venerdì 29 gennaio 2010

l’Unità 29.1.10
Vendola e Bonino subito nel Pd
La presenza dei due candidati esterni regala l’immagine di un partito aperto e in movimento E allora cosa aspettano Emma e Nichi ad entrare?
di Luigi Manconi

Condivido all’80% (poco più, poco meno) il programma politico di Nichi Vendola. Analogamente devono pensarla quei tantissimi elettori del Partito democratico che hanno votato per lui alle primarie di domenica scorsa. Ne consegue una domanda: ma cosa aspetta Vendola a entrare nel Pd? A pieno titolo, con pari dignità e con quanti, oggi in Sinistra Ecologia e Libertà, vorranno seguirlo (la stragrande maggioranza, immagino). E, infatti, che senso ha voler preservare ancora, e a tutti i costi, l’autonomia organizzativa di un partitino del 2-3%? Tanto più in presenza di uno scarto così ampio tra la capacità di attrazione delle tematiche che lo connotano e del leader che lo rappresenta, quel partitino, e l’esiguità dei consensi elettorali. Da tempo, pongo lo stesso quesito ai Radicali, dei quali – come si dice – mi onoro di essere un militante e un dirigente, senza ottenere risposte che mi soddisfino.
Le vicende più recenti – ovvero proprio la cosiddetta “imposizione” al Pd di due candidati esterni, come Emma Bonino e Vendola – hanno rafforzato la mia convinzione, inducendomi a dare una lettura di quanto accaduto esattamente opposta a quella corrente. Sia chiaro. Non mi sfuggono i moltissimi limiti di un partito come il Pd, “costretto” a candidare leader di altre formazioni: ma ritengo prevalente la novità positiva che questa vicenda segnala. Ovvero quella di un Partito democratico aperto, permeabile, in movimento. E capace di trasformarsi. Qualcuno tradurrà tutto ciò nell’allarme per la debolezza di un Pd che si rivelerebbe “infiltrabile” e “conquistabile”, ma a parte l’ovvia battuta (chi vuoi che se lo pigli, un partito così sciamannato?), c’è da riflettere su quale sia oggi la posta in gioco: l’oggetto del contendere, in senso proprio (ovvero l’oggetto della conquista). Le primarie pugliesi e i consensi raccolti dalla Bonino dicono che l’elettorato non è rigidamente ripartito per nicchie più o meno ampie, puntualmente corrispondenti ad altrettanti coerenti e compatte visioni del mondo e conseguenti programmi politici. E tutte le analisi dei flussi elettorali confermano che una quota assai estesa di elettorato indirizza il proprio consenso, di volta in volta, verso l’una o l’altra formazione del centro sinistra (Pd, SeL, Federazione della sinistra, IdV e, non stupitevi, Udc). Perfino io, che vedo l’IdV come il fumo negli occhi (e un po’ peggio), devo riconoscere che a questo partito vanno voti di elettori che pure considero a me affini. E questo vale per l’intero campo del centro sinistra. Esemplifico in termini un po’ brutali: c’è tanta “destra” in Sinistra Ecologia e Libertà quanta “sinistra” nel Pd. (Se volete vi preparo degli appositi test per verificarlo). Se questo è vero, non riesco a vedere il successo delle “autocandidature” di quei due leader, all’interno di coalizioni guidate dal Pd, come un atto di “prepotenza” della Bonino e di Vendola e nemmeno di subalternità dei democratici nei confronti di quest’ultimi. Mi piace immaginarlo, invece, come l’esito del ricorso, al “paradigma del judo” da parte del Pd, magari per necessità. La natura del judo è come quella dell’acqua: si adatta al terreno, scivola e si ritrae per poter di nuovo avanzare; è una tecnica di azione che – diversamente da altre arti marziali – non si affida alla forza propria, ma all’iniziativa altrui; ne asseconda le mosse e lo slancio (della Bonino e di Vendola); non oppone resistenza irriducibile al gesto dell’altro, ma fa di esso una leva per la propria azione. Nel nostro caso, il Pd piuttosto che respingere l’iniziativa dei due leader in questione, rivendicando la propria indipendenza, ha ceduto – sia pure riottosamente – alla pressione proveniente dall’esterno, l’ha accolta, fino a farla propria e ora se ne può giovare come di una risorsa comune.
Mi rendo conto che questa mia è una versione estremamente benevola e ottimista di un processo che può essere presentato in termini esattamente opposti (e così viene fatto, in modo ossessivo da tutti i media, non solo quelli ostili). Ma questa mia interpretazione non nasce – vi prego di credermi – dall’ingenuità: è vero, piuttosto, che talvolta in politica (e non solo in politica) il realismo può essere la più innocente e saggia delle astuzie.
P.s.
Ho detto di condividere all’80% il programma di Vendola ma devo dire che trovo insopportabile il suo linguaggio (e, poi, quella gramsciana «connessione sentimentale col popolo», evocata a Ballarò e ai telegiornali, in piazza e, immagino, in taxi e all’Upim, sul lungomare Araldo di Crollalanza e in pizzeria...). Ma, considerato come scrivo e parlo io, pazienterò. In nome della Causa.❖

l’Unità 29.1.10
Sul treno della memoria
di Carlo Lucarelli

Come ormai da cinque anni in questi giorni mi ritrovo in Polonia, ad Auschwitz, con gli studenti e gli ospiti del treno della memoria organizzato dalla Fondazione ex campo di concentramento di Fossoli e dalla Provincia di Modena. Sono qua tutte le volte per un motivo ben preciso: perché so che “ricordare” è un verbo, una parola che indica un’azione, e anche molto dinamica. Un’azione che non si limita soltanto a “ricordarsi di ricordare”, come succede con gli anniversari e le feste comandate, ma che si attua, si prolunga nel tempo e produce qualcosa. Come tutte le azioni forti e concrete, insomma, ha conseguenze. Determina quello che succede dopo.
Sul treno che porta ad Auschwitz assieme a più di seicento studenti già preparati dagli insegnanti prima di partire ci sono un sacco di attività, c’è lo scrittore Paolo Nori, ci sono i musicisti Vinicio Capossela, Cisco e i Rio con Marco Ligabue, ci sono gli storici Costantino Di Sante e Carlo Saletti, ci sono testimoni come Eugenio Itzhak Cuomo e ci sono anch’io. Questo atto di ricordare produce prima, durante e dopo, incontri, laboratori, dibattiti, concerti e spettacoli, e se abbiamo fatto tutti bene il nostro mestiere produce nei ragazzi e anche in noi pensieri, emozioni, riflessioni e nuove consapevolezze.
Insomma: conseguenze.
Per questo, tutte le volte che sto per partire e qualcuno mi chiede se ne valga la pena, se i Giorni della Memoria servano a qualcosa, se ricordare sia utile io penso alle conseguenze che certe cose fatte in un certo modo producono nelle persone e determinano così il loro e anche il nostro futuro. Che poi è il motto di questo viaggio: diamo alla memoria un futuro.
Per cui rispondo che sì, vale pena, è utile e serve.❖

l’Unità 29.1.10
Carfagna la Lega e il caso francese
Vietare il burqa non aiuta a liberare le donne
di Vittoria Franco

Burqa e niqab sono “contrari ai valori della Repubblica”. Così si legge nel documento della commissione parlamentare francese che ha suggerito di vietare alle donne di indossarli nei luoghi e nei servizi pubblici. Da noi hanno applaudito soprattutto esponenti della Lega e pochi altri, compresa la ministra Carfagna che è partita all’attacco nel nome della liberazione delle donne. La questione può essere letta da vari punti di vista e portare a conclusioni diverse. Per questo credo che anche negli ambienti più laici e liberali la questione meriti una riflessione approfondita.
Primo punto fermo per me è che il burqa è una prigione, una forma violenta di sopraffazione maschile, un modo per annientare la personalità della donna, per farla scomparire, nasconderla, negarle l’identità. È certo che rappresenta una tradizione e che ha poco a che fare con la religione. Nel mondo occidentale certamente essa contrasta coi principi dell’eguaglianza e della pari dignità fra uomini e donne. Ma io sono convinta che la scelta del divieto per legge sia sbagliata perché non aiuterebbe le donne nell’emancipazione. Anzi, ne rafforzerebbe la segregazione all’interno della famiglia. L’uomo che obbliga la moglie al burqa sarebbe così facilmente disposto a concederle di uscire senza?
Il paragone con la situazione francese tiene fino a un certo punto. La Francia ha una legge sulla laicità da più di un secolo, nel 2004 ne è passata un’altra che vieta di indossare simboli religiosi a scuola, il termine laicità compare nella Costituzione. In Italia, dove peraltro non mi risulta che l’uso del burqa sia così diffuso, la laicità e la libertà femminile non sono proprio gli elementi più condivisi e sostenuti nella destra. Allora, il problema non esiste? Certo che esiste; ma la via, che non ha alternative, e che trovo più efficace è quella di utilizzare tutte le norme già esistenti, come la legge del 1975 che prescrive di essere e identificabili nei luoghi pubblici e affidare il resto a ulteriori regolamenti della Pubblica amministrazione. Tra l’altro, c’è da sottolineare che una legge di divieto non avrebbe senso senza una sanzione (alcune proposte prevedono addirittura l’arresto!), che in questo caso sarebbe doppiamente punitiva nei confronti delle donne. I comportamenti delle giovani, che arrivano a ribellarsi alle famiglie tradizionali, purtroppo talvolta anche a costo della vita, sono la prova che si può lavorare su un processo intelligente di integrazione che comprenda le donne e il loro bisogno di liberazione. Occorre puntare sull’educazione anche degli uomini, sul dialogo con l’associazionismo islamico e sulla scuola, con regole certe su diritti e doveri delle persone immigrate. Ma prima di tutto bisogna abbandonare la cultura della demonizzazione degli immigrati e avere comportamenti più inclusivi. ❖

il Fatto 29.1.10
Alle scuole lombarde piace il tetto per i bimbi stranieri
Prima rigida applicazione della circolare del ministro Gelmini
di Corrado Giustiniani

Altro che escludere gli alunni stranieri nati in Italia dal tetto del 30 per cento, come Mariastella Gelmini ha garantito nella famosa intervista televisiva del 10 gennaio. La Lombardia fa spallucce e si attiene alla circolare ministeriale. E, anzi, la inasprisce. E a Roma, nelle scuole dell’infanzia, che come tali dipendono dal comune e non dal ministero, l’assessore alle Politiche scolastiche, Laura Marsilio, impone un tetto di cinque bambini stranieri per classe. Possibilmente dello stesso gruppo linguistico. Intanto non si trova traccia, nei piani che contano del ministero dell’Istruzione, dei 20 milioni di euro che la Gelmini ha promesso in tv per accompagnare l’operazione tetto, mentre viene scartata l’ipotesi di una nuova circolare correttiva, dopo le parole del ministro. Tutto questo mentre il 27 febbraio scadrà il termine per iscrivere a scuola gli alunni delle elementari e delle medie.
In Lombardia, il direttore generale scolastico Giuseppe Colosio, nella circolare “regionale” con cui ha recepito quella spedita l’8 gennaio dal ministro precisa che “il numero degli alunni stranieri non può eccedere il 30 per cento degli iscritti in ciascuna classe”. E che “deroghe in aumento o in diminuzione rispetto al limite stabilito potranno essere autorizzate dall’ufficio scrivente in casi eccezionali, debitamente documentati”. La circolare del ministro concedeva invece la possibilità di alzare il tetto “in presenza di adeguate competenze linguistiche” senza parlare di eccezionalità. Quanto ai nati in Italia, è molto significativa la dichiarazione resa dall’assessore romano Marsilio: “Quando parliamo di bambini stranieri parliamo di bambini che non hanno la cittadinanza italiana in base alle norme vigenti. Dunque anche quelli nati in Italia. E sbaglia chi dice che il ministro Gelmini non applica il tetto ai nati in Italia: questa sì che è una forzatura”. Se non fosse che il protagonista della forzatura è il ministro in persona, che in tv dice una cosa, e poi nella circolare ne fa scrivere un’altra.
Del misterioso fondo da 20 milioni di euro hanno chiesto conto, in un’interpellanza urgente al governo, le deputate del Pd Maria Letizia De Torre e Maria Coscia. Deludente la risposta, affidata al sottosegretario Giuseppe Pizza, perché a quei soldi Pizza non ha fatto alcun riferimento. “Sono solo poche centinaia le scuole italiane in cui si supera la citata quota del 30 per cento – ha precisato nella replica Maria Coscia – e per queste andrebbe realizzato un progetto specifico di accompagnamento”. Che invece non c’è. Di qui “il nostro rammarico per le risposte che abbiamo avuto”. In un clima di incertezza applicativa, a meno di un mese dalla scadenza per le iscrizioni, anche gli altri uffici regionali stanno ultimando le loro circolari. La regione Veneto, però, ha appena annunciato un piano sperimentale che partirà dalle superiori di Vicenza: tre giorni in classe con tutti gli altri ragazzi e tre a perfezionare l’italiano. Mentre a Bologna comune e provincia hanno detto “no” al tetto della Gelmini. Piombano come macigni, intanto, le parole di Simonetta Salacone,
direttrice della scuola elementare romana Iqbal Masih: “Il tetto è uno spot ideologico. Non ci si può limitare a quello, se attorno non si costruisce niente. In alcuni piccoli paesi della Bassa padana diverse
scuole dovranno chiudere. Ed è una follia applicarlo alle scuole dell’infanzia, dove i bimbi imparano velocemente l’italiano e anzi diventano mediatori degli adulti”.

il Fatto 29.1.10
Delinquono più degli altri? I numeri non lo dicono
Le Acli: le poltiche del governo sull’immigrazione sono schizofreniche
di Elisa Battistini

Il principale reato che compiono gli stranieri è quello di esistere. E non avere le “carte in regola”. Il 70% degli stranieri denunciati è, infatti, irregolare. E tra questi, l’87,2% ha semplicemente violato la legge Bossi-Fini. Ovvero circa tre stranieri su quattro sono criminali per essenza, per il semplice fatto di essere entrati in Italia senza un lavoro, o un permesso per studio o per turismo. Ma, vale la pena di ricordarlo, sono moltissimi gli immigrati che entrano in Italia con un permesso per turismo, e scaduto il quale restano sul territorio e diventano irregolari. Quindi criminali. Gli immigrati regolari, al contrario, non delinquono molto più degli italiani e, soprattutto, non esiste correlazione tra l’aumento degli immigrati e l’aumento dei reati in Italia. I dati del Dossier statistico Caritas-Migrantes parlano chiaro. Tra il 2001 e il 2005, mentre gli stranieri sono raddoppiati, le denunce nei loro confronti sono aumentate del 46%. Mentre gli italiani che delinquono sono lo 0,75% della popolazione, gli stranieri che delinquono sono circa l’1,3% del totale. Ma gli stranieri aumentano, in proporzione, molto di più degli italiani. Gli immigrati ultra 40enni compiono invece meno reati dei loro coetanei italiani: 0,5% contro il “nostro” 0,65%. Interessante, poi, vedere quali reati commettono gli immigrati. Compiono il 60,8% dei reati legati alla riproduzione abusiva di audiovisivi, il 40% dei furti, e il 34% dei reati di spaccio e traffico di stupefacenti. Mentre sono autori del 3% delle rapine in banca (il 97% dei rapinatori evidentemente è italiano) e il 5,8% di loro evade il fisco. Materia in cui spiccano maggiormente gli onesti autoctoni.
E proprio nella giornata in cui Berlusconi dipinge gli immigrati come criminali, le Acli intervengono per mettere il dito in un’altra piaga. “Le politiche del governo sono totalmente schizofreniche”, dice il responsabile immigrazione dell’Acli, Antonio Russo. “Per questo Acli e Caritas hanno tolto la propria adesione al progetto Nirva cofinanziato dall’Ue e dal Viminale per i rimpatri volontari”. Ci sono, infatti, immigrati che vorrebbero tornare nel paese d’origine. E il progetto – come segnalato ieri da Il Fatto Quotidiano – si propone di aiutare gli stranieri che intendano andarsene dall’Italia. “La maggioranza degli immigrati che vorrebbero farlo – spiega Russo – sono irregolari. Per uno straniero è così difficile ottenere il permesso di soggiorno, in assenza di sanatorie, che sono pochissimi i regolari che chiedono il rimpatrio. Il problema è che dopo la legge 94 del 2009, che introduce il reato di clandestinità, il progetto Nirva deve essere chiarito”. In effetti, Caritas e Acli avevano pensato di applicare le procedure di aiuto per i rimpatri volontari (che comprendono un percorso di reinserimento nel paese d’origine e supporti allo studio, oltre alle spese per il ritorno “a casa”) anche agli irregolari. “Il progetto – prosegue ancora Russo – prevede che i casi umanitari possano beneficiare di questa misura. Ma non è forse un caso umanitario quello di una persona sbarcata a Lampedusa, che dopo un anno da clandestino vuole tornare in Nigeria? Noi pensavamo di sì. Ma c’è un problema: se dichiaro di essere clandestino mi autodenuncio. Perché essere clandestino è un reato”. Il reato di immigrazione clandestina ha insomma introdotto una limitazione all’applicazione dei rimpatri volontari e proprio per i casi che, più frequentemente, ne farebbero ricorso. Le Acli e la Caritas non sono state a guardare. “Il 20 ottobre i presidenti delle nostre associazioni hanno scritto al ministro Maroni per chiedere chiarimenti. Non ci ha mai risposto. E a gennaio abbiamo deciso di uscire dal progetto Nirva. Volevamo che Maroni desse un indirizzo politico sulla materia. Non è successo. Così agli irregolari è negato pure il sostegno per il rientro in patria”. Di fatto, per contrastare l’immigrazione clandestina il governo ha concentrato le proprie forze in muscolari respingimenti e nel monitoraggio delle coste. Ieri il titolare del Viminale ha ribadito, dopo averlo annunciato il giorno prima, che gli sbarchi sulle coste italiane sono diminuiti, nel 2009, del 74%. In effetti, cifre alla mano, se nel 2007 le persone sbarcate sono state 20.453 e nel 2008 sono arrivate a 36.900, fino al luglio dello scorso anno gli sbarchi avevano visto l’arrivo di “sole” 7500 persone. Il calo c’è. Peccato che, secondo le stime degli operatori del settore (che, come sottolinea l’Ismu, non sono statistiche, ma stime derivate da colloqui e conoscenza diretta) meno del 20% degli immigrati entri in Italia via mare. Il resto arriva da terra.

