo nel Lazio, come ci dicono le cronache giudiziarie. Ma il centro strategico è qui. Si può tollerare l’incursione Bonino?
No, la Bonino non va bene. Non perché estranea alla fede, non perché si è occupata di aborto, ma perché non sembra incline a lasciarsi distrarre dai conti e dalla missione della sanità, che in Italia è pubblica. Lo sa anche Libero. Quando scatena la campagna sul legame diabolico tra Bonino e l’aborto, non sta parlando di morale cristiana. Sta dicendo: “Signori e monsignori, attenti al volume di affari”.
Hanno capito in fretta. Il pericolo non è la Bonino che viene avanti con la tenebrosa sinistra e forse il diavolo. Il pericolo è la Bonino stessa, che ha la sgradevole abitudine di leggere bilanci e contratti ad alta voce. E – con il suo ostinato laicismo – non solo ferisce le migliori tradizioni di fede dei credenti, ma scoperchia i benevoli spostamenti dall’interesse pubblico a quello privato (religioso e laico). E coltiva l’arcaica mania che i soldi pubblici debbano servire a fini pubblici, perciò ai cittadini, se possibile senza sprechi. Un pericolo non da poco. Ed ecco perché sto parlando del Lazio anche ai lettori che vivono lontani da questa regione. L’offensiva di Libero contro Bonino rivela ben altro che una inchiesta sull’impegno della Bonino in favore della libertà di scelta delle donne. Un impegno che è il suo marchio di fabbrica da sempre. Vediamo.
Primo. Il federalismo caro alla Lega, è una replica dello statalismo centrale nella sua versione peggiore: tutti a tavola. Ovvero tutti coloro che – non sempre per buone ragioni – hanno accesso alla tavola. Chi può decide. Chi ha i voti si spartisce i privilegi e le nomine.
Secondo. Come in un cannocchiale rovesciato i cittadini di colpo si trovano più lontani e non più vicini ai centri di decisione dei governi regionali. L’Italia continua a vivere nella percezione – fortemente sostenuta dai programmi politici della tv – che tutto ciò che conta si svolga a Roma. A volte solo l’arrivo dei giudici accende i riflettori su gravi realtà e illegalità locali. Ma anche questi fatti vengono commentati e capiti in relazione al danno o vantaggio dei partiti nazionali di maggioranza o opposizione in Parlamento e nel paese, non sul luogo. E senza mai calcolare il danno per i cittadini, sudditi di ogni singolo decisione locale.
Terzo. Iniziative di governo regionale arbitrarie e inspiegate – come l’improvvisa chiusura e smantellamento di un grande, ben funzionante ospedale romano (l’unico del vasto centro storico, il San Giacomo) poteva avvenire solo a opera di un’istituzione che può prendere decisioni gravissime senza rendere conto, senza dibattito e senza notizie. Il vero punto critico del centrosinistra nel Lazio non è il dramma triste e personale di Marrazzo. E’ la distruzione senza ragioni conosciute di un grande centro sanitario in zona strategica. Non c’è stata risposta alle domande pressanti di medici e cittadini. Ma la ragione non può che essere nell’ombra che copre i passaggi in cui il “pubblico” devolve le sue risorse al “privato”. Sono cose che, nel federalismo mutilato nel quale viviamo non si devono discutere con nessuno. Sotto gli occhi di tutti rimane il valore di un immenso immobile vuoto.
Un altro grande centro di eccellenza medica di Roma, il Santa Lucia, stava per essere liquidato, benché indispensabile.
Una vera rivolta popolare lo ha impedito. Ma ci riporta alle domande fondamentali: perché? E come mai i governi regionali possono – più di ogni altra burocrazia politica – operare nel buio, intendersi (o prendere ordini) da chi vogliono e rifiutare spiegazioni?
Quarto. L’allarme Bonino si spiega così: come tollerare la mania, mostrata per decenni da questa radicale di rendere conto in pubblico (la famosa accountability americana)? E se lo fa davvero?
Non è la fede o mancanza di fede. Non è il dramma dell’aborto a preoccupare. E’ la fine del silenzio. Negli scambi discreti richiesti dal privato, o imposti, se necessario, con tempestive, umilianti, vendette.
Naturalmente questo discorso vale per molte altre situazioni regionali in Italia. Ma qui stiamo parlando del Lazio.
Credo che sia chiaro a tutti che il violento attacco contro Emma Bonino non è di natura teologica.

Repubblica Roma 24.1.10
Regionali, Bonino lancia la sfida
Nascono gli "Emma club"
Ma nel Pd è scontro sulla nomina di Milana coordinatore
di Chiara Righetti

"Diamo aria alla campagna elettorale". Pd diviso su Milana coordinatore

Primo bagno di folla per Emma Bonino che ieri, con Nicola Zingaretti, ha fatto visita ai mercati rionali di Casal de´ Pazzi e villa Gordiani. Oggi la candidata del centrosinistra, che ha lanciato gli "Emma club per Bonino presidente", sarà al circolo Pd di via dei Giubbonari. Polemiche intanto sui saluti romani che hanno aperto la convention per Renata Polverini della Destra di Storace. Francesco Carducci, segretario dell´Udc romana: «Non abbiamo siglato nessun accordo col centrodestra, solo un´intesa con Renata Polverini sui temi di governo».

