lunedì 1 febbraio 2010

Ugo Tonietti, docente di Scienza delle Costruzioni presso la facoltà di Architettura di Firenze, da anni partecipa a missioni internazionali di “salvataggio” del patrimonio architettonico in antichi insediamenti in territori africani e asiatici.

La medina di Chefchauen nel Rif Andaluso (alto Marocco), Djennè, la perla del Mali nel cuore del Sahel, la cittadella di Shali (in pieno deserto egiziano), l’altopiano del Tassili (Sahara centrale, Sud dell’Algeria), i villaggi della regione di Aleppo e l’antica moschea di Noh-gumdad in Afganistan rappresentano scenari di insediamento umano, diversissimi tra loro, ma accomunati dall’uso centrale della “terra” e dal rapporto stretto con il territorio.

In molti casi risultato di processi “spontanei” di costruzione e di aggregazione, espressione di culture locali e di saperi taciti legati ai luoghi ed al tempo, queste realtà ci raccontano di modi di sentire e di immaginare dal sapore dimenticato, a volte crudo a volte fiabesco, e ci stimolano una riflessione sulle “basi” del nostro “abitare”.

Tutto questo attraverso il racconto di esperienze di studio e di ricerca di Ugo Tonietti che durante l'incontro si avvarrà anche di immagini fotografiche inedite e originali.


Repubblica Roma 1.2.10
Bonino: "Dalle spese ai primari pubblicheremo tutto online "
di Giovanna Vitale

Anche la campagna elettorale sarà in diretta web. Oggi l´apertura del comitato a Trastevere

È "trasparenza" la parola d´ordine di Emma Bonino. Se vincerà, la sua Regione si trasformerà in una casa di vetro, dove i cittadini - grazie al web - potranno guardare dentro e controllare dal basso le scelte della politica. Tutto dovrà essere pubblicato on-line, secondo la candidata del centrosinistra intervistata ieri da SkyTg24: i redditi degli eletti e le nomine dei manager pubblici, le candidature dei primari negli ospedali e l´utilizzo dei fondi a disposizione del presidente. «Il rendiconto totale in internet è una prassi che deve riguardare un governatore di Regione come un ministro, perché è evidente che c´è la necessità di spese di rappresentanza e non c´è nulla di male a scrivere chi si è invitato a cena», ha spiegato la leader radicale. «Nel Lazio serve una grande operazione di verità su tutti i temi, compresa la sanità, in modo che la gente sappia di cosa parliamo», ha incalzato. «Una grande operazione di trasparenza che renda tutto pubblico, tutto disponibile su internet. La Regione questo percorso lo aveva avviato», ha concluso, «ora va accelerato utilizzando quelle che del resto sono le procedure europee».
D´altra parte è da sempre una battaglia sua e dei radicali, la trasparenza. Come pure dimostra "Open Party", il primo esperimento italiano di diretta continua della campagna elettorale che la lista Bonino-Pannella avvierà stamattina, in concomitanza con l´inaugurazione del comitato di via Ripense, a Trastevere, dove faranno capolino, tra gli altri, il presidente della Provincia Zingaretti e il vice-presidente del Lazio e probabile capolista Montino. Si riunirà subito dopo, invece, la direzione regionale del Pd. All´ordine del giorno: il regolamento sulle candidature (che fisserà, come da statuto, il tetto delle due legislature per i consiglieri uscenti, cui verrà chiesto un contributo di 10mila euro per la campagna elettorale), la definizione del comitato ristretto che formerà le liste, nonché l´individuazione della squadra per il programma. In pole position per il coordinamento, il costituzionalista e senatore democratico Stefano Ceccanti.


Il Tempo 1.2.10
E la Bonino corteggia le
partite Iva
di Fabrizio Dell'Orefice

Attenzione al ceto medio, corteggiamento alle imprese, un occhio di riguardo alle partite Iva. La campagna elettorale di Emma Bonino sta per partire. Stanane verrà inaugurato il comitato elettorale a Trastevere.
Ci saranno gli immigrati di piazza Vittorio e un po' di mondo di sinistra, qualche vip. Poi partirà la campagna su internet e non solo. Intanto si scelgono i temi, gli argomenti. «La Bonino punterà sulla sua esperienza internazionale, i suoi contatti internazionali, il fatto di essere conosciuta al di fuori dei confini regionali e nazionali», spiega Rita Bernardini, molto vicina alla candidata del centrosinistra. E non si spaventa se qualcuno gli fa notare che in fin dei conti bisogna essere votati dai laziali: «Ma non si può restare chiusi, bisogna spingere il Lazio ad andare oltre i propri confini». In una parola: internazionalizzarsi. Chi pensa che i radicali la stiano prendendo alla larga non hanno capito nulla. Il dossier che anche ieri è stato esaminato ha un titolo eloquente: «Lazio, regione d`Europa». Contiene una serie di proposte che lanceranno Emma alla conquista dei lavoratori autonomi, dei piccolissimi e piccoli imprenditori. Insomma, sarà un attacco sul fronte scoperto di Renata Polverini che, essendo una sindacalista, ha un appeal più forte tra i lavoratori dipendenti, mentre sembra non aver scaldato ancora il mondo delle imprese. 
Almeno così la pensano i vertici del centrosinistra. 
Che proprio per , questo stanno elaborando una serie di proposte che servirà a corteggiare quella fascia di elettorato. Anzitutto si punterà su utilizzare meglio i fondi Fers, quelli per lo sviluppo regionale. Ce ne sono disponibili 743 milioni ma sino al 31 dicembre scorso ne erano stati spesi poco meno di 47 milioni, il 6,31%. Addirittura per l`ambiente sostenibile la tabella riporta un bellissimo zero: dei soldi a disposizione, sono circa 189 milioni, non è stato utilizzato manco un euro.. Dall`analisi di questi dati, la Bonino (che durante il governo Prodi è stata ministro del Commercio Estero e anche delle Politiche Europee) presenterà progetti per smobilitare quelle risorse. 
Progetti che andranno di pari passo con il sostegno all`internazionalizzazione delle imprese. Soprattutto quelle mini. Con aiuti e incentivi per quelle che intendono puntare sui mercati 
emergenti o già emersi come Cina e India. Oppure per quelle che stanno cercando di ingrandirsi nel Mediterraneo. Per ora è difficile saperne di più. Ma per rimanere nella terminologia economica, si sta preparando un`Opa (offerta pubblica di acquisto) sull`elettorato di centrodestra. O meglio, su quei pezzi di elettorato di Forza Italia che si sono mostrati nella prima parte di campagna elettorale ancora piuttosto freddi. 
La Bonino ieri è stata intervistata da Maria Latella a Sky Tg 24 anticipando qualche tema. Ha elencato le sue priorità: turismo, trasparenza e sanità. E ha poi confessato: «I temi sono anche di più, il rilancio del Lazio anche come grande regione Europea. Credo che questo sia una visione da avere in testa e soprattutto, deve essere chiaro, che il metodo deve cambiare. 
Bisogna girare pagina ha sottolineato serve una grande operazione di verità su tutti i temi, compresa quindi la sanità, in modo che la gente sappia di che cosa parliamo».


Repubblica 1.2.10

Lella Bertinotti: "Questo è il paese del gossip"
di Laura Laurenzi

ROMA - Una storia infinita quella della presunta crisi matrimoniale dei coniugi Bertinotti. Torna su, riemerge, si ripresenta nonostante le smentite. Ieri, seduta in prima fila alla sfilata d´alta moda della maison Gattinoni, Lella Bertinotti ha subito un´incursione piuttosto massiccia da parte delle Iene. Alla domanda pressante e insistita da parte di Enrico Lucci che le chiedeva se avesse "fatto pace" con suo marito, la signora Bertinotti ha reagito sfogandosi con la sua vicina di sedia (o meglio di panca) Maria Teresa Scajola, moglie del ministro per lo sviluppo economico: «Questo è il paese del gossip - ha detto esasperata - Hanno fatto dei pettegolezzi sulla separazione fra me e mio marito che abbiamo cercato di fermare prima che andassero in pagina, non appena ho capito quali erano le intenzioni del giornalista. Ma hanno pubblicato lo stesso il loro gossip nonostante gli avessi passato al telefono mio marito che ha smentito di persona. Ecco: questa è l´Italia. E´ il paese del gossip».
Nel parterre anche una sosia di Patrizia D´Addario, in realtà la compagna di Luigi Abete, Desirée Colapietro, stilista, anche lei tempestata di domande-iena (del tipo "Ma con Abete è gratis?"). Quanto ai Bertinotti, in serata ritorno di fiamma della (non) notizia, dopo che l´Ansa ha pubblicato le dichiarazioni di Lella Bertinotti sull´Italia "paese del gossip". Raggiunta per telefono all´aeroporto di Fiumicino dove stava per imbarcarsi, ha commentato: «Non ci posso credere che con tutti i problemi che ha l´Italia ci si torni a occupare ancora di una cosa che non esiste. Che con tutti i drammi, le difficoltà, le tragedie che affliggono il nostro paese si perda tempo a interrogarsi su questioni di questo tipo». Si sente nel sottofondo la voce di Bertinotti. «Io sto partendo e mio marito mi ha accompagnato all´aeroporto. No, lui non parte con me, lui ha molto da lavorare. Ha l´università, la fondazione, un calendario di dibattiti già fissati. Adesso glielo passo, ci vuole parlare?». Bertinotti ha una voce allegra, quasi divertita. E´ come sempre molto gentile, addirittura compito: «Eccomi qua, è tutto falso». Falsa anche la voce secondo cui lei avrebbe lasciato la casa dove vive con sua moglie e sta abitando da Mario D´Urso, che la ospita? «Assolutamente falso. Io abito nella nostra casa coniugale. E chi non ci crede stasera stessa mi può telefonare lì . Dopo le dieci mi trova: risponderò io al telefono».

Repubblica 1.2.10
Immigrati: lavorano di più, pagati di meno
La ricerca: per chi non ha permesso di soggiorno salario medio di 5 euro l´ora
di Vladimiro Polchi

Lo studio della Fondazione Debenedetti. In aumento le morti bianche

ROMA - Fa turni pesanti, spesso notturni, lavora in nero, anche il sabato e la domenica, guadagna meno di 5 euro l´ora. Eccolo l´identikit dell´immigrato irregolare: salario basso, lavoro pesante. Manodopera a basso costo, «spesso funzionale alla nostra economia».
A fotografare l´opaco mondo degli invisibili è un´indagine condotta tra ottobre e novembre 2009 dall´economista Tito Boeri per la Fondazione Rodolfo Debenedetti. I primi risultati sono stati presentati il 29 gennaio a Bologna, nel corso del "Forum sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro", organizzato dalla fondazione Alma Mater. Cosa ne emerge? Innanzitutto una smentita all´equazione tra immigrati e criminali, cara al premier Silvio Berlusconi. Gli irregolari (422mila secondo l´Ismu) lavorano di più e guadagnano di meno rispetto a chi ha i documenti in regola. Insomma, sono una risorsa per molti imprenditori privi di scrupoli. Il 66% degli irregolari, infatti, ha un lavoro, nonostante sia privo di un titolo legale per rimanere in Italia. È impiegato in nero e fa turni molto pesanti: l´80% non si ferma neppure il sabato, il 31,8% lavora di domenica e il 38% fa anche turni notturni (contro il 22% degli immigrati regolari).
Lavorano tanto, ma guadagnano poco. «Il 40% di chi non ha il permesso di soggiorno - spiega Boeri - guadagna meno di 5 euro l´ora, mentre fra i regolari la percentuale scende al 10%». Chi non è in regola guadagna in media il 12,4% in meno di chi lo è. Ancora peggio va alle donne prive di permesso di soggiorno: loro guadagnano fino al 17% in meno. «Questi risultati - prosegue Boeri - spiegano perché gli immigrati irregolari continuano a venire in Italia: trovano facilmente lavoro, anche senza permesso di soggiorno. E i datori di lavoro possono pagarli ancor meno di quanto pagherebbero i regolari».
Non è tutto. I lavoratori immigrati sono anche i più soggetti a infortuni. «Le morti bianche - racconta Boeri - aumentano fra gli stranieri (+8% dal 2005 al 2007) e calano fra gli italiani». Nel presentare i dati sull´andamento infortunistico in Italia il presidente dell´Inail, Marco Fabio Sartori, ha infatti dichiarato che «in termini relativi, l´incidenza infortunistica risulta più elevata per gli stranieri: 44 casi denunciati ogni 1000 occupati, contro i 39 degli italiani. I motivi sono spesso riconducibili all´impiego di questi lavoratori in attività più a rischio, connotate da una forte componente manuale e in assenza di un´adeguata formazione professionale». Nel 2008 gli infortuni di immigrati, denunciati all´Inail, sono stati oltre 143mila e di questi 176 mortali.
In base all´ultimo dossier Caritas/Migrantes, in totale gli infortuni occorsi agli stranieri rappresentano il 16,4% di tutti gli eventi registrati in Italia. Insomma, ogni sei operai feriti o uccisi mentre lavorano, uno è straniero. Un dato che va letto alla luce del fatto che gli immigrati rappresentano solo il 7% della forza lavoro.
Un aspetto centrale negli infortuni agli immigrati è inoltre il persistere di livelli di sottodenuncia e di incidenti che sfuggono a ogni controllo. L´opacità è massima tra gli irregolari, che denunciano molto raramente infortuni più o meno gravi per paura di perdere il lavoro o di venire identificati ed espulsi. «Abbiamo raccolto molti casi di immigrati irregolari che dopo aver denunciato il loro datore di lavoro, in seguito a un infortunio, hanno visto consegnarsi dalla questura un decreto d´espulsione - sostiene l´avvocato Marco Paggi dell´Asgi (Associazione di studi giuridici sull´immigrazione) - e col reato di clandestinità le cose possono solo peggiorare».
«È per questo ancora più grave - afferma Boeri - che la scorsa settimana il Senato abbia negato il permesso di soggiorno agli irregolari che denunciano lo sfruttamento da parte dei datori di lavoro e che, anche questa volta, le associazioni imprenditoriali non abbiano fatto sentire la loro voce. Forse perché tante piccole e medie imprese continuano a beneficiare proprio dell´irregolarità».

Repubblica 1.2.10
Così è cambiata l’autorità
di Loredana Lipperini

Un libro analizza la metamorfosi del ruolo paterno nella società e nella famiglia: prima uomo forte poi affettuoso e "mammo"
La figura inizia a indebolirsi nel Settecento quando l´infanzia diventa oggetto di studio
Il primo padre di cui abbiamo notizia aspetta il ritorno del figlio, ascolta il resoconto del suo compito scritto, gli chiede di recitargli la tavoletta d´argilla e infine "ne rimane contento". Avveniva quattromila anni fa, in Mesopotamia. Da qui parte il lungo cammino di Maurizio Quilici, giornalista, fondatore e presidente dell´Istituto Studi sulla Paternità, autore di Storia della paternità-dal pater familias al mammo (Fazi, pagg. 500, euro 23): una cavalcata attraverso i millenni per studiare i mutamenti di una figura che, a fronte della crescente esposizione mediatica, mancava di una ricostruzione storica: "Fino a pochi decenni fa la paternità, a differenza della maternità, non ha avuto dignità di oggetto nelle analisi storiche, sociologiche, psicologiche e, tranne qualche eccezione, neppure nell´ambito della narrativa".
Uno sguardo indietro che risulta utilissimo, negli anni della paternità "dolce", per riflettere su cosa sia stata l´autorità paterna: un misto di potere e cura, come per i padri della Grecia antica, cui spettava la decisione sulla sopravvivenza dei neonati gracili o indesiderati e che pure erano legati alla prole da un vincolo reciproco di responsabilità e dovere. Ma anche da reciproco timore: la mitologia greca nasce da Urano, e da un rapporto padre-figli fatto di odio e rivalità. Il parricidio era il grande terrore degli antichi e, conseguentemente, i figlicidi del mito sono innumerevoli: uccidono, sia pur inconsapevoli, Ercole e Teseo, Tantalo cucina le carni di Pelope, Idomeneo e Agamennone non esitano a sacrificare la discendenza sperando nel favore di una divinità. Ma ci sono anche i padri amorosi: c´è il disperato tentativo di Dedalo di salvare Icaro e di insegnargli la via giusta per il cielo e c´è, soprattutto, Ettore, che solleva fra le braccia il figlio Astianatte con tenerezza e orgoglio, augurandosi che il figlio possa oltrepassarlo in forza.
Il terrore del parricidio era diffuso anche presso i romani, la cui storia stessa si identifica con la figura del padre, il magistrato domestico che può condannare a morte il proprio figlio (come fece Tito Manlio Torquato) perché ha trasgredito a un ordine. Eppure, l´Eneide si fonda sulla devozione dell´eroe nei confronti del padre. L´ambivalenza fra amore, rispetto e autorità attraversa anche il Cristianesimo, che pure riduce il potere paterno anteponendogli il potere divino, raggiunge e supera il Medioevo. Se nel Decameron padri assassini e generosi si alternano, Cecco Angiolieri non esita a cantare il parricidio: "S´i´ fosse morte, andarei da mi´ padre". Beatrice Cenci la diede al violento e crudele Francesco. Bisogna arrivare a John Locke e ai suoi Pensieri sull´educazione (1693) per trovare frasi come questa: "il padre, quando suo figlio sia cresciuto e in grado di comprenderlo, farà bene a intrattenersi familiarmente con lui e perfino a chiederne il parere e a consultarlo in quelle cose di cui egli ha qualche conoscenza".
L´indebolirsi dell´autorità paterna inizia nel Settecento, secolo in cui l´infanzia comincia a essere oggetto di attenzione e il diritto di natura conduce alla madre: il diritto paterno non viene negato, ma deriva dal vivere civile e dalle sue leggi. Di pari passo, inizia la ribellione aperta, che trova il suo simbolo nel rapporto fra Monaldo e Giacomo Leopardi che, nei Pensieri, così scriverà: "colui che ha il padre vivo, comunemente è un uomo senza facoltà". La potestà paterna è la schiavitù dei figli, che non possono compiere alcuna grande azione, sostiene il poeta: nel 1819, progettando la fuga, Leopardi scrive una lettera al padre che Giorgio Manganelli definisce "un grande, straordinario pezzo di bravura" per amarezza, deplorazione, umiltà e scatto tirannicida: "Se la mia salute fosse stata meno incerta avrei voluto piuttosto andar mendicando di casa in casa che toccare una spilla del suo". La fuga non riuscì, la lettera non venne mai consegnata.
Di questi padri ostili parleranno Hesse e Musil, che ricorderanno punizioni e percosse, mentre l´ultimo schiaffo dato dal padre morente condizionerà la vita di Zeno Cosini. Con l´industrializzazione cessa il passaggio di testimone fra padre e figlio: passaggio di autorità, ma anche di valori professionali. "Si sfalda la famiglia patriarcale - scrive Quilici - e ha inizio la rottura antropologica tra l´uomo e la cultura maschile preesistente". In sostanza, il paterno si svaluta nel momento in cui il padre esce dalla famiglia e lascia i figli alla madre. Parallelamente, però, inizia la lenta scoperta dei padri "materni". Il primo libro in cui questo avviene è Pinocchio: nella storia di Collodi è il padre a "far nascere" il burattino, e Geppetto si dimostrerà sempre pieno di affetto e capacità di sacrificio nei confronti del figlio. Un fallimento della responsabilità virile, secondo alcuni. Un´anticipazione, secondo altri, di quel che verrà dopo. Dopo i padri devoti o violenti di Cuore, dopo il gelido genitore di Incompreso, dopo Freud, dopo quel topos del dissidio generazionale che fu La lettera al padre di Franz Kafka. E dopo quel "parricidio sommario" che, scrive Quilici, fu il 1968.
Finisce il padre, inizia il papà: iniziano la commozione, l´estroversione, la fisicità maschile che un tempo furono della madre. Nel 2007 la conquista dell´affido condiviso. Da oggi, il cammino per la costruzione di una nuova fisionomia.

