l’Unità 31.1.10
Bonino-Vendola nel Pd?Ma se piacciono proprio perché restano fuori...
La giornalista contesta l’idea lanciata su l’Unità da Manconi: I due neanche si somigliano... È Nichi il vero innovatore
di Rina Gagliardi
«Vendola e Bonino nel Pd», propone Luigi Manconi. Non condivido (allo stato dell’arte) questa prospettiva, ma la riflessione di Manconi mi è parsa comunque molto interessante. La riassumo con parole mie: poiché i confini tra le forze politiche del campo democratico e progressista si son fatti molto fluidi, e poiché queste stesse forze a loro volta si son fatte quasi “liquide”, che senso ha tenere in vita raggruppamenti che al momento non vanno oltre il 3 per cento? Perché dunque la gente della sinistra non sceglie l’ingresso organico nel “Partitone”, magari anche per farlo diventare una sorta di “casa comune”, appunto, dei progressisti e di tutti coloro che vogliono cambiare (in meglio) l’ordine delle cose? Ripeto: una tesi non convincente, ma plausibile. Essa però si presta, prima di ogni altra considerazione, ad almeno due obiezioni analitiche.
La prima è la (relativa) improprietà della coppia Bonino-Vendola. È vero che c’è un filo comune, anche rilevante, tra la leadera radicale e il presidente della Puglia: entrambi sono candidati esterni al Pd, entrambi sono fortemente caratterizzati, ed assai spiazzanti. Ma qui cominciano differenze non lievi: nel metodo (il consenso alla Bonino non è passato attraverso le primarie) e soprattutto nella personalità politica. Nichi Vendola incarna una sinistra radicale e nuova, anzi “innovata”, ricca di un legame non reciso con la storia del movimento operaio. Emma Bonino rappresenta, nell’immaginario, il valore della laicità e delle battaglie per i diritti civili ad essa connesse, ma non è agevolmente definibile come una personalità della sinistra – per la sua cultura liberista e marcatamente anglosassone. Non vorrei dilungarmi più di tanto: mi sento di poter dire con una certa sicurezza che la percezione che l’elettorato di centro-sinistra ha di “Vendola & Bonino” non è la stessa. Non mi pare, insomma, che la condizione “extra-Pd” configuri, di per sé, quasi una nuova identità, come sembra di capire dall’articolo di Luigi Manconi.
La seconda obiezione riguarda, ancor più radicalmente, la lettura della dinamica concreta di queste candidature. Qui ragiono soprattutto sulle primarie pugliesi. Siamo così sicuri che nello straordinario successo ottenuto da Nichi Vendola non sia intervenuta anche la sua condizione di autonomia dal Pd? Che il consenso di cui gode, anche presso l’elettorato del Pd, non sia legato anche alle garanzie di indipendenza e radicalità che egli può dare? Io credo proprio che sia così. E non mi riferisco, naturalmente, al fatto che Vendola sia il portavoce di “Sinistra ecologia e libertà” – mi riferisco, piuttosto, alla connessione virtuosa che si è stabilita tra il “Governatore” pugliese e il popolo di sinistra anche in virtù del fatto che egli è percepito come un politico autonomo e unitario. Libero nel senso di non “impastoiato” nei complessi e duri equilibri interni di un pur grande partito. Faccio un’affermazione che pure non sono in grado di dimostrare: se Vendola si fosse presentato a queste primarie come componente del Pd non avrebbe ottenuto lo stesso consenso. Né avrebbe mobilitato (nelle stesse dimensioni) proprio quell’ampia porzione di elettorato (di cui parla Manconi) di centro-sinistra che sta, se così si può dire, “in mezzo” – un po’ fluttuante tra voti utili (di testa) e voti di cuore. Mi sbaglio? Ma questo ragionamento vale anche per la candidatura di Emma Bonino: il fascino che lei è in grado di esercitare (qui tornano le somiglianze) sull’elettorato di centro-sinistra (ma anche su quello moderato) è anch’esso legato alla sua condizione di “esternità” al Pd. E anche, certo, alla sua (più che fondata) immagine di coerenza e “irriducibilità” extracastale.
E dunque? Dunque, finché il Pd restaquelcheoggiè(enonè),alPd stesso non sarebbe, nient’affatto, di giovamento quella sorta di “imbarcata” generale prospettata da Manconi. Io credo anche, s’intende, chel’esistenzadiunaforzadisinistra – semplicemente di sinistra – resti un obiettivo (quasi) irrinunciabile. Ma questo è un altro discorso. Intanto, teniamoci strette queste esperienze di “autonomia e unità” (dal Pd e con il Pd) che forse il 28 marzo ci consentiranno qualche bella soddisfazione – come diceva il compianto Mike Bongiono.
P.S.: Possibile che un analista acuto come Luigi Manconi non si sia accorto che il linguaggio di Nichi Vendola è anch’esso parte essenziale, oltre che della persona, della sua invidiabile capacità di comunicazione?❖
l’Unità 31.1.10
De Magistris presenta il suo libro con Vendola e il direttore dell’Unità
«Al meridione può nascere un antiberlusconismo di popolo»
Il magistrato e il governatore: «Se parte il Quarto Stato del Sud»
di Mariagrazia Gerina
Prove di dialogo. L’ex magistrato denuncia i limiti del «giustizialismo», il governatore rosso ammette che «bisogna fare i conti anche con la questione morale dentro di noi». A dividerli resta il giudizio su Craxi.
Luigi De Magistris lo disegna con un tratto naif come «il Quarto Stato che avanza»: «Un grande movimento di popolo, plurale, fatto di persone che sognano un partito diverso». Nichi Vendola lo vede già come «l’altro Sud che, schiena dritta e occhi al cielo, prova a capovolgere Gomorra». Un movimento, una rete. Un laboratorio. Dove far nascere invoca Vendola «parole capaci di convocare un popolo non manipolato, un vocabolario della speranza e del cambiamento». Qualunque cosa sia lo vogliono costruire, insieme, a partire dal Sud. L’ex magistrato dell’Idv che alle europee ha fatto il pieno dei voti al Sud. E il governatore rosso che nella sua Puglia ha appena raccolto le istanze di un popolo ben più vasto della Sinistra e libertà di cui è portavoce. Al Piccolo Eliseo di Roma, una settimana dopo le primarie pugliesi e pochi giorni prima del congresso dell’Idv, sono tutti e due lì a cercare un lessico comune. De Magistris che cita Gramsci e Berlinguer, Rosarno e l’articolo 1 della Costituzione. E Vendola che parla all’Italia di Saviano e del giudice Livatino. L’ex magistrato non lo segue solo quando prova ad aprirsi un varco sul Craxi di Sigonella e del caso Moro, per dire che la sua «uccisione simbolica» ha congelato i conti con Tangentopoli.