«C´avete portato la magica Bonino». «Emma, ce l´hai ‘n par de piotte?». Il primo tour elettorale della candidata del centrosinistra ha un sapore informale, come piace a lei: «Bisogna dare aria a questa campagna, galvanizzare chi non fa politica, magari con dei "club per Emma presidente". Ognuno sia protagonista, la tecnologia lo consente». Al mercato di Casal de´ Pazzi c´è folla, un megafono che passa di mano in mano, Zingaretti e Mazzoli che distribuiscono volantini. Arrivata in taxi, la Bonino sorride, stringe mani, si presenta con semplicità: «Ciao, io sono Emma». La gente fa la fila per salutare: «A me non me piacciono destra né sinistra, ma lei è una brava persona». Lei ascolta senza scomporsi, anche il macellaio che grida: «C´ha le cosiddette, pure se è donna». C´è chi le racconta del figlio disabile, chi confida: «Me la ricordo ai tempi del divorzio, ero con lei a un corteo». Tra un banco e l´altro Bonino trova il tempo per un comizio improvvisato: «Il programma sarà pronto a breve, su 3-4 nodi: sanità, infrastrutture, rifiuti». Ciò che preme ai cittadini «sono i temi sociali, il lavoro. Temi cui una buona amministrazione può dare risposte, con un´attenzione ai più deboli».
Oggi Emma sarà a Porta Portese, poi al circolo Pd di via dei Giubbonari. Prenderanno il via domani i lavori nella sede del comitato elettorale, a Trastevere. Ma intanto nel Pd non si placa la guerra sul coordinatore della campagna elettorale. Ieri pomeriggio, su indicazione del segretario Mazzoli, i radicali hanno ufficializzato la nomina di Riccardo Milana, con Rita Bernardini in un ruolo di collegamento. Ma la scelta dell´asse bersaniani-popolari di forzare la mano, senza una riunione (Mazzoli nel pomeriggio era a Viterbo), sul nome del coordinatore romano suscita una ridda di proteste. Ad aprirle il franceschiniano Morassut, che parla di nomina «sbagliata, espressione di un equilibrio attento solo ai posti». E di un partito «senza una guida» in cui il problema «è diventato costruire le condizioni per una buonuscita del segretario di Roma». Poco dopo anche l´area Marino in una nota esprime «contrarietà» per una «forzatura inspiegabile». E se il capogruppo in Campidoglio Marroni augura a Milana buon lavoro, viene subito smentito da un nutrito gruppo di consiglieri (Masini, Valeriani, Nanni, Panecaldo, Stampete): «Marroni sbaglia parlando a nome di tutti». In campo anche l´assessore regionale Mario Di Carlo, che con Foschi e D´Amato chiede che sia convocata d´urgenza la direzione del partito per fare chiarezza.

Repubblica Roma 24.1.10
Il presidente della Provincia accompagna la candidata del centrosinistra nel primo giorno del tour elettorale: è la persona giusta per un progetto trasparente
Zingaretti: "Con lei il Lazio può spiccare il volo"
di Anna Rita Cillis

In macchina dal mercato rionale di Casal de´ Pazzi, sulla Tiburtina, a quello di viale Venezia Giulia, a villa Gordiani, sulla Prenestina con lui alla guida della sua monovolume e lei seduta affianco. Emma Bonino, la candidata Pd alle elezioni per la presidenza della Regione, e il presidente della Provincia, insieme per la prima giornata tra la folla della vice presidente del Senato. Una «scelta» quella di candidare Bonino che il presidente della Provincia non solo condivide ma appoggia pienamente: «È la persona giusta - dice - è una seria amministratrice, quello di cui il Lazio ha bisogno anche per proseguire il lavoro avviato in questi anni. Una donna capace di dare risalto a valori di carattere generale. In questo momento la Regione ha bisogno di lei perché sono convinto che è in grado di garantire un progetto di governo trasparente. Bonino rappresenta un salto di qualità per la politica, locale e non».
Un sabato mattina tra la gente a stringere mani, a raccontare come questa regione potrebbe trarre vantaggio da una presidente come Bonino, ad ascoltare cosa pensano i romani di cosa hanno bisogno cosa vorrebbero dal governo regionale. E nel "giorno di Emma" lui è lì accanto convinto che tutti debbano puntare alla sua elezione «perché si sta correndo il serio rischio di ritornare a una cultura di governo che soffochi di nuovo il Lazio come è successo alcuni anni fa».
E va oltre il credo politico il presidente dalle Provincia quando afferma con totale convinzione che «la campagna elettorale di Emma Bonino non coinvolgerà solo chi guida la coalizione del centrosinistra». Per Zingaretti, infatti, lei è l´unica, in questo momento con l´attitudine a "tirar dentro" cittadini con credo e diversi e orientamenti politici diversi. Lei, dunque, la figura del futuro.
Un futuro vincente non per un partito ma per le persone «dove dar spazio alla sostanza, al lavoro svolto, alla trasparenza del proprio operato»: un nodo centrale, quest´ultimo, su cui Zingaretti punta molto. Secondo il presidente della Provincia di Roma, infine «più Emma Bonino si fa conoscere e più cresce l´entusiasmo. Il mio augurio è che tutti possano dare il proprio contributo per farla vincere, che nascano comitati, club che appoggino la sua candidatura». Con lei, per Zingaretti «il Lazio può spiccare il volo».

l’Unità 24.1.10
Una pandemia psichiatrica
risponde Luigi Cancrini

Negli Stati Uniti in soli dieci anni il numero di ragazzi affetti da disturbo bipolare si è moltiplicato di 40 volte. Le vittime sono soprattutto i bambini tra i 2 e i 5 anni e nella metà dei casi viene prescritto un antipsicotico come Zyprexa, Seroquel o Risperdal: che di bambini ne hanno già uccisi 45.
Davis Fiore

RISPOSTA Molti sono gli psichiatri oggi che diagnosticano il disturbo bipolare a persone che incautamente riferiscono di avere dei giorni buoni e dei giorni meno buoni. Generosamente il disturbo bipolare viene ipotizzato del resto anche alle persone che stanno male e piangono perché hanno perso un gatto o un nonno, un padre o un figlio, un lavoro o un amore ed a cui sempre più spesso si prescrivono gli antidepressivi (bisognerebbe altrimenti parlare con loro), gli stabilizzatori dell’umore (potrebbero ricadere) e un po’ di antipsicotici (per evitare che diventino troppo allegri dopo dimenticando). Epigoni moderni dei cacciatori di streghe al tempo dell’Inquisizione, vanno per il mondo di oggi gli psichiatri “biologici”, dunque, cercando quelli che nel loro delirio sono “bipolari”. Sapendo che per trovarli è sufficiente non collegare tristezza e allegria ai fatti della vita e sapendo che chi ne trova di più riceve più regali dall’industria farmaceutica, va a più congressi e fa più carriera. Evitando, per sé, la fatica e il dolore del confronto con il dolore dell’altro. Di cui nessuno ha insegnato loro a non avere paura.