il Fatto 29.1.10
“Accuse false” La Cgil contro la Cgil
di Beatrice Borromeo

Chi pensa che le vicende sindacali non siano, come dire, emozionanti si potrebbe ricredere, perché la guerra intestina alla Cgil sta diventando degna delle peggiori tradizioni della sinistra italiana. Sono false, secondo la mozione uno della Cgil – la corrente maggioritaria presieduta dal segretario generale Guglielmo Epifani – “le affermazioni circa una presunta alterazione dei dati”. La nota del sindacato, diffusa ieri, si riferisce alle pesanti accuse mosse dalla mozione due – la “Cgil che vogliamo” – secondo cui la maggioranza di Epifani gonfierebbe sistematicamente i voti durante le assemblee, soprattutto in vista del XVI congresso nazionale del prossimo maggio in cui si dovrà decidere la successione alla segreteria (Epifani sponsorizza Susanna
Camusso). “Abbiamo riscontrato molte irregolarità”, denuncia al Fatto Marigia Maulucci, mozione due (di cui fanno parte i metalmeccanici della Fiom, gli statali della Funzione pubblica, i bancari). E spiega: “Quando noi siamo presenti alle assemblee, tutto si svolge normalmente. C’è un dibattito e gli iscritti votano in maniera differenziata, chi per noi e chi per gli altri”. Il problema, racconta Maulucci, nasce quando la “Cgil che vogliamo” è assente: “Quando manchiamo noi, che controlliamo, si creano situazioni irrealistiche. Risultano infatti sempre presenti tutti gli iscritti, mai neanche uno che abbia il mal di gola e guarda caso il cento per cento dei votanti si esprime sempre in favore della mozione Epifani. Vi sembra verosimile?”. Per Enrico Panini, segretario confederale della Cgil e responsabile dell’organizzazione (quindi in area Epifani), si tratta di accuse “assolutamente destituite di ogni fondamento”. Panini ha anche aggiunto che “le assemblee si svolgono sulla base di un rigoroso regolamento approvato all’unanimità dal Comitato direttivo e in ogni provincia sono costituite commissioni, rappresentative di tutte le posizioni congressuali, deputate a dirimere ogni contestazione”. In più, si legge sempre nella nota, “il Congresso della Cgil si basa sul voto delle iscritte ed iscritti, sull’applicazione del proporzionale puro e rende impossibile ogni interpretazione tesa ad alterare il rigido rispetto del voto nella definizione dei delegati spettanti ad ogni mozione e nella determinazione del rapporto fra queste”. Ma al di là della risposta nel merito, tra le file della mozione uno si privilegia una lettura più politica della denuncia a mezzo stampa fatta dalla “Cgil che vogliamo”: “C’è voglia di potere, nella Cgil. Peccato che la mozione due non abbia le adesioni che credeva. Sta andando malissimo. Ecco perché attacca”, dice chi è vicino a Epifani.
La “Cgil che vogliamo”, che è nata aggregando sigle sindacali con culture tra loro molto diverse, dai duri della Fiom ai più moderati bancari, starebbe quindi esasperando i toni, cercando risalto sulla stampa e accusando il segretario generale perché povera di consensi, alla ricerca di appigli per recuperare terreno in vista del congresso polarizzando la competizione. Questa, almeno la linea della maggioranza del sindacato. Che non sembra preoccupata di possibili sorprese quando, dal cinque all’otto maggio, tutti gli iscritti alla più importante organizzazione sindacale italiana saranno chiamati a esprimersi sui programmi e sui rappresentanti per la prima volta dal marzo 2006. E la “Cgil che vogliamo” confida, con un aiutino a mezzo stampa, in un improbabile ribaltone. O almeno nel diventare una minoranza influente nella Cgil post-Epifani.

Repubblica 29.1.10
Depresso, ipocondriaco e sessodipendente il medico svela Hitler
di Andrea Tarquini

Pressione alta dolori cronici e morbo di Parkinson Le rivelazioni in un libro appena uscito
Il Führer costretto dal suo dottore a ingerire eccitanti, droghe e forti dosi di tranquillanti

Adolf Hitler aveva una riserva di oro prelevato dai denti dei deportati di Auschwitz per curarsi le carie, e intanto era stato ridotto dal suo medico curante, dottor Theodor Morell, alla dipendenza da eccitanti, tranquillanti, stimolanti sessuali: 82 medicamenti in tutto. Almeno dal 1944, prima di ogni incontro con la sua amante Eva Braun si faceva iniettare forti dosi di testosterone o di ormoni prelevati dalla prostata o dallo sperma di tori giovani, quasi un Viagra ante litteram. Soffriva anche di meteorismo, e di manie ipocondriache: temeva di ammalarsi di cancro. Ecco la cartella clinica segreta del Führer, rivelata in Germania dallo storico Henrik Eberle e da Hans-Joachim Neumann, medico specialista della Charité, il principale ospedale di Berlino. Insomma, il creatore del Terzo Reich, non era solo un tiranno sanguinario ma anche, clinicamente, un relitto.
"War Hitler krank?", cioè "Hitler era malato?", s´intitola il libro, anticipato da Spiegel online. I suoi dentisti avevano ricevuto dalle SS una riserva di oro di almeno 50 chili per essere pronti in ogni momento a effettuare ogni otturazione o altro intervento dentistico d´urgenza al Führer del Reich millenario. Quell´oro non veniva da laboratori scientifici o chirurgici, né dalle riserve della Reichsbank, la Banca di stato. Era stato strappato senza anestesia a centinaia, forse a migliaia di deportati ad Auschwitz e negli altri campi della morte.
Non è tutto. Qualche volta, quando il Fuehrer era depresso o giù di morale, il dottor Morell gli somministrava il pervitin, un farmaco che produce alta dipendenza. Insieme ad altri 81 medicinali pesanti, da zucchero concentrato a vitamine. Il pervitin era noto anche nei reparti scelti delle forze naziste, che lo ricevevano preparato in praline. Oggi un prodotto simile, la droga da discoteca "Crystal Meth", è nota tra chi la usa come "droga del Führer". Testosterone e ormoni di toro erano per il complessato Hitler irrinunciabili prima di ogni incontro privato con Eva Braun. Ma questo non risolveva tutti i suoi problemi. Egli soffriva di meteorismo e problemi di digestione, per cui si fece vegetariano. La propaganda del regime, diretta dal genio del male Dottor Goebbels, spacciò la conversione del Führer alla dieta vegetariana per amore per gli animali.
Mali, acciacchi e debolezze del tiranno che scatenò la seconda guerra mondiale e l´Olocausto in nome del delirio razzista del superuomo ariano non finiscono qui. Hitler si faceva curare da Morell l´aria nella pancia da una miscela medicamentosa che conteneva anche stricnina. Almeno due volte gli furono asportati polipi dalla gola. Soffriva di pressione alta e di dolori cronici a stomaco e intestino, e tutto questo quadro clinico contribuiva sempre più alla sua irascibilità. Negli ultimi anni fu colpito anche dal morbo di Parkinson. Insomma, era un rottame di uomo, quello che sognava il trionfo della razza superiore e del nazismo. Ma era sempre totalmente capace di intendere e di volere, dice il libro-cartella clinica.
Al medico Hitler riservava fiducia totale. «Doktorchen», cioè «mio caro dottorino», lo chiamava. Morell era odiato dai gerarchi. Il generale Heinz Guderian, uno dei teorici e artefici della guerra lampo, lo definiva «disgustoso medicuccio grassoccio». Persino il maresciallo Hermann Goering, capo della Luftwaffe, lo chiamava con disprezzo "il signore delle siringhe del Reich". Il 21 aprile 1945, quando già i soldati di Zhukov erano a un passo dal Bunker e combattevano contro gli ultimi disperati della Wehrmacht e del Volkssturm, Hitler congedò il suo "dottorino". «Grazie, torni tranquillo in borghese al suo studio medico al Kurfuerstendamm». Pochi giorni dopo, si suicidò con Eva Braun a fianco.

giovedì 28 gennaio 2010

Repubblica 27.1.10
La dignità delle donne
di Gad Lerner

CINZIA Cracchi non dispone delle risorse persuasive e materiali di Veronica Berlusconi. Ma c' è una scelta comune che lega la vicenda della moglie del presidente del Consiglio a quella dell' ex compagna del sindaco di Bologna: per la prima volta il comportamento del maschio di potere in Italia viene sottoposto in pubblico a una critica femminile puntuale, tutt' altro che moralistica. Non sarebbe accaduto se queste donne avessero taciuto, magari per risparmiarsi giudizi sprezzanti e violazioni della loro intimità. Le loro denunce giungono inaspettate, provocano dapprima reazioni di disagio e sospetto, ma, ormai è chiaro, avviano una modifica del costume nazionale gravida di conseguenze future che solo in parte riusciamo a intuire. Così, inaspettatamente, la questione della dignità femminile in Italia, benché sottovalutata o irrisa, assume un peso politico sempre maggiore. Tanto che il potere maschile non può permettersi di voltare la testa dall' altra parte, subisce colpi alla sua credibilità, talvolta indietreggia spaventato. I sexgate che si susseguono clamorosi dalla primavera 2009 narrano forse di un paese bacchettone, retrivo, tradizionalista? È vero il contrario. Basti pensare al tributo di fiducia popolare con cui un trasgressivo leader omosessuale si è conquistato nuovamente il diritto di competere per il governo di una regione meridionale. Nichi Vendola non è stato per nulla penalizzato da scelte esistenziali forse complicate, ma vissute con trasparenza e rettitudine. Altro che sessuofobia: l' opinione pubblica è forgiata da modelli televisivi guardoni e limitrofi alla pornografia-come il Grande Fratello, sempre più grottesco nelle pulsioni virtuali esibite- che determinano semmai frustrazione del desiderio erotico, ma non sollecitano di certo al perbenismo. Spadroneggia sul nostro immaginario un' industria mediatica specializzata nell' affiancare il sottobosco dello spettacolo con i potenti, a scopo d' incenso o di ricatto, raggiungendo picchi di volgarità inauditi. Ci invitano così a esorcizzare come pettegolezzi (il famoso gossip) pure la denuncia dei comportamenti misogini e prepotenti di chi ha responsabilità istituzionali. Con monotona pervicacia fiocca il ritornello d' accusa -«ma questoè gossip!»-a fronte dei rilievi sulla condotta personale di uomini disabituati alla verifica di correttezza del loro operato. E, tra i pettegolezzi, quante volte si cerca di soffocare pure i buoni argomenti di donne cui si è mancato di rispetto? Ormai la raffica di dimissioni scaturite, esplose, per la rivelazione degli eccessi di disinvoltura - in passato tollerati forse come «naturali»-è ragguardevole. Hanno lasciato l' incarico: il vicepresidente della giunta pugliese omaggiato di prestazioni sessuali mercenarie da un imprenditore; il presidente della Regione Lazio che pagava rapporti spruzzati di cocaina con dei transessuali; il sindaco di Bologna che ha mantenuto per anni la relazione insieme sentimentale e professionale con una funzionaria pubblica alle sue dipendenze, senza poi riuscire a darle una conclusione civile. Possibile che Flavio Delbono non considerasse deontologicamente inopportuno, già nel corso del suo prolungato «stare insieme» con Cinzia Cracchi, vivere ogni giorno con lei la gerarchia d' ufficio mescolata alla confidenza? Un uomo di potere non poteva forse usarlo, quel potere, anche per tener almeno un po' separate le due sfere? Si tratta di episodi diversissimi tra loro, in grado di suscitare diversi gradi di riprovazione non sempre logici (pur di nascondere il proprio amore con i trans un benestante a quanto pare può giungere al pagamento di trecentomila euro; mentre il «numero uno» d' Italia è disposto a passare per sprovveduto pur di negare che l' ennesima preda di una notte fosse una prostituta). Certo va precisato come i tre sexgate che hanno indotto alle dimissioni tre maschi di potere in pochi mesi, non evidenzino rilevanza penale. Fino a ieri l' irrilevanza penale sarebbe bastata a garantire il silenzio; come se la condotta avvilente di uomini pubblici, di cui finisce sotto i riflettori anche la sfera privata, dovesse rimanere zona franca. Siamo progrediti o regrediti? Certo, se lo chiediamo solo ai diretti interessati o al loro entourage intessuto di complicità, la risposta sarà univoca. Immagino la loro amarezza personale. Così fan tutti, diranno, ma ci siamo andati di mezzo solo noi. Un, due, tre, guarda caso di sinistra, i dimissionari. Senza neanche la soddisfazione di poter accampare superiorità morale nei confronti di avversari che magari fanno di peggio, sogghignano, e a dimettersi non ci pensano neanche. Primo fra tutti lo sciupafemmine nazionale la cui signora per prima ha denunciato comportamenti disonorevoli. Il personaleè politico, dicevano una volta le femministe. Ora lo sta diventando per davvero. Scricchiola l' impunità dei soprusi inflitti alla partner come ovvietà, legittimati dalla comprensione dell' ambiente circostante. Perfino candidare le veline alle elezioni regionali, per capriccioo ricompensa, diviene più complicato. Perché bisogna darne pubblica motivazione, né basta più la motivazione di carattere ornamentale. Bisogna stare attenti. Oggi si dimettono a sinistra ma domani non si sa. Queste mogli rischiano di essere maledettamente trasversali.

l’Unità 28.1.10
Io cattolica dico: per fortuna c’è la Bonino
di Paola Gaiotti De Biase

