martedì 2 febbraio 2010

Repubblica Roma 3.2.10
Bonino, subito in campo Bersani "Se vinco nel Lazio lascio il Senato"
di Chiara Righetti Giovanna Vitale

«QUANDO mi assumo un incarico lo faccioa tempo pieno», dice in tv Emma Bonino, smontando sul nascere la polemica della Polverini che ne aveva criticato i troppi impegni. Significa che, se dovesse diventare governatore, mica farà come Brunetta che resterà ministro anche se verrà eletto sindaco di Venezia: addio Senato, la candidata del centrosinistra sarà tutta per il Lazio.
Tuttavia, mentre il suo comitato elettorale cominciaa prendere forma con l'innesto nel corpaccione radical-democratico di uomini provenienti dai partiti alleati (l'ultimo acquisto dovrebbe essere il senatore Idv Elio Lannutti che, forte della sua esperienza a favore dei consumatori, si occuperà dei rapporti con associazioni, comitati di cittadini, società civile),è il Pda tradire i maggiori problemi di tenuta interna. Ciascuna corrente impegnata in queste orea definire la propria rosa di nomi da sottoporre alla direzione regionale che venerdì dovrà varare, con sapiente uso del bilancino, i vari comitati ristretti per la stesura del programma e per la formazione delle liste (quella di partito e il listino del presidente). Una logica spartitoria che ieri Nicola Zingaretti ha deciso di stoppare: se il centrosinistra vuole davvero vincere - è il suo ragionamento - ha l'obbligo di guardare oltre i suoi confini. A partire dal listino che «deve essere usato per allargare la coalizione, non per replicare la rappresentanza dei partiti», dice il presidente della Provincia, «aprendolo alle forze del mondo del lavoro, dell'impresa, della cultura e del sociale». Una linea chiara: derogarvi, a giudizio di Zingaretti, equivarrebbe a condannarsi a sconfitta sicura. Un'esigenza assecondata dalla Bonino che ieri ha dato il via libera definitivo alla lista civica del presidente e innescato la prima vera sfida a distanza con la Polverini sul programma. La candidata del Pdl propone «una cabina di regia sui fondi Ue»? Lei, che della Ue è stata commissario, replica secca: «È una modalità francamente un po' antica. Di solito le cabine di regia si inventano per prendere tempo: ogni governo le fa ma poi non funzionano perché non si trovano più né la cabina né il regista. Io ho un'idea diversa di come portare più Lazio in Europa e più Europa nel Lazio: servono soluzioni snelle e veloci». Renata applaude Alemanno che annuncia 100mila posti di lavoro in due anni? «Noi non promettiamo mari e monti, ma di continuare ad essere ciò che siamo sempre stati, io l'ho concentrato in tre parole: regole, trasparenza e legalità. Credo che elettori che magari in altre elezioni hanno votato altrove possano riconoscersi in questi valori». In attesa che si definisca il suo prossimo tour elettorale (sabato mattina con Bersani e gli Ecodem a parlare di energia nucleare, domenica a Frosinone per la prima visita alle province del Lazio), la Bonino va.

il Fatto 3.2.10
Il Comitato Bonino, tra Radicali e fedelissimi di Marrazzo
Polemiche sul coordinatore Milana, ex segretaio del Pd romano
di Paola Zanca

Trasparente, puntigliosa, tuttofare. Per vincere, a Emma Bonino manca solo una cosa: i soldi. Chi l’ha vista all’opera in questi giorni non ha parole: sa rispondere a tutto, si è già letta tutti i dossier che le sono stati consegnati, dice la sua su questioni che manderebbero nel pallone anche chi fa l’assessore da anni. ‘Emmatar’ – come lo spot ispirato ad Avatar che si è fatta confezionare – ha i super poteri. Niente scorta né autoblu. Va in giro in taxi e treno. Un solo portavoce, stranamente per nulla assillante con i giornalisti. Fedina fiscale pulita, dice: controllate pure, non ho mai evaso un euro. A chiunque chiedi di lei, non parla d’altro che di “entusiasmo”. Peccato che, come sintetizzava bene un dirigente Pd, “le campagne elettorali non si fanno con l’entusiasmo ma con i soldi”. A dire il vero, al Comitato Bonino, non hanno intenzione di spendere molto: pochi manifesti, spazio ai banner da scaricare via Internet, santini da mettere alla finestre, e così via. “Un segno distintivo – spiegano al Comitato – Anche in termini di impatto ambientale. Confidiamo che i cittadini si accorgano che noi non abbiamo imbrattato la città”. Dopo di ché, si obietta, se la faccia di Renata Polverini te la ritrovi ad ogni angolo è probabile che qualcuno, ad urne aperte, se la ricordi più facilmente. La raccolta fondi è in mano a un fiscalista, radicale, Carlo Pontesilli. Ammette subito che soldi a disposizione al momento ce ne sono pochi: “Ci aspettiamo che la coalizione metta a disposizione tutte le risorse disponibili. Li abbiamo invitati a dare il 110 per cento dei contributi. Si è messa in moto una macchina, vediamo”. Diciamolo subito, l’unico che ha i soldi, nella coalizione, è il Pd. Che però forse non ha tutta questa voglia di spendere e spandere per un nome che non è nemmeno suo. In compenso, di loro, i democratici, hanno il coordinatore del Comitato. Si chiama Riccardo Milana, è senatore e fino a una settimana fa era segretario del Pd romano. Rutelliano deluso, è il simbolo del patto tra dalemiani e popolari che ha fatto vincere Bersani, ma non ha mai acceso il cuore degli iscritti: troppo moscio nell’opposizione ad Alemanno, qualche oscurità nella gestione economica del partito, porte chiuse in federazione. E infatti la sua nomina non è stata esattamente salutata con favore: “Sbagliata”, “inspiegabile forzatura”, “colpo di mano”, giusto per ricordare alcuni commenti dei dirigenti che accusano i bersaniani di aver nominato Milana senza consultare le altre anime del partito. Per aggirare l’ostacolo, quei tre quarti di Pd che non lo volevano coordinatore, sono passati alla controffensiva: da un lato, a capo del partito romano – in attesa del nuovo segretario – è stato messo un coordinamento guidato da uno “zingarettiano” doc, Marco Miccoli. Dall’altro, si è messo in piedi un coordinamento regionale, composto da esponenti di ogni mozione, che avrà potere assoluto su liste, listino e deroghe alle candidature. In pratica, all’indigesto Milana, hanno sfilato di mano la carta più importante: quella che decide chi va dove.
In grande spolvero al Comitato Bonino anche la “macchina” di Marrazzo, rimasta suo malgrado disoccupata dopo lo scandalo di via Gradoli: all’ufficio stampa dovrebbero arrivare gli ex addetti alla comunicazione del presidente. Anche l’agenda – uno dei ruoli chiave in una campagna elettorale breve come questa, dove un incontro esclude l’altro – sarà in mano ad un ex fedelissimo di Marrazzo.
Intanto, c’è ancora da definire il programma. Gli incontri tra gli esponenti della coalizione si stanno tenendo in questi giorni. La deputata Rita Bernardini – che tiene le fila del comitato per conto della Bonino – dice che solo una cosa dev’essere chiara: “Quella di Emma è una storia radicale. Nascondere o mitigare la sua natura è fuori discussione”. Tutto comunque dovrebbe filare liscio. Di Pietro incoronerà la candidata nei prossimi giorni in un’iniziativa al Tendastrisce di via Collatina, Sinistra e Libertà, in occasione della vittoria pugliese di Vendola, ha già scritto sui suoi manifesti “Adesso avanti con la Bonino”. Verdi e socialisti ci sono, il Pd dovrebbe farcela a uscire dall’impasse. Lo diceva lo stesso Milana: “Non dobbiamo essere un peso per Emma, ma dare un contributo determinante a farla vincere”.

l’Unità 3.2.10
Termini, ultimo rifugio per fantasmi e reduci della guerra di Rosarno
di Jolanda Bufalini

Sono un centinaio gli africani che hanno raggiunto Roma fuggendo Vivono alla stazione o nelle strutture occupate dai no global nella capitale Nei loro racconti gli orrori dell’Africa insanguinata e dell’Italia razzista

Keita Modibo è nato il primo gennaio 1987, il suo paese di origine è la Guinea Konakry, tiene in mano il numeretto 070 nella fila dell’ambulatorio del San Gallicano. Poggia sulla gamba destra, la sinistra la tiene leggermente piegata. «Il piede era stato già rotto in Guinea», spiega. Ma poi, cosa è successo a Rosarno? «Era sera, tornavo dal lavoro a Collina, verso le sei e mezza. Noi finiamo il lavoro alle sei». Collina è una località di campagna, fra gli agrumeti, di là dal ponte che segna il confine del comune. Era l’otto gennaio. Da quelle parti è stata bruciata anche una casa fatiscente che ospitava sei braccianti. «Si sono avvicinati in tre mostra la gamba, fa il segno con la mano messa di taglio ... battu (mi hanno colpito)». Aveva paura, dopo, di tornare in paese, a Rosarno. Alla fermata dell’autobus è passato un amico che lo ha accompagnato alla ferrovia di Gioia Tauro. È fuggito in treno, senza farsi medicare. «Ora non posso alzare la gamba».
«Ero contento quando sono arrivato in Italia». «Sono qui, sono vivo, sono contento», ripete nel suo stentato italiano. «Invece ora ho paura, dove vai? Non lo so». A ventitré anni la vita di Modibo è segnata nel corpo e nella psiche, come attesta il referto medico che ha accompagnato la richiesta di asilo. Nel 2007 la Guinea ha sfiorato la guerra civile, nei moti di quell’anno morì un centinaio di persone e molte centinaia rimasero ferite. Il padre di Modibo era un seguace di Alpha Condè, all’opposizione. Le forze del presidente fecero irruzione in casa e suo padre fu ucciso. La mamma fu portata in prigione dove è morta. Il ragazzo fu picchiato. Risale a quei giorni la prima rottura della gamba. Poi la fuga attraverso il Mali e l’Algeria. Dall’Algeria fu rispedito indietro e poi di nuovo, il lungo viaggio attraverso il deserto e il mare. «Ero contento ripete ero vivo. Ma qui non siamo uguali».
Era il secondo anno che andava a raccogliere i mandarini a Rosarno. Ora chiede di essere trattato come gli altri feriti di Rosarno, avere un permesso di soggiorno per ragioni umanitarie. Quanti sono i ragazzi neri di Rosarno approdati a Roma da Bari e da Crotone? Difficile fare un conto preciso, ottanta, forse cento, vagano da giorni come fantasmi.
Giovanna Cavallo di Action si avvicina, per dare un appuntamento alle 19 e 30. Hanno trovato altri quattro posti per dormire, ospitalità nelle occupazioni. Quattro a San Giovanni, uno a via Tempesta, altri all’ex Snia.
Almeno una trentina dorme ancora alla stazione Termini. Un po’ di tolleranza c’è, dopo una certa ora e prima che la luce sia alta. Paese inverosimile l’Italia, dove solidarietà, welfare, servizi e problemi si scaricano su chi se ne fa carico. Le famiglie aiutano i giovani, la rete no global gli immigrati.
Anche Lassine è guineano ed ha ventitré anni. Daouda è più grande, classe 1982, viene dalla Costa d’Avorio, ha sei fra fratelli e sorelle. L’appuntamento è a Termini, alle 13 e 30. «Posso offrire, mangiamo qualcosa?». «No grazie, abbiamo già mangiato». Educati e istruiti, il francese imparato all’école francaise. Si convincono a sedersi in un bar ma prendono solo un caffè. «Prima ero a Foggia, per la raccolta de tomates, lì è meglio perché pagano a cassetta, non a giornata. Dieci-quindici cassette al giorno per tre quattro euro l’una. Invece in tre mesi a Rosarno non ho guadagnato più di mille euro».
Chiedo di spiegare, dal loro punto di vista, la rivolta nera di Rosarno. Quella che è servita di pretesto alla pulizia etnica. «Eravamo esasperati, nervosi. Le condizioni di vita terribili, il lavoro poco e malpagato». «In più c’era da pagare il trasporto». Se la sera arrivava la telefonata del loro intermediario, Souvalle, il giorno dopo si faceva la giornata (20 al massimo 25 euro). Altrimenti si restava alla fabbrica dismessa a dormire. Nessun rapporto con i rosarnesi. Gli unici contatti erano con il padrone e al discount per fare la spesa, «ma cucinavamo a casa»
Il racconto di Daouda: «Succedeva che, quando ci spostavamo in bicicletta, un’auto sterzasse apposta per investirci o spaventarci. Oppure ci tiravano le arance. Poi sono arrivati gli spari sulle persone. Non ne potevamo più». Daouda ancora non è certo che non ci siano stati morti: «Non posso confermare che ci siano stati o non ci siano stati. Ma i feriti li ho visti con i miei occhi».
Il racconto di Lassine: «Tutti sapevano, tutti vedevano, quelle sparatorie contro di noi erano molto popolari». Daouda: «È per questo che chiediamo asilo. È giusto che il permesso per ragioni umanitarie sia dato ai feriti. Ma anche noi siamo, vittime. Siamo stati deportati da Rosarno».
Lassine, cosa speri per il futuro? «Adesso il mio problema è lavorare per migliorare la mia condizione. Per andare avanti nella vita, per mettere su famiglia bisogna migliorare la propria condizione. Altrimenti è impossibile».❖

l’appello promosso da «Associazione Migrare» che viene pubblicato oggi su L’Unità, Terra, Liberazione, Il Fatto Quotidiano, Notizie Radicali.
l’Unità 3.2.10
Stop agli abusi Garantire il permesso a chi lavora

S nellire le pratiche per il permesso di soggiorno, rispettare i termini per il rilascio, agevolare gli immigrati che lavorano. Sono alcune tra le richieste contenute nell’appello promosso da «Associazione Migrare» che viene pubblicato oggi su L’Unità, Terra, Liberazione, Il Fatto Quotidiano, Notizie Radicali. Ecco il testo dell’appello
«Chiediamo al Governo italiano ed al Ministro Roberto Maroni di rispettare il termine di venti giorni fissato nel Decreto Legislativo n. 286/1998 (Testo Unico dell’Immigrazione così come modificato ed integrato dalla Legge Bossi-Fini n. 189/2002) per il rilascio e il rinnovo dei permessi di soggiorno agli immigrati.
1) Stigmatizziamo che, attualmente, siano necessari dai sette ai quindici mesi e che la procedura preveda che l’immigrato, nell’attesa, disponga solo di un cedolino che non ha le caratteristiche per essere univocamente riconosciuto come documento sostitutivo del permesso di soggiorno.
2) Segnaliamo che il possesso di quel semplice cedolino è motivo di abusi contro gli immigrati che si vedono ridotti, di fatto, i pur limitati diritti di cui godono in Italia.
3) Sollecitiamo affinché, da subito e come misura d’urgenza, venga modificata la procedura nel senso che l’immigrato possa disporre del permesso di soggiorno, anche durante il periodo del suo rinnovo, mediante l’apposizione di un timbro che ne attesti la validità oltre la scadenza legale e sino alla sua sostituzione con il documento nuovo.
4) Invitiamo al più celere smaltimento dell’arretrato di circa un milione di pratiche attualmente nelle mani dello Stato»
Hanno aderito all’appello personaggi della politica, scrittori, giornalisti, cittadini. ❖

il Fatto 3.2.10
L’appello
Permessi di soggiorno: il governo rispetti i termini di legge