Repubblica 24.1.10
Il Pd, un partito senza fissa dimora
di Ilvo Diamanti

Il clima d´opinione è grigio. Economia e lavoro. Politica. Anche la fiducia nel premier e nel governo, passata la benefica onda emotiva prodotta dall´aggressione a Milano, un mese fa, si è ripiegata.
Senza, peraltro, che l´opposizione ne abbia tratto vantaggio. Il Partito Democratico, in particolare. Nelle stime elettorali naviga intorno al 30%. Un po´ sotto, per la verità. È sceso, rispetto a qualche mese fa. L´elezione di Bersani l´aveva rafforzato. Ragionevole e competente, guardato con simpatia anche dagli elettori di centrodestra. Poi, la sospensione delle ostilità interne: non c´erano più abituati gli elettori del Pd. Così la nave del Pd aveva ripreso il suo viaggio.
Oggi, all´avvio della campagna che conduce alle elezioni regionali di fine marzo, sembra essersi incagliata di nuovo. Senza una rotta. Senza una bussola. Le stesse primarie per scegliere i candidati stanno frenando il Pd. Ciò è significativo, visto che le primarie sono, al tempo stesso, «mito e rito fondativo» (la formula è di Arturo Parisi) del Partito Unitario di Centrosinistra. L´Ulivo di Prodi, dapprima, e, quindi, il Partito Democratico di Veltroni. Diversi modelli di un comune progetto politico e istituzionale: maggioritario e bipolare. La risposta di centrosinistra al modello imposto da Berlusconi.
Oggi le primarie sembrano, invece, un´arena dove regolare i conflitti interni al partito e alla coalizione. Perlopiù, un ostacolo di fronte ai disegni del gruppo dirigente del partito. D´altronde, è difficile ricorrere alle primarie se si privilegia l´alleanza con l´Udc. Che ha fatto del proporzionale una ragione di vita. E che, comunque, non avrebbe una base elettorale adeguata a imporre i propri candidati in una consultazione popolare. Più in generale, è arduo cogliere una strategia coerente nelle scelte del Pd, in questa fase. Quasi dovunque il partito appare diviso. In contrasto al proprio interno e con i dirigenti centrali. Spesso incapace di decidere. Nel Lazio si è piegato - senza discussioni - all´autocandidatura della Bonino. Non proprio in accordo con l´intenzione di accostarsi alle componenti cattoliche moderate e all´Udc. In Puglia, invece, oggi le primarie celebrano lo scontro - più che il confronto - tra Vendola e Boccia (trainato da D´Alema). Divisi su molti temi. Non ultimo l´intesa con l´Udc. Anche a Venezia la scelta del candidato sindaco avviene in un clima acceso. Da vicende personali e dalla questione del rapporto con i moderati. Insomma, le primarie, invece di mobilitare e unificare gli elettori del Pd e del centrosinistra intorno alla ricerca di un candidato comune, si stanno trasformando in una resa dei conti.
Il Pd nazionale non sembra, peraltro, capace di regolare le scelte assunte in ambito regionale. Semmai, le complica ulteriormente. Somma le proprie divisioni a quelle locali. Rischia, così, di affermarsi un "modello balcanizzato", come l´ha definito Edmondo Berselli. Ciò avviene perché il Pd resta sospeso in una zona d´ombra. A metà fra la tentazione - implicita e inconfessa - di rifare il "partito di massa" fondato sulle appartenenze e sull´apparato. E l´imperativo - esplicito - di costruire il "partito dei cittadini", maggioritario e bipolare. Il percorso congressuale ha accentuato questa incertezza. Dapprima, la lunga sequenza dei congressi a livello territoriale ha mimato il "partito di iscritti". Le primarie, poi, hanno evocato il modello americano, che coinvolge elettori e simpatizzanti. Bersani è stato eletto da entrambi i modelli di partito. Avrebbe potuto, sfruttando la legittimazione conquistata, imprimere una svolta chiara al Pd. Indicare un progetto, definire un programma, con obiettivi chiari. Ai "suoi" elettori, anzitutto. Fin qui non l´ha fatto. Anche se continua a riscuotere ampia fiducia personale, mentre il Pd perde consensi. Una contraddizione significativa. Riflesso dell´incerta identità del Pd, ma anche di una leadership personale ancora incompiuta. Bersani, infatti, è simpatico a molti, non solo a sinistra, anche perché le sue parole non fanno male. Non segnano confini netti. Non marcano appartenenze né differenze chiare. Nello stesso Pd, dove emergono posizioni diverse e talora contraddittorie, ad esempio: sui temi della giustizia e dell´immunità. E ciò lascia trapelare il dubbio che le decisioni importanti vengano prese altrove, da altri. I soliti noti. Magari è una scelta meditata. Ha deciso di non decidere, di lasciare in sospeso le scelte strategiche, in vista di tempi migliori. Per non tradurre le divisioni interne in fratture. Ma allora meglio dirlo apertamente, per non passare da debole. In-deciso.
Insomma, il Pd oggi è un partito in grado di aggregare il 30% dei voti. Ma non dà speranza. Gli riesce difficile allargare i propri consensi. (E perfino tenere quelli che ha). Da solo ma anche attraverso alleanze. Perché non dice chi è, cosa intende fare e insieme a chi. È un ibrido. Forse: un equivoco. Un partito di massa senza apparato, con una debole presenza nella società e un ceto politico resistente. Al centro e in periferia. Un partito americano provincialista. Senza territorio ma condizionato dalle oligarchie locali.
Un partito americano all´italiana.
Parla un linguaggio difficile da capire. Anche perché non ha un vocabolario e neppure un sillabario. Non sa gridare uno slogan che risuoni forte nell´aria. Non ha una bandiera riconoscibile, dai sostenitori e dagli avversari. Le parole che usa hanno perso il significato di un tempo. Come il "riformismo". Oggi che le riforme le vogliono tutti. A partire dal premier e dal centrodestra, che pensano alla giustizia, al "legittimo impedimento" e al presidenzialismo. Il Pd: quali riforme vuole? E quali "non" vuole? Detti la sua agenda. Dica due o tre cose "memorabili". Che restino nella memoria.
Le primarie che si svolgono a partire da oggi e le elezioni di marzo, per il Pd, sono un´occasione importante. Importantissima. Da non perdere. Per non perdersi definitivamente. Ma chi lo guida deve tracciare un orizzonte. Che vada oltre i prossimi tre mesi. Per non rischiare che il Pd venga percepito come un partito provvisorio. Soprattutto dai suoi elettori.

