mercoledì 27 gennaio 2010

l’Unità 27.1.10
Emma, l’aborto e la nuova ipocrisia
di Adele Cambria

G li scheletri di Emma? Ma quali? Chi ha davvero, negli oscuri, profondi armadi della coscienza, gli scheletri di uno o più aborti imposti alla compagna, alla fidanzata, alla moglie, all’amante di una notte o di più notti? Non sono domande retoriche, le mie. Mi chiedo infatti: chi, se non persone di sesso maschile e di età probabilmente avanzata, infastidite, in un tempo più o meno remoto della loro esistenza, dal dover constatare che la partner è rimasta incinta (magari perché lui rifiutava l’uso del preservativo) e quindi o le ha imposto di sbrigarsela da sola o, in extremis, le ha allungato un po’ di spiccioli per “liberarsi” e, soprattutto, per “liberarlo” da qualsiasi responsabilità chi, mi chiedo, se non personaggi del genere, hanno la sfrontatezza di rinfacciare ad Emma Bonino, nel 2010, una limpida foto in cui l’allora giovanissima militante radicale aiuta una donna non a “liberarsi” ma a soffrire meno per le conseguenze della prima o dell’ennesima violenza maschile sul proprio corpo. I Radicali, la giovane Emma come quella coraggiosa e arguta donna già attempata, la filologa Adele Faccio, che il C.I.S.A. l’aveva creato, nelle loro iniziative, e quindi anche in quelle dell’informazione sugli anticoncezionali (reato perseguibile penalmente, in Italia, fino al 1971) e della pratica, per un periodo assai breve, degli aborti “militanti”, ci hanno sempre messo, come si dice, la faccia.
E quindi Emma Bonino non ha scheletri nell’armadio, non ha chiesto, quando è stata eletta in Parlamento, nel 1976, di ottenere l’immunità parlamentare si era anzi denunciata all’autorità giudiziaria, come del resto aveva fatto Adele Faccio sul palcoscenico del cinema-teatro Adriano a Roma. E mi ricorda Gianfranco Spadaccia che in galera ci era finito due settimane prima di Adele e di Emma che i quattro deputati radicali in Parlamento, cioè Marco Pannella, Mauro Mellini, Adele Faccio ed Emma Bonino, chiesero,al contrario, di essere processati. Ma la loro richiesta fu respinta. Così, l’unico ad essere processato, ma nel 1991, perché si era dimesso da parlamentare e non si era più ripresentato, fu Gianfranco Spadaccia. Nel frattempo, nel 1978, era stata approvata la pur ambigua legge 194 e nel 1981 il referendum che voleva abolirla aveva riscosso il 70% di No.
È possibile che a quasi trent’anni da questi eventi che sono ormai storici e che, nonostante le barriere di una obiezione di coscienza, spesso soltanto opportunistica, hanno ridotto della metà la pratica della interruzione volontaria della gravidanza, se ne debba tornare a discutere (strumentalmente) nel corso di una campagna elettorale, in cui soltanto il nome e la persona di Emma Bonino, autorizzano la speranza di una gestione seria, responsabile, non più degradata e degradante, della Regione Lazio? ❖

Repubblica Roma 27.1.10
Di Pietro promuove la Bonino: "Vincerà"
Ancora malumori nel Pd. Mazzoli: "Non ho alcuna intenzione di dimettermi"
Vendola: "Verrò nel Lazio a dare una mano a Emma È un´ottima candidata"
di Anna Maria Liguori

«Noi di Italia dei Valori siamo contenti della candidatura di Emma Bonino, che giudichiamo vincente sul piano della qualità, della innovazione, della caparbietà». Antonio Di Pietro, leader dell´IdV, tende la mano, dà respiro a quell´accordo che la candidata del Pd alle regionali gli ha chiesto qualche settimana fa. Di Pietro temporeggia, il sì dovrebbe arrivare appena finito il congresso nazionale del partito che si terrà dal 5 al 7 febbraio. «Siamo certi che con la Bonino si rompe un ciclo di partitocrazia - continua Di Pietro - e visto che l´IdV è sempre stata contraria alla partitocrazia, dico che l´unione fa la forza anche in questo caso». La Bonino l´accordo lo da per fatto: «Ringrazio Di Pietro per il sostegno dell´Idv e condivido quando indica nella partitocrazia la vera peste da debellare. Di Pietro raccoglie una battaglia storica radicale e una priorità di fondo del mio programma. L´unione fa la forza». Riccardo Milana, coordinatore della campagna elettorale le fa eco: «Le parole di Antonio Di Pietro dimostrano quanto sia coinvolgente e inclusiva la candidatura di Emma Bonino, e confermano quanto sia avanzato il suo lavoro sull´alleanza di centrosinistra. Ci stiamo adoperando perché sempre più forze la sostengano».Incerto invece l´appoggio dell´Api di Francesco Rutelli: «Lunedì sono finalmente arrivati dei messaggi di attenzione da entrambe le candidate verso Alleanza per l´Italia. Abbiamo inviato loro il documento con cui chiediamo in concreto gli impegni che riguardano le vere sfide della Regione». E il governatore della Puglia Nichi Vendola dice: «La Bonino è un´ottima candidata, verrò nel Lazio per aiutarla nella campagna elettorale».
Ma le acque interne al Pd sono ancora agitate. Le insistenti voci che vogliono Alessandro Mazzoli, prima dimissionario e poi candidato al Consiglio regionale, vengono smentite dal segretario Pd del Lazio: «Sono cose totalmente prive di fondamento. Coloro che le hanno messe in giro sono degli irresponsabili che minano la credibilità e il lavoro del partito in un momento delicato come la campagna elettorale. È tempo di farla finita con questi giochetti e di mettersi a lavorare per la vittoria del Pd e del centrosinistra». Ma ci sono altri motivi di discordia. «Io e i rappresentanti della mozione Marino - annuncia Ileana Argentin, deputato del Pd - vogliamo l´assemblea, raccogliamo le firme con Roberto Morassut».

Il Tempo 27.1.10
Perché Bonino e Vendola possono vincere
di Paolo Messa

Le elezioni non si vincono sui giornali. Lo sa bene Silvio Berlusconi che spesso è stato capace di ribaltare le facili previsioni giornalistiche. Dare oggi la croce addosso al Pd e alla sinistra è sin troppo facile. Hanno impressionato le difficoltà che hanno portato all`incoronazione di candidati strategici come la Bonino e Vendola: rimarginare le ferite non sarà facile per Bersani & Co. Detto questo, sarebbe un guaio se gli avversari del centrodestra sottovalutassero l`impatto elettorale dei due nomi che così tanto hanno diviso il Pd. Emma Bonino e Niki Vendola corrono per vincere e sono tutt`altro che fuori gioco. Il Lazio e laPuglia sono peraltro, insieme al Piemonte, le tre regioni su cui misurerà la tenuta della sinistra e la capacità di sfondamento del partito del premier. L`aver schierato ottime figure come quelle di Renata Polverini e di Rocco Palese rischia di essere insufficiente. La leader dei Radicali e quello di Sinistra e libertà, benché alla guida di partiti dal consenso nazionale, relativamente scarso, hanno un fortissimo appeal in genere ma sui giovani in particolare. L`uso di cui sono capaci dei New Media (internet e marketing virale) li porta a godere oggi di un vantaggio colmatile ma, al tempo stesso, non ancora colmato. I giovani, inteso come pubblico largo e non come squadre di militanti, sono infatti il vero tallone di Achille dei partiti moderati e di quelli "tradizionali", di massa per usare una terminologia novecentesca. Il dialogo con le ragazze e i ragazzi nati fra il 1980 e il 1992 non è facilissimo e richiede uno sforzo di innovazione anche per il diverso consumo che questi fanno dei media. Non solo. I sistemi elettorali partitocratíci affermatisi in Italia negli ultimi anni (l`obbrobrio del Porcellum su tutti) hanno sfavorito il coinvolgimento delle ultime generazioni e lo stesso reclutamento di classe dirigente è avvenuto sul livello più basso della cooptazione. Per questo è più difficile per i grandi partiti comunicare con i giovani ed è più naturale per "outsiders" come Bonino e Vendola. E non è un caso che il Cardinale Bagnasco abbia invocato, come fece lo stesso Santo Padre mesi fa, "una nuova generazione di cattolici impegnati in politica". Il futuro di Pdl, Pd e Udc non dipende tanto dalle sorti singolari di Berlusconi, Bersani e Casini ma sulla capacità che questi leader avranno nell`aprire il gioco e reclutando forze fresche e audaci (non giovani Signor Sì). Quanto al presente, un modesto consiglio non richiesto: attenti alla capacità di impatto della signora Emmatar.

il Riformista 27.1.10
«Emma, che ipocrita a non volermi con te nel Lazio»
Tinto Brass. «La Bonino ha ceduto alle regole del sistema.
Comunque, fortuna che c’è lei: ero tentato dal votare la Polverini. Io con i Radicali in Veneto e forse Lombardia».
di Alberto Alfredo Tristano

«Emma Bonino mi ha deluso: depennando la mia candidatura nel Lazio, ha ceduto all`ipocrisia del sistema. Mi ha politicamente evirato. Comunque fortuna che c`è lei per il centrosinistra: ero quasi tentato dalla Polevrini. Che dire? Sono vittima dei moderati... Da anni li corteggiano e non ne hanno mai beccato uno. Altro che realpolitik. La vera realpolitik è quella di Vendola, che afferma una realtà precisa, "io vinco", e la coglie nei fatti. Per quanto mi riguarda, certamente correrò in Veneto e forse anche in Lombardia. La mia candidatura è un`operazione di deragliamento ideologica rivolta contro i farisei del potere, della morale, della dignità, sbandierata con parole a cui non corrispondono i fatti. E di questa battaglia sono pienamente convinto. D`altra parte la conduco da anni, con i miei film. Sono sicuro che avrò tanti voti benché, anche se eletto, non credo di voler starmene in un consiglio regionale... Spero solo he si eviti l`errore commesso anni fa quando mi candidai sempre con i Radicali: sulla scheda scrissero Giovanni Brass e nessuno mi riconobbe. Stavolta scrivano Giovanni detto Tinto Brass, così come scrivono Giacinto detto Marco Pannella...». Giovanni detto Tinto Brass ha già pronto lo slogan elettorale: Eros è Liberazione. Quasi decisa anche l`immagine fotografica per i manifesti: «Meglio un culo, che una faccia da culo ... ». Il messaggio è chiaro: «Nella sessualità possiamo trovare la nostra liberazione. Perché l`importante è sfuggire alla prigionia del potere, che ci vorrebbe sempre frustrati, colpevolizzati. Il potere cerca di controllare il sesso, ma attenzione perché il sesso a un certo punto si vendica sul potere. Lo stiamo vedendo da almeno un anno a questa parte. Le escort di Berlusconi. I trans di Marrazzo. La Gomorra di Bari. Le amanti di Bologna. Il potente non ha il coraggio di mostrare la sua vera faccia, ma prima o poi la maschera cade. Berlusconi può corteggiare la Chiesa quanto vuole ma resterà sempre un "tiranno", nel senso che gli tira sempre e non c`è modo di contenerlo. Nessuno ha il coraggio di 
dire la verità, qualsiasi verità: ci provò Craxi alla Camera nel suo ultimo discorso, quello sul finanziamento illecito, e pagò per tutti...». 
Giovanni detto Tinto Brass ricorda la sua prima (e unica) infatuazione per la politica. Un nome e un luogo: Nenni, Campo Santo Stefano a Venezia. «Intendiamoci, dell`ideologia non mi è mai mportato nulla. Ma a sentire Nenni provai un godimento fisico. Perché a me interessa il linguaggio. Dicono che io non abbia nulla da dire. Vero: ma lo so dire bene. Non mi appartengono i furori delle idee, ma la serenità della mia espressione. Non a caso vengo dalla Serenissima, "il sesso femminile d`Europa", secondo Apollinaire. È vero: quando son lì, vivo in stato di erezione permanente... L`oratore Nenni mi fece lo stesso effetto, anche se mi costò la cacciata da casa da parte di mio padre, fascista sin dalla marcia su Roma. Era un grande penalista, strepitoso rètore: io, avvocato mancato, seguivo le sue arringhe di nascosto, per non dargli la soddisfazione di vedermi incantato...». Tra la campagna elettorale e i viaggio all`estero in agenda (domani parte per la Colombia, ospite d`onore in un festival: «ho reso miliardari troppi distributori ed esercenti perché non si ricordino qualche volta di rendermi omaggio»), Giovanni detto Tinto Brass è al lavoro sui prossimi progetti. «Il primo sarà un seguito di Io, Caligola, con l`antica Roma ricostruita in 3D. 
Più che l`orgia del potere, racconterò stavolta il potere dell`orgia... L`altro sarà un film sul caso Casati Stampa: il marchese che uccide la moglie e il di lei amante. Mi piacerebbe poter girare qualche scena nella villa di Berlusconi ad Arcore, che appartenne proprio ai torbidi marchesi... Mi ha sempre colpito il fatto che il guardiano di quella tenuta fosse lo zio del brigatista Mario Moretti...». 
Per Giovanni detto Tinto Brass è venuto il tempo di mettere ordine nei ricordi. Sta prendendo formala sua autobiografia in forma di intervista a Caterina Varzi, sua nuova «musa ermeneutica»: «Speriamo solo che non mi interpreti troppo...». Si chiamerà Ciak si giri! But I see more. La prima parte del titolo non c`è bisogno di spiegarla, vista l`indole retrospettiva del regista (un suo libricino di qualche anno fa, Elogio del culo, si apriva con l`eloquente trio di tesi-antitesi-sintesi: «II culo è lo specchio dell`anima. Ognuno è il culo che ha. Mostrami il culo e ti dirò chi sei»). Più celato il senso della frase in inglese: un verso di Ezra Pound dedicata a nonno Italico Brass. «Fu un pittore di successo, capace di mettere assieme una collezione che comprendeva Tintoretto, Magnasco, Veronese. Pound aveva compreso il suo sguardo lungo, che vorrei appartenesse anche a me». Parlando della sua lunga carriera, c`è un film che ricorre più degli altri. Il primo: Chi lavora è perduto. «Mi ricordo della violenta censura che cercarono di impormi. Figurarsi: un film contro il potere, la Costituzione, che negli anni `60 all`alba del centrosinistra parlava d`aborto, e a risentire le polemiche contro la Bonino di questi giorni sull`interruzione di gravidanza mi vien da pensare che nulla da noi è cambiato... Al ministero mi dissero di rifarlo daccapo. lo decisi di cambiare solo il titolo iniziale, In capo al mondo. Era un periodo che mi giravano parecchio le balle, talmente tanto che di continuo ripetevo nel mio veneziano "ghe sboro, ghe sboro". GianCarlo Fusco, che mi aveva aiutato per i dialoghi, mi sentì e osservò: "Ghe sboro... Sembra il titolo di un film 
giapponese. Bello, chiamalo così..."».