Repubblica 1.2.10
Zoja "Sono caduti molti tabù"
intervista di Loredana Lipperini

Anche nella storia della paternità, lo spartiacque potrebbe essere il 1968. Luigi Zoja, lo psicoanalista autore di uno dei libri più belli sulla figura paterna (Il gesto di Ettore, pubblicato da Bollati Boringhieri nel 2003), avverte che il processo è evidentemente più lungo: «Le tre parole simbolo della rivoluzione francese, Libertè, Egalitè, Fraternitè, anticipano di molto, sia pure solo fra le classi più colte, quel principio orizzontale della fraternità che ha finito con il prevalere su quello, verticale, della paternità. E che trova la sua legittimazione con i movimenti studenteschi americani e con la famosa copertina del 1967 con cui Time, dichiarando i giovani personaggi dell´anno, consegna il potere alle nuove generazioni».
Quando questo cambiamento tocca la figura del padre?
«La figura del padre indegno comincia apparire nell´Ottocento, sia nella letteratura romantica sia sulla stampa periodica: fino a quel momento il padre negativo e distruttivo era l´eccezione, il mostro. Il fatto che diventi un´apparizione regolare è un fatto senza precedenti».
Il padre di oggi che accudisce il figlio è ugualmente una figura nuova?
«In parte, è un riflesso del venir meno di alcuni tabù: quello dell´omosessualità, per esempio. La rigidità paterna è stata sempre legata anche alla paura di comportarsi in modo troppo femminile. Vedo favorevolmente il padre come ausiliario della madre: purché si vada comunque a riempire il vuoto lasciato dal principio psichico paterno».
Manca dunque, a suo parere, un principio di autorità?
«Manca il principio di autorità buona: che esiste anche se nei secoli è stato anche esercitato in modo tremendo. Ma non ci sono stati solo padri violenti, bensì padri che hanno usato l´autorità per intervenire, come è necessario per incanalare l´aggressività dei giovani maschi. Oggi quel principio è venuto meno: e la sua assenza si collega alla forte crescita della criminalità giovanile gratuita».
I padri di oggi si sottraggono al gesto di Ettore, quello di sollevare il figlio verso l´alto pregando che sia più forte di lui?
«I salti generazionali, oggi, sono tali che i padri non riescono a capire cosa significhi il successo per i propri figli. Molto spesso l´accudimento paterno è più diretto e emozionale. Quel che il freudismo ortodosso non ha abbastanza preso in considerazione è che il padre come autorità buona non è solo castratore e invidioso: ma prova gioia nel vedere il figlio che va avanti».

Repubblica 1.2.10
L’ultimo saggio del sociologo svizzero sui rapporti tra i paesi ricchi e il resto del mondo
Ziegler: "Ecco come nasce l’odio per l´occidente"
di Giampaolo Cadalanu

"Spero che le cose possano cambiare e migliorare: c´è più coscienza da parte di tutti"

Per capire l´odio non servono il linguaggio castigato, la prudenza, gli occhiali rosa. Danno un´idea del mondo che è una bugia, comoda solo a nascondere i privilegi. Jean Ziegler non ha bisogno di essere diplomatico. Non lo è stato in passato, come sociologo appassionato di Africa, come parlamentare critico verso la sua Svizzera, come docente e saggista. Non lo è stato fino al 2008, da relatore speciale delle Nazioni Unite per il diritto al cibo. Adesso è consigliere del Comitato Onu per i diritti umani e a 75 anni ha meno voglia che mai di moderare il suo sdegno. È un manifesto dell´indignazione il suo ultimo libro, "L´odio per l´Occidente", che in questi giorni va in libreria per l´editore Tropea. Toni forti in tempi di passioni avvizzite: «Bisogna tornare a Jean-Paul Sartre, quando diceva che per amare l´uomo bisogna odiare ciò che lo opprime. E non "chi", ma "ciò" che lo opprime». La ricetta di Ziegler è quella di voler capire a tutti i costi, per gridare la nudità non più dell´imperatore, ma dell´impero stesso.
Professor Ziegler, dove nasce l´odio per l´Occidente?
«Ci sono due tipi di odio, che vanno distinti. Il primo è l´odio patologico, quello di Al Qaeda, che porta al terrorismo. Si tratta, appunto, di una forma patologica da condannare senza scuse. E di quest´odio nel libro non mi occupo. C´è però un altro tipo di odio, che io chiamo ragionato, basato sulla rinascita di un´identità collettiva e sulla resistenza all´ordine capitalistico».
L´odio patologico si esprime con atti di terrorismo, con l´aggressione all´Occidente. Che cosa produce invece questo odio ragionato?
«Produce nazioni capaci di negoziare con l´Occidente. Da qui nasce per esempio l´elezione di un indio come Evo Morales alla presidenza della Bolivia. Quello che era il secondo paese più povero dell´America latina ora sta rinascendo, dopo che nei primi mesi di carica Morales aveva espropriato oltre duecento proprietà».
Ma quali sono le radici di questo sentimento?
«Tre sono le ragioni fondamentali. La prima è molto misteriosa: il recupero della memoria ferita, che affiora e diventa coscienza politica. È successo per esempio al primo vertice di Durban sul razzismo: all´improvviso i paesi del Sud e l´Africa hanno chiesto scuse e riparazioni. Prenda la vicenda di Haiti: quando gli schiavi si ribellarono, la Francia mandò l´esercito, che fu battuto. Allora Napoleone ordinò il blocco navale dell´isola e costrinse il paese a pagare 150 milioni di franchi d´oro, una somma enorme, agli ex proprietari degli schiavi. E Haiti pagò fino al 1883, fino all´ultimo centesimo. Nel settembre del 2001, a Durban, l´allora presidente di Haiti Aristide chiese la restituzione di quel denaro, che Parigi rifiutò. E poco tempo dopo Aristide fu rovesciato da un colpo di Stato con l´aiuto dei servizi segreti francesi».
Insomma, il passato diventa coscienza politica.
«Ha ragione Régis Debray a dire che oggi più che mai la memoria è rivoluzionaria».
Come reagisce l´Occidente a questa nuova coscienza?
«In maniera cieca e arrogante. Prendiamo Nicolas Sarkozy, che nel 2007 è andato a Dakar a dire che il colonialismo aveva parecchio di buono, ma l´Africa non ne ha approfittato. Ad Algeri ha causato una crisi dicendo "no" a Bouteflika che voleva le scuse per Setif, il massacro di manifestanti pacifici compiuto nel maggio 1945 dalla legione straniera».
La seconda ragione?
«È la doppiezza dell´Occidente in tema di diritti umani. Guardiamo al massacro iniziato il 28 dicembre 2008 da Israele a Gaza, con oltre 1200 persone uccise. Il 12 gennaio il consiglio dell´Onu per i diritti umani ha chiesto di fermare la strage e allo stesso tempo ha condannato il lancio di razzi da parte di Hamas. Ma gli occidentali non hanno voluto firmare. I diplomatici europei hanno esibito un´ipocrisia totale: due mesi dopo hanno chiesto una sessione speciale del consiglio per il Darfur, dove ci sono 2,2 milioni di sfollati. Gli africani si sono rifiutati».
Che effetto ha questo sugli organismi internazionali?
«Questa doppiezza paralizza l´Onu, allo stesso modo della memoria ferita. È una tragedia per la comunità internazionale».
Infine, qual è la terza ragione?
«È la dittatura mondiale del capitale finanziario, con cinquecento grandi società che controllano il 52 per cento del Prodotto interno lordo del pianeta. Nessuno mai - re, imperatori o papa - aveva accumulato un potere come quello dell´oligarchia bianca che fa profitti immensi, mentre ogni cinque secondi un bambino sotto i dieci anni muore di denutrizione nei paesi poveri. Secondo i dati Fao, muoiono 47 mila persone al giorno, e in totale gli affamati sono più di un miliardo. Eppure la stessa agenzia dell´Onu stima che l´agricoltura mondiale possa sfamare dodici miliardi di esseri umani, il doppio della popolazione globale».
Quindi la fame non è un problema di scarsità di risorse?
«No, assolutamente. Non c´è nessuna fatalità: ogni bambino che muore per fame è un bambino assassinato. Ucciso dall´assurdità dell´ordine mondiale cannibalistico di oggi».
Intendeva dire: capitalistico?
«No, cannibalistico. In fondo è la stessa cosa».
Lei non ha speranze per un mondo più giusto?
«La speranza c´è, perché mentre in Occidente cresce la coscienza della società civile, le nazioni del Sud stanno riscoprendo la loro identità, anche nei paesi islamici ci sono spinte per l´autocoscienza. I vecchi trucchi del colonialismo non funzionano più: i paesi poveri vogliono riparazioni. È la seconda indipendenza, la prima era superficiale».

domenica 31 gennaio 2010

l’Unità 31.1.10
Bonino-Vendola nel Pd?
Ma se piacciono proprio perché restano fuori...
La giornalista contesta l’idea lanciata su l’Unità da Manconi: I due neanche si somigliano... È Nichi il vero innovatore
di Rina Gagliardi

«Vendola e Bonino nel Pd», propone Luigi Manconi. Non condivido (allo stato dell’arte) questa prospettiva, ma la riflessione di Manconi mi è parsa comunque molto interessante. La riassumo con parole mie: poiché i confini tra le forze politiche del campo democratico e progressista si son fatti molto fluidi, e poiché queste stesse forze a loro volta si son fatte quasi “liquide”, che senso ha tenere in vita raggruppamenti che al momento non vanno oltre il 3 per cento? Perché dunque la gente della sinistra non sceglie l’ingresso organico nel “Partitone”, magari anche per farlo diventare una sorta di “casa comune”, appunto, dei progressisti e di tutti coloro che vogliono cambiare (in meglio) l’ordine delle cose? Ripeto: una tesi non convincente, ma plausibile. Essa però si presta, prima di ogni altra considerazione, ad almeno due obiezioni analitiche.
La prima è la (relativa) improprietà della coppia Bonino-Vendola. È vero che c’è un filo comune, anche rilevante, tra la leadera radicale e il presidente della Puglia: entrambi sono candidati esterni al Pd, entrambi sono fortemente caratterizzati, ed assai spiazzanti. Ma qui cominciano differenze non lievi: nel metodo (il consenso alla Bonino non è passato attraverso le primarie) e soprattutto nella personalità politica. Nichi Vendola incarna una sinistra radicale e nuova, anzi “innovata”, ricca di un legame non reciso con la storia del movimento operaio. Emma Bonino rappresenta, nell’immaginario, il valore della laicità e delle battaglie per i diritti civili ad essa connesse, ma non è agevolmente definibile come una personalità della sinistra – per la sua cultura liberista e marcatamente anglosassone. Non vorrei dilungarmi più di tanto: mi sento di poter dire con una certa sicurezza che la percezione che l’elettorato di centro-sinistra ha di “Vendola & Bonino” non è la stessa. Non mi pare, insomma, che la condizione “extra-Pd” configuri, di per sé, quasi una nuova identità, come sembra di capire dall’articolo di Luigi Manconi.
La seconda obiezione riguarda, ancor più radicalmente, la lettura della dinamica concreta di queste candidature. Qui ragiono soprattutto sulle primarie pugliesi. Siamo così sicuri che nello straordinario successo ottenuto da Nichi Vendola non sia intervenuta anche la sua condizione di autonomia dal Pd? Che il consenso di cui gode, anche presso l’elettorato del Pd, non sia legato anche alle garanzie di indipendenza e radicalità che egli può dare? Io credo proprio che sia così. E non mi riferisco, naturalmente, al fatto che Vendola sia il portavoce di “Sinistra ecologia e libertà” – mi riferisco, piuttosto, alla connessione virtuosa che si è stabilita tra il “Governatore” pugliese e il popolo di sinistra anche in virtù del fatto che egli è percepito come un politico autonomo e unitario. Libero nel senso di non “impastoiato” nei complessi e duri equilibri interni di un pur grande partito. Faccio un’affermazione che pure non sono in grado di dimostrare: se Vendola si fosse presentato a queste primarie come componente del Pd non avrebbe ottenuto lo stesso consenso. Né avrebbe mobilitato (nelle stesse dimensioni) proprio quell’ampia porzione di elettorato (di cui parla Manconi) di centro-sinistra che sta, se così si può dire, “in mezzo” – un po’ fluttuante tra voti utili (di testa) e voti di cuore. Mi sbaglio? Ma questo ragionamento vale anche per la candidatura di Emma Bonino: il fascino che lei è in grado di esercitare (qui tornano le somiglianze) sull’elettorato di centro-sinistra (ma anche su quello moderato) è anch’esso legato alla sua condizione di “esternità” al Pd. E anche, certo, alla sua (più che fondata) immagine di coerenza e “irriducibilità” extracastale.
E dunque? Dunque, finché il Pd restaquelcheoggiè(enonè),alPd stesso non sarebbe, nient’affatto, di giovamento quella sorta di “imbarcata” generale prospettata da Manconi. Io credo anche, s’intende, chel’esistenzadiunaforzadisinistra – semplicemente di sinistra – resti un obiettivo (quasi) irrinunciabile. Ma questo è un altro discorso. Intanto, teniamoci strette queste esperienze di “autonomia e unità” (dal Pd e con il Pd) che forse il 28 marzo ci consentiranno qualche bella soddisfazione – come diceva il compianto Mike Bongiono.
P.S.: Possibile che un analista acuto come Luigi Manconi non si sia accorto che il linguaggio di Nichi Vendola è anch’esso parte essenziale, oltre che della persona, della sua invidiabile capacità di comunicazione?❖

l’Unità 31.1.10
De Magistris presenta il suo libro con Vendola e il direttore dell’Unità
«Al meridione può nascere un antiberlusconismo di popolo»
Il magistrato e il governatore: «Se parte il Quarto Stato del Sud»
di Mariagrazia Gerina

Prove di dialogo. L’ex magistrato denuncia i limiti del «giustizialismo», il governatore rosso ammette che «bisogna fare i conti anche con la questione morale dentro di noi». A dividerli resta il giudizio su Craxi.

Luigi De Magistris lo disegna con un tratto naif come «il Quarto Stato che avanza»: «Un grande movimento di popolo, plurale, fatto di persone che sognano un partito diverso». Nichi Vendola lo vede già come «l’altro Sud che, schiena dritta e occhi al cielo, prova a capovolgere Gomorra». Un movimento, una rete. Un laboratorio. Dove far nascere invoca Vendola «parole capaci di convocare un popolo non manipolato, un vocabolario della speranza e del cambiamento». Qualunque cosa sia lo vogliono costruire, insieme, a partire dal Sud. L’ex magistrato dell’Idv che alle europee ha fatto il pieno dei voti al Sud. E il governatore rosso che nella sua Puglia ha appena raccolto le istanze di un popolo ben più vasto della Sinistra e libertà di cui è portavoce. Al Piccolo Eliseo di Roma, una settimana dopo le primarie pugliesi e pochi giorni prima del congresso dell’Idv, sono tutti e due lì a cercare un lessico comune. De Magistris che cita Gramsci e Berlinguer, Rosarno e l’articolo 1 della Costituzione. E Vendola che parla all’Italia di Saviano e del giudice Livatino. L’ex magistrato non lo segue solo quando prova ad aprirsi un varco sul Craxi di Sigonella e del caso Moro, per dire che la sua «uccisione simbolica» ha congelato i conti con Tangentopoli.
Occasione del dialogo: la presentazione con Concita De Gregorio del libro di De Magistris, Giustizia e potere (Editori riuniti). Ma la folla che si accalca è la spia che la posta è più alta. Fan, elettori insoddisfatti, delusi: dal Pd, da SeL o dall’Idv, non importa. Un pezzo di quell’Italia che è già scesa in piazza per il no-Bday. E che i due leader provano a intercettare, lasciando intravedere la possibilità di un progetto politico comune. Alternativo a Berlusconi ma anche al «berlusconismo che ha infettato la sinistra». Al Pdl ma anche a future maggioranze, guidate da Casini, Gianni Letta o Fini, già “elette” dai poteri forti. «Perché va bene il voto moderato ma ci vuole anche il cambiamento». Capace di correggere i limiti del giustizialismo. E di parlare di acqua e nucleare, per dire no alle privatizzazioni e al ritorno di «vecchie ideologie che ci vogliono avvelenare».
Perché se Berlusconi è il perno attorno a cui ruotano i ragionamenti, quello che i due si sforzano di declinare è un nuovo anti-berlusconismo. «Senza odio» e consapevole che la «questione morale è dentro di noi, bussa alla nostra porta e noi stessi dobbiamo fare i conti con le ombre delle esperienze di governo di centrosinistra», scandisce l’anti-Berlusconi pugliese. Che si rappresenta implacabile contro «il presidente del consiglio che proprio a Bari è clamorosamente inciampato in una singolare epopea di ninfe, cantastorie e meretrici». Ma anche contro «il nemico interno» che ha il volto del «cinismo e del disincanto».
E il Pd che ruolo ha in tutto questo? «È un interlocutore fondamentale», dice Vendola. «Anche se guarda caso rimarca De Magistris l’intesa con l’Idv il Pd non l’ha trovata proprio in Campania e in Calabria, dove è caduto sulla questione morale». Ma il problema non è «il Pd che verrà», guarda oltre le divisioni Vendola: «è anche l’Idv o la SeL che verrà, tutti siamo specchio della crisi». La soluzione? «Avere l’umiltà di metterci in rete».❖

il Fatto 31.1.10
Vendola e de Magistris: prove di dialogo davanti a platea romana
di Luca De Carolis

Il trionfatore delle primarie e l’ex magistrato scomodo, seduti l’uno accanto all’altro. Uniti dall’affetto della gente e dal progetto di “un’alternativa al berlusconismo”, ma divisi su Craxi, ormai inevitabile pietra di paragone per la politica. La sua storia vale giudizi diversi per Nichi Vendola e Luigi de Magistris, ieri a Roma per presentare il libro dell’europarlamentare dell’Idv, “Giustizia e Potere”, appena uscito per Editori Riuniti. Ma nel Piccolo Eliseo, stracolmo anche in un piovoso sabato mattina, l’attesa era quasi tutta per Vendola, come ha dimostrato l’ovazione da stadio con cui è stato accolto.
Troppo forte la voglia di celebrare un testardo di successo, che riempie il dibattito con le sue parole forbite e trancianti: “L’Italia è in via di putrefazione, sta smarrendo i propri codici civili”. L’esordio di una tirata in cui Vendola elenca incubi e miserie, partendo da quella Rosarno “dove lo Stato ha riportato l’ordine mafioso che domina da sempre nelle campagne, deportando gli immigrati che avevano alzato la bandiera della legalità”. L’imputato principale ovviamente è Berlusconi, perché “la sua equazione immigrazione uguale delinquenza vale come una sentenza, un processo breve”. Vendola ringhia contro “l’impudicizia del potere e il meretricio generalizzato”, e semina risate quando infierisce sul caso d’Addario: “Ber-
lusconi ha ritoccato il mito di Dioniso, passato da Wagner ad Apicella”. Concita De Gregorio, direttrice de l’Unità e moderatrice del dibattito, chiama in causa de Magistris. E l’ex magistrato precisa subito: “Ho chiamato Vendola per questo incontro prima delle primarie pugliesi, e mi è costato anche all’interno del mio partito”. La conferma che Di Pietro e una fetta consistente dell’Idv non stravedono per il leader di Sinistra e Libertà. Ma de Magistris ha tirato dritto: “Abbiamo differenti posizioni politiche, ma Nichi è un politico che si rivolge al popolo senza i populismi di Berlusconi, uno che sa mettersi in gioco”. Anche l’europarlamentare si sofferma su Rosarno: “I calabresi non sono razzisti, lo so perché ho lavorato nella loro terra. Ma a Rosarno c’è stata la convergenza tra Stato e ‘ndrangheta”. Poi un passaggio su Craxi: “Lo vogliono riabilitare per delegittimare Mani Pulite e per salvare Berlusconi. Tutti sanno che controlla tutti i mezzi di informazione grazie ai suoi rapporti illeciti con l’ex leader socialista”.
Applausi scroscianti. Vendola non fa una piega, ma quando il discorso plana sulla “questione morale” piazza i suoi distinguo: “Riguardo a Craxi, ci sono dei punti che mi rendono più problematici certi ragionamenti manichei. Penso alla vicenda di Sigonella”. Il Craxi che nel 1985 sbarrò la strada agli americani, pronti allo scontro armato pur di ottenere i sequestratori palestinesi dell’Achille Lauro, piace a Vendola: “Il suo fu un atto di autonomia, che dimostrò come non fosse necessario mettersi in ginocchio davanti agli Stati Uniti”. La sala si fa silenziosa, ad applaudire sono in due, forse tre. Qualcuno bofonchia. Ma Vendola insiste, e cita il caso Moro: “Craxi ruppe il fronte della fermezza, mettendo la sacralità della vita davanti alla ragione di Stato. Proprio quel principio di cui Moro parlava nelle sue lettere dalla prigionia”. De Magistris non replica, De Gregorio fa domande sull’acqua e sul nucleare. All’uscita, Vendola celebra un’altra irregolare: “Emma Bonino è una personalità straordinaria, vincerà la sua battaglia nel Lazio perché è la bandiera dei valori costituzionali”.

il Fatto 31.1.10
Bugie in classe
La stampa ha annunciato che la riforma delle superiori era passata. Non è vero. E in quei regolamenti è assente un progetto culturale per la scuola
di Marina Boscaino