Repubblica 24.1.10
E le torri crollano dalla vergogna
In altri tempi sarebbe già partita la richiesta di dimissioni, ma i dirigenti non hanno il controllo del partito
Bologna, la crisi sotto le Due Torri e sfuma la moralità emiliana del Pci
di Edmondo Berselli

Si sapeva della propensione irrefrenabile per l´altro sesso dell´economista
Tra i cittadini c´è un senso di scoraggiamento, come di qualcosa di irrimediabile

Prima di analizzare la contorta vicenda di Flavio Delbono sarà meglio capire chi è e che cos´è il sindaco di Bologna. Subito dopo la Liberazione, Giuseppe Dozza si toglieva il cappello di fronte a tutti i concittadini che incontrava.
Era il sindaco «di tutti» a cui si ispirò Giorgio Guazzaloca lanciando la propria candidatura «a 360 gradi», seppure di destra tradizionalista. Dopo di lui, rimangono nella memoria i sindaci «storici», come Guido Fanti e Renato Zangheri, sindaci eterni, immutabili perfino nella fisionomia, a cui non si può ricondurre nessuna caratteristica che non sia il comunismo. Era il comunismo emiliano. Un pragmatismo senza pari nel rapporto con l´economia e un´ortodossia studiatissima e prudentissima sul piano ideologico. Il tutto mediato da facce di legno che rendevano immutabili volti e corpi, e rendevano perfettamente credibili quei volti immobili come depositi di moralità socialista, credibili per sempre e per tutti. Così quando arrivò Sergio Cofferati, fu fin troppo facile scherzare sul Cinese («è come comprare i tortellini in Svezia» disse Luca Cordero di Montezemolo»), ma l´aspetto principale fu che Cofferati fece una campagna a tappeto, dalle polisportive ai partigiani e alle associazioni di donne, accompagnato dalla moglie, rapidamente liquidata per stanchezza matrimoniale dopo la facile vittoria elettorale.
E poi, evviva. Si era mai visto un sindaco con una compagna, Raffaella Rocca, di venticinque anni più giovane? In una città non morale, figurarsi, ma certamente moralista? Bastava attendere il successivo turno elettorale, con tanto di primarie, per essere soddisfatti: ecco a voi Flavio Delbono, giovane, prodiano, di sinistra ma non comunista, noto a tutte le istituzioni pubbliche che ha frequentato per la sua propensione irrefrenabile per l´altro sesso.
Tanto che quando si comincia a parlare del suo passaggio dalla vicepresidenza della Regione alla poltrona di Palazzo D´Accursio, qualcuno storce il naso con l´ambiente di Romano Prodi: «Non è che gli piacciono troppo le donne?». Ma dai, che cosa vuoi che sia, rispondono dal Pd, dove non ci sono candidati alternativi. Inoltre lo qualificano come cattolico, viene dalla Margherita, sembra avere tutti i requisiti in regola per la moralità prodiana. Per la verità, Delbono convive con una signora bene, Cinzia Cracchi, elegante sul genere Prada, occhiali sempre vistosi, pantaloni alla grande. Ma per giungere a questo legame informale, Delbono ha dovuto lasciare la prima e la seconda moglie (quest´ultima mentre era incinta, dice il gossip bolognese). E poi, mentre era in Regione, darsi a una vita goliardica, fatta di assunzioni clientelari (diciamo così) e di viaggi più o meno di lavoro, in Messico, a Santo Domingo. A cui si aggiunge una incomprensibile storia di bancomat, di auto blu, e piccole spese sulla carta di credito della Regione, che Delbono ieri ha cercato di spiegare al procuratore Morena Piazzi in un lungo colloquio (mentre Delbono si dice in grado di spiegare tutto, il procuratore continua a contestargli il reato di truffa aggravata).
In un altro momento, e in un´altra situazione politica, a Delbono avrebbero già chiesto (e da lui ottenuto) le dimissioni. Figurarsi: Bologna, ovvero la capitale della questione morale. La città dove Pertini tenne stretta la mano a Zangheri dopo la strage del 2 agosto 1980. Ma non solo: Bologna come simbolo assoluto della moralità comunista e del suo modello alternativo rispetto al malgoverno romano. Oggi questo simbolo cade mediocremente e forse tragicamente per alcune storielle prive di peso ma drammaticamente importanti perché coinvolgono la psicologia dei cittadini e la loro identità. Perché sono le due Torri a crollare, il profilo della città, il senso di una diversità su cui si è formata l´immagine di Bologna.
A parlare con i cittadini di Bologna si avverte un senso di scoraggiamento, come se fosse avvenuto qualcosa di irrimediabile, ma anche di prevedibile. Stiamo tornando nella normalità, sembrano dire i mugugni della gente di fronte alle domande sul caso Delbono. Anzi, ai tentativi di domanda. Gianfranco Pasquino, politologo, che si candidò alle primarie facendo perdere a Delbono quel due per cento virgola qualcosa che impedì al primo competitore e vincitore designato Flavio Delbono di vincere al primo turno, scrive in questi giorni che chi ha responsabilità pubbliche deve essere il più trasparente possibile, portatore di etica. Non è neppure una vendetta. E semplicemente la dimostrazione che il Pd, erede del Pci, non è mai stato in grado di autogestirsi.
Il vecchio Pci era un blocco di potere che non permetteva a nessuno di trovare strade diverse o alternative. Nel Pd invece ci sono numerosi nuclei che tentano di gestire il potere a loro volta. Sarà un vantaggio perché ciò significa la fine dello stalinismo, ma è uno svantaggio perché questo rappresenta la perdita di controllo dei dirigenti sul partito. Segretari di sezione, di federazione o di qualsiasi cosa imperversano sui quotidiani, senza che il loro ruolo sia mai stato chiarito. Basta leggere le cronache locali per osservare il calvario per tutto ciò che rappresenta la scelta delle candidature alle regionali. Ma soprattutto per avere la sensazione di una netta distanza fra la città e la sua nuova classe politica. Nei salotti, intanto, la borghesia bolognese ridacchia sulle ultime tragedie della sinistra. Un ceto che aveva sempre scelto la sinistra per opportunismo e per abitudine si trova a sghignazzare grazie ai regali di una classe dirigente malcresciuta.
C´era l´abitudine, in tempi elettorali, di ritrovarsi nelle migliori case di Bologna, in compagnia di Andreatta, Prodi e un po´ di supermanager (Gnudi, Clò). Era il luogo in cui si formavano le opinioni; si discutevano i problemi del paese, si generavano amicizie. Adesso anche quella Bologna tace. Si è indebolita come il Partito democratico. Dovrà trovare un nuovo referente politico. Ma per Bologna, la grassa eccetera, dov´è il partito nuovo capace di sostituire le parole, e soprattutto i silenzi e l´etica, di quel partito che veniva da lontano?