l’Unità 27.1.10
Il Partito Democratico dallo psicanalista
di Francesca Fornario

Q uale male oscuro affligge il Pd? Se lo chiedono gli specialisti di tutto il mondo. Ecco le ipotesi più accreditate: 1) Schizofrenia di tipo Paranoide. Secondo lo psichiatra svizzero Fabian Zoldan, autore del saggio «Ernesto Galli Della Loggia è lo pseudonimo di Enrico Letta», il Pd soffre di un disturbo della personalità. I sintomi principali sono: poche idee ma fisse («Senza l’Udc non si vince»), allucinazioni («Gianni Letta vuole fare le riforme») e deliri di onnipotenza («Non mi dimetto nemmeno se rinviato a giudizio»). Zolden consiglia una terapia di gruppo, che il paziente in passato ha rifiutato perché voleva andare da solo: comportamento antisociale tipico degli schizofrenci. Zolden si è allora rivolto a un professore italiano, fondatore della comunità di recupero «L’Ulivo», ma il professore ha risposto all’appello del collega svizzero con una criptica cartolina: «Saluti da Madonna di Campiglio».
2) Invidia del pene. Per Dj Orgia, un ragioniere brianzolo che per anni ha esercitato abusivamente la professione medica nei privé delle discoteche pur di tastare le cubiste, il Pd rosica. Vorrebbe essere come Berlusconi, che alcuni dirigenti piddini tentano di imitare alleandosi con Casini, dialogando con Fini, facendo sesso a pagamento. Ma, per quanto si sforzino, messi tutti insieme non riescono a combinarne quante il premier da solo.
3) Presenza del demonio. Per Monsignor Bonanza, vescovo esorcista, il Pd è in realtà la Dc posseduta dal diavolo, che si manifesta sotto le mentite spoglie di elettori laici.
4) Depressione Post-partum. Per la pedagogista canadese Molly Watson, i fondatori del Pd non si sono mai ripresi dalla travagliata nascita del partito, venuto al mondo con la fecondazione in vitro e nato con una malformazione: ha un corpo e due teste. Ma la sfiga principale, lamentano gli elettori, è che è sordo da tutte e quattro le orecchie.❖

il Fatto 27.1.10
Milano-Auschwitz
di Furio Colombo

C’è un sotterraneo alla Stazione centrale di Milano, una immensa stanza segreta che riproduce tutto quello che vedete di sopra, al piano dei treni e della grande tettoia di ferro e di vetro che, ancora adesso, fa sentire la tensione del viaggio. Capisci che l’avventura comincia nell’arco di luce che si vede verso il fondo, dove i treni diventano una linea che va verso il mondo. Anche sotto, nella immensa stanza segreta, ci sono binari. Vanno verso un punto lontano, che non rivela niente, solo altre gradazioni di buio. Qui senti che sei lontano dal cielo come se questo luogo fosse una fenditura profonda. Pochi metri tra sopra e sotto, ma la distanza è infinita. Sopra siete liberi, sotto no. Come in una strana, torbida fiaba, essere qui è una condanna. Così è stato ogni giorno, ogni settimana in un periodo maledetto della nostra storia. Noi siamo su un lastrone di cemento al binario 21. Siamo testimoni di un delitto italiano di cui sono restati tutti i segni e tutte le impronte. Dal binario 21 partivano i treni, mentre Milano viveva la sua difficile vita di guerra, la borsa nera, lo sfollamento, il treno per venire al lavoro e tornare in campagna per essere più al sicuro, quel tanto di solidarietà che nasce sempre nei momenti difficili. Non per tutti. Una bambina che è passata sul marciapiede buio del binario 21, in quel misterioso piano di sotto racconta: “Dopo l’arresto ci avevano rinchiuso a San Vittore, con ladri e malfattori. Quando ci hanno messi in marcia verso la stazione donne, uomini, vecchi, bambini, in uno strano corteo, soltanto i detenuti di San Vittore hanno gridato “coraggio”, hanno capito l’assurdo, ci hanno dato quel che avevano da mangiare e per stare caldi. Nelle strade di Milano non se ne è accorto nessuno, nessuno si è voltato”. E’ la voce di Liliana Segre che ha fatto da guida alla stanza sotterranea, ha mostrato che pietre, cemento, umido, buio e binari ci sono ancora. Ecco il binario 21. Da qui, dalla stazione italiana, con personale italiano e scorta italiana, partivano i treni Milano-Auschwitz. Qui spingevano sui vagoni gli ebrei italiani destinati a morire. Qui il 26 gennaio, decimo anniversario del Giorno della Memoria, Marco Szulc, figlio della Shoah, ha posto la prima pietra del Memoriale italiano. Milano, piano sotterraneo, binario 21. Ci sono ancora i vagoni.

l’Unità 27.1.10
Come testimoniare per i testimoni
La responsabilità di insegnare e tramandare ai giovani il nostro passato recente, le dittature e lo sterminio
di Nicola Tranfaglia

Più di una volta mi è successo di pensare alla grande contraddizione che caratterizza il nostro paese: tra i più antichi e ricchi di storia dell’Europa e del mondo occidentale ma sempre più dimentico della propria storia, incurante di ricordare il passato anche recente, proteso a un futuro incerto e carico di ombre. Oggi, per una legge dello Stato approvata 10 anni fa da un governo di centrosinistra, si celebra il Giorno della Memoria istituito per ricordare le dittature non solo fasciste del 900. Ci saranno discorsi e dibattiti, film e spettacoli teatrali sulla deportazione nazista e sull’universo concentrazionario. La Giornata è, non a caso, proprio quella in cui nel 1945 le armate sovietiche raggiunsero il lager di Auschwitz e liberarono i prigionieri ancora vivi.
I giovani sanno poco o nulla di quello che è successo durante la seconda guerra mondiale in Europa. A scuola si parla poco di quegli anni e all’università ancora di meno. Poco se ne parla alla radio e in tv. Eppure l’Italia è stata in quel periodo al centro della storia europea. Siamo stati noi italiani per primi, nel vecchio continente, a vedere il crollo di una democrazia liberale e cadere in mano al movimento fascista di Mussolini. Negli anni successivi, quel movimento si è prima trasformato in un vero e proprio partito e ha precipitato il paese in una dittatura moderna e feroce che ha dominato per oltre vent’anni, ha aiutato con forza il movimento nazionalsocialista di Hitler in Germania e alla fine degli anni 30 è entrato in guerra al fianco dei nazisti contro l’Urss, le democrazie occidentali e gli Stati Uniti. L’alleanza tra l’Italia fascista e la Germania nazista non è stata né un incidente né un infortunio ma l’espressione di somiglianze indubbie tra i fascismi europei che già nella guerra civile spagnola erano intervenuti insieme a sostenere i generali golpisti guidati da Franco contro la repubblica democratica. E negli ultimi anni di guerra, dopo la caduta di Mussolini davanti al Gran Consiglio del fascismo il 25 luglio 1943 e la nascita della Repubblica Sociale italiana i fascisti italiani erano diventati alleati e complici di Berlino collaborando attivamente alla deportazione degli ebrei e degli oppositori del regime, gran parte dei quali finirono nei lager hitleriani.
Dopo otto anni di ricerche archivistiche compiute da un gruppo di studiosi dell’Università di Torino, con l’aiuto finanziario della Banca San Paolo (dirette da chi scrive, con l’aiuto di Brunello Mantelli) sono emersi con precisione i dati di quell’azione compiuta nel ’43-45 in tutta Italia: vennero deportati circa 9mila ebrei e 23mila oppositori, gran parte dei quali non sarebbero mai ritornati a casa. Sono già usciti quattro volumi sui deportati e il quinto uscirà nel prossimo aprile per Mursia: e i lettori troveranno in quei volumi non solo le biografie di tutti i deportati ma anche decine di saggi che approfondiscono quelle tragiche vicende. Si può dimenticare tutto questo?❖

Repubblica 27.1.10
Wiesel: "L'eterna battaglia contro i negazionisti"
intervista a Elie Wiesel

Il Nobel per la Pace, che ha curato la postfazione al libro "Io sono l´ultimo ebreo", parla oggi in Parlamento "Noi sopravvissuti all´Olocausto e l´orrore di chi cancella la storia"
"L´antisemitismo è uno dei pregiudizi più antichi Ed è ancora molto presente"
"Auschwitz fa parte di un´altra Creazione, fatta solo di chi uccide e chi muore"
"È importante che il mondo civile non dimentichi, per capire il perché del male assoluto"
"Le leadership politiche hanno doveri morali. Oggi più che mai serve una visione etica"

«Io, Elie Wiesel, sopravvissuto e testimone, ricordo ancora oggi ogni singolo momento. Quando fummo chiusi nel Ghetto, quando vennero a prenderci, quando ci caricarono sui treni, quando arrivammo ad Auschwitz, quando vidi mia madre, mio padre e mia sorella portati a morire». Così Elie Wiesel, Nobel per la pace, attivista di primo piano per la pace e i diritti umani nel mondo, racconta l´Olocausto. Oggi, nella Giornata della Memoria, terrà un discorso al Parlamento italiano. Ascoltiamolo.
Professor Wiesel, come rammenta quegli anni tremendi?
«Rivedo ancora oggi ogni episodio. L´arresto in massa, la deportazione. Il viaggio atroce nei carri-bestiame fino ad Auschwitz. Ricordo cosa voleva dire sentirsi improvvisamente trattati come "Untermenschen", come subumani da eliminare. Ricordo quando, io ancora piccolo, restai solo ad Auschwitz. Fu terribile, è difficile descrivere cosa vuol dire restare solo, senza più la famiglia che hai visto sterminare, e al tempo stesso sentire che non sei solo, che non lo saresti stato mai più. Perché eri insieme a migliaia e migliaia di persone, trattati da subumani da eliminare come te, e al loro fianco sentivi la vicinanza della Morte. Ognuno di noi la sentiva, e al tempo stesso non vivevamo accanto alla Morte, vivevamo nella Morte».
Com´era possibile sopravvivere a questo sentimento?
«Penso ancora oggi che quando entrammo ad Auschwitz entrammo in un´altra Creazione, una dimensione speculare, parallela, opposta e negativa. Nella Creazione che conoscevamo la Germania era il cuore della cultura, la patria di una letteratura straordinaria espressa da una grande lingua, la terra dei migliori ingegneri. Ma là entrammo come in un mondo parallelo, fatto solo di "to kill and to die", di chi uccide e di chi muore».
Il genocidio pianificato con precisione industriale fu un crimine speciale, tutto tedesco?
«Vede, una delle cose più terribili che la Storia ci ha riservato è questa: nella prima guerra mondiale i tedeschi si comportarono bene, combatterono contro i pogrom zaristi all´Est. Per il popolo ebraico, la Germania era terra di cultura, di alta tecnologia, di grandi talenti letterari. Non ce lo aspettavamo. I nazisti riuscirono a mobilitare tutto il talento dei tedeschi talento in ogni forma, di psicologi, scienziati, ingegneri, giornalisti per l´Olocausto. Per questo quel crimine senza pari fu così atrocemente efficiente».
Lei oggi si fida dei tedeschi?
«Io non credo nella colpa collettiva. Solo i colpevoli sono colpevoli. Sono testimone, non giudice. Certo, purtroppo la Resistenza, l´opposizione al nazismo e alla Shoah, furono minoritari. Ma insisto, la colpa collettiva per me non esiste. E ammiro moltissimo Angela Merkel, perché lei che oggi guida la Germania sa parlare e agire nel mondo giusto: in nome della Memoria, e del diritto di Israele all´esistenza».
Qual è il significato della giornata della Memoria?
«Sono lieto di tenere un discorso al Parlamento italiano. E´ una giornata importante per tutto il mondo civile. Perché è fondamentale non solo ricordare, ma anche capire come e perché l´orrore assoluto accadde. E perché dimenticare è un grande pericolo, perché l´oblìo significa tradimento. Chi oggi chiede di dimenticare deve sapere che non sfugge a questa responsabilità: insisto, dimenticare vuol dire tradire la memoria delle vittime. E dai tradimenti non può mai derivare il bene».
E´ anche il pericolo posto dal negazionismo?
«Il più grande, pericoloso e attivo negazionista del mondo è Ahmadinejad, per questo conduco una campagna contro le sue posizioni. E´ il negazionista numero uno: nega in pubblico l´Olocausto, dichiara di volere bombe atomiche per distruggere Israele. Dovrebbe essere arrestato, dovrebbe venire tradotto davanti a un tribunale internazionale e processato dal mondo per incitamento a crimini contro l´umanità e all´odio razziale».
Una specie di Processo di Norimberga?
«Esiste già il Tribunale internazionale dell´Aja».
Lei è soddisfatto o no di come il mondo ricorda l´Olocausto?
«In Europa la situazione è migliorata. Gli Stati Uniti sono all´avanguardia: i due massimi memoriali sono a Washington e in Israele. In tutto il mondo percepisco più sensibilità di prima al tema. Forse perché alcuni di noi sopravvissuti sono ancora in vita. Il mondo comincia a pensare che un giorno, presto, non ci saremo più, e che è doveroso ricordare mentre siamo ancora in vita. Perché i sopravvissuti aiutano a tenere viva la Memoria, la comunicano al mondo di dopo l´Olocausto».
Ma quanto è grande il pericolo che, con sempre meno superstiti della Shoah ancora in vita, opinioni pubbliche e leader cedano alla tentazione di dimenticare, di "voltare pagina"?
«Io vedo che in molti paesi i giovani che studiano l´Olocausto sono più numerosi che mai. In America, e non solo, non c´è una scuola in cui la Shoah non sia materia d´insegnamento. Mai come oggi ho visto tanti corsi, seminari, mostre, programmi tv. Sono ottimista sulla capacità di ricordare. Ma c´è sempre da chiedere che uso si fa della Memoria, quanto la si usa per capire».
L´antisemitismo è vivo e spesso in ascesa, per esempio in Europa. Quanto è grave la minaccia?
«Sono trend pericolosi. Anche perché si manifestano spesso su uno sfondo d´indifferenza. Nel 2009, in tutto il mondo ma specie in Europa, si è registrato il numero più alto di manifestazioni di antisemitismo dal 1945. Recentemente sono stato in Ungheria, ho visto un aumento preoccupante dell´antisemitismo. E anche altrove, gli antisemiti conquistano nuove tribune. Come dico da decenni, spesso siamo di fronte a un antisemitismo senza ebrei, cioè a correnti antisemite in società dove quasi non vivono più ebrei. Poi c´è un violento, ingiusto odio verso Israele. Il bisogno di un capro espiatorio non è morto. E tocca sempre agli ebrei. Intanto, per esempio, dell´eccezionale efficienza dell´aiuto umanitario israeliano a Haiti si parla poco o nulla».
Le élite in Europa sono conosce della minaccia dell´antisemitismo e dell´oblìo o no?
«Lo spero. In alcuni paesi l´Ungheria, l´Ucraina, ma anche paesi dell´Europa occidentale vediamo trend pericolosi. Umori antisemiti, il sorgere di partiti filonazisti. Alle leadership politiche toccano anche doveri e considerazioni morali. Non possiamo separare la politica dalla morale. Serve una visione etica del mondo, e deve venire dai leader».
L´antisemitismo come ricerca del capro espiatorio è un male europeo?
«L´antisemitismo è il più antico pregiudizio di gruppo della Storia. Ed è presente tuttora, nel nostro quotidiano. Dobbiamo combatterlo, non illuderci che la lotta sia finita».
Tra i negazionisti ci sono anche esponenti religiosi, come il vescovo Williamson. Quanto sono pericolosi?
«Sono pericolosi prima di tutto per la Chiesa cattolica. Il fatto che papa Benedetto non abbia revocato la revoca della scomunica è al di là della mia comprensione. Parliamo di un negazionista dell´Olocausto, predica odio verso gli ebrei e Israele, come può essere ancora un vescovo? Scomunicato o perdonato, come può essere ancora vescovo? Angela Merkel ha avuto ragione a criticare il Papa su questo tema».