Il Fatto Quotidiano ha aderito all’appello lanciato da Shukri Said, portavoce dell'associazione Migrare, rivolto al governo e al ministro dell’Interno, Roberto Maroni. Riportiamo in seguito il testo che spiega le ragioni della protesta, partita il 13 dicembre con lo sciopero della fame di Gaoussou Ouattarà, membro della Giunta dei Radicali italiani, e proseguito da Shukri Said dal 1° al 20 gennaio (al termine del suo ricovero in clinica) assieme a 503 immigrati:
“Chiediamo al governo italiano e al ministro Roberto Maroni di rispettare il termine di 20 giorni fissato nel Testo Unico dell’Immigrazione per il rilascio e il rinnovo dei permessi di soggiorno agli immigrati. Stigmatizziamo il fatto che, attualmente, siano necessari dai sette ai quindici mesi e che la procedura preveda che l’immigrato, nell’attesa, disponga solo
di un cedolino che non ha le caratteristiche per essere univocamente riconosciuto come documento sostitutivo del permesso di soggiorno. Segnaliamo che il possesso di quel semplice cedolino è motivo di abusi contro gli immigrati che si vedono ridotti, di fatto, i pur limitati diritti di cui godono in Italia. Sollecitiamo affinché, da subito e come misura d’urgenza, venga modificata la procedura nel senso che l’immigrato possa disporre del permesso di soggiorno, anche durante il periodo del suo rinnovo, mediante l’apposizione di un timbro che ne attesti la validità oltre la scadenza legale e sino alla sua sostituzione con il documento nuovo. Invitiamo al più celere smaltimento dell’arretrato di circa un milione di pratiche nelle mani dello Stato”. Hanno sottoscritto l’appello: Oliviero Beha, Rossana Rossanda, Maura Cossutta, Jean Leonard Touadì, Pino Di Maula, Massimo Orsini, Furio Colombo, Antonio Padellaro, Massimo Bordin, Concita De Gregorio, Cesare Buquicchio, Dino Greco, Gian Antonio Stella e, oltre al Fatto Quotidiano, le testate Terra, Il Manifesto, L'Unità, Radio Radicale, Liberazione.

il Fatto 3.2.10
Razzismi. Il Questore vuole controlli casa per casa
Ordine elettorale a Milano
La Lega ordina: scovate i clandestini E il questore di Milano chiede controlli casa per casa. Prima del voto
di Peter Gomez

All’ombra della Madonnina ad accendere la miccia era stata, subito dopo Natale, la Lega nord. Non si erano ancora placate le polemiche per il White Christmas di Coccaglio, in provincia di Brescia, dove il sindaco aveva ordinato controlli a tappeto sugli stranieri per scoprire gli eventuali clandestini, che subito in due consigli di zona di Milano era stata presentata una mozione per chiedere al primo cittadino Letizia Moratti un giro di vite sugli extracomunitari. Controlli “igienico sanitari” nelle abitazioni dei sans papier, caccia a chi affitta appartamenti o offre lavoro agli immigrati irregolari, e infine l’invito ai milanesi a segnalare al comune tutti gli irregolari. E anche se in molti avevano gridato al razzismo – proporre la caccia al clandestino casa per casa ricorda da vicino i rastrellamenti tedeschi del secolo scorso – la trovata era stata catalogata nell’archivio delle boutade elettorali. Il Carroccio, invece, fa sul serio. Il malumore contro gli stranieri e i diversi in genere cresce nella pancia del Paese. La tigre va cavalcata subito in vista delle elezioni regionali del prossimo 28 marzo. Così a Milano, tra i brontolii di molti agenti e funzionari, a scendere in campo addirittura la polizia. Ovvero il corpo diretto da Roma, dal ministro dell’Interno leghista, Bobo Maroni.
Il 13 gennaio, con ordine di comunicare i risultati “entro e non oltre il 15 marzo”, il questore Vincenzo Indolfi ha inviato una circolare ai commissariati ordinando “rigorosi controlli amministrativi, con eventuale supporto di aliquote di Forza Pubblica” su tutti gli “stabili degradati” delle rispettive zone. Detta in questo modo, e al di là della coincidenza elettorale (i dati saranno resi pubblici alla vigilia delle regionali), l’iniziativa potrebbe persino sembrare meritoria. Come non essere d’accordo con i controlli che mirano a scoprire i fuorilegge? Il fatto è però che la faccenda è un po’ più complicata. Nella circolare si fa infatti esplicito riferimento a “situazioni di degrado ambientale connesse alla presenza abusiva o al sovraffollamento di cittadini stranieri, dediti spesso ad attività illecite, all’interno di immobili e stabili” della provincia. Per questo “gli immobili interessati dai predetti fenomeni” vanno controllati e va “verificata e acquisita la documentazione relativa alla permanenza negli immobili delle persone dimoranti”. La polizia però non può farlo. O almeno non potrebbe farlo. L’articolo 14 della costituzione, in proposito è chiaro: “Il domicilio è inviolabile”. E nelle case, siano esse abitate da italiani o stranieri, le forze dell’ordine possono entrare solo con in mano un regolare mandato di perquisizione. Si tratta di una garanzia per tutti i cittadini che così vengono messi al riparo da eventuali colpi di testa di agenti o militari e da tentazioni autoritarie da parte del governo di turno. Oggi infatti tocca agli stranieri, ma domani potrebbe toccare agli oppositori politici o a altre minoranze.
Certo, la circolare parla di semplici “controlli amministrativi”. Ma è fin troppo ovvio considerare che per accertare “situazioni di degrado” o di “sovraffollamento di cittadini stranieri” l’unico sistema per i poliziotti sia quello di entrare nelle abitazioni di chi parla una lingua diversa dall’italiano o ha una pelle di un colore diverso. Non a caso la legge prevede che i controlli di amministrativi di polizia vengano eseguiti nei locali pubblici o in quelli aperti al pubblico e non nei domicili privati. E poi, visto che gli agenti dovranno verificare documenti come i “contratti di locazione e le denuncie di cessione di fabbricato”, cosa accadrà se ci si troverà di fronte a casi di comodato gratuito come il prestito di una stanza o di un posto letto? In questo caso nessun tipo di documentazione è prevista. Mentre nelle cessioni di fabbricato è il proprietario dell’immobile che deve comunicare alle autorità di pubblica sicurezza la presenza di un nuovo ospite o inquilino, quando la sua presenza in casa supera il mese.
Intendiamoci, il problema del sovraffollamento delle abitazioni da parte di lavoratori stranieri, visto il costo degli affitti, è reale. Così come è reale la questione di interi stabiliti ceduti in nero a inquilini extracomunitari da proprietari italiani. Ma risolverlo con le ispezioni non si può. Lo insegna, tra l’altro, l’esperienza di Camposampiero, in provincia di Padova, dove il locale assessore alla Sicurezza, Salvatore Scirè, e due vigili urbani, sono finiti sotto inchiesta per abuso d’ufficio e perquisizione abusiva. Il 2 settembre, a caccia di clandestini, erano entrati senza mandato nelle abitazioni di alcuni stranieri. Ma alla seconda “ispezione” era scattata la denuncia. Perché la Costituzione, salvo modifiche dei prossimi mesi, vale anche per chi non è nato in Italia.

il Fatto 3.2.10

Dove sono finiti gli immigrati di Rosarno?
Dopo averli identificati li hanno lasciati liberi e senza documenti: “Basta che sparite”
di Paola Zanca

Li abbiamo sfruttati, lasciati nelle mani delle organizzazioni criminali, qualcuno ha perfino aperto il fuoco contro di loro. E noi, anziché chiedere scusa e provare a salvare la faccia, li abbiamo deportati con la forza e ora li lasciamo morire di freddo nelle strade delle nostre città. Ricordate la protesta degli immigrati di Rosarno? Ecco, quegli uomini – quei ragazzi – non sono spariti, come a molti piacerebbe credere. Sono intorno a noi: solo a Roma ne sono arrivati duecento. Gli altri sono fuori dalla stazione di Napoli, accampati nelle strade di Aversa, di Villa Literno, di Caserta, nascosti nelle campagne di Torre di Pescopagano. Hanno paura, sono senza documenti, e sentono ancora addosso la rabbia dei cittadini calabresi che non li volevano più come vicini di casa. Come è possibile che nessuno li abbia difesi? Le cronache di quei giorni raccontavano del trasferimento nei Cie del sud Italia. Invece, dopo averli portati nei centri di identificazione di Bari e Crotone, li hanno lasciati liberi. Trattati come bestie, allo stato brado. “Andatevene”. Dove? “Via. Basta che sparite”. Qualcuno aveva i soldi per un biglietto del treno. Altri per raggiungere una destinazione ci hanno messo giorni interi: il controllore li beccava, loro scendevano e prendevano il convoglio successivo. Jamadou ha 28 anni, viene dal Congo. A lavorare nei campi della piana di Gioia Tauro c’è stato due anni. Usciva di casa la mattina alle 6, ritornava che era già buio, per venticinque euro al giorno. Fino a quel 7 gennaio, quando è scoppiata la rivolta. Jamadou, come tanti altri, è stato mandato al Cie di Crotone. Poi, due giorni dopo, gli hanno detto che se ne poteva andare. A Roma ci è arrivato solo con i vestiti che aveva addosso. Anche a Mohamed, 25 anni, ghanese, dopo una settimana recluso nel Cie di Bari hanno detto di sparire. Anche lui non ha più niente: da Rosarno non sono partiti, sono fuggiti. E la paura era più forte del pensiero della roba da raccimolare. Quando sono arrivati a Roma non si sono subito fidati di chi ha provato ad offrirgli aiuto. Dei duecento arrivati, la metà si è sistemata attraverso la rete di amici e conoscenti. Gli altri, piuttosto che andare a dormire nelle case occupate dal Coordinamento cittadino di Lotta per la Casa o nei locali del centro sociale Ex Snia Viscosa che gli offriva alloggio, preferivano restare sotto i portici della stazione Termini. Qualcuno dorme ancora lì. Altri si sono convinti che era ancora possibile che qualcuno volesse dargli una mano. Qualcuno ha perfino deciso di tornare a Rosarno. “Tre su quattro”, calcola Mohamed. Tornano a vedere se le loro cose sono ancora là, provano a convincere i caporali a pagare gli arretrati.
Ieri erano davanti al Campidoglio.
Chiedono – come già è avvenuto per gli 11 africani feriti a Rosarno – il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Molti di loro sono anche richiedenti asilo, non possono tornare nei loro Paesi d’origine, sono perseguitati: gli avvocati dell’associazione Progetto Diritti hanno già verificato che la maggioranza ha le carte in regola per ottenere asilo, ma chissà quanto tempo dovrà passare prima che la burocrazia si decida a stampare quel pezzo di carta. “Io a quel documento ci penso giorno e notte”, dice Ibrahim, 24 anni dalla Nigeria, rifugiato. “È molto grave quello che è successo in Italia – dice Ibrahim – Ho lasciato il mio Paese perché ho sentito troppi spari. Sono venuto qui perché cercavo la pace. Invece ho sentito sparare di nuovo”. I lavoratori africani di Rosarno si sono riuniti in un collettivo: sanno che solo restando insieme possono tentare di ottenere qualcosa. Proprio quello che il nostro ministero non voleva: se, lasciandoli liberi, il ministro Maroni sperava che si disperdessero, questa volta si è sbagliato di grosso. Con loro, abbiamo più di un conto in sospeso.

l’Unità 3.2.10
L’Africa guarda Rosarno con gli occhi tristi di chi è tornato dall’Italia
di Saverio Lodato

Da Dakar al Gambia con la guida dell’ex emigrato Pape che ha trascorso tre anni da noi come clandestino e alla fine ha scelto la fame della propria casa. Poi una sera, dagli schermi della tv, ecco le immagini degli scontri...