Vorrei dare un contributo che valga a chiarire e possibilmente a chiudere l’interrogativo che occupa molti: in che misura la candidatura Bonino è un problema per i cattolici?
La facilità, ma in più casi l’entusiasmo, con cui è stata raccolta nell’area di sinistra la proposta Bonino invita alla riflessione sugli effetti generali del rapporto Chiesa politica come si è andato sviluppando in questi anni. Sarebbe stato così anche vent’anni fa? Questo incontestabile favore pare a me l’effetto di quello che un grande amico scomparso, Leopoldo Elia, ha chiamato nella sua ultima relazione, “un riposizionamento della Chiesa” “un interventismo anche politico di carattere identitario”, che ha riempito il vuoto lasciato dalla Democrazia cristiana costituendosi come “un grande gruppo di pressione che ha aperto la strada alla formazione di un partito a destra che costituisce una tentazione continua ad utilizzare i suoi voti”.
La logica con cui la stessa Chiesa si è mossa di fronte a quella che ha ritenuta la sfida principale che la riguardasse, quella della cosiddetta secolarizzazione, è stata assai meno una logica che parlava alla coscienza dei cattolici e assai più una logica dello scambio e del “do ut des”; più impegnata nella difesa di normative formali che nell’analisi dei complessi processi socio-culturali in corso; debole nella critica alla deriva civile del sistema italiano, forte nell’imposizione di principi non negoziabili sul terreno privato e sessuale.
Non so se di questo hanno sofferto di più i laici “laicisti” o i credenti conciliari. So che il problema proprio dei cattolici nel Pd non è la candidatura Bonino, è il come riequilibrare quell’effetto negativo con una coerenza anche religiosa trasmissibile e condivisibile anche da altri, come del resto molti stanno facendo.
C’è un’altra sfida, anche etica, che la candidatura Bonino pone, una sfida che traversa la storia difficile di tutte le sinistre. Lo strumento principale da usare politicamente è la ricerca della visibilità a ogni costo o la pratica del buon governo? Nel contesto radicale, fin troppo impegnato sulla visibilità, la Bonino (forse perché è una donna?) è proprio quella che ha dimostrato con più efficacia il senso positivo del governare, dell’assumersi responsabilità concrete. È qui la chiave della decisione da prendere.
Non è cosa da poco oggi. Di fronte alla latitanza del governo nella crisi economica, dobbiamo esaltare, per il già fatto e per il da fare, la preziosa funzione di supplenza delle regioni, in particolare quelle di sinistra, nell’affrontare i problemi della nuova economia verde, della ricerca, della formazione, nelle politiche sociali e così via. E ricordare che l’astensione è sempre un voto a favore del peggio, una complicità di fatto, non una garanzia di maggiore purezza. ❖

l’Unità 28.1.10
Il centrosinistra e il caso Lazio
Un’altra sanità è possibile
di Augusto Battaglia

La sanità anima la campagna elettorale nel Lazio. Era inevitabile, è stato il tema dominante degli ultimi anni per una Regione che dalla Giunta Storace aveva ereditato debiti per 9,6 miliardi ed un sistema che sfiorava i 2 miliardi di deficit all’anno. Merito indiscutibile del Centrosinistra aver setacciato bilanci, svelato aree di malaffare, posto le basi per il Piano di Rientro.
Sono stati anni difficili, contrastati, segnati da un faticoso rapporto con il Governo, in particolare dopo il commissariamento. Anni, però, di svolta per la sanità, avviata su un virtuoso percorso di riorganizzazione e stabilizzazione finanziaria, più moderna, con ben 23 nuovi presidi territoriali, un’assistenza domiciliare rafforzata e innovata fino all’ospedale virtuale. Con una medicina di famiglia che si associa per dare più prestazioni e più ampia copertura oraria, guardia medica più presente e 118 rinnovato, che ha ridotto tempi di intervento e superato prove drammatiche come lo scontro delle Metro a Piazza Vittorio.
Più territorio ha significato 100 mila accessi l’anno in meno al pronto soccorso ed un calo di ricoveri del 14,3%, ha consentito di assorbire senza particolari traumi il taglio di 2.247 posti letto, accompagnato però da investimenti per servizi più moderni, accoglienti e tecnologicamente avanzati, meglio distribuiti: nuovi ospedali a Cassino, Frosinone, Palestrina, cantieri aperti nei grandi ospedali romani. A giorni la prima pietra del Policlinico dei Castelli, il progetto esecutivo per l’Ospedale del Golfo, i lavori all’Umberto I.
Deficit quasi dimezzato, ma più prestazioni, dai vaccini alla specialistica, ai 341 trapianti nel 2009. Pesano aree di sofferenza: attese eccessive, carenze di personale e precariato, decreti commissariali a volte inaccettabili. Tutti temi all’attenzione del Centrosinistra, deciso a proseguire il risanamento e a richiamare il Governo alle sue responsabilità. Perché nel Lazio c’è Roma, sede delle più importanti istituzioni civili e religiose, di cinque policlinici universitari, della sanità religiosa, di prestigiosi enti di ricerca, di manifestazioni di ogni tipo. Una sanità quindi al servizio del Paese, con costi aggiuntivi che non possono pesare sui soli cittadini del Lazio.
Una grande sfida che chiede forze in grado di vincerla. Per questo cresce la preoccupazione nel vedere intorno alla Polverini tanti dei protagonisti della vecchia, cattiva sanità, dei responsabili del deficit e dei disagi che ancora oggi i cittadini subiscono. Uno scenario intollerabile per la stragrande maggioranza degli operatori e degli utenti della sanità. Non si può tornare al passato.

Repubblica 28.1.10
Slitta l’ufficio politico che doveva decidere anche sui candidati
Bonino, rebus lista civica E il Pd sceglie il capolista
È pronta una formazione sganciata dai partiti, ma si aspetta a vararla
di Anna Maria Liguori

«Impegni istituzionali» hanno impedito ai deputati Michele Meta e Roberto Morassut di partecipare all´ufficio politico fissato per ieri mattina dal segretario regionale del Pd Alessandro Mazzoli. Ufficio politico subito fatto slittare quando anche Ileana Argentin, candidata per la mozione Marino alla segreteria regionale del Lazio, ha declinato l´invito «perché il comitato politico non è stato votato quindi non è legale». Meta, Morassut e non ultima l´Argentin prendono tempo: l´obiettivo è la raccolta di firme per convocare l´assemblea generale che dovrebbe fare chiarezza sull´incarico, contestato, di coordinatore elettorale dato a Riccardo Milana.
A incontro mancato restano sul tappeto le scelte da affrontare per entrare nel vivo della campagna elettorale per Emma Bonino presidente della Regione. Una fra tutte l´indicazione del capolista. Due i nomi in ballo: è in vantaggio Esterino Montino, vice presidente della Regione e ma c´è anche Bruno Astorre, presidente del Consiglio regionale. Definitivamente caduta l´idea di designare una donna. La decisione formale non c´è ancora anche se il partito ha chiesto a Montino di guidare la lista per le regionali in vista di «uno scontro non facile che necessita che le figure autorevoli scendano in campo». Non meno forte Astorre che alle scorse regionali ha ottenuto pochi voti in meno dell´allora capolista Silvia Costa. E c´è di più. Il presidente del Consiglio regionale è un moderato, rutelliano, legato a Paolo Gentiloni e Luigi Zanda e convoglierebbe le adesioni di chi è dell´area ex Margherita. Il nodo sul capolista dovrebbe sciogliersi entro due giorni.
Resta poi l´incognita della lista civica, legata o meno al nome Bonino. Già martedì la candidata alla presidenza si è espressa chiaramente: «Ci sto riflettendo - ha precisato - ma essendo presente nel Lazio una lista Bonino-Pannella che è sufficientemente collegata alla candidatura, non vedrei, ad oggi, la necessità di crearla». Niente "Emma for president" insomma. «Avendo già una lista Bonino - ha continuato - non vedo molto senso farne un´altra. Capisco quello che è avvenuto cinque anni fa con Marrazzo. Comunque vedremo, se la questione si porrà in modo non fittizio, come comportarci». Una lista civica comunque ci sarà. In regione si chiama già "Lista civica del centrosinistra" ma si aspetta a vararla dopo che la Bonino si sarà consultata con i suoi e scioglierà le riserve.
E ieri dal Campidoglio trapela che, tra i probabili candidati alla regionali, ci sarà anche il capogruppo del Pd al Comune Umberto Marroni.

il Riformista 28.1.10
Nel Lazio Bonino è la più popolare ma nei sondaggi vince Polverini

OPINIONI. La leader dell’Ugl in testa: vince tra i pensionati e gli occupati di medio e basso profilo. Emma piace per il carisma.
Emma Bonino, volto simbolo del Pd per le regionali nel Lazio, è sicuramente il candidato più conosciuto nella regione: è questo uno dei dati che emerge dal sondaggio realizzato dall’istituto di ricerca Gpf per la concorrente del Pdl Renata Polverini che, d’altro canto, al suo arco ha l’autorevolezza sui temi economici, conquistata sul campo della battaglia sindacale. Una bella competizione, dunque, unica in Italia perché fra due donne, ma soprattutto perché fra due protagoniste che si stanno giocando la poltrona più importante della Regione sul piano delle competenze e delle capacità, e non su quello della demonizzazione dell’avversario.
Il 36,4% degli intervistati assicura che sceglierebbe la Polverini, contro il 31,1% che opta per la Bonino e un magro 1% che indica Linda Lanzillotta. Ma resta un 31,5% di incerti tutto da conquistare. La leader dell’Ugl sarebbe dunque in testa, seppur di poco, nella corsa elettorale. Il dato emergerebbe anche dai dati sulla scelta dei partiti da votare: il 30,1% indica il Pdl, lo 0,2% la Lega Nord, il 3,1% l’Udc, lo 0,8% La Destra, mentre il 20,4% sceglie il Pd, il 3,3% la Lista Emma Bonino, il 3,2% l’Idv, l’1,9% il Pri-Pdc, l’1% Sinistra e Libertà. Restano fuori da questi schieramenti un 1,5% che preferisce altri partiti e l’ampia fetta degli incerti: 34,5%. Un quadro che, fatte le dovute somme nei due diversi schieramenti, secondo i curatori del sondaggio indicherebbe che Emma Bonino “ruba” un po’ di voti al Pd ma sostanzialmente non rappresenta un valore aggiunto per la coalizione, mentre Renata Polverini porta un segno positivo all’addizione dei partiti che la sostengono.
Sul piano della popolarità però, sin qui la Bonino resta imbattibile: il 69% degli intervistati la conosce (il 31% no), contro il 61% che ha ben chiaro chi sia Renata Polverini (cui però corrisponde un sonoro 39% che non l’ha mai sentita nominare). Interessanti le caratteristiche assengate alle due candidate, che delineano perfettamente le loro figure così come sono nella realtà e non solamente nella percezione dell’elettorato. Se Renata Polverini brilla per autorevolezza (ma anche perché considerata determinata e onesta), chi sceglie Emma Bonino lo fa per la sua determinazione, perché è onesta e carismatica: la fotografia delle loro storie politiche, insomma. A favorire la Polverini, però, ci sarebbe la fame dell’elettorato di risposte in materia di lavoro, misure anticrisi ed economia, issue che corrispondono al profilo della candidata pdl. I valori e le conseguenze del caso Marazzo conterebbero fino a un certo punto, tant’è che la campagna elettorale finora è stata condotta sul filo del fairplay. In più, il quadro di confusione del Pd nel contesto nazionale, di cui i casi pugliese e bolognese sono solamente la punta, disorienterebbe ulteriormente l’elettorato, giocando a favore del centrodestra nel Lazio dove la Polverini offre una risposta di Governo che il centrosinistra non garantisce. Né inciderebbe negativamente la conflittualità tra Gianfranco Fini, di cui la Polverini è in qualche modo espressione, e Silvio Berlusconi: sencondo gli analisti, infatti, l’unico momento di smarrimento dell’elettorato di centrodestra, nella querelle tra i due, sarebbe coinciso con l’attacco di Vittorio Feltri al presidente della Camera. Variazioni da addetti ai lavori, dunque, che poco sono percepite dal grosso dei votanti.
Infine, se il principale punto di forza di Emma Bonino è la presa sulla fascia d’età centrale compresa tra i 35 e i 54 anni, la Polverini ha dalla sua l’appeal tra gli occupati di medio e basso profilo, eredità dell’attività sindacale, che coincidono con le aree più popolari, e lo zoccolo duro dei pensionati che, da soli, costituiscono un 40% degli elettori.

Metodologia della ricerca. Estensione territoriale: Regione Lazio. Universo di riferimento: popolazione maggiorenne (18 anni ed oltre). Tipo di campione: rappresentativo per quote dell’universo di riferimento. Criteri di calcolo ed articolazione del campione: campione rappresentativo dell’universo di riferimento per sesso e classi di età (18-34 anni; 35-54 anni; oltre 54 anni). Elaborazione dati: ponderazione all’Universo di riferimento; Criteri di estrazione dei numeri telefonici: estrazione casuale dagli elenchi telefonici. Metodo di intervista: intervista telefonica (CATI). Interviste realizzate: 1.000 Controlli e verifica delle coerenze: controllo preventivo effettuato tramite CATI, controlli on-line sugli intervistatori, controlli ex-post, indicatori di qualità. Data di realizzazione delle interviste: dal 23 al 25 Gennaio 2010.


l’Unità 28.1.10
La Roma fascista sporca il ricordo dell’Olocausto
Le telecamere che circondano il museo avrebbero registrato poco dopo la mezzanotte immagini per nulla nitide degli autori del gesto vigliacco. Tant’è che gli investigatori non sanno neanche se fossero travestiti.
di Angela Camuso

«Olocausto propaganda sionista ’27/01: ho perso la memoria». Lo sfregio, una scritta lunga quasi due metri realizzata con una bomboletta spray nera, è stato scoperto l’altra notte sui muri accanto
Museo della Liberazione di Via Tasso a Roma, l’edificio che fu utilizzato dalle Ss come carcere e luogo di tortura. Accanto alla scritta una croce celtica, lugubre saluto degli autori del gesto a una città che l’indomani avrebbe celebrato il Giorno della Memoria. Tre-quattro persone, secondo i primi risultati delle indagini svolti dalla Digos, i responsabili, i quali, tuttavia, almeno a quanto trapelato dalla questura, sarà molto difficile identificare: le telecamere che circondano il museo avrebbero registrato poco dopo la mezzanotte immagini per nulla nitide, tant’è che al momento gli investigatori non sarebbero in grado di stabilire neppure se gli autori fossero o meno travisati.
LA FIRMA DI «MILITIA» Naturalmente, c’è una rosa di nomi di personaggi appartenenti alle frange di estrema destra da tempo sotto controllo della polizia e la caccia ai colpevoli partirà proprio da quegli ambienti già oggetto di indagini ana-
loghe nel passato. Uno di questi gruppi è «Militia», del quale Ros e Digos conoscono per nome e cognome una quindicina di appartenenti, abitanti tra Roma e i Castelli. «Militia» ha firmato, sempre l’altro ieri notte a Roma, altre scritte antisemite lungo la centralissima via Cavour, la più eclatante delle quali rivolgeva insulti al presidente della Comunità ebraica della capitale, Riccardo Pacifici. Il testo, comparso al civico 212 della strada, recitava «Pacifici porco judeo» e anche questo è stato realizzato con uno spray. Difficile stabilire se la paternità delle scritte in via Tasso e via Cavour sia la stessa. Sta di fatto che il medesimo gruppo di estremisti è riuscito a tappezzare di scritte con spray nero praticamente tutta la lunghezza di via Cavour, evidentemente senza che polizia e carabinieri si accorgessero di nulla. Sui muri, c’erano dunque attacchi al sindaco Alemanno, definito «verme sionista», mentre quasi all’altezza della basilica di Santa Maria Maggiore, peraltro a poche centinaia di metri dal Viminale, campeggiava a grandi caratteri il proclama «Casa lavoro giustizia sociale», accanto a un simbolo fascista. Ancora, nei pressi della scritta contro Pacifici, gli slogan «Vita est Militia» e poco distante «Usa, Israele boia» e «Pdl vermi», quest’ultima vergata apparentemente con lo stesso spray. Quindi un altro slogan, «Osa con noi», firmato ancora da Militia. Anche il contrafforte in muratura della Chiesa di San Pietro in Vincoli è stato imbrattato: sulla scalinata è apparsa la firma del gruppo, accanto la scritta «Il Talmud è razzismo», con il simbolo fascista e la firma del movimento e infine, all’altezza di via dei Serpenti, ancora un insulto al sindaco, «Alemanno verme sionista vita est Militia» e anche un altro slogan sul muro di una scuola, «A morte Israele vita est Militia». Atti che hanno suscitato sconcerto e una condanna bipartisan. ❖

l’Unità 28.1.10
Elie Wiesel: volevano ridurci a un numero rubandoci l’identità
Il premio Nobel parla a Montecitorio: «Auschwitz non è riuscito a guarire il mondo. Il razzismo è stupido l’antisemitismo un’infamia. Senza memoria non c’è speranza»
di Umberto De Giovannangeli