l’Unità 27.1.10
Via del popolo somalo
di Igiaba Scego

Questa è la storia di due uomini che il popolo chiamava Bottino e Boccagrande. All’anagrafe i nomi segnati erano altri, Bettino Craxi e Siad Barre, ma il popolo (quello somalo) preferiva chiamarli Bottino (in italiano) e Boccagrande (Afweyn in somalo), perché a detta loro il primo sapeva come accumulare denari e l’altro aveva una bocca così grande che quei denari sapeva triturarli ben benino. Un giorno di settembre del 1985 alle 15,30 locali, le 14,30 italiane, Bottino scende dal lucente bireattore Gulfstream. Boccagrande lo aspetta ai piedi della scaletta. Boccagrande dice all’amico italiano “vedi, sta piovendo”. Nel cielo nemmeno l’ombra di una nuvola. Bottino che vede oltre i suoi occhi approva e dice “sì, piove”. I due si intendono alla perfezione. La pioggia c’era, ma non era fatta di acqua, bensì di contante. Erano i miliardi italiani che dal 1981 al 1984 sommersero le casse dello stato somalo. Però quel denaro non andò ai rifugiati della guerra dell’Ogaden, non andò ai somali bisognosi. Erano gli anni della cooperazione italiana. Gli anni in cui si costruivano autostrade nel deserto e si riempiva l’antica terra di Punt di armi (troppe) e rifiuti tossici. Quel denaro andava in tante tasche, un po’ di qua un po’ di là, un po’ in Somalia, un po’ in Italia. Il popolo racconta che la famigerata Kadija, la moglie di Boccagrande, godette di lussi mai visti in quel quadriennio. La corruzione cominciò a dilagare come una peste tra i somali. L’antica terra conosciuta fin dai tempi di Hatshepsut per i suoi profumi e i suoi colori, cominciò a puzzare per i rifiuti tossici insabbiati e per il denaro sporco. La guerra in-civile di oggi tra le tante cause ha anche questa corruzione di ieri. Sarebbe bello vedere a Milano una via dedicata al popolo somalo. Oggi giorno della memoria vorrei suggerirlo al Sindaco Moratti.❖

il Fatto 27.1.10
“Il burqa offende la Repubblica” e Parigi vota il divieto
Ma non lo porta nessuno: solo 350 donne in tutto il paese
di Gianni Marsilli

Burqa da vietare sicuramente nei “luoghi pubblici”: treni, autobus, ospedali, università, uffici comunali. Burqa da vietare probabilmente in tutti gli “spazi pubblici”: strade, piazze, giardini. Burqa che in ogni caso “offende i valori della Repubblica” degradando la donna, dissimulando volti e corpi e identità. Burqa da mettere all’indice, auspicabilmente, con una legge “ad hoc” ancora da scrivere. Sono queste le conclusioni dei lavori dell’apposita commissione parlamentare francese, presentate ieri mattina. E’ stato un parto molto travagliato, a destra come a sinistra. Il tema scotta, divide, of fende.
A sbatterlo sul tavolo era stato in giugno André Gerin, deputato comunista del Rodano. Gli era venuto subito dietro Éric Raoult, deputato dell’Ump, il partito del presidente. In questi mesi hanno lavorato in grande armonia: il comunista ha presieduto la commissione, il gollista gli ha fatto da attivissimo vice. I socialisti son rimasti a guardare la strana coppia, annusando opportunismo elettorale a buon mercato: se è vero che “la Francia intera è contro”, come dicono le conclusioni, perché allora bombardare il burqa sul palcoscenico nazionale?
Le statistiche sembrano dare ragione alle diffidenze dei socialisti. L’estate scorsa venne reso noto, e confermato dal ministero degli Interni, un rapporto dei servizi d’informazione. Vi si potevano leggere cifre non certo allarmanti. In Francia le donne che vivono coperte dal niqab dalla testa ai piedi, viso compreso, a casa e in pubblico, non sono più di 357. Una maggioranza di queste, inoltre, lo fa volontariamente, sulla base di una scelta religiosa di ispirazione salafita, molto radicale, e spesso di una certa volontà di sfida alla società e alla famiglia: il burqa un po’ come i piercing che spuntano dalle labbra, le orecchie, le sopracciglia, il naso. L’80 per cento di queste donne hanno meno di trent’anni, il 26 per cento sono francesi convertite all’islam. E’ da queste percentuali che sono nate ieri reazioni come quella di Jamel Debbouze, volto del cinema e della tv tra i più popolari: “Il burqa non è neanche un epifenomeno, concerne 250 persone. Che non vengano a romperci i coglioni con questa roba. Si tratta di xenofobia, voilà. E quelli che vanno in quella direzione sono dei razzisti”. Jamel ha dato voce a modo suo a un timore molto diffuso nella vastissima (quasi cinque milioni) comunità di origine nordafricana di Francia: che ancora una volta si prendano a pretesto singoli e rarissimi episodi per stigmatizzare “i musulmani” o “gli arabi”. Anche un moderato come Dalil Boubakeur, rettore della Grande Moschea di Parigi e interlocutore costante di Sarkozy, trova che “non c’è motivo di lanciare una grande riflessione nazionale, non vedo l’emergere di un fenomeno fondamentalista”.
André Gerin, il presidente della commissione, ritiene invece che i burqa in circolazione siano molto più numerosi, circa duemila, e oltretutto in costante ascesa. Non che cambi un granché, la cifra resta marginale, e poi c’è questo inghippo della “libera scelta” di molte di queste donne, che potrebbe far cassare un’eventuale legge da parte della Corte costituzionale. Ma c’è soprattutto, ben annidato sotto la proclamazione dei grandi principi che tutti condividono, un corposo interesse politico nell’agitare la questione. E’ questo che hanno denunciato i socialisti (non tutti, alcuni sono per una drastica legge), decidendo di non prendere parte alla votazione in seno alla commissione “a meno che non si fermi il dibattito sull’identità nazionale”. Perché il tutto, identità e burqa, fa parte indubbiamente del pacchetto con il quale Sarkozy si presenta alle regionali di marzo, che avranno valore di voto di mid-term. Vero è che il dibattito sull’identità nazionale, lanciato in novembre in tutte le prefetture e destinato a concludersi tra qualche settimana con gli “stati generali”, è servito più ad escludere e aizzare che ad integrare.
Citiamo ancora Jamel Debbouze, che evidentemente, da ragazzo di banlieue di origine marocchina, non ne può più: “E’ stato un dibattito schizofrenico: ma insomma, io dovrei ancora giustificare il fatto che abito nel mio paese? La Francia ha anche un volto nuovo, che assomiglia stranamente al mio”. L’accusa di sterilità culturale e di
elettoralismo non sembra tuttavia frenare il treno in marcia: la presidenza della commissione ha auspicato caldamente che della spinosa faccenda si faccia carico adesso il governo, presentando una sua proposta di legge.
Nicolas Sarkozy non ha ancora dato indicazioni precise sulla strada da intraprendere. Certo, ha fatto sentire la sua voce per condannare l’uso
del burqa, e ci mancherebbe: “Non è il benvenuto in Francia”, aveva già detto nel giugno scorso suscitando l’immediata reazione di al Qaeda che aveva diffuso uno dei suoi video pieni di promesse di morte. Il terreno è minato e percorso da violente tensioni. Sta a lui fare in modo che il burqa, da detestabile e umiliante aggeggio, non diventi paradossalmente simbolo di libertà.

Repubblica 27.1.10
L'esponente radicale: "Bene Parigi, se obbligatorio il velo integrale è il simbolo della morte civile delle donne"
Bonino: "Nessuna discriminazione ma tutte devono essere riconoscibili"
Non si possono usare copricapi. Non si va con il casco o con il passamontagna negli uffici
di Caterina Pasolini

ROMA - Si ricorda come fosse oggi, la prima volta in cui ha incrociato lo sguardo delle donne velate a Kabul, costrette a nascondersi sotto il burqa, ad abbandonare il lavoro, chiuse in casa dopo anni di libertà. Ma insiste, non vuole parlare di religione, non vuol legare il velo che copre tutto il volto alla fede.
«Ne sono convinta: il burqa non è un problema religioso ma di convivenza civile e di questo si occupa lo Stato. Per cui bene sta facendo la Francia a volerlo vietare». Radicale e profondamente laica da sempre, la candidata del centro-sinistra alla presidenza della regione Lazio, Emma Bonino, non ha dubbi.
Favorevole al divieto?
«Sempre stata, ma andiamo con ordine. In uno stato dove vige la responsabilità personale delle proprie azioni, tutti devono essere identificabili. Così come non vado in classe col casco o il passamontagna, così non si dovrebbe usare il velo che nasconde il volto nei luoghi pubblici».
Il burqa come il casco?
«Sì, proprio per questo non c´è bisogno di specificare. Basta fare una legge che dica semplicemente: non si possono usare copricapi che rendano impossibile l´identificazione nei luoghi pubblici».
Ma il problema religioso?
«Non c´è. Il dover essere riconoscibili è una regola valida per tutti, quindi non ci sono discriminanti di fede. Accade semplicemente che lo stato si occupi delle regole minime della convivenza tra i cittadini. Lo stato fa le leggi, poi si può aprire il dibattito sull´importanza del dialogo religioso, sul futuro delle donne, sulle umiliazioni che devono subire, sulla storia che cambia i costumi, tanto che mia nonna non usciva mai senza il fazzoletto nero in testa. Ma tutto questo è altro, è oltre».
La Lega propone l´arresto per chi mette il burqa.
«Non scherziamo. La proporzionalità della pena è un concetto basilare del nostro ordinamento».
Col divieto non si spinge all´intolleranza?
«Assolutamente no, come dice un mio amico iraniano il problema non sono le nostre credenze ma l´uso che si fa delle proprie credenze. Ci sono troppi luoghi comuni».
Luoghi comuni?
«L´emancipazione delle donne musulmane è forte, solo la nostra distrazione ci impedisce di vederla. Il mondo islamico, anche solo se lo si legge pensando ai diversi copricapi, è fatto di mille realtà diverse. Basta con gli stereotipi».
Da sempre contraria al burqa?
«Lo confesso, prima del ‘97 quando sono andata in Afghanistan per la Ue e sono stata arrestata, non avevo mai pensato alla realtà del mondo islamico. Poi invece sono anche andata a vivere in Egitto dal 2001 al 2005».
Primo ricordo?
«L´incontro con un gruppo di donne, ex medici rispedite a casa dai taliban che impedivano a loro di lavorare. Mi dissero che la cosa drammatica non era la mancanza di cibo ma l´idea che le loro figlie sarebbero cresciute analfabete perché non era permesso studiare»
Cosa c´entra il burqa?
«Per loro che avevano lavorato anni fuori, con o senza velo ma per libera scelta, il burqa reso obbligatorio era il simbolo concreto della loro morte civile».

Repubblica 27.1.10
Le forze politiche si dividono. Cinque disegni di legge in Parlamento
La Lega esulta, il Pd frena Carfagna: presto anche da noi
Critici gli islamici d´Italia: "Libertà di scelta"
di Vladimiro Polchi

"Servirà alle immigrate per uscire dai ghetti" dice il ministro per le Pari opportunità
Per il Carroccio "è una norma giuridica di civiltà" Il centrosinistra "Solo propaganda"

ROMA - La guerra al burqa, dichiarata oltralpe, rimbalza in Italia, compatta le forze politiche sul fine (vietare veli che coprano il volto), le divide sul mezzo, tra favorevoli e contrari a una legge ad hoc. La Lega esulta: «E´ una norma giuridica di civiltà». Il Pd frena: «Attenti a scorciatoie propagandistiche».
Una cosa è certa: prima dei cugini d´oltralpe si erano mossi alcuni parlamentari italiani. Tra Senato e Camera sono cinque i disegni di legge che - con piccole differenze - mirano a vietare burqa e niqab. Tutti intervengono sull´articolo 5 della legge 1975/152, che si occupa di ordine pubblico e identificabilità delle persone. Uno è targato Lega Nord (primo firmatario: Roberto Cota), due Pd (Emanuela Baio al Senato, Sesa Amici e Roberto Zaccaria alla Camera), uno Pdl (Souad Sbai) e un altro Udc (Pierluigi Mantini). Diverse le pene previste, diversa l´attenzione data alla sensibilità religiosa delle donne, stesso l´obiettivo: «Vietare in luogo pubblico qualsiasi mezzo che travisi e renda irriconoscibile la persona».
I primi a salutare con favore l´eventuale legge francese sono gli esponenti del Carroccio. Il ministro Roberto Calderoli parla di «un´iniziativa positiva in quanto la libertà individuale deve essere sempre bilanciata con le esigenze di tutela della sicurezza». Tra le fila del Pdl, il ministro Mara Carfagna sostiene che «vietare il burqa è un modo per aiutare le giovani immigrate a uscire dai ghetti» e promette che presto l´Italia avrà una norma ad hoc. Più cauto il commento del ministro degli Esteri, Franco Frattini: «Io non sono, in linea di principio, a favore di una pura e semplice proibizione per legge», perché il divieto del velo va inserito in «discorso più ampio di integrazione». Frena la fondazione Farefuturo, presieduta da Gianfranco Fini, che in un corsivo pubblicato su Ffwebmagazine scrive: «Proibire l´utilizzo del burqa è un falso problema perché non solo riguarda una fetta più che minoritaria della popolazione di religione musulmana, ma soprattutto non è con un semplice imposizione che si risolve un problema che è prima di tutto culturale».
Tra le fila del Pd, Sesa Amici e Roberto Zaccaria invitano a «evitare scorciatoie propagandistiche» e a stare «attenti a non ledere la libertà religiosa o a creare discriminazioni». E per Barbara Pollastrini, «serve una proposta saggia ed essenziale». Antonio Di Pietro distingue: «Il burqa come strumento di costrizione è una gabbia, ma come libera scelta è l´espressione di un diritto individuale».
Sul fronte islamico, Ahmad Gianpiero Vincenzo, presidente degli Intellettuali Musulmani Italiani, ricorda che «proibire il velo integrale è compatibile con l´Islam, che non prescrive di coprire il volto delle donne». Più critica l´Ucoii: «Noi crediamo che il viso debba essere lasciato scoperto, ma crediamo che vada tutelata la libertà religiosa garantita dalla Costituzione».