A metà di questa settimana stampa e tv si sono incaricato di annunciare al Paese che la riforma delle scuole superiori era passata. Non è vero. Aveva ragione il ragazzo che qualche giorno fa, in una lettera su questo giornale, denunciava il disinteresse dei media: la dismissione della scuola della Costituzione è sotto gli occhi di tutti, ma nessuno sembra interessarsene, persino accorgersene. Per quel ragazzo e per gli scettici, refrattari agli annunci del Tg di Minzolini: a metà della settimana la Commissione Cultura del Senato ha approvato (con una serie di raccomandazioni) i regolamenti della “riforma Gelmini” per un voto, quello di un senatore Udc. Analogo parere era stato espresso alla Camera. Secondo procedura, sui regolamenti di licei, istruzione tecnica e professionale, si erano anche espressi il Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione e la Conferenza Unificata Stato-Regioni: entrambi i pareri sono stati negativi. Si è poi pronunciato il Consiglio di Stato, prima negativamente, in dicembre; poi positivamente, in gennaio, con riserve però giuridicamente così sostanziali (ad esempio sull’intenzione di intervenire in alcuni ambiti con decreti “aventi natura non regolamentare”; o sull’eccesso di delega) da sollevare, in un esecutivo competente e responsabile, dubbi sulla possibilità di iniziare dal prossimo anno scolastico. Tanto più che il mondo della scuola non è stato minimamente consultato. Invece il Governo va avanti: “Quei pareri sono obbligatori e non vincolanti; è già tanto sembrano volerci dire che celebriamo l’iter prescritto. Non pretenderete che addirittura teniamo conto di quanto ci viene segnalato!”.
E così, alla fine, prima o dopo, regolamenti claudicanti, rozzi, iniqui, che ritornano a una scuola di almeno 40 anni fa, che sono nati dall’art. 64 della l.133/08 (“Contenimento della spesa per il pubblico impiego. Disposizioni in materia di organizzazione scolastica”) passeranno in seconda lettura in Consiglio dei Ministri e poi alla Corte dei Conti, per essere infine pubblicati in Gazzetta Ufficiale. Il tutto, probabilmente, ad iscrizioni scadute. Solo allora – cari media che avete gridato alla “riforma” – saranno legge: questo prevedono le legittime procedure giuridiche della Repubblica Italiana. Solo allora passerà una riforma motivata – insisto – da quella legge, confluita nella Finanziaria 2009: taglio, nel triennio 2009-12, di 7.6 miliardi di euro sulle spese della scuola pubblica, con tanto di eliminazione di 135.000 posti di lavoro. Quella stessa che ha fatto optare (contro ogni evidenza formativa) per il maestro prevalente e messo in discussione il tempo pieno alla primaria.
Rispettare le previsioni di taglio per il prossimo anno scolastico: da qui la fretta disperata per far approvare i regolamenti, che tagliano cattedre, tempo scuola, diritti – e quindi crescita ed emancipazione per il Paese – riducendo la superiore alla caotica rappresentazione della pochezza politica e della spregiudicatezza di coloro che ci governano. Sarebbe un errore affermare che la scuola rappresentata in quei regolamenti non corrisponda ad un progetto culturale: l’assenza è il progetto medesimo. Estinzione di tutte le sperimentazioni, che hanno rappresentato in molti casi esperienze felici di crescita di professionalità e di apprendimenti; eliminazione di saperi fondamentali (Geografia, di cui si parla in questi giorni, non è che uno degli esempi); esproprio dell’autonomia scolastica; demolizione dell’idea di biennio unitario, con competenze garantite e comuni a tutti, per realizzare davvero l’obbligo scolastico; un’ istruzione per i nati bene (licei) e un’altra per i figli di un dio minore; frammentazione dell’unitarietà del sistema scolastico nazionale, con la regionalizzazione: sono alcuni degli ingredienti per sottrarre scientemente alla scuola la sua straordinaria forza di inclusione democratica e di crescita della cittadinanza e il suo mandato costituzionale. Questo il piatto che ci stanno preparando. Ma, per favore, non dite che è già pronto.

il Fatto 31.1.10
Oltre il 27 gennaio
Il giorno della memoria, la Lega nord e i razzismi di ritorno
di Maria Laura Cecchini

I l “Giorno della memoria” è stato sottolineato un po' ovunque, ma non possiamo negare l'aspetto un po' scontato e rituale; calato in un atmosfera di generale freddezza, accompagnata nel nostro paese da alcuni segnali di disagio da parte della comunità ebraica, soprattutto legati all'operazione in atto di beatificazione di Pio XII; importante invece l'esperienza educativa per i giovani studenti e l'omaggio anche adulto della partecipazioni alle celebrazioni di Auschwitz. Non possiamo purtroppo negare che, accanto alla marginalità di poche scritte e segnali razzisti di stampo neo-nazista, si vada diffondendo nel nostro paese, assai più che nel resto d'Europa una crescente ostilità diffusa verso il diverso, identificato generalmente con l'immigrato. Gli esponenti della Lega hanno sponsorizzato la politica delle espulsioni di massa, vantandosi di sapere, loro sì, ascoltare la gente, puntando soprattutto sulla “sicurezza”, che sembra essere divenuta la parola magica attraverso la quale i voti arrivano copiosamente. Non si sa bene però, se con l'aiuto della crisi economica e la sofferenza sociale che ne consegue, all'origine vi sia di più il malcontento della popolazione, o invece la politica della Lega, che cavalcando e contemporaneamente stimolando l'odio sociale, la dirotta verso gli immigrati. Cosa c'è di meglio per distrarre la collera degli operai, degli artigiani, della gente che dirottarla contro gli immigrati cavalcando l'odio della popolazione contro di loro? L'antisemitismo era già servito alla fine dell'800 in piena crisi economica, quando le potenze europee cavalcavano il nazionalismo protezionistico e la gara coloniale, avviandosi velocemente verso la prima guerra mondiale; e dopo l'avvento del fascismo e la grande crisi del '30 si vide l'ascesa di un oscuro razzismo che fin dal dopo guerra, gridava al complotto dell'Europa contro la Germania e additava negli ebrei il nemico da abbattere. Hitler, con l'inflazione altissima che travolse la Germania, trovò la strada maestra verso il potere attizzando l'odio dei tedeschi prima contro i nemici interni, ebrei e comunisti; e infine cavalcando il mito della super-razza, sempre scagliandosi contro tutti i diversi, compresi i Rom e gli handicappati, attaccò tutta l'Europa con una nazione super militarizzata e ubriacata dalla miscela anti-semita; già, ancora l'anti-semitismo: allora sarebbe stata la finanza ebraica che avrebbe affamato la Germania, di qui le leggi razziali e la politica dello sterminio. Nel “Giorno della memoria” lo scrittore premio Nobel Wiesel è stato ricevuto e ospitato dal nostro Parlamento: l'introduzione al suo intervento è stata fatta da Fini egregiamente, che da tempo cerca di smarcarsi dalle politiche della Lega contro l'immigrazione, specialmente dopo l'incarico dato a Gheddafi di “occuparsi” degli espulsi, senza verifiche di come questi, dirottati in Libia, vengano trattati. Nemmeno di come finivano gli ebrei si sapeva più nulla. Sparivano e basta. Durante il discorso di Wiesel è risuonata a lungo la parola perchè? Già, perchè? Perchè in seguito a certe politiche le società cambiano in peggio, l'aggressività cresce e cala il controllo democratico per cui possono accadere mostruosità senza che la popolazione se ne accorga o se ne voglia accorgere?

Repubblica 31.1.10
Ecco i nuovi medici la carica dei 15.000 "camici" stranieri
"Ma l´Italia non ci aiuta". Ogni anno 500 in più
di Vladimiro Polchi

La denuncia dei professionisti: troppe difficoltà per partecipare ai concorsi
Lavorano soprattutto in Lombardia e Lazio E molti provengono dall´Europa dell´est

ROMA - Maria fa il medico. Lavora sulla costa laziale, vicino a Ladispoli. È brava nel suo lavoro e da libero professionista ha molti pazienti, italiani e immigrati. Maria ha un nemico: si chiama burocrazia. Quella che ha dovuto affrontare per farsi riconoscere la laurea in medicina. E quella che ancora le chiude le porte dei pubblici concorsi. Maria Braniste infatti ha un problema: non è italiana, è moldava. E come lei sono tanti i camici bianchi stranieri che lavorano nel nostro Paese: circa 15mila.
Quella di Maria è una storia di immigrazione qualificata, anni luce lontana dalla clandestinità. I medici stranieri iscritti all´Ordine in Italia sono 14.548, di cui il 42,3% donne (dati Emn Italia). Erano 12.527 nel 2004 (con un aumento di 500 nuovi camici l´anno). Lavorano per lo più al Nord (52,2%) e al Centro (26%). Si concentrano soprattutto in Lombardia, Lazio, Emilia Romagna e Veneto. Da dove arrivano? Da Germania (1.276), Svizzera (869), Grecia (851), Iran (752), Francia (686), Venezuela (626), Usa (618), Argentina (564), Romania (555) e Albania (451). A loro si aggiunge poi l´esercito di infermieri immigrati che lavora per la nostra sanità: 35mila, di cui 8.500 romeni.
Due sono le ondate che hanno portato schiere di medici stranieri ad esercitare nel nostro Paese: la prima, composta da studenti che sono venuti a laurearsi in Italia, proviene da Iran, Grecia, Palestina, Giordania; la seconda, successiva al crollo del muro di Berlino, arriva dall´Europa dell´est ed è fatta per lo più di medici già laureati nel Paese d´origine.
Della prima ondata fa parte Teofilo Mukeba Katamba, nato in Congo nel 1949, arrivato a Roma nel 1975 per studiare medicina. Oggi Katamba, sposato con un´italiana, tre figli, fa il neurochirurgo ed è un esperto di bioetica: «Sono stato spesso discriminato, prima all´università, poi nelle cliniche private - racconta - e oggi lavoro come libero professionista, solo grazie al passaparola dei miei pazienti, perché non ho alcuna collaborazione da parte dei medici di famiglia italiani».
Meglio è andata a Abo Abbas Jamal, siriano, arrivato nel 1969 a Bologna per studiare medicina. Jamal è oggi un pediatra di base a Roma, ha la cittadinanza italiana e cura un progetto con alcune università per lo sviluppo dell´oncologia in Siria. «Noi orientali - sostiene - diamo una grande attenzione all´ascolto e al dialogo e questo con i pazienti è sicuramente un valore aggiunto».
Baleanu Petre Mihai è invece arrivato con la seconda ondata. Romeno, è entrato in Italia nel ‘90, già laureato. Oggi si occupa di chirurgia del piede: «Sono venuto in Italia alla ricerca di un Paese più libero e democratico - racconta - e non perché mi mancava il lavoro. Ho lavorato inizialmente a Roma come infermiere in una clinica e facendo assistenza domiciliare. Non ho mai avuto un contratto lavorativo, ma ringraziando Dio, il lavoro non mi è mancato. Non ho frequentato comunità straniere nella ricerca di un identità, perché ho sempre considerato fondamentale per integrarsi imparare bene la lingua e le abitudini del popolo italiano». Per farsi riconoscere la laurea, Mihai ha dovuto però ripetere l´ultimo anno di medicina in un´università italiana (a Chieti).
Dal 1989 (legge Martelli), infatti, un medico extracomunitario che voglia lavorare in Italia o si iscrive di nuovo all´università o fa domanda di riconoscimento al ministero della Salute. «È quello che ho fatto io - ricorda Maria Braniste - ma l´iter burocratico è stato lunghissimo e il decreto del ministero è arrivato solo dopo due anni». Non solo. «In quanto extracomunitaria non ho accesso al pubblico impiego». Questo è il punto dolente: «Senza la cittadinanza i medici extracomunitari non possono fare concorsi pubblici - spiega il dottore Foad Aodi, palestinese, presidente dell´associazione medici d´origine straniera in Italia (Amsi) - e questo ha impedito a molti di inserirsi veramente. Noi siamo per un´immigrazione qualificata, che è l´opposto di quella irregolare, ma chiediamo che dopo cinque anni di lavoro legale in Italia si possa finalmente accedere ai concorsi pubblici». Anche perché «se le iscrizioni annuali a medicina continueranno a essere 6.200 l´anno, presto l´Italia avrà un gran bisogno di camici stranieri».

Liberazione 30.1.10
Burqa che confusione
Ma una cosa è certa: la legge non serve
di Tonino Bucci

In Francia la proposta di una legge antiburqa nei luoghi pubblici raccoglie consensi trasversali, dalla destra gollista alla sinistra comunista, tutti accomunati dall'identificazione nei valori di laicità della Repubblica (una cosa seria per i francesi, si sa). Motivazioni diverse, certo. C'è chi vuol criminalizzare il burqa per un senso tronfio di immedesimazione nella grandeur francese. C'è chi è convinto che la storia e le istituzioni della Francia siano il punto più alto raggiunto dal genere umano nel tempo e che sia una via obbligatoria dover integrare, anzi assimilare lo straniero nel proprio modello di cittadinanza, sia pure a colpi di decreti e di leggi. E c'è anche però chi si riconosce in una sorta di illuminismo radicale e laico che vorrebbe riconoscere un diritto universale alla cittadinanza, quale che sia il sesso, la religione e la condizione economica. Vero, non si può ignorare che il burqa e il niqab, cioè i veli integrali, siano in molti casi frutto di imposizione alle donne, una barriera tra il loro corpo e il mondo messa lì da un'autorità maschile. Vero anche, forse, che molte situazioni della vita pubblica, dall'uso della carta di credito alla richiesta dei documenti, impongono la riconoscibilità. Ma ammesso che le cose stiano così, è plausibile immaginare che un colpo di legge tutto si risolverebbe come d'incanto? Non è invece più probabile che un divieto imposto per decreto spingerebbe molte donne a esibire il burqa proprio come segno orgoglioso di diversità? E, ancora, vale davvero la pena stabilire una legge per un numero esiguo (in Francia e, a maggior ragione, da noi in Italia) di donne in burqa? E, infine, in cosa dovrebbe consistere la sanzione?
Se questi sono i dubbi per quanto si va discutendo in Francia, ben più penoso è il simulacro di dibattito che s'è avviato anche in Italia. La ministra Carfagna e la Lega si sono subito accodati alla linea Sarkozy. Qui di progressista neppure l'apparenza, perché sotto la propaganda di chi dice di agire per il bene delle donne musulmane, c'è solo l'islamofobia, una pulsione aggressiva da scontro di civiltà. «Trovo stucchevoli e in mala fede - commenta l'antropologa Annamaria Rivera, docente all'università di Bari - queste fiammate ricorrenti di furore "laicista", sempre propagandistiche, sempre strumentali a strategie o scadenze elettorali. Tanto più che il fenomeno burqa e niqab in Francia è assolutamente marginale, in Italia quasi inesistente. E trovo grottesco che da noi a proporre di "fare come la Francia" siano quegli stessi personaggi che invocano una nuova Lepanto contro l'islam e difendono le "radici cristiane" con argomenti per lo più fondamentalisti. A mio parere, non ha molto senso neppure discutere se burqa, niqab, chador o hijab - sempre confusi in Italia - siano dei simboli religiosi. A volte sono solo convenzione, tradizione o addirittura, in qualche caso, una scelta anticonformista. E' vero, invece, che in Europa quanto più sono oggetto di scandalo e di proibizione, e nel contesto di campagne antimusulmane, tanto più possono essere esibiti come simboli identitari. Sono temi che ho sviscerato cinque anni fa ne La guerra dei simboli . Rispetto ad allora non si è fatto un passo avanti».
«In questi anni va di moda prendere di mira il target musulmano - a dirlo è il sociologo Adel Jabbar - spesso, non dobbiamo nascondercelo, c'è un uso strumentale. Com'è possibile, mi chiedo, che la politica, con tutti i problemi che ci sono, investe tanto tempo a occuparsi del burqa? Io penso che sia una scorciatoia per raccogliere voti. Di fatto questi approcci alla questione finiscono per alimentare un clima da scontro di civiltà. Così si alzano muri». «Il burqa - dice Alessandra Mecozzi, responsabile internazionale della Fiom - riguarda una minoranza sparuta di donne musulmane residenti in Francia. In Italia non ne parliamo neppure. Non c'è il senso della misura. E' un errore usare la mannaia della legge, fosse pure in nome dei valori della Repubblica, come dicono i francesi, o dei diritti universali delle donne che mi pare il tema centrale. In ogni parte del mondo i diritti sono stati sempre conquistati con le lotte. Le donne ci devono arrivare a partire da sé».
Ma anche a voler prendere per buone le motivazioni dei laicisti e di quanti/e sollevano il tema dell'oppressione delle donne, quali effetti pratici avrebbe una legge? «Come potrebbe una legge - risponde Alessandra Mecozzi - proibire di fatto che alcune donne se ne vadano in giro nei luoghi pubblici vestite col burqa? E se alla fine l'unico effetto è che le donne resterebbero in casa? La legge è uno strumento troppo rozzo per affrontare un tema così complesso. Non voglio dire che non esista per tutte le donne il diritto a essere libere e andare vestite come credono, ma ci si deve arrivare per gradi e tappe e attraverso le lotte. In questa vicenda scorgo una grande ipocrisia. Prima si fanno leggi orribile contro l'immigrazione, si alimenta il razzismo istituzionale e quello di massa, e poi improvvisamente ci si dichiara paladini delle donne musulmane». Altra risposta quella di Annamaria Rivera. «Quei "comunisti" (in Francia) e quelle femministe (ovunque) che hanno sostenuto la legge contro il foulard islamico e oggi ne vorrebbero un'altra contro burqa e niqab in fondo hanno un'idea stereotipata ed etnocentrica dell'islam e della liberazione femminile: dietro il primo vedono sempre l'ombra dell'integralismo e concepiscono la seconda solo come applicazione ed estensione del modello liberale (o forse certi "comunisti" francesi hanno nostalgia di quello sovietico). Siamo arrivati al paradosso per cui sembra più moderato Le Pen: sostiene che sarebbe sufficiente l'applicazione delle norme di ordine pubblico che proibiscono di circolare a volto coperto. E i socialisti francesi che si oppongono a una nuova legge proibizionista sono gli stessi che inaugurarono il percorso legislativo che condusse alla legge contro il "velo". E' un falso dibattito, tutto strumentale alle prossime elezioni regionali che non a caso arriva sull'onda dell'altro dibattito sull'identità nazionale, sempre in Francia, voluto dal ministro dell'immigrazione, che sta diventando una campagna contro i francesi di origine straniera, musulmani in testa».
Il rischio è che ci si incarti nella contrapposizione tra un partito dell'assimilazione che in nome dei diritti universali ritiene giusto anche il ricorso a una legge e un partito del relativismo che relega il burqa a differenza culturale. «A me - spiega Alessandra Mecozzi - questa contrapposizione suona un po' falsa. Messa così è un dibattito che vola sulla testa delle donne. Spetta a loro conquistarsi i diritti». Sulla stessa lunghezza d'onda anche Annamaria Rivera. «Non la vedo esattamente così. L'universalismo invocato da chi auspica leggi proibizioniste è del tutto particolarista: si ritiene che un capo o un corpo femminili troppo coperti siano un'offesa alla dignità delle donne e non si vede quanto siano offensive l'appropriazione e mercificazione dei corpi femminili, e l'obbligo della nudità o della quasi-nudità. D'altra parte, non è necessario essere relativisti per opporsi a leggi proibizioniste tanto stupide. Basta essere saggi/e e in buona fede. Proprio la legge francese contro il "velo" dovrebbe insegnare che non è così che "si liberano le donne". A che è servita se non ad alimentare rancore e a dirottare un buon numero di studentesse d'ambiente musulmano dalla scuola pubblica alle scuole confessionali? E poi la strada del proibizionismo è senza fine: ieri la legge contro il velo, oggi quella contro il burqa, domani, chissà, una legge contro la tunica o la gonna lunga». Per Adel Jabbar non si tratta tanto di negare l'esistenza del problema. «Non dico che non occorre intervenire, ma non è di leggi e divieti che c'è bisogno. Occorrono altri interventi culturali ed educativi nei territori di residenza. Servizi sociali, gruppi di donne, insomma far incontrare le persone, creare un clima di fiducia e di relazioni con i diretti interessati. Altrimenti, questa modernità sbandierata, a volte in nome della laicità, a volte in nome delle donne, diventa pretesto per un attacco al mondo musulmano. In Italia i più accaniti vorrebbero eliminare non solo il burqa, ma anche moschee, minareti e luoghi di culto. Le organizzazioni musulmane in Italia sono tutte contrarie all'uso del burqa. Il problema non sussiste. Gli interlocutori ci sono. Partiamo da qui».

il Fatto 31.1.10
I desaparecidos non dimenticano le colpe di Videla
L’ex dittatore argentino chiamato in causa per una vittima tedesca
di Anna Vullo