Entriamo nella notte di Dakar, afosa, umidiccia e stracarica di odori, dall’uscita principale dell’aeroporto intitolato a Leopold Senghor, poeta, primo teorico dell’indipendenza del suo paese, primo insegnante africano nelle locali scuole di lingua francese, leader di quel sogno panafricano che ha sempre avuto vita grama. Una muraglia vociante di tassisti serra la sua morsa attorno a turisti che cercano di farsi largo con zaini e valige, ma istintivamente riluttanti a concedersi al primo offerente. Vecchi taxi gialli e sgangherati, dalla tappezzeria lercia, tenuti insieme da protesi metalliche, con due sportelli funzionanti su quattro, che meriterebbero un dignitoso fine corsa in un cimitero di ferraglie, sono parcheggiati a due passi. Una voce calma, chiara, si rivolge a noi in un italiano scorrevole: «In che albergo devi andare? Io non ho un taxi, ma questo mio amico sì. Lui però non parla italiano, e per questo gli faccio da interprete. Se ti fidi di me puoi fidarti anche di lui». La piccola macchia dei turisti, nel frattempo, si è andata assottigliando, e le carcasse gialle hanno miracolosamente ripreso ad ansimare. L’interprete ispira fiducia, e il suo socio lo guarda fiducioso convinto che alla fine rimedierà la corsa.
Pape, è questo il nome dell’interprete, ci racconta che ha 30 anni, di come ha imparato l’italiano, di aver lavorato per due anni a Catania e per un anno a Milano, di essere appartenuto all’esercito dei vu cumpra’; che viveva in un appartamento insieme ad altri venti connazionali, che mangiava un giorno sì e uno no, che con la vendita dei cd, se ti va bene, racimoli dai quattro ai cinque euro al giorno di guadagno. Pape ci dice di essere sopravvissuto a quella vita fuggendo sempre per primo all’arrivo dei vigili urbani o degli agenti di polizia, di non essersi mai lasciato coinvolgere in risse, di non aver mai “fatto reati”, di avere due sorelle, due fratelli, la moglie e due figli, e la madre che non lavorano e hanno sempre vissuto a Dakar. Il padre, invece, che è ispettore di polizia proprio in aeroporto, per uno degli infiniti misteri africani, riesce a tenere in piedi l’intera baracca. Ora lui, Pape, dell’Italia si e stancato, fame per fame meglio la fame di casa propria, certo che in Italia ci tornerebbe, ma da regolare, con tanto di contratto, senza dovere scappare, anche se sa benissimo l’aria che tira. Ci si può fidare di Pape? Forse, secondo Roberto Maroni, sarebbe meglio di no.
Per due settimane, Pape ci ha accompagnato in viaggio da Dakar al Gambia secondo alcune statistiche il paese più povero dell’Africa, persino del Burkina Faso a Serekunda e Banjul, la capitale, per entrare nuovamente nel Senegal della Casamance, a Ziguinchor, sino alle spiagge di Cap Skiring che si affacciano sulla costa dell’Oceano atlantico. Non ha mai chiesto alcun compenso. Ovviamente, abbiamo diviso gli stessi piatti di riso speziato, lo stesso pollo fritto, le stesse salse a base di cipolla, lo stesso pesce stufato, le stesse brochette e croquette di carne di manzo; sgranocchiato le arachidi, principale coltivazione del Senegal. E diviso le stesse locande, con acqua fredda, lenzuola dal colore indefinito, materassi dall’età indefinita. Pape è seguace di uno dei tanti marabout che godono in Senegal, al novanta per cento musulmano e suddiviso in una mezza dozzina di etnie, di immenso consenso. Sacerdote, stregone, medico, capo carismatico, il marabout appartiene a una delle tante confraternite, qualcuna di origine marocchina, senza il cui appoggio il potere politico non potrebbe sopravvivere. Le foto dei tanti marabout, viventi o scomparsi da tempo, campeggiano nelle strade, sugli autobus, nei mercati vocianti delle città-mercato del Senegal. E il Senegal trabocca di giovani che vanno in giro con bidoncini vuoti a raccogliere elemosine per le confraternite.
D’altra parte, anche le salmodianti voci dei muezzin, amplificate dagli altoparlanti, ricordano, a ore fisse, che questo non sarebbe un paese adatto a Maroni e ai capi leghisti.
Sarebbe oltremodo presuntuoso voler raccontare il Senegal è il nostro secondo viaggio in questo paese sulla base di fugaci impressioni. Per questo, esistono guide che offrono tutto quello che c’è da sapere.
I bambini senegalesi, invece, bisogna vederli dal vivo, se si vuol davvero capire cos’è la fame, cos’è il terzo mondo, cosa c’è dietro i televisori di casa nostra quando, nel servizio di un minuto, un minuto e venti, vorrebbero educarci alla solidarietà. Pape ha una sua filosofia per tutto questo: dice che la vita di ciascuno, se trova il marabout giusto, può cambiare. Ma ci si può fidare di Pape?
Il Senegal, ormai dal 20 giugno 1960, è paese indipendente. Ma i francesi, qui, sono rimasti di casa. Dirigono, ancora oggi, le più importanti branche dell’economia locale, gli alberghi e i ristoranti migliori. E scendono in Senegal come un romagnolo scende a Rimini. Dakar o Cap Skiring, Saint Louis o Zuigunchor traboccano di coppie, clair e noir, i cui amori sono alimentati da un estate perenne, appena infastidita, nei mesi più caldi, dall’harmattan, il vento polveroso che arriva dal Nord, dal Sahara.
Siamo al centro della rotta degli schiavi che nella stazione finale dell’isola di Gorée dove esiste ancora la Maison des Eclaves, la casa degli schiavi diventata museo permanente, nel punto di costa più avanzato sull’Oceano atlantico vide, per quasi due secoli, la concentrazione degli schiavi che salpavano in catene e, dopo essere stati debitamente messi all’ingrasso per essere venduti a prezzo maggiore, verso il Brasile, Haiti, Cuba.
Una notte, Pape ha bussato con forza alla porta della nostra stanza. Era trafelato. Non riusciva a parlare. L’abbiamo seguito sino alla hall della locanda, una hall all’aperto, fra i palmizi. Qui, per terra, stavano seduti una cinquantina di senegalesi. Stavano attorno a un vecchio televisore, alimentato da un’infinita prolunga che si perdeva fra le palme e arrivava chissà dove, che trasmetteva un altro fra i tanti misteri africaniimmagini del Tg2. Ed erano le immagini di Rosarno.
Cento occhi neri erano puntati su quello schermo che restituiva l’ultima puntata dell’infinita storia della rotta degli schiavi. Volti tesi, occhi sgranati, lo sgomento, qualche parola appena sussurrata.
In quei momenti, non so cosa pensasse Pape. Se dentro di sé si compiacesse per la scelta d’aver lasciato l’Italia. O gli prudessero le mani per non trovarsi insieme ai suoi fratelli. Non ha detto nulla. Per quel che ho conosciuto della sua indole, sarei portato a credere alla prima ipotesi.
A fine viaggio, dopo 13 ore di nave da Cap Skiring a Dakar, e con la gente, a poppa, che ballava sino a notte fonda, ci siamo salutati dove c’eravamo conosciuti: in quell’aeroporto dove ormai, grazie a lui, eravamo diventati di casa e abbiamo stretto le mani dell’infinita pletora dei tassisti con volti finalmente sorridenti, rassicuranti.
Forse tornerai in Italia da “regolare”, Pape, gli ho detto con poca convinzione. «Inshallah», mi ha risposto. E l’ho visto sparire alla mie spalle, nella folla vociante, appena dopo il controllo di polizia.
Tornato in Italia, mi è caduto lo sguardo su una notizia pubblicata da l’Unità.
Si trattava di questa dichiarazione di Abdoulaje Wada, il presidente dl Senegal, sul terremoto di Haiti: «Se volete tornare in Africa, vi accogliamo a braccia aperte. Avrete un riparo e un lavoro. Non avete scelto di andare in quell’isola e non sarebbe la prima volta che ex schiavi o loro discendenti possano tornare nella terra dei loro antenati: è già successo in Liberia, dove gli ex schiavi si sono integrati con la popolazione locale e hanno formato la nazione liberiana». E Mamadou Bamba, portavoce del presidente, ha precisato: «Se saranno solo alcune persone, offriremo loro un tetto e un pezzo di terra; se verranno in massa, daremo loro un’intera regione».
«Inshallah», direbbe Pape.
Decisamente, il Senegal non si addice a Maroni.❖

l’Unità 3.2.10
La denuncia: nei Cie non c’è posto per i diritti
di Cinzia Zambrano

In quasi tutti l’assistenza sanitaria è carente, in alcuni mancano addirittura le coperte e la carta igienica. È la fotografia scattata da Medici senza frontiere nei 21 centri di detenzione per gli immigrati

Autorità sanitarie assenti. Assistenza legale insufficiente, come pure quella sociale e psicologica. Servizi scarsi e scadenti. Impianti di riscaldamento spesso non funzionanti. Beni di prima necessità carenti: niente coperte, né carta igienica. Spazi ridotti, 25 metri quadrati da condividere in 12. Strutture fatiscenti. Episodi di autolesionismo. Risse. Rivolte. Ecco come si vive «al di là del muro», la cortina che nasconde agli occhi di tutti (o quasi) il dramma di migliaia di persone, uomini donne bambini, trattenue nei Cie, (Centri di identificazione ed espulsione), nei Cara (Centri di accoglienza per richiedenti asilo) e nei Cda (Centri di accoglienza) italiani. Condizioni di vita ridotte al minimo, delle vere e proprie carceri, con muri alti 4 metri e filo spinato, tanto che per un clandestino, «la permanenza in un Cie fa più paura di un rimpatrio nel paese di origine».
A fornirci la drammatica fotografia è Medici senza Frontiere. Che a distanza di 5 anni, unica organizzazione indipendente a scrivere un rapporto sui Cie e Cara, è tornata nei luoghi di detenzione per gli immigrati privi di permesso di soggiorno. Il risultato? Una netta bocciatura. Per Msf nulla, o poco, è cambiato: nei centri visitati la scarsa tutela dei diritti fondamentali è la norma. E per due di essi, i Cie di Trapani e Lamezia Terme, l’organizzazione umanitaria chiede l’immediata chiusura.
INDAGINE
L’indagine, riportata nel rapporto «Al di là del muro. Viaggio nei centri per migranti in Italia», mostra come a più di 10 anni dall’istituzione dei centri per migranti, la gestione generale sembra ispirata ancora oggi a un approccio emergenziale. Eppure
dall’anno scorso il governo di centro-destra ha esteso il periodo massimo di trattenimento all’interno dei Cie da 2 a sei mesi. Un periodo che sfora la «durata emergenziale», rendendo la detenzione non più misura straordinaria e temporanea, ma di lungo periodo.
Sono 21 i centri osservati. In alcuni, come in quelli di Lampedusa e Bari, agli operatori è stato negato l’ingresso agli alloggi nonostante la visita fosse stata comunicata con diverse settimane di preavviso. «Rispetto alle visite condotte nel 2003 poco è cambiato, molti sono i dubbi che persistono, su tutti la scarsa assistenza sanitaria, strutturata per fornire solo cure minime, sintomatiche e a breve termine. Stupisce inoltre l’assenza di protocolli sanitari per la diagnosi e il trattamento di patologie infettive e croniche. Mancano soprattutto nei Cie come ad esempio in quello di Torino, i mediatori culturali senza i quali si crea spesso incomunicabilità tra il medico e il paziente. Sconcerta in generale l’assenza delle autorità sanitarie locali e nazionali», racconta Alessandra Tramontano, coordinatrice medica di Msf in Italia. La vita nei Cie dice ancora la Tramontano, dove i ritmi della giornata sono scanditi solo dai pasti e dal dormire, dove la gente non fa nulla, «aggrava uno stato mentale, un disagio dopo l’odissea vissuta per arrivare fino a qui, che crea un vero e proprio stress per molti pazienti». Il rapporto evidenzia come di fatto nei centri convivono negli stessi ambienti vittime di tratta, di sfruttamento, di tortura, di persecuzioni, così come individui in fuga da conflitti, altri affetti da tossicodipendenze, da patologie croniche o della sfera mentale. Sono luoghi dove coesistono e s’intrecciano in condizioni di detenzione storie di fragilità estremamente eterogenee tra loro da un punto di vista sanitario, giuridico, sociale e umano, a cui corrispondono esigenze molto diversificate. Quasi sempre non soddisfatte. «I Cie di Trapani e Lamezia Terme andrebbero chiusi subito perché totalmente inadeguati a trattenere persone in termini di vivibilità. Ma anche in altri Cie abbiamo riscontrato problemi gravi: a Roma mancavano persino beni di prima necessità come coperte, vestiti, carta igienica, o impianti di riscaldamento consoni», denuncia Msf. Per non parlare dei Cara di Foggia e Crotone: «12 persone costrette a vivere in container fatiscenti di 25 o 30 metri quadrati, distanti anche un chilometro dai servizi. Fra l’altro, l’assenza di mensa obbliga centinaia di persone a consumare i pasti sui letti o a terra». ❖

l’Unità 3.2.10
Quando la scuola «scheda»: dimmi
chi sei e da dove vieni
di Massimiliano Perna

A Catania una singolare iniziativa dell’Ufficio provinciale Agli studenti stranieri vengono chiesti dati «sensibili» Ad esempio: «Quanti viaggi fai verso il paese d’origine?»

L’Ufficio scolastico provinciale di Catania, il 23 novembre scorso, ha inviato alle scuole una circolare con cui si chiedeva la compilazione, entro il 14 dicembre 2009, di schede di rilevazione dei dati relativi a tutti gli studenti stranieri. La motivazione: attuare interventi «a favore degli alunni immigrati che in atto frequentano le istituzioni scolastiche di questa provincia».
La firma è del direttore dell’ufficio, Raffaele Zanoli, l’intestazione è quella del ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, ma l’input è del ministero dell’Interno, attraverso la locale prefettura. A confermarlo è lo stesso Zanoli: «Abbiamo preso parte a un bando Fei del Ministero dell’Interno, finalizzato all’integrazione. La prefettura ha sollecitato diversi enti ed istituzioni a partecipare. Siamo stati interpellati e abbiamo risposto affermativamente.
Per tale ragione, abbiamo raccolto i dati degli studenti stranieri, che dovranno essere coinvolti nel progetto».
Il problema è che non si tratta di dati quantitativi, ma di dati sensibili, non necessari al progetto e che, nel caso di studenti stranieri, rischiano di trasformarsi in una schedatura di eventuali clandestini, cioè di quegli immigrati che non sono iscritti a nessun anagrafe e che scuole e ospedali, per legge, non hanno l’obbligo di denunciare. Quanto avviene a Catania è singolare: dopo la legittima e consueta rilevazione dei dati relativi ai soggetti, italiani e stranieri, in dispersione scolastica, l’Ufficio scolastico ha richiesto i dati di tutti gli studenti stranieri, anche di chi frequenta regolarmente. Una richiesta inusuale, che non ha l’obiettivo di quantificare i soggetti in questione, bensì di conoscerne in maniera approfondita le caratteristiche: nella scheda allegata si chiedono nomi, cognomi, data e luogo di nascita, eventuali spostamenti nel corso dell’anno per tornare al paese d’origine, ecc. La “teoria” del progetto del ministero dell’Interno presenta, tra l’altro, numerose lacune. Se è vero che le prefetture hanno invitato gli enti a partecipare, non si spiega perché, in città come Siracusa, né l’Ufficio scolastico, né le scuole di ogni ordine e grado abbiano ricevuto tale invito, considerato che se l’iniziativa è ministeriale dovrebbe essere valida per tutte le province. Inoltre, è strano che non si sia scelto di coinvolgere gli uffici scolastici attraverso il ministero dell’Istruzione, quello competente: tutto è stato delegato alle prefetture, cioè al ministero dell’Interno, che certo non si occupa di educazione ed istruzione.
La Flc-Cgil di Catania, in una nota firmata dal segretario generale, Lillo Fasciana, e indirizzata all’Usp etneo, ha chiesto chiarimenti, esprimendo «forte preoccupazione sulle ripercussioni negative che tale atto potrebbe comportare nei confronti degli alunni stranieri per effetto del cosiddetto pacchetto sicurezza», e chiedendo lo stop dell’iniziativa, in quanto attuata «in violazione dei diritti individuali delle persone».
L’ufficio scolastico provinciale sostiene, riguardo alla rilevazione dei dati, di aver agito di proprio impulso, ribadendo che l’unica sollecitazione della prefettura ha riguardato la partecipazione al progetto del Viminale. Non c’è alcun collegamento, invece, con la circolare inviata in data 8 gennaio dal ministero dell’Istruzione relativa al tetto del 30 per cento di alunni stranieri per classe, in quanto successiva all’iniziativa dell’Ufficio scolastico catanese. Un caso da chiarire. Si tratta di capire se la scuola pubblica è ancora un’istituzione educativo-formativa oppure se si intende trasformarla in una struttura di identificazione e schedatura. ❖

l’Unità 3.2.10
Immigrazione: smontiamo i luoghi comuni
Un prontuario contro le frasi fatte
di Giuseppe Civati