C’è solo una parola che definisce la mia vita, che definisce ciò di cui la nostra generazione ha più bisogno: è la memoria. Senza la memoria la speranza non potrebbe esistere». E lui alla Memoria ha dedicato tutta la sua vita. Il suo impegno intellettuale. La sua passione civile. Legando il passato al presente, consapevole che senza memoria non c’è futuro». Elie Wiesel ricorda i suoi colloqui con l’Unità, «quelle riflessioni ci dice sono purtroppo di strettissima attualità. Di quella tragica esperienza, il Premio Nobel per la Pace porta ancora i segni. Nel cuore. Nella mente. Sulla pelle. Non è una metafora, quest’ultima. Sul braccio ha ancora impresso il numero A7713 : «Prima che la vita dice a l’Unità i nostri aguzzini volevano toglierci la nostra identità, ridurci a un numero...». Non dobbiamo consentire che il nostro passato diventi il futuro dei nostri figli»: un appello, una ragione d’impegno. Una sfida ai seminatori di odio: «il razzismo è stupido, e l'antisemitismo un'infamia».
Il presente preoccupa fortemente Wiesel. E nei suoi discorsi romani lo sottolinea con la consueta passione e lucidità intellettuale. L'appello più forte è quello rivolto a Silvio Berlusconi e a Gianfranco Fini:la richiesta di una legge che equipari gli attentati suicidi ai crimini contro l’umanità. Elie Wiesel ha scelto l'aula di Montecitorio dove è stato invitato dal presidente della Camera per celebrare il decennale del Giorno della Memoria per ricordare la Shoah del popolo ebraico collegandola in molti punti all'attualità e alle vicende di Israele. Dopo aver chiesto una legge contro gli attentati suicidi («Forse non fermeremo gli assassini spiega ma i complici sì») l'ha poi approfondita chiedendo: «Come si può trattare con il presidente di una nazione, Ahmadinejad, che per primo vuole negare l'Olocausto e vuole distruggere uno stato membro delle Nazioni Unite. Come osa?. Andrebbe arrestato, portato all'Aja e accusato di crimini contro l'umanità». Ed aggiunge: «Distruggere Israele vuol dire distruggere gli ebrei, come si voleva fare 65 anni fa». Ma non per questo ha rinunciato a rivendicare di credere fermamente nella pace: «La speranza rimarca Wiesel deve esserci sempre. La pace fra Israele e i palestinesi è ancora un sogno, ma un giorno arriverà, credetemi». «Se Israele continua ha potuto farla con la Germania, potrà farla con i suoi vicini». Senza dimenticare Gilad Shalit, il caporale israeliano tenuto prigioniero da oltre tre anni da Hamas per il quale accompagnato da un lunghissimo applauso ha chiesto la liberazione. «Voi avete la credibilità per farlo insiste il grande scrittore della Memoria Quest'uomo vive da tre anni imprigionato».
«Debbo confessare riflette Wieselche nutro una certa frustrazione: tanti testimoni hanno parlato dello sterminio ma poco o niente è cambiato. Il mondo si è rifiutato di ascoltare e di imparare. Altrimenti come possiamo comprendere cosa è avvenuto in Cambogia, Ruanda, Bosnia, Darfur o comprendere cosa è oggi l'antisemitismo. Se Auschwitz non è riuscito a guarire il mondo dall'antisemitismo, cosa potrà guarirlo?».
Ricordare. Denunciare. Battersi. «Ai più bassi livelli della politica e al più alto livello della spiritualità il silenzio non aiuta mai la vittima, il silenzio aiuta sempre l'aggressore», avverte Wiesel nel suo discorso a Montecitorio. Non fa nomi, lo scrittore.. . Ma l’entourage del Nobel per la Pace ha più tardi esplicitato a un giornalista del quotidiano di Tel Aviv Haaretz, che Wiesel, chiamando in causa il più alto livello spirituale, abbia inteso indicare «senza equivoci» proprio Pio XII. ❖

il Fatto 28.1.10
Se questo è un immigrato
Il Sahara divora i sogni
Le immagini e le testimonianze dei clandestini nelle sabbie libiche
di Emanuele Piano

Il deserto è una distesa di corpi. Le sabbie del Sahara sono diventate il più grande cimitero all’aria aperta del mondo. Le immagini pubblicate dal settimanale Oggi sono l’ennesimo miraggio propagandistico che sbiadisce all’orizzonte e lascia spazio alla vergogna. Quei morti sepolti dal vento del deserto sono quelli che chiamiamo clandestini o extracomunitari (quasi venissero da un altro pianeta), sono quelli che respingiamo nei barconi alla mercé del mare in tempesta, sono i negri che si rivoltano a Rosarno contro la mafia e il caporalato. Queste sono le loro storie così come le hanno raccontate alle agenzie dell’Onu che si occupano di rifugiati quelli sopravvissuti al Sahara e giunti vivi fino a Tripoli.
Sono per lo più eritrei. Li chiameremo Daniel, Gebrel, Yohannes, Kidane, Abraha e hanno quasi tutti meno di 30 anni. Ci sono madri con bambine che hanno affrontato il lungo viaggio da sole. Ci sono mogli che partono per raggiungere i mariti e sono picchiate perché non concedono il proprio corpo a chi le conduce. Ci sono giovani che sfuggono da un regime oppressivo, quello eritreo, che impone il servizio militare a vita e non perdona chi diserta, salvo poi finire bastonati dalla polizia libica per una semplice domanda. C’è chi fugge perché voleva continuare ad andare a scuola e chi è perseguitato perché un fratello ha preso la via dell’esilio. Sì perché anche i familiari rimasti devono pagare per le colpe dei figli e scontarle con il carcere nel regno del presidente dittatore Isaias Afeworki. Sono queste, fra mille altre e assieme al sogno di una vita migliore, le motivazioni che spingono i migranti a scegliere di partire. Il viaggio comincia a piedi. Si scappa dai campi di addestramento, dalle aziende agricole di Stato o per una lettera della mamma che non ti facevano leggere da mesi. Due o tre giorni per arrivare dall'Eritrea al Sudan. La tappa nei primi campi profughi sul confine e via sino a Khartoum, capitale sudanese. Saranno i risparmi di una vita, quelli degli amici o dei parenti all'estero a finanziare il viaggio. È da qui, infatti, che il migrante da persona diventa merce nelle mani dei trafficanti. Sono loro a curare gli spostamenti dal Sudan alla Libia, basta avere i soldi. Mille dollari per arrivare a Tripoli passando per Kufra, oasi snodo cruciale nelle rotte del Sahara. Ma per arrivarci bisogna sopravvivere, come testimoniano le fotografie di Oggi, al caldo e a mezzi di fortuna stipati di esseri umani senza acqua né cibo. Nei racconti si parla di un minimo di 37 persone a camion carichi di quasi 150 individui. Il traffico di uomini e donne è un mercato da 30 miliardi di dollari l'anno che coinvolge sino a 2,5 milioni di persone nel mondo. La tragica epopea non finisce nel deserto. Quasi tutti i migranti, una volta in Libia, passano per le forche caudine della polizia locale e dei suoi famigerati centri di detenzione per clandestini. Perché se il viaggio nel deserto dura settimane, la detenzione in Libia può protrarsi per anni. Un testimone racconta del suo arresto a Ajdabaih da parte della polizia libica. Due mesi mesi nel centro di detenzione locale senza vedere mai il sole se non durante i pasti, poi lo spostamento in un altro carcere, ad Elmarji, per un mese, dove il detenuto contrae delle malattie della pelle non meglio specificate. Infine un altro trasloco, questa volta a Misrata, dove è stato rinchiuso per due anni e cinque mesi in celle sovraffollate e senza accesso a servizi medici di base. La sua libertà è arrivata grazie a un trafficante di uomini: lo ha comprato da un secondino e lo ha fatto lavorare per sei mesi per farsi ripagare. E questa è soltanto una storia su migliaia in alcuni dei centri che anche il governo italiano ha contribuito a finanziare.
Si dirà: ma perché non tornano indietro da quell'inferno? Perché non hanno alternative. Il codice penale eritreo prevede una serie di pene per i renitenti alla leva e i disertori. Per i primi si rischiano sino a 15 anni di carcere duro, per chi fugge, invece, la pena è la morte previamente farcita da torture, come documentato dal Rapporto del Dipartimento di Stato Usa sull'Eritrea. La Libia, inoltre, non riconosce la convenzione di Ginevra sui rifugiati e non offre nessuno strumento giuridico per i richiedenti asilo che arrivano a Tripoli. È per questo che tutti vogliono i barconi per arrivare al di là del mare, in Europa, la patria dei diritti (?). La politica delle espulsioni, dei respingimenti e degli accordi bilaterali per chiudere le frontiere del Sahara e quelle del Mediterraneo – a suon di miliardi di risorse pubbliche – continua a mietere “danni collaterali” di una guerra che nessuno ha mai apertamente dichiarato.

Repubblica 28.1.10
Cina, riscoperta la lingua segreta delle donne
di Giampaolo Visetti

Sopravvissuto al divieto di Mao, il Nushu sembrava estinto con la morte dell´ultima conoscitrice degli ideogrammi Invece il misterioso dialetto precluso agli uomini è miracolosamente risorto. Grazie a un gruppo di ricercatrici

Nato per difendere la propria intimità dall´altro sesso, ora è parlato anche nei circoli elitari

La Cina riscopre la lingua segreta delle donne. Sopravvissuta al bando di Mao Zedong, si pensava estinta l´anno scorso, alla morte di Yang Huangyi, 92 anni, ultima cinese ad essere stata allevata da una madre che conosceva gli ideogrammi preclusi agli uomini. Il misterioso Nushu, unico linguaggio di genere creato sulla terra, è invece miracolosamente risorto. Un gruppo di donne dello Hunan, la regione meridionale del Paese dove è nato questo "dialetto delle confidenze", è riuscito a trascrivere centinaia di versi fino a oggi sconosciuti e a recuperare migliaia di diari segreti tenuti da spose decise a non rivelare ai mariti le proprie sofferenze. I testi, per salvarli dalla distruzione delle Guardie Rosse e dai roghi della Rivoluzione culturale, per decenni sono rimasti sepolti sotto terra, o nelle tombe delle autrici. Raffinate linguiste hanno tradotto i 2800 ideogrammi della minoranza Yao e pubblicato il primo alfabeto Nushu. Chi pensava che l´esperanto delle mogli infelici sarebbe rimasto una curiosità da filologi dell´Oriente, non aveva fatto i conti con la forza millenaria delle culture cinesi, né con la voglia di eccentricità dell´alta società. Il Nushu in pochi mesi s´è trasformato nella prima fonte di reddito dei villaggi dello Hunan. Milioni di cinesi, affamati dell´antichità distrutta dal comunismo, affollano locali e teatri dove vengono messe in scena le vite disperate delle donne senza nome del passato, costrette a comunicare con un codice incomprensibile ai compagni. Nelle librerie di Shanjianxu, dove il Nushu sarebbe stato parlato per la prima volta, vicino al tempio della Montagna Fiorita, sono arrivati i testi con i versi più famosi. È in ristampa il primo dizionario ed è stata inaugurata una scuola, rigorosamente femminile, che offre «corsi per imparare le parole perdute delle donne».
Da lingua di genere, il Nushu si trasforma però anche in idioma di classe. A Pechino e Shanghai le signore più raffinate, o almeno con più tempo libero, hanno scoperto che chiacchierare nel linguaggio estinto delle loro antenate cambia il tono del salotto. Nei fine settimana vengono organizzati thè in cui sono graditi apprezzamenti in Nushu sui maschi presenti e assenti. Snobismo privo di profondità. Ma la lingua simbolo della storica discriminazione femminile che ancora umilia l´Asia, si trasforma così prodigiosamente nell´emblema, all´apparenza frivolo, di un nuovo femminismo d´élite. È la rivincita delle spose bambine dell´età imperiale e delle concubine, cui era preclusa perfino la conoscenza delle parole per esprimere i propri sentimenti. Una beffa per i reduci non pentiti della censura maoista. I "libri del terzo giorno", diari in Nushu che le "compagne di sangue" donavano a ogni condannata alle nozze, occupano oggi sugli scaffali dei negozi più spazio del Libretto Rosso. Un successo che fa riflettere: tra due settimane, per l´inizio dell´anno lunare sotto il segno della tigre, la più diffusa tivù privata della Cina trasmetterà la leggenda che narra l´origine del primo manifesto anti-maschilista dell´umanità, trovata incisa su ossa di muflone. Racconta, in Nushu, la condanna di una contadina offerta al primo imperatore della dinastia Song. Ideò una sua lingua per denunciare alle sorelle «il dolore che mi impicca» e non perdere così il contatto con la vita.
La sorprendente riscoperta di questo linguaggio sta aprendo in Cina una discussione più vasta. Il Nushu accarezza l´immaginazione popolare perché, erroneamente, viene associato a secolari confidenze lesbiche, tuttora inconfessabili nel Paese. Ha tutto per essere una trasgressiva cultura di moda, politicamente accettabile dalle autorità. Gli intellettuali sono però convinti che il ritorno della lingua segreta delle donne, dica in realtà altro. Che esprima il cambiamento di una sensibilità nazionale bisognosa anche di dialogare con Confucio, o di recuperare brandelli di resti archeologici, o di riscoprire gli effetti prodigiosi di certi ingredienti della cucina imperiale. «Ormai - dice Zheng Shiqiu, docente di sociologia all´università di Changsha - la parità tra i sessi è fuori discussione e l´analfabetismo femminile debellato. Non c´è bisogno di una lingua anti-maschile. Nel Nushu la gente intuisce piuttosto un certificato di origine, il germoglio di una cinesità che non nasconde più il passato, per quanto impresentabile. Forse è un cammino di democrazia, che inizia ripercorrendo all´indietro le tappe saltate del tempo». È chiaro che senza questo desiderio di una storia alternativa a Mao e all´Occidente, originale e riconosciuta come grande, la primavera della lingua occulta delle donne cinesi sfiorirebbe in fretta. La sua attualità consiste proprio nel ritrovare un valore affermabile per la segretezza, ossia per la riservatezza personale, nucleo della libertà. Non è un caso se milioni di cinesi raggiungono il villaggio di Pumei per sentire le ragazze che tornano a cantare di «sorelle defunte in sorgenti gialle» e bambine che sognano di «risvegliarsi come un fratellino, o piuttosto morire». «Noi - dice Lui Jinghua, 72 anni, nuova matriarca del Nushu - non avevamo che la forza di sopravvivere. Alle cinesi di oggi un linguaggio segreto non serve per nascondersi, ma per esprimere anche ciò che non si può dire». Dopo Google forse in Cina è davvero l´ora della lingua delle donne.