Un moto di fastidio, un gesto nell’aria con la mano, come a voler scacciare una mosca.
Chi l’ha conosciuto da vicino è pronto a scommettere che Jorge Rafael Videla deve aver reagito più o meno così all’ultima accusa che lo riguarda. Si tratta della sparizione e dell’omicidio, nel 1978, di un cittadino tedesco, Rolf Nasim Stawowiok, per il quale la Procura di Norimberga ha emesso un mandato d’arresto internazionale nei confronti dell’ex capo della giunta militare che governò l’Argentina tra il 1976 e il 1981.
La vittima allora era un ragazzo. Aveva vent’anni e come migliaia di suoi coetanei militava nella gioventù peronista. Con la differenza che aveva la doppia cittadinanza, argentina e tedesca. Scomparve nel nulla un giorno del febbraio di 32 anni fa. Probabilmente venne spinto a forza in una patota, le Ford Falcon che i militari usavano per sequestrare i presunti oppositori al regime. Quindi venne fucilato e gettato in una fossa comune nel cimitero di Lomas de Zamora, a sud di Buenos Aires.
Per anni quello di Stawowiok è rimasto un corpo senza nome. Fino al 2004, quando l’equipe argentina di antropologia forense che da anni tenta di ricostruire l’identità dei desaparecidos ha permesso, grazie a un test del Dna, di riconoscere i resti della vittima e stabilire le cause della sua morte. Consentendo così la riapertura del caso.
Jorge Rafael Videla è detenuto dal 2008 nel carcere militare di Campo de Mayo, alla periferia di Buenos Aires, dove dovrebbe scontare l’ergastolo per il rapimento sistematico di neonati nati nei campi di detenzione illegali negli anni della cosiddetta guerra sporca. Una prigione dorata, secondo i familiari dei desaparecidos e i sopravvissuti ai campi di tortura, dal momento che si tratta di un carcere militare dove è plausibile che non gli vengano negati trattamenti di favore. L’ex militare era già stato condannato all’ergastolo nel primo processo alla giunta dell’85, dopo il ritorno della democrazia, ma nel 1990 l’allora presidente argentino Carlos Meném gli aveva di fatto concesso l’indulto.
Nel ’98 fu arrestato di nuovo. Venne trascinato fuori di casa in manette in una giornata grigia e ventosa e rinchiuso in un carcere comune. La figura esile dell’ex dittatore, i suoi gelidi occhi piccoli e neri finirono sulle prime pagine di tutti i giornali. Gli avvocati protestarono il militare era anziano – e ottennero gli arresti domiciliari. Beneficio che gli venne revocato nel 2008. Secondo il portavoce della Procura Thomas Koch è improbabile che l’ex dittatore venga estradato in Germania, dal momento che deve ancora rispondere davanti alla magistratura di Buenos Aires di 30 omicidi, 571 sequestri e 268 sparizioni, oltre a delitti di lesa umanità commessi nei centri di detenzione clandestina guidati dal generale Guillermo Suarez Mason, ex coman-
dante in capo dell’Esercito. Un macabro record che l’ex golpista si contende con Luciano Benjamin Menendez, un altro militare originario di Cordoba. Con la differenza che dal 1985 Videla non è mai più comparso sul banco degli imputati.
L’anno passato anche la procura di Roma aveva chiesto l’estradizione del dittatore per l’uccisione di 27 italiani, richiesta contro la quale si era espresso lo stesso Videla con la motivazione che tali crimini avrebbero già fatto parte del processo contro i militari del 1985. Videla è uno dei simboli degli anni bui della storia ar-
gentina. Un simbolo di terrore e morte. Come l’angelo biondo Alfredo Astiz, l’ex capitano di corvetta responsabile di numerose atrocità che in questi giorni è alla sbarra come imputato nel maxi-processo Esma, l’ex scuola Meccanica della Marina dove furono rinchiuse, torturate e uccise oltre 5000 persone. La speranza della società civile è che anche Videla compaia presto in aula per rispondere dei crimini commessi. L’immagine forse più celebre di Videla è quella dell’ex dittatore che brandisce il trofeo dei Mondiali di calcio vinti dall’Argentina nel 1978. Sugli spalti la folla esultava, nei sotterranei dello stadio si torturavano migliaia di oppositori. Il mondo fingeva di non sapere.
I desaparecidos della dittatura sarebbero almeno trentamila. Un’intera generazione spazzata via, quella che oggi avrebbe potuto essere la classe dirigente del Paese. Una ferita ancora aperta che ha segnato in modo indelebile la memoria dell’Argentina.
Oggi, con l’aiuto della giustizia, dopo oltre trent’anni il Paese spera di poter finalmente chiudere i conti con il suo passato.

il Fatto 31.1.10
A Teheran i giorni del “Terrore”
Si inasprisce la repressione del regime contro il movimento verde

I n Iran regna un “clima di terrore”: è il grido di allarme dei due leader politici dell’opposizione iraniana, Mirhossein Mussavi e Mehdi Karrubi, due giorni dopo l’impiccagione di due oppositori e in occasione dell’apertura di un nuovo processo contro altri 16 manifestanti antigovernativi. E in vista delle celebrazioni per il 31° anniversario della Rivoluzione islamica khomeinista l'11 febbraio, malgrado una diffida da parte dei Guardiani della Rivoluzione, l’opposizione su internet si dà nuovamente appuntamento in piazza: una sfida implicitamente raccolta da Mussavi e Karrubi, secondo i quali processi e impiccagioni sono un deterrente del regime per “dissuadere la gente dal manifestare l’11 febbraio”. I 16 imputati comparsi in una aula di tribunale sono accusati delle proteste contro la controversa rielezione del presidente Mahmud Ahmadinejad lo scorso 12 giugno. Cinque di loro sono accusati di Moharebeh (guerra contro Dio), imputazione passibile di condanna a morte, gli altri di disturbo dell’ordine pubblico e attentato alla sicurezza nazionale. Erano stati arrestati dopo i sanguinosi disordini scoppiati tra forze di sicurezza e oppositori il 27 dicembre, nella ricorrenza religiosa sciita dell’Ashura, causando almeno otto morti.
Il nuovo processo si apre due giorni dopo l’impiccagione dei primi due oppositori condannati nei processi dei mesi scorsi. Si tratta di due attivisti monarchici condannati a morte come mohareb (nemico di Dio).
“Condannando le recenti impiccagioni, Mussavi e Karrubi hanno chiesto che la situazione dei prigionieri sia esaminata in conformità con la legge”, scrive Sahamnews, il sito del partito di Karrubi. Secondo i due leader riconosciuti del movimento verde, “le impiccagioni hanno lo scopo di creare un clima di terrore per dissuadere la gente dallo scendere in piazza il prossimo 11 febbraio”. Un appuntamento, dicono Mussavi e Karrubi, al quale la “popolazione” deve “partecipare in massa”.
Prevedendo la nuove sfida il comandante dei Guardiani della Rivoluzione di Teheran ha messo ha messo in guardia le opposizioni: “Non consentiremo in alcuna circostanza al movimento verde di farsi vivo... Di certo non assisteremo a nulla del genere, ma anche se una minoranza volesse tentare qualcosa, ci saremo noi ad affrontarla con decisione”, ha detto il generale Hossein Hamedani. Ieri ha fatto sentire la sua voce anche il potente ex presidente Akhbar Hashemi Rafsanjani, considerato oppositore moderato e un pragmatico che ha tuttora un ruolo di rilievo nel regime, che ha invitato tutte le parti alla moderazione e ad astenersi da ogni violenza in occasione delle celebrazioni per la festa della Rivoluzione islamica, “che non servirebbero ad altri che ai nemici” dell’Iran.

l’Unità 31.1.10
«Per Israele le colonie sono un pericolo»- Il grido degli scrittori
Parla di «logica colonialista» Yehoshua, per Grossman un errore gli insediamenti Oz: creano una spaccatura nel Paese. E Shalev: siamo a rischio fondamentalismo Sterhnell accusa: due giustizie parallele, una per i coloni, l’altra per i palestinesi
di Umberto De Giovannangeli

Scrittori in trincea. Con la loro passione civile, con la forza delle loro idee, mettendo in gioco la propria credibilità, il loro successo. Scrittori scomodi al potere politico, per la determinazione delle loro denunce, per l'eco internazionale che esse hanno. Scrittori d'Israele. Sensori viventi del pericolo, non solo per il rilancio del processo di pace ma anche per la tenuta democratica d'Israele, rappresentato dal movimento oltranzista dei coloni.
Abram Bet Yehoshua, tra i più affermati scrittori israeliani, pone sotto accusa l'impunità di cui sembrano godere i coloni ultranazionalisti e vede nella fine dell'occupazione dei Territori il miglior antidoto per debellare questo virus: «Perché argomenta con l'Unità Yehoshua (la fine dell'occupazione) spazza via quella cultura dell’emergenza sulla base della quale c’è chi mette tra parentesi qualsiasi altra cosa. Noi non stiamo parlando di territori di oltremare, stiamo parlando di città palestinesi a pochi chilometri da Gerusalemme o da Haifa. Si confiscano terre palestinesi illegalmente, si permette a coloni che risiedono in insediamenti illegali di compiere atti provocatori contro i palestinesi senza incorrere nelle pene che analoghe azioni comporterebbero se commesse in Israele e contro cittadini israeliani. Questa logica colonialista e militarista rischia di trasformarsi in un cancro le cui metastasi aggrediscono il corpo sano di Israele. L’emergenzialismo diviene sinonimo di impunità; e l’impunità porta con sé la convinzione che tutto sia lecito».
Yael Dayan, scrittrice, più volte parlamentare laburista, lancia un grido d'allarme: «Guai ci dice al telefono la figlia dell'eroe della Guerra dei Sei giorni, il generale Moshe Dayan se considerassimo l'estremismo dei coloni un fattore marginale, circoscritto ad una ristretta frangia di esaltati. Le idee, la pratica dei coloni trovano sostegno in forze politiche che oggi governano Israele. Mi riferisco non solo al partito di Avigdor Lieberman (“Yisrael Beitenu”, terza forza alla Knessest, ndr) ma anche a settori e ministri del Likud, il partito di Netanyahu, quelli che considerano Barack Obama un nemico solo perché insiste per un congelamento degli insediamenti. La loro protervia è pari solo alla loro pericolosità. Non dimentico che figure di primo piano della destra oggi al governo avevano tacciato di tradimento sia Yitzhak Rabin che lo stesso Ariel Sharon... Costoro si sentono in guerra permanente contro tutto e tutti».
David Grossman ha unito la sua voce a quella dei pacifisti che l'altro ieri hanno manifestato a Gerusalemme Est contro la realizzazione di nuovi quartieri ebraici. «Non si può restare in silenzio afferma il grande scrittore di fronte ai mille e un modo utilizzati per togliere ai palestinesi terre e diritti». Grossman accusa le autorità israeliane e la polizia di adottare due pesi e due misure: «Non vediamo osserva le stesse dure reazioni in occasione dei disordini provocati dai coloni e dei loro pogrom contro i villaggi palestinesi». Lo scrittore denuncia la presenza degli insediamenti ebraici a Sheikh Jarrah e in altri quartieri di Gerusalemme Est come un errore che «complica la situazione e rischia di rendere la pace impossibile».
Zeev Sternhell ha conosciuto sulla sua pelle il fanatismo oltranzista dell'ultradestra israeliana: nell'ottobre 2008 una bomba è esplosa all'ingresso della sua abitazione. I responsabili non sono stati presi ma sulla matrice di estrema destra nessuno ha avuto mai dubbi. La ragione è nelle denunce contro il pericolo-coloni che lo storico israeliano ha avanzato: «Ci troviamo di fronte ci dice Sternhell a gruppi organizzati che non riconoscono nessun potere costituito. Non sono “schegge impazzite”: costoro calpestano la legge e fanno uso sistematico della violenza». Lo storico e scienziato della politica mette in evidenza il deficit di iniziativa dello Stato: «Per rendersene conto sottolinea basta leggere i rapporti dei magistrati dell'Avvocatura di Stato, in cui si evidenzia che nei Territori le leggi non vengono applicate, o peggio ancora, ci sono nei Territori due modelli legali paralleli, uno per i palestinesi, uno per i coloni. Resto fermamente convinto che nei Territori c'è una forma di regime coloniale che va abbattuto. L'inizio di questo è l'applicazione della legge anche ai coloni».
Amos Oz, lo scrittore più volte candidato al Nobel per la letteratura, pone l'accento sulla lacerazione nella società israeliana: «I coloni che impongono i loro desideri, la loro volontà allo Stato d'Israele riflette Oz con l'Unità fanno provare a tanta nostra gente un tale livello di vergogna, disperazione, alienazione e delusione da indurla a prendere seriamente in considerazione l’ipotesi di abbandonare il Paese. L’evacuazione degli insediamenti in conformità con una decisione di una maggioranza democratica non può essere considerato un trasferimento. Riportare i coloni a casa e integrarli all’interno dei legittimi confini di Israele non costituisce un disimpegno nei loro confronti. Al contrario, è stata la creazione degli insediamenti nei territori occupati una forma di disimpegno rispetto ad Israele, una forma di disimpegno che ha portato alla creazione di una spaccatura in seno alla società israeliana».
Meir Shalev, scrittore ed editorialista del più diffuso giornale israeliano, Yediot Ahronot, vede nell'affermarsi dell'oltranzismo dei coloni l'«espressione più aggressiva e militante di un filone ideologico che può essere fatto risalire al revisionismo sionista di Jabotinsky: un mix di messianesimo e di ultranazionalismo, dove il centro è Eretz Israel (la Terra d'Israele) e ciò che conta, sopra ogni altra cosa, è la “legge della Torah” e non quella dello Stato. È un fondamentalismo che non va sottovalutato. La sicurezza d'Israele – aggiunge Shalev – non c'entra nulla con l'espansione degli insediamenti, semmai è vero il contrario: la colonizzazione dei Territori alimenta rabbia e frustrazione tra i palestinesi e su questi sentimenti fanno leva i gruppi radicali che mirano ad affossare la leadership moderata di Abu Mazen e sabotare il dialogo. Lo stop totale degli insediamenti non è un cedimento ad Hamas ma un investimento sul futuro: quello di un Paese normale. Un Paese in pace. Con i palestinesi. E con se stesso».
(ha collaborato Cesare Pavoncello)

l’Unità 31.1.10
Una coppia per la Linke La seconda vita della sinistra
di Gherardo Ugolini

Gesine Lötzsch vice-capogruppo al Bundestag, brillante economista quarantottenne
Klaus Ernst vice-presidente del partito, ex sindacalista bavarese
Per ora saranno loro due, dopo l’addio del leader storico, a guidare il partito fino al congresso di maggio. Poi si vedrà. In discussione anche il futuro del partito, che potrebbe essere tentato dalla riunificazione.

Chi arriva dopo Oskar? L’addio di Lafontaine alla scena politica nazionale sta suscitando un’ampia discussione all’interno della Linke. Si tratta innanzi tutto della necessità di superare la crisi di leadership che si è aperta. Tutti sanno che Oskar «il rosso» è insostituibile e che nessun dirigente politico di quell’area gode di un carisma e di una popolarità comparabili. In attesa del congresso nazionale che si svolgerà in maggio a Rostock i vertici della Linke hanno varato una direzione bicefala: due leader a rappresentare le due anime del partito, quella «orientale» degli ex comunisti, considerata più concreta e pragmatica, e quella «occidentale», formata per lo più da sindacalisti ed ex socialdemocratici delusi, ritenuta più massimalista. I nuovi presidenti sono dunque Gesine Lötzsch e Klaus Ernst.
I DUE SUCCESSORI
La prima, una brillante quarantottenne formatasi nella Ddr e transitata dal comunismo alla Pds e quindi alla Linke, ricopre attualmente la carica di vice-capogruppo al Bundestag. Ernst è invece un ex sindacalista d’origine bavarese, espulso nel 2004 dall’Spd e co-fondatore della Wasg, il movimento di sinistra confluito poi nella Linke. Considerato un fedelissimo di Lafontaine, Ernst era fino a ieri vicepresidente del partito. Si tratta di due leader poco conosciuti, il cui compito è quello di traghettare il partito fino al congresso di maggio, dove probabilmente si deciderà di eleggere un presidente unico.
Ma l’abbandono di Lafontaine potrebbe rappresentare anche una chance in positivo per la sinistra tedesca, soprattutto per quanto riguarda il dialogo con l’Spd e la costruzione di una credibile alternativa all’attuale maggioranza nero-gialla di Frau Merkel. Non è infatti un mistero che un ostacolo insormontabile per l’intesa a livello nazionale tra socialdemocratici e Linke era dato proprio dall’ingombrante figura di Lafontaine. I suoi ex compagni di partito non gli hanno mai perdonato il «tradimento» del marzo 1996, quando lasciò la carica di ministro delle Finanze e se ne andò in polemica con il corso neo-riformista di Gerhard Schröder.
Da allora e per dieci lunghissimi anni è stato un susseguirsi di accuse e sospetti velenosi. Lafontaine non ha mai cessato di contestare pubblicamente la linea dei suoi ex compagni sui tagli allo stato sociale o l’intervento militare in Kossovo e in Afghanistan. E quando ha dato vita alla Wasg, i dirigenti dell’Spd l’hanno presa malissimo, sospettando che dietro quel disegno ci fossero più che altro moti-vazioni di vendetta privata. Ora che Lafontaine ha deciso di ritirarsi dalla scena politica nazionale conservando solamente l’incarico di deputato regionale della Saar, potrebbero maturare le condizioni per
una riconciliazione.

l’Unità 31.1.10
Il Napoleone della Saar lascia. Ma veglierà sulle sorti del partito
Un grande dirigente, che ha saputo portare la Linke oltre il 12% mentre sembrava destinata al minoritarismo
di Paolo Soldini