Repubblica 27.1.10
Che cosa c’è dietro quel velo
di Jean Daniel

Quella del "burqa" è una questione sulla quale mi pareva che tutto fosse stato già detto, ma che invece suscita nuove e interessanti reazioni: come dar forma al generale desiderio di dissuadere le nostre concittadine dall´uso del velo integrale.
Come tutti sanno, non si tratta del tipo di velo diffuso nel Maghreb per nascondere le chiome, bensì di una sorta di indumento che copre interamente la persona. Chi si traveste in quel modo si muove come un´ombra, assente e misteriosa. Sotto il burqa la donna si sottrae a tutti gli sguardi, e darebbe prova di un´austerità monacale, se non fosse che l´esclusiva delle sue fattezze e del suo volto è riservata all´uomo da lei accettato come suo proprietario.
Non è in discussione il fatto che quel travestimento non sia di buon gusto agli occhi della maggioranza dei cittadini tra i quali queste donne hanno liberamente scelto di vivere; ed è accertato che il burqa non è un obbligo religioso, ma soltanto un´usanza, peraltro condannata dal gran muftì d´Egitto, nonché dalle istituzioni teologiche più autorevoli dell´islam sunnita: su questo punto il professore Abdelwahab Meddeb è stato categorico. Si è invece aperto un dibattito sull´opportunità di promulgare una legge o di limitarsi a una semplice dichiarazione dell´Assemblea nazionale.
Le autorità religiose francesi (cattoliche, protestanti e musulmane) hanno scelto il silenzio, o si sono affrettate a proclamare la propria neutralità, associandosi così alle posizioni di taluni movimenti di sinistra che vedono in ogni tipo di divieto un attacco alla libertà religiosa. Personalmente, anche se penso che la società francese debba esprimere chiaramente la sua condanna, tendo a ritenere controproducente il varo di una legge destinata esclusivamente ad alcune centinaia di donne.
Una tesi certo non priva di acume è quella sostenuta su Le Monde dal filosofo Abdennour Bidar, che è anche autore di interessanti articoli sulla rivista Esprit. A suo parere, il burqa è sintomo di un malessere più profondo: un desiderio personale di esistere, benché espresso «in maniera paradossale, patologica e totalmente contraddittoria». Agli occhi di Abdennour Bidar, le giovani che indossano il burqa non sono poi tanto diverse dai tanti «emarginati volontari, veri e falsi a un tempo» di cui rigurgitano le nostre società. L´autore sottolinea poi lo spaventoso vuoto lasciato dalla scomparsa delle grandi immagini dell´uomo. Ormai i modelli proposti sono solo quelli di attori, sportivi, cantanti o star mediatiche che incitano a privilegiare l´apparenza, il denaro, la bellezza fisica, i consumi. «Come pensare che questi obiettivi derisori, esaltati dalla pubblicità nei modi più ridicoli, possano bastare a dare un senso alla nostra vita?» Non si potrebbe dir meglio. Ma da qui a stabilire un collegamento col burqa, che esprimerebbe «qualcosa come il rimosso della psicologia collettiva attraverso il rifiuto di esibire anche una minima immagine di sé», per poi concludere che l´identità totalmente nascosta dietro il burqa sia «l´identità profonda dell´io moderno, divenuto introvabile», c´è un salto epistemologico non facile da accettare.
Decisamente, questi eminenti intellettuali non riescono ad accontentarsi della semplice realtà. Di fatto, da quanto tempo si è posto il problema del velo – prima di quello del burqa – in un paese come la Francia, che da mezzo secolo ospita un gran numero di musulmani? Da dove è venuto questo desiderio di imporre ovunque i vari tipi di velo, se non dai movimenti sauditi e afgani, il cui primo bersaglio fu il governo algerino, colpevole di aver impedito agli islamisti di insediarsi al potere, annullando il secondo turno di una consultazione elettorale perfettamente libera?
Si è già dimenticato quanto è accaduto per un decennio in Algeria? Quelle vicende hanno preparato l´irruzione delle reti che avrebbero destabilizzato una parte importante del mondo arabo-musulmano, per poi coprirsi di "gloria" con gli attentati dell´11 settembre 2001 a New York. Come non ricordare che da quel momento in poi tanti giovani musulmani hanno affermato la propria solidarietà con la rinascita dell´epopea vendicativa dei fanatici leader di un certo islam?
Può darsi allora che le eredi dei pionieri di quella frenetica crociata vogliano esibire la pura e semplice volontà di chiamarsi fuori da una società di infedeli e miscredenti. Resta comunque il fatto che anche in assenza di qualunque tipo di violenza, quel loro modo di rinchiudersi significa l´opposto di tutto ciò che rimane valido e bello sotto ogni regime, anche se in declino: la voglia di aprirsi, di condividere, di scambiare gli sguardi. Lo slancio verso l´altro. Il problema non è il velo, è il suo significato. Nulla è più bello di un velo che adorna un volto, come nei quadri dei maestri fiamminghi e italiani. Ma c´è un abisso tra le tombe itineranti di quelle sconosciute, e il velo che sottolineava la bellezza di una Benazir Bhutto: lo stesso abisso che separa il segreto delle tenebre dalla generosità della luce.
Traduzione di Elisabetta Horvat

Repubblica 27.1.10
Aborto, nuovi ritardi per la Ru486
di Michele Bocci

Il medicinale è entrato nel prontuario farmaceutico a dicembre ma non è ancora disponibile in Italia e non può essere più ordinato all´estero

L´azienda francese che la produce: contiamo di essere pronti per la fine di febbraio

ROMA - È entrata nel prontuario farmaceutico a dicembre, ma sarà disponibile solo alla fine di febbraio. Se va tutto bene. La lunga vicenda della Ru486 in Italia è a un nuovo passaggio problematico. L´azienda produttrice, la francese Exelgyn annuncia che potrà distribuire la pillola abortiva ai nostri ospedali solo tra più di un mese. Nel frattempo i reparti di ginecologia che la utilizzavano in base alla legge sull´acquisto all´estero di farmaci non ammessi in Italia si sono bloccate. Il medicinale infatti è formalmente ammesso, anche se non disponibile, quindi quella procedura non è più possibile.
E così si stima che tra il 9 dicembre scorso, giorno della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della delibera Aifa che dava il via libera alla Ru486, e la fine del prossimo mese saranno tra 250 e 300 le donne che non avranno potuto usare la pillola. Fino al 2009, infatti, in più di mille all´anno sceglievano questa strada per abortire nei reparti di 26 ospedali tra Toscana, Emilia, Puglia, Trentino e Marche. «Molte donne in questi giorni ci chiedono di usarla. Buona parte di loro opta per l´aborto chirurgico, altre vanno all´estero - spiega Nicola Blasi, primario al policlinico di Bari - So di signore pugliesi che sono andate a prendere la Ru486 in Svizzera». Silvio Viale, ginecologo torinese esponente dei Radicali, spiega che dal nord i viaggi verso l´estero sono molti: «Il numero delle donne che avrebbero potuto prendere la Ru486 da dicembre in poi è sottostimato, perché tiene conto solo delle strutture che importavano direttamente. Se ne sarebbero aggiunte almeno altrettante negli ospedali pronti a partire tra cui il mio, il Sant´Anna di Torino, ed altri che mi hanno contattato». Massimo Srebot, primario a Pontedera conferma l´arrivo di molte richieste. «Siamo fermi, di fronte alle donne allarghiamo le braccia - dice - A dicembre, subito dopo la pubblicazione della delibera Aifa, è arrivata una lettera del ministero che ci impediva lo sdoganamento delle Ru486 acquistate in Francia. Adesso ci sono persone che acquistano il farmaco abortivo su Internet. Cosa chiaramente pericolosissima».
Ma perché Exelgyne non sta distribuendo il farmaco nel nostro paese? «Si tratta solo di problemi tecnici - spiega Catherine Denicourt, direttore farmaceutico dell´azienda francese - Prima abbiamo dovuto stampare i foglietti illustrativi in italiano secondo le indicazione dell´Aifa. Adesso aspettiamo i bollini dell´Agenzia del farmaco da mettere sulle scatole. Contiamo di essere pronti alla fine di febbraio».

Repubblica 27.1.10
Pàus, il primo ominide della Pianura padana
di Luigi Bignami

Scoperto lungo il Po vicino a Cremona, smentisce la teoria che i suoi simili vivessero solo in montagna È un esemplare vissuto nel Pleistocene, tra 250mila e 28mila anni fa, insieme a mammuth, bisonti e cervi

I ritrovamenti principali finora erano stati nell´Italia centro- meridionale
Si sarebbe potuto sapere di più se l´osso fosse rimasto nella posizione originaria

Era una giornata durante la quale il fiume Po si stava ritirando, dopo una piena causata da un acquazzone, nella primavera dell´anno scorso. Il giornalista Fulvio Stumpo stava percorrendo un tratto di fiume in prossimità di Cremona quando è stato colpito dalla presenza di un osso che sporgeva da una scarpata argillosa. Lo ha raccolto e lo ha portato al Museo Naturalistico di San Daniele Po, vicino Cremona. «Ci siamo subito resi conto della particolare morfologia del reperto, che richiamava quella di un osso frontale di un Neanderthal», spiega Simone Ravara, direttore del Museo. Dopo una serie di esami, realizzati da un gruppo di ricercatori di varie università italiane, si è giunti alla conclusione che esso appartiene ai nostri "cugini" estinti. È la prima volta che si scopre un fossile di Neanderthal in Pianura Padana. Fino ad ora infatti, i ritrovamenti principali di fossili neandertaliani sono avvenuti in Italia centro-meridionale, soprattutto nel Lazio, in Campania e in Puglia e in poche altre aree della Penisola, ma mai in un´area totalmente pianeggiante come la vasta pianura padana. Come da tradizione gli è stato dato un nome: Pàus, la contrazione di Padus, nella derivazione del sostantivo Po.
«L´osso, che mostra di essere stato trasportato da una corrente fluviale, è fortemente levigato sugli spigoli tranne che su alcune regioni fratturate da non molto, come se avesse subito il recente distacco dalla rimanenza cranica», spiega il paleontologo Davide Persico dell´Università degli Studi di Parma e tra i primi ricercatori ad esaminare il reperto. Al momento non si è ancora potuto analizzarlo a fondo in quanto ha subito una serie di passaggi burocratici. Spiega Persico: «Per adesso possiamo dire che Pàus visse nel Pleistocene in Pianura Padana, in un periodo al momento ancora indefinito tra 250.000 e 28.000 anni fa». Esso era contornato da un´associazione faunistica molto ampia che comprendeva mammuth, orsi delle caverne, bisonti, alci e cervi giganti, che Pàus, molto probabilmente, cacciava e di cui si nutriva. Parti di questi animali sono stati più volte scoperti lungo il Po. «Questo ci lasciava presagire che se il Neanderthal fosse vissuto insieme a quegli animali prima o poi qualche reperto sarebbe stato scoperto», continua Ravara.
Certamente dunque, il ritrovamento di Pàus va annoverato tra le più importanti scoperte paleoantropologiche della Pianura Padana. «Purtroppo però qualche informazione è andata persa a causa della raccolta affrettata. Questo fossile avrebbe potuto raccontare molto di più in quanto era stato osservato in una rara posizione stratigrafica all´interno di una parete argillosa, una condizione straordinaria, non utile per definire la sua età, ma comunque capace di garantire l´individuazione di tempi e modalità di deposito, nonché la possibile provenienza del reperto», spiega Persico.
Ora Pàus inizierà una lunga trafila di esami che da un lato serviranno per datare il Neanderthal a cui apparteneva quel lobo e dall´altro per cercare nuovi indizi sulla storia che li ha portati non solo ad abitare antri e ricoveri naturali, ma anche la pianura più aperta. Forse tutto ciò permetterà anche di aggiungere qualche tassello in grado di spiegare la scomparsa, ancora in gran parte misteriosa, di una specie che ci fu molto vicina.

Repubblica 27.1.10
Galileo in ginocchio davanti al Sant’Uffizio
risponde Corrado Augias

E gregio Dottor Augias, ai Musei Vaticani si è appena chiusa la mostra 'Astrum 2009', organizzata dall'Istituto Nazionale di Astrofisica e dalla Specola Vaticana. L'occasione era l'Anno Mondiale dell'Astronomia, indetto dall'Onu su proposta italiana, per l'anniversario delle prime osservazioni col telescopio fatte da Galileo. Forse sarebbe stato il caso di ricordare anche l'Inquisizione, il processo e l'abiura, ma nessuno dei sei autorevoli presentatori della mostra dal cardinale Tarcisio Bertone al direttore dei Musei Vaticani, Antonio Paolucci ha fatto il benché minimo accenno alle "difficoltà" incontrate dallo scienziato. Si è anzi arrivati a parlare di "profondo spirito di amore per la scienza e di serena fiducia nella sua armonia con la fede". La ciliegina sulla torta l'ha poi messa il Ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca Scientifica che ha aperto il suo intervento con queste parole: "Sono passati ormai 400 anni dal giorno in cui Galileo puntò per la prima volta il suo telescopio verso il cielo. Una rivoluzione per l'osservazione scientifica che aprì la strada al metodo sperimentale...". E basta.
Leonardo Magini l.magini@yahoo.it

L 'occasione e il luogo erano poco indicati per ricordare quei dolorosi precedenti anche se penso che un Papa di grande energia come Giovanni Paolo II avrebbe forse chiesto ai relatori di affrontare l'argomento con un po' più di coraggio. La formula di abiura che il grande scienziato settantenne fu costretto a pronunciare genibus flexis (in ginocchio) sul nudo pavimento, rivestito del saio del penitente, diceva tra l'altro: « Da questo santo Officio mi è stato intimato che dovessi abbandonare la falsa opinione che il Sole sia centro del mondo e che non si muova, e che la Terra non sia il centro del mondo e che si muova, e che non potessi tenere, difendere né insegnare in qualsivoglia modo, né in voce, né in iscritto la detta falsa dottrina; pertanto, volendo io levar dalla mente delle Eminenze vostre e d'ogni fedel Cristiano questo veemente sospetto che giustamente grava su di me, con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li suddetti errori et eresie, e giuro che per l'avvenire non dirò mai più, né asserirò in voce o in iscritto cose tali per le quali si possa aver di me un simile sospetto. E se conoscerò alcun eretico o che sia sospetto d'eresia, lo denuncerò a questo Santo Offizio ovvero all'Inquisitore o Ordinario del luogo dove mi troverò». L'armonia tra scienza e fede era in quel caso smentita dal fatto che secondo le Scritture la Terra è immobile al centro dell'universo; secondo la scienza invece girava attorno al Sole. Fu esattamente quella constatazione scientifica che Galileo venne costretto ad abiurare pur essendo egli convinto che la verità era dalla sua parte.

l’Unità 27.1.10
Per Basaglia
In tv il 7 e 8 febbraio la vita dello psichiatra che affrancò la sofferenza mentale dai manicomi
Impresa riuscita: una vicenda corale per capire la rivoluzione del padre della legge 180
L’antieroe che liberò i matti val bene questo film
di Toni Jop

Franco Basaglia era uno psichiatra veneziano, che ha affrancato la sofferenza mentale dalla prigionia dei manicomi. Prima a Bari, poi a febbraio su Raiuno, il film «C’era una volta la città dei matti». Che coglie nel segno.