Concita De Gregorio, rifacendosi a un’antica lezione di Vittorio Foa, ricordava giorni fa l’importanza delle parole e la necessità di restituire al linguaggio della politica il senso che ha ormai perduto. Grazie allo straordinario contributo di Berlusconi e della Lega, i “luoghi comuni” sono slogan elettorali e frasi da ripetere in ogni occasione, secondo il noto principio per cui un’informazione ribadita un milione di volte diventa comunque “vera”. Con loro e con il loro governo, le “frasi fatte” (e non verificate), diventano proposta politica a tutti gli effetti. Al Pd e al centrosinistra troppo spesso sono mancate le parole per opporsi e sono venuti meno l’orgoglio di difenderle e la volontà di riportare il discorso pubblico a una dimensione di razionalità e comprensibilità. Anche per questo abbiamo realizzato un prontuario dedicato all’immigrazione (in rete anche sul sito www.unita.it) e che vuole rovesciare i luoghi comuni («mandiamoli a casa loro», appunto), le frasi dette al bar o dal podio di un ministero, le espressioni che da triviali diventano politiche.
«Ci rubano il lavoro», «ci portano via le donne», «vivono alle nostre spalle», «gravano sul nostro welfare», «sono tutti criminali». Tutte “verità” che molti ripetono, senza che nessuno dica loro che sono sbagliate. La stessa parola “clandestino”, una delle più potenti intuizioni del governo e delle più influenti sul modo di pensare degli italiani. «Basta la parola»: e tutti gli immigrati irregolari, sprovvisti di permesso di soggiorno, diventano persone malintenzionate e, finalmente, criminali. È l’esempio più chiaro: non sono irregolari, sono “clandestini”, “quasi” criminali, quindi è il caso di inventare il reato di “clandestinità” per definirli. Non importa se si tratta di lavoratori in nero, non importa se in molti casi si tratta di lavoratori regolari che, perdendo il lavoro, “clandestini” lo diventano, non importa che le cose siano più complesse e che quasi tutto sia dovuto al solerte impegno di molti italiani e di molte leggi che fanno di tutto per tenerli nelle condizioni di “clandestinità”. Gli stranieri «sono troppi» (anche se nessuno sa bene quanti), e le ronde «ci vogliono» (anche se sono del tutto inutili), e i barconi «vanno respinti» (anche se quasi tutti arrivano con il visto turistico per altre vie). Un altro punto di vista è necessario e urgente: perché arrivino anche al bar, provenendo dalla rete, dove questa iniziativa nasce, grazie all’intuizione di un mio omonimo, Andrea Civati (Varese), e al lavoro di Ernesto Ruffini (a Roma), Ilda Curti e Roberto Tricarico (a Torino), Carlo Monguzzi (in Lombardia). Ecco il famoso radicamento nel territorio. Che non è piantare bandiere per le strade, come si sente spesso ripetere, ma saperle “piantare” nella testa delle persone, come voleva un esperto di marketing, un secolo e mezzo fa. Si chiamava Friedrich Engels. ❖

l’Unità 3.2.10
Radu Mihaileanu
«L’Italia? Cacciando i rom ha violato Schengen»
di Monica Capuani

Cinema Parla il regista del film Il concerto, una favola dolce-amara sul comunismo e sull’individualismo che consuma tutto l’Occidente «Gli zingari non sono perfetti, ma adoro la loro follia. Sono meravigliosi»

È un uomo alto, folti ricci scuri e un’aria molto seria, Radu Mihaileanu. Quando mi affaccio al caffè La Place Verte, a rue Oberkampf, a Parigi, dove mi ha dato appuntamento, lui è già seduto, al telefono. Lo spio da fuori, mentre termina la conversazione. Mi viene in mente Alexandru, l’adorato figlio «americano» della coppia di ingegneri rumeni di Ai miei non piaci molto, lo sai di Catherine Cusset, che qui ha vinto il premio Goncourt des Lycéens, appena uscito da Einaudi. In Italia la gente dovrebbe leggerlo. Per farsi un’idea un po’ diversa dei rumeni. E dovrebbe vedere anche Radu Mihaileanu, e soprattutto guardare i suoi film. Il concerto (che esce venerdì in Italia) come del resto Train de vie, che gli ha dato notorietà internazionale, e Vai e vivrai qui ha avuto un enorme successo. È una favola dolce-amara sul comunismo, sull’arte, sulla forza degli ideali, sull’individualismo che ormai consuma tutta la civiltà occidentale, paesi dell’Est in testa. Un’orchestra stroncata trent’anni prima dalla mano di Breznev si riunisce per sostituirsi a quella del Bolshoi e fare un concerto a Parigi. Situazioni esilaranti, attori russi incomparabili, la giovane star francese Mélanie Laurent, consacrata da Inglorious Basterds di Tarantino, e una riflessione acuta sui nostri tempi.
In questo film, più che negli altri, lei sembra fare ironicamente i conti con il suo passato est-europeo... «Sì, è soprattutto Ivan, il funzionario comunista che si improvvisa manager dell’orchestra, il personaggio che mi ha consentito di rievocare con tenerezza e ironia quello che ho vissuto sotto il regime di Ceauescu, una storia comune a tutto il blocco comunista, anche se la Romania era abbastanza indipendente. Nel Kgb, nella Securitate, nella Stasi, c’erano persone che non sempre erano dei mostri. C’era anche chi conservava la propria umanità e una certa capacità di commozione, a dispetto dell’abbrutimento imposto dalla macchina infernale e assurda della dittatura. Ivan nel film ha l’occasione di tornare un uomo, pur restando nella sincera convinzione che il comunismo è l’unico strumento di salvezza del mondo e che in Francia può tornare a vincere le elezioni».
La scelta degli attori russi è straordinaria. Come li ha trovati? «Volevamo delle star, perché era importante portare i russi al cinema a vedere questo film. Un mio assistente è andato a Mosca e ha selezionato una cinquantina di attori con un ca-
sting russo: tutti sostenevano di essere la più grande star del paese. Mi sono subito innamorato dei tre protagonisti: Aleksej Guskov era toccante, Valerij Barinov divertentissimo, Dmitri Nazarov grosso e tenero. Tutti gli attori russi fanno anche teatro, è una grande scuola».
E la scelta di Mélanie Laurent?
«Per la prima volta ho scritto un ruolo pensando a un’attrice, cosa che non mi succede mai. Dopo una serie di vicissitudini, il ruolo è arrivato davvero a lei, che era la scelta giusta. Al-
l’inizio doveva essere fredda, quasi antipatica, poi lasciare intravedere una ferita, fino a far culminare la sua emotività nel concerto. Le grandi star della musica sono persone tagliate fuori dal mondo, che vivono come in una bolla. Non hanno avuto un’infanzia, e questo li rende diversi, lontani. Ann-Marie è tipica di questo mondo. Ma poi doveva succedere che la sua tristezza esplodesse quando comincia ad accostarsi all’armonia di Caikovskij».
Anche qui c’è un grande omaggio agli zingari, come spesso suoi film...
«Sono cresciuto con loro. Abitavo a Bucarest, ma trascorrevo le vacanze in un paese a cento chilometri a nord, dove ce n’erano molti. Anche lì si diceva di fare attenzione, perché rubavano i bambini, ma io sono diventato loro amico. Non sono perfetti, ma adoro la loro libertà, la loro follia. È un popolo meraviglioso. In Italia, avete un problema con gli zingari e per esteso con i rumeni, credete che siano tutti uguali, tutti delinquenti, ma le mafie sono dappertutto, non bisogna generalizzare. C’è un grande problema di incomprensione politica e l’Italia cacciando gli zingari ha violato il patto di Schengen». Lei ha studiato cinema in Francia. Come mai ha scelto proprio quel paese? «È stata una scelta naturale. Mio padre era francofono, era giornalista e scrittore e aveva tradotto molti autori francesi, come André Malraux, del quale era anche molto amico, ma anche Mauriac e Sartre. Parigi era il sogno. Io approfittai di un accordo tra Romania e Israele, che consentiva agli ebrei rumeni di visitare il paese e a un numero esiguo di emigrarvi. Chiesi di andare a trovare mio nonno. Ma sapevo che da Israele sarei partito per la Francia senza più tornare».
Come ha avuto accesso al mondo del cinema? «Avevo finito la scuola di cinema, non avevo più una borsa di studio né un lavoro. Il produttore di I love you di Marco Ferreri mi chiamò e mi chiese se avessi la macchina. Ne avevo una tutta scassata, ma mi prese come autista di Marco. Lui era sempre nervoso, capii con lui non bisognava sbagliare altrimenti mi avrebbe licenziato e non potevo permettermelo. Era il 1984. La sera, con mia moglie, studiavamo il tragitto in cui ci sarebbero stati meno semafori, meno traffico, meno sensi unici, qualche scorciatoia segreta. Se ci mettevo di più, Marco si irritava. Il primo giorno mi fece fermare per comprare le sigarette. Il giorno dopo, quando mi chiese di andare dal tabaccaio, tirai fuori una stecca. Poco a poco cominciai a piacergli. Cominciò a parlarmi del film e a consultarsi con me invece che con il suo aiuto regista. Alla fine di I love you ero il suo aiuto, il suo direttore di produzione e il suo autista, e lo sono rimasto sempre. Ho dovuto imparare dalle sue scenate cosa fossero la luce, il suono, gli accessori, la scenografia. Dovevo conoscere tutto per poter verificare. È stata una scuola incredibile».
È stato più facile trovare finanziamenti dopo il successo di «Train de vie«? «Train de vie ha avuto grandi difficoltà a trovare finanziamenti all’epoca, perché era la prima volta che si affrontava il tema dell’Olocausto con ironia. Il mio amico Roberto Benigni aveva letto la sceneggiatura, ma poi decise di fare un altro film. Pazienza. Nel ’96, qui in Francia, tutti mi dicevano no. Ma io sono ebreo, mio padre era stato deportato, e so che la tradizione yiddish fa dell’ironia su tutto. L’umorismo per noi è parte della tragedia. Una volta realizzato il film, però, il successo ha fatto sì che poi fosse più facile per me trovare i soldi per farne altri. Il concerto è stato un po’ più complicato, perché il budget era il doppio dei miei standard. Ma il successo in Francia lo ha già molto premiato».
Dove fu deportato suo padre?
«Trascorse sei mesi in un campo di lavoro in Romania. Dalla Transilvania, i rumeni venivano deportati ad Auschwiz, come Elie Wiesel. Dalla Moldavia, si veniva deportati in Ucraina. Mio padre venne convocato in un campo di lavoro, dove contrasse la polmonite perché durante l’inverno i prigionieri indossavano divise estive con temperature che arrivavano a -20. Lo ricoverarono in ospedale e di lì evase. Poiché era comunista, il partito gli procurò documenti d’identità falsi. Si chiamava Mordechai Bochmann e cambiò nome in Ion Mihaileanu per poter andare a lavorare al giornale, sempre terrorizzato che i nazisti gli facessero abbassare i pantaloni scoprendo che era circonciso. Poi conservò il nome falso per paura di Stalin. È stato per vent’anni direttore aggiunto de Il Contemporaneo, la più grande rivista culturale rumena. Il giornale lo faceva lui, ma era ebreo e non ha mai potuto dirigerlo». ❖

il Fatto 3.2.10
Fiat: Casa Pound scavalca i sindacati
Striscioni del gruppo di destra davanti alle fabbriche. Oggi lo sciopero
di Stefano Caselli

E’ accaduto in tutta Italia nella notte fra lunedì e martedì, ma vederlo a Torino, di fronte ai santuari della Casa madre, fa un certo effetto. Non certo perché striscioni appesi all’ingresso principale di Mirafiori in corso Agnelli, o del Lingotto in via Nizza, siano una novità. Più che altro è la firma accanto a quel “La Fiat odia l’Italia” issato sui cancelli a incuriosire: “Casa Pound Italia”, network sociale di estrema destra, che – partito da Roma – ha oggi sedi un po’ dappertutto.
Scavalcati a sinistra
Passi per la timidezza del Partito democratico di fronte all’annuncio della cassa integrazione e della chiusura di Termini Imerese e Pomigliano d’Arco, ma se anche sul piano dell’antagonismo sociale si supera a destra, allora piove davvero all’insù: “La nostra è una provocazione – dichiara Marco Racca, responsabile piemontese di Casa Pound – ma con un obiettivo preciso. Che la Fiat decida di chiudere due stabilimenti in Italia lasciando a terra 30 mila persone è il frutto naturale di una politica di delocalizzazione attuata contro la classe lavoratrice italiana. Perché la Fiat non è più un’azienda italiana, continua a produrre all’estero con manodopera a basso costo nonostante gli ingenti contributi statali, a partire dagli incentivi alla rottamazione, che ha sempre ricevuto. La verità è che se ne fregano”. La soluzione? “Che fallisca pure”, recita il volantino distribuito di fronte a oltre 40 concessionarie in tutta Italia: “Con i soldi risparmiati tagliando le sovvenzioni – continua Racca – possiamo creare un’industria dell’automobile italiana al cento per cento. Un governo forte dovrebbe agire in questo senso. E invece le domande che sentiamo dai politici, di destra e di sinistra, sono sempre del tipo ‘cosa possiamo fare per salvare la Fiat?’. Adesso basta, che fallisca. La Fiat è contro l’Italia e noi siamo contro la Fiat, un’azienda da sempre a metà tra privato e pubblico, ma nella cui proprietà lo Stato non è mai voluto, o potuto, entrare”. Che fare degli stabilimenti destinati alla chiusura? “Siano sequestrati, nazionalizzati e affidati a Finmeccanica e Fincantieri”.
SINTONIE. Se la soluzione finale rischia di apparire un po’ velleitaria, è pur vero che le critiche di Casa Pound alla politica Fiat, che produce in casa meno di un terzo delle vetture che vende in Italia, su alcuni punti non sono così dissimili da quelle dei sindacati: “Il fatto si commenta da sé – commenta Giorgio Airaudo, segretario provinciale della Fiom torinese – anche loro si sono accorti di quello che la Fiat sta facendo da 15 anni. Non è certo una novità ed è evidente che i ragazzi di Casa Pound ne approfittino per farsi un po’ di pubblicità. La soluzione ‘che fallisca’, però, è delirante. Un discorso del genere poteva avere senso nei decenni passati, quando si davano contributi a pioggia senza contropartite. Oggi è inutile recriminare su quanto si è dato alla Fiat ieri, il punto decisivo è capire come impegnare la Fiat domani. Il governo dovrebbe incalzare la Fiat, chiedere quale sia la sua idea di sviluppo, condizionarla a mettere in campo le risorse, di cui peraltro dispone, per un vero progetto di sviluppo dell’autoveicolo. Nel caso in cui si intavolasse una trattativa seria e ci fosse la necessità di mobilitare risorse pubbliche, che queste vengano poi restituite ai cittadini. Non è fantascienza, è quanto accade negli Stati Uniti dopo il maxiprestito di Obama per Chrysler. Questa sì che sarebbe una straordinaria novità”. Osservazioni che non fanno breccia in Casa Pound: “Fanno ridere le critiche di sindacati che – replica Racca – hanno sempre meno seguito. Io lo so, ho lavorato in fabbrica. I lavoratori li hanno abbandonati, sanno bene che certe scelte dell’azienda vengono prese anche grazie ad accordi sottobanco con questi signori”. Oggi i lavoratori della Fiat si fermeranno per quatto ore in tutti gli stabilimenti del Gruppo. Uno sciopero proclamato unitariamente dai sindacati dei metalmeccanici Fim-Cisl, Fiom-Cgil, Uilm-Uil, Fismic in vista dei prossimi incontri col governo e con la Fiat sul futuro di Termini Imerese.

il Fatto 3.2.10
I veleni di “Piombo fuso” contaminano terra e uomini di Gaza
di Stefania Pavone