mercoledì 27 gennaio 2010

l’Unità 27.1.10
Emma, l’aborto e la nuova ipocrisia
di Adele Cambria

G li scheletri di Emma? Ma quali? Chi ha davvero, negli oscuri, profondi armadi della coscienza, gli scheletri di uno o più aborti imposti alla compagna, alla fidanzata, alla moglie, all’amante di una notte o di più notti? Non sono domande retoriche, le mie. Mi chiedo infatti: chi, se non persone di sesso maschile e di età probabilmente avanzata, infastidite, in un tempo più o meno remoto della loro esistenza, dal dover constatare che la partner è rimasta incinta (magari perché lui rifiutava l’uso del preservativo) e quindi o le ha imposto di sbrigarsela da sola o, in extremis, le ha allungato un po’ di spiccioli per “liberarsi” e, soprattutto, per “liberarlo” da qualsiasi responsabilità chi, mi chiedo, se non personaggi del genere, hanno la sfrontatezza di rinfacciare ad Emma Bonino, nel 2010, una limpida foto in cui l’allora giovanissima militante radicale aiuta una donna non a “liberarsi” ma a soffrire meno per le conseguenze della prima o dell’ennesima violenza maschile sul proprio corpo. I Radicali, la giovane Emma come quella coraggiosa e arguta donna già attempata, la filologa Adele Faccio, che il C.I.S.A. l’aveva creato, nelle loro iniziative, e quindi anche in quelle dell’informazione sugli anticoncezionali (reato perseguibile penalmente, in Italia, fino al 1971) e della pratica, per un periodo assai breve, degli aborti “militanti”, ci hanno sempre messo, come si dice, la faccia.
E quindi Emma Bonino non ha scheletri nell’armadio, non ha chiesto, quando è stata eletta in Parlamento, nel 1976, di ottenere l’immunità parlamentare si era anzi denunciata all’autorità giudiziaria, come del resto aveva fatto Adele Faccio sul palcoscenico del cinema-teatro Adriano a Roma. E mi ricorda Gianfranco Spadaccia che in galera ci era finito due settimane prima di Adele e di Emma che i quattro deputati radicali in Parlamento, cioè Marco Pannella, Mauro Mellini, Adele Faccio ed Emma Bonino, chiesero,al contrario, di essere processati. Ma la loro richiesta fu respinta. Così, l’unico ad essere processato, ma nel 1991, perché si era dimesso da parlamentare e non si era più ripresentato, fu Gianfranco Spadaccia. Nel frattempo, nel 1978, era stata approvata la pur ambigua legge 194 e nel 1981 il referendum che voleva abolirla aveva riscosso il 70% di No.
È possibile che a quasi trent’anni da questi eventi che sono ormai storici e che, nonostante le barriere di una obiezione di coscienza, spesso soltanto opportunistica, hanno ridotto della metà la pratica della interruzione volontaria della gravidanza, se ne debba tornare a discutere (strumentalmente) nel corso di una campagna elettorale, in cui soltanto il nome e la persona di Emma Bonino, autorizzano la speranza di una gestione seria, responsabile, non più degradata e degradante, della Regione Lazio? ❖

Repubblica Roma 27.1.10
Di Pietro promuove la Bonino: "Vincerà"
Ancora malumori nel Pd. Mazzoli: "Non ho alcuna intenzione di dimettermi"
Vendola: "Verrò nel Lazio a dare una mano a Emma È un´ottima candidata"
di Anna Maria Liguori

«Noi di Italia dei Valori siamo contenti della candidatura di Emma Bonino, che giudichiamo vincente sul piano della qualità, della innovazione, della caparbietà». Antonio Di Pietro, leader dell´IdV, tende la mano, dà respiro a quell´accordo che la candidata del Pd alle regionali gli ha chiesto qualche settimana fa. Di Pietro temporeggia, il sì dovrebbe arrivare appena finito il congresso nazionale del partito che si terrà dal 5 al 7 febbraio. «Siamo certi che con la Bonino si rompe un ciclo di partitocrazia - continua Di Pietro - e visto che l´IdV è sempre stata contraria alla partitocrazia, dico che l´unione fa la forza anche in questo caso». La Bonino l´accordo lo da per fatto: «Ringrazio Di Pietro per il sostegno dell´Idv e condivido quando indica nella partitocrazia la vera peste da debellare. Di Pietro raccoglie una battaglia storica radicale e una priorità di fondo del mio programma. L´unione fa la forza». Riccardo Milana, coordinatore della campagna elettorale le fa eco: «Le parole di Antonio Di Pietro dimostrano quanto sia coinvolgente e inclusiva la candidatura di Emma Bonino, e confermano quanto sia avanzato il suo lavoro sull´alleanza di centrosinistra. Ci stiamo adoperando perché sempre più forze la sostengano».Incerto invece l´appoggio dell´Api di Francesco Rutelli: «Lunedì sono finalmente arrivati dei messaggi di attenzione da entrambe le candidate verso Alleanza per l´Italia. Abbiamo inviato loro il documento con cui chiediamo in concreto gli impegni che riguardano le vere sfide della Regione». E il governatore della Puglia Nichi Vendola dice: «La Bonino è un´ottima candidata, verrò nel Lazio per aiutarla nella campagna elettorale».
Ma le acque interne al Pd sono ancora agitate. Le insistenti voci che vogliono Alessandro Mazzoli, prima dimissionario e poi candidato al Consiglio regionale, vengono smentite dal segretario Pd del Lazio: «Sono cose totalmente prive di fondamento. Coloro che le hanno messe in giro sono degli irresponsabili che minano la credibilità e il lavoro del partito in un momento delicato come la campagna elettorale. È tempo di farla finita con questi giochetti e di mettersi a lavorare per la vittoria del Pd e del centrosinistra». Ma ci sono altri motivi di discordia. «Io e i rappresentanti della mozione Marino - annuncia Ileana Argentin, deputato del Pd - vogliamo l´assemblea, raccogliamo le firme con Roberto Morassut».

Il Tempo 27.1.10
Perché Bonino e Vendola possono vincere
di Paolo Messa

Le elezioni non si vincono sui giornali. Lo sa bene Silvio Berlusconi che spesso è stato capace di ribaltare le facili previsioni giornalistiche. Dare oggi la croce addosso al Pd e alla sinistra è sin troppo facile. Hanno impressionato le difficoltà che hanno portato all`incoronazione di candidati strategici come la Bonino e Vendola: rimarginare le ferite non sarà facile per Bersani & Co. Detto questo, sarebbe un guaio se gli avversari del centrodestra sottovalutassero l`impatto elettorale dei due nomi che così tanto hanno diviso il Pd. Emma Bonino e Niki Vendola corrono per vincere e sono tutt`altro che fuori gioco. Il Lazio e laPuglia sono peraltro, insieme al Piemonte, le tre regioni su cui misurerà la tenuta della sinistra e la capacità di sfondamento del partito del premier. L`aver schierato ottime figure come quelle di Renata Polverini e di Rocco Palese rischia di essere insufficiente. La leader dei Radicali e quello di Sinistra e libertà, benché alla guida di partiti dal consenso nazionale, relativamente scarso, hanno un fortissimo appeal in genere ma sui giovani in particolare. L`uso di cui sono capaci dei New Media (internet e marketing virale) li porta a godere oggi di un vantaggio colmatile ma, al tempo stesso, non ancora colmato. I giovani, inteso come pubblico largo e non come squadre di militanti, sono infatti il vero tallone di Achille dei partiti moderati e di quelli "tradizionali", di massa per usare una terminologia novecentesca. Il dialogo con le ragazze e i ragazzi nati fra il 1980 e il 1992 non è facilissimo e richiede uno sforzo di innovazione anche per il diverso consumo che questi fanno dei media. Non solo. I sistemi elettorali partitocratíci affermatisi in Italia negli ultimi anni (l`obbrobrio del Porcellum su tutti) hanno sfavorito il coinvolgimento delle ultime generazioni e lo stesso reclutamento di classe dirigente è avvenuto sul livello più basso della cooptazione. Per questo è più difficile per i grandi partiti comunicare con i giovani ed è più naturale per "outsiders" come Bonino e Vendola. E non è un caso che il Cardinale Bagnasco abbia invocato, come fece lo stesso Santo Padre mesi fa, "una nuova generazione di cattolici impegnati in politica". Il futuro di Pdl, Pd e Udc non dipende tanto dalle sorti singolari di Berlusconi, Bersani e Casini ma sulla capacità che questi leader avranno nell`aprire il gioco e reclutando forze fresche e audaci (non giovani Signor Sì). Quanto al presente, un modesto consiglio non richiesto: attenti alla capacità di impatto della signora Emmatar.

il Riformista 27.1.10
«Emma, che ipocrita a non volermi con te nel Lazio»
Tinto Brass. «La Bonino ha ceduto alle regole del sistema.
Comunque, fortuna che c’è lei: ero tentato dal votare la Polverini. Io con i Radicali in Veneto e forse Lombardia».
di Alberto Alfredo Tristano

«Emma Bonino mi ha deluso: depennando la mia candidatura nel Lazio, ha ceduto all`ipocrisia del sistema. Mi ha politicamente evirato. Comunque fortuna che c`è lei per il centrosinistra: ero quasi tentato dalla Polevrini. Che dire? Sono vittima dei moderati... Da anni li corteggiano e non ne hanno mai beccato uno. Altro che realpolitik. La vera realpolitik è quella di Vendola, che afferma una realtà precisa, "io vinco", e la coglie nei fatti. Per quanto mi riguarda, certamente correrò in Veneto e forse anche in Lombardia. La mia candidatura è un`operazione di deragliamento ideologica rivolta contro i farisei del potere, della morale, della dignità, sbandierata con parole a cui non corrispondono i fatti. E di questa battaglia sono pienamente convinto. D`altra parte la conduco da anni, con i miei film. Sono sicuro che avrò tanti voti benché, anche se eletto, non credo di voler starmene in un consiglio regionale... Spero solo he si eviti l`errore commesso anni fa quando mi candidai sempre con i Radicali: sulla scheda scrissero Giovanni Brass e nessuno mi riconobbe. Stavolta scrivano Giovanni detto Tinto Brass, così come scrivono Giacinto detto Marco Pannella...». Giovanni detto Tinto Brass ha già pronto lo slogan elettorale: Eros è Liberazione. Quasi decisa anche l`immagine fotografica per i manifesti: «Meglio un culo, che una faccia da culo ... ». Il messaggio è chiaro: «Nella sessualità possiamo trovare la nostra liberazione. Perché l`importante è sfuggire alla prigionia del potere, che ci vorrebbe sempre frustrati, colpevolizzati. Il potere cerca di controllare il sesso, ma attenzione perché il sesso a un certo punto si vendica sul potere. Lo stiamo vedendo da almeno un anno a questa parte. Le escort di Berlusconi. I trans di Marrazzo. La Gomorra di Bari. Le amanti di Bologna. Il potente non ha il coraggio di mostrare la sua vera faccia, ma prima o poi la maschera cade. Berlusconi può corteggiare la Chiesa quanto vuole ma resterà sempre un "tiranno", nel senso che gli tira sempre e non c`è modo di contenerlo. Nessuno ha il coraggio di 
dire la verità, qualsiasi verità: ci provò Craxi alla Camera nel suo ultimo discorso, quello sul finanziamento illecito, e pagò per tutti...». 
Giovanni detto Tinto Brass ricorda la sua prima (e unica) infatuazione per la politica. Un nome e un luogo: Nenni, Campo Santo Stefano a Venezia. «Intendiamoci, dell`ideologia non mi è mai mportato nulla. Ma a sentire Nenni provai un godimento fisico. Perché a me interessa il linguaggio. Dicono che io non abbia nulla da dire. Vero: ma lo so dire bene. Non mi appartengono i furori delle idee, ma la serenità della mia espressione. Non a caso vengo dalla Serenissima, "il sesso femminile d`Europa", secondo Apollinaire. È vero: quando son lì, vivo in stato di erezione permanente... L`oratore Nenni mi fece lo stesso effetto, anche se mi costò la cacciata da casa da parte di mio padre, fascista sin dalla marcia su Roma. Era un grande penalista, strepitoso rètore: io, avvocato mancato, seguivo le sue arringhe di nascosto, per non dargli la soddisfazione di vedermi incantato...». Tra la campagna elettorale e i viaggio all`estero in agenda (domani parte per la Colombia, ospite d`onore in un festival: «ho reso miliardari troppi distributori ed esercenti perché non si ricordino qualche volta di rendermi omaggio»), Giovanni detto Tinto Brass è al lavoro sui prossimi progetti. «Il primo sarà un seguito di Io, Caligola, con l`antica Roma ricostruita in 3D. 
Più che l`orgia del potere, racconterò stavolta il potere dell`orgia... L`altro sarà un film sul caso Casati Stampa: il marchese che uccide la moglie e il di lei amante. Mi piacerebbe poter girare qualche scena nella villa di Berlusconi ad Arcore, che appartenne proprio ai torbidi marchesi... Mi ha sempre colpito il fatto che il guardiano di quella tenuta fosse lo zio del brigatista Mario Moretti...». 
Per Giovanni detto Tinto Brass è venuto il tempo di mettere ordine nei ricordi. Sta prendendo formala sua autobiografia in forma di intervista a Caterina Varzi, sua nuova «musa ermeneutica»: «Speriamo solo che non mi interpreti troppo...». Si chiamerà Ciak si giri! But I see more. La prima parte del titolo non c`è bisogno di spiegarla, vista l`indole retrospettiva del regista (un suo libricino di qualche anno fa, Elogio del culo, si apriva con l`eloquente trio di tesi-antitesi-sintesi: «II culo è lo specchio dell`anima. Ognuno è il culo che ha. Mostrami il culo e ti dirò chi sei»). Più celato il senso della frase in inglese: un verso di Ezra Pound dedicata a nonno Italico Brass. «Fu un pittore di successo, capace di mettere assieme una collezione che comprendeva Tintoretto, Magnasco, Veronese. Pound aveva compreso il suo sguardo lungo, che vorrei appartenesse anche a me». Parlando della sua lunga carriera, c`è un film che ricorre più degli altri. Il primo: Chi lavora è perduto. «Mi ricordo della violenta censura che cercarono di impormi. Figurarsi: un film contro il potere, la Costituzione, che negli anni `60 all`alba del centrosinistra parlava d`aborto, e a risentire le polemiche contro la Bonino di questi giorni sull`interruzione di gravidanza mi vien da pensare che nulla da noi è cambiato... Al ministero mi dissero di rifarlo daccapo. lo decisi di cambiare solo il titolo iniziale, In capo al mondo. Era un periodo che mi giravano parecchio le balle, talmente tanto che di continuo ripetevo nel mio veneziano "ghe sboro, ghe sboro". GianCarlo Fusco, che mi aveva aiutato per i dialoghi, mi sentì e osservò: "Ghe sboro... Sembra il titolo di un film 
giapponese. Bello, chiamalo così..."».