Oskar Lafontaine se ne va. Vinto dal cancro, che gli ha steso sopra l’ombra della morte come neppure la pazza che nel 1990 gli tagliò la gola mentre lasciava il palco di un comizio, lasciandolo a terra a perdere tanto sangue che tutti pensavano che fosse spacciato, era riuscita a fare. S’avvia al tramonto la biografia del «Napoleone della Saar», il nomignolo dei primi tempi imbevuto di ammirazione ma anche di invidia per il suo ferreo controllo di cancelliere nel Land meno tedesco di tutta la Germania.
Se ne va il dirigente che solo con la forza di un discorso memorabile, nel novembre del ’95, piegò un congresso della Spd dal corso già predestinato con la vittoria di un altro, il ribelle che mandò al diavolo quel Gerhard Schröder che tanto aveva aiutato a sconfiggere Helmut Kohl nell’autunno del ’98. Scompare dalla scena il dirigente di grande intuito e di molti opportunismi che, insieme con Lothar Bisky, aveva portato un partitino apparentemente minoritario per vocazione chiamato «Die Linke», la Sinistra, in un soprassalto di schifiltosità verso i «tradimenti» della Spd a un solido 12,5% dei voti e soprattutto a un forte rapporto col mondo del lavoro e a un radicamento affondato non solo nella Ostalgie della fu Rdt, ma ormai anche nelle difficili lande d’occidente, tant’è che i sondaggio lo accreditano d’un bel 6% per il prossimo voto in Renania-Westfalia, il Land d’elezione del riformismo socialdemocratico e culla del cattolicesimo renano. Sembra un necrologio? Non lo è. La vicenda umana di Oskar l’Irrequieto pesa con una sua possente vitalità politica anche quando lui annuncia che molla la battaglia. Anzi, paradossalmente, ora pesa ancor di più. Innanzitutto perché minaccia di sgonfiarsi d’un colpo il miracolo che Lafontaine, insieme con il mite Bisky, era riuscito a compiere facendo un partito solo di due eredità, il laburismo di sinistra socialdemocratico ad ovest e l’insoddisfazione per i traumi dell’unificazione ad est, di mille istanze, di esperienze di vita che avrebbero potuto non sfiorarsi mai, di altrettanti personalismi. Senza Lafontaine (e senza Bisky, che ha annunciato anch’egli di non ricandidarsi a maggio al congresso del partito) la Linke rischia di cadere in un ingestibile dualismo, preludio di grossi guai. Quel che si è profilato per la successione, in una tempestosa riunione del gruppo parlamentare durata tutta la notte tra lunedì e martedì, illumina già le difficoltà future.
I leader designati, Gesine Lötsch e Klaus Ernst, appaiono proprio l’incarnazione delle due anime: berlinese dell’est, economista, già iscritta alla Sed e nella nomenklatura della ex Rdt la prima; bavarese, quadro sindacale combattivo ma non proprio con una fama da intellettuale, il secondo. L’altro «padre nobile» della Linke, Gregor Gysi, ex Sed, «riformatore» quando pareva che si potesse riformare il regime, si dice «orgoglioso del fatto che la questione del ricambio al vertice sia stata chiarita così in fretta».
Ma il suo ottimismo non copre il profondo problema del dualismo della Linke, che proprio nella parte che scende dalli rami dell’est (cioè la sua) ha il nucleo più duro: troppe doppiezze, troppe ambiguità, troppe reticenze sulle infamie d’un sistema che può avere anche un suo fascino retro per una generazione che ha malvissuto la proiezione nel capitalismo più duro.
Lafontaine dice di voler vigilare come gran parte del partito gli chiede su questa fase di passaggio, sempre che la malattia glielo conceda. Se riuscirà ad impedire che le spaccature d’esperienza, d’orientamento, di cultura distruggano la Linke dimostrerà che un alcunché di napoleonico, nonostante tutto, gli è rimasto ancora. ❖

sabato 30 gennaio 2010



Agi.it 30.1.10
Riccardo Lombardi, ricco non di soldi ma di grande dignità morale
Roma, 30 gen. - Ricordare oggi a venticinque anni dalla morte, Riccardo Lombardi, dopo eventi storici come il crollo del Muro di Berlino e Tangentopoli, comporta un atto di grande coraggio: riconoscere che con anni di anticipo l'Ingegnere azionista, giellista e poi socialista aveva previsto quanto e' sotto gli occhi di tutti. Ricco non di soldi - alla domanda ha mai pensato di avere piu' soldi? rispose "non avrei saputo che farne. Non ho neanche una casa. Mi basta poter comperare libri" - ma di alta dignita' e autorita' morale, rigoroso, onesto e coerente, Lombardi aveva gia' previsto negli anni '50 quando il Psi era impastato di stalinismo e fusionismo col Pci, la 'non riformabilita'' del sistema sovietico, cosi' come il 30 giugno 1984, nel suo ultimo intervento al Comitato Centrale del Psi aveva annunciato ai 2-3 mila presenti "un Psi cosi' non ha motivo d'esistere", a conclusione di una severa requisitoria che mai Bettino Craxi ascolto' da un socialista. Sono questi i due principali assi sui quali si sviluppa il libro 'Lombardi e il fenicottero' uscito in questi giorni per le edizioni 'L'asino d'oro' di Carlo Patrignani, giornalista dell'Agi. Parole come 'autonomia' e 'alternativa' o 'programmazione economica' e 'riforme di struttura' sono un'invenzione del geniale azionista che nel 1947, scioltosi il 'fastidioso' ed 'indigesto' Partito d'Azione di Piero Calamandrei, Vittorio Foa, Ferruccio Parri, Ugo La Malfa, Tristano Codignola, Ernesto Rossi e altri, entro' nel Psi e non lo mollo' sino alla morte: fu cremato senza riti religiosi il 18 settembre 1984 a dimostrazione di una profonda laicita'. Il distacco dalla educazione cattolica e dai primi esordi nella 'sinistra cattolica' di Miglioli e Speranzini, e' indubitabile. Un distacco lento e graduale avvenuto con il supporto di Croce e Marx ma soprattutto per la vicinanza di una donna straordinaria, atea, colta, antifascista, che sin dal 1931 aveva compreso l'inganno del comunismo, il fenicottero Ena Viatto che disse 'no' all'ordine dell'indiscusso leader del Partito Comunista Palmiro Togliatti che voleva mandarla per due anni all'Istituto Marx-Engels di Mosca dove si diventava perfetti comunisti. E seppe poi dire un altro 'no' ad un altro comunista Girolamo Li Causi: lo lascio' perche' innamoratasi dell'Ingegnere "non comunista ma amico degli antifascisti", come lei stessa racconta. Una coppia originale, atipica, fuori degli schemi: alle critiche di esser stravaganti, un po' anarcoidi, il fenicottero ribatteva "Tali eravamo" perche' insofferenti alle violenze e prepotenze di una societa' "spietata coi deboli, corriva coi potenti" e aggiungeva "s'il etait a refaire, je le refarais". (AGI) red (Segue) (AGI) - Roma, 30 gen. - Ritornare quindi su Lombardi, vuol dire immediatamente render il giusto riconoscimento ad un uomo "uno dei rarissimi che ha acceso un credito altissimo nel suo partito, il Psi, nella sinistra interna, nelle istituzioni anche le piu' alte", disse nel 1984 uno dei migliori sindacalisti della Cgil degli anni '80, Fausto Vigevani. E soprattutto Lombardi deve restare sulla scena "il meno possibile" perche', se scomodo e ingombrante e' stato da vivo, altrettanto se non di piu' lo e' ancora oggi a 25 anni dalla cremazione senza riti religiosi. Criticato per presbiopia, illuminismo, vocazione minoritaria, ma mai nessuno ha potuto metter in discussione la sua onesta', il suo rigore, la sua coerenza, a rileggere i suoi progetti - il riformismo rivoluzionario e le riforme di strutture, la possibilita' per tutti di realizzare la propria esistenza e decidere la propria vita - ci si accorge, oggi, quanto siano ancora attuali al pari delle sue intuizioni. "Un pensiero forte", ha detto di recente il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che nel '69 prima di diffonderlo alla stampa gli sottopose la posizione del Pci sull'invasione di Praga. Pienamente condiviso da Lombardi che poi voto' contro l'ordine del governo per aver dimenticato i bombardamenti Usa sul Viet- nam. "Riccardo e' stata la persona piu' importante della vita", e' la testimonianza di un 'amico e compagno', Bruno Trentin, il leader della Fiom del 1969 che con Riccardo ebbe un lungo e solido feeling da cui nacque, dopo il primo centro-sinistra del 1962-63, la proficua stagione delle riforme: la nazionalizzazione dell'energia elettrica, la scuola dell'obbligo, il contratto unico dei metalmeccanici, lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori, il diritto alla formazione ed allo studio, le 150 ore. "Se aver ragione con decenni d'anticipo in politica significa 'sconfitte' e 'fallimenti' di Lombardi - fu l'annotazione di Vigevani - allora 'sconfitte' e 'fallimenti' di Lombardi sono dell'intera sinistra italiana, della stessa democrazia italiana". Un politico non di parte ma dell'intera sinistra. (AGI)

l’Unità 30.1.10
Risposta a Luigi Manconi
Bonino nel Pd? Meglio la doppia tessera
di Angiolo Bandinelli

Luigi Manconi ha sollevato, su questo giornale, un tema di grande importanza e senz’altro urgente, vale a dire quale debba e possa essere il rapporto tra il Pd e i due “candidati esterni”, Vendola e Bonino, piombati, con le loro “autocandidature”, a sparigliare le carte elettorali di quel partito. Secondo autorevoli ma non sempre disinteressati commentatori, la vicenda sarebbe la spia di una organica debolezza del Pd o della sua dirigenza diciamo meglio, di Bersani incapace di imporre le proprie decisioni ad una periferia riottosa e disarticolata. Su tale (malevola) interpretazione si fondano le perplessità, le previsioni o insinuazioni negative, di quanti si chiedono “cosa c’è, cosa dovrebbe esserci dopo il Pd”.
Io credo che la vicenda vada affrontata, al di là della sua rilevanza immediata ed “elettorale”, in più ampia prospettiva. A mio avviso, le due “autocandidature” (ma almeno per la Bonino il termine è improprio) non sono un atto di “prepotenza” né, necessariamente, un segno di strutturale debolezza o insufficienza della dirigenza del Pd. Manconi ha ragione, credo: esse sono, o potrebbero essere, il segno che il Pd è, o può essere, un «partito aperto, permeabile, in movimento, capace di trasformarsi». Per rafforzare e dare organicità a questo suo auspicio, però, Manconi chiede a Vendola e alla Bonino (anzi ai radicali) di «entrare nel Pd, a pieno titolo e con pari dignità». Vorrei fargli osservare che, con le attuali strutture di quel partito, entrare nel Pd significherebbe per loro solo farsi schiacciare o emarginare. Nella prospettiva della nascita di una sinistra organicamente rinnovata e meno burocratica, un modo per dare subito un senso, una direzione di marcia unitaria alle diverse sue presenze potrebbe piuttosto essere la via della “doppia tessera”, una via che del resto proprio l’amico Manconi sta sperimentando con soddisfazione, credo, sua e sicuramente di tutti i radicali. Senza obbligare nessuno, senza imporre vincoli di sorta, la via della doppia tessera sarebbe un grande segnale persino in termini elettorali di superamento del partito-chiesa chiuso e monolitico: una immagine che il Pd sostiene di voler superare senza però riuscirvi, forse anche per sue interne resistenze ad ogni cambiamento vero.
Anche osservando il percorso difficile di Barack Obama, coraggioso e non condizionato dall’ossessione dei sondaggi, ho l’impressione che si sia aperto, su scala mondiale, un laboratorio politico nuovo, dagli esiti ancora poco visibili, ma forse aperti alla speranza di una rifondazione profonda della e delle democrazie. Qualche piccolo esperimento (la doppia tessera, appunto) potrebbe condurre, anche in Italia, in quella direzione. ❖

l’Unità 30.1.10
Gabriella: «Io, Emma e la guerra al Mostro»
Insegnante di Lettere, 30 anni fa fu alla guida del movimento antinuclearista «Quel giorno che la Bonino mi chiese di tenerle Aurora, la sua bambina...»
di P.S.P.

Me la ricordo Emma Bonino, eccome se me la ricordo. Era qui tutti i giorni, in prima fila, una donna umanamente ricca. Chissà se lei si ricorderà di me...». Gabriella Brandani oggi ha 62 anni, insegnante di Lettere in pensione, si occupa di ragazzi disabili. Trent’anni fa era una battagliera antinuclearista, non si fermava un attimo: marce, picchetti, manifestazioni, convegni. «Fu un bel periodo», ricorda con un po’ di nostalgia davanti al camino della sua casa di Montalto di Castro. «Emma era dei nostri, insieme a Gianni Mattioli, a Nicola Caracciolo. Pensi che una volta le tenni la bambina che aveva in affidamento, mi pare si chiamasse Aurora. Lei doveva discutere con l’Enel e non poteva portarsela dietro...».
Gabriella allora non aveva nemmeno trent’anni e una passione ambientalista nel cuore. «L’ho ereditata da mio padre che faceva l’amministratore di grandi aziende agricole. Aveva lavorato per i conti Vaselli a Castiglione in Teverina e poi qui per il marchese Guglielmi. Vivevamo tra il bosco e il mare. Ma devo essere sincera: all’inizio pensavo che quella centrale potesse anche far bene, qui non c’era un’industria e c’era bisogno di lavoro». Poi però iniziò il sospetto. Arrivarono i tenici dell’Enel, poi i politici. «Tutti che ci volevano convincere. Cominciai a vedere il lato fasullo». Gabriella cercò documenti, si informò. «Mi sono convinta che ci stavano violando», dice. Partirono le prime manifestazioni, i cortei, le notti sull’area dove sarebbe sorta la centrale. «Ma non solo, andavamo ovunque in giro per l’Italia racconta Dove si parlava di nucleare noi c’eravamo. E facevo delle cose pazzesche: si andava a Verona, si tornava alle quattro di mattina e alle otto in punto ero a scuola davanti ai miei studenti».
Il suo racconto torna spesso a Emma Bonino. «L’ho sentita molto vicina dice era una anticonformista e mi piaceva. Molto intelligente, era quella che riusciva a inquadrare meglio i problemi». Ma nel movimento c’erano anche altre “b” oltre a quella di Bonino. «Come no, ci chiamavano le tre b a noi: Blasi e Brevetti che erano due agricoltori e io, Brandani. Blasi era un personaggio straordinario. Aveva fatto la quinta elementare e però riusciva a mettere in imbarazzo tutti. Aveva buonsenso. Mi ricordo una riunione alla Regione a Roma. Lui intervenne e disse uno strafalcione. Quelli dell’Enel e del ministero risero e si diedero di gomito. Blasi non si perse d’animo. Li guardò negli occhi e disse: io sono un contadino, e voi invece parlate di risparmio energetico e qui ci sono le tende grosse alle finestre e le luci accese mentre fuori c’è un sole che spacca le pietre...».
Quella battaglia Gabriella e gli altri la vinsero. Loro sconfissero il Mostro. «Ci fu Chernobyl e la gente non si fidò più, aveva capito che ci avrebbero lasciati soli con i nostri drammi». Allora il movimento era davvero forte. Si presentò alle elezioni comunali e riuscì a ottenere quattro seggi. «Ho fatto il consiglieri per due legislature», racconta. Oggi che è in pensione il sindaco l’ha voluta alla presidenza della Fondazione Solidarietà e cultura e si occupa di ragazzi disabili. «Cerchiamo di farli stare bene. Fanno molte attività. Guardi, persino un giornalino scritto da loro...». E se tornasse la centrale? «La mia idea è sempre quella dice Gabriella Certo quel che ho fatto allora non sarei in grado di ripeterlo, ho trent’anni sulle spalle». Si ferma un attimo e con il tono misurato che le è proprio aggiunge: «Speriamo vinca la Bonino, io la conosco bene...».

Repubblica 30.1.10
Ancora tensioni per la candidatura Bonino. Ma lei reagisce: coi credenti molte battaglie comuni
E tra i cattolici del Pd cresce la paura "Bersani deve darci un segnale"
Castagnetti: un errore Emma con noi. Baio Dossi: se votassi a Roma sarei in difficoltà
di Giovanna Casadio

ROMA - E ora la Cei mette il sigillo sulla paura dei cattolici del Pd. Quel richiamo di monsignor Crociata di votare i politici che rispettano «la vita umana comunque si presenti e difendano la famiglia...», preoccupa. Rinfocola i malumori. Sembra ai cattolici che stanno nelle file democratiche - già segnati dalle fughe di Rutelli, Mosella, Calgaro verso il nuovo movimento Api e dagli addii di Lusetti, Carra e Bianchi per l´Udc - una sottolineatura con la matita blu degli errori compiuti, a cominciare dalla candidatura alla guida della Regione Lazio della radicale Emma Bonino, donna-simbolo delle battaglie per l´aborto, il divorzio, l´eutanasia.
Pier Luigi Castagnetti, ultimo segretario del Ppi, rincara le critiche già fatte nella direzione del partito: «La posizione della Cei non sorprende, ma Bonino è stata comunque un errore. Non c´è bisogno dell´appello della Cei. La Bonino è una scelta imbarazzante per una parte del nostro elettorato. Ci vuole un segnale, Bersani deve mostrare di avere a cuore il mondo cattolico. Se per salvare l´alleanza con l´Udc nel Lazio ci fosse stato proposto di votare Carlo Casini del Movimento per la vita, nel Pd ci sarebbe stata una sollevazione o no? Invece alla candidatura Bonino abbiamo aderito con una leggerezza disarmante. Inaccettabile che questo si consideri un fatto senza implicazioni».
Lei, Emma, ovviamente non ci sta. Nessuna sorpresa per l´ostilità della Cei: «Con l´establishment della Chiesa rapporti zero», ha ribadito in un´intervista all´Espresso. Dell´ostilità delle gerarchie ecclesiastiche, sa bene. Berlusconi del resto è andato a far visita al cardinale Camillo Ruini per parlare di Renata Polverini, la candidata del Pdl alla sfida laziale, della necessità dell´appoggio dell´Udc per evitare il «fatto clamoroso» di consegnare la regione dove risiede il Vaticano a una radicale. Ma Bonino aggiunge ora di non avere timori di perdere i consensi cattolici: «Con il mondo cattolico ho molti punti di contatto, battaglie comuni sull´immigrazione, le carceri, contro la pena di morte». Netta Rosy Bindi: «I vescovi sono per il rispetto della vita, anche degli immigrati». Ovvero, il Pdl non si appropri dell´insegnamento della Chiesa, non può farlo.
Avvenire, il quotidiano dei vescovi, ha dato quattro bacchettate al Pd sulla Bonino e «la deriva laicista». Se l´è presa persino con Franco Marini, il leader popolare, che alla leader radicale ha tirato invece la volata. Opera sua, tra l´altro, se a coordinare il comitato per Emma ci sarà Riccardo Milana, cattolico, di formazione democristiana. «Io non voto qui, ma sarei in difficoltà e capisco il disagio che la candidatura della Bonino scatena - ammette Emanuela Baio, popolare democratica - Il rischio è che ci sia un ripensamento tra i nostri elettori cattolici che si sentono irrilevanti. Quindi attenzione, perché il Pd così non regge». Però la Baio non minaccia esodi. Paola Binetti invece sì. Gigi Bobba, ex Acli, si dice saldo nel Pd. Beppe Fioroni, leader degli ex Ppi, non ci sta all´allarme: «Quello della Cei è l´appello di tutte le tornate elettorali. Nel Pd ci sono personaggi con la valigia, sembra che cerchino sempre la terra promessa, ma non vorrei puntassero a uno strapuntino al sole».

Repubblica Roma 30.1.10
La cattolica Di Liegro lancia la Bonino "Difende i deboli, è la persona giusta"
di Chiara Righetti

Pd romano, il saluto di Milana: "Scusatemi per gli errori". Miccoli pronto a subentrargli. Raggiunta l´intesa sulla lista civica

«Emma Bonino è la persona giusta». Un sì incondizionato alla candidata del centrosinistra è arrivato ieri da una fetta importante del mondo cattolico, rappresentata da Luigina Di Liegro, assessora regionale alle Politiche sociali. «È difficile in Italia», ha detto Di Liegro, «trovare politici con curricula come quello della Bonino, che si è sempre spesa per i diritti dei più deboli, dai condannati a morte alle vittime del genocidio in Ruanda, dalle donne afgane al Tibet e alla Bosnia». Nel giorno in cui il segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata, ha dato le "indicazioni di voto" dei vescovi, invitando gli elettori a «seguire i criteri che permettono di realizzare il bene più grande». Valori di riferimento? Dalla difesa della vita e della famiglia al lavoro e alla solidarietà. Criteri che, ha aggiunto Crociata, «non possono essere contrapposti».
Sarà la direzione regionale del Pd, lunedì, a dare mandato a Marco Miccoli di traghettare il partito romano fino al congresso di primavera. Lo prevede il documento approvato in tarda sera dalla direzione romana riunita al Nazareno. Miccoli, che ha incassato gli auguri di buon lavoro del capogruppo capitolino Marroni, ha posto la condizione che sul suo nome ci sia convergenza di tutte le correnti. «Non è un vezzo, abbiamo bisogno di un partito compatto: per vincere servono 100mila voti più del centrodestra e la differenza si fa a Roma», ha spiegato Miccoli, che probabilmente si farà affiancare da una squadra per garantire la massima collegialità. «Chiedo scusa per gli errori commessi e faccio appello al senso di responsabilità: i problemi ci sono ma ci unisce la volontà di vincere con le nostre idee», ha detto in apertura il coordinatore dimissionario Milana. E ha rivolto un appello a «ritrovare l´unità: per la Bonino dobbiamo essere non un peso ma un motore».
Intanto prende forza l´ipotesi che sia il presidente del consiglio regionale Bruno Astorre a guidare la lista Pd alle regionali; il governatore reggente Montino finirebbe direttamente nel listino, con un´ipotesi di vicepresidenza in caso di vittoria. Ed è arrivato in serata, dopo i dubbi degli ultimi giorni, l´accordo sulla lista civica che sosterrà Emma Bonino: si chiamerà "Lista civica - I cittadini per Bonino" e sarà, spiega il coordinatore Roberto Alagna, «il modo per raccogliere le forze de i cittadini che non si riconoscono nei partiti tradizionali». Ieri una delegazione dell´Alleanza per l´Italia ha consegnato al comitato elettorale un documento di programma su sanità, rifiuti, infrastrutture, riduzione delle Province. «Abbiamo avanzato - spiega Sandro Battisti - la candidatura Lanzillotta, ma se ci saranno risposte nel merito siamo pronti a discuterne».
Infine un piccolo giallo informatico: ieri i radicali Nicotra e Capriccioli avevano denunciato il caso "Kalle Blomkvist", internauta autore di molti messaggi sul web anti-Bonino inviati da un pc della Reti di Claudio Velardi, che di Renata Polverini cura la comunicazione. A svelare l´arcano in serata è Massimo Micucci, presidente di Reti Spa: «Kalle Blomkvist sono io ma delle mie idee, dei miei voti, dei miei computer e post decido io», spiega. Sottolinea che non tutta la "Reti" è coinvolta nella campagna pro-Polverini e conclude: «Questo non è il Partito radicale: è il Kgb de noantri».