il Fatto 24.1.10
Bologna-Gate, un po’ di decoro
di Silvia Truzzi

Nell’età di Internet, può succedere che qualche volta le notizie le dia ancora la radio. E così è stato per l’alba del sex gate bolognese, dove il ragù è a base di amori svaniti, potere, soldi e rancore: ricetta vecchia, solito – cattivo – retrogusto. Tutto iniziò quando Alfredo Cazzola (con la consueta classe e i modi da Lord) ai microfoni di Città del Capo, emittente di resistenza locale, durante un faccia a faccia prima del ballottaggio per le comunali disse: “Le porto i saluti della signora Cinzia, la sua ex compagna che ha molte cose da dire sulla sua moralità”. La signora Cinzia fu convocata in procura, dove si presentò abbigliata come se dovesse andare a un matrimonio, fasciata in un vestito di seta color glicine, décolleté in vista, tacchi alti e tutto quanto. Flash, fotografi e dichiarazioni. Delbono fu eletto, la procura chiese l’archiviazione e non ci fece una gran bella figura. Finché il gip si fece venire dei dubbi e decise che era meglio darci una guardatina.
Difficile sapere come andrà a finire la vicenda giudiziaria, come prefigurare scenari politici. Ma si saprà molto poco. Quel che invece già si può dire è che un po’ di riservatezza non avrebbe guastato affatto. Il che naturalmente non significa che la ex aspirante first lady si doveva tenere per sé le accuse e i sospetti, anche se gli scrupoli morali sembrerebbero essere arrivati dopo la fine della storia d’amore. Il che più che con l’etica c’entra con la vendetta. Tutto è lecito in amore e in guerra è una stupidaggine. Ma è legittimo sentirsi defraudati, quando si viene lasciati? Sì e no: i sentimenti possono cambiare nel giro di cinque minuti, contro questo non si può combattere. Si accetta, con l’amore, il rischio della fine e del dolore. Però è umana la rivolta contro l’abbandono, il tentativo di lottare, forse anche di reagire scompostamente, come Cinzia: “Se Flavio dovrà dimettersi, non sarà la fine del mondo. Uno come lui, cadrà sempre in piedi. Tutti sono solidali con lui, tutti lo proteggono. Se si dimette, vuol dire che pagherà le conseguenze delle sue azioni”. La frase può essere letta in due modi: se ha commesso reati, dovrà risponderne, come cittadino e soprattutto come amministratore. Oppure: mi hai fatto male, ora tocca a te. E infatti la signora sembra aver fatto il giro delle sette chiese (mica per niente sono a Bologna) per svergognare l’ex innamorato. Consiglieri comunali, amici, avversari politici. Finché ha incontrato Cazzola, e il resto è storia. Una storia che ha portato ieri Mario Giordano a scrivere su Libero, sotto un titolo che recitava “Il bordello della sinistra”: Flavio Delbono, che si presentava come un mite professore di Economia, un Prodi minore, in realtà è un casanova con il tortellino impazzito (la metafora culinaria impazza). Chi poteva, avrebbe potuto risparmiarci questo spettacolo. È una brutta pagina della storia di Bologna – che sarà anche “una strana signora, volgare e matrona” – però a questo non ci era abituata. Si possono fare le cose senza urlare, con il sentimento di quello che può accadere a un’intera comunità di persone e non solo a sé. Si può fare la beneficenza anonima e la “maleficenza” in silenzio. I giudici avrebbero ascoltato la signora, anche senza tutto questo circo. Che purtroppo non restituirà alla signora né il suo amore, né l’orgoglio ferito.