Occasione del dialogo: la presentazione con Concita De Gregorio del libro di De Magistris, Giustizia e potere (Editori riuniti). Ma la folla che si accalca è la spia che la posta è più alta. Fan, elettori insoddisfatti, delusi: dal Pd, da SeL o dall’Idv, non importa. Un pezzo di quell’Italia che è già scesa in piazza per il no-Bday. E che i due leader provano a intercettare, lasciando intravedere la possibilità di un progetto politico comune. Alternativo a Berlusconi ma anche al «berlusconismo che ha infettato la sinistra». Al Pdl ma anche a future maggioranze, guidate da Casini, Gianni Letta o Fini, già “elette” dai poteri forti. «Perché va bene il voto moderato ma ci vuole anche il cambiamento». Capace di correggere i limiti del giustizialismo. E di parlare di acqua e nucleare, per dire no alle privatizzazioni e al ritorno di «vecchie ideologie che ci vogliono avvelenare».
Perché se Berlusconi è il perno attorno a cui ruotano i ragionamenti, quello che i due si sforzano di declinare è un nuovo anti-berlusconismo. «Senza odio» e consapevole che la «questione morale è dentro di noi, bussa alla nostra porta e noi stessi dobbiamo fare i conti con le ombre delle esperienze di governo di centrosinistra», scandisce l’anti-Berlusconi pugliese. Che si rappresenta implacabile contro «il presidente del consiglio che proprio a Bari è clamorosamente inciampato in una singolare epopea di ninfe, cantastorie e meretrici». Ma anche contro «il nemico interno» che ha il volto del «cinismo e del disincanto».
E il Pd che ruolo ha in tutto questo? «È un interlocutore fondamentale», dice Vendola. «Anche se guarda caso rimarca De Magistris l’intesa con l’Idv il Pd non l’ha trovata proprio in Campania e in Calabria, dove è caduto sulla questione morale». Ma il problema non è «il Pd che verrà», guarda oltre le divisioni Vendola: «è anche l’Idv o la SeL che verrà, tutti siamo specchio della crisi». La soluzione? «Avere l’umiltà di metterci in rete».❖
il Fatto 31.1.10
Vendola e de Magistris: prove di dialogo davanti a platea romana
di Luca De Carolis
Il trionfatore delle primarie e l’ex magistrato scomodo, seduti l’uno accanto all’altro. Uniti dall’affetto della gente e dal progetto di “un’alternativa al berlusconismo”, ma divisi su Craxi, ormai inevitabile pietra di paragone per la politica. La sua storia vale giudizi diversi per Nichi Vendola e Luigi de Magistris, ieri a Roma per presentare il libro dell’europarlamentare dell’Idv, “Giustizia e Potere”, appena uscito per Editori Riuniti. Ma nel Piccolo Eliseo, stracolmo anche in un piovoso sabato mattina, l’attesa era quasi tutta per Vendola, come ha dimostrato l’ovazione da stadio con cui è stato accolto.
Troppo forte la voglia di celebrare un testardo di successo, che riempie il dibattito con le sue parole forbite e trancianti: “L’Italia è in via di putrefazione, sta smarrendo i propri codici civili”. L’esordio di una tirata in cui Vendola elenca incubi e miserie, partendo da quella Rosarno “dove lo Stato ha riportato l’ordine mafioso che domina da sempre nelle campagne, deportando gli immigrati che avevano alzato la bandiera della legalità”. L’imputato principale ovviamente è Berlusconi, perché “la sua equazione immigrazione uguale delinquenza vale come una sentenza, un processo breve”. Vendola ringhia contro “l’impudicizia del potere e il meretricio generalizzato”, e semina risate quando infierisce sul caso d’Addario: “Ber-
lusconi ha ritoccato il mito di Dioniso, passato da Wagner ad Apicella”. Concita De Gregorio, direttrice de l’Unità e moderatrice del dibattito, chiama in causa de Magistris. E l’ex magistrato precisa subito: “Ho chiamato Vendola per questo incontro prima delle primarie pugliesi, e mi è costato anche all’interno del mio partito”. La conferma che Di Pietro e una fetta consistente dell’Idv non stravedono per il leader di Sinistra e Libertà. Ma de Magistris ha tirato dritto: “Abbiamo differenti posizioni politiche, ma Nichi è un politico che si rivolge al popolo senza i populismi di Berlusconi, uno che sa mettersi in gioco”. Anche l’europarlamentare si sofferma su Rosarno: “I calabresi non sono razzisti, lo so perché ho lavorato nella loro terra. Ma a Rosarno c’è stata la convergenza tra Stato e ‘ndrangheta”. Poi un passaggio su Craxi: “Lo vogliono riabilitare per delegittimare Mani Pulite e per salvare Berlusconi. Tutti sanno che controlla tutti i mezzi di informazione grazie ai suoi rapporti illeciti con l’ex leader socialista”.
Applausi scroscianti. Vendola non fa una piega, ma quando il discorso plana sulla “questione morale” piazza i suoi distinguo: “Riguardo a Craxi, ci sono dei punti che mi rendono più problematici certi ragionamenti manichei. Penso alla vicenda di Sigonella”. Il Craxi che nel 1985 sbarrò la strada agli americani, pronti allo scontro armato pur di ottenere i sequestratori palestinesi dell’Achille Lauro, piace a Vendola: “Il suo fu un atto di autonomia, che dimostrò come non fosse necessario mettersi in ginocchio davanti agli Stati Uniti”. La sala si fa silenziosa, ad applaudire sono in due, forse tre. Qualcuno bofonchia. Ma Vendola insiste, e cita il caso Moro: “Craxi ruppe il fronte della fermezza, mettendo la sacralità della vita davanti alla ragione di Stato. Proprio quel principio di cui Moro parlava nelle sue lettere dalla prigionia”. De Magistris non replica, De Gregorio fa domande sull’acqua e sul nucleare. All’uscita, Vendola celebra un’altra irregolare: “Emma Bonino è una personalità straordinaria, vincerà la sua battaglia nel Lazio perché è la bandiera dei valori costituzionali”.
il Fatto 31.1.10
Bugie in classe
La stampa ha annunciato che la riforma delle superiori era passata. Non è vero. E in quei regolamenti è assente un progetto culturale per la scuola
di Marina Boscaino
A metà di questa settimana stampa e tv si sono incaricato di annunciare al Paese che la riforma delle scuole superiori era passata. Non è vero. Aveva ragione il ragazzo che qualche giorno fa, in una lettera su questo giornale, denunciava il disinteresse dei media: la dismissione della scuola della Costituzione è sotto gli occhi di tutti, ma nessuno sembra interessarsene, persino accorgersene. Per quel ragazzo e per gli scettici, refrattari agli annunci del Tg di Minzolini: a metà della settimana la Commissione Cultura del Senato ha approvato (con una serie di raccomandazioni) i regolamenti della “riforma Gelmini” per un voto, quello di un senatore Udc. Analogo parere era stato espresso alla Camera. Secondo procedura, sui regolamenti di licei, istruzione tecnica e professionale, si erano anche espressi il Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione e la Conferenza Unificata Stato-Regioni: entrambi i pareri sono stati negativi. Si è poi pronunciato il Consiglio di Stato, prima negativamente, in dicembre; poi positivamente, in gennaio, con riserve però giuridicamente così sostanziali (ad esempio sull’intenzione di intervenire in alcuni ambiti con decreti “aventi natura non regolamentare”; o sull’eccesso di delega) da sollevare, in un esecutivo competente e responsabile, dubbi sulla possibilità di iniziare dal prossimo anno scolastico. Tanto più che il mondo della scuola non è stato minimamente consultato. Invece il Governo va avanti: “Quei pareri sono obbligatori e non vincolanti; è già tanto sembrano volerci dire che celebriamo l’iter prescritto. Non pretenderete che addirittura teniamo conto di quanto ci viene segnalato!”.