l’Unità 30.1.10
Un professore, la scuola gli immigrati e il diritto di imparare

Ci scrive Sergio Kraisky, insegnante di italiano per stranieri: «Da quasi trent’anni insegno italiano agli stranieri in un Centro Territoriale Permanente di Roma (corsi statali). Nel dibattito sul razzismo tutti sembrano concordi almeno su un obiettivo minimo: la necessità di favorire l’integrazione degli immigrati che in Italia hanno già un lavoro. Tralasciando le tante ragioni della rivolta di Rosarno e le condizioni di schiavitù di fatto di molti immigrati, (...) viene da chiedersi: se tutti, come pare, concordano sulla necessità di favorire l’integrazione degli immigrati che qui in Italia hanno già un lavoro, perché si vuole ridurre drasticamente il numero di insegnanti di lingua italiana per gli stranieri? Non vanno forse dichiarando tutti, in particolare uomini politici che fanno parte della maggioranza di governo, che coloro che aspirano alla cittadinanza italiana, o anche solo a un permesso di soggiorno di lungo periodo, dovrebbero conoscere bene la nostra lingua? Sia in una logica di integrazione sia, come paradossalmente in una logica di esclusione, che senso ha un drastico ridimensionamento di questo settore della istruzione pubblica? O si pretende forse che immigrati che vivono nelle condizioni economiche che tutti conosciamo frequentino a spese loro scuole private di lingua italiana? E che dire dei ragazzi stranieri che affollano sempre più le nostre scuole medie e superiori e che hanno bisogno di un aiuto linguistico per poterle frequentare degnamente? Che la conoscenza della lingua italiana sia un pilastro fondamentale di una politica di integrazione è un fatto che rasenta l’ovvietà. Come insegnante che lavora da tanto tempo in questo settore mi auguro che alla fine logica e coerenza prevalgono».❖

il Fatto 30.1.10
La Lega nord: controlli psichiatrici su tutti i migranti in arrivo

“Sottoporre sistematicamente tutti gli immigrati ad esame sanitario e psichiatrico”. Sì non è uno scherzo. Forse neanche una provocazione. È la proposta della Lega nord del Trentino. La richiesta è contenuta in un’interrogazione al presidente della provincia di Trento Lorenzo Dellai e prende spunto dall’arresto nei giorni scorsi di un ragazzo di 17 anni algerino, accusato di tentata violenza sessuale nei confronti di una giovane donna trentina, e che si sarebbe poi reso protagonista di danneggiamenti nella cella del reparto detenuti all’ospedale S. Chiara e in atti di autolesionismo. “Quanto accaduto – si legge nell’interrogazione – dimostra senza ulteriori necessità di prova come tante, troppe volte gli
immigrati, legali e non, che giungono sul nostro territorio abbiano serie problematiche sanitarie e/o psichiatriche, con grave pericolo di contagio e/o di incolumità per tutti i malcapitati che dovessero venire in contatto”. Per questo motivo la Lega chiede di attuare nei confronti di tutti gli immigrati “sistematici controlli per appurarne l’esatto quadro clinico”.

il Fatto 30.1.10
L’immigrato vien dall’aria
Il governo combatte (a colpi di spot) le carrette del mare Ma quasi tutti gli extracomunitari arrivano con l’aereo
di Rosaria Talarico

Utilizzano canali legali, attraverso un visto rilasciato dalle ambasciate o dagli uffici consolari italiani

Non sempre il clandestino arriva per mare. Nella maggior parte dei casi, atterra comodamente all’aeroporto passando i controlli di frontiera. Infatti, al contrario di quello che si è portati a credere a furia di vedere in tv sbarchi di immigrati sulle coste italiane, il grosso dell’immigrazione clandestina utilizza canali legali, attraverso un regolare visto rilasciato dalle sedi delle ambasciate e degli uffici consolari italiani sparsi nel mondo. Il problema è particolarmente sentito nei paesi dell’Africa Subsahariana (Sudan, Ghana, Eritrea, Costa d’Avorio, Burkina Faso, etc.) da dove hanno origine molti flussi migratori. Quel che diverge sono le procedure adottate da paese a paese, che hanno diversi gradi di severità nel rilascio dei visti, soprattutto per quanto riguarda le verifiche dei ricongiungimenti familiari. In tema di immigrazione la legislazione italiana è la meno rigida sotto vari punti di vista. Ad esempio, in Germania i visti per lavoro subordinato vengono concessi solo se non si trovano lavoratori disponibili tedeschi o appartenenti ad un altro Stato dell’Unione europea. Inoltre per favorire l’integrazione, gli immigrati sono obbligati a seguire corsi di lingua e cultura tedesca. In caso contrario si perde il lavoro e la possibilità di ottenere la cittadinanza. In Italia, la legge Bossi-Fini ha più che altro contribuito a regolarizzare gli immigrati illegali già presenti nel paese. La legge poi, secondo i documenti interni del ministero degli Esteri che il Fatto Quotidiano ha potuto consultare, viene interpretata in vari modi, rendendo di fatto possibile l’ingresso di clandestini. Tra le cause: scarsità dei controlli, carenza di personale nelle ambasciate e mancanza di coordinamento tra i vari soggetti che si occupano di immigrazione (ministero dell’Interno in primis).
In Ghana, ad esempio, circa il 20 per cento di chi richiede il visto dichiara di aver smarrito il passaporto con cui era stato richiesto il nulla osta (documento senza il quale non si può ottenere il visto e che viene rilasciato dagli sportelli unici per l’immigrazione, gestiti dal ministero dell’Interno). In questi casi, è altissimo il rischio che si tratti di falsi o di scambi di persona. Anche per i ricongiungimenti familiari le differenze tra Italia ed Europa sono notevoli. Nel 2008 la Germania ha rifiutato il 60 per cento delle richieste di ricongiungimento familiare (a causa del diniego a sottoporsi all’esame del Dna). Inoltre anche parenti devono dimostrare di conoscere il tedesco. In Italia, dove la legge in vigore tutela per prima cosa il nucleo familiare, può avvenire che sia il tribunale (cui fa ricorso chi vede respingersi la richiesta) ad obbligare le ambasciate al rilascio dei visti. E ciò, si badi bene, anche in presenza di documenti falsi o di esame del Dna negativo.
Questo perché in Italia la patria potestà su minori viene concessa anche a persone diverse dai genitori legittimi, di fatto permettendo ricongiungimenti familiari “allargati” (128 mila nel 2008 e 113 mila nel 2009). Con conseguenze facilmente intuibili in termini di flussi migratori. In vari paesi europei inoltre viene richiesta una foto recente rispetto a quella del passaporto (specie se si tratta di minori) e vengono prese le impronte digitali, sempre per minimizzare il rischio di scambi di persona. Secondo i dati del ministero degli Esteri, il numero di visti è in costante aumento. Si è passati dagli 854 mila del 2002 a poco più di un milione e 500 mila del 2008.
Solo il 2009, a causa della crisi generalizzata, ha fatto registrare una leggera flessione: poco più di un milione e 400 mila. “Come si può rilevare, dal 2002 l’incremento è stato notevole – spiegano dalla Farnesina – e ha accompagnato il processo di internazionalizzazione del paese. La diminuzione dello scorso anno è dovuta essenzialmente alla crisi economica. Sono infatti calate le richieste di visti di corto soggiorno Schengen (soprattutto turismo ed affari), mentre sono rimasti stabili quelli di lungo soggiorno nazionali (come lavoro e ricongiungimento familiare)”. Altro capitolo è quello relativo ai visti concessi per lavoro subordinato. I dati sono in controtendenza e mostrano una crescita, nonostante la crisi.
I visti per lavoro subordinato sono stati 137.284 nel 2008 e 140.346 nel 2009. Anche qui è stato trovato un escamotage da parte degli immigrati, particolarmente attenti a individuare i Paesi con la legislazione più “morbida”. Il meccanismo è questo. Cittadini extracomunitari già residenti in Italia (perché sposati a italiani o perché in possesso della cittadinanza) “assumono” come collaboratori domestici loro conoscenti o familiari del paese di origine, che con questo pretesto possono così richiedere il visto e raggiungerli.
Vista la natura fittizia del rapporto di lavoro, dovrebbero quindi essere rimpatriati. Ma una volta arrivati in Italia, ormai è fatta. Dal ministero degli Esteri segnalano che spesso la responsabilità è degli sportelli per l’immigrazione del ministero dell’Interno che concedono i nulla osta.
A quel punto gli uffici delle ambasciate non possono fare altro che prenderne atto. Le statistiche dell’area Schengen (di cui fanno parte 28 paesi, anche non aderenti all’Unione) mostrano un aumento delle richieste di visto da parte di gruppi artistici e folcloristici. Anche in questo caso, il “rischio migratorio” collegato è molto alto. E a quali uffici arrivano il maggior numero di richieste? Francia e, naturalmente, Italia.

il Fatto 30.1.10
Tutti i burqa che rivelano l’Europa
di Alessandro Cisilin

In Francia la “liberté” è una religione, sicché i ventilati divieti verso (presunti) simboli confessionali fanno più rumore che altrove. Ma sono diversi i paesi europei che riflettono sul velo integrale con animate sessioni parlamentari e dichiarazioni stampa. L'esito normativo, quasi ovunque, è peraltro finora vicino allo zero, come del resto lo è la percentuale delle musulmane che lo portano. A indossare il burqa, ovvero la “maschera” afgana, o il niqab saudita è infatti un’esigua minoranza, quantificabile nelle poche migliaia in tutto il Vecchio Continente. E a ben vedere, a dispetto di preconcetti Fallaci, di minoranza si tratta anche nell’intero universo musulmano in Asia e Africa, anche perché il Corano suggerisce qualche forma di velo a fini protettivi e non certo l’oscuramento integrale del mondo femminile. Più rilevante ancora, l'Islam non è un monolite ideologico, tant’è che, mentre l'Europa è arrivata a realizzare in passato un “Sacro Impero”, nessun leader islamico si è mai neppure avvicinato all’utopia di un Califfato unitario. A essere divisi sul burqa sono quindi anzitutto i musulmani, con una netta maggioranza degli europei, imam compresi – a cominciare proprio da francesi e italiani che non disdegnano il divieto, tant’è che lo applicano di fatto nelle proprie moschee. La “maschera” d’altronde non rivela l’irrompere dell’Islam bensì la sopravvivenza di alcune tradizioni asiatiche pre-musulmane, sicché non si capisce perché, fuori da fondamentalismi e speculari islamofobie, bisogni ancora tirare per la giacca il vecchio Maometto. E che tale bisogno sia vano è ribadito dal fatto che molte normative europee – compresa una legge italiana del ’75 – prevedano già il divieto di coprirsi il volto in luoghi pubblici sulla base di ragioni di ordine pubblico. “Non basta – spiegano i concitati discussants – il problema non è solo di difendere la sicurezza ma anche la nostra identità, a cominciare dall’emancipazione femminile”. Naturalmente si omette di prender atto che di veli alle donne, seppur non integrali, l’Europa è stata zeppa e lo è ancora in molte regioni mediterranee. E men che meno si riflette sui contenuti odierni della presunta emancipazione che, in alcune carriere (inclusa ora in Italia la politica), impone alle donne l’obbligo opposto di mostrare il massimo possibile di centimetri di pelle. Il tema è solo un altro, è l’Islam presunto, a cominciare da quel simbolo che, in alcuni contesti, è effettivamente strumento di grave oppressione. E se Parigi ha istituito una commissione parlamentare che ne ha dibattuto per sei mesi con centinaia di audizioni, raccomandando infine il divieto, il Parlamento olandese lo aveva proposto già cinque anni fa; ma il governo ha poi deciso di non far nulla, prendendo atto che il fenomeno è talmente esiguo che una norma suonerebbe come un’inutile costrizione col rischio di aggravare il conservatorismo religioso. Per lo stesso motivo la Danimarca ha cestinato il settembre scorso una bozza analoga. Addirittura il Regno Unito, dopo la “raccomandazione” emessa in Francia, ha preso le distanze con una nota ufficiale di Downing Street, che rivendicava: ”Qui siamo a nostro agio con la libera espressione delle convinzioni, qualunque esse siano”. E anche il Belgio, dove peraltro alcune amministrazioni locali già richiedono la “visibilità” in alcune strutture pubbliche, l’ipotesi di generalizzare il no al burqa all’intero spazio esterno alle mura domestiche suona inconcepibile, non foss’altro per la prossimità con la Corte europea dei diritti dell’uomo, che potrebbe bocciare la misura, ritenendola avversa proprio al principio di “libertà”.
Gli schieramenti del dibattito sono trasversali, e se solitamente è la destra a rilanciare il divieto, in Austria lo ipotizzano i socialisti. Facile previsione: terminato il periodo elettorale (che coinvolge tra l’altro i francesi come gli italiani), dei rarissimi burqa d’Europa non si parlerà più.

l’Unità 30.1.10
Lo Ior e il Vaticano
risponde Luigi Cancrini

Non posso fare a meno di ringraziare Margherita Hack che a «Otto e mezzo» ci ha ricordato che in Italia oggi comanda un Vaticano che, francamente, non mi pare intenzionato a diffondere il messaggio evangelico sull’eguaglianza degli uomini, ma quello più redditizio del profitto economico.
Silvana Stefanelli

RISPOSTA In «Qualunque cosa succeda» (Sironi editore), dedicato alla memoria di suo padre Giorgio, Umberto Ambrosoli ha lucidamente ricostruito l’imbroglio che Sindona aveva organizzato ai danni del nostro paese. C’erano, con lui, la Democrazia Cristiana di Andreotti e lo Ior, la banca del Vaticano legata alla P2 che tanta parte ha avuto nella vicenda politica italiana del secondo dopoguerra. Margherita Hack fa bene a ripeterlo, c’è una continuità impressionante fra quello che accadeva allora e quello che accade oggi che a capo del Governo c’è un uomo che nella P2 ha iniziato la sua carriera. Di lui infatti il Vaticano (che la rappresenta ma, per fortuna, non è la Chiesa) ha sfacciatamente auspicato e favorito (scendendo in capo col Family Day) il ritorno al potere. Continuando a godere senza problemi di coscienza i frutti di questo appoggio: la spregiudicatezza della finanza tanto cara agli uomini (o ai prelati) dello Ior, la tutela degli insegnanti di religione nominati dai Vescovi nella scuola pubblica e la difesa di leggi (l’ultima è il testamento biologico) ipocritamente confessionali. Come con la Dc di Sindona.

il Fatto 30.1.10
Per chi vota la Cei
di Stefano Feltri

Da giorni si capiva che nel mondo cattolico c’era un certo fermento per decidere chi votare alle regionali. Ieri ci ha pensato monsignor Mariano Crociata, segretario generale della Conferenza episcopale italiana, a chiarirlo (un po’): “Non possiamo contrapporre i valori alle responsabilità sociali”. La lista delle caratteristiche richieste al candidato ideale è abbastanza precisa: deve difendere la vita “in qualunque forma si presenti”, la famiglia fondata sul matrimonio, promuovere la solidarietà. Che in pratica significa che non si deve votare per Emma Bonino nel Lazio e, nelle altre regioni, si può scegliere tra Pdl e Udc.
Visti i complessi equilibri tra il partito di Silvio Berlusconi e quello di Pier Ferdinando Casini, è però decisivo capire su chi punta la Cei. Ieri mattina Crociata ha detto: “Le nostre statistiche dimostrano che le percentuali di criminalità di italiani e stranieri sono analoghe, se non identiche”. Una replica a Berlusconi che potrebbe sembrare a qualcuno un implicito invito a votare Udc. Eppure è stato notato dai vaticanisti un certo attivismo nei giorni scorsi di Camillo Ruini, ex presidente della Cei, che si è recato anche dal Papa a discutere degli equilibri di potere tra vescovi e Vaticano. Ruini ha sempre sostenuto che non si doveva spingere per avere un forte partito cattolico, ma per avere cattolici in posizioni di forza, uno schieramento trasversale al centrodestra (e in parte al Pd) con le stesse idee su bioetica e politiche sociali.
Una linea fallimentare, al momento, visto che l’unico “cattolico” (inteso in senso ruiniano) del governo, il sottosegretario Eugenia Roccella è al momento nel limbo, non più sottosegretario al Welfare e non ancora sottosegretario alla Salute (manca la conferma della delega). Consapevole di questa ambiguità delle indicazioni di voto dei vescovi e del fatto che in Puglia potrebbe nascere la nuova alleanza con il Pdl (ritirando all’ultimo Adriana Poli Bortone), il leader dell’Udc Casini inizia a mandare messaggi di distensione, per far capire che non si pone in contrapposizione a Berlusconi. Ieri, da Bologna, ha lanciato l’appello a governo e Pd per “una grande riforma della giustizia” da discutere dopo le regionali. Anche il sindaco di Roma Gianni Alemanno, Pdl, propone una “assemblea costituente” dopo le elezioni.

l’Unità 30.1.10
L’embrione può attendere
Niente ricerca su quelli congelati né analisi su quelli da impiantare. Lo sostiene una commissione ministeriale ignorando il parere di scienziati, giudici e Oms
di Carlo Flamigni

Il Comitato Nazionale di Bioetica sta facendo “scuola” e adesso le commissioni che i vari ministeri promuovono per discutere i problemi della bioetica funzionano un po’ come un tribunale, un po’ come un parlamento: “questo è vero, questo è falso, ed è vero o falso perché la maggioranza ha votato così e la maggioranza ha sempre ragione”. In realtà, ci sarebbero molti motivi per dire questa è una sciocchezza, ma bisogna avere pazienza, prima o poi questo sconcio finirà. Intanto accade che un ministro cattolico nomina una commissione nella quale i laici sono solo due (gli altri, cattolici o pinzochere laiche, sono in genere un centinaio) e la commissione pubblica il documento di maggioranza, che diventa la verità; i due laici hanno diritto a pubblicare un codicillo che non leggerà nessuno. In ogni caso sarà passata l’idea che in materia di morale la scelta la fanno le maggioranze, anche quelle fasulle come nel nostro caso. Un obbrobrio.
Ho sotto gli occhi un documento intitolato «Relazione di studio sugli embrioni crioconservati nei centri di Procreazione medicalmente assistita (Pma). Relazione finale approvata l’8 gennaio del 2010». Il documento non è stato ancora reso pubblico, ma è certamente autentico, anche se mi è arrivato, credo per un errore, dal mio vecchio Ospedale: con il ministero non ho rapporti civili. Non ci sono nomi, ma conoscendo bene l’ambiente, potrei dirvi rigo per rigo chi ha scritto questo e chi ha scritto quello. È del tutto inutile, non lo farò.
Naturalmente il documento da per scontato che “l’embrione è uno di noi”, a nessuno è venuto in mente che solo dal mondo cattolico ci arrivano una decina di differenti ipotesi sull’inizio della vita personale, ma la scelta è ormai evidentemente questa: se non parli di una cosa quella cosa non esiste. Mi permetto di rilevare che questa scelta è poco seria, spero che i relatori non vogliano accreditarsi come scienziati, troppa gente si rivolterebbe nella tomba e per quest’anno abbiamo già avuto abbastanza terremoti. Il documento comunque ammette, obtorto collo, che la Corte Costituzionale ha praticamente legittimato il congelamento degli embrioni, e si lamenta per “l’affievolimento” della tutela del prodotto del concepimento. Ignora tutte le recenti decisioni della Magistratura e dichiara che è sempre consentita solo la valutazione osservazionale, mai quella genetica, ignorando che per l’embrione la diagnosi osservazionale non serve praticamente a niente, la sua utilità si limita all’analisi degli zigoti (ma non c’era uno straccio di biologo tra i commissari?). Chiede poi una serie di modifiche e di accorgimenti di nessun conto per concludere che l’embrione congelato deve restare lì, ad aspettare, e che – udite udite – la rinuncia eventuale dei genitori non può mai essere considerata definitiva e che l’obbligo di impianto non può mai venire meno (e qui mi piacerebbe molto sapere cosa ne penserebbe la Magistratura). Poi, non sapendo come punire i medici che fanno queste brutte cose, consiglia di addebitare a loro i costi del congelamento.
È difficile accettare l’idea che queste persone siano in buona fede. Sulla obbligatorietà dell’impianto si è discusso per anni, ormai, e tutti sanno che la norma della legge 40 che la prescrive è imperfetta (cioè non conta assolutamente niente) perché non prevede alcuna sanzione per chi non la rispetta. Faccio poi fatica a immaginare che i commissari non leggano i giornali e non si rendano conto che tribunali di mezza Italia hanno autorizzato la diagnosi genetica preimpiantatoria in circostanze molto diverse, e persino quando la coppia non è sterile. Ci sarebbero molte altre cose da commentare, mi limito a sottolineare l’ennesimo autogol sulla presunta azione eugenetica della selezione di embrioni: sarebbe ora che le persone che sbrodolano questi autorevoli nonsensi si leggessero un po’ di letteratura in proposito. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, ad esempio, l’eugenetica corrisponde a «una politica di coercizione che intenda favorire un proposito riproduttivo contro i diritti, la libertà e le scelte dell’individuo attraverso leggi, regolamenti, incentivi positivi e negativi, inclusi quelli che rendono meno accessibili certi servizi medici. Secondo questa definizione, non rappresenta una scelta eugenetica la scelta di un individuo o di una famiglia di avere un bambino sano». Insomma, e qui cerco di adattarmi al linguaggio puerile che da qualche tempo distingue soprattutto le nostre sottosegretarie, è come dire “chi lo dice lo è, l’eugenetica la fai te”. No so dire se la sicumera incolta dei commissari mi faccia più rabbia o compassione.
Per fortuna il codicillo che riporta l’opinione dissenziente dei due membri laici (dei quali faccio il nome, sono Amedeo Santosuosso e Carlo Alberto Redi) ribadisce molto bene questi principi, è scritto con grande competenza e spiega anche perché gli embrioni congelati e abbandonati debbano essere utilizzati a scopo di ricerca e soprattutto per la produzione di cellule staminali.
C’è anche un codicillo aggiuntivo ipercattolico che dice cose in effetti molto bislacche, ma di questo non vi parlo perché non vi voglio rovinare il divertimento. Posso dire solo che non ho mai riso tanto da quando ho imparato a leggere (e sono più di 70 anni). ❖

l’Unità 30.1.10
Nelle carceri segrete dove non ci sono diritti e la tortura è la regola
Guantanamo e non solo. L’illegalità di Stato è diffusa contro oppositori o presunti terroristi. Dito puntato anche sull’Europa, che avrebbe dato informazioni o nascosto atti illegali di manipolazione giudiziaria
di Umberto De Giovannangeli