Il suolo di Gaza esala veleno. Le armi non convenzionali usate da Tsahal durante la campagna di “Piombo Fuso” un anno fa hanno impastato il terreno della Striscia con una quantità impressionante di metalli cancerogeni, con effetti sulla salute degli abitanti. Cadmio, mercurio, molibdeno e cobalto si annidano nelle pieghe del terreno di Gaza City. Leucemie, problemi di fertilità, malformazioni nei neonati e patologie di origine genetica sono alcune delle malattie che rischiano di marchiare a fuoco il futuro della salute della popolazione della Striscia. È quanto emerge dallo studio di un comitato di scienziati indipendenti con sede in Italia (il New Weapons Research Group) che indaga sull’impiego di armi non convenzionali nei conflitti del nuovo secolo e sugli effetti di medio
periodo nelle aree in cui questi vengono utilizzati. Sono quattro i crateri analizzati dagli scienziati, formatisi a seguito delle esplosioni di bombe durante la campagna di Piombo Fuso: due nella città di Beit Hanoun, uno nel campo profughi di Jabalia ed, infine a Tufah, sobborgo di Gaza City. A Beit Hanuon sono state rilevate quantità consistenti di tungsteno e mercurio: altamente cancerogeni. La deflagrazione di una bomba ha contaminato acque e terreno. E poi: il molibdeno, presente in grosse quantità in tutti i crateri, è risultato tossico per gli spermatozoi. Cadmio nel cratere di Tufah: anch’esso cancerogeno. E ancora: cobalto, manganese, zinco, stronzio, tutti materiali con effetti devastanti per il corpo umano. Se si pensava che l’immagine dell’orrore della guerra a Gaza fosse incarnato solo da quelle lingue di luce emanate dalle bombe al fosforo bianco, ci si è in parte sbagliati. Gli scienziati del New Weapons Group hanno analizzato la composizione di una polvere residua di una bomba esplosa presso l’ospedale di Al Wafa: oltre al fosforo, altri metalli altrettanto pericolosi impastano il terreno contaminandolo, come molibdeno e tungsteno. Perché, dunque, tutto questo? Una prima risposta è quella fornita dalle accuse di crimini di guerra contro i civili del rapporto Goldstone, il giudice ebreo che ha compilato per l’Onu un dettagliato resoconto su Piombo Fuso. Ma una seconda risposta la fornisce Paola Manduca, ordinaria di Genetica presso l’Università di Genova e portavoce del gruppo internazionale degli scienziati. Che afferma: “Auspichiamo che le indagini fino a ora svolte dalla Commissione Goldstone, voluta dalle Nazioni Unite vadano oltre il rispetto dei diritti umani e prendano in considerazione gli effetti sull’ambiente provocati dall’uso di varie tipologie di bombe e le ricadute sulla popolazione nel tempo. Una rapida raccolta di dati può essere realizzata secondo modalità che si possono descrivere agevolmente e programmare”. E mentre a Gaza City il veleno avvolge un’intera popolazione, nei campi profughi le precarie condizioni di vita fanno da veicolo alle peggiori malattie attraverso la cute e gli alimenti. Cosa potrebbe fare la scienza per evitare il peggio? Dice ancora la Manduca: “Le persone possono essere curate con farmaci che costano poco ma che non entrano a Gaza, mentre per i territori e gli animali il discorso è più complesso, c’è il rischio che si possa fare molto poco, nell’area mediorientale in molti territori non si può fare più nulla. Nelle guerre contemporanee sono state usate armi formate da una serie di componenti chimici altamente tossici, che rimangono nei territori. Il mercato delle armi è il più florido di cui l’Occidente disponga”. Intanto l’ospedale Ash Shifa ha sfornato la prima mostruosità di Piombo Fuso. Si tratta di un bambino soprannominato “baby gorilla” per via del naso schiacciato, dell’incarnato rosso bruno, degli arti accorciati e delle dita dei piedi incurvate verso l’interno, proprio come i gorilla. Il neonato è stato rifiutato dai genitori. Sembra che, nel corso del 2009, i casi di bambini malformati siano saliti a 50. Per i medici, il colpevole numero uno si chiama a chiare lettere fosforo bianco. E mentre questo accade a Gaza City, in una quotidiana guerra per la sopravvivenza e nel disinteresse della comunità internazionale, nel cielo della Striscia i bambini non fanno volare più gli aquiloni.

l’Unità 3.2.10
Mousavi: oggi dittatura in Iran come sotto lo Shah
di Gabriel Bertinetto

Annunciata in Iran la prossima impiccagione di altri 9 oppositori. Il leader dell’«onda verde» Mousavi esorta i seguaci a celebrare con pacifiche proteste il ventesimo anniversario della rivoluzione, l’11 febbraio.

Sarà contento l’ayatollah Ahmad Jannati, che venerdì scorso aveva sollecitato i magistrati ad ordinare l’esecuzione di nuove condanne a morte. Un alto funzionario del potere giudiziario di Teheran, Ebrahim Raisi, ha annunciato che «altre nove persone saranno presto impiccate», oltre ai due presunti affiliati ad un’organizzazione monarchica saliti sul patibolo sei giorni fa. Gli uni e gli altri, secondo Raisi, «avevano legami con correnti antirivoluzionarie e furono arrestati per avere preso parte alla rivolta per rovesciare il sistema».
CELEBRAZIONI NON RITUALI
Le autorità di Teheran intensificano la repressione, e non si fanno scrupolo di mostrare tutta la brutalità di cui sono capaci. Non a caso ciò avviene mentre si avvicina l’11 febbraio, anniversario della rivoluzione khomeinista.
Quella che a lungo è stata una ricorrenza festeggiata in maniera rituale, diventa quest’anno occasione di scontro politico acceso. Sia il governo che i suoi avversari si apprestano a celebrarla, rivendicando a sé l’osservanza degli ideali libertari che accompagnarono il rovesciamento dello shah, e scaricando sugli altri l’onta di averli traditi.
Mirhossein Mousavi, leader del movimento che denuncia come fraudolenta la rielezione di Mahmoud Ahmadinejad alla presidenza il 12 giugno scorso, si è rivolto ieri ai seguaci, invitandoli a manifestare pacificamente l’11 febbraio a sostegno della democrazia. Senza giri di frase, ha esplicitamente accusato il sistema istituzionale iraniano di incoerenza con i valori originari.
Sul sito online Kalemeh è stata diffusa una dichiarazione in cui Mousavi indica nelle impiccagioni, incarcerazioni, torture, uccisioni dei dimostranti, la prova che la rivoluzione del 1979 «non ha raggiunto i suoi obiettivi». Anzi, il Paese vive tuttora in condizioni di tirannia. «Riempiendo le prigioni e assassinando ferocemente i manifestanti, si dimostra che la radice della dittatura dell’era monarchica non è stata estirpata».
Mai forse sinora il capo dell’opposizione aveva usato un linguaggio altrettanto duro, mettendo in discussione non alcuni aspetti dell’azione di governo, ma la natura stessa della teocrazia iraniana. «Un dispotismo esercitato in nome della religione è il peggiore dei dispotismi», ha aggiunto Mousavi. E ancora: «Nei primi anni dopo la rivoluzione c’era la convinzione che fossero state eliminate le strutture che possono portare alla dittatura. Anch’io ne ero convinto, ma ora non lo credo più». Mousavi è stato a suo tempo una delle figure chiave del regime, avendo esercitato la carica di premier dal 1981 al 1988 nel pieno della guerra con l’Iraq di Saddam.
I PASDARAN MINACCIANO
Sia Mousavi sia l’altro dirigente riformatore Mehdi Karroubi esortano i concittadini a mobilitarsi per i raduni che l’opposizione prepara in vista dell’11 febbraio. «Il movimento verde (il colore dell’organizzazione pro-Mousavi) non abbandonerà la sua lotta non violenta fino a quando i diritti del popolo non saranno garantiti continua l’appello diffuso su Kalemeh -. Protestare pacificamente è uno di questi diritti».
Il trentunesimo anniversario del trionfo khomeinista rischia di trasformarsi in una nuova giornata di violenze. Khamenei, Ahmadinejad e soci manderanno in piazza i loro fedelissimi e soprattutto sguinzaglieranno sbirri e miliziani integralisti.
La parola d’ordine delle autorità integraliste è impedire i raduni dei democratici. Un ufficiale dei Pasdaran, Hossein Hamedani, è stato sinistramente minaccioso: «A nessuna condizione lasceremo che il movimento verde si mostri in giro. Sarebbe affrontato da noi con fermezza».❖

l’Unità 3.2.10
Firenze
Middle East Now

FIRENZE Prende il via oggi la prima edizione di “Film Middle East Now”, il festival italiano dedicato al Medio Oriente e in programma fino al 7 tra Odeon e Stensen. La pellicola
mento con Eugenio Allegri, Laura Curino e compagnia è al Teatro Mestastasio, da stasera a domenica (feriali ore 21, festivi ore 16, info 0574/608501).
d’apertura (ore 21, cinema Odeon in piazza Strozzi, ingresso a 5 euro) è “About Elly”, il film del regista iraniano Asghar Faradhi, vincitore dell’orso d’argento all’ultimo Festival di Berlino.

l’Unità 3.2.10
Addio manicomi Ecco dove germogliano i semi di Basaglia
di Cristiana Pulcinelli

Tendenze In Italia torna il vento della «psichiatria della sicurezza», all’estero ci si ispira alla legge 180
p L’eredità Gli esempi del Brasile, ma anche dell’Inghilterra, dell’Islanda, dei Balcani: il modello Basaglia

A quasi trent’anni dalla morte di Basaglia, si torna a parlare in Italia, ma non solo di psichiatria della sicurezza. Ma in altri paesi la legge 180 ha lasciato segni profondi: il Brasile di Lula, per esempio...

Trent’anni fa il Brasile aveva un enorme numero di pazienti psichiatrici chiusi in manicomi privati per venti, trent’anni della loro vita. Lo stato pagava le rette e quindi la psichiatria nel paese era un grande business. Nel 1979 Franco Basaglia tiene una serie di seminari nel paese raccontando l’esperienza italiana di superamento del manicomio con l’apertura delle strutture e la restituzione dei diritti al malato. Nel paese c’era ancora la dittatura militare e i seminari di Basaglia incontrano una diffusa voglia di libertà: partecipano centinaia di operatori, psichiatri, intellettuali. La luta antimanicomial del Brasile comincia da lì. Negli anni «fermenta»: già con il governo precedente a quello attuale comincia un processo di riforma. I contatti con gli psichiatri di Trieste sono costanti: Franco Rotelli, che andò a dirigere il manicomio di Trieste al posto di Basaglia nel 1979 e che lo chiuse definitivamente un anno dopo, va spesso in Brasile. Nasce un enorme movimento di utenti. I risultati: i posti letto in psichiatria diminuiscono del 40%, in 15 anni i centri territoriali aumentano del 70%. Oggi il Brasile di Lula ha ridotto drasticamente i grandi ospedali psichiatrici, talvolta li ha chiusi definitivamente. Ha creato 2000 servizi territoriali e ha esperienze di punta a Santos, San Paulo, Bel Orizonte, nel Minas Gerais. I semi di Trieste nel mondo stanno germogliando? «Trieste è un modello di riferimento per l’Oms –commenta Franco Rotelli Il superamento degli ospedali psichiatrici e l’utilizzo di servizi decentrati ormai è un dato acquisito, ma poi esistono realtà molto diverse fra loro. La frammentazione delle pratiche e delle teoche sia difficile disegnare una mappa, sia mondiale che italiana». Esperienze avanzate nel mondo ce ne sono molte: in Nuova Zelanda e in Australia, ad esempio.
DA TRIESTE AL MONDO
Alcune fanno riferimento esplicito al modello triestino: in Brasile, in Argentina, in Islanda, nei Balcani, dove si parte da situazioni molto arretrate, ma dove si stanno verificando importanti cambiamenti. E in alcune zone dell’Inghilterra, come racconta John Jenkins che oggi dirige la International Mental Health Collaborating Network, una Ong che aiuta i paesi che vogliono aprire servizi di salute mentale centrati sulla comunità: «Sono diventato direttore di un grande ospedale psichiatrico nel 1976. L’anno successivo, ispirati in parte dal lavoro di Trieste, decidemmo di aprire i servizi di salute mentale di comunità che avrebbero rimpiazzato l’ospedale. Così avvenne: l’ospedale fu chiuso nel 1985. Da allora, il governo inglese ha appoggiato questa politica e i molti altri manicomi sono stati chiusi».
E l’Italia? «Non esiste il disastro italiano di cui talvolta si sente parlare – dice Peppe Dell’Acqua, direttore del dipartimento di salute mentale di Trieste Pensiamo solo alla zona di Aversa: fa riflettere che nella patria dei casalesi ci siano 5 centri di salute mentale aperti 24 ore al giorno per 7 giorni su 7». I protagonisti di queste esperienze, italiane e straniere, saranno a Trieste dal 9 al 13 febbraio per l’incontro «Che cos’è salute mentale?», fortemente voluto da Dell’Acqua: «Usciamo da un periodo difficile, i segnali che arrivano sono quelli di un ritorno della psichiatria della sicurezza». Rotelli è d’accordo: «Sarkozy ha detto che bisogna qualificare gli ospedali psichiatrici. È l’esempio del vento che sta girando in Europa. Il paziente è considerato persona da tenere d’occhio perché rischiosa e quindi crescono i sistemi di controllo». Il mondo vastissimo di operatori, cooperatori, familiari, pazienti dice però cose diverse. È questo mondo che l’incontro di Trieste vuol mettere insieme. L’incontro triestino vuole essere anche la risposta al paradigma secondo cui «la malattia mentale è qualcosa che non funziona nel cervello. Qualcosa che i farmaci rimetteranno a posto». «Un paradigma vecchio – prosegue Dell’Acqua – che dietro ha strutture territoriali misere e psichiatri ridotti a prescrittori di farmaci». A questo “sé” neurochimico si contrappone un “sé” che si costruisce attraverso le relazioni tra le persone.❖

l’Unità 3.2.10
«Ma nel mondo l’85% dei malati non ha alcuna cura»
Il direttore del dipartimento salute mentale dell’Oms: «Quasi ovunque il comun denominatore è la discriminazione e l’assenza di ogni trattamento»
Intervista a Benedetto Saraceno di C. Pul.