E così, alla fine, prima o dopo, regolamenti claudicanti, rozzi, iniqui, che ritornano a una scuola di almeno 40 anni fa, che sono nati dall’art. 64 della l.133/08 (“Contenimento della spesa per il pubblico impiego. Disposizioni in materia di organizzazione scolastica”) passeranno in seconda lettura in Consiglio dei Ministri e poi alla Corte dei Conti, per essere infine pubblicati in Gazzetta Ufficiale. Il tutto, probabilmente, ad iscrizioni scadute. Solo allora – cari media che avete gridato alla “riforma” – saranno legge: questo prevedono le legittime procedure giuridiche della Repubblica Italiana. Solo allora passerà una riforma motivata – insisto – da quella legge, confluita nella Finanziaria 2009: taglio, nel triennio 2009-12, di 7.6 miliardi di euro sulle spese della scuola pubblica, con tanto di eliminazione di 135.000 posti di lavoro. Quella stessa che ha fatto optare (contro ogni evidenza formativa) per il maestro prevalente e messo in discussione il tempo pieno alla primaria.
Rispettare le previsioni di taglio per il prossimo anno scolastico: da qui la fretta disperata per far approvare i regolamenti, che tagliano cattedre, tempo scuola, diritti – e quindi crescita ed emancipazione per il Paese – riducendo la superiore alla caotica rappresentazione della pochezza politica e della spregiudicatezza di coloro che ci governano. Sarebbe un errore affermare che la scuola rappresentata in quei regolamenti non corrisponda ad un progetto culturale: l’assenza è il progetto medesimo. Estinzione di tutte le sperimentazioni, che hanno rappresentato in molti casi esperienze felici di crescita di professionalità e di apprendimenti; eliminazione di saperi fondamentali (Geografia, di cui si parla in questi giorni, non è che uno degli esempi); esproprio dell’autonomia scolastica; demolizione dell’idea di biennio unitario, con competenze garantite e comuni a tutti, per realizzare davvero l’obbligo scolastico; un’ istruzione per i nati bene (licei) e un’altra per i figli di un dio minore; frammentazione dell’unitarietà del sistema scolastico nazionale, con la regionalizzazione: sono alcuni degli ingredienti per sottrarre scientemente alla scuola la sua straordinaria forza di inclusione democratica e di crescita della cittadinanza e il suo mandato costituzionale. Questo il piatto che ci stanno preparando. Ma, per favore, non dite che è già pronto.
il Fatto 31.1.10
Oltre il 27 gennaio
Il giorno della memoria, la Lega nord e i razzismi di ritorno
di Maria Laura Cecchini
I l “Giorno della memoria” è stato sottolineato un po' ovunque, ma non possiamo negare l'aspetto un po' scontato e rituale; calato in un atmosfera di generale freddezza, accompagnata nel nostro paese da alcuni segnali di disagio da parte della comunità ebraica, soprattutto legati all'operazione in atto di beatificazione di Pio XII; importante invece l'esperienza educativa per i giovani studenti e l'omaggio anche adulto della partecipazioni alle celebrazioni di Auschwitz. Non possiamo purtroppo negare che, accanto alla marginalità di poche scritte e segnali razzisti di stampo neo-nazista, si vada diffondendo nel nostro paese, assai più che nel resto d'Europa una crescente ostilità diffusa verso il diverso, identificato generalmente con l'immigrato. Gli esponenti della Lega hanno sponsorizzato la politica delle espulsioni di massa, vantandosi di sapere, loro sì, ascoltare la gente, puntando soprattutto sulla “sicurezza”, che sembra essere divenuta la parola magica attraverso la quale i voti arrivano copiosamente. Non si sa bene però, se con l'aiuto della crisi economica e la sofferenza sociale che ne consegue, all'origine vi sia di più il malcontento della popolazione, o invece la politica della Lega, che cavalcando e contemporaneamente stimolando l'odio sociale, la dirotta verso gli immigrati. Cosa c'è di meglio per distrarre la collera degli operai, degli artigiani, della gente che dirottarla contro gli immigrati cavalcando l'odio della popolazione contro di loro? L'antisemitismo era già servito alla fine dell'800 in piena crisi economica, quando le potenze europee cavalcavano il nazionalismo protezionistico e la gara coloniale, avviandosi velocemente verso la prima guerra mondiale; e dopo l'avvento del fascismo e la grande crisi del '30 si vide l'ascesa di un oscuro razzismo che fin dal dopo guerra, gridava al complotto dell'Europa contro la Germania e additava negli ebrei il nemico da abbattere. Hitler, con l'inflazione altissima che travolse la Germania, trovò la strada maestra verso il potere attizzando l'odio dei tedeschi prima contro i nemici interni, ebrei e comunisti; e infine cavalcando il mito della super-razza, sempre scagliandosi contro tutti i diversi, compresi i Rom e gli handicappati, attaccò tutta l'Europa con una nazione super militarizzata e ubriacata dalla miscela anti-semita; già, ancora l'anti-semitismo: allora sarebbe stata la finanza ebraica che avrebbe affamato la Germania, di qui le leggi razziali e la politica dello sterminio. Nel “Giorno della memoria” lo scrittore premio Nobel Wiesel è stato ricevuto e ospitato dal nostro Parlamento: l'introduzione al suo intervento è stata fatta da Fini egregiamente, che da tempo cerca di smarcarsi dalle politiche della Lega contro l'immigrazione, specialmente dopo l'incarico dato a Gheddafi di “occuparsi” degli espulsi, senza verifiche di come questi, dirottati in Libia, vengano trattati. Nemmeno di come finivano gli ebrei si sapeva più nulla. Sparivano e basta. Durante il discorso di Wiesel è risuonata a lungo la parola perchè? Già, perchè? Perchè in seguito a certe politiche le società cambiano in peggio, l'aggressività cresce e cala il controllo democratico per cui possono accadere mostruosità senza che la popolazione se ne accorga o se ne voglia accorgere?
Repubblica 31.1.10
Ecco i nuovi medici la carica dei 15.000 "camici" stranieri
"Ma l´Italia non ci aiuta". Ogni anno 500 in più
di Vladimiro Polchi
La denuncia dei professionisti: troppe difficoltà per partecipare ai concorsi
Lavorano soprattutto in Lombardia e Lazio E molti provengono dall´Europa dell´est
ROMA - Maria fa il medico. Lavora sulla costa laziale, vicino a Ladispoli. È brava nel suo lavoro e da libero professionista ha molti pazienti, italiani e immigrati. Maria ha un nemico: si chiama burocrazia. Quella che ha dovuto affrontare per farsi riconoscere la laurea in medicina. E quella che ancora le chiude le porte dei pubblici concorsi. Maria Braniste infatti ha un problema: non è italiana, è moldava. E come lei sono tanti i camici bianchi stranieri che lavorano nel nostro Paese: circa 15mila.