Repubblica 24.1.10
Ritorno a Fossoli stazione per l'inferno
di Tahar Ben Jelloun

Carpi, una delle più graziose cittadine dell´Italia settentrionale, cinquantotto chilometri da Bologna, non va confusa con Capri. Un gruppo di turisti americani vi si è ritrovato qualche mese fa, e si è chiesto per quale motivo il mare non si vedesse. Carpi ha sessantamila abitanti, più di diecimila dei quali immigrati in buona parte da Pakistan, Marocco e Cina e al lavoro nei campi e nell´industria dell´abbigliamento. È una cittadina tranquilla che va fiera della propria piazza, la più grande in Europa: si chiama piazza dei Martiri in memoria di sedici partigiani, i cui cadaveri furono esposti per tre giorni dai soldati fascisti nell´agosto 1944. Carpi, da sempre di sinistra, conserva una buona qualità della vita. Ma questa città che a fine Ottocento contava oltre cinquemila ebrei oggi se ne ritrova soltanto sette, un numero insufficiente per aprire una sinagoga. Gli ebrei di Carpi erano andati incontro a persecuzioni tra il 1290 e il 1294, ma soltanto nel 1719 il ghetto fu chiuso e ricevettero l´autorizzazione a costruirsi un luogo di culto.
Ciò non rese loro in ogni caso la vita facile. Se ne andarono: nel 1898 a Carpi erano rimasti non più di trenta ebrei, e ciò portò alla chiusura della sinagoga nel 1922. Quando nel 1938 furono promulgate le leggi razziali - sulla falsariga delle leggi tedesche del 1935 - gli ebrei italiani furono presi apertamente di mira. Formavano l´élite intellettuale, appartenevamo alla borghesia o a una classe media molto agiata. Per loro quelle leggi furono veramente inimmaginabili. Non pensavano affatto che un giorno sarebbero stati discriminati nel loro stesso Paese, scacciati dalle scuole, esclusi dai mezzi pubblici, umiliati pubblicamente dai fascisti. Attesero il peggio e il peggio arrivò. Il premio Nobel per la medicina del 1986 Rita Levi Montalcini, oggi centenaria, nel 1938 era scappata in Belgio. Il governo di Mussolini aprì alcuni campi di concentramento per ammassarvi l´opposizione politica da una parte e gli ebrei dall´altra.
Ciò accadde proprio nei dintorni di Carpi, per la precisione a Fossoli, in aperta campagna. Agli ebrei furono destinate otto baracche, nelle quali furono rinchiuse intere famiglie. In ogni camerata c´erano tra le centocinquanta e le centosessanta persone. Le condizioni di detenzione erano «più o meno corrette» - raccontano oggi alcuni dei sopravvissuti -, soprattutto se paragonate a quelle che avrebbero vissuto a Auschwitz o a Bergen-Belsen, dove il novantadue per cento dei prigionieri fu sterminato dai nazisti. Gli oppositori politici furono spediti a Mauthausen, in Austria.
Primo Levi fu arrestato per motivi politici il 13 dicembre 1943 in Val d´Aosta, ma nel suo interrogatorio confessò di essere anche ebreo. Fu spedito immediatamente nel campo di Fossoli dove rimase un mese nelle baracche riservate agli ebrei, per la precisione nella sesta. Poi, il 22 febbraio 1944, fu deportato ad Auschwitz. Nel suo libro Se questo è un uomo parla poco di Fossoli: «Ci caricarono sui torpedoni, e ci portarono alla stazione di Carpi. Qui ci attendeva il treno e la scorta per il viaggio. Qui ricevemmo i primi colpi e la cosa fu così nuova e insensata che non provammo dolore, nel corpo né nell´anima. Soltanto uno stupore profondo: come si può percuotere un uomo senza collera?».
La discrezione e il coraggio di Levi furono notati dai suoi compatrioti, come testimoniamo alcuni sopravvissuti. Egli aveva assistito all´esecuzione di donne incinte e di anziani, perché in attesa della morte in ogni caso certa non erano risultati adatti a lavorare nei campi. Quell´uomo ferito così profondamente si convinse che le parole non potessero bastare a reggere il peso di una simile tragedia.
Il 12 luglio 1944 i nazisti uccisero nel campo di Fossoli settanta antifascisti, i cui nomi sono scritti sulle pareti del museo di Carpi. Il campo di Fossoli è diventato oggi un luogo della memoria. È visitato dalle scolaresche (fino a quarantamila studenti ogni anno), da stranieri, da storici, dai familiari di chi vi perse la vita. Una mostra permanente ricorda che cosa fu quel luogo, cosa fu quell´epoca. È interessante vedere il primo numero della rivista fascista La difesa della razza, datato agosto 1938, un mese prima che entrassero in vigore le leggi razziali. Foto, testimonianze, disegni, modellini, tutto ciò che serve a rendere l´idea di quello che accadde in quegli anni disgraziati è lì esposto.
La sinagoga principale, situata all´angolo tra la piazza dei Martiri e via Giulio Rovighi, è vuota. Funge da ufficio per la Fondazione dell´ex-campo di Fossoli. Più lontano, il museo della memoria è situato di fronte alla più vecchia chiesa di Carpi, Santa Maria del Castello detta la Sagra. Sulle sue pareti sono incisi migliaia di nomi. Vi sono delle voci registrate, dei disegni su pietra, uno dei quali di Picasso, e un muro dipinto da Guttuso in ricordo delle Fosse Ardeatine, l´esecuzione di 335 civili nella rappresaglia per l´attentato del 23 marzo 1944 a Roma nel quale erano stati uccisi trentatré tedeschi.
Le pareti del museo sono interamente ricoperte di brani di lettere scritte dai deportati: «Le porte si aprono… ed ecco i nostri assassini. Sono vestiti di nero. Le loro mani sporche indossano guanti bianchi» (Esther); «Io muoio, ma vivrò» (Alekscin); «Se tu avessi visto, come io ho visto in questa prigione, ciò che fanno patire agli ebrei, rimpiangeresti di non averne salvati in numero maggiore» (Odoardo); «Sono fiero di meritare questa pena» (Pierre); «Che cosa può fare un uomo che si trova in prigione e che è minacciato di morte sicura? Eppure mi temono» (Sawa); «La mia bocca vi porterà sulle labbra mute» (Emile).
E così Carpi mantiene viva la memoria delle vittime del fascismo e del nazismo. I suoi abitanti amano altresì ricordare che è una regione ricca, che non ha mai votato a destra e che coltiva le sue tradizioni culinarie, famose per il parmigiano e l´aceto balsamico. C´è un centro culturale molto attivo, e ogni anno si organizza un grande festival letterario, la Festa del racconto. Alcuni ricordano con umorismo che i genitori dell´attore americano Ernest Borgnine sono di Carpi. Dicono: «Carpi ha regalato al cinema il più celebre interprete di ruoli secondari, spesso cattivo e crudele. Ma Ernesto Bordino (il suo vero nome) è un uomo così affascinante!».
Traduzione di Anna Bissanti

l’Unità 24.1.10
Intervista con l’autrice di «Quando Nina Simone ha smesso di cantare»
«Il dramma femminile è l’assumere su di sé il giudizio maschile»
Darina Al Joundi: “Io, donna araba, mi appartengo”
di Monica Capuani

Quarant’anni e tante vite diverse vissute insieme. Dalla Siria, a Beirut a Parigi passando per un’esperienza di reclusione in manicomio. Fino al successo in Francia. E tutto nasce nella polveriera tragica del Medioriente