Il direttore del dipartimento salute mentale dell’Oms: «Quasi ovunque il comun denominatore è la discriminazione e l’assenza di ogni trattamento»

Si calcola che nel mondo 450 milioni di persone abbiano un problema importante di salute mentale. La maggior parte di essi vive in paesi poverissimi: «Ci sono stati come il Mozambico dove c’è uno psichiatra per tutto il paese e alcuni villaggi distano venti ore di autobus dal primo servizio medico», racconta Benedetto Saraceno, direttore del dipartimento salute mentale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Cosa si può fare per ridurre il disagio di queste persone? «Il problema principale che ci troviamo di fronte come Oms è che l’85% delle persone che hanno una malattia mentale non riceverà alcun tipo di trattamento nel corso della sua vita, non incontrerà mai uno psichiatra e molto probabilmente neppure un medico generico. Questo vuol dire che l’85% delle persone con psicosi sarà emarginata, spesso reclusa in casa o esposta a drammatiche discriminazioni o violenze. L’85% delle donne con una depressione grave post parto se la terrà e il 90% delle persone con epilessia non riceverà alcun trattamento. La politica dell’Oms in primo luogo è quella di diminuire un po’ il gap tra chi ha accesso alle cure e chi non ce l’ha».
Ma quel 15% che riceve una risposta, che risposta riceve? «L’80%di quel 15% viene mal curato in ospedali psichiatrici che spesso sembrano campi di concentramento. In alcuni casi ci si domanda se non è meglio che stiano per strada piuttosto che in mano a una psichiatria che viola i loro diritti umani e li sequestra. Noi che ci occupiamo di salute mentale abbiamo un doppio problema: stabilire l’accesso alle cure e modificare radicalmente la qualità della risposta».
Esiste un modello unico di salute mentale, nonostante le differenze tra i paesi? «Sì, perché alcuni dati sono costanti in tutto il mondo. Ad esempio, il fatto che le persone con malattia mentale sono stigmatizzate e discriminate. Oppure, la tendenza di una certa psichiatria a fornire un modello repressivo ed espulsivo è frequente sia nei paesi poveri sia in quelli ricchi. Così come esiste ovunque la necessità di decentrare i servizi psichiatrici. Non bisogna dimenticare che la malattia mentale è di lunga durata: vuol dire che i pazienti passano la maggior parte dei loro giorni fuori dall’ospedale. Quindi, dobbiamo fare i servizi fuori dall’ospedale. La psichiatria deve stare sul territorio perché lì c’è la domanda. Il bisogno delle persone non è solo bisogno di farmaco, ma anche di lavoro, casa, affettività e sessualità». La riforma italiana è un modello? «L’Oms guarda alla riforma dei servizi di salute mentale italiana con estremo interesse. Sono pochi i paesi che possono essere presi a modello: oltre all’Italia, il Brasile, alcune esperienze spagnole e inglesi. Ma ci sono esperienze diverse che sono degne di attenzione. Ad esempio lo Sri Lanka, dove i manicomi sono stati ridotti grazie ai fondi stanziati per lo tsunami e utilizzati in parte per una riforma dell’assistenza psichiatrica in tutto il paese».❖
l’Unità 2.2.10
A Roma la candidata del Pd inaugura la sede del comitato elettorale. Lo slogan: ti puoi fidare
Polverini apre sulle coppie di fatto e scatena una bufera. Attacchi da Alemanno e Giovanardi
Emma in tre parole: regole trasparenza e legalità
La radicale Bonino promette una politica che non ha paura di «contaminazioni». «Io penso di essere una liberale con forti assonanze a sinistra», si presenta. Miriam Mafai: «Non solo mi fido, ma mi entusiasma».
di Mariagrazia Gerina

«La prima volta che l’ho vista non ci potevo credere: una deputata che viaggia in Fiat 127...», racconta con il suo abito da musulmano Ouattara Gaoussou, imprenditore e immigrato, radicale da vent’anni, che Emma Bonino ha voluto con sé sul palco del comitato elettorale per presentarsi agli elettori, candidata alla Regione Lazio, con la sua storia, le sue battaglie, i suoi vecchi e nuovi sostenitori. «Penso agli immigrati come una possibilità», snocciola il suo primo slogan alternativo alla destra: «Regole e regolarizzazioni, ma chi è forte non ha paura di contaminazioni».
Uno slogan perfetto nel giorno in cui la sua avversaria Renata Polverini apre alle coppie di fatto e finisce per trovarsi contro mezza coalizione, da Giovanardi ad Alemanno. Mentre prorpio sui «diritti civili» il fronte Bonino trova la sua cifra compatta. «Io penso di essere una liberale con forti assonanze a sinistra», risponde Emma al mattino a chi si collega con la sua video-chat per farle domande a ruota libera. «Cura molto il rapporto col mondo del lavoro», le raccomanda Zetavu durante la chat, piena di domande sul precariato. Un assaggio di come sarà questa campagna elettorale, che Emma Bonino ha voluto aprire con un’ora di chiacchierata online, sul sito www.boninopannella.it., per poi correre con la sua giacchetta fucsia, a inaugurare il comitato elettorale, a Trastevere. La indossa anche sui manifesti che recitano «Ti puoi fidare», replicando al rosso sfoggiato a destra dalla sua avversaria Renata Polverini con il più anti-politico dei colori. «Ma me il fucsia piace molto», si schermisce, mentre attorno a lei nell’ex magazzino di via Ripense si accalcano storie quanto mai distanti. C'è Miriam Mafai: «Ragazzi, Emma è molto più avanti di tante robe che sentiamo anche a sinistra. Che vi devo dire? Mi entusiasma». E c’è Marco Pannella, che si sforza di tenersi in disparte. Bobo Craxi, che prepara una lista a sostegno della Bonino. E il segretario della Cgil Lazio, Claudio Di Berardino: «La tentazione di votare per la sindacalista Polverini? Nel mio sindacato io non la vedo proprio. Credo che insieme potremo costruire un patto su lavoro e sanità pubblica». Ci sono i radicali. E i dirigenti del Pd locale. Con Ignazio Marino, Zingaretti, Meta, Morassut. La coordinatrice ra-
dicale, Rita Bernardini. E il coordinatore Pd, Milana. Gli immigrati e il regista Bellocchio con l’attrice Monica Guerritore. «Saprà raggiungere anche l’elettorato più distante», assicura Giovanna Melandri. «Emma è uno
Una platea che rispecchia la complessità della candidata che in dieci minuti fitti di politica e indicazioni di governo, rimescola in modo credibile parole d’ordine che più distanti non potrebbero essere. Parla di una politica del «fare» senza neppure un lontano accento berlusconiano. Scippa persino al papa parole come «speranza» e «paura». E rovescia il veltroniano «Mi fido di te» in una risposta rivolta anche agli scettici. «Ti puoi fidare», recita lo slogan di Emma, che agli imprenditori come ai pendolari prova a far intravedere un «Lazio regione d’Europa, con buone pratiche e fondi in gran parte non ancora sfruttati». Compreso il fascicolo di fabbricato. Un «tecnicismo» secondo la Polverini. «Una garanzia senza la quale nel resto d’Europa nessuno comprerebbe casa», dice Emma, che cerca parole chiare per conquistare anche «chi non ci ha votato prima». «Regole, trasparenza, legalità», per la Regione e per la gestione della sanità, scandisce il suo vocabolario trasversale per catturare l’interesse di «chi non si riconosce nelle forme organizzate della politica».
Via ciò che sa di vecchio, anche i manifesti: «Noi non imbrattiamo la nostra regione, addobbiamo piuttosto le finestre delle nostre case, i vetri delle auto... L’ho visto fare in altri paesi».❖

Repubblica Roma 2.2.10
Bonino: "Il mio motto? Ti puoi fidare"
La leader radicale apre il comitato. "Non imbrattate la città, poster sulle macchine"
Un discorso breve ma incisivo. "Tre le mie parole chiave: regole, legalità e trasparenza"
di Giovanna Vitale

Quando arriva nella sede del comitato elettorale, giacca fucsia e cartellina in mano, finisce subito inghiottita dalla folla che tracima dalla rimessa riattata a quartier generale. «Em-ma, Em-ma, Em-ma», è l´urlo che sale a ritmo da stadio, mentre lo stanzone rimbomba dell´Inno alla Gioia di Beethoven, che poi sarebbe quello europeo, omaggio sottinteso ai fulgidi trascorsi della candidata. Applausi, strette di mano, abbracci: che fatica raggiungere il palchetto improvvisato in fondo, più che un comizio sembra una festa, coreografie zero, nessun prete a benedire la platea, giusto un microfono e il suo primo manifesto elettorale: «Ti puoi fidare» è l´invito rivolto da una Bonino in primo piano, sorridente come non mai.
Un messaggio chiaro, indirizzato soprattutto a chi l´ha criticata ancor prima che iniziasse a spiegare la sua ricetta per il Lazio, che lei vuole trasformare in «una grande regione d´Europa, dinamica e attiva ma attenta anche ai più deboli, ai più poveri, ai più sfruttati», elenca e chissà se la Chiesa stavolta approverà «un Lazio che non ha paura di affrontare le sfide di oggi e di domani». Del resto, «ho alcuni rapporti internazionali che possono essere messi a profitto per la Regione», dice con orgoglio. Concretezza è la sua filosofia: «Promesse e annunci non fanno parte del mio vocabolario», lancia una stoccata ad Alemanno e ai suoi 100mila posti di lavoro.
Un discorso d´investitura breve, un paio di fogli scritti a mano per non perdere il filo, pronunciato col cuore. «Abbiamo scelto la parola "fiducia" perché credo sia tempo di tornare ad averne, non solo in me, ma nel Lazio, nella potenzialità di questo territorio, nei cittadini». Ecco perché la sua sarà «una campagna ariosa, fantasiosa, in cui vorrei che ognuno di voi si senta un po´ candidato presidente», esorta. Senza dimenticare il senso civico: «Faccio un appello a tutti: non imbrattate i muri di questa città, addobbate semmai le vostre finestre, gli uffici, le macchine, persino le biciclette». È contagiosa la candidata Emma. Vuole «vincere» ma «nel senso di convincere tutti quelli che hanno perso fiducia, che non vanno più a votare o hanno votato altro, che un nuovo inizio è possibile». Riconoscendosi, a partire dagli elettori delusi di destra, nelle sue battaglie di sempre: «Regole, legalità, trasparenza». Con un´avvertenza: «Ogni giorno ci tenderanno delle trappole costruite a tavolino, semineranno zizzania e falsi scoop. Cerchiamo di avere le spalle forti».
Applausi, snack, poi subito al lavoro. La direzione regionale del Pd vara il comitato per formare le liste (uno per mozione più il segretario Mazzoli). Oggi si decide chi affiancherà Milana nel comitato elettorale e chi scriverà il programma.

Repubblica Roma 2.2.10
In via Ripense sfilano in tanti: da Bellocchio a Mina Welby, da Zingaretti a Monica Guerritore. "Ognuno di voi si senta candidato"
"Emma! Emma!" E nell´ex officina scoppia il tifo tra pizza bianca e acciaio
di Simona Casalini

I comitati di quartiere "Via i manifesti abusivi"
Debuttano anche ‘manifesti fai da te´, che si scaricano dal sito www. boninopannella. it.
Contro le affissioni abusive, arriva la task-force dei residenti. Partirà nei prossimi giorni la campagna "Adotta un muro" lanciata dal coordinamento residenti Città Storica, che riunisce 18 associazioni di quartiere. «Durante il periodo di campagna elettorale ogni comitato individuerà i muri più colpiti dalle affissioni abusive spiega Roberto Tomassi, portavoce del coordinamentoe ogni giorni gli abitanti provvederanno a monitorare, fotografare e pubblicare online le immagini del degrado e dei partiti colpevoli delle affissioni abusive». I residenti, che si occuperanno anche della rimozione dei manifesti selvaggi, ieri hanno inviato una lettera alle candidate del Pd e del Pdl, Emma Bonino e Renata Polverini, per chiedere «che i manifesti siano affissi esclusivamente negli spazi consentiti».
Pizza bianca e pizza rossa, nei vassoi di cartone ruvido, come ruvida ma piena di storia di vecchia fatica artigiana la sede del comitato di Emma Bonino. Lì, dove si tagliavano trafilati di acciaio, mica roba da minuetto o spogliarelli, Emma ha aperto la porta del suo comitato-bottegone, con un parterre non certo qualunque, che univa mondi e opinioni anche lontani ma qui miscelati perché il centrosinistra tenga il presidio della Regione Lazio. Che applaudono e tifano "Emma! Emma!" come tifosi, come adepti, come sempre ammiratori di una grande donna di Stato.
C´erano il regista Marco Bellocchio, che giusto la sera prima a Torre Argentina aveva avviato i cineforum col suo film "L´ora di religione" e, insieme, Romano Scozzafava, il matematico ordinario di calcolo delle probabilità; l´attrice Monica Guerritore e, accanto, Gaoussou Ouattara, immigrato della Costa d´Avorio in Italia da 29 anni che si appellava a Maroni per far rispettare i tempi del rilascio dei permessi di soggiorno. Pannella, dentro e fuori tra la calca, col codino sciolto e i lunghi capelli bianchi, Zoro-Diego Bianchi che scambiava numeri e impressioni col senatore Ignazio Marino, la Melandri che si incrociava con Miriam Mafai, amica storica della vice-presidente del Senato, mentre Emma for president al microfono usava aggettivi forti come "repellente" verso la politica da cambiare, per far tornare alla gente la voglia di votare.
Sul palco, anche Rita Bernardini, deputata, radicale extra strong dalla culla, e, accanto, Riccardo Milana, che invece nasce moderato rutelliano, coordinatori in doppio del comitato elettorale. Ecco vicine Mina Welby e Marianna Madia, Nicola Zingaretti e il deputato Touadì, il leader di via Condotti Gianni Battistoni, il vice presidente del Lazio Esterino Montino e il segretario Cgil Claudio Di Berardino. C´è molta passione politica, tanta energia. «E va bene anche se è fantasiosa e disordinata!» assevera la Bonino.
Qualcuno dell´associazione Tavani Arquati ricorda a Staderini, segretario dei radicali che tra poco ricorre la repubblica romana, una delle date clou della storiografia dei pannelliani, e nella calca si vede anche Marco Cappato, il deputato che si candida presidente in Lombardia e lì il Pd non è molto contento. Già, il Pd: va detto che qui a Roma, al via del comitato Bonino, non è presente con il primissimo sfoglio, ma c´è ancora tempo, tutti giurano che si farà e che lei ce la farà. «Ognuno di voi si senta candidato presidente» arringa Bonino, mentre debuttano anche ‘manifesti fai da te´, che si scaricano dal sito www. boninopannella. it. Si appendono alle finestre e la scritta non è severa: "Emma Bonino, vuoi mettere?".

Liberazione 2.2.10
Fantasia e trasparenza, Bonino lancia la campagna per il Lazio
di R. V.