C’era una volta Franco Basaglia. E allora? Non è un santo, non è un Papa, non è un grande condottiero ma il suo antieroismo è stato il più potente motore di cambiamento della nostra storia recente: se ne accorgerà il pubblico di Raiuno che per una volta la fiction di prima serata torna sulla terra per raccontare di donne e uomini uniti dalla sofferenza e dal piacere di liberarla. Franco Basaglia era uno psichiatra, un «dottor dei matti» veneziano, e da psichiatra ha distrutto i manicomi, ha affrancato la sofferenza mentale dalla prigionia, ha messo in crisi la sanità, ha messo in crisi la professione, ha messo in crisi la scienza, ha fornito un gancio formidabile alla rivolta contro le istituzioni totali, ha offerto una sponda preziosa al movimento di liberazione che friggeva negli anni Sessanta-Settanta tra le due sponde dell’Atlantico. Tutto qui: dal punto di vista dello spettacolo, diremmo, poco più di niente. Quindi ti aspetti una fiction di questo si parla discretamente noiosa, densa, tra l’altro, di contenuti decisamente fuori-moda nei tempi del pensiero brevissimo berlusco-leghista. E invece, seguiamo i fatti: l’altra sera «C’era una volta la città dei matti» è stato proiettato tra i legni del Petruzzelli di Bari davanti a una platea stracolma. Se l’è accaparrato con abituale fiuto Felice Laudadio, patron del BifEst barese alla sua seconda edizione.Treoredifilm-losivedràindue puntate il sette e l’otto febbraio e neanche un colpo di tosse; alla fine venti minuti di standing ovation, commozione e, ammettiamolo, il cuore più caldo per una vicenda molto corale che si sviluppa sostanzialmente tra due manicomi, Gorizia e Trieste, tappe decisive del lavoro di Franco Basaglia. Regìa intelligente e di gran livello firmata da Marco Turco, sceneggiatura smagliante dello stesso Turco, Alessandro Sermoneta, Elena Bucaccio, Katia Colja; interpretazioni ammirevoli, misurate e in qualche caso entusiasmanti: seguite Fabrizio Gifuni nei panni di Basaglia e proverete l’ebrezza che potevano erogare mostri sacri come Alec Guinness o Peter Sellers. Attendiamo smentite. Niente a che vedere con la qualità alla quale ci ha abituati la fiction, qui siamo a casa del miglior cinema italiano, è un nuovo standard.
PAZIENTI TRITURATI
La vicenda inizia con un «a-prescindere» stravagante e niente realistico: Franco Basaglia dichiara il suo amore a Franca Ongaro ancillare nello svolgimento cinematografico dei fatti ma per nulla a rimorchio nella vita vera, non si può aver tutto e da una finestra veneziana si tuffa in Canal Grande, lei lo segue. Matafora, va bene. Poi, il film riesce miracolosamente a destreggiarsi in un groviglio di situazioni, personaggi, episodi che seguono e rincorrono a grappolo gli spostamenti dello psichiatra da un manicomio all’altro. Quindi, vite di pazienti istituzionalizzati e triturati così come prescriveva la pratica terapeutica prima che Laing, Foucault, Basaglia squarciassero il sipario pazientemente tessuto dal potere su queste realtà atroci. Una «Margherita» finita da ragazza nel tritacarne della «buona scienza» da incanto, grazie alla bravura di Vittoria Puccini, denuda il percorso che portava all’esclusione e alla segregazione.
Ma tutto il film segue un impianto didascalico che tuttavia non appesantisce la dinamica drammaturgica: serve a capire molti passaggi cruciali della storia di Franco Basaglia. Il modo in cui viene estromesso dalla carriera universitaria, il suo rapporto conflittuale con le istituzioni, la fiducia nel «fare», la teoria e la pratica del convincere. Ma anche la politica Franco Basaglia era un «compagno» oltre che uno scienziato e l’Italia di allora. Il suo arrivo a Trieste e il suo lavoro di smantellamento dell’ospedale psichiatrico, la creazione di una rete di servizi territoriali superando la diffidenza della popolazione, l’incessante collaborazione di formidabili psichiatri (da Rotelli a Dell’Acqua)e di altrettanto formidabili infermieri per far sì che si realizzasse la sola grande rivoluzione che l’Italia possa contare nel suo dopoguerra. Il ruolo decisivo del Pci, quello non meno importante dei radicali, l’allargarsi su scala planetaria della fama dell’esperienza triestina. La legge che abolì i manicomi (la 180 del ‘78), il passaggio di Basaglia nella complessa realtà romana, la sua morte prematura e raggelante (1980). Nessuna scorciatoia epica, solo fatti, rinominati ma semplicemente veri, accaduti.
Per questo, alcune scene possono risultare forti, impegnative ma conviene guardare senza chiudere gli occhi. «Ci pensavo da tempo racconta il regista mi pareva un’impresa quasi impossibile, ma devo ringraziare il coraggio di Claudia Mori che ha deciso di produrre una scommessa così impegnativa. Franco Basaglia per me era un mito, la sua presenza andava ben oltre l’ambito psichiatrico, ho cercato di far parlare i fatti, i personaggi che lo hanno circondato». Fabrizio Gifuni riflette: «In questo film viaggia un messaggio nettamente in controtendenza rispetto alla cultura oggi egemone: l’esperienza di Basaglia dice che cambiare è possibile, che si può fare se si sta insieme, se si lavora insieme, se si libera il nostro cervello». ❖

martedì 26 gennaio 2010

l’Unità 26.1.10
Sondaggio Crespi: Bonino avanti su Polverini: 40-37
È in vantaggio di stretta misura la candidata del centro sinistra, la radicale Emma Bonino su Renata Polverini (Pdl) per la carica di governatore del Lazio. È un sondaggio di Crespi per l’agenzia Omniroma: Bonino 40,5%, Polverini 37%. Molti gli indecisi.

l’Unità 26.1.10
Un altro ricordo
Costa, l’altro socialista
di Vittorio Emiliani

Fu il primo deputato socialista, nel 1882. Eletto mentre era al domicilio coatto, venuto dalla Romagna «a piantare la bandiera rossa su Montecitorio». Uscito dalle file anarchiche dove era emerso ventenne, ancora allievo di Carducci a Bologna, Andrea Costa viene ricordato stamattina alla Camera di cui fu vice-presidente, a cento anni dalla morte. Relatore generale al convegno, Giuseppe Tamburrano. Fu il primo extra o anti-parlamentare a rompere a sinistra – qualcuno disse anche per ispirazione della compagna di allora, la bella e intelligentissima Anna Kuliscioff il tabù delle elezioni e del giuramento di fedeltà al re, fra gli attacchi furenti dei compagni anarchici. Così aprì la strada ad un socialismo che, pur dicendosi ancora rivoluzionario, puntava al riformismo: nei Municipi (da lui definiti «focolari dell’istruzione e della libertà»), nelle cooperative allora fortemente autogestionarie (come la “colonia” ravennate di Ostia Antica), nella stessa Camera. Qui propose o appoggiò tutte le iniziative sociali. Pacifista, anti-colonialista («Né un uomo né un soldo per le guerre coloniali»), nemico della camorra degli appalti e dello sfruttamento del lavoro minorile, a favore della riduzione dell’orario di lavoro. Morì povero com’era vissuto, con allegria vitale, libertario e libertino (ma pagando i conti di tasca sua), il primo deputato poliglotta, divenuto tale in carcere. Impersonava un socialismo acceso di passioni, internazionalista. Comincia con lui una fitta serie di socialisti onesti e rigorosi: Turati, Treves, Prampolini, Matteotti, poi Nenni (sarà ricordato al Senato domani, a trent’anni dalla morte), Morandi, Lombardi, Pertini, Basso, Foa, De Martino, Santi e tanti altri. Da tenere bene a mente quando si associano socialismo e affarismo. ❖

l’Unità 26.1.10
In vista del loro primo sciopero leggiamo cosa succederebbe se tutti incrociassero le braccia
«Blacks out» Il giorno che scomparvero gli immigrati
di Iglaba Scego

Un giornalista d’invenzione, Valentino delle Donne, alle prese con uno scenario immaginario ma mille storie vere. In «Blacks out» badanti, raccoglitori, pastori, manovali immigrati all’improvviso scompaiono dall’Italia.

Valentino delle Donne è un giornalista. Non uno di quelli che contano pieni di soldi e privilegi. È un invisibile, un precario a tempo pieno, in lotta ogni anno con il rinnovo del contratto. Valentino è un satellite a cui raramente il grande capo del giornale rivolge la parola. Ma il 20 Marzo non è una giornata come le altre. Valentino viene convocato d’urgenza, deve precipitarsi dai suoi capi. Nel corridoio che lo separa dal gotha del giornale Valentino si chiede se ha fatto un errore in un articolo e se sia arrivata una smentita eccellente. Non immagina il motivo di quella convocazione. Saranno l’Ansa delle 9.40, l’Agi delle 10 e i volti preoccupati dei grandi capi del giornale a mettere luce in quel mistero. «Sono scomparsi» dice Colantonio, un suo collega. Valentino chiede chi, ignora l’accaduto. La risposta ha il tono di una sirena d’allarme «Ma come chi? I neri, i cinesi, i romeni, tutti!».
Così inizia il docu-fiction di Vladimiro Polchi Blacks out (Laterza, pp.161, euro 15)). Un libro a metà tra reportage e romanzo, tra sogno e incubo. Polchi immagina cosa succederebbe in Italia se tutti i migranti decidessero di incrociare le braccia e fare uno sciopero ad oltranza. Il sottotitolo del libro infatti è 20 marzo ore 00.01. Un giorno senza immigrati. Delle Donne alias Polchi pagina dopo pagina registra il panico che si diffonde nel paese. Chiudono le fabbriche, le mucche non vengono più munte, i cantieri edili si bloccano, le pizzerie (come pure i ristoranti e gli alberghi) sono costrette ad abbassare le saracinesche. Anche nelle famiglie scoppia il panico. Badanti, colf e baby sitter si dileguano. Nessuno più a prendersi cura degli anziani e dei poppanti. Le casse della frutta sono vuote, ma anche le banche piangono la perdita di clienti così fedeli come i migranti. Ma la vera disperazione è all’Inps, le casse lì tremano letteralmente di paura, senza i migranti il sistema previdenziale italiano cessa praticamente di esistere. Il libro di Polchi ricorda per il tema un film messicano del 2004,, Un día sin mexicanos di Sergio Arau. Nel film tutti i latinos scompaiono dallo stato della California e tutto si paralizza. Una nuvola viola diventa l’emblema di questa sparizione di massa. I sedicenti esperti si interrogano allora sul motivo di questo dissolvimento. Sono arrivati gli extraterresti a sequestrarli? È terrorismo biologico? È l’apocalisse e i latinos sono stati considerati il popolo eletto? O forse erano solo stufi di non essere considerati persone di valore?
Polchi nel suo Blacks Out, come del resto fa anche Arau nel film, mischia sapientemente finzione, realtà ed ironia. Il motore del romanzo è Valentino delle Donne e la sua vita un po’ in bilico, la realtà è fatta dai personaggi che incontra e dai dati che infarciscono il testo. I vari Aly Baba Faye, Martina Cvajner, Hu Lanbo, Marzio Barbagli sono persone in carne ed ossa. Come lo sono anche le storie dei migranti citate, le questioni dibattute, la lettera dei genitori della Pisacane, gli articoli di giornale, i deliri raccolti dal sito di Forza Nuova.
Una critica che è arrivata al libro in questi giorni è stata quella di considerare i migranti semplice forza lavoro (alla stregua di servi della gleba) e non persone. Ma leggendo attentamente Blacks Out in ogni riga si nota come l’autore abbia schivato ogni equivoco in tal senso dando ad ogni personaggio dignità, parola, indomabile senso di lotta e aspirazioni di ascesa sociale. Ora uno sciopero simile a quello immaginato dall’autore è stato indetto per il Primo Marzo, una giornata senza di noi, viene detto da più parti. Probabilmente non si arriverà alla paralisi completa, come auspicato dal libro, ma sarà un segno per l’Italia di questi nostri tristi giorni. Qualcosa sta cambiando. Il soggetto migrante è presente e vuole agire. I giorni della servitù sono finiti.❖

l’Unità 26.1.10
Ma gli stranieri sciopereranno davvero: il primo e il 20 marzo
di Cesare Buquicchio