Un rapporto esplosivo per un tema scottante. Un pool di quattro giuristi indipendenti che lavora per mesi, accumulando un dossier ponderoso, arricchito da testimonianze e interviste di ex detenuti. Il rapporto verrà presentato a marzo al Consiglio dell’Onu per i diritti umani. L’Unità ha potuto a prendere visione dell’ultima bozza. Una cosa è certa: quel rapporto è destinato a scatenare polemiche e denunce. Per ciò che contiene e per il tema che affronta: le carceri segrete. Oltre Guantanamo, oltre Abu Ghraib, oltre le prigioni afghane controllate dalla Cia e dalla polizia militare Usa. Il rapporto Onu è un viaggio nell’illegalità di Stato; un viaggio agli inferi. Dove tutto è permesso in nome della «guerra al terrorismo». Luoghi dove le convenzioni internazionali sono parole vuote, lettera morta, e la tortura è la regola. Luoghi che possono inghiottire come un buco nero.
Carceri segrete, torture, abusi... Una pratica che accomuna Stati democratici e regimi autoritari, realizzando alleanze impensabili, unendo Asia e Africa, America e Medio Oriente. Il rapporto chiama in causa pesantemente gli Stati Uniti. L’accusa è circostanziata: gli Usa sono tra i Paesi che hanno rapito e detenuto presunti terroristi in carceri segrete negli ultimi nove anni violando i diritti umani. Una situazione che non ha subito sostanziali modifiche nel corso del primo anno della presidenza Obama. Che, peraltro, ha deciso la chiusura di Guantanamo (posticipandola però al 2011); ma non ha deciso la chiusura del campo di prigionia di Bagram, presso una base aerea a nord di Kabul, in Afghanistan. Qui sarebbero ospitati in pessime condizioni circa 600 detenuti, la maggior parte dei quali afghani, anche se il governo americano continua a rifiutare qualsiasi informazione sulla loro identità. Nel dossier si sottolinea che anche Algeria, Cina, Egitto, India, Iran, Russia, Sudan, Zimbabwe, Thailandia, Etiopia, detengono sospetti terroristi o esponenti dell’opposizione in luoghi segreti.
La guerra al terrorismo avviata dall’ex presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, ha generato, secondo gli autori del rapporto, la creazione progressiva «ma determinata di un vasto sistema coordinato di detenzioni segrete di sospettati, coinvolgendo non solo le autorità statunitensi ma anche altri governi in quasi tutte le regioni del mondo».
Oltre agli Usa, accusati di avere carceri segrete in Iraq e in Afghanistan e ai Paesi sopra indicati, il rapporto chiama in causa anche Gran Bretagna, Italia e Germania per aver nascosto atti illegali di manipolazione giudiziaria, o ancora Paesi come Canada, Croazia, Indonesia o Kenya accusati di aver fornito informazioni o partecipato ad arresti di sospettati prima del loro trasferimento verso centri di detenzione segreti. In riferimento all’Europa, il rapporto richiama la denuncia contenuta nel dossier «State of denial: Europe’s role in renditions and secret detention», pubblicato nel giugno 2008 da Amnesty International. Quel rapporto gettava una luce inquietante sul coinvolgimento degli Stati membri dell’Unione nelle attività di lotta al terrorismo guidate dagli Usai che «fanno uso spesso di detenzioni che violano i diritti fondamentali dell’uomo».
Quando non si tratta di coinvolgimento diretto, che spesso si realizza con la partecipazione attiva di agenti dell’intelligence europea negli interrogatori o nell’apertura di carceri segrete nei territori dei diversi stati membri, i Paesi dell’Ue sono colpevoli di non ammettere che il problema esiste, o di non diffondere la dovuta informazione. Gli stessi spazi aerei europei, e spesso gli aeroporti sottolineava Amnesty sono messi a completa disposizione della Cia.
Quello delle prigioni illegali anti-terrorismo «resta un problema serio», rimarcano i quattro autori indipendenti del rapporto Onu, basato fra l’altro su interviste a 30 ex-detenuti. Il rapporto conferma che lo scopo delle carceri segrete è quello di consentire il ricorso alla tortura e ad altri trattamenti degradanti o disumani utilizzati da nazisti, sovietici e dittatori latinoamericani ma banditi dalla Convenzione di Ginevra. Centri di detenzione segreti sono stati individuati in Thailandia, Romania, Polonia, Marocco e Afghanistan. Il rapporto, inoltre, fa riferimento alle conclusioni raggiunte lo scorso dicembre da una commissione d’inchiesta nominata dal Parlamento lituano che ha riconosciuto che nel Paese baltico sono state create almeno due carceri segrete per la «guerra al terrore» condotta dalla Cia. L’inchiesta sulle attività dell’agenzia di spionaggio Usa in Lituania aveva preso avvio da notizie apparse sulla stampa statunitense nell’agosto 2009. Ora è emerso che le prigioni Cia erano almeno due, una operativa già nel 2002 e l’altra dal 2004. Erano organizzate e gestite dalla centrale Cia di Francoforte in Germania, che aveva anche la responsabilità per centri detentivi simili in Romania, Polonia, Marocco e forse Ucraina.
Il dossier Onu conferma e sviluppa, nel capitolo-Cina, quanto denunciato da Human Rights Watch. Le carceri segrete sono in ostelli di proprietà dello Stato, in ospizi per anziani, in ospedali psichiatrici. Le carceri segrete sono state create dalle autorità locali, con il consenso delle forze di sicurezza, per sbarazzarsi dei cittadini che presentano rimostranze nei confronti della gestione amministrativa; contadini che arrivano in città per denunciare soprusi, corruzione dei funzionari pubblici, torture della polizia. Testimoni riferiscono che nelle «carceri nere» finiscono anche minori.
Il rapporto che il Consiglio per i Diritti umani dell’Onu discuterà a marzo ridà attualità a dossier inquietanti come «Ending Secret Detention», stilato nel 2004 da Human Rights First, Basandosi sulle testimonianze di varie fonti, Hrf ne aveva localizzati nove in Iraq, sette in Afghanistan, uno in Pakistan (a Kohat), un altro alla base Usa di Diego Garcia nell’Oceano Indiano, uno in Giordania (ad Al-Jafr, centro speciale per gli interrogatori gestito dalla Cia). Sei anni dopo, resta il mistero su questi come altri «buchi neri». La «guerra al terrorismo» post 11-settembre è anche questo. Il rapporto stilato dai quattro esperti di diritti umani dell’Onu lo denuncia condannandolo come un crimine contro l’umanità. A marzo ne discuteranno i membri del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite; tra questi, il rappresentante degli Stati Uniti nominato da Obama. Per il Presidente dei diritti e della legalità sarà un impegnativo banco di prova per sancire che il fine la «guerra al terrorismo» non giustifica l’uso dei mezzi più illeciti, e disumani, per praticare l’obiettivo.

il Fatto 30.1.10
Giorno della Memoria. Sul treno con gli studenti
Auschwitz, i ragazzi che non sanno
Il dolore obbligatorio
di Silvia Truzzi

NONOSTANTE l'elettrochoc a corpi e anime, il dolore non arriva. Almeno non subito: aspetti una lacrima, almeno una, cerchi di ascoltare ma niente. La sofferenza non si in-segna e non si induce, nemmeno se stai nel luogo simbolo del male, dove si cammina a venti gradi sotto zero sopra il cimitero di ossa più grande del mondo, Birkenau. E il senso di colpa per sentire più freddo che dolore non va via.
GITA E DESTINO
Il treno della memoria è partito puntuale lunedì pomeriggio dalla stazione di Carpi, da dove iniziò anche il viaggio di Primo Levi e di tutti i catturati smistati nel campo di Fossoli. Negli scompartimenti ci sono 580 studenti delle scuole superiori della provincia di Modena, accompagnati dagli insegnanti e dagli ospiti: gli storici Costantino Di Sante e Carlo Saletti, gli scrittori Carlo Lucarelli e Paolo Nori, i musicisti Vinicio Capossela, Cisco, il gruppo dei Rio. Non è l’Orient Express, è un treno misero che avrà almeno vent’anni con l’elettricità che salta, alcuni scompartimenti senza riscaldamento e pezzi di sedili di simil pelle che si staccano. Ma è vietato lamentarsi, chi viaggiava su queste rotaie non aveva solo freddo, fame e sete: stava per perdere molto più della vita. Quindi oggi nessuno fiata, perché tutti hanno dentro l’inadeguatezza, sei solo un essere umano davanti al manifesto mondiale della malvagità. Due ragazzi si domandano ad alta voce: “Oh, ma come facevano a non morire di freddo gli ebrei?”. Risposta: “Vivevano”. Citazione inconsapevole di Vasilij Grossman, che in Vita e destino fa dire a una madre ebrea nell’ultima lettera al figlio: Vivi, vivi, vivi. Vivi per sempre. C’è un vagone per i bagagli con la neve dentro e bisogna attraversarlo per andare alla carrozza ristoro, il posto dove ci s’incontra, ci si scalda con il caffè bollente preparato dai ragaz-zi del Fuori orario di Gattatico, si ascolta chi ha studiato e sa, si canta. Gli studenti sono in gita scolastica e si vede. Le gite scolastiche non cambiano mai, da Pupi Avati fin qui, in un trionfo di magliette improbabili, mazzi di carte, iPod, sms, moon boot, improvvisi scoppi di risate e noiosi rimproveri dei prof. Il treno fa mille fermate anche se non deve caricare nessuno, fuori sfilano centinaia di chilometri di bianco a perdita d’occhio. Naturalmente la notte è interminabile e senza sonno, o quasi. Non solo per la cuccetta.
VERGOGNA AL MUSEO
Ad Auschwitz è il Giorno della Memoria, nel 65esimo anniversario della liberazione del campo: corone, capi di Stato, visite ufficiali, centinaia di persone, lingue diverse che si mischiano ora come allora. L’insegna Il lavoro rende liberi è finta perché quella originale la stanno restaurando: l’abbiamo vista mille volte, come i binari del campo di sterminio. Tante volte che adesso non sappiamo se stiamo guardando un film sul lager o il lager. Si attraversa Arbeit macht frei con l’auricolare nelle orecchie e una voce che spiega geografie, morti, numeri, treni, come si organizza uno sterminio. La visita ad Auschwitz 1, il campo di lavoro, inizia presto. Qui c’è il museo, dove è stato raccolto tutto quanto è sopravvissuto. La guida “parlante italiano” fa una gran fatica, nello slalom tra gruppi che si stipano nelle baracche. Il tour nella prigione del campo si svolge ordinatamente e in fretta, con sinistra efficienza: “Ecco la cella dove morì padre Kolbe, che offrì la sua vita al posto di un altro prigioniero. State sulla sinistra per favore. Più avanti le prigioni dove i detenuti venivano internati e costretti a stare in piedi, guardate il crocifisso inciso con le unghie. Non sostate troppo a lungo. Signori, seguitemi al muro delle fucilazioni”. Al block 4 le stanze sono piene di avanzi di esistenze. Sono foto conosciute e adesso oggetti in una teca trasparente. Due tonnellate di trecce e code, vicino uno scampolo di stoffa e una didascalia: tessuto prodotto con capelli umani. Poi mucchi di scodelle per la zuppa, valigie e calzature. Nella teca delle scarpe dei bambini ce n’è una bianca e un po’ rotta che si fa vedere più delle altre, forse perché è lunga pochi centimetri ed è la misura di un morto minuscolo. Uno dei 240mila passati per questi camini, come i bimbi zingari di Mengele, ritratti nudi, niente sotto la pelle, spaventati prima dell’iniezione di fenolo nel cuore. I ragazzi dell’Iti si vergognano un po’ perché avevano detto loro che sarebbe stato sconvolgente e invece stanno bene. Carlo Lucarelli è una delle guide dei sottogruppi ed è bravissimo: sembra di vedere una puntata di Blu notte e gli studenti stanno lì a bocca aperta. Nel corridoio immagini di donne e uomini appena arrivati, immatricolati, rasati, ma ancora in forze. Sulle didascalie ci sono la data di nascita, di arrivo e morte. E dalle facce s’indovina, in un quiz macabro, quanto sarebbero durati. Troppo sgomenti o vecchi per sopravvivere più di un mese, ancora in forze per lavorare almeno un anno. Hanno occhi che si sovrappongono, increduli e intimoriti, comunque altrove. Padre Wrosoz Ceslaw, classe 1917, internato il 4 settembre 1941 e morto il 5 febbraio 1942, è tra i pochissimi che spara gli occhi nella camera e dice guardami. Giulia da Modena sta davanti a lui fin che può, prima che la sua prof la vada a recuperare perché gli altri sono già altrove.
PALLE DI NEVE A BIRKENAU
All’ingresso del campo inventato per la soluzione finale c’è la security, si sta in fila in attesa di poter entrare. I polacchi sono alti e grossi, non esattamente cordiali. Una delegazione di francesi ci precede: sono i “militanti della memoria”, i figli dei deportati. Birkenau vuol dire “paese delle betulle” e infatti è un posto bellissimo, anche se è ricoperto di ghiaccio. Tre bambini giocano a palle di neve, e allora ci si domanda: si può giocare dove si moriva, si può ridere dove si torturava? E’ un dubbio che resta, ma non è la retorica o la forma che conservano la memoria sottovuoto e preservano dal “non deve succedere più”. Sfilano le delegazioni e le televisioni, le corone e gli striscioni, ci sono fuochi ai bordi del sentiero perché il freddo paralizza. Ognuno bada a sopravvivere: ci si maledice per aver prestato un paio di calzini e si bada più a non perdere i guanti che a guardare. Il sole sta pericolosamente andando via mentre iniziano le celebrazioni, che hanno le stesse parole di sempre: dovere del ricordo, pietà per i morti di una morte e di una vita inumane. Qui sotto c’è una falda acquifera, spiega il professor Saletti a un capannello di coraggiosi, e nelle stagioni piovose l’acqua fa risalire le ossa. “E allora si vede l’erba luccicare e tutti pensano sia rugiada, ma sono frammenti di ossa che risalgono. Così accade il paradosso della memoria: i pellegrini camminano sulle ossa degli uomini che Hitler voleva annientare e così distruggono anche quel che resta di loro”. Ma si viene qui il 27 gennaio, forse perché il gelo disumano produce empatia, che però è solo una parte della comprensione. Se non funziona il cervello, il cuore non basta a capire.
Ai lati del campo ci sono le baracche di legno degli internati: le conosciamo già perché abbiamo visto molti film ambientati qui. All’ingresso è quasi impossibile trattenere un segno della croce che non ha spiegazioni: omaggio, rispetto, compassione, scusateci. Il sole entra dalle finestre e disegna ombre colorate di rosso. Una ragazzina di Carpi scavalcando l’apparecchio ai denti, dice: “Sembra la luce di quando si torna da sciare”. Infatti è la stessa
e non c’è niente di sbagliato in questa frase con il sorriso metallico.
MONDINE ROCKSTAR
Quasi ogni minuto della visita è programmato. Anche la sveglia, ore 6 e trenta con la tv che si accende o il telefono che suona. Dopo cena ci sono le attività, laboratori di scrittura, conferenze e concerti. Al cinema di Cracovia, la sera della musica inizia con Vinicio Capossela. Un recital di voce roca e profonda, interpretazione intelligente, sofisticata e compiaciuta di musica e testi: da Primo Levi il deportato a Celine l’antisemita. Quando Cisco sale sul palco con il tamburo scalda i ragazzi, stanchi e intimoriti dall’esibizione di Capossela, comunque conclusa con le parole di Ovunque proteggi: Mi spiace se ho peccato, mi spiace se ho sbagliato. Se non ci sono stato, se non sono tornato. “Ovunque proteggi, proteggimi nel male. Ovunque proteggi la grazia del tuo cuore”. Non sono passati dieci secondi dall’inizio di Cento passi, dedicata a Peppino Impastato, che Cisco è già sudato e la platea scatenata: “Si sa dove si nasce ma non come si muore e non se un ideale ti porterà dolore”. Poi salgono sul palco le mondine di Novi di Modena. Le ragazze canterine, età media sui sessanta, volate fin qui gonnone di velluto, scarpe da nonna, le mani rovinate dall’acqua e dal lavoro, una forza difficile da descrivere per portare i canti degli ultimi. “Siamo lavoratori ... siam le proletarie sfruttate”. E una poesia: “Abbiamo fatto un mazzetto di riso, perché quello che sappiamo fare, con il gelo e la cenere. La lotta noi l’abbiamo vissuta e ora tocca a voi, che siete il futuro”. Il finale è Bella ciao in versione risaia (“Il capo in piedi col suo bastone o bella ciao bella ciao bella ciao ciao ciao, il capo in piedi col suo bastone e noi curve a lavorare”), poi quella del fiore del partigiano morto per la libertà. Tutto il cinema in piedi ad applaudire e un coro da stadio traslocato e tradotto per l’occasione: la mondina, una di noi. Finalmente sciolti. Al bar dell’hotel si affollano birre, shot di vodka e domande. Gli studenti di Modena sequestrano Cisco e i Rio per un discorso sulla felicità, che va da Schopenhauer ai lager, dallo scopo della vita fino a Dio, a dov’era Dio mentre tutto questo e molto altro accadeva. A come soffrire per qualcosa di mostruoso ma successo tanto tempo fa. Se bisogna capire o emozionarsi. Alle tre non ci sono risposte. Domani è ancora Birkenau, un giorno meno affollato di oggi, di fiaccole e silenzi. E forse la tregua del più desiderato tra i dolori.