Quella di Maria è una storia di immigrazione qualificata, anni luce lontana dalla clandestinità. I medici stranieri iscritti all´Ordine in Italia sono 14.548, di cui il 42,3% donne (dati Emn Italia). Erano 12.527 nel 2004 (con un aumento di 500 nuovi camici l´anno). Lavorano per lo più al Nord (52,2%) e al Centro (26%). Si concentrano soprattutto in Lombardia, Lazio, Emilia Romagna e Veneto. Da dove arrivano? Da Germania (1.276), Svizzera (869), Grecia (851), Iran (752), Francia (686), Venezuela (626), Usa (618), Argentina (564), Romania (555) e Albania (451). A loro si aggiunge poi l´esercito di infermieri immigrati che lavora per la nostra sanità: 35mila, di cui 8.500 romeni.
Due sono le ondate che hanno portato schiere di medici stranieri ad esercitare nel nostro Paese: la prima, composta da studenti che sono venuti a laurearsi in Italia, proviene da Iran, Grecia, Palestina, Giordania; la seconda, successiva al crollo del muro di Berlino, arriva dall´Europa dell´est ed è fatta per lo più di medici già laureati nel Paese d´origine.
Della prima ondata fa parte Teofilo Mukeba Katamba, nato in Congo nel 1949, arrivato a Roma nel 1975 per studiare medicina. Oggi Katamba, sposato con un´italiana, tre figli, fa il neurochirurgo ed è un esperto di bioetica: «Sono stato spesso discriminato, prima all´università, poi nelle cliniche private - racconta - e oggi lavoro come libero professionista, solo grazie al passaparola dei miei pazienti, perché non ho alcuna collaborazione da parte dei medici di famiglia italiani».
Meglio è andata a Abo Abbas Jamal, siriano, arrivato nel 1969 a Bologna per studiare medicina. Jamal è oggi un pediatra di base a Roma, ha la cittadinanza italiana e cura un progetto con alcune università per lo sviluppo dell´oncologia in Siria. «Noi orientali - sostiene - diamo una grande attenzione all´ascolto e al dialogo e questo con i pazienti è sicuramente un valore aggiunto».
Baleanu Petre Mihai è invece arrivato con la seconda ondata. Romeno, è entrato in Italia nel ‘90, già laureato. Oggi si occupa di chirurgia del piede: «Sono venuto in Italia alla ricerca di un Paese più libero e democratico - racconta - e non perché mi mancava il lavoro. Ho lavorato inizialmente a Roma come infermiere in una clinica e facendo assistenza domiciliare. Non ho mai avuto un contratto lavorativo, ma ringraziando Dio, il lavoro non mi è mancato. Non ho frequentato comunità straniere nella ricerca di un identità, perché ho sempre considerato fondamentale per integrarsi imparare bene la lingua e le abitudini del popolo italiano». Per farsi riconoscere la laurea, Mihai ha dovuto però ripetere l´ultimo anno di medicina in un´università italiana (a Chieti).
Dal 1989 (legge Martelli), infatti, un medico extracomunitario che voglia lavorare in Italia o si iscrive di nuovo all´università o fa domanda di riconoscimento al ministero della Salute. «È quello che ho fatto io - ricorda Maria Braniste - ma l´iter burocratico è stato lunghissimo e il decreto del ministero è arrivato solo dopo due anni». Non solo. «In quanto extracomunitaria non ho accesso al pubblico impiego». Questo è il punto dolente: «Senza la cittadinanza i medici extracomunitari non possono fare concorsi pubblici - spiega il dottore Foad Aodi, palestinese, presidente dell´associazione medici d´origine straniera in Italia (Amsi) - e questo ha impedito a molti di inserirsi veramente. Noi siamo per un´immigrazione qualificata, che è l´opposto di quella irregolare, ma chiediamo che dopo cinque anni di lavoro legale in Italia si possa finalmente accedere ai concorsi pubblici». Anche perché «se le iscrizioni annuali a medicina continueranno a essere 6.200 l´anno, presto l´Italia avrà un gran bisogno di camici stranieri».
Liberazione 30.1.10
Burqa che confusione
Ma una cosa è certa: la legge non serve
di Tonino Bucci
In Francia la proposta di una legge antiburqa nei luoghi pubblici raccoglie consensi trasversali, dalla destra gollista alla sinistra comunista, tutti accomunati dall'identificazione nei valori di laicità della Repubblica (una cosa seria per i francesi, si sa). Motivazioni diverse, certo. C'è chi vuol criminalizzare il burqa per un senso tronfio di immedesimazione nella grandeur francese. C'è chi è convinto che la storia e le istituzioni della Francia siano il punto più alto raggiunto dal genere umano nel tempo e che sia una via obbligatoria dover integrare, anzi assimilare lo straniero nel proprio modello di cittadinanza, sia pure a colpi di decreti e di leggi. E c'è anche però chi si riconosce in una sorta di illuminismo radicale e laico che vorrebbe riconoscere un diritto universale alla cittadinanza, quale che sia il sesso, la religione e la condizione economica. Vero, non si può ignorare che il burqa e il niqab, cioè i veli integrali, siano in molti casi frutto di imposizione alle donne, una barriera tra il loro corpo e il mondo messa lì da un'autorità maschile. Vero anche, forse, che molte situazioni della vita pubblica, dall'uso della carta di credito alla richiesta dei documenti, impongono la riconoscibilità. Ma ammesso che le cose stiano così, è plausibile immaginare che un colpo di legge tutto si risolverebbe come d'incanto? Non è invece più probabile che un divieto imposto per decreto spingerebbe molte donne a esibire il burqa proprio come segno orgoglioso di diversità? E, ancora, vale davvero la pena stabilire una legge per un numero esiguo (in Francia e, a maggior ragione, da noi in Italia) di donne in burqa? E, infine, in cosa dovrebbe consistere la sanzione?
Se questi sono i dubbi per quanto si va discutendo in Francia, ben più penoso è il simulacro di dibattito che s'è avviato anche in Italia. La ministra Carfagna e la Lega si sono subito accodati alla linea Sarkozy. Qui di progressista neppure l'apparenza, perché sotto la propaganda di chi dice di agire per il bene delle donne musulmane, c'è solo l'islamofobia, una pulsione aggressiva da scontro di civiltà. «Trovo stucchevoli e in mala fede - commenta l'antropologa Annamaria Rivera, docente all'università di Bari - queste fiammate ricorrenti di furore "laicista", sempre propagandistiche, sempre strumentali a strategie o scadenze elettorali. Tanto più che il fenomeno burqa e niqab in Francia è assolutamente marginale, in Italia quasi inesistente. E trovo grottesco che da noi a proporre di "fare come la Francia" siano quegli stessi personaggi che invocano una nuova Lepanto contro l'islam e difendono le "radici cristiane" con argomenti per lo più fondamentalisti. A mio parere, non ha molto senso neppure discutere se burqa, niqab, chador o hijab - sempre confusi in Italia - siano dei simboli religiosi. A volte sono solo convenzione, tradizione o addirittura, in qualche caso, una scelta anticonformista. E' vero, invece, che in Europa quanto più sono oggetto di scandalo e di proibizione, e nel contesto di campagne antimusulmane, tanto più possono essere esibiti come simboli identitari. Sono temi che ho sviscerato cinque anni fa ne La guerra dei simboli . Rispetto ad allora non si è fatto un passo avanti».