Ci sono donne che a quarant’anni hanno già vissuto diecimila vite. Per intensità, dolore, capacità di ribaltare situazioni. Darina Al Joundi, quelle diecimila vite le porta scritte negli occhi fondi e scuri come le foglie dei cedri che nel suo Libano non ci sono più. E nel corpo minuto,
vibrante ed energico, che muove sulla scena come unico e imprescindibile strumento per raccontare una storia, la sua, affidata all’inizio all’urgenza di un monologo teatrale che ha toccato in gennaio anche l’Italia. Al Festival di Avignone del 2007, il piccolo spettacolo ha lasciato tutti senza respiro, approdando con successo a Parigi e inanellando innumerevoli date in tutta la Francia e la Svizzera francofona. In seguito, ha preso la forma con la complicità dello scrittore algerino Mohamed Kacimi di un romanzo autobiografico intitolato, come la pièce, Quando Nina Simone ha smesso di cantare. La scrittura di Darina accende un turbinoso caleidoscopio di episodi forti: la nascita in un paese cruciale nella polveriera del Medio Oriente; un padre siriano, esule, intellettuale, maestro di libertà e di visioni idealistiche; una madre emancipata, coraggiosa, ma potenzialmente nemica. E poi la guerra, la gioventù vissuta pericolosamente, la febbre di una sessualità vitalistica, la recitazione come fuga nell’arte, lo stupro, il tradimento degli amici, l’ospedale psichiatrico. E infine, la rinascita.
Ci incontriamo a Parigi al Café La Palette, a Saint-Germain-des-Près. Un luogo in cui il padre di Darina avrebbe passato ore a conversare dei massimi sistemi con i vicini di tavolo, all’ombra delle piante che lo schermano dal via vai dei passanti frettolosi. Darina Al Joundi racconta di sé come un fiume in piena, consumando avidamente una Gitanes dopo l’altra. Partiamo da suo padre, una figura statuaria ma di grande tenerezza. Un uomo libero, fino alle estreme conseguenze.
«Mio padre aveva cinque fratelli, tutti nella sua famiglia avevano una particolare follia e un amore sfrenato per la libertà. Il piccolo villaggio d’origine di mio padre ai margini del deserto in Siria, Salamiyah, è un luogo apertissimo, che ha dato i natali a una quantità incredibile di poeti. La gente comincia a farsi visita alle undici di sera, beve fiumi di arak e fa festa, recita poesie arabe, ascolta molto jazz. Il centro culturale di Salamiyah ha ospitato intellettuali, filosofi, scrittori da tutto il mondo, e la percentuale di analfabeti all’epoca di mio padre era pari a zero. Forse quell’apertura di spirito dipendeva dalla struttura della società e della famiglia ismaelita, al vertice della quale c’è la donna».
Nel libro lei descrive sua madre come una donna indipendente, una giornalista che rischiava la vita in tempo di guerra per far sì che la sua trasmissione radiofonica andasse in onda. «Sì, durante l’invasione israeliana rischiava la vita tutti i giorni per andare alla radio, dove erano rimasti solo in tre a far funzionare le cose. Non ha mai smesso di lavorare e in più ha dovuto crescere tre figlie da sola. Aveva un marito che era in esilio, in prigione o ricercato, e che alla fine rimase vittima di un grave attentato. Mia madre aveva cominciato a lavorare alla fine degli anni Cinquanta, quando non era affatto consueto nel mondo arabo che una donna si guadagnasse da vivere, tanto meno nell’ambiente della carta stampata. Nel ’62 debuttò alla radio nazionale, era la terza donna che riusciva a entrare in un universo esclusivamente maschile e la prima a condurre una trasmissione in diretta. Non ha mai portato il velo, e neanche sua madre. Era una donna di carattere, che ha saputo difendere le sue scelte».
Alla fine del libro però è una madre che sceglie di far rinchiudere sua figlia in manicomio... «Quando mio padre ci ha lasciate, mia madre si è resa conto di quanto potesse pesare il giudizio della società. Lui non c’era più e lei non poteva più godere della libertà che, in realtà, ci aveva sempre garantito mio padre. La gente diceva che sua figlia era completamente deviata e in quel genere di società in cui vivevamo la colpa di una cosa del genere ricade sulla madre. Amici e parenti non facevano altro che dirle di reagire in maniera forte. Aveva perso l’uomo della sua vita e in quella circostanza ha preso la decisione sbagliata. Nessuno ha mosso un dito, nessuno ha cercato di intercedere per me, cercando di farla ragionare quando perse la testa e mi fece rinchiudere in manicomio».
Non era stata sua madre, ma suo padre a spiegarle tutto sulla sessualità e il piacere, quando era ancora giovanissima. «Forse mio padre voleva vedere se era all’altezza della libertà che aveva predicato tutta la vita. Rispetto alla sessualità di una figlia femmina, un uomo dimostra chi è veramente. Era una sfida con se stesso. A volte era difficile per lui digerire le mie scelte, ma cercava di superare se stesso. È grazie a lui se oggi ho un rapporto sano con la mia sessualità. Il problema delle donne è che assumono su di sé il giudizio degli altri, guardano se stesse con gli stessi occhi sprezzanti della gente. Mio padre non ha mai giudicato la mia vita, e gliene sono davvero grata».
Dopo una serie di rapporti infelici con gli uomini, suo padre le ha perfino consigliato di tentare con le donne... «Tirò fuori una lettera che aveva scritto a tredici anni a un suo compagno di classe. La sua prima poesia, l’aveva dedicata a un ragazzo. Mi spiegò che, nei rapporti, niente è una verità rivelata. La cosa fondamentale, diceva, è seguire il proprio desiderio, cercare la propria felicità. A tutti i costi».
Da giovanissima, lei ha trovato un modo ingegnoso di sbarazzarsi del problema ingombrante della verginità... «È un problema universale, in Oriente come in Occidente. L’uomo che ci toglie la verginità esercita inevitabilmente un potere e un’autorità su di noi. E lo sa. Quando quell’uomo ci incontra, anche dopo venticinque anni, ha sempre quel sorrisetto stampato sulla faccia come a lasciar intendere: “Ti ho creata io”. È orribile. Nella pièce dico che per me la verginità è come la valvola di sicurezza nelle con-
fezioni di caffè sottovuoto. Ci ho pensato io a sbarazzarmene, da sola. Se penso che oggi una quantità di ragazze si sottopongono alla chirurgia per farsi ricucire lì sotto, mi vengono i brividi».
La fine del libro segna l’inizio di una nuova esistenza in Francia... «Volevo scrivere una pièce teatrale e mi sono presa la libertà di mescolare pezzi della mia esistenza come in un frullatore. Il cinema mi aveva insegnato l’importanza dei tagli e il valore del montaggio. Quando sono uscita dal manicomio, sono rimasta tre anni in Libano prima di venire in Francia. Ho cominciato a lavorare in tv dove, grazie a una notorietà che risaliva all’infanzia, potevo guadagnare soldi rapidamente e pagare i miei debiti. Prima di trasferirmi qui, ho voluto riconciliarmi con mia madre, sono riuscita a perdonarla. Abbiamo parlato a lungo, le ho chiesto: “Come hai potuto farmi una cosa del genere?”. Lei continuava a ripetere: “La gente diceva che...”. Ha agito confidando sulla malvagità degli altri. Ci sono state discussioni devastanti, in cui abbiamo tirato fuori tutto quello che avevamo dentro, senza risparmiarci nulla. Ma alla fine ne siamo uscite vive».
Nina Simone, alla quale fa omaggio nel titolo del suo libro, cosa rappresenta per lei? «L’ho scoperta grazie a mio padre, che adorava il jazz. Negli anni ho sviluppato con Nina Simone un rapporto fusionale e appassionato. Mi sembrava che la sua interpretazione si accordasse sempre con il mio stato d’animo. Era come se mi parlasse. Quando andai a trovare mio padre a Cipro, dove si era rifugiato, passavamo notti intere a parlare, spostandoci da un bar all’altro, senza mai chiudere occhio. Lui adorava la notte. Quando tornavamo a casa, gli facevo ascoltare le mie canzoni del momento, e c’era sempre un pezzo di Nina Simone. Poi, una sera, sono stata picchiata selvaggiamente in un bar, e in quel momento c’era Nina Simone. Per tre anni non ho più ascoltato musica. Quella sera, Nina Simone ha smesso di cantare».
Oggi lei ha ricominciato a vivere...
«Sì, e sono molto grata. Nel 2001, durante le riprese di un film in Libano, ho incontrato l’uomo della mia vita che ho sposato quest’anno. È regista, produttore, direttore di post-produzione, metà egiziano e metà norvegese. È lui che ha prodotto la pièce insieme a me. Sono andata a presentare il progetto al regista Karim Boutros-Ghali, che poi ha montato lo spettacolo, e lui mi ha chiesto: “Perché lo vuoi fare?”. Gli ho risposto che se non lo avessi scritto forse sarei morta, e che adesso avevo bisogno di dirlo, di gridarlo».