Repubblica 30.1.10
La favolosa storia del trattato sui profeti bugiardi
di Adriano Prosperi

Minois ripercorre la leggenda del celebre testo su Gesù, Mosè e Maometto Un´opera contro la religione, prima immaginata poi scritta per davvero

Questa è la storia di un libro maledetto e desiderato, temuto e accanitamente ricercato: un libro che prima di diventare reale fu piuttosto una fantasia, una testa senza corpo, un embrione di libro. All´inizio ci fu un´idea, un titolo: i tre impostori. Ma che titolo: i tre impostori erano Mosé, Gesù Cristo e Maometto. E l´idea era quella di attribuire l´origine delle tre religioni monoteistiche mediterranee all´impostura dei fondatori. Come quell´embrione sia nato e si sia sviluppato lo racconta Georges Minois (Il libro maledetto. La storia straordinaria del Trattato dei tre profeti impostori, Rizzoli, traduzione di Sara Arena, pagg. 320, euro 17,50).
Minois è uno storico abituato a scavare nei sedimenti dell´immaginario religioso. Sue sono tra l´altro una storia del diavolo e una storia dell´inferno. Lo zolfo d´inferno circola anche in questa storia. Da lì affiorano le ombre di Federico II di Svevia e del suo ministro Pier delle Vigne, convinti - secondo l´accusa di papa Gregorio IX (1239) - che il mondo intero fosse stato ingannato da tre impostori, Gesù Cristo, Mosé e Maometto.
In quell´inferno la tradizione cristiana collocò anche Averroè. A lui, un infedele e dunque un comodo capro espiatorio, fu attribuita la tesi che le tre religioni monoteistiche fossero state fondate da tre imbroglioni.
L´idea che la storia dell´uomo e del mondo raccontata dalle tre religioni fosse frutto di un´abile mistificazione poteva nascere solo in quel bacino del Mediterraneo dove tre monoteismi si scontravano con l´insanabile odio di un rapporto fraterno. Ma perché si pensasse alla religione come impostura e inganno deliberato era stato necessario il contributo dell´intelligenza greca e della sapienza politica romana. Erodoto aveva raccontato l´inganno di un fondatore di religione, lo schiavo trace di Pitagora, Salmoxis. E Tito Livio aveva descritto i finti convegni notturni di Numa Pompilio con la ninfa Egeria. Il poema di Lucrezio aveva accusato la religione di fondarsi sulla paura. E fu dalla lettura di Lucrezio e di Tito Livio e dall´esperienza dei tempi suoi che Niccolò Machiavelli ricavò le sue osservazioni sulla funzione della religione per il potere politico e per la forza dello stato.
Intanto con le scoperte geografiche la comparazione tra religioni si allargava a scala mondiale; e con la comparazione si sviluppava la capacità di critica e di relativizzazione e la tendenza a considerare la religione - ogni religione - una creazione umana, modellabile con la forza e con l´astuzia. E il libro dei tre impostori? La convinzione della sua esistenza condivideva con la fede in Dio delle religioni positive un carattere comune: era sostanza di cose sperate, terrore di cose temute. Finché a un certo punto ci fu chi lo scrisse davvero. Ma tutta questa storia, dalla lunghissima gestazione alla nascita, ha ancora lati oscuri e passaggi incerti su cui si affaticano gli studiosi: il che contribuisce a conferirle il fascino che appartiene alle cose nascoste, ai sogni e alle immaginazioni.
La violenza dei dispositivi di chiese e stati obbligava al nascondimento e nello stesso tempo aggiungeva forza di argomenti a chi parlava di impostura. Fu allora che la figura dell´ateo cessò di essere uno spauracchio apologetico e prese corpo e caratteri moderni. E fu con gli apporti dei libertini eruditi, di Hobbes e soprattutto di Spinoza che venne lievitando l´idea centrale di quel libro: che intanto, detestato e ricercato, dichiarato esistente senza essere visto, restava come avvolto nell´alone di quella che era la sua materia: l´impostura. Quando prese corpo in stampe e non in una ma in più versioni, una in latino e una in francese, fu per opera delle correnti dell´Illuminismo radicale, decise a voltar pagina rispetto a una cultura elitaria che non riteneva il popolo capace di tollerare la verità.
La versione su cui giustamente Minois si concentra comparve all´Aia nel 1719 dall´editore Levier. E il lettore curioso potrà verificare sull´eccellente edizione che del testo da lei scoperto ha pubblicato Silvia Berti (Trattato dei tre impostori, Einaudi, 1994) se è vero, come scrive Minois, che quel trattato è deludente: di più, se è vero che all´epoca in cui comparve avesse perduto la sua forza dirompente. Una cosa è certa: non c´è l´inferno in quelle pagine, non vi sono le sulfuree empietà su cui avevano speculato trafficanti e stampatori. Al loro posto c´è una ferma fiducia nella retta ragione, «la sola luce che l´uomo deve seguire». E c´è in più un salto rivoluzionario rispetto ai tempi delle cabale segrete e dei libertini eruditi: la convinzione «che il popolo non è così incapace di fare uso /della ragione / come si cerca di fargli credere». Era finita un´epoca, un´altra cominciava che ancora non è finita.

Repubblica 30.1.10
Il "Popolo Viola" scende in 120 piazze sit-in per difendere la Costituzione
di Alessia Gallone, Anna Rita Cillis

Nel "copione" testi di Calamandrei, Pertini e Dossetti. "Serve un nuovo patriottismo"
Tam tam online anche all´estero. "Qui a Parigi alle 14 tutti alla Piramide davanti al Louvre"

MILANO - A Roma, in piazza Santi Apostoli, leggeranno anche quelli che chiamano "frammenti di pensiero patriottico": il discorso di Calamandrei, le lettere dei condannati a morte dal nazifascismo, spezzoni di frasi di Pertini e Dossetti. A Milano, invece, gli articoli della Costituzione risuoneranno in piazza Mercanti, a due passi dal Duomo e dallo shopping del sabato pomeriggio in centro. A Parma e Palermo si sfilerà in corteo, a Torino sarà allestito un palco in piazza Castello. A Firenze l´appuntamento è davanti alla prefettura, il luogo prescelto da molte altre città. Perché dopo il "No-B day" dello scorso 5 dicembre, il Popolo Viola torna in piazza. Lo fa oggi con sit-in in difesa della Costituzione. E un´onda che, annunciano gli organizzatori, non si limiterà a colorare Roma, ma raggiungerà «120 città italiane e sei capitali internazionali». Da Londra a San Francisco, da Hong Kong fino a Parigi, da dove è partito un annuncio in Rete: «Ci troviamo alle 14 di fronte alla Piramide del Louvre: portate il vostro articolo della Costituzione preferito, amici e parenti... ».
Anche questa volta, l´appello è stato lanciato da Internet, con le adesioni raccolte via Facebook e i blog. Per proteggere e difendere la Costituzione «di fronte all´ennesimo tentativo di saccheggiarla che si concretizza principalmente nelle manovre del governo per garantire impunità a Berlusconi a partire dal nuovo Lodo Alfano e nei proclami di qualche ministro che chiede addirittura la cancellazione dell´articolo 1». A differenza della manifestazione di dicembre che, ricorda Fausto Renzi del coordinamento milanese del Popolo Viola - ha avuto l´effetto di mobilitare oltre un milione di persone», però, la scelta è stata quella di moltiplicare le iniziative in tutta Italia. Con un elenco che, dice Gianfranco Mascia, «si è allungato di ora in ora fino a raggiungere 120 città».
Per tutti gli orologi si sincronizzeranno alle 18: il momento clou della giornata quando - anche attraverso collegamenti - partirà uno stesso grido: «Berlusconi dimissioni!». Ogni città, però, ha provato a declinare in diversi modo il richiamo. Partendo da alcune indicazioni di base: organizzare se possibile i sit-in di fronte alle prefetture e durante il pomeriggio. A unire idealmente le piazze che parteciperanno (un elenco è sul sito http://30gennaio2010.wordpress.com) sarà la lettura degli articoli della Carta che, in molti casi, verrà anche distribuita. Il raduno di Roma in piazza Santi Apostoli accoglie una sfida in più: trasformarsi in happening scandito da parole, musica e un po´ di ironia. Si parte alle 15 con un reading. «Siamo riusciti ad avere la collaborazione di molti attori di teatro», spiega Sara De Santis, 31 anni, del comitato romano. E tra le voci, magari tanti riconosceranno quella di Alessandro Quarta, il doppiatore di Topolino e di Ethan Hawke in "L´attimo fuggente».
Oltre alle adesioni "dal basso" ci saranno esponenti politici. Il leader dell´Italia dei Valori Antonio Di Pietro parteciperà all´appuntamento milanese e attacca: «Il ministro Brunetta vuole cambiare l´articolo 1 perché, secondo lui, non vuole dire niente che una Repubblica sia fondata sul lavoro. Il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, sotto dettatura di Berlusconi, prova sistematicamente a stravolgere l´articolo 3 sull´uguaglianza dei cittadini davanti alla legge». In piazza scenderà anche la Federazione della Sinistra e Sinistra Ecologia e Libertà.
Libertà e Giustizia sarà presente a molti sit-in (da Roma a Milano, da Firenze a Bologna) con le bandiere e gli striscioni dell´associazione. Proprio nel giorno in cui, al collegio Ghislieri di Pavia, parte la sua scuola di formazione politica con le lezioni sulla Costituzione di Gustavo Zagrebelsky e Valerio Onida. I due presidenti emeriti della Corte Costituzionale, attraverso l´associazione, si sono fatti promotori di una legge di iniziativa popolare perché il 2 giugno sia proclamata non solo festa della Repubblica, ma anche della Costituzione. Tra le adesioni alla giornata anche il comitato "Salviamo la Costituzione" di cui è presidente Oscar Luigi Scalfaro, Paolo Flores D´Arcais e la rivista Micromega, Articolo 21, gli Amici di Beppe Grillo, Dario Fo, Franca Rame e Moni Ovadia.

Santi Apostoli, il popolo viola torna in piazza in difesa della Costituzione
Anna Rita Cillis

Scenderanno nuovamente in piazza, ma questa volta per un sit in in difesa della Costituzione. A Roma, come in altre cento città, il popolo viola torna oggi a manifestare e lo fa davanti alle prefetture, per "proteggere" la carta fondamentale, come spiegano gli organizzatori. Quattro ore, dalle 15 alle 19, in piazza Santi Apostoli, dove un palco accoglierà i tanti artisti che hanno aderito all´evento.
Un appuntamento - come la manifestazione del 5 dicembre organizzato esclusivamente utilizzando facebook e i blog - nato per rimarcare che «in questo momento il pericolo per la Costituzione è reale: il primo articolo ad esempio - dicono dal comitato promotore - recita che l´Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. Ma non è cosi: il nostro Paese, oggi, è fondato sulla disoccupazione e sul precariato». In più, racconta il popolo viola, l´idea di mettere in piedi questo raduno nasce anche dalla necessità di «ricordare che se è vero che legge è uguale per tutti bisogna allora che noi diciamo un no fermo al processo breve e al legittimo sospetto».
Nella Capitale, oggi, il sit in avrà come snodo centrale la partecipazione di molti volti noti che leggeranno e commenteranno articoli della Carta. In più saranno allestiti tre stand dove si potranno ritirare i certificati di "sana e robusta costituzione". Alle 16 il via agli eventi lo daranno il magistrato Domenico Gallo e il giornalista e scrittore Curzio Maltese. A loro è affidata "l´interpretazione" di alcuni articoli della Carta democratica.
A seguire per "Storie di un´idea: memorie costituzionali a voce alta" che prevede anche in questo caso letture "costituzionali" che saranno inframmezzate da alcuni pensieri patriottici espressi da Antonio Gramsci, Sandro Pertini, Ferruccio Parri e da altri padri fondatori della nostra Repubblica si alterneranno sul palco per dar corpo alla performance quattro attori e il gruppo "Voci del deserto". Mentre alle 18 è previsto uno stop per «dare voce al nostro malcontento: un urlo liberatorio si libererà in contemporanea in tutte le città - conclude il popolo viola - e la frase sarà per tutti la stessa: "Berlusconi, dimissioni!"».

il Riformista 30.1.10
La posta di Zoro
Il tassinaro pugliese che vota a destra ha scelto Vendola
di Diego Bianchi

Caro Diego, ho visto che sei stato in Puglia nei giorni delle primarie. Che impressioni hai avuto una volta sul posto? Era prevedibile un risultato del genere?
Circolo Pd Tanto A Poco
Sì, un risultato del genere era prevedibile, era nelle cose, nei fatti, nelle facce delle persone che non vedevano l’ora di votare, anche e forse soprattutto in quelle di chi sosteneva Boccia, anche in quella di Boccia stesso. Non ci voleva molto, davvero sarebbero bastate poche ore di iniziative elettorali per respirare l’aria che tirava e ossigenarsene. Mai come stavolta, e sì che di precedenti anche recenti ce ne sono stati, chi guida il Pd è stato tanto lontano da chi il Pd lo vota, da chi fa sempre più fatica a capire la differenza che passa tra voglia di contare nella società e voglia di contarsi sulla carta preventivamente per poi scoprire di aver fatto male i conti. Non so cosa succederà a marzo, nessuno può saperlo ora, ma di certo c’è che chi ha votato Vendola, al di là della propria preferenza partitica, è convinto di vincere anche a marzo, e di convincere chi, se dovesse seguire i propri leader di riferimento, sulla carta non dovrebbe votarlo. Che poi fare politica dovrebbe essere soprattutto questo, riuscire a convincere delle tue ragioni, preferibilmente sulla base dei fatti, chi non la pensa come te. Il tassinaro che lunedì m’accompagnava all’aeroporto di Bari ascoltava eccitato le notizie sulla vittoria di Vendola alla radio, gasandosi per le imbarazzanti percentuali. Lui aveva votato Vendola il giorno prima, alle regionali di cinque anni fa, alle primarie di cinque anni fa, e rivoterà Vendola a marzo 2010. Per il resto, ci ha tenuto a dirmi, vota Fini, Alleanza Nazionale prima, Pdl poi. A lui dei partiti interessa poco. Valuta le persone, i fatti, le ripercussioni sul suo lavoro, sulla sua vita, sulla sua città. E come lui molti altri. Il bello è che il merito di tutto ciò (di una giunta che per i suoi cittadini ha ben operato) è anche e per certi versi soprattutto del Pd-Pds (che di quella giunta ha fatto parte). Roba da andarne fieri e orgogliosi per molto, se solo il Pd fosse un partito normale.
Ma tu che l’hai visto da vicino, davvero Vendola è così bravo e ammaliatore? Davvero è il nuovo leader della sinistra?
Circolo Pd Verfo Fud
Vendola è sempre stato così fin da quando era dirigente della Fgci nazionale e io m’arrabattavo in quella romana. In un contesto quale quello italiano dove sono tutti leader per qualche minuto, è giusto che Vendola lo sia almeno per qualche ora. Ambizioso e presuntuoso il giusto, capace e sognatore, forse pure troppo, Vendola è un istrione, tecnicamente impressionante nell’arte dell’oratoria. Sabato sera ha parlato in piazza per circa un’ora e un quarto senza gobbo, senza appunti, senza niente di niente, a braccio, ispiratissimo, melodrammatico e battutista, sicurissimo di sé. C’è il pericolo che venga travolto dall’autostima, che si autodivori, che si convinca un giorno di essere
politicamente autosufficiente. Ma occorre avere fiducia, in lui e soprattutto nel suo popolo. Che non aspettava altro che un politico che lo stesse ad ascoltare trattandolo alla pari. Se l’ego di Vendola esondasse travolgendo tutto, allora sì, quasi senza accorgersene, Nichi potrebbe rimanere solo davvero. Per ora il rischio mi pare ancora lontano.
Caro Zoro, cosa ne pensi dell’ultima uscita di Chiamparino che si è detto disponibile a collaborare per un nuovo soggetto politico all’indomani del risultato delle regionali?
Circolo Pd Ritardante
Come il caso pugliese dimostra, più gli eventi politici sono prevedibili più fanno incazzare. L’uscita di Chiamparino era tanto prevedibile che alla Snai rifiutavano le puntate. Spesso mi capita di sentire o leggere l’analisi che segue: quando si candidò Prodi in realtà avrebbe dovuto farlo Veltroni ma preferì aspettare, quando si candidò Veltroni era il turno di Bersani che preferì aspettare, quando si è candidato Bersani era il momento perfetto per Chiamparino che, pure lui, ha preferito aspettare. Ecco, se il coraggio circolasse in dosi maggiori presso i vertici del Pd, non saremmo in costante ritardo di leadership rispetto alle
potenzialità delle leadership in questione. E forse, ad aver azzeccato i tempi giusti, è plausibile pure che avremmo potuto fare a meno di cambiarne così tante in così poco tempo. Per quanto riguarda il “nuovo soggetto politico”, va tutto bene, purché continui a chiamarsi Pd e non si perda nuovamente tempo con l’arte dell’onomastica e del trasloco. In questi anni di scatole ne abbiamo fatte di ogni forma e dimensione.
Sarebbe il caso di cominciare a riempirle.
Scusa Zoro, ma tu hai capito alla fine cosa sarebbe meglio che accadesse in Puglia e nel Lazio a marzo? Dovessero vincere Vendola e Bonino, per il Pd sarebbe una vittoria o una sconfitta?
Circolo Pd Gufidem
La situazione è talmente paradossale e confusa da far sì che una domanda del genere sia pertinente. Purtroppo le scorie del congresso sono ancora molto ingombranti e in troppi si stanno sedendo sulla sponda del fiume aspettando marzo. Cosa ognuno auspichi di veder passare nel fiume è materia da psicanalisi. Paradossalmente Bersani e D’Alema, per non passare per sempre come coloro che ne sanno di Puglia come di Groenlandia, dovrebbero sperare in una sconfitta di Vendola. Per veder riconosciuta la visionarietà della loro strategia d’alleanze, dovrebbero tifare anche contro la Bonino. Contro Vendola e Bonino dovrebbero andare anche i pensieri inconfessabili dei veltronianfranceschiniani nel caso avessero in animo di attaccarsi subito ad un fallimento elettorale dell’attuale segreteria. Se invece Vendola e Bonino dovessero vincere, a denti stretti dovrebbero esultare tutti, masticando comunque amaro. I primi per aver toppato ogni strategia, i secondi per il culo dei primi.

The Lancet, Volume 375, Issue 9712, Page 348, 30 January 2010
Complicity in the abuse of patients

Few doctors are unaware of the notorious cases of torture or degrading treatment by members of their profession, such as those that came to light during the Nuremberg trial of Nazi physicians (1946—47). More recently, the involvement of physicians in interrogations at the Guantanamo Bay detention facility has received high-profile coverage and condemnation. But the ill-treatment of individuals does not only occur in conflict situations or in prisons. In fact, doctors' complicity in torture and cruel, inhumane, or degrading treatment is commonplace in health-care settings in several nations, according to the 2010 World Reportby Human Rights Watch (HRW), which has the abuse of patients as one of its main themes.
The report describes several cases in which patients have been harmed by health providers, often, but not always, because of abusive state laws. For example, in Iraqi Kurdistan, health providers do, and promote misinformation about, female genital mutilation. In Egypt, government physicians do forcible anal examinations of men suspected of homosexual activity. In Libya and Jordan, doctors do tests of the virginity of women and girls without their consent. And in China and Cambodia, doctors withhold evidence-based treatment for drug dependency and withdrawal.
The HRW report calls for these practices to be recognised as forms of abuse, and to be condemned and combated. Such inhumane treatment—the very antithesis of good medical care—requires a strong response from the medical profession. Professional bodies must speak out against government policies that force doctors to betray ethical principles such as the Hippocratic Oath. Medical regulators need to pursue cases in which doctors have been involved in unethical practice. And medical educators should ensure that their students learn from past and present day atrocities in which health providers have been complicit.
It is the medical profession's collective failure in a post-Nuremberg world that the abuse of patients and detainees still occurs today. Such immoral practices will continue to flourish if doctors' organisations, professional bodies, and medical educators remain silent.

The Lancet, Volume 375, Issue 9712, Page 372, 30 January 2010
Did mass privatisation really increase post-communist mortality?
John S Earle, Scott Gehlbach

David Stuckler and colleagues1 claim that mass privatisation of enterprises was “a crucial determinant of differences in adult mortality trends in post-communist countries”. We attempted to replicate their results and found that the relationship is not robust. Here we summarise our findings, which are expanded in a webappendix. Because Stuckler and colleagues do not find a positive correlation between privatisation and mortality in central and eastern Europe, but only in the former Soviet Union, we focus on the latter set of countries.
In our replication we carried out three simple checks. First, by examining the data used by Stuckler and colleagues, we found inconsistencies between the published description of their dummy variable measuring “implementation of mass privatisation”—one of two privatisation measures used in the paper—and the coding of this variable. We therefore created a new variable coded precisely as described in the article (“a jump from 1 to 3 on the EBRD large-scale privatisation index”), and we re-estimated Stuckler and colleagues' model using this corrected measure. Second, because an instantaneous effect of privatisation on mortality is implausible, we re-estimated the model assuming short lags (1 or 2 years) between policy changes and mortality. Third, we controlled for differences across countries in long-term mortality trends, a common statistical method (indeed, one used by Stuckler and colleagues in other work2).
The results, shown in the table, demonstrate that any one of these changes substantially weakens the positive correlation between privatisation and mortality reported by Stuckler and colleagues, and a combination of any two changes eliminates it entirely. Indeed, the estimated effect of privatisation on mortality is negative when assuming 2-year lags and controlling for trends. Although the correct functional form is unknown, one could as easily conclude that privatisation lowered as raised mortality in the former Soviet Union.

Cross-country mortality regressions on Stuckler and colleagues' sample of countries in the former Soviet Union
















Each cell of the table reports the estimated effect of privatisation on the log working-age male mortality rate from a separate regression. Privatisation is measured in three alternative ways: first column, as a dummy variable for mass privatisation coded by Stuckler and colleagues; second column, as the average of the European Bank for Reconstruction and Development (EBRD) indices for large-scale and small-scale privatisation; and third column, as a dummy variable for mass privatisation recoded precisely following the description in Stuckler and colleagues. With the exception of the privatisation measure in the third column, data are identical to those in Stuckler and colleagues. Specifications are identical but for the specific changes noted in the table. In parentheses, p values calculated from heteroskedasticity-robust standard errors.