«In questi anni va di moda prendere di mira il target musulmano - a dirlo è il sociologo Adel Jabbar - spesso, non dobbiamo nascondercelo, c'è un uso strumentale. Com'è possibile, mi chiedo, che la politica, con tutti i problemi che ci sono, investe tanto tempo a occuparsi del burqa? Io penso che sia una scorciatoia per raccogliere voti. Di fatto questi approcci alla questione finiscono per alimentare un clima da scontro di civiltà. Così si alzano muri». «Il burqa - dice Alessandra Mecozzi, responsabile internazionale della Fiom - riguarda una minoranza sparuta di donne musulmane residenti in Francia. In Italia non ne parliamo neppure. Non c'è il senso della misura. E' un errore usare la mannaia della legge, fosse pure in nome dei valori della Repubblica, come dicono i francesi, o dei diritti universali delle donne che mi pare il tema centrale. In ogni parte del mondo i diritti sono stati sempre conquistati con le lotte. Le donne ci devono arrivare a partire da sé».
Ma anche a voler prendere per buone le motivazioni dei laicisti e di quanti/e sollevano il tema dell'oppressione delle donne, quali effetti pratici avrebbe una legge? «Come potrebbe una legge - risponde Alessandra Mecozzi - proibire di fatto che alcune donne se ne vadano in giro nei luoghi pubblici vestite col burqa? E se alla fine l'unico effetto è che le donne resterebbero in casa? La legge è uno strumento troppo rozzo per affrontare un tema così complesso. Non voglio dire che non esista per tutte le donne il diritto a essere libere e andare vestite come credono, ma ci si deve arrivare per gradi e tappe e attraverso le lotte. In questa vicenda scorgo una grande ipocrisia. Prima si fanno leggi orribile contro l'immigrazione, si alimenta il razzismo istituzionale e quello di massa, e poi improvvisamente ci si dichiara paladini delle donne musulmane». Altra risposta quella di Annamaria Rivera. «Quei "comunisti" (in Francia) e quelle femministe (ovunque) che hanno sostenuto la legge contro il foulard islamico e oggi ne vorrebbero un'altra contro burqa e niqab in fondo hanno un'idea stereotipata ed etnocentrica dell'islam e della liberazione femminile: dietro il primo vedono sempre l'ombra dell'integralismo e concepiscono la seconda solo come applicazione ed estensione del modello liberale (o forse certi "comunisti" francesi hanno nostalgia di quello sovietico). Siamo arrivati al paradosso per cui sembra più moderato Le Pen: sostiene che sarebbe sufficiente l'applicazione delle norme di ordine pubblico che proibiscono di circolare a volto coperto. E i socialisti francesi che si oppongono a una nuova legge proibizionista sono gli stessi che inaugurarono il percorso legislativo che condusse alla legge contro il "velo". E' un falso dibattito, tutto strumentale alle prossime elezioni regionali che non a caso arriva sull'onda dell'altro dibattito sull'identità nazionale, sempre in Francia, voluto dal ministro dell'immigrazione, che sta diventando una campagna contro i francesi di origine straniera, musulmani in testa».
Il rischio è che ci si incarti nella contrapposizione tra un partito dell'assimilazione che in nome dei diritti universali ritiene giusto anche il ricorso a una legge e un partito del relativismo che relega il burqa a differenza culturale. «A me - spiega Alessandra Mecozzi - questa contrapposizione suona un po' falsa. Messa così è un dibattito che vola sulla testa delle donne. Spetta a loro conquistarsi i diritti». Sulla stessa lunghezza d'onda anche Annamaria Rivera. «Non la vedo esattamente così. L'universalismo invocato da chi auspica leggi proibizioniste è del tutto particolarista: si ritiene che un capo o un corpo femminili troppo coperti siano un'offesa alla dignità delle donne e non si vede quanto siano offensive l'appropriazione e mercificazione dei corpi femminili, e l'obbligo della nudità o della quasi-nudità. D'altra parte, non è necessario essere relativisti per opporsi a leggi proibizioniste tanto stupide. Basta essere saggi/e e in buona fede. Proprio la legge francese contro il "velo" dovrebbe insegnare che non è così che "si liberano le donne". A che è servita se non ad alimentare rancore e a dirottare un buon numero di studentesse d'ambiente musulmano dalla scuola pubblica alle scuole confessionali? E poi la strada del proibizionismo è senza fine: ieri la legge contro il velo, oggi quella contro il burqa, domani, chissà, una legge contro la tunica o la gonna lunga». Per Adel Jabbar non si tratta tanto di negare l'esistenza del problema. «Non dico che non occorre intervenire, ma non è di leggi e divieti che c'è bisogno. Occorrono altri interventi culturali ed educativi nei territori di residenza. Servizi sociali, gruppi di donne, insomma far incontrare le persone, creare un clima di fiducia e di relazioni con i diretti interessati. Altrimenti, questa modernità sbandierata, a volte in nome della laicità, a volte in nome delle donne, diventa pretesto per un attacco al mondo musulmano. In Italia i più accaniti vorrebbero eliminare non solo il burqa, ma anche moschee, minareti e luoghi di culto. Le organizzazioni musulmane in Italia sono tutte contrarie all'uso del burqa. Il problema non sussiste. Gli interlocutori ci sono. Partiamo da qui».
il Fatto 31.1.10
I desaparecidos non dimenticano le colpe di Videla
L’ex dittatore argentino chiamato in causa per una vittima tedesca
di Anna Vullo
Un moto di fastidio, un gesto nell’aria con la mano, come a voler scacciare una mosca.
Chi l’ha conosciuto da vicino è pronto a scommettere che Jorge Rafael Videla deve aver reagito più o meno così all’ultima accusa che lo riguarda. Si tratta della sparizione e dell’omicidio, nel 1978, di un cittadino tedesco, Rolf Nasim Stawowiok, per il quale la Procura di Norimberga ha emesso un mandato d’arresto internazionale nei confronti dell’ex capo della giunta militare che governò l’Argentina tra il 1976 e il 1981.
La vittima allora era un ragazzo. Aveva vent’anni e come migliaia di suoi coetanei militava nella gioventù peronista. Con la differenza che aveva la doppia cittadinanza, argentina e tedesca. Scomparve nel nulla un giorno del febbraio di 32 anni fa. Probabilmente venne spinto a forza in una patota, le Ford Falcon che i militari usavano per sequestrare i presunti oppositori al regime. Quindi venne fucilato e gettato in una fossa comune nel cimitero di Lomas de Zamora, a sud di Buenos Aires.