l’Unità 27.1.10
Il Partito Democratico dallo psicanalista
di Francesca Fornario

Q uale male oscuro affligge il Pd? Se lo chiedono gli specialisti di tutto il mondo. Ecco le ipotesi più accreditate: 1) Schizofrenia di tipo Paranoide. Secondo lo psichiatra svizzero Fabian Zoldan, autore del saggio «Ernesto Galli Della Loggia è lo pseudonimo di Enrico Letta», il Pd soffre di un disturbo della personalità. I sintomi principali sono: poche idee ma fisse («Senza l’Udc non si vince»), allucinazioni («Gianni Letta vuole fare le riforme») e deliri di onnipotenza («Non mi dimetto nemmeno se rinviato a giudizio»). Zolden consiglia una terapia di gruppo, che il paziente in passato ha rifiutato perché voleva andare da solo: comportamento antisociale tipico degli schizofrenci. Zolden si è allora rivolto a un professore italiano, fondatore della comunità di recupero «L’Ulivo», ma il professore ha risposto all’appello del collega svizzero con una criptica cartolina: «Saluti da Madonna di Campiglio».
2) Invidia del pene. Per Dj Orgia, un ragioniere brianzolo che per anni ha esercitato abusivamente la professione medica nei privé delle discoteche pur di tastare le cubiste, il Pd rosica. Vorrebbe essere come Berlusconi, che alcuni dirigenti piddini tentano di imitare alleandosi con Casini, dialogando con Fini, facendo sesso a pagamento. Ma, per quanto si sforzino, messi tutti insieme non riescono a combinarne quante il premier da solo.
3) Presenza del demonio. Per Monsignor Bonanza, vescovo esorcista, il Pd è in realtà la Dc posseduta dal diavolo, che si manifesta sotto le mentite spoglie di elettori laici.
4) Depressione Post-partum. Per la pedagogista canadese Molly Watson, i fondatori del Pd non si sono mai ripresi dalla travagliata nascita del partito, venuto al mondo con la fecondazione in vitro e nato con una malformazione: ha un corpo e due teste. Ma la sfiga principale, lamentano gli elettori, è che è sordo da tutte e quattro le orecchie.❖

il Fatto 27.1.10
Milano-Auschwitz
di Furio Colombo

C’è un sotterraneo alla Stazione centrale di Milano, una immensa stanza segreta che riproduce tutto quello che vedete di sopra, al piano dei treni e della grande tettoia di ferro e di vetro che, ancora adesso, fa sentire la tensione del viaggio. Capisci che l’avventura comincia nell’arco di luce che si vede verso il fondo, dove i treni diventano una linea che va verso il mondo. Anche sotto, nella immensa stanza segreta, ci sono binari. Vanno verso un punto lontano, che non rivela niente, solo altre gradazioni di buio. Qui senti che sei lontano dal cielo come se questo luogo fosse una fenditura profonda. Pochi metri tra sopra e sotto, ma la distanza è infinita. Sopra siete liberi, sotto no. Come in una strana, torbida fiaba, essere qui è una condanna. Così è stato ogni giorno, ogni settimana in un periodo maledetto della nostra storia. Noi siamo su un lastrone di cemento al binario 21. Siamo testimoni di un delitto italiano di cui sono restati tutti i segni e tutte le impronte. Dal binario 21 partivano i treni, mentre Milano viveva la sua difficile vita di guerra, la borsa nera, lo sfollamento, il treno per venire al lavoro e tornare in campagna per essere più al sicuro, quel tanto di solidarietà che nasce sempre nei momenti difficili. Non per tutti. Una bambina che è passata sul marciapiede buio del binario 21, in quel misterioso piano di sotto racconta: “Dopo l’arresto ci avevano rinchiuso a San Vittore, con ladri e malfattori. Quando ci hanno messi in marcia verso la stazione donne, uomini, vecchi, bambini, in uno strano corteo, soltanto i detenuti di San Vittore hanno gridato “coraggio”, hanno capito l’assurdo, ci hanno dato quel che avevano da mangiare e per stare caldi. Nelle strade di Milano non se ne è accorto nessuno, nessuno si è voltato”. E’ la voce di Liliana Segre che ha fatto da guida alla stanza sotterranea, ha mostrato che pietre, cemento, umido, buio e binari ci sono ancora. Ecco il binario 21. Da qui, dalla stazione italiana, con personale italiano e scorta italiana, partivano i treni Milano-Auschwitz. Qui spingevano sui vagoni gli ebrei italiani destinati a morire. Qui il 26 gennaio, decimo anniversario del Giorno della Memoria, Marco Szulc, figlio della Shoah, ha posto la prima pietra del Memoriale italiano. Milano, piano sotterraneo, binario 21. Ci sono ancora i vagoni.

l’Unità 27.1.10
Come testimoniare per i testimoni
La responsabilità di insegnare e tramandare ai giovani il nostro passato recente, le dittature e lo sterminio
di Nicola Tranfaglia

Più di una volta mi è successo di pensare alla grande contraddizione che caratterizza il nostro paese: tra i più antichi e ricchi di storia dell’Europa e del mondo occidentale ma sempre più dimentico della propria storia, incurante di ricordare il passato anche recente, proteso a un futuro incerto e carico di ombre. Oggi, per una legge dello Stato approvata 10 anni fa da un governo di centrosinistra, si celebra il Giorno della Memoria istituito per ricordare le dittature non solo fasciste del 900. Ci saranno discorsi e dibattiti, film e spettacoli teatrali sulla deportazione nazista e sull’universo concentrazionario. La Giornata è, non a caso, proprio quella in cui nel 1945 le armate sovietiche raggiunsero il lager di Auschwitz e liberarono i prigionieri ancora vivi.
I giovani sanno poco o nulla di quello che è successo durante la seconda guerra mondiale in Europa. A scuola si parla poco di quegli anni e all’università ancora di meno. Poco se ne parla alla radio e in tv. Eppure l’Italia è stata in quel periodo al centro della storia europea. Siamo stati noi italiani per primi, nel vecchio continente, a vedere il crollo di una democrazia liberale e cadere in mano al movimento fascista di Mussolini. Negli anni successivi, quel movimento si è prima trasformato in un vero e proprio partito e ha precipitato il paese in una dittatura moderna e feroce che ha dominato per oltre vent’anni, ha aiutato con forza il movimento nazionalsocialista di Hitler in Germania e alla fine degli anni 30 è entrato in guerra al fianco dei nazisti contro l’Urss, le democrazie occidentali e gli Stati Uniti. L’alleanza tra l’Italia fascista e la Germania nazista non è stata né un incidente né un infortunio ma l’espressione di somiglianze indubbie tra i fascismi europei che già nella guerra civile spagnola erano intervenuti insieme a sostenere i generali golpisti guidati da Franco contro la repubblica democratica. E negli ultimi anni di guerra, dopo la caduta di Mussolini davanti al Gran Consiglio del fascismo il 25 luglio 1943 e la nascita della Repubblica Sociale italiana i fascisti italiani erano diventati alleati e complici di Berlino collaborando attivamente alla deportazione degli ebrei e degli oppositori del regime, gran parte dei quali finirono nei lager hitleriani.
Dopo otto anni di ricerche archivistiche compiute da un gruppo di studiosi dell’Università di Torino, con l’aiuto finanziario della Banca San Paolo (dirette da chi scrive, con l’aiuto di Brunello Mantelli) sono emersi con precisione i dati di quell’azione compiuta nel ’43-45 in tutta Italia: vennero deportati circa 9mila ebrei e 23mila oppositori, gran parte dei quali non sarebbero mai ritornati a casa. Sono già usciti quattro volumi sui deportati e il quinto uscirà nel prossimo aprile per Mursia: e i lettori troveranno in quei volumi non solo le biografie di tutti i deportati ma anche decine di saggi che approfondiscono quelle tragiche vicende. Si può dimenticare tutto questo?❖

Repubblica 27.1.10
Wiesel: "L'eterna battaglia contro i negazionisti"
intervista a Elie Wiesel

Il Nobel per la Pace, che ha curato la postfazione al libro "Io sono l´ultimo ebreo", parla oggi in Parlamento "Noi sopravvissuti all´Olocausto e l´orrore di chi cancella la storia"
"L´antisemitismo è uno dei pregiudizi più antichi Ed è ancora molto presente"
"Auschwitz fa parte di un´altra Creazione, fatta solo di chi uccide e chi muore"
"È importante che il mondo civile non dimentichi, per capire il perché del male assoluto"
"Le leadership politiche hanno doveri morali. Oggi più che mai serve una visione etica"

«Io, Elie Wiesel, sopravvissuto e testimone, ricordo ancora oggi ogni singolo momento. Quando fummo chiusi nel Ghetto, quando vennero a prenderci, quando ci caricarono sui treni, quando arrivammo ad Auschwitz, quando vidi mia madre, mio padre e mia sorella portati a morire». Così Elie Wiesel, Nobel per la pace, attivista di primo piano per la pace e i diritti umani nel mondo, racconta l´Olocausto. Oggi, nella Giornata della Memoria, terrà un discorso al Parlamento italiano. Ascoltiamolo.
Professor Wiesel, come rammenta quegli anni tremendi?
«Rivedo ancora oggi ogni episodio. L´arresto in massa, la deportazione. Il viaggio atroce nei carri-bestiame fino ad Auschwitz. Ricordo cosa voleva dire sentirsi improvvisamente trattati come "Untermenschen", come subumani da eliminare. Ricordo quando, io ancora piccolo, restai solo ad Auschwitz. Fu terribile, è difficile descrivere cosa vuol dire restare solo, senza più la famiglia che hai visto sterminare, e al tempo stesso sentire che non sei solo, che non lo saresti stato mai più. Perché eri insieme a migliaia e migliaia di persone, trattati da subumani da eliminare come te, e al loro fianco sentivi la vicinanza della Morte. Ognuno di noi la sentiva, e al tempo stesso non vivevamo accanto alla Morte, vivevamo nella Morte».
Com´era possibile sopravvivere a questo sentimento?
«Penso ancora oggi che quando entrammo ad Auschwitz entrammo in un´altra Creazione, una dimensione speculare, parallela, opposta e negativa. Nella Creazione che conoscevamo la Germania era il cuore della cultura, la patria di una letteratura straordinaria espressa da una grande lingua, la terra dei migliori ingegneri. Ma là entrammo come in un mondo parallelo, fatto solo di "to kill and to die", di chi uccide e di chi muore».
Il genocidio pianificato con precisione industriale fu un crimine speciale, tutto tedesco?
«Vede, una delle cose più terribili che la Storia ci ha riservato è questa: nella prima guerra mondiale i tedeschi si comportarono bene, combatterono contro i pogrom zaristi all´Est. Per il popolo ebraico, la Germania era terra di cultura, di alta tecnologia, di grandi talenti letterari. Non ce lo aspettavamo. I nazisti riuscirono a mobilitare tutto il talento dei tedeschi talento in ogni forma, di psicologi, scienziati, ingegneri, giornalisti per l´Olocausto. Per questo quel crimine senza pari fu così atrocemente efficiente».
Lei oggi si fida dei tedeschi?
«Io non credo nella colpa collettiva. Solo i colpevoli sono colpevoli. Sono testimone, non giudice. Certo, purtroppo la Resistenza, l´opposizione al nazismo e alla Shoah, furono minoritari. Ma insisto, la colpa collettiva per me non esiste. E ammiro moltissimo Angela Merkel, perché lei che oggi guida la Germania sa parlare e agire nel mondo giusto: in nome della Memoria, e del diritto di Israele all´esistenza».
Qual è il significato della giornata della Memoria?
«Sono lieto di tenere un discorso al Parlamento italiano. E´ una giornata importante per tutto il mondo civile. Perché è fondamentale non solo ricordare, ma anche capire come e perché l´orrore assoluto accadde. E perché dimenticare è un grande pericolo, perché l´oblìo significa tradimento. Chi oggi chiede di dimenticare deve sapere che non sfugge a questa responsabilità: insisto, dimenticare vuol dire tradire la memoria delle vittime. E dai tradimenti non può mai derivare il bene».
E´ anche il pericolo posto dal negazionismo?
«Il più grande, pericoloso e attivo negazionista del mondo è Ahmadinejad, per questo conduco una campagna contro le sue posizioni. E´ il negazionista numero uno: nega in pubblico l´Olocausto, dichiara di volere bombe atomiche per distruggere Israele. Dovrebbe essere arrestato, dovrebbe venire tradotto davanti a un tribunale internazionale e processato dal mondo per incitamento a crimini contro l´umanità e all´odio razziale».
Una specie di Processo di Norimberga?
«Esiste già il Tribunale internazionale dell´Aja».
Lei è soddisfatto o no di come il mondo ricorda l´Olocausto?
«In Europa la situazione è migliorata. Gli Stati Uniti sono all´avanguardia: i due massimi memoriali sono a Washington e in Israele. In tutto il mondo percepisco più sensibilità di prima al tema. Forse perché alcuni di noi sopravvissuti sono ancora in vita. Il mondo comincia a pensare che un giorno, presto, non ci saremo più, e che è doveroso ricordare mentre siamo ancora in vita. Perché i sopravvissuti aiutano a tenere viva la Memoria, la comunicano al mondo di dopo l´Olocausto».
Ma quanto è grande il pericolo che, con sempre meno superstiti della Shoah ancora in vita, opinioni pubbliche e leader cedano alla tentazione di dimenticare, di "voltare pagina"?
«Io vedo che in molti paesi i giovani che studiano l´Olocausto sono più numerosi che mai. In America, e non solo, non c´è una scuola in cui la Shoah non sia materia d´insegnamento. Mai come oggi ho visto tanti corsi, seminari, mostre, programmi tv. Sono ottimista sulla capacità di ricordare. Ma c´è sempre da chiedere che uso si fa della Memoria, quanto la si usa per capire».
L´antisemitismo è vivo e spesso in ascesa, per esempio in Europa. Quanto è grave la minaccia?
«Sono trend pericolosi. Anche perché si manifestano spesso su uno sfondo d´indifferenza. Nel 2009, in tutto il mondo ma specie in Europa, si è registrato il numero più alto di manifestazioni di antisemitismo dal 1945. Recentemente sono stato in Ungheria, ho visto un aumento preoccupante dell´antisemitismo. E anche altrove, gli antisemiti conquistano nuove tribune. Come dico da decenni, spesso siamo di fronte a un antisemitismo senza ebrei, cioè a correnti antisemite in società dove quasi non vivono più ebrei. Poi c´è un violento, ingiusto odio verso Israele. Il bisogno di un capro espiatorio non è morto. E tocca sempre agli ebrei. Intanto, per esempio, dell´eccezionale efficienza dell´aiuto umanitario israeliano a Haiti si parla poco o nulla».
Le élite in Europa sono conosce della minaccia dell´antisemitismo e dell´oblìo o no?
«Lo spero. In alcuni paesi l´Ungheria, l´Ucraina, ma anche paesi dell´Europa occidentale vediamo trend pericolosi. Umori antisemiti, il sorgere di partiti filonazisti. Alle leadership politiche toccano anche doveri e considerazioni morali. Non possiamo separare la politica dalla morale. Serve una visione etica del mondo, e deve venire dai leader».
L´antisemitismo come ricerca del capro espiatorio è un male europeo?
«L´antisemitismo è il più antico pregiudizio di gruppo della Storia. Ed è presente tuttora, nel nostro quotidiano. Dobbiamo combatterlo, non illuderci che la lotta sia finita».
Tra i negazionisti ci sono anche esponenti religiosi, come il vescovo Williamson. Quanto sono pericolosi?
«Sono pericolosi prima di tutto per la Chiesa cattolica. Il fatto che papa Benedetto non abbia revocato la revoca della scomunica è al di là della mia comprensione. Parliamo di un negazionista dell´Olocausto, predica odio verso gli ebrei e Israele, come può essere ancora un vescovo? Scomunicato o perdonato, come può essere ancora vescovo? Angela Merkel ha avuto ragione a criticare il Papa su questo tema».

l’Unità 27.1.10
Via del popolo somalo
di Igiaba Scego

Questa è la storia di due uomini che il popolo chiamava Bottino e Boccagrande. All’anagrafe i nomi segnati erano altri, Bettino Craxi e Siad Barre, ma il popolo (quello somalo) preferiva chiamarli Bottino (in italiano) e Boccagrande (Afweyn in somalo), perché a detta loro il primo sapeva come accumulare denari e l’altro aveva una bocca così grande che quei denari sapeva triturarli ben benino. Un giorno di settembre del 1985 alle 15,30 locali, le 14,30 italiane, Bottino scende dal lucente bireattore Gulfstream. Boccagrande lo aspetta ai piedi della scaletta. Boccagrande dice all’amico italiano “vedi, sta piovendo”. Nel cielo nemmeno l’ombra di una nuvola. Bottino che vede oltre i suoi occhi approva e dice “sì, piove”. I due si intendono alla perfezione. La pioggia c’era, ma non era fatta di acqua, bensì di contante. Erano i miliardi italiani che dal 1981 al 1984 sommersero le casse dello stato somalo. Però quel denaro non andò ai rifugiati della guerra dell’Ogaden, non andò ai somali bisognosi. Erano gli anni della cooperazione italiana. Gli anni in cui si costruivano autostrade nel deserto e si riempiva l’antica terra di Punt di armi (troppe) e rifiuti tossici. Quel denaro andava in tante tasche, un po’ di qua un po’ di là, un po’ in Somalia, un po’ in Italia. Il popolo racconta che la famigerata Kadija, la moglie di Boccagrande, godette di lussi mai visti in quel quadriennio. La corruzione cominciò a dilagare come una peste tra i somali. L’antica terra conosciuta fin dai tempi di Hatshepsut per i suoi profumi e i suoi colori, cominciò a puzzare per i rifiuti tossici insabbiati e per il denaro sporco. La guerra in-civile di oggi tra le tante cause ha anche questa corruzione di ieri. Sarebbe bello vedere a Milano una via dedicata al popolo somalo. Oggi giorno della memoria vorrei suggerirlo al Sindaco Moratti.❖

il Fatto 27.1.10
“Il burqa offende la Repubblica” e Parigi vota il divieto
Ma non lo porta nessuno: solo 350 donne in tutto il paese
di Gianni Marsilli