Primo o venti marzo? Magari tutte e due. Già perché la realtà immaginata da Vladimiro Polchi nel suo libro Blacks Out prova a diventare realtà vera. Il merito è di quattro donne e dei francesi. Oltralpe la giornalista Nadia Lamarkbi ha lanciato nell’autunno scorso l’idea di uno sciopero di tutti gli immigrati (e di tutti i francesi al loro fianco) per il 1 ̊ marzo. L’idea, in Italia, ha contagiato Stefania, Daimarely, Nelly e Cristina che organizzano la stessa iniziativa per lo stesso giorno (lo stesso si farà in Grecia, Spagna, Belgio e Germania). È nato un sito web (http://primomarzo2010.blogspot. com) una pagina Facebook con 43mila iscritti e una mobilitazione con comitati locali dovunque. Dall’altra parte, sulla scia del libro Blacks Out, per il 20 marzo si organizzano mobilitazioni sostenute anche ufficialmente dai sindacati.
IL DILEMMA
Nessuno si nasconde le difficoltà di coinvolgere lavoratori spesso in nero, ricattati e ricattabili per cui la giornata di lavoro è l’unica forma di sostentamento. I comitati territoriali per coinvolgere i lavoratori stranieri che difficilmente sapranno dell’iniziativa andando su Facebook, stanno organizzando eventi che possano coinvolgere anche gli italiani, che prima di provare a stare «24 ore senza di loro» (uno degli slogan), possano trascorrere 24 ore «con» loro. Propongono iniziative simboliche anche per chi non potrà scioperare: dall’astensione dei consumi all’indossare indumenti o un nastrino giallo, il colore scelto come simbolo del 1 ̊ marzo. Qualcuno pensa a come far affrontare più a cuor leggero una giornata senza lavoro a chi della paga non può fare a meno: organizzando collette o offrendo a chi sciopererà e ai suoi familiari un pranzo collettivo. Resta il piccolo dilemma (che qualcuno prova a strumentalizzare): 1 ̊ o 20 marzo? Il buon senso suggerirebbe tutte e due (considerando la differenza tra un lunedì–il1 ̊marzo–eunsabato–il 20). Magari come prove generali per una terza data in autunno, tutti insieme e senza polemiche...

l’Unità 26.1.10
Italia-razzismo
L’impietoso confronto con l’America, quella di Kennedy (1957)

È stato appena ripubblicato un discorso di John F. Kennedy del 1957, dal titolo
Una nazione di immigrati. Leggendolo, si ha la sensazione di come i problemi siano simili, se non addirittura uguali, a ogni latitudine e in ogni tempo. Certo l’America, a differenza dell’Europa, nasce come un paese di immigrati, che fondano la loro nazione sul principio di uguaglianza. La loro, dunque, è una storia di immigrati, mentre la nostra è di emigranti. Nel Novecento, però, anche in America il problema si presentò in termini assai simili ai nostri; e anche lì suscitò polemiche la proposta di un test linguistico per immigrati adulti, rifiutato a lungo perché non fondato «sulle capacità di un individuo o sul suo potenziale valore di cittadino». E la diffusione della xenofobia, indusse Kennedy ad affermare che accanto ai versi incisi sul piedistallo della Statua della libertà («date a me le vostre stanche, povere, traboccanti masse anelanti uno spirito di libertà») si dovessero aggiungere le parole «a patto che vengano dall’Europa settentrionale, non siano troppo povere o stanche o malaticce, non abbiano mai rubato neanche un tozzo di pane». Ecco, forse la vera differenza è questa: in America ci fu un presidente che ebbe il coraggio di dire che «le leggi sull’immigrazione dovrebbero essere generose, eque e flessibili». E non basta. In America c’è oggi un presidente che dichiara nitidamente che «non siamo simili e non proveniamo dagli stessi luoghi, ma procediamo nella stessa direzione» (B. Obama, Sulla razza, 18 marzo 2008).
È questo il punto: da una parte, l’America del 1957 e l’America di oggi e, dall’altra, l’Italia incattivita del 2010. Nonostante che il suo presidente dica, sull’immigrazione, ottime cose. ❖

l’Unità 26.1.10
World Report 2010
La guerra ai diritti
Mille modi di fermare i paladini delle libertà. Li racconta il rapporto 2010 di Human Rights Watch La repressione nel mondo aumenta anche perché è cresciuta la capacità del movimento di battersi per la tutela delle persone Nella lista nera finiscono la Cina e l’Iran ma anche Corea del Nord e Burundi Le critiche agli Usa
di Umberto De Giovannangeli

C’è chi li elimina fisicamente. Chi li sbatte in galera e butta la chiave. Chi usa norme penali particolarmente restrittive per dare una parvenza di legalità ad uno scempio dei diritti. Chi trasforma le carceri in centri di tortura. Chi brandisce la minaccia (praticata massicciamente) della radiazione dall' albo per colpire e dissuadere gli avvocati «scomodi». Chi pratica il ricatto economico, l'arma degli affari, per ottenere l'impunità internazionale. Chi mutua dalla mafia le vendette trasversali a mo' di avvertimento. Chi assolda killer e milizie private per compiere i lavori più sporchi. Chi censura e chiude d'imperio giornali, riviste, siti web a centinaia. I mille modi per combattere i paladini dei diritti umani. Oltre 600 pagine. È il rapporto più aggiornato e dettagliato sullo stato dei diritti umani nel mondo. È il World Report 2010, realizzato da Human Rights Watch, la più autorevole organizzazione per la difesa e promozione dei diritti umani con sede centrale negli Usa, premio Nobel per la pace nel 1997 per la Campagna anti-mine. Una sintesi è stata resa pubblica nei giorni scorsi. L'Unità ne ha potuto prendere visione nella sua completezza, avvalendosi di un interlocutore d'eccezione: il Direttore esecutivo di Hrw, Kenneth Roth.
Prima considerazione: la capacità del movimento dei diritti umani di esercitare pressioni per conto delle vittime è cresciuto enormemente negli ultimi anni – riflette Roth – e questo sviluppo ha generato una reazione da governi corrotti, che è cresciuta di particolare intensità nel 2009. «Gli attacchi contro i difensori dei diritti – annota il direttore esecutivo di Hrw potrebbero essere visti come un riconoscimento perverso al movimento dei diritti umani, ma questo non attenua il pericolo. «Con vari pretesti, governi corrotti stanno attaccando i fondamenti stessi del movimento dei diritti umani».
Attacchi ad attivisti dei diritti umani non sono limitati a governi autoritari come la Birmania e la Cina, sottolinea Hrw. Nei Paesi con governi eletti che si trovano ad affrontare le insurrezioni armate, si è registrato un forte aumento degli attacchi armati contro osservatori dei diritti umani.
Attacchi sistematici contro attivisti e organizzazioni dei diritti umani sono avvenuti da parte governativa in Eritrea, Corea del Nord, Turkmenistan. Repressione e abusi hanno segnato pesantemente anche la Russia, lo Sri Lanka, il Kenya, il Burundi e l'Afghanistan. Tra i Paesi chiusi ai diritti umani, il World Report 2010 annovera la Cina e il Sudan, mentre Iran e Uzbekistan vengono classificati tra i Paesi che adottano la detenzione arbitraria di attivisti dei diritti umani e di oppositori, praticando nelle carceri la tortura.
La repressione marchia anche Colombia, Venezuela, Nicaragua, Repubblica Democratica del Congo e Sri Lanka.
Alcuni governi, come quelli di Etiopia ed Egitto, utilizzano norme estremamente restrittive per soffocare il lavoro delle organizzazioni non governative. Altri Paesi utilizzano la radiazione di avvocati (Cina e Iran, per esempio), e accuse penali fondate su prove falsificate (Uzbekistan e Turkmenistan), e leggi sulla diffamazione (la Russia e Azerbaigian) per mettere a tacere i critici. «L'unico modo – dice Roth a l'Unità che i governi democratici hanno per sostenere i difensori dei diritti è fare di questo tema un aspetto centrale, vincolante delle loro relazioni bilaterali. I governi che sostengono i diritti umani devono alzare la voce, agire per fare del rispetto dei diritti della persona il fondamento della loro diplomazia e delle proprie pratiche, chiedendo, e operando di conseguenza, per un cambiamento reale di governi corrotti e liberticidi».
Una sottolineatura che chiama in causa l'Amministrazione Usa. «Obama – annota Roth – ha di fronte a sé la sfida di ripristinare la credibilità dell'America sui diritti umani. Finora i risultati sono “misti”, con un netto miglioramento nella retorica presidenziale, ma permane una discrasia tra l'enunciazione e la prassi». «Il governo statunitense – aggiunge il direttore esecutivo di Hrw ha chiuso il programma della CIA degli interrogatori coercitivi, ma deve ancora sostenere il diritto nazionale e internazionale contro la tortura, indagando e perseguendo che hanno ordinato, agevolato, o praticato la tortura e altri maltrattamenti».
Sulla chiusura del centro di detenzione di Guantanamo, il termine è slittato, «ma il problema più importante è come sarà chiuso». L'amministrazione Obama ha insistito sul mantenimento di commissioni militari che amministrano la giustizia e sul continuare a a trattenere i sospettati a tempo indeterminato senza accuse o processo: «Tutto questo avverte Roth rischia di perpetuare lo spirito di Guantanamo».
In molti Paesi, Human Rights Watch ha documentato le violazioni dei diritti umani subite da donne e ragazze, in gravidanza, nell'ambito familiare – lo stupro non è convertito in azione penale, il rapporto sessuale non regolamentato, o fuori dal matrimonio, assimilato all'adulterio -, nella vita pubblica, come badanti. Abusi che in diverse realtà assumono i caratteri e le dimensioni di una vera e propria schiavitù di massa.
In Cina, oltre a documentare la persecuzione e l'incarcerazione di difensori dei diritti umani, Human Rights Watch ha pubblicato un rapporto che descrive il funzionamento segreto di «prigioni nere», dove le autorità detenere persone che rapiscono largo le strade di Pechino e di altre importanti città. La maggior parte di questi detenuti sono firmatari di denunce contro gli abusi – dalla corruzione del governo alla tortura praticata dalle forze di polizia – delle autorità. Una pratica che si estende al continente africano e al Vicino Oriente. «I governi che si considerano difensori dei diritti umani, sono spesso silenti di fronti a questi abusi da parte degli alleati, giustificandosi con priorità diplomatiche o economiche», rimarca Roth. «Ma quel silenzio – conclude li rende complici di quei regimi che fanno scempio di diritti e di legalità».❖

il Fatto 26.1.10
Quel vecchio confine che inghiotte le anime
A Nova Gorica, il varco da cui ogni anno entrano in Italia migliaia di immigrati
di Elisabetta Reguitti

Le migrazioni irregolari a Gorizia le ha risolte il trattato di Schengen del 20 dicembre 2007, data della “caduta” del confine italo-sloveno. Fino a quel giorno questa città-simbolo fra est e ovest, considerata ai tempi della Guerra fredda il “confine più aperto d’Europa”, rappresentava un facile ingresso per chi fuggiva dalla miseria e dalla mancanza di libertà lungo i sentieri dei Balcani. C’era di tutto: dai turchi di etnia armena ai serbi fino ai pachistani. Solo gli sbarramenti confinari ufficiali di Sant’Andrea e della “Casa Rossa” non erano accessibili ai profughi. Ma già nelle immediate vicinanze, nella immediata periferia della città, e soprattutto lungo i sentieri di campagna e del Carso, per anni ci sono stati i massicci flussi di disperati che, con quel poco che avevano in tasca e con figli e vecchi sulle spalle, entravano in Italia accompagnati da spregiudicati passeurs la cui prestazione era pagata a peso d’oro. Prima di varcare la frontiera, quasi sempre di notte, si liberano dei propri documenti per diventare fantasmi anonimi. Il tragitto portava i più sulla statale Gorizia-Trieste (denominata il Vallone) che corre parallela al confine. Un confine “colabrodo” controllato a vista dai graniciari (milizia di frontiera) di Tito fino alla caduta della Jugoslavia, poi di fatto libero. E che in città, a Gorizia, era protetto da una rete solo davanti alla stazione della Transalpina, quella che il giornalista e scrittore triestino Paolo Rumiz – anche per fotografare la collaborazione che Gorizia e la dirimpettaia città slovena di Nova Gorica avevano saputo allacciare – aveva ribattezzato con efficacia il “muretto di Gorizia”. Contrapponendolo al più celebre e drammatico Muro di Berlino. Negli anni è diventato tutto più semplice sia per Trieste sia per Gorizia: di là, a Nova Gorica, ci sono i casinò e le file di auto italiane passano con un’attesa inferiore a quella sofferta ai caselli dell’autostrada. Ma nel 2000, attraverso il confine italo-sloveno, sono passati circa 17 mila irregolari e, di questi, solo il 10 per cento è stato rimandato indietro. Una vera e propria invasione silenziosa se paragonata, nello stesso periodo, alle più modeste cifre degli sbarchi sulle coste siciliane, calabresi e pugliesi, che però generano più allarme e fanno più notizia. Nel 2000, per ogni clandestino che approdava sulle coste italiane, ce ne erano 15 che varcavano il confine italo-sloveno. E dietro questo traffico c’erano organizzazioni criminali turche, croate, serbe, slovene e italiane: nel porto turco di Smirne, un clandestino pagava 5 mila euro per salire su una carretta del mare. Ce ne volevano 10 mila, invece, per stipare un nucleo familiare in un Tir che dalla Turchia viaggiava lungo la ex Jugoslavia fino a Nova Gorica, da dove i passeurs li guidavano in Italia. Oggi è diverso. Per gli irregolari il viaggio più difficile finisce al confine tra la Slovenia e la Croazia. Poi ad aspettarli ci sono le auto che li conducono lungo lo Stivale. Oggi non esiste nessun controllo di frontiera perché non esistono più i confini. E intercettare gli immigrati appartiene alla casistica dei fermi per i normali controlli su strade e autostrade. Oggi i problemi, per queste terre di confine (le ultime ad essere state smilitarizzate) un tempo ferite dall’odio tra italiani e sloveni, dalle foibe e dai campi di concentramento (come il lager nazista della risiera di San Sabba a Trieste) sono altri. Hanno nomi come Cie (centro di identificazione ed espulsione qualche anno fa denominato più cortesemente Cpt, centro di permanenza temporanea), Cara (centro accoglienza richiedenti asilo) oppure ancora Sprar (sistema protezione richiedenti asilo e rifugiati) o Cir (consiglio italiano dei rifugiati). Acronimi sempre nuovi per descrivere realtà di ospitalità “condizionata”. Mondi troppo spesso paralleli con regole diverse e in continua, frenetica evoluzione. Difficili da seguire anche per gli stessi operatori, impegnati a risolvere i problemi quotidiani di persone in fuga dai propri paesi di origine. Cibo, alloggi, vestiario. Ma soprattutto una possibilità di futuro per coloro che riescono a ottenere il riconoscimento di rifugiato politico: circa il 20% dei richiedenti. Sono loro, oggi, la vera emergenza lanciata dalla Caritas di Gorizia. Che rischia di scoppiare. Tra settembre 2008 e marzo 2009 ha accolto quasi 600 immigrati dimessi (allo scadere dei 6 mesi) dal Cara: oggi sono una sessantina a fronte di una capienza massima non superiore a 42 posti. I richiedenti asilo sono senza soldi, senza prospettive e non sanno dove andare. Sono persone che rischiano di essere inghiottite
Per ogni persona che sbarca irregolarmente sulle coste del sud, ce ne sono 15 che arrivano dalla Slovenia dalla criminalità perché non hanno occupazione. “Li manteniamo a spese nostre”, ci racconta il direttore della Caritas don Paolo Zuttion. Dieci euro al giorno per ogni immigrato in attesa del riconoscimento a fronte dei 40 euro del Cara dove si può stare sei mesi, non un’ora in più. Poi finisci per strada. Come nel caso di quella ragazza che era stata “gentilmente” invitata a lasciare il Cara. Si è scoperto, poi, che era incinta. “Noi abbiamo ospitato 620 persone in un anno. Allo Stato ognuna di loro sarebbe costata 800 euro – prosegue il sacerdote – Abbiamo chiesto al prefetto di Gorizia di sottoscrivere una convenzione ma stiamo ancora aspettando”. Non vanno certo meglio le cose rispetto ai contributi elargiti dall’amministrazione comunale, che tra il 2008 e il 2009 ha tagliato ben 16 mila euro sulla gestione del dormitorio di piazza Tommaseo: un servizio per i senza fissa dimora (pochi) che viene usato per i richiedenti asilo che escono dal Cara (tanti). Che raccontano storie tutte diverse, anche se uguali nella drammatica sostanza. Intanto però gli operatori e i volontari cercano di districarsi nella giungla degli acronimi dei tanti (troppi) progetti ministeriali funzionanti sulla carta ma meno nella realtà delle cose. Procedure complesse da capire, anche per i più esperti. Difficili da applicare. Soprattutto quando mancano le risorse.