Per anni quello di Stawowiok è rimasto un corpo senza nome. Fino al 2004, quando l’equipe argentina di antropologia forense che da anni tenta di ricostruire l’identità dei desaparecidos ha permesso, grazie a un test del Dna, di riconoscere i resti della vittima e stabilire le cause della sua morte. Consentendo così la riapertura del caso.
Jorge Rafael Videla è detenuto dal 2008 nel carcere militare di Campo de Mayo, alla periferia di Buenos Aires, dove dovrebbe scontare l’ergastolo per il rapimento sistematico di neonati nati nei campi di detenzione illegali negli anni della cosiddetta guerra sporca. Una prigione dorata, secondo i familiari dei desaparecidos e i sopravvissuti ai campi di tortura, dal momento che si tratta di un carcere militare dove è plausibile che non gli vengano negati trattamenti di favore. L’ex militare era già stato condannato all’ergastolo nel primo processo alla giunta dell’85, dopo il ritorno della democrazia, ma nel 1990 l’allora presidente argentino Carlos Meném gli aveva di fatto concesso l’indulto.
Nel ’98 fu arrestato di nuovo. Venne trascinato fuori di casa in manette in una giornata grigia e ventosa e rinchiuso in un carcere comune. La figura esile dell’ex dittatore, i suoi gelidi occhi piccoli e neri finirono sulle prime pagine di tutti i giornali. Gli avvocati protestarono il militare era anziano – e ottennero gli arresti domiciliari. Beneficio che gli venne revocato nel 2008. Secondo il portavoce della Procura Thomas Koch è improbabile che l’ex dittatore venga estradato in Germania, dal momento che deve ancora rispondere davanti alla magistratura di Buenos Aires di 30 omicidi, 571 sequestri e 268 sparizioni, oltre a delitti di lesa umanità commessi nei centri di detenzione clandestina guidati dal generale Guillermo Suarez Mason, ex coman-
dante in capo dell’Esercito. Un macabro record che l’ex golpista si contende con Luciano Benjamin Menendez, un altro militare originario di Cordoba. Con la differenza che dal 1985 Videla non è mai più comparso sul banco degli imputati.
L’anno passato anche la procura di Roma aveva chiesto l’estradizione del dittatore per l’uccisione di 27 italiani, richiesta contro la quale si era espresso lo stesso Videla con la motivazione che tali crimini avrebbero già fatto parte del processo contro i militari del 1985. Videla è uno dei simboli degli anni bui della storia ar-
gentina. Un simbolo di terrore e morte. Come l’angelo biondo Alfredo Astiz, l’ex capitano di corvetta responsabile di numerose atrocità che in questi giorni è alla sbarra come imputato nel maxi-processo Esma, l’ex scuola Meccanica della Marina dove furono rinchiuse, torturate e uccise oltre 5000 persone. La speranza della società civile è che anche Videla compaia presto in aula per rispondere dei crimini commessi. L’immagine forse più celebre di Videla è quella dell’ex dittatore che brandisce il trofeo dei Mondiali di calcio vinti dall’Argentina nel 1978. Sugli spalti la folla esultava, nei sotterranei dello stadio si torturavano migliaia di oppositori. Il mondo fingeva di non sapere.
I desaparecidos della dittatura sarebbero almeno trentamila. Un’intera generazione spazzata via, quella che oggi avrebbe potuto essere la classe dirigente del Paese. Una ferita ancora aperta che ha segnato in modo indelebile la memoria dell’Argentina.
Oggi, con l’aiuto della giustizia, dopo oltre trent’anni il Paese spera di poter finalmente chiudere i conti con il suo passato.
il Fatto 31.1.10
A Teheran i giorni del “Terrore”
Si inasprisce la repressione del regime contro il movimento verde
I n Iran regna un “clima di terrore”: è il grido di allarme dei due leader politici dell’opposizione iraniana, Mirhossein Mussavi e Mehdi Karrubi, due giorni dopo l’impiccagione di due oppositori e in occasione dell’apertura di un nuovo processo contro altri 16 manifestanti antigovernativi. E in vista delle celebrazioni per il 31° anniversario della Rivoluzione islamica khomeinista l'11 febbraio, malgrado una diffida da parte dei Guardiani della Rivoluzione, l’opposizione su internet si dà nuovamente appuntamento in piazza: una sfida implicitamente raccolta da Mussavi e Karrubi, secondo i quali processi e impiccagioni sono un deterrente del regime per “dissuadere la gente dal manifestare l’11 febbraio”. I 16 imputati comparsi in una aula di tribunale sono accusati delle proteste contro la controversa rielezione del presidente Mahmud Ahmadinejad lo scorso 12 giugno. Cinque di loro sono accusati di Moharebeh (guerra contro Dio), imputazione passibile di condanna a morte, gli altri di disturbo dell’ordine pubblico e attentato alla sicurezza nazionale. Erano stati arrestati dopo i sanguinosi disordini scoppiati tra forze di sicurezza e oppositori il 27 dicembre, nella ricorrenza religiosa sciita dell’Ashura, causando almeno otto morti.
Il nuovo processo si apre due giorni dopo l’impiccagione dei primi due oppositori condannati nei processi dei mesi scorsi. Si tratta di due attivisti monarchici condannati a morte come mohareb (nemico di Dio).
“Condannando le recenti impiccagioni, Mussavi e Karrubi hanno chiesto che la situazione dei prigionieri sia esaminata in conformità con la legge”, scrive Sahamnews, il sito del partito di Karrubi. Secondo i due leader riconosciuti del movimento verde, “le impiccagioni hanno lo scopo di creare un clima di terrore per dissuadere la gente dallo scendere in piazza il prossimo 11 febbraio”. Un appuntamento, dicono Mussavi e Karrubi, al quale la “popolazione” deve “partecipare in massa”.
Prevedendo la nuove sfida il comandante dei Guardiani della Rivoluzione di Teheran ha messo ha messo in guardia le opposizioni: “Non consentiremo in alcuna circostanza al movimento verde di farsi vivo... Di certo non assisteremo a nulla del genere, ma anche se una minoranza volesse tentare qualcosa, ci saremo noi ad affrontarla con decisione”, ha detto il generale Hossein Hamedani. Ieri ha fatto sentire la sua voce anche il potente ex presidente Akhbar Hashemi Rafsanjani, considerato oppositore moderato e un pragmatico che ha tuttora un ruolo di rilievo nel regime, che ha invitato tutte le parti alla moderazione e ad astenersi da ogni violenza in occasione delle celebrazioni per la festa della Rivoluzione islamica, “che non servirebbero ad altri che ai nemici” dell’Iran.
l’Unità 31.1.10
«Per Israele le colonie sono un pericolo»- Il grido degli scrittori
Parla di «logica colonialista» Yehoshua, per Grossman un errore gli insediamenti Oz: creano una spaccatura nel Paese. E Shalev: siamo a rischio fondamentalismo Sterhnell accusa: due giustizie parallele, una per i coloni, l’altra per i palestinesi
di Umberto De Giovannangeli
Scrittori in trincea. Con la loro passione civile, con la forza delle loro idee, mettendo in gioco la propria credibilità, il loro successo. Scrittori scomodi al potere politico, per la determinazione delle loro denunce, per l'eco internazionale che esse hanno. Scrittori d'Israele. Sensori viventi del pericolo, non solo per il rilancio del processo di pace ma anche per la tenuta democratica d'Israele, rappresentato dal movimento oltranzista dei coloni.
