giovedì 4 febbraio 2010

Repubblica Roma 4.2.10
La Bonino contro Alemanno su Acea
"Sbagliato accelerare sulla privatizzazione"
di Chiara Righetti


Da "Ballarò", che l´ha rivelata al grande pubblico, è passata senza scomporsi al salotto più chiacchierato d´Italia, quello di Bruno Vespa. Dove ieri, sempre fedele al copione di ragazza della porta accanto, sedeva a spiegare al ministro Brunetta: «Altro che bambocciona. Sono uscita di casa molto presto e ho iniziato a lavorare appena diplomata». Anche se «in Italia c´è un processo culturale diverso dagli altri Paesi, per cui i ragazzi hanno più difficoltà a staccarsi». E «bisogna aiutarli con borse di studio ma anche sostenere la cultura imprenditoriale, con un processo di riforme che deve coinvolgere anche Comuni e Regioni». Per poi tornare a un suo cavallo di battaglia: bisogna «preoccuparsi di tutta la filiera dell´impresa» e lavorare per «mantenere sul territorio le multinazionali». Un discorso anticrisi che non convince l´assessore regionale Giulia Rodano: «La Polverini conosce le reali condizioni dei lavoratori della regione che si candida a governare? Noi abbiamo investito su cultura, reddito minimo, credito alle imprese e stabilizzazione dei