l’Unità 24.1.10
Dolorosi ricordi di migranti
Un doc di Andrea Segre dà voce e corpo alle storie terribili degli immigrati rimandati in Libia
“Come un uomo sulla terra” di Andrea Segre, Dagmawi Yimer e Riccardo Biadene
di Dario Zonta

Del film Come un uomo sulla terra di Andrea Segre, Dagmawi Yimer e Riccardo Biadene, questo giornale ne ha scritto compiutamente al tempo del suo esordio pubblico al festival di Salinas, dove vinse come miglior documentario. Ora, dopo un percorso festivaliero ricco e numerosi riscontri di critica e pubblico, e dopo aver sollevato una discussione «politica» necessaria sulle conseguenze dell’accordo tra Italia e Libia riguardo i flussi migratori, il film si è trasformato in un libro, che contiene il film stesso, di fatto molto poco visto al di là dei circuiti indipendenti. Infinito edizioni (a cura di Marco Carsetti e Alessandrto Triuli) ha mandato alle stampe un operazione meritoria e ancora una volta necessaria, perché muovendo dal film riprende tutti quei fili che hanno permesso il suo farsi, a partire dalle storie dei migranti, testimoni e protagonisti di un attraversamento epico, doloroso e assurdo.
IL PROGETTO SUL CAMPO
Il libro, con la bella copertina del disegnatore Marco Lovisatti, è diviso in tre parti e approfondisce non solo i temi evocati nel film (soprattutto nel secondo capitolo dedicato alle «Memorie e corpi migranti»), ma anche il metodo e il progetto che accoglie un’operazione di siffatta calibratura. Andrea Segre firma insieme ad altri due autori, Riccardo Biadene (autore di documentari e operatore culturale) e Dagmawi Yimer (migrante etiope, diventato regista per necessità di racconto e riscatto), portandoci ancora una volta un esempio comunitario e allargato di fare documentario. Sociologo di formazione, Segre ha caratterizzalo i suoi lavori (Marghera Canale Nord, A sud di Lampedusa) non solo per il verso di un certo impegno civile, dentro le cose del presente con le sue storture e malignità, ma lo ha fatto attivando una rete di collaborazioni e mettendosi in contatto con aree più grandi, ricevendo impulso, forza e creatività. Il suo percorso lo ha portato sempre ha occuparsi di temi urgenti, senza cadere mai nella dittatura del referente e cedere alle molestie del contenuto sociale e civile. Le storie che ha scelto sono il frutto di indagini, conoscenze, vissuti che vengono prima del film e in occasione di progetti strutturati. Questo di Come un uomo sulla terra si ricollega a un progetto che sostanzia il film. Lo ricorda Triulzi nell’introduzione: «L’idea di iniziare a comporre un Archivio delle memorie migranti basato sulle attività didattiche e di cura della persona presso la Scuola di italiano per rifugiati e richiedenti asilo Asinitas di Viale Ostiense a Roma, è nata dall’incontro tra alcuni studiosi di storia dell’Africa coloniale e post coloniale, con esperienze di terreno in Etiopia ed Eritrea, un gruppo di rifugiati provenienti dai Paesi del Corno, e gli operatori della scuola Asinitas». Intrecci di figure diverse in contesti diversi che si uniscono per dar vita a un Archivio della Memoria, di cui il film è una esemplificazione, di grande impatto emotivo e cinematografico.