Abram Bet Yehoshua, tra i più affermati scrittori israeliani, pone sotto accusa l'impunità di cui sembrano godere i coloni ultranazionalisti e vede nella fine dell'occupazione dei Territori il miglior antidoto per debellare questo virus: «Perché argomenta con l'Unità Yehoshua (la fine dell'occupazione) spazza via quella cultura dell’emergenza sulla base della quale c’è chi mette tra parentesi qualsiasi altra cosa. Noi non stiamo parlando di territori di oltremare, stiamo parlando di città palestinesi a pochi chilometri da Gerusalemme o da Haifa. Si confiscano terre palestinesi illegalmente, si permette a coloni che risiedono in insediamenti illegali di compiere atti provocatori contro i palestinesi senza incorrere nelle pene che analoghe azioni comporterebbero se commesse in Israele e contro cittadini israeliani. Questa logica colonialista e militarista rischia di trasformarsi in un cancro le cui metastasi aggrediscono il corpo sano di Israele. L’emergenzialismo diviene sinonimo di impunità; e l’impunità porta con sé la convinzione che tutto sia lecito».
Yael Dayan, scrittrice, più volte parlamentare laburista, lancia un grido d'allarme: «Guai ci dice al telefono la figlia dell'eroe della Guerra dei Sei giorni, il generale Moshe Dayan se considerassimo l'estremismo dei coloni un fattore marginale, circoscritto ad una ristretta frangia di esaltati. Le idee, la pratica dei coloni trovano sostegno in forze politiche che oggi governano Israele. Mi riferisco non solo al partito di Avigdor Lieberman (“Yisrael Beitenu”, terza forza alla Knessest, ndr) ma anche a settori e ministri del Likud, il partito di Netanyahu, quelli che considerano Barack Obama un nemico solo perché insiste per un congelamento degli insediamenti. La loro protervia è pari solo alla loro pericolosità. Non dimentico che figure di primo piano della destra oggi al governo avevano tacciato di tradimento sia Yitzhak Rabin che lo stesso Ariel Sharon... Costoro si sentono in guerra permanente contro tutto e tutti».
David Grossman ha unito la sua voce a quella dei pacifisti che l'altro ieri hanno manifestato a Gerusalemme Est contro la realizzazione di nuovi quartieri ebraici. «Non si può restare in silenzio afferma il grande scrittore di fronte ai mille e un modo utilizzati per togliere ai palestinesi terre e diritti». Grossman accusa le autorità israeliane e la polizia di adottare due pesi e due misure: «Non vediamo osserva le stesse dure reazioni in occasione dei disordini provocati dai coloni e dei loro pogrom contro i villaggi palestinesi». Lo scrittore denuncia la presenza degli insediamenti ebraici a Sheikh Jarrah e in altri quartieri di Gerusalemme Est come un errore che «complica la situazione e rischia di rendere la pace impossibile».
Zeev Sternhell ha conosciuto sulla sua pelle il fanatismo oltranzista dell'ultradestra israeliana: nell'ottobre 2008 una bomba è esplosa all'ingresso della sua abitazione. I responsabili non sono stati presi ma sulla matrice di estrema destra nessuno ha avuto mai dubbi. La ragione è nelle denunce contro il pericolo-coloni che lo storico israeliano ha avanzato: «Ci troviamo di fronte ci dice Sternhell a gruppi organizzati che non riconoscono nessun potere costituito. Non sono “schegge impazzite”: costoro calpestano la legge e fanno uso sistematico della violenza». Lo storico e scienziato della politica mette in evidenza il deficit di iniziativa dello Stato: «Per rendersene conto sottolinea basta leggere i rapporti dei magistrati dell'Avvocatura di Stato, in cui si evidenzia che nei Territori le leggi non vengono applicate, o peggio ancora, ci sono nei Territori due modelli legali paralleli, uno per i palestinesi, uno per i coloni. Resto fermamente convinto che nei Territori c'è una forma di regime coloniale che va abbattuto. L'inizio di questo è l'applicazione della legge anche ai coloni».
Amos Oz, lo scrittore più volte candidato al Nobel per la letteratura, pone l'accento sulla lacerazione nella società israeliana: «I coloni che impongono i loro desideri, la loro volontà allo Stato d'Israele riflette Oz con l'Unità fanno provare a tanta nostra gente un tale livello di vergogna, disperazione, alienazione e delusione da indurla a prendere seriamente in considerazione l’ipotesi di abbandonare il Paese. L’evacuazione degli insediamenti in conformità con una decisione di una maggioranza democratica non può essere considerato un trasferimento. Riportare i coloni a casa e integrarli all’interno dei legittimi confini di Israele non costituisce un disimpegno nei loro confronti. Al contrario, è stata la creazione degli insediamenti nei territori occupati una forma di disimpegno rispetto ad Israele, una forma di disimpegno che ha portato alla creazione di una spaccatura in seno alla società israeliana».
Meir Shalev, scrittore ed editorialista del più diffuso giornale israeliano, Yediot Ahronot, vede nell'affermarsi dell'oltranzismo dei coloni l'«espressione più aggressiva e militante di un filone ideologico che può essere fatto risalire al revisionismo sionista di Jabotinsky: un mix di messianesimo e di ultranazionalismo, dove il centro è Eretz Israel (la Terra d'Israele) e ciò che conta, sopra ogni altra cosa, è la “legge della Torah” e non quella dello Stato. È un fondamentalismo che non va sottovalutato. La sicurezza d'Israele – aggiunge Shalev – non c'entra nulla con l'espansione degli insediamenti, semmai è vero il contrario: la colonizzazione dei Territori alimenta rabbia e frustrazione tra i palestinesi e su questi sentimenti fanno leva i gruppi radicali che mirano ad affossare la leadership moderata di Abu Mazen e sabotare il dialogo. Lo stop totale degli insediamenti non è un cedimento ad Hamas ma un investimento sul futuro: quello di un Paese normale. Un Paese in pace. Con i palestinesi. E con se stesso».
(ha collaborato Cesare Pavoncello)
l’Unità 31.1.10
Una coppia per la Linke La seconda vita della sinistra
di Gherardo Ugolini
Gesine Lötzsch vice-capogruppo al Bundestag, brillante economista quarantottenne
Klaus Ernst vice-presidente del partito, ex sindacalista bavarese
Per ora saranno loro due, dopo l’addio del leader storico, a guidare il partito fino al congresso di maggio. Poi si vedrà. In discussione anche il futuro del partito, che potrebbe essere tentato dalla riunificazione.