Burqa da vietare sicuramente nei “luoghi pubblici”: treni, autobus, ospedali, università, uffici comunali. Burqa da vietare probabilmente in tutti gli “spazi pubblici”: strade, piazze, giardini. Burqa che in ogni caso “offende i valori della Repubblica” degradando la donna, dissimulando volti e corpi e identità. Burqa da mettere all’indice, auspicabilmente, con una legge “ad hoc” ancora da scrivere. Sono queste le conclusioni dei lavori dell’apposita commissione parlamentare francese, presentate ieri mattina. E’ stato un parto molto travagliato, a destra come a sinistra. Il tema scotta, divide, of fende.
A sbatterlo sul tavolo era stato in giugno André Gerin, deputato comunista del Rodano. Gli era venuto subito dietro Éric Raoult, deputato dell’Ump, il partito del presidente. In questi mesi hanno lavorato in grande armonia: il comunista ha presieduto la commissione, il gollista gli ha fatto da attivissimo vice. I socialisti son rimasti a guardare la strana coppia, annusando opportunismo elettorale a buon mercato: se è vero che “la Francia intera è contro”, come dicono le conclusioni, perché allora bombardare il burqa sul palcoscenico nazionale?
Le statistiche sembrano dare ragione alle diffidenze dei socialisti. L’estate scorsa venne reso noto, e confermato dal ministero degli Interni, un rapporto dei servizi d’informazione. Vi si potevano leggere cifre non certo allarmanti. In Francia le donne che vivono coperte dal niqab dalla testa ai piedi, viso compreso, a casa e in pubblico, non sono più di 357. Una maggioranza di queste, inoltre, lo fa volontariamente, sulla base di una scelta religiosa di ispirazione salafita, molto radicale, e spesso di una certa volontà di sfida alla società e alla famiglia: il burqa un po’ come i piercing che spuntano dalle labbra, le orecchie, le sopracciglia, il naso. L’80 per cento di queste donne hanno meno di trent’anni, il 26 per cento sono francesi convertite all’islam. E’ da queste percentuali che sono nate ieri reazioni come quella di Jamel Debbouze, volto del cinema e della tv tra i più popolari: “Il burqa non è neanche un epifenomeno, concerne 250 persone. Che non vengano a romperci i coglioni con questa roba. Si tratta di xenofobia, voilà. E quelli che vanno in quella direzione sono dei razzisti”. Jamel ha dato voce a modo suo a un timore molto diffuso nella vastissima (quasi cinque milioni) comunità di origine nordafricana di Francia: che ancora una volta si prendano a pretesto singoli e rarissimi episodi per stigmatizzare “i musulmani” o “gli arabi”. Anche un moderato come Dalil Boubakeur, rettore della Grande Moschea di Parigi e interlocutore costante di Sarkozy, trova che “non c’è motivo di lanciare una grande riflessione nazionale, non vedo l’emergere di un fenomeno fondamentalista”.
André Gerin, il presidente della commissione, ritiene invece che i burqa in circolazione siano molto più numerosi, circa duemila, e oltretutto in costante ascesa. Non che cambi un granché, la cifra resta marginale, e poi c’è questo inghippo della “libera scelta” di molte di queste donne, che potrebbe far cassare un’eventuale legge da parte della Corte costituzionale. Ma c’è soprattutto, ben annidato sotto la proclamazione dei grandi principi che tutti condividono, un corposo interesse politico nell’agitare la questione. E’ questo che hanno denunciato i socialisti (non tutti, alcuni sono per una drastica legge), decidendo di non prendere parte alla votazione in seno alla commissione “a meno che non si fermi il dibattito sull’identità nazionale”. Perché il tutto, identità e burqa, fa parte indubbiamente del pacchetto con il quale Sarkozy si presenta alle regionali di marzo, che avranno valore di voto di mid-term. Vero è che il dibattito sull’identità nazionale, lanciato in novembre in tutte le prefetture e destinato a concludersi tra qualche settimana con gli “stati generali”, è servito più ad escludere e aizzare che ad integrare.
Citiamo ancora Jamel Debbouze, che evidentemente, da ragazzo di banlieue di origine marocchina, non ne può più: “E’ stato un dibattito schizofrenico: ma insomma, io dovrei ancora giustificare il fatto che abito nel mio paese? La Francia ha anche un volto nuovo, che assomiglia stranamente al mio”. L’accusa di sterilità culturale e di
elettoralismo non sembra tuttavia frenare il treno in marcia: la presidenza della commissione ha auspicato caldamente che della spinosa faccenda si faccia carico adesso il governo, presentando una sua proposta di legge.
Nicolas Sarkozy non ha ancora dato indicazioni precise sulla strada da intraprendere. Certo, ha fatto sentire la sua voce per condannare l’uso
del burqa, e ci mancherebbe: “Non è il benvenuto in Francia”, aveva già detto nel giugno scorso suscitando l’immediata reazione di al Qaeda che aveva diffuso uno dei suoi video pieni di promesse di morte. Il terreno è minato e percorso da violente tensioni. Sta a lui fare in modo che il burqa, da detestabile e umiliante aggeggio, non diventi paradossalmente simbolo di libertà.

Repubblica 27.1.10
L'esponente radicale: "Bene Parigi, se obbligatorio il velo integrale è il simbolo della morte civile delle donne"
Bonino: "Nessuna discriminazione ma tutte devono essere riconoscibili"
Non si possono usare copricapi. Non si va con il casco o con il passamontagna negli uffici
di Caterina Pasolini

ROMA - Si ricorda come fosse oggi, la prima volta in cui ha incrociato lo sguardo delle donne velate a Kabul, costrette a nascondersi sotto il burqa, ad abbandonare il lavoro, chiuse in casa dopo anni di libertà. Ma insiste, non vuole parlare di religione, non vuol legare il velo che copre tutto il volto alla fede.
«Ne sono convinta: il burqa non è un problema religioso ma di convivenza civile e di questo si occupa lo Stato. Per cui bene sta facendo la Francia a volerlo vietare». Radicale e profondamente laica da sempre, la candidata del centro-sinistra alla presidenza della regione Lazio, Emma Bonino, non ha dubbi.
Favorevole al divieto?
«Sempre stata, ma andiamo con ordine. In uno stato dove vige la responsabilità personale delle proprie azioni, tutti devono essere identificabili. Così come non vado in classe col casco o il passamontagna, così non si dovrebbe usare il velo che nasconde il volto nei luoghi pubblici».
Il burqa come il casco?
«Sì, proprio per questo non c´è bisogno di specificare. Basta fare una legge che dica semplicemente: non si possono usare copricapi che rendano impossibile l´identificazione nei luoghi pubblici».
Ma il problema religioso?
«Non c´è. Il dover essere riconoscibili è una regola valida per tutti, quindi non ci sono discriminanti di fede. Accade semplicemente che lo stato si occupi delle regole minime della convivenza tra i cittadini. Lo stato fa le leggi, poi si può aprire il dibattito sull´importanza del dialogo religioso, sul futuro delle donne, sulle umiliazioni che devono subire, sulla storia che cambia i costumi, tanto che mia nonna non usciva mai senza il fazzoletto nero in testa. Ma tutto questo è altro, è oltre».
La Lega propone l´arresto per chi mette il burqa.
«Non scherziamo. La proporzionalità della pena è un concetto basilare del nostro ordinamento».
Col divieto non si spinge all´intolleranza?
«Assolutamente no, come dice un mio amico iraniano il problema non sono le nostre credenze ma l´uso che si fa delle proprie credenze. Ci sono troppi luoghi comuni».
Luoghi comuni?
«L´emancipazione delle donne musulmane è forte, solo la nostra distrazione ci impedisce di vederla. Il mondo islamico, anche solo se lo si legge pensando ai diversi copricapi, è fatto di mille realtà diverse. Basta con gli stereotipi».
Da sempre contraria al burqa?
«Lo confesso, prima del ‘97 quando sono andata in Afghanistan per la Ue e sono stata arrestata, non avevo mai pensato alla realtà del mondo islamico. Poi invece sono anche andata a vivere in Egitto dal 2001 al 2005».
Primo ricordo?
«L´incontro con un gruppo di donne, ex medici rispedite a casa dai taliban che impedivano a loro di lavorare. Mi dissero che la cosa drammatica non era la mancanza di cibo ma l´idea che le loro figlie sarebbero cresciute analfabete perché non era permesso studiare»
Cosa c´entra il burqa?
«Per loro che avevano lavorato anni fuori, con o senza velo ma per libera scelta, il burqa reso obbligatorio era il simbolo concreto della loro morte civile».

Repubblica 27.1.10
Le forze politiche si dividono. Cinque disegni di legge in Parlamento
La Lega esulta, il Pd frena Carfagna: presto anche da noi
Critici gli islamici d´Italia: "Libertà di scelta"
di Vladimiro Polchi

"Servirà alle immigrate per uscire dai ghetti" dice il ministro per le Pari opportunità
Per il Carroccio "è una norma giuridica di civiltà" Il centrosinistra "Solo propaganda"

ROMA - La guerra al burqa, dichiarata oltralpe, rimbalza in Italia, compatta le forze politiche sul fine (vietare veli che coprano il volto), le divide sul mezzo, tra favorevoli e contrari a una legge ad hoc. La Lega esulta: «E´ una norma giuridica di civiltà». Il Pd frena: «Attenti a scorciatoie propagandistiche».
Una cosa è certa: prima dei cugini d´oltralpe si erano mossi alcuni parlamentari italiani. Tra Senato e Camera sono cinque i disegni di legge che - con piccole differenze - mirano a vietare burqa e niqab. Tutti intervengono sull´articolo 5 della legge 1975/152, che si occupa di ordine pubblico e identificabilità delle persone. Uno è targato Lega Nord (primo firmatario: Roberto Cota), due Pd (Emanuela Baio al Senato, Sesa Amici e Roberto Zaccaria alla Camera), uno Pdl (Souad Sbai) e un altro Udc (Pierluigi Mantini). Diverse le pene previste, diversa l´attenzione data alla sensibilità religiosa delle donne, stesso l´obiettivo: «Vietare in luogo pubblico qualsiasi mezzo che travisi e renda irriconoscibile la persona».
I primi a salutare con favore l´eventuale legge francese sono gli esponenti del Carroccio. Il ministro Roberto Calderoli parla di «un´iniziativa positiva in quanto la libertà individuale deve essere sempre bilanciata con le esigenze di tutela della sicurezza». Tra le fila del Pdl, il ministro Mara Carfagna sostiene che «vietare il burqa è un modo per aiutare le giovani immigrate a uscire dai ghetti» e promette che presto l´Italia avrà una norma ad hoc. Più cauto il commento del ministro degli Esteri, Franco Frattini: «Io non sono, in linea di principio, a favore di una pura e semplice proibizione per legge», perché il divieto del velo va inserito in «discorso più ampio di integrazione». Frena la fondazione Farefuturo, presieduta da Gianfranco Fini, che in un corsivo pubblicato su Ffwebmagazine scrive: «Proibire l´utilizzo del burqa è un falso problema perché non solo riguarda una fetta più che minoritaria della popolazione di religione musulmana, ma soprattutto non è con un semplice imposizione che si risolve un problema che è prima di tutto culturale».
Tra le fila del Pd, Sesa Amici e Roberto Zaccaria invitano a «evitare scorciatoie propagandistiche» e a stare «attenti a non ledere la libertà religiosa o a creare discriminazioni». E per Barbara Pollastrini, «serve una proposta saggia ed essenziale». Antonio Di Pietro distingue: «Il burqa come strumento di costrizione è una gabbia, ma come libera scelta è l´espressione di un diritto individuale».
Sul fronte islamico, Ahmad Gianpiero Vincenzo, presidente degli Intellettuali Musulmani Italiani, ricorda che «proibire il velo integrale è compatibile con l´Islam, che non prescrive di coprire il volto delle donne». Più critica l´Ucoii: «Noi crediamo che il viso debba essere lasciato scoperto, ma crediamo che vada tutelata la libertà religiosa garantita dalla Costituzione».

Repubblica 27.1.10
Che cosa c’è dietro quel velo
di Jean Daniel

Quella del "burqa" è una questione sulla quale mi pareva che tutto fosse stato già detto, ma che invece suscita nuove e interessanti reazioni: come dar forma al generale desiderio di dissuadere le nostre concittadine dall´uso del velo integrale.
Come tutti sanno, non si tratta del tipo di velo diffuso nel Maghreb per nascondere le chiome, bensì di una sorta di indumento che copre interamente la persona. Chi si traveste in quel modo si muove come un´ombra, assente e misteriosa. Sotto il burqa la donna si sottrae a tutti gli sguardi, e darebbe prova di un´austerità monacale, se non fosse che l´esclusiva delle sue fattezze e del suo volto è riservata all´uomo da lei accettato come suo proprietario.
Non è in discussione il fatto che quel travestimento non sia di buon gusto agli occhi della maggioranza dei cittadini tra i quali queste donne hanno liberamente scelto di vivere; ed è accertato che il burqa non è un obbligo religioso, ma soltanto un´usanza, peraltro condannata dal gran muftì d´Egitto, nonché dalle istituzioni teologiche più autorevoli dell´islam sunnita: su questo punto il professore Abdelwahab Meddeb è stato categorico. Si è invece aperto un dibattito sull´opportunità di promulgare una legge o di limitarsi a una semplice dichiarazione dell´Assemblea nazionale.
Le autorità religiose francesi (cattoliche, protestanti e musulmane) hanno scelto il silenzio, o si sono affrettate a proclamare la propria neutralità, associandosi così alle posizioni di taluni movimenti di sinistra che vedono in ogni tipo di divieto un attacco alla libertà religiosa. Personalmente, anche se penso che la società francese debba esprimere chiaramente la sua condanna, tendo a ritenere controproducente il varo di una legge destinata esclusivamente ad alcune centinaia di donne.
Una tesi certo non priva di acume è quella sostenuta su Le Monde dal filosofo Abdennour Bidar, che è anche autore di interessanti articoli sulla rivista Esprit. A suo parere, il burqa è sintomo di un malessere più profondo: un desiderio personale di esistere, benché espresso «in maniera paradossale, patologica e totalmente contraddittoria». Agli occhi di Abdennour Bidar, le giovani che indossano il burqa non sono poi tanto diverse dai tanti «emarginati volontari, veri e falsi a un tempo» di cui rigurgitano le nostre società. L´autore sottolinea poi lo spaventoso vuoto lasciato dalla scomparsa delle grandi immagini dell´uomo. Ormai i modelli proposti sono solo quelli di attori, sportivi, cantanti o star mediatiche che incitano a privilegiare l´apparenza, il denaro, la bellezza fisica, i consumi. «Come pensare che questi obiettivi derisori, esaltati dalla pubblicità nei modi più ridicoli, possano bastare a dare un senso alla nostra vita?» Non si potrebbe dir meglio. Ma da qui a stabilire un collegamento col burqa, che esprimerebbe «qualcosa come il rimosso della psicologia collettiva attraverso il rifiuto di esibire anche una minima immagine di sé», per poi concludere che l´identità totalmente nascosta dietro il burqa sia «l´identità profonda dell´io moderno, divenuto introvabile», c´è un salto epistemologico non facile da accettare.
Decisamente, questi eminenti intellettuali non riescono ad accontentarsi della semplice realtà. Di fatto, da quanto tempo si è posto il problema del velo – prima di quello del burqa – in un paese come la Francia, che da mezzo secolo ospita un gran numero di musulmani? Da dove è venuto questo desiderio di imporre ovunque i vari tipi di velo, se non dai movimenti sauditi e afgani, il cui primo bersaglio fu il governo algerino, colpevole di aver impedito agli islamisti di insediarsi al potere, annullando il secondo turno di una consultazione elettorale perfettamente libera?
Si è già dimenticato quanto è accaduto per un decennio in Algeria? Quelle vicende hanno preparato l´irruzione delle reti che avrebbero destabilizzato una parte importante del mondo arabo-musulmano, per poi coprirsi di "gloria" con gli attentati dell´11 settembre 2001 a New York. Come non ricordare che da quel momento in poi tanti giovani musulmani hanno affermato la propria solidarietà con la rinascita dell´epopea vendicativa dei fanatici leader di un certo islam?
Può darsi allora che le eredi dei pionieri di quella frenetica crociata vogliano esibire la pura e semplice volontà di chiamarsi fuori da una società di infedeli e miscredenti. Resta comunque il fatto che anche in assenza di qualunque tipo di violenza, quel loro modo di rinchiudersi significa l´opposto di tutto ciò che rimane valido e bello sotto ogni regime, anche se in declino: la voglia di aprirsi, di condividere, di scambiare gli sguardi. Lo slancio verso l´altro. Il problema non è il velo, è il suo significato. Nulla è più bello di un velo che adorna un volto, come nei quadri dei maestri fiamminghi e italiani. Ma c´è un abisso tra le tombe itineranti di quelle sconosciute, e il velo che sottolineava la bellezza di una Benazir Bhutto: lo stesso abisso che separa il segreto delle tenebre dalla generosità della luce.
Traduzione di Elisabetta Horvat