Repubblica 26.1.10
Leggere il pensiero? è medicina non fantascienza
di Arnaldo D’Amico

La scoperta, semplice e geniale, alla Mayo Clinic di Boston su pazienti epilettici. Applicati a un elettroencefalografo i principi della videoscrittura
La lettera appare sullo schermo, il malato la guarda, sul pc compare la stessa lettera

Le lettere dell´alfabeto appaiono su uno schermo, una dopo l´altra. Due uomini le guardano e su un computer collegato ad un elettroencefalografo le stesse lettere appaiono, nella stessa sequenza. L´esperimento è stato realizzato nella sede di Boston della Mayo Clinic, l´organizzazione non profit più grande del mondo (3.700 ricercatori, 50.100 unità il personale di cura, 500mila i malati trattati ogni anno) dedicata allo sviluppo di terapie e soluzioni mediche pratiche. La scoperta che il pensiero si può leggere direttamente dal cervello ha del fantascientifico, ma alla base vi sono conoscenze e strumenti usati negli ospedali tutti i giorni. E un´idea semplice e geniale: applicare ai segni tracciati da un elettroencefalografo i principi con cui funzionano i programmi di videoscrittura installati su smart-phone e computer touch-screen, quello che traduce in testo dattilografico la propria grafia a mano. Ovviamente il software sviluppato per "leggere" le onde cerebrali è molto più sofisticato e potente.
Con questo armamentario, il gruppo di ricerca capitanato dal neurologo Jerry Shin si è lanciato nella verifica di una scommessa ardita: in un comune elettroencefalogramma - la registrazione delle onde elettriche cerebrali fatta con sensori appoggiati sulla testa - ci deve essere molto di più di quello che si vede ad occhio. Sonno, veglia, sogno, coma, epilessia e altri fenomeni che coinvolgono gran parte del cervello, corrispondono ad onde grandi, riconoscibili ad occhio dal medico. Vi devono essere, però, anche le onde elettriche debolissime, prodotte da piccole aree del cervello, come si ha per attività mentali minime, oscillazioni impercettibili all´occhio umano, ma non a un computer con un software in grado di rilevare, analizzare, confrontare e memorizzare milioni di piccole onde diverse.
Per verificare ciò, i ricercatori hanno chiesto la collaborazione di due pazienti epilettici. Per necessità terapeutiche, i due dovevano sottoporsi a un elettroencefalogramma con gli elettrodi appoggiati direttamente sulla corteccia cerebrale. È un´indagine che si pratica da decenni e richiede l´apertura di uno sportello nel cranio. Insieme ad altre indagini che si possono fare solo così, permette di individuare, con una precisione maggiore di quella ottenuta dagli elettrodi sulla pelle, la zona di cervello che scatena la crisi epilettica per poi rimuoverla.
Fatte le indagini per l´epilessia i pazienti si sono prestati all´esperimento. Mentre si concentravano su una lettera - si è iniziato con la "q" - il computer analizzava e memorizzava i segnali elettrici cerebrali. Nel frattempo i ricercatori dicevano al computer di associare la registrazione con la lettera "q". E così via per tutte le lettere dell´alfabeto. Come si fa coi programmini di videoscrittura: si scrive a mano la "q" sullo schermo e poi si digita "q": da quel momento quando il computer vede il nostro ghirigoro scrive "q". Poi hanno verificato se il computer così addestrato sapeva leggere l´alfabeto direttamente nel cervello.
Immaginabile lo stupore dei due pazienti quando hanno visto apparire sul computer le lettere che via via guardavano. E l´eccitazione dei ricercatori: quelle lettere dimostrano che l´attività elettrica ha in sé le tracce anche di eventi mentali semplicissimi, che comportano l´entrata in funzione di pochi neuroni rispetto ai miliardi coinvolti dal sonno o dal sogno. I passi successivi: verificare che il computer "legge" nel cervello anche con gli elettrodi appoggiati sulla testa, dove i segnali elettrici arrivano un po´ indeboliti; verificare che succede con pensieri via via più complessi come parole, frasi, discorsi. Ma anche suoni, melodie, colori, immagini. Infine, con comandi motori.

Repubblica 26.1.10
Il governo di Pechino lancia un sito per gli impiegati pubblici single Crollato il numero dei matrimoni, è in crisi anche la politica dei figli unici
Ai cuori solitari pensa il partito nasce la banca dell´amore di Stato
di Giampaolo Visetti

Ai tempi dell´imperatore, l´amore era un filo di seta, tessuto sulle nuvole. Gli innamorati, suggeriva il mito, dovevano seguire quel filo per incontrarsi una volta all´anno, sopra un ponte volante di gazze. Una ricetta magica, scorrendo i numeri della popolazione. La Cina, con le campagne, ha però sepolto il passato. Impegnata a scrollarsi di dosso anche l´ombra di Mao, prende atto che al nuovo popolo dei colletti bianchi i sogni degli dei non bastano più. Anche all´amore, da oggi, ci pensano così il partito e il capo ufficio. Pur considerando Internet il male assoluto, il governo ha lanciato un sito web per combinare incontri tra i milioni di impiegati pubblici di tutto il Paese. La banca dell´amore di Stato, riservata ai single, si autodefinisce «la piazza romantica più sicura della Cina». Cerca di risolvere quella che si profila come la nuova emergenza nazionale: la generazione dei figli unici, giunta all´età di mettere su famiglia, muta in generazione di single. «Se sei solo e triste - scrive il governo ai suoi dipendenti - affidati al tuo capo».
Nulla di romantico, ma una nazione in corsa per la leadership del secolo non si permette di badare ai particolari. In pochi giorni il sito per matrimoni pubblici è stato travolto da 45 mila offerte di nozze ministeriali. Le regole, da tradizione orientale, sono inflessibili. Gli impiegati pubblici in cerca di un partner da sposare devono presentare il proprio curriculum in ufficio, completo di certificato medico. Una commissione di dirigenti e sindacalisti verifica e dopo un colloquio registra l´offerta al ministero della pubblica sicurezza. «Una procedura - si spiega - che garantisce accuratezza e affidabilità». Il filtro governativo sta così selezionando una classe di aspiranti sposi cinesi «i cui membri sono di età opportuna, alto calibro, ben educati, istruiti e con un lavoro stabile». Se non il partner ideale, ha commentato la tivù di Stato - almeno un´alternativa alle truffe di siti e agenzie private, piene di dati personali falsi.
L´amore di Stato online, oltre a combattere i falsi «innamorati perfetti» che fuggono con i risparmi di famiglia, tenta in realtà di salvare la nazione. Cinquecento milioni di lavoratori migranti, scuole e università ipercompetitive e un´organizzazione del lavoro che cancella la vita, stanno facendo crollare i matrimoni. Nelle metropoli, in tre anni, affitti e prezzi delle case sono aumentati del 600 per cento, trasformandosi nell´incubo degli under trenta. «Per aumentare i consumi interni e alimentare il boom immobilitare - dice Zhou Meilin, direttore della Commissione nazionale di pianificazione famigliare - occorrono nuove famiglie. Dei nuovi nuclei, 100 milioni all´anno sono però formati da una persona sola. Il problema, più che i villaggi, minaccia le città».
Le statistiche delineano un futuro di metropoli simili a cronicari, formate da vecchi che, pur vivendo in quartieri-alveari, da giovani non sono mai riusciti ad incontrarsi. «Capisco che agli occidentali - dice Zhai Zhenwu, capo dell´Istituto per la popolazione della Renmin University di Pechino - l´idea di innamorarsi su consiglio del proprio capo ufficio possa apparire eccentrica. Noi però abbiamo una visione collettiva e se c´è un problema il governo se ne occupa. Meglio scegliere il partner con calma e tra migliaia di possibilità sicure, che in fretta tra qualche decina di sconosciuti in condomini e metrò». Il governo non punta infatti sulle love story, ma su matrimoni con figli. Dopo Shanghai, in questi giorni anche Pechino sta abbattendo la sacra legge del 1978 sul figlio unico. Presto le famiglie in cui o il marito o la moglie sono a loro volta figli unici, e non più entrambi, potranno avere più di un erede. «Il che significa - dice Mu Guanzong, ricercatore dell´Istituto demografico della capitale - che ai nuovi «coniugi d´ufficio» le autorità consentiranno di generare liberamente». Contro la difficoltà di trovare un amore, i cinesi si sono del resto organizzati anche da soli. Ogni sabato in milioni di piazze della Cina anziani genitori si incontrano per combinare incontri tra figli che non si conoscono. Ogni sei mesi a Pechino e a Shanghai vengono organizzati incontri al buio.
Migliaia di persone non impegnate vagano in saloni oscurati e rivedono la luce tenendo per mano la persona che hanno scelto per la vita. Gong Yelong, per favorire nuove unioni, ha lanciato la «banca degli amori finiti». Per pochi yuan si possono depositare gli oggetti-simbolo delle storie fallite: in casa imbarazzano, dopo le nozze. «Uno Stato agente matrimoniale - ha scritto il sociologo Ni Kaiquan - apre all´erotismo nuove prospettive. Ma non dimentichiamo che un dipendente sposato lavora meglio ed è più stabile». Il Giappone? Sorpasso concluso.

Repubblica 26.1.10
Il rapporto con la morte al tempo della tecnica
di Roberto Esposito

"Che cosa vuol dire morire" è il titolo di un libro che raccoglie sei interviste con Remo Bodei, Roberta de Monticelli, Vito Mancuso, Giovanni Reale, Aldo Schiavone e Emanuele Severino

Chi dovesse leggere le sei interviste curate da Daniela Monti con il titolo Che cosa vuol dire morire (Einaudi Stile Libero, pagg. 120, euro 14) in prossimità di un telegiornale di questi ultimi giorni potrebbe essere colto da un leggero senso di vertigine. Apprendere che la morte è sempre personale, che nel giro di un paio di generazioni sarà autogestita dall´uomo o che, addirittura, non è mai esistita, come sostengono alcuni dei filosofi intervistati, davanti alle immagini dei mucchi di morti in putrefazione nelle strade di Port-au-Prince non è boccone facile da ingoiare anche per palati molto sofisticati.
Ma ciò non vuol dire si tratti di discorsi inutili o astratti. Al contrario, le riflessioni di Aldo Schiavone, Giovanni Reale, Remo Bodei, Roberta de Monticelli, Vito Mancuso ed Emanuele Severino, sollecitate dalle intelligenti domande della curatrice, rispondono ad un´esigenza fortemente sentita. Che è quella di liberare la discussione sulla morte dai limiti specialistici del lessico medico o giuridico, situandola in un più ampio orizzonte di pensiero.
Vero è che fin dalla sua origine la filosofia, anche quando si è orientata sui problemi della vita, non ha mai smesso di riflettere su quella morte che ne costituisce non solo la pagina finale, ma anche la cornice inevitabile. E tuttavia neanche questo ricchissimo patrimonio può bastare nel momento in cui il fenomeno della morte – come del resto quello della nascita – sperimenta una radicale mutazione dovuta alla straordinaria capacità della tecnica a penetrarne i confini prima ermeticamente sigillati. Naturalmente tutto ciò, piuttosto che chiudere il problema, lo apre a una serie di domande e di conflitti di cui anche la cronaca recente, con i casi Welby ed Englaro, ha recato tragica testimonianza. Come prima Nietzsche e poi Foucault avevano precocemente intuito, l´oggetto centrale dello scontro, etico e politico, del nostro tempo è, e sempre più sarà, costituito precisamente dal corpo vivente, e morente, degli uomini. Qual è la frontiera tra la vita e la morte e chi è deputato a fissarla? Come si incrociano, su di essa, libertà individuale e interesse collettivo, diritto e medicina, teologia e politica?
La filosofia non poteva mancare di dire la sua – senza pretendere di risolvere questioni costitutivamente irresolubili, ma almeno cercando di fare chiarezza su di esse. Naturalmente, come sempre avviene in questi casi, provocando altri interrogativi ed aprendo nuove contraddizioni. Proverei a raggrupparle all´interno di tre bipolarità concettuali, seguendo il filo dei ragionamenti svolti nel libro. La prima è costituita dal rapporto tra storia e destino, al centro degli interventi di Schiavone e Bodei. Dire – come fanno entrambi – che il prodigioso sviluppo tecnologico spinge la vita, e dunque la morte, in un´orbita non più naturale, ma intensamente storica, perché aperta all´intervento umano, vuol dire che una lunghissima epoca, iniziata con la comparsa dell´uomo sulla terra, si va concludendo.
Senza poter sapere cosa ci riserva il futuro, e senza sottovalutare i rischi che tale trasformazione comporta, per i due autori il percorso verso la liberazione della specie umana dai vincoli della natura è ormai segnato. Nonostante il suo fascino, il problema di fondo che vedo in simile prospettiva non sta tanto nella perdita della dimensione naturale a favore di quella storica, quanto, piuttosto, in una concezione troppo fluida della stessa storia – e cioè in una possibile sottovalutazione dei traumi, o delle fughe di senso, che troppe volte l´hanno trascinata indietro quando si è illusa di fuggire verso il futuro, dimenticando la propria origine opaca.
Il secondo binomio che emerge dal libro è quello della relazione, altrettanto problematica, tra tecnica e fede. Certo, i processi di secolarizzazione che caratterizzano il mondo occidentale tendono a spostare il loro confronto a favore della prima. Le religioni perdono terreno, o si attestano sulla difensiva, davanti all´incalzare della conoscenza scientifica. Dopo aver perso sia la battaglia con Galileo sia quella con Darwin, la Chiesa cattolica rischia di perdere la guerra. La intangibilità della vita costituisce per essa l´ultima frontiera su cui attestarsi. Proprio qui, tuttavia, si determina un singolare rovesciamento di campo. Come osserva anche Reale, nell´uso di terapie sempre più aggressive volte a trattenere in vita corpi cerebralmente morti, è proprio la Chiesa a sostenere le ragioni della tecnica rispetto alla spontaneità dei processi naturali. Ma, all´altro capo del binomio, come da tempo insegna Severino, la tecnica a sua volta è diventata una fede, nel senso che ha sostituito la credenza in Dio come argine nei confronti del nulla che ci circonda.
L´ultima coppia bipolare – al centro delle risposte della de Monticelli e di Mancuso – è la relazione tra persona e corpo. Entrambi vedono nell´idea di persona ciò che riconduce il fenomeno della vita, nel suo rapporto con la morte, dal piano di una falda biologica indifferenziata a quello, individuale, del singolo essere vivente. Che solo nell´esperienza irripetibile di ciascun uomo e di ciascuna donna la vita sperimenti il suo valore irrinunciabile è una verità indubitabile. Così come il riferimento alla pari dignità di ogni essere umano. Meno certo, mi pare, che ad affermarla possa essere proprio quel dispositivo, filosofico e giuridico, della persona che, dalla sua origine romana e cristiana, è sempre servito a dividere il genere umano, e lo stesso corpo vivente, in categorie fornite di diverso valore. Come che sia, si tratta di sollecitazioni e di dubbi che attestano di per sé tutto l´interesse e il rilievo del libro.