Chi arriva dopo Oskar? L’addio di Lafontaine alla scena politica nazionale sta suscitando un’ampia discussione all’interno della Linke. Si tratta innanzi tutto della necessità di superare la crisi di leadership che si è aperta. Tutti sanno che Oskar «il rosso» è insostituibile e che nessun dirigente politico di quell’area gode di un carisma e di una popolarità comparabili. In attesa del congresso nazionale che si svolgerà in maggio a Rostock i vertici della Linke hanno varato una direzione bicefala: due leader a rappresentare le due anime del partito, quella «orientale» degli ex comunisti, considerata più concreta e pragmatica, e quella «occidentale», formata per lo più da sindacalisti ed ex socialdemocratici delusi, ritenuta più massimalista. I nuovi presidenti sono dunque Gesine Lötzsch e Klaus Ernst.
I DUE SUCCESSORI
La prima, una brillante quarantottenne formatasi nella Ddr e transitata dal comunismo alla Pds e quindi alla Linke, ricopre attualmente la carica di vice-capogruppo al Bundestag. Ernst è invece un ex sindacalista d’origine bavarese, espulso nel 2004 dall’Spd e co-fondatore della Wasg, il movimento di sinistra confluito poi nella Linke. Considerato un fedelissimo di Lafontaine, Ernst era fino a ieri vicepresidente del partito. Si tratta di due leader poco conosciuti, il cui compito è quello di traghettare il partito fino al congresso di maggio, dove probabilmente si deciderà di eleggere un presidente unico.
Ma l’abbandono di Lafontaine potrebbe rappresentare anche una chance in positivo per la sinistra tedesca, soprattutto per quanto riguarda il dialogo con l’Spd e la costruzione di una credibile alternativa all’attuale maggioranza nero-gialla di Frau Merkel. Non è infatti un mistero che un ostacolo insormontabile per l’intesa a livello nazionale tra socialdemocratici e Linke era dato proprio dall’ingombrante figura di Lafontaine. I suoi ex compagni di partito non gli hanno mai perdonato il «tradimento» del marzo 1996, quando lasciò la carica di ministro delle Finanze e se ne andò in polemica con il corso neo-riformista di Gerhard Schröder.
Da allora e per dieci lunghissimi anni è stato un susseguirsi di accuse e sospetti velenosi. Lafontaine non ha mai cessato di contestare pubblicamente la linea dei suoi ex compagni sui tagli allo stato sociale o l’intervento militare in Kossovo e in Afghanistan. E quando ha dato vita alla Wasg, i dirigenti dell’Spd l’hanno presa malissimo, sospettando che dietro quel disegno ci fossero più che altro moti-vazioni di vendetta privata. Ora che Lafontaine ha deciso di ritirarsi dalla scena politica nazionale conservando solamente l’incarico di deputato regionale della Saar, potrebbero maturare le condizioni per
una riconciliazione.
l’Unità 31.1.10
Il Napoleone della Saar lascia. Ma veglierà sulle sorti del partito
Un grande dirigente, che ha saputo portare la Linke oltre il 12% mentre sembrava destinata al minoritarismo
di Paolo Soldini
Oskar Lafontaine se ne va. Vinto dal cancro, che gli ha steso sopra l’ombra della morte come neppure la pazza che nel 1990 gli tagliò la gola mentre lasciava il palco di un comizio, lasciandolo a terra a perdere tanto sangue che tutti pensavano che fosse spacciato, era riuscita a fare. S’avvia al tramonto la biografia del «Napoleone della Saar», il nomignolo dei primi tempi imbevuto di ammirazione ma anche di invidia per il suo ferreo controllo di cancelliere nel Land meno tedesco di tutta la Germania.
Se ne va il dirigente che solo con la forza di un discorso memorabile, nel novembre del ’95, piegò un congresso della Spd dal corso già predestinato con la vittoria di un altro, il ribelle che mandò al diavolo quel Gerhard Schröder che tanto aveva aiutato a sconfiggere Helmut Kohl nell’autunno del ’98. Scompare dalla scena il dirigente di grande intuito e di molti opportunismi che, insieme con Lothar Bisky, aveva portato un partitino apparentemente minoritario per vocazione chiamato «Die Linke», la Sinistra, in un soprassalto di schifiltosità verso i «tradimenti» della Spd a un solido 12,5% dei voti e soprattutto a un forte rapporto col mondo del lavoro e a un radicamento affondato non solo nella Ostalgie della fu Rdt, ma ormai anche nelle difficili lande d’occidente, tant’è che i sondaggio lo accreditano d’un bel 6% per il prossimo voto in Renania-Westfalia, il Land d’elezione del riformismo socialdemocratico e culla del cattolicesimo renano. Sembra un necrologio? Non lo è. La vicenda umana di Oskar l’Irrequieto pesa con una sua possente vitalità politica anche quando lui annuncia che molla la battaglia. Anzi, paradossalmente, ora pesa ancor di più. Innanzitutto perché minaccia di sgonfiarsi d’un colpo il miracolo che Lafontaine, insieme con il mite Bisky, era riuscito a compiere facendo un partito solo di due eredità, il laburismo di sinistra socialdemocratico ad ovest e l’insoddisfazione per i traumi dell’unificazione ad est, di mille istanze, di esperienze di vita che avrebbero potuto non sfiorarsi mai, di altrettanti personalismi. Senza Lafontaine (e senza Bisky, che ha annunciato anch’egli di non ricandidarsi a maggio al congresso del partito) la Linke rischia di cadere in un ingestibile dualismo, preludio di grossi guai. Quel che si è profilato per la successione, in una tempestosa riunione del gruppo parlamentare durata tutta la notte tra lunedì e martedì, illumina già le difficoltà future.
I leader designati, Gesine Lötsch e Klaus Ernst, appaiono proprio l’incarnazione delle due anime: berlinese dell’est, economista, già iscritta alla Sed e nella nomenklatura della ex Rdt la prima; bavarese, quadro sindacale combattivo ma non proprio con una fama da intellettuale, il secondo. L’altro «padre nobile» della Linke, Gregor Gysi, ex Sed, «riformatore» quando pareva che si potesse riformare il regime, si dice «orgoglioso del fatto che la questione del ricambio al vertice sia stata chiarita così in fretta».
Ma il suo ottimismo non copre il profondo problema del dualismo della Linke, che proprio nella parte che scende dalli rami dell’est (cioè la sua) ha il nucleo più duro: troppe doppiezze, troppe ambiguità, troppe reticenze sulle infamie d’un sistema che può avere anche un suo fascino retro per una generazione che ha malvissuto la proiezione nel capitalismo più duro.
Lafontaine dice di voler vigilare come gran parte del partito gli chiede su questa fase di passaggio, sempre che la malattia glielo conceda. Se riuscirà ad impedire che le spaccature d’esperienza, d’orientamento, di cultura distruggano la Linke dimostrerà che un alcunché di napoleonico, nonostante tutto, gli è rimasto ancora. ❖