Emma "for president" campeggia dai manifesti - giacca rosa e slogan "Ti puoi fidare" - che tappezzano dentro e fuori la sede del comitato elettorale, a Trastevere. La candidata alla poltrona che fu di Piero Marrazzo lo ha inaugurato ieri e il locale ex industriale piano strada era in vero troppo piccolo per contenere la folla. E` vestita con la stessa giacca rosa, sorride, si fa largo per arrivare al mini-palco, mentre dagli altoparlanti esplode l`Inno alla gioia di Beethoven. C`è anche Pannella, in satyagrah, che però resta fuori, sigaro tra le dita. Accompagnano Bonino Riccardo Milana, coordinatore della campagna, e Rita Bernardini, coordinatrice della candidata. «Abbiamo scelto la parola fiducia», esordisce, ma non nel senso «fiducia in me», quanto «nel Lazio, nel suo potenziale e nei cittadini e cittadine della regione». Spera in una campagna elettorale «ariosa, fantasiosa, magari pure disordinata», con l`obiettivo di «vincere, nel senso di convincere» tutti i delusi che «è possibile un nuovo inizio»: intanto «per favore esorta Bonino - cambiamo metodo: non imbrattate i muri della città; casomai tappezzate le finestre di casa o i finestrini delle automobili». E, casomai, «aprite club ovunque vi venga voglia, non servono permessi né autorizzazioni. Tutti si sentano un candidato presidente». 
Regole, legalità, trasparenza sono le parole chiave dei Radicali che Emma vuole applicare nella gestione del Lazio, «regione d`Europa». Mica facile. Perciò Bonino non vuole fare «promesse e annunci» che «non fanno parte del mio vocabolario» (il riferimento è al piano occupazionale del sindaco di Roma Alemanno: centomila posti in due anni). Nel programma, ci saranno «pochi impegni ma chiari». Il no al nucleare è già acquisito, ma Bonino immagina anche un Lazio «attento ai deboli, ai poveri e agli sfruttati». E si rivolge a Ouattara Gaoussou, della giunta dei Radicali e presidente del movimento degli africani, che sta portando avanti la sacrosanta battaglia per il rispetto dei tempi per il rilascio dei permessi di soggiorno: dovrebbero essere venti giorni, le questure in media ci mettono un anno. Infine chiama a raccolta il mondo femminile che «per me è una grandissima forza di ispirazione: sia più ascoltato e riconosciuto. Conto su di voi e sul vostro potenziale» e questa volta guarda a Monica Guerritore e Miriam Mafai (tra il pubblico con il regista Marco Bellocchio). Ad ascoltarla una folla di politici e sostenitori: dal vicepresidente della Regione, Montino, al presidente della Provincia di Roma, Zingaretti, a parlamentari del centrosinistra, tra cui Ignazio Marino, Marianna Madia e Jean Leonard Touadi. Al gran completo anche i vertici del Pd romano, a partire dal segretario Alessandro Mazzoli; poi Bobo Craxi, Stefano 
Pedica (Idv), Angelo Bonelli (Verdi). Sullo sfondo, le trattative per le alleanze. «Stanno andando bene» dice Bernardini. L`Idv è «dentro», e col Prc non sembrano esserci grossi scogli programm ci a livello regionale, anche se resta da definire il tipo di apparentamento: si ragiona sull`accordo tecnico (cioè senza la partecipazione al governo della regione in caso di vittoria), ma su questo la Federazione della Sinistra deve ancora pronunciarsi ufficialmente: il nodo potrebbe essere sciolto oggi o domani. 
Nel Pd, invece, continuano i maldipancia cattolici (integralisti) verso la candidatura Bonino. Paola Binetti è tornata all`attacco tuonando che «non è più il partito a cui ho aderito», costringendo Piero Fassino a prendere posizione: «Ci sono temi che caratterizzano i radicali che sono propri anche dei credenti: penso alle battaglie contro la pena di morte, la povertà nel Terzo Mondo, la solidarietà. 
Su altri temi cosiddetti etici sono sicuro che Bonino saprà distinguere tra le sue convinzioni personali e il programma della coalizione». Ma a ben vedere non sarà certo il (presunto) non voto cattolico ad affossare Emma: ben più temibili sono gli interessi e gli appetiti economici tra sanità e speculazione edilizia. Non per caso, Ignazio Marino, medico e cattolico, è lì a ricordare che «non possiamo riconsegnare il Lazio agli affaristi della destra». 
Lo sa bene Emma, tanto da mettere in guardia contro le «trappole»: ce ne saranno ogni giorno, «saranno pesanti e studiate a tavolino: tenteranno di seminare zizzania tra di noi, faranno falsi scoop, cercheranno di dividerci». Si dovrà fare «gruppo» e ci vorrà molta «passione» e molta «fiducia», appunto.

l’Unità 2.2.10
Voto Bonino, ammiro l’integrità della persona

«Voto Bonino, assolutamente». Pierfrancesco Favino, attore protagonista dell`ultimo film di Gabriele Muccino «Baciami Ancora», non ha dubbi sulla sua preferenza per le prossime elezioni regionali nel Lazio. Intervistato da Claudio Sabelli Fioretti e Giorgio Lauro per il programma «Un giorno da pecora» ha motivato la sua scelta: «Credo che con il suo percorso politico sia riuscita a dimostrare al mondo che è una persona che non ha bisogno di urlare quello che ha fatto. Voto lei perché voto l`integrità della persona». «Nel film - si legge nella nota dell`emittente - il personaggio impersonato da Favino è un seguace di Fini e della destra. «Io no. Ma devo ammettere che Fini si sta attrezzando per fare in modo che tutti quelli che non avrebbero mai pensato di votarlo ci possano ripensare».

il Riformista 2.2.10
L’abisso tra Bonino e Vendola
di Carlo Patrignani

Caro direttore, di due fatti politici dati per nuovi, uno lo è davvero, la candidatura a governatrice della Regione Lazio della “fuoriclasse” Emma Bonino, l’altro è solo apparenza o meglio prodotto mediatico, vale a dire la striminzita vittoria di Nichi Vendola alle primarie il 65 per cento di 200 mila votanti per la scelta del candidato a presidente della Puglia investita da un’inchiesta della magistratura su una gestione per nulla limpida della sanità. Non è corretto, insomma, mettere in un unico contenitore, il Pd, due persone dalla storia politica e umana profondamente diversa e alternativa. Faccio quest’affermazione non solo per la simpatia che dal 1974 mi lega alla Bonino, a Marco Pannella e al Partito radicale, ma per avere di recente dato alla stampa il mio primo libro, Lombardi e il fenicottero. La storia di uno dei più onesti e coerenti, rigorosi e geniali protagonisti della Resistenza, della Liberazione e della Repubblica, l’azionista e socialista Riccardo Lombardi, “indigesto” a Palmiro Togliatti prima e poi a Enrico Berlinguer e agli strateghi del catto-comunismo. Colui che portò nel Psi, fin dal 1947, la cultura sconosciuta dell’autonomia socialista e dell’alternativa di sinistra per poter dare «a ciascun individuo la massima possibilità di realizzare la propria esistenza e decidere la propria vita». Di educazione cattolica, presto si distaccò dal credo religioso fino a rifiutare tutte le filosofie che presuppongono una persona, un partito, una Chiesa quale guida degli esseri umani. Accanto a lui visse per 52 anni Ena Viatto, una donna, ribelle a Togliatti e alla logica staliniana “o con me o contro di me”. Entrambi nel 1974 scelsero senza esitazioni il divorzio prima e l’aborto poi, le due grandi conquiste dei Radicali che elevarono la civiltà del Paese: su entrambi, divorzio e aborto, il Pci di Berlinguer ebbe forti dubbi e resistenze. Forse oggi rivedo la coppia Riccardo e Ena in Pannella e Bonino. Eretici e atipici, libertari e liberali, il loro socialismo radicale e liberale non ho nulla da spartire, anzi è agli antipodi del catto-comunismo e del populismo di Vendola, condito con richiami al socialismo, come qualche anno fa faceva Fausto Bertinotti: «Lombardi? Figurarsi, io sono nato lombardiano». Eppure Lombardi ammoniva sempre che «a spaccare si fa prima che unire», e Bertinotti nella sua storia sindacale e politica ha provveduto a smentire sempre Riccardo. Oggi ogni socialista che ha nel cuore e nei suoi pensieri l’insegnamento di Lombardi non può che guardare e sostenere Emma e Marco.

il Riformista 2.2.10
La campagna elettorale «leggera» di Emma che vuole imitare Barack
di Edoardo Petti

LAZIO. Molto web e pochi manifesti. «Non sporcate i muri, appendeteli ai balconi e sulle biciclette». Nello staff il Pd Milana, che nega ritardi rispetto alla Polverini.

«Regole, legalità, trasparenza e interattività come programma di governo e modo di essere, di vivere la politica». Sono le parole guida della campagna di Emma Bonino alla presidenza del Lazio, rilanciate nel giorno della presentazione del suo comitato elettorale. La leader radicale è accolta sulle note dell’Inno alla Gioia da centinaia di persone giunte nel suo quartier generale a Trastevere. Davanti allo slogan scelto dallo staff della vicepresidente del Senato, “Ti puoi fidare”, spiccano, tra gli altri, i volti di Nicola Zingaretti, Esterino Montino, Alessandro Mazzoli, Angelo Bonelli, Bobo Craxi, Miriam Mafai, Monica Guerritore e Marco Bellocchio. Oltre naturalmente a Marco Pannella e ai militanti e dirigenti del partito di Torre Argentina. «Mi auguro che ognuno di voi si senta in qualche modo candidato, e spero di riuscire a essere contagiosa per tutti i cittadini, di qualunque convinzione», afferma l’ex commissaria europea appellandosi alla «cittadinanza attiva» ed esprimendo l’augurio che «nella regione nascano moltissimi club dove le persone possano mettere cuore, passione e capacità di creare». È questa la ragione per cui il comitato Bonino lancia l’iniziativa “Open party”, una campagna online aperta agli utenti attraverso una web tv che, come osserva il suo animatore e segretario di Agorà digitale, Luca Nicotra, «punta a far scoprire e conoscere i momenti più “segreti e nascosti” della vita di un’associazione politica, utilizzando lo strumento della rete anche per rompere le barriere all’informazione rappresentate dai media tradizionali». Un tema, questo, che resta il cuore della campagna radicale, visto che, prosegue Nicotra, «il canale telematico costituisce solo una parte della campagna, come dimostra anche l’esperienza di Barack Obama». Il carattere non ortodosso della corsa di Emma Bonino è confermato anche da Riccardo Milana, senatore del Pd e coordinatore del comitato elettorale della candidata del centrosinistra. «Abbiamo concepito una campagna leggera, animata dalla spontaneità dei volontari che si mobilitano attorno a una figura fortissima, autorevole e trasparente», sostiene Milana, il quale nega qualunque ritardo nei tempi rispetto allo schieramento di Renata Polverini, i cui manifesti campeggiano nell’intera regione dall’inizio di dicembre. Il parlamentare democratico sottolinea poi come «dopo una discussione aperta, le varie anime del Pd si siano tutte riconosciute con entusiasmo e responsabilità nella strategia a sostegno dell’ex commissaria Ue».
E dal web, così come dal comitato trasteverino, Bonino traccia le idee forza della sua candidatura. A partire dalla sua valutazione delle primarie, che «servono per selezionare un candidato a una funzione pubblica, come accade nella democrazia bipartitica nordamericana, con regole valide per entrambe gli schieramenti, e non per la designazione di cariche interne ai partiti». Proseguendo con il suo appello a «non imbrattate i muri di Roma e del Lazio con i manifesti elettorali, e a sostenere, proprio come negli Usa, il proprio candidato addobbando le finestre di casa, degli uffici, le biciclette e le automobili». Quanto alle sue proposte, parla di un «rilancio della regione attraverso un risanamento amministrativo ispirato ai modelli delle aree più avanzate dell’Europa», e delinea «uno sviluppo produttivo diverso da quello tradizionale, facendo della gestione dei rifiuti e dell’investimento nelle energie rinnovabili un’occasione di attività economica, o mettendo a frutto le potenzialità del patrimonio audiovisivo laziale». Altro tema cruciale per la leader radicale, che ricorda come «sarà necessario avere le spalle forti per fronteggiare le tante trappole, gli scoop, e i colpi bassi di questa campagna», è la necessità di «girare pagina nel rapporto fra sanità e politica, un aspetto della “peste italiana”». Bonino immagina insomma «una regione europea e attiva, in cui gli immigrati sono una forza preziosa, che non ha paura e accetta le sfide, poiché le grandi culture nascono dalle contaminazioni, sulla base di regole rispettate da tutti».

l’Unità 2.2.10
Gli unici veri razzisti
di Giancarlo De Cataldo

D iscriminare qualcuno perché “negro” o “rumeno”, quello sì che è razzismo, ma è una storia che non ci riguarda. Noi siamo brava gente. Adottiamo ogni giorno qualche nuova misura umanitaria che renda sempre più confortevole il soggiorno fra noi degli stranieri. Ai senza tetto procuriamo alloggi in centri specializzati; favoriamo la riunione delle famiglie con procedure snelle ed essenziali che permettono facilmente ai figli di raggiungere i padri e le madri che si spaccano la schiena nelle nostre case, campi, fabbriche e officine; curiamo gli infermi e accogliamo i bambini. E via dicendo. Per quelli che, nonostante le nostre attenzioni, insistono per volerci lasciare, attrezziamo voli charter che li scortano verso nazioni più accoglienti. Di una vulgata che si alimenta di simili proposizioni abbondano gli editoriali “terzisti” dei nostri grandi giornali, i talk-show, i blog. Tutti concordi nel condannare gli unici, veri razzisti italiani d’oggi: i tifosi di calcio. Secondo queste letture del presente, i tifosi sono gli ultimi che ancora si ostinano a non capire il messaggio di tolleranza e civiltà che proviene dalle istituzioni e dal comune sentire del nostro Paese. Sono le mele marce del cesto sano. Vanno, dunque, repressi. Ma davvero! Non sarà, invece, che hanno la sfrontatezza di dire in pubblico quello che gli altri dicono (e praticano) in privato? Insultato per tutta la partita dai tifosi, l’allenatore del Catania Mihajlovic ha risposto così (dichiarazione testuale riportata dalla stampa): «Non è la prima volta che i romanisti mi chiamano zingaro. Ma io mi ci sento dentro, per me non è un problema». Se l’ha detto davvero, tanto di cappello: è una lezione che ci meritiamo. Temo, però, che in troppi la vedano diversamente: «Che te dicevo? C’avevamo ragione. È zingaro. Ha rivendicato!».❖

l’Unità 2.2.10
Un manuale on line contro pregiudizi e luoghi comuni

I pregiudizi costituiscono la maniera più semplice per “spiegare ed esorcizzare” le novità del paesaggio sociale che creano insicurezza e ansia: e, insieme, il mezzo più efficace per rimuovere quelle stesse novità attraverso una etichettatura prevedibile e riprovevole. Si tratta di idee errate prive di fondamento di realtà, eppure tenaci e resistenti anche di fronte alle più inoppugnabili delle controprove. Il loro radicamento nel senso comune si diffonde rapidamente, complici innanzitutto i mass media. E ciò consente di vedere nitidamente la disparità di risorse tra le grandi agenzie di comunicazione e gli strumenti che si sforzano di svelare e smontare, alla luce di dati inequivocabili, quegli stessi luoghi comuni. Eppure questi mezzi poveri possono svolgere una loro meritoria funzione formativa. È il caso del “prontuario” intitolato Mandiamoli a casa, i luoghi comuni curato da Andrea Civati, Giuseppe Civati, Ilda Curti, Ernesto Ruffini, Roberto Tricarico. È un agile manuale online fatto di voci e di statistiche. Ne anticipiamo un brano, rinviando al testo integrale pubblicato nei siti sotto indicati. “La maggioranza degli stranieri è cristiana. Ridurre il problema della libertà di culto alla costruzione o meno di moschee non è rappresentativo delle religioni professate realmente tra gli immigrati; infatti, tra gli stranieri i cristiani sono quasi il doppio dei musulmani. Ecco i dati: Musulmani 1.200.000; Cattolici 860.000; altri cristiani 1.100.000; altre confessioni (induisti, buddisti, sikh) 200.000; atei 230.000; non dichiarati 80.000”.
Il testo completo, nel blog civati. it, nel blog metilparaben.it curato da Alessandro Capriccioli, Francesca Terzoni, Giulia Innocenzi e Luca Sartirano e nel sito italiarazzismo. it. ❖

l’Unità 2.2.10
Binetti e il Pd
Quel taxi che non arriva
di Roberto Alajmo

Titolo del Corriere.it: «La Binetti verso l’addio: “Il Pd ha fallito”». Leggi, ed è un piccolo tuffo al cuore: come rivedere dopo tanto tempo una persona che per un certo periodo aveva contato molto, nella nostra vita, e che avevamo inspiegabilmente dimenticato.
Dopo il tuffo al cuore, però, subentra il ragionamento: ma non se n’era andata da quel dì, la Binetti? Io ci avrei giurato. Ricordo distintamente che aveva salutato tutti sei mesi fa e se ne era andata sbattendo la porta. O forse no: sei mesi fa era andata via sdegnata. La porta l’aveva sbattuta quattro mesi fa. Due mesi fa invece se ne era andata senza salutare nessuno.
Adesso i ricordi si confondono, ma è sicuro: se ne era già andata. Ma come: se ne è andato Rutelli, se ne è andato Carra, se ne è andato Lusetti, e lei no? Bisogna credere che nessuno di questi gentiluomini abbia sentito il bisogno di chiederle se aveva bisogno di un passaggio? Oppure se la sono dimenticata in un angolo, come uno scatolone di libri durante il trasloco?
Comunque sia, stavolta è sicuro: se ne va. Pare di vederla, con la sua aria da Mary Poppins accigliata, cappello con veletta sulla testa, valigia ai piedi e ombrello che picchietta sul marciapiede, nervosamente, davanti la sede del Pd, mentre aspetta uno di questi taxi di Roma, che li chiami e non arrivano mai.❖

l’Unità 2.2.10
La coscienza dei medici i diritti delle donne
Gli ospedali nelle mani degli obiettori
di Mario Riccio