Repubblica 26.1.10
Torino, 1938 "Montalcini sospesa"
di Massimo Novelli

È il 18 ottobre del 1938 quando il rettore Azzo Azzi, in base alla legge del 5 settembre di quell´anno, decreta che «la dott. Levi Rita, Assistente volontaria alla Clinica delle malattie nervose e mentali della R. Università di Torino, è sospesa dal servizio, a decorrere dal 16 ottobre 1938-XVI». Il futuro premio Nobel per la medicina, che di lì a poco sarà costretta a emigrare in Belgio, è una delle vittime nel mondo accademico delle leggi razziali, appena promulgate da Mussolini e da Vittorio Emanuele III. Il documento della sua cacciata dall´insegnamento e dalla ricerca, così come altre carte della vergogna fascista e monarchica, è custodito presso l´Archivio storico dell´Università di Torino. Da domani sarà esposto in Prefettura, nell´ambito di una mostra sulla persecuzione degli ebrei in Italia.
Molte altre, però, sono le testimonianze, poco note, della pulizia etnica che i fascisti compirono nelle Università nei confronti del personale di "razza ebraica", nel sostanziale silenzio della maggior parte degli altri docenti. Una seconda esposizione, in questo caso proprio all´Archivio storico dell´ateneo torinese (s´intitola "A difesa della razza" e apre domani), propone leggi, circolari e decreti emanati da Giuseppe Bottai, ministro dell´Educazione nazionale, che chiariscono in che modo il razzismo italiano divenne una materia d´insegnamento, oltre che di lavoro ordinario d´ufficio, da sbrigare senza porsi problemi di sorta. È il caso della nota ministeriale del 20 ottobre ‘40, inviata al rettore di Torino a proposito dell´istituzione di «un nuovo posto di ruolo presso codesta Facoltà di Scienze». Da Roma, Bottai scrive di ritenere «opportuno avvertire che tale posto, come risulta anche dai lavori preparatori della legge, deve intendersi riservato all´insegnamento dell´Antropologia oppure ad altro insegnamento razziale». Due anni prima, l´11 giugno ‘38, sempre il ministro, che avrebbe avuto un ruolo di primo piano nella caduta di Mussolini, rende noto di avere disposto che «nelle sessioni di esami sia osservata netta separazione studenti razza ariana da studenti razza ebraica ed sia data precedenza gruppo studenti ariani negli esami orali».
La burocrazia della persecuzione, che sfocerà nella deportazione nei lager, non si differenzia nella forma da qualsiasi altro atto ministeriale. Anche quando, il 14 ottobre ‘38, nel comunicare i nominativi dei professori torinesi sospesi «si fa riserva d´integrare l´elenco coni i nomi di coloro che, secondo le direttive del Gran Consiglio del Fascismo, eventualmente dovranno essere considerati di razza ebraica e come tali sospesi anch´essi dal servizio». Intanto ne facevano le spese «Cino Vitta, Giuseppe Samuele Ottolenghi, Santorre Zaccaria Debenedetti, Giorgio Falco, Arnaldo Momigliano, Alessandro Terracini, Amedeo Herlitzka, Giuseppe Levi, Gino Fano». E poi «Amos Foà, Luciano Jona, Renato Segre, Marcello Foà, Leonardo Herlitzka, Renzo Olivetti, Sergio Bachi, Raffaele Lattes, Alberto Vita, Vittorio Giulio Segre, Roberto Bolaff, Rita Levi, Walter Momigliano, Mario Nizza, Paolo Ravenna».

il Riformista 26.1.10
Il segreto di Vendola
Vi spiego perché Nichi piace e vince
Terremoto? La forza tranquilla di Vendola
di Rina Gagliardi

Con il successo di domenica, Nichi Vendola è riuscito a superare in un colpo solo tre ostacoli dall’apparenza di altrettanti macigni. In primis, sia pure all’interno del proprio elettorato, ha battuto la così detta “legge del pendolo”: il popolo di sinistra e di centrosinistra lo ha riconfermato; il consenso, dopo cinque anni di governatorato, si è considerevolmente allargato.
Un fatto quasi inaudito, anzi pressoché inedito. In secundis, ha sconfitto un (coraggioso) concorrente, sostenuto, almeno a parole, dall’intero gruppo dirigente nazionale del Pd. Infine, ha fronteggiato, con forza, pazienza e tenacia, la guerra che gli è stata scatenata contro da vari poteri, a cominciare dalla magistratura e dai media. Tutto questo, senza usufruire del sostegno di nessuna potenza politica, nemmeno nel campo della sinistra alternativa “Sinistra e Libertà” essendo notoriamente una forza in fieri. E dunque è d’obbligo l’interrogativo: come ha fatto? Come ha fatto a diventare così popolare, così amato, così rispettato?
Chi lo conosce, ne riconosce agevolmente il fascino personale, la straordinaria capacità comunicativa, la raffinatezza intellettuale. Ma queste virtù, da sole, non fanno né un leader politico né un governatore al secondo mandato. In Vendola c’è qualcosa di più solido e, perfino, di più importante: che incarna, in se stesso, una felice sintesi di culture politiche, e anche di stili. Non è, nient’affatto, un estremista, come è stato scioccamente scritto o detto. Nichi è all’origine un “comunista italiano”, come tale “naturalmente” propenso al dialogo, all’arte della costruzione politica, all’allargamento del consenso, che negli anni ha saputo innovare e ricercare, senza mai buttare via le sue radici. Per diventare, più o meno, ingraiano, ambientalista, “rifondazionista” , nutrire dei dubbi sulla scelta di non appoggiare un governo borghese (come accadde nel lontano 1995), radicalizzarsi negli anni in cui in Italia e nel mondo esplodeva il movimento no global.
Non è un “demagogo”, Nichi, come dicono le malelingue. Piuttosto, è una “talpa democratica” che si rapporta alla società civile organizzata (più che a un popolo generico o inneggiante), senza mai far venir meno la dimensione della duttilità tattica. Così, la gente di Puglia vede in lui la sinistra che vorrebbe: nuova, certo, anche audacemente nuova, ma non pentita. Moderna e antica. Capace non di riformismo (che spesso è solo ideologia o chiacchiera) ma di riforme vere, che cambiano magari la faccia di un territorio.
Questa autenticità politica si rispecchia anche nella sua personalità non va dimenticato che ha saputo declinare pubblicamente la propria omosessualità, in tempi in cui una tale dichiarazione richiedeva un coraggio da leone, e mantenere la propria fede cattolica. Anche dal punto di vista umano e personale, convivono in lui attitudini spesso considerate antitetiche: la passione e la razionalità. Il cuore e il cervello. La capacità di commuoversi, davvero e la capacità di analizzare i processi reali.
Il Vendola “grande comunicatore” nasce da quest’altra felice sintesi: un intellettuale me-
ridionale che è andato sì nel “mondo che conta”, ma ha mantenuto un legame viscerale con la terra, l’infanzia, la religiosità, la radice suprema dell’esistenza. Non si è perduto, insomma, nei meandri dei palazzi romani. Non si è umanamente corrotto, come capita molto spesso ai figli del popolo quando varcano la soglia dell’“Alto”. Ha saputo crescere e decrescere, questo sì, senza inseguire modelli o ideali perfezionistici, sempre insieme a compagni di ventura o intrapresa, ma con la dose di individualismo necessaria nel Ventunesimo secolo. Oggi, Nichi ha l’età “giusta” quei cinquant’anni o giù di lì in cui si hanno ancora tante energie da spendere, ma si è accumulata una esperienza ragguardevole.
Cari amici giornalisti, voi che vi domandate stupiti che cos’è il “fenomeno”, il “ciclone”, il “terremoto” Vendola, provate a leggerlo con gli occhi di un’altra politica. E fate un po’ di sana autocritica.

il Riformista 26.1.10
Germania, addio di Oskar “il rosso” L’unità a sinistra ora è più vicina
Lafontaine. Il leader che ha sdoganato a Ovest i post-comunisti della Ddr si ritira. La sua Linke rischia il caos. E la scena politica può cambiare.
di Tonia Mastrobuoni

Una conferenza stampa ufficiale nel quartier generale del partito e una motivazione drammatica – un cancro alla prostata – non sono bastati a tranquillizzare gli scettici. Il ritiro dell’“uomo politico” Oskar Lafontaine come si è autodefinito durante l’incontro di sabato scorso con i giornalisti, è una notizia bomba che sconquassa il panorama tedesco. Ma qualcuno ancora non si fida.
Molti continuano a rivangare il precedente del 1999 – quando Oskar “il rosso” ruppe con il cancelliere Schroeder, si dimise da ministro, lasciò la guida della Spd e si fece fotografare versione “uomo privato” con il figlio. Quel “tradimento” non gli fu perdonato dai socialdemocratici. Tanto più che pochi anni dopo il “Napoleone della Saar” smentì l’uscita di scena e divenne l’artefice della convergenza tra le sinistre radicali dei due lati dell’Elba. Una fusione a freddo tra chi a Ovest non si riconosceva nello spostamento su posizioni riformiste della Spd di Gerhard Schroeder e tra chi, a Est, continuava a sognare la terza via tra comunismo totalitario honeckeriano e capitalismo. Cioè con il partito di Gregor Gysi, la Pds (che vanta non poche incursioni inquietanti di nostalgici puri della Germania est ed ex aguzzini della Stasi).
Ora che “Oskar il Rosso” è uscito di scena, le due anime della Linke potrebbero nuovamente dividersi e dilaniare il partito. Perché la leadership del “Napoleone della Saar”, basata su un populismo di sinistra, un forte carisma e una retorica accattivante un combinato disposto che indusse l’ex cancelliere Helmut Schmidt a paragonarlo ad Adolf Hitler non è mai stata digerita del tutto a Est. Ma i successi crescenti del partito a Ovest sino al trionfo delle ultime elezioni federali del 27 settembre hanno sempre messo a tacere i malumori interni.
Quello del leader della Linke non è neanche formalmente un ritiro definitivo dalla vita politica: Lafontaine ha già rinunciato a fare il capogruppo dopo la vittoria clamorosa delle ultime elezioni. Qualche settimana dopo, la conferma di rumors sul suo stato di salute: cancro alla prostata. Da sabato scorso è ufficiale che si dimetterà a breve come parlamentare e lascerà la presidenza della Linke a maggio, mese “caldo” delle elezioni in Nordreno-Westfalia e del congresso del partito a Rostock. Ma gli scettici ricordano che Lafontaine ha anche detto che rimarrà capogruppo della Linke nel senato della sua regione, la Saar. Il minuscolo Land che confina con la Francia è da sempre il suo “fortino”, la base dalla quale potrebbe continuare ad esercitare un’influenza forte sulla sinistra tedesca.
Ma al di là degli scetticismi, l’abbandono della leadership della Linke da parte di Lafontaine è una novità enorme, che condizionerà molto la scena politica tedesca. Per il suo partito è insieme una buona e una cattiva notizia. “Oskar il rosso” è l’uomo che ha sdoganato l’indigesta organizzazione di postcomunisti della Ddr a Ovest: il rischio concreto nei prossimi mesi e anni è il riflusso. È la ritirata della Linke nelle regioni al di là della vecchia Cortina di ferro, in mancanza di altri leader con lo stesso piglio populista e carismatico che possano convincere socialdemocratici delusi dell’Ovest a votare per un partito che non ha mai fatto i conti in modo trasparente con la tirannìa comunista della Germania est. E questa è la cattiva notizia, assieme a quella già menzionata di una guerra intestina.
La buona notizia è che senza Lafontaine alla Linke si aprono prospettive concrete di un’alleanza con la Spd a livello federale. Lafontaine ha continuato a ripetere anche di recente i suoi mantra, i suoi eterni «no» all’Afghanistan, ai tagli sociali di Hartz IV, al pensionamento a 67 anni ma per una convergenza con il partito di Sigmar Gabriel i nuovi capi dovranno cominciare a dimostrare di saper governare meglio quella scienza che i politologi italiani amano citare in tedesco, la “realpolitik”. E i “realos”, i realisti tra le nuove leve, più netti nel fare i conti con il passato comunista della Ddr e meno massimalisti, ci sono ed emergeranno. Uno in particolare, l’ex tesoriere Dietmar Bartsch, poteva aspirare alla leadership ma è stato silurato dai vertici per presunta mancanza di lealtà nei confronti di Lafontaine (accusato di aver spifferato dettagli della sua vita privata alla stampa). In pole position per la successione c’è ora il tandem Gesine Loetsch-Klaus Ernst, la conferma dunque di una leadership sdoppiata (come quella attuale tra Lafontaine e Gysi) che unirebbe est e ovest ma regalerebbe anche un coté rosa alla dirigenza. Tuttavia, dal partito c’è anche chi fa circolare l’ipotesi che a mantenere il timone del partito potrebbe essere l’eterno Gysi. D’ora in poi, da solo.
I socialdemocratici, intanto, festeggiano. La Spd è pronta a spostarsi a sinistra e rubare consensi alla Linke in crisi di identità (non solo consensi: al “traditore” Bartsch è stato offerto di passare armi e bagagli alla Spd) e allo stesso tempo prepara il terreno per una futura coalizione, come si dice nel gergo tedesco, rosso-rossa. Una prospettiva impensabile, fino a poco tempo fa. Finché a capo del partito c’era, appunto, il “traditore” Lafontaine.