Repubblica 27.1.10
Aborto, nuovi ritardi per la Ru486
di Michele Bocci

Il medicinale è entrato nel prontuario farmaceutico a dicembre ma non è ancora disponibile in Italia e non può essere più ordinato all´estero

L´azienda francese che la produce: contiamo di essere pronti per la fine di febbraio

ROMA - È entrata nel prontuario farmaceutico a dicembre, ma sarà disponibile solo alla fine di febbraio. Se va tutto bene. La lunga vicenda della Ru486 in Italia è a un nuovo passaggio problematico. L´azienda produttrice, la francese Exelgyn annuncia che potrà distribuire la pillola abortiva ai nostri ospedali solo tra più di un mese. Nel frattempo i reparti di ginecologia che la utilizzavano in base alla legge sull´acquisto all´estero di farmaci non ammessi in Italia si sono bloccate. Il medicinale infatti è formalmente ammesso, anche se non disponibile, quindi quella procedura non è più possibile.
E così si stima che tra il 9 dicembre scorso, giorno della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale della delibera Aifa che dava il via libera alla Ru486, e la fine del prossimo mese saranno tra 250 e 300 le donne che non avranno potuto usare la pillola. Fino al 2009, infatti, in più di mille all´anno sceglievano questa strada per abortire nei reparti di 26 ospedali tra Toscana, Emilia, Puglia, Trentino e Marche. «Molte donne in questi giorni ci chiedono di usarla. Buona parte di loro opta per l´aborto chirurgico, altre vanno all´estero - spiega Nicola Blasi, primario al policlinico di Bari - So di signore pugliesi che sono andate a prendere la Ru486 in Svizzera». Silvio Viale, ginecologo torinese esponente dei Radicali, spiega che dal nord i viaggi verso l´estero sono molti: «Il numero delle donne che avrebbero potuto prendere la Ru486 da dicembre in poi è sottostimato, perché tiene conto solo delle strutture che importavano direttamente. Se ne sarebbero aggiunte almeno altrettante negli ospedali pronti a partire tra cui il mio, il Sant´Anna di Torino, ed altri che mi hanno contattato». Massimo Srebot, primario a Pontedera conferma l´arrivo di molte richieste. «Siamo fermi, di fronte alle donne allarghiamo le braccia - dice - A dicembre, subito dopo la pubblicazione della delibera Aifa, è arrivata una lettera del ministero che ci impediva lo sdoganamento delle Ru486 acquistate in Francia. Adesso ci sono persone che acquistano il farmaco abortivo su Internet. Cosa chiaramente pericolosissima».
Ma perché Exelgyne non sta distribuendo il farmaco nel nostro paese? «Si tratta solo di problemi tecnici - spiega Catherine Denicourt, direttore farmaceutico dell´azienda francese - Prima abbiamo dovuto stampare i foglietti illustrativi in italiano secondo le indicazione dell´Aifa. Adesso aspettiamo i bollini dell´Agenzia del farmaco da mettere sulle scatole. Contiamo di essere pronti alla fine di febbraio».

Repubblica 27.1.10
Pàus, il primo ominide della Pianura padana
di Luigi Bignami

Scoperto lungo il Po vicino a Cremona, smentisce la teoria che i suoi simili vivessero solo in montagna È un esemplare vissuto nel Pleistocene, tra 250mila e 28mila anni fa, insieme a mammuth, bisonti e cervi

I ritrovamenti principali finora erano stati nell´Italia centro- meridionale
Si sarebbe potuto sapere di più se l´osso fosse rimasto nella posizione originaria

Era una giornata durante la quale il fiume Po si stava ritirando, dopo una piena causata da un acquazzone, nella primavera dell´anno scorso. Il giornalista Fulvio Stumpo stava percorrendo un tratto di fiume in prossimità di Cremona quando è stato colpito dalla presenza di un osso che sporgeva da una scarpata argillosa. Lo ha raccolto e lo ha portato al Museo Naturalistico di San Daniele Po, vicino Cremona. «Ci siamo subito resi conto della particolare morfologia del reperto, che richiamava quella di un osso frontale di un Neanderthal», spiega Simone Ravara, direttore del Museo. Dopo una serie di esami, realizzati da un gruppo di ricercatori di varie università italiane, si è giunti alla conclusione che esso appartiene ai nostri "cugini" estinti. È la prima volta che si scopre un fossile di Neanderthal in Pianura Padana. Fino ad ora infatti, i ritrovamenti principali di fossili neandertaliani sono avvenuti in Italia centro-meridionale, soprattutto nel Lazio, in Campania e in Puglia e in poche altre aree della Penisola, ma mai in un´area totalmente pianeggiante come la vasta pianura padana. Come da tradizione gli è stato dato un nome: Pàus, la contrazione di Padus, nella derivazione del sostantivo Po.
«L´osso, che mostra di essere stato trasportato da una corrente fluviale, è fortemente levigato sugli spigoli tranne che su alcune regioni fratturate da non molto, come se avesse subito il recente distacco dalla rimanenza cranica», spiega il paleontologo Davide Persico dell´Università degli Studi di Parma e tra i primi ricercatori ad esaminare il reperto. Al momento non si è ancora potuto analizzarlo a fondo in quanto ha subito una serie di passaggi burocratici. Spiega Persico: «Per adesso possiamo dire che Pàus visse nel Pleistocene in Pianura Padana, in un periodo al momento ancora indefinito tra 250.000 e 28.000 anni fa». Esso era contornato da un´associazione faunistica molto ampia che comprendeva mammuth, orsi delle caverne, bisonti, alci e cervi giganti, che Pàus, molto probabilmente, cacciava e di cui si nutriva. Parti di questi animali sono stati più volte scoperti lungo il Po. «Questo ci lasciava presagire che se il Neanderthal fosse vissuto insieme a quegli animali prima o poi qualche reperto sarebbe stato scoperto», continua Ravara.
Certamente dunque, il ritrovamento di Pàus va annoverato tra le più importanti scoperte paleoantropologiche della Pianura Padana. «Purtroppo però qualche informazione è andata persa a causa della raccolta affrettata. Questo fossile avrebbe potuto raccontare molto di più in quanto era stato osservato in una rara posizione stratigrafica all´interno di una parete argillosa, una condizione straordinaria, non utile per definire la sua età, ma comunque capace di garantire l´individuazione di tempi e modalità di deposito, nonché la possibile provenienza del reperto», spiega Persico.
Ora Pàus inizierà una lunga trafila di esami che da un lato serviranno per datare il Neanderthal a cui apparteneva quel lobo e dall´altro per cercare nuovi indizi sulla storia che li ha portati non solo ad abitare antri e ricoveri naturali, ma anche la pianura più aperta. Forse tutto ciò permetterà anche di aggiungere qualche tassello in grado di spiegare la scomparsa, ancora in gran parte misteriosa, di una specie che ci fu molto vicina.

Repubblica 27.1.10
Galileo in ginocchio davanti al Sant’Uffizio
risponde Corrado Augias

E gregio Dottor Augias, ai Musei Vaticani si è appena chiusa la mostra 'Astrum 2009', organizzata dall'Istituto Nazionale di Astrofisica e dalla Specola Vaticana. L'occasione era l'Anno Mondiale dell'Astronomia, indetto dall'Onu su proposta italiana, per l'anniversario delle prime osservazioni col telescopio fatte da Galileo. Forse sarebbe stato il caso di ricordare anche l'Inquisizione, il processo e l'abiura, ma nessuno dei sei autorevoli presentatori della mostra dal cardinale Tarcisio Bertone al direttore dei Musei Vaticani, Antonio Paolucci ha fatto il benché minimo accenno alle "difficoltà" incontrate dallo scienziato. Si è anzi arrivati a parlare di "profondo spirito di amore per la scienza e di serena fiducia nella sua armonia con la fede". La ciliegina sulla torta l'ha poi messa il Ministro dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca Scientifica che ha aperto il suo intervento con queste parole: "Sono passati ormai 400 anni dal giorno in cui Galileo puntò per la prima volta il suo telescopio verso il cielo. Una rivoluzione per l'osservazione scientifica che aprì la strada al metodo sperimentale...". E basta.
Leonardo Magini l.magini@yahoo.it

L 'occasione e il luogo erano poco indicati per ricordare quei dolorosi precedenti anche se penso che un Papa di grande energia come Giovanni Paolo II avrebbe forse chiesto ai relatori di affrontare l'argomento con un po' più di coraggio. La formula di abiura che il grande scienziato settantenne fu costretto a pronunciare genibus flexis (in ginocchio) sul nudo pavimento, rivestito del saio del penitente, diceva tra l'altro: « Da questo santo Officio mi è stato intimato che dovessi abbandonare la falsa opinione che il Sole sia centro del mondo e che non si muova, e che la Terra non sia il centro del mondo e che si muova, e che non potessi tenere, difendere né insegnare in qualsivoglia modo, né in voce, né in iscritto la detta falsa dottrina; pertanto, volendo io levar dalla mente delle Eminenze vostre e d'ogni fedel Cristiano questo veemente sospetto che giustamente grava su di me, con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li suddetti errori et eresie, e giuro che per l'avvenire non dirò mai più, né asserirò in voce o in iscritto cose tali per le quali si possa aver di me un simile sospetto. E se conoscerò alcun eretico o che sia sospetto d'eresia, lo denuncerò a questo Santo Offizio ovvero all'Inquisitore o Ordinario del luogo dove mi troverò». L'armonia tra scienza e fede era in quel caso smentita dal fatto che secondo le Scritture la Terra è immobile al centro dell'universo; secondo la scienza invece girava attorno al Sole. Fu esattamente quella constatazione scientifica che Galileo venne costretto ad abiurare pur essendo egli convinto che la verità era dalla sua parte.

l’Unità 27.1.10
Per Basaglia
In tv il 7 e 8 febbraio la vita dello psichiatra che affrancò la sofferenza mentale dai manicomi
Impresa riuscita: una vicenda corale per capire la rivoluzione del padre della legge 180
L’antieroe che liberò i matti val bene questo film
di Toni Jop

Franco Basaglia era uno psichiatra veneziano, che ha affrancato la sofferenza mentale dalla prigionia dei manicomi. Prima a Bari, poi a febbraio su Raiuno, il film «C’era una volta la città dei matti». Che coglie nel segno.

C’era una volta Franco Basaglia. E allora? Non è un santo, non è un Papa, non è un grande condottiero ma il suo antieroismo è stato il più potente motore di cambiamento della nostra storia recente: se ne accorgerà il pubblico di Raiuno che per una volta la fiction di prima serata torna sulla terra per raccontare di donne e uomini uniti dalla sofferenza e dal piacere di liberarla. Franco Basaglia era uno psichiatra, un «dottor dei matti» veneziano, e da psichiatra ha distrutto i manicomi, ha affrancato la sofferenza mentale dalla prigionia, ha messo in crisi la sanità, ha messo in crisi la professione, ha messo in crisi la scienza, ha fornito un gancio formidabile alla rivolta contro le istituzioni totali, ha offerto una sponda preziosa al movimento di liberazione che friggeva negli anni Sessanta-Settanta tra le due sponde dell’Atlantico. Tutto qui: dal punto di vista dello spettacolo, diremmo, poco più di niente. Quindi ti aspetti una fiction di questo si parla discretamente noiosa, densa, tra l’altro, di contenuti decisamente fuori-moda nei tempi del pensiero brevissimo berlusco-leghista. E invece, seguiamo i fatti: l’altra sera «C’era una volta la città dei matti» è stato proiettato tra i legni del Petruzzelli di Bari davanti a una platea stracolma. Se l’è accaparrato con abituale fiuto Felice Laudadio, patron del BifEst barese alla sua seconda edizione.Treoredifilm-losivedràindue puntate il sette e l’otto febbraio e neanche un colpo di tosse; alla fine venti minuti di standing ovation, commozione e, ammettiamolo, il cuore più caldo per una vicenda molto corale che si sviluppa sostanzialmente tra due manicomi, Gorizia e Trieste, tappe decisive del lavoro di Franco Basaglia. Regìa intelligente e di gran livello firmata da Marco Turco, sceneggiatura smagliante dello stesso Turco, Alessandro Sermoneta, Elena Bucaccio, Katia Colja; interpretazioni ammirevoli, misurate e in qualche caso entusiasmanti: seguite Fabrizio Gifuni nei panni di Basaglia e proverete l’ebrezza che potevano erogare mostri sacri come Alec Guinness o Peter Sellers. Attendiamo smentite. Niente a che vedere con la qualità alla quale ci ha abituati la fiction, qui siamo a casa del miglior cinema italiano, è un nuovo standard.
PAZIENTI TRITURATI
La vicenda inizia con un «a-prescindere» stravagante e niente realistico: Franco Basaglia dichiara il suo amore a Franca Ongaro ancillare nello svolgimento cinematografico dei fatti ma per nulla a rimorchio nella vita vera, non si può aver tutto e da una finestra veneziana si tuffa in Canal Grande, lei lo segue. Matafora, va bene. Poi, il film riesce miracolosamente a destreggiarsi in un groviglio di situazioni, personaggi, episodi che seguono e rincorrono a grappolo gli spostamenti dello psichiatra da un manicomio all’altro. Quindi, vite di pazienti istituzionalizzati e triturati così come prescriveva la pratica terapeutica prima che Laing, Foucault, Basaglia squarciassero il sipario pazientemente tessuto dal potere su queste realtà atroci. Una «Margherita» finita da ragazza nel tritacarne della «buona scienza» da incanto, grazie alla bravura di Vittoria Puccini, denuda il percorso che portava all’esclusione e alla segregazione.
Ma tutto il film segue un impianto didascalico che tuttavia non appesantisce la dinamica drammaturgica: serve a capire molti passaggi cruciali della storia di Franco Basaglia. Il modo in cui viene estromesso dalla carriera universitaria, il suo rapporto conflittuale con le istituzioni, la fiducia nel «fare», la teoria e la pratica del convincere. Ma anche la politica Franco Basaglia era un «compagno» oltre che uno scienziato e l’Italia di allora. Il suo arrivo a Trieste e il suo lavoro di smantellamento dell’ospedale psichiatrico, la creazione di una rete di servizi territoriali superando la diffidenza della popolazione, l’incessante collaborazione di formidabili psichiatri (da Rotelli a Dell’Acqua)e di altrettanto formidabili infermieri per far sì che si realizzasse la sola grande rivoluzione che l’Italia possa contare nel suo dopoguerra. Il ruolo decisivo del Pci, quello non meno importante dei radicali, l’allargarsi su scala planetaria della fama dell’esperienza triestina. La legge che abolì i manicomi (la 180 del ‘78), il passaggio di Basaglia nella complessa realtà romana, la sua morte prematura e raggelante (1980). Nessuna scorciatoia epica, solo fatti, rinominati ma semplicemente veri, accaduti.
Per questo, alcune scene possono risultare forti, impegnative ma conviene guardare senza chiudere gli occhi. «Ci pensavo da tempo racconta il regista mi pareva un’impresa quasi impossibile, ma devo ringraziare il coraggio di Claudia Mori che ha deciso di produrre una scommessa così impegnativa. Franco Basaglia per me era un mito, la sua presenza andava ben oltre l’ambito psichiatrico, ho cercato di far parlare i fatti, i personaggi che lo hanno circondato». Fabrizio Gifuni riflette: «In questo film viaggia un messaggio nettamente in controtendenza rispetto alla cultura oggi egemone: l’esperienza di Basaglia dice che cambiare è possibile, che si può fare se si sta insieme, se si lavora insieme, se si libera il nostro cervello». ❖