Anche gli infermieri italiani criticano duramente il ddl Calabrò, al punto di appellarsi alla “clausola di coscienza” prevista dal loro Codice deontologico pur di non applicare i precetti più contrari alla normale pratica sanitaria. Questa soluzione mi sollecita a riflettere sulla compatibilità tra l’esigenza di garantire alcune forme di obiezione di coscienza e l’efficiente erogazione della prestazione al cittadino. Sembra infatti diffusa l’idea che l’obiezione di coscienza del sanitario possa limitare l’erogazione del servizio: tesi non vera. Per capirlo, esaminiamo le problematiche che riguardano l’interruzione di gravidanza: la metodica cosiddetta chirurgica. Per via dell’elevato numero di obiettori sembra che in molte realtà ospedaliere i tempi di attesa per effettuare una interruzione volontaria di gravidanza (Ivg) siano talmente lunghi da rischiare che venga superato il termine massimo delle 12 settimane di gestazione. Addirittura vi sono ospedali che sostengono di non poter erogare la prestazione per l’assoluta mancanza di personale sanitario non obiettore. Non sono in grado di valutare se in questo caso sia violato il diritto costituzionale alla tutela della salute. Una ordinaria prestazione sanitaria – come l’Ivg – non viene erogata laddove risiede il cittadino che ne fa richiesta. Costringendo pertanto, nella fattispecie, la donna ad un umiliante peregrinare alla ricerca della struttura accettante più vicina. In verità gli ospedali, al fine di ridurre le liste di attesa, sono autorizzati – qualora non obbligati – ad attuare quanto stabilito nei decreti Bindi del 1999. Ovvero a richiedere ai propri dipendenti prestazioni aggiuntive di tipo libero professionale, al di fuori dell’orario contrattuale e remunerate a parte. Si intende che il costo di dette prestazioni è a carico del Sistema sanitario nazionale e non certo dell’utente. Pertanto ogni ospedale potrebbe facilmente ridurre, se addirittura non azzerare, il tempo di attesa per l’Ivg incentivando il personale non obiettore con richieste di sedute aggiuntive. Un ospedale può anche richiedere personale proveniente da altra struttura ospedaliera qualora la richiesta vada inevasa al proprio interno. Inoltre così procedendo, nessuna struttura ospedaliera si troverebbe a dover rifiutare una prestazione sanitaria – l’Ivg o altre – che oltretutto molto spesso riveste carattere d’urgenza, per i suddetti limiti temporali imposti dalla legge. Tale sistema incentivante è già oggi largamente praticato, per altre prestazioni – per lo più chirurgiche – derivanti dalla presenza di operatori di eccellenza per un determinato intervento. Potrebbe essere applicato per risolvere l’umiliante e talvolta tragica condizione delle donne costrette a mendicare il proprio diritto a interrompere – in sicurezza e legalità – una gravidanza non voluta.
Mario Riccio è membro della Consulta di Bioetica, Milano

l’Unità 2.2.10
2 febbraio 1970: quarant’anni fa moriva il filosofo
Bertrand Russell. Storia del Voltaire del nostro tempo
di Bruno Gravagnuolo

Aristocratico eccentrico, padre della logica matematica, diventò un guru mediatico adorato dalle generazioni del secondo dopoguerra: la sua passione per la verità
era anche ricerca del vero e del giusto. Per questo ha combattuto la guerra e le armi nucleari

Quarant’anni fa moriva il grande filosofo che fu tra i padri della logica del 900. Una grande avventura di pensiero e di libertà, nel segno
del socialismo umanitario culminata in un’intensa attività pacifista e nella creazione nel 1966 del «Tribunale Russell contro i crimini di guerra»

Parlare di Sir Bertrand Artthur William Russell, figlio del Visconte di Amberley e nipote di di Lord J. Russell, significa parlare di uno dei più grandi logici e filosofi analitici del 900. Non già semplicemente di un eccentrico aristocratico nato a a Trelleck nel Galles nel 1872 e scomparso a Plas Penthrin il 3 febbraio 1970 capace di dare scandalo per il suo «immoralismo» (quattro mogli e numerosi amanti). Di fustigare i potenti di ogni ideologia, e di rivelarsi al mondo come guru mediatico ante-litteram, adorato dalle generazioni del secondo dopoguerra. Grande filosofo e logico matematico dunque, al pari di Moore, Wittgenstein, Frege, Dewey, Whitehead e sul fronte opposto di Heidegger. Persino in anticipo su Goedel e in sintonia con Einstein suo contemporaneo. E tutto ciò senza nulla togliere alle ragioni più immediate che gli regalarono la fama: le qualità mediatiche, polemiche e letterarie. Quelle che gli fruttarono il Nobel per la letteratura nel 1950, e in virtù di scritti come Matrimonio e Morale(1928), La conquista della felicità(1930) e Educazione e ordine sociale (1932).
Insomma, per intendere il segreto di tanta vitalità e successo mondiale, esplosi in ambiti del tutto diversi dallo specimen professionale russelliano, occore andare al vero «demone» della personalità di Bertrand Russell: la passione filosofica della verità. La ricerca del vero, dell’esatto e del giusto. Perseguita ad ogni costo, con temerarietà tenace. Contro ogni conformismo e pigrizia, anche a costo di mettere a repentaglio carriera e rispettabilità, privilegi e libertà personale, onori e tranquillità. E anche a costo di doversi rimangiare per intero, e dover riscrivere, opere concepite con fatica e accademicamente celebrate. Ecco, Russell, orfano inquieto di entrambi i genitori e allevato da nonni e governanti, fu essenzialmente questo. Fu un eroe della certezza intellettuale come criterio di vita morale, certezza investigata a caro prezzo. Uno straordinario cercatore di verità, approdato alla fine alla posizione di uno «scettico appassionato», come suggerì il suo biografo A. Wood in un’opera dal titolo analogo. Il che ne fece, come ha scritto A. Granese in Che cosa ha detto veramente Russell un «Voltaire del nostro tempo». Vediamo allora, per meglio capire questo approdo che ne ha scolpito poi la fama, le tappe dell’avventura filosofica di Russell. Studia matematica e filosofia a Cambridge, al Trinity College, dopo aver già a 15 anni assimilato Euclide e Staurt Mill. E aver contestato da adolescente, smontandone la teologia, i principi della fede cristiana. Dapprima idealista, sotto l’influsso di Bradley, esce dall’idealismo e si muove verso
«l’oggettività del reale». Movimento liberatorio coronato dall’incontro con Peano: la matematica come regno oggettivo degli enti. E la logica come fondamento della matematica, che della logica è la traduzione quantitativa. Numeri quindi come «entità reali», corrispondenti a oggetti veri, relazionati dentro la «logica delle classi», delle «proposizioni» e delle «relazioni». Di qui le due grandi opere russelliane: Principi della Mate matica(1903) e Principia Mathematica (1910-1913).
In realtà è qui che comincia l’Odissea. Perché ben presto Russell si accorge che l’«assiomatica» non funziona ed è autocontraddittoria. Ovvero: i costrutti logici sono autoreferenziali e non si autoesplicano. Le essenze logiche a priori, fuori dall’esperienza, danno luogo ad antinomie irrisolvibili e a paradossi come quello del «mentitore» e della «classe di tutte le classi» da spezzare con il rinvio ai limiti delle sensazioni. Dell’esperienza finita e limitante. L’unica, che può dar senso alla logica, ridotta a «funzione» operativa, come in Cassirer e Kant, e negata come verità autoesplicativa. La logica insomma non è verità, ma al massimo è «significato», come nell’espressione «Il re di Francia è calvo», sensata, ma falsa. E siamo a Significato e verità(1940), influenzata da Wittgenstein suo allievo, a sua volta da Russell influenzato nella sua seconda fase. La conoscenza a questo punto è fatta di due mattoni: esperienza diretta e descrizioni derivate (tramite ipotesi, relazioni, inferenze, induzioni e deduzioni). Contano a questo punto linguaggio e condivisione con gli «altri spiriti», senza più certezze però. Perché l’esperienza iniziale stessa è diversa per ciascuno e non si acquista per esperienza, ma è un «costrutto» mobile da condividere. Qui viene il Russell morale: socialista umanitario, libertario. Teorico della liberazione tramite il desiderio, contro i desideri del Potere fintamente travisati per desideri (obbligati) dei singoli. La vera etica «erotica» per Russell è decostruttiva, da un lato. E dialogica dall’altro. Nasce dall’incontro possibile dei desideri di ciascuno con quelli dell’altro. Senza coercizione, e per continua disarmonia prestabilità. Ma qui anche lo scetticismo laico e libertario del grande cretore del Tribunale Russell contro i crimini di guerra, perseguitato dai vescovi e dai fanatici della guerra: «Non morirei mai per le mie convinzioni, perché potrebbero essere sbagliate».❖

l’Unità 2.2.10
Compendio per la «formazione dei giovani»
di Bertrand Russell

Questo libro, riteniamo, colmerà una lacuna che per troppo tempo ha disonorato il nostro sistema scolastico. Coloro che hanno accumulato la maggiore esperienza nelle prime fasi del processo pedagogico sono stati costretti a concludere, in un ben ampio numero di casi, che molte inutili difficoltà ed evitabilissimi dispendi di ore scolastiche si devono al fatto che l’alfabeto, la porta a ogni saggezza, non è stato reso sufficientemente attraente per le menti immature cui abbiamo la sfortuna di doverci rivolgere. Questo libro, piccolo quanto il suo ambito e umile quanto i suoi scopi, è crediamo e speriamo esattamente ciò che serve nella perigliosa congiuntura attuale per guidare i primi passi della mente infantile. Lo diciamo non senza il conforto di riscontri empirici. Abbiamo messo alla prova il nostro alfabeto su numerosi soggetti: alcuni lo hanno trovato saggio, altri assurdo. Alcuni lo hanno trovato pieno di buon senso; altri sono stati tentati di giudicarlo sovversivo. Ma tutti e lo diciamo con la più completa e assoluta certezza tutti coloro cui abbiamo mostrato questo libro hanno avuto da allora in poi un’impeccabile conoscenza dell’alfabeto. Sulla base di questi presupposti siamo convinti che le nostre autorità preposte alla formazione dei giovani, dal momento stesso in cui quest’opera verrà portata alla loro attenzione, daranno immediatamente disposizione affinché sia adottata in tutte quelle istituzioni scolastiche dove vengono inculcati i primi rudimenti dell’alfabetizzazione.❖

L’alfabeto del buon cittadino
Asinine | Asinino
Quello che pensi tu.
Bolshevik | Bolscevico
Chiunque abbia opinioni che non condivido.
Christian | Cristiano
Contrario ai Vangeli.
Diabolic | Diabolico
Capace di ridurre le entrate del ricco.
Erroneous | Erroneo
Ciò che può dimostrarsi vero.
Foolish | Assurdo
Sgradito alla polizia.
Greedy | Avido
Quando vuoi qualcosa che io ho e tu no.
Holy | Santo
Sostenuto per secoli da schiere di pazzi.
Ignorant | Ignorante
Non santo.
Jolly | Allegria
La rovina dei nostri nemici.
Knowledge | Conoscenza
Ciò su cui gli arcivescovi non hanno dubbi.
Liberty | Libertà
Il diritto di obbedire alla polizia.
Mystery | Mistero
Quello che io capisco e tu no.
Nincompoop | Babbeo
Persona che si mette al servizio dell’umanità in modi di cui poi l’umanità non gli è grata. Objective | Obiettivo Un’illusione condivisa da altri matti. Pedant | Pedante
Un uomo a cui piace che le sue affermazioni siano vere.
Queer | Bizzarro
Basare le opinioni sui fatti.
Rational | Razionale
Non basare le opinioni sui fatti.
Sacrifice | Sacrificio
Accettare il fardello di una posizione importante. True | Vero Ciò che riesce a superare gli esaminatori.
Unfair | Ingiusto
Vantaggioso per la parte avversa.
Virtue | Virtù
Sottomissione al governo.
Wisdom | Saggezza
Le opinioni dei nostri avi.
Xenophobia | Xenofobia
L’opinione andorrana che gli abitanti di Andorra sono i migliori.
Youth | Giovinezza
Ciò che accade a un vecchio quando si trova in un movimento.
Zeal | Zelo

il Fatto 2.2.10
Sant’Agostino e i colori della tv

Il santo si è sbiancato. Nella fiction terminata ieri sera su RaiUno, Sant’Agostino, l’autore de Le Confessioni nato nell’antica Tagaste nel 354 è stato interpretato da Alessandro Preziosi e Franco Nero. Nulla da dire sugli ottimi attori. Bizzarra però la scelta di far impersonare un uomo mulatto a due italiani. Sì, perché uno dei grandi padri della Chiesa, non era esattamente bianco. L’antica Tagaste, che oggi si chiama Souk Ahras, si trova in Algeria. E se è noto, infatti, che l’uomo che verrà battezzato a Milano da Sant’Ambrogio si convertì dopo una giovinezza di “peccato”, assai meno noto è che il Santo di origine berbera non fosse un wasp. La cosa non sfuggì a Roberto Rossellini. Che negli anni Settanta realizzò, per la Rai, parecchi film storico-didattici. Come La presa del potere da par te di Luigi XIV, Blaise Pascal, Car tesius. E, appunto, Agostino di Ippona del 1972. 38 anni fa, con maggior lealtà storica, il grande regista raffigurò il vescovo di Ippona con connotati probabilmente più vicini alla realtà. Naso camuso, capello crespo. Incarnato scuro. Così, credibilmente, doveva essere Agostino. Come anche Dario Fo ha rimarcato in più di un’occasione. Anzi, il Nobel sostiene che Agostino doveva essere proprio nero. In ogni caso, il (falsificato) colore della pelle è un particolare che è totalmente sfuggito ai produttori della fiction (assieme alla stessa Rai, Lux Vice, Eos Entertainment e altri ancora). Che ha avuto un grande successo. Con oltre 7 milioni di spettatori nella prima puntata e il 26% di share. Nulla da dire, insomma, sul risultato dell’operazione. E poco importa se Preziosi e Nero non raffigurano esattamente il volto del più celebre convertito della storia della Chiesa. Sul tema della redenzione, infatti, si sono concentrati molto il lavoro dello sceneggiatore Francesco Arlanch e del regista Christian Duguay. (El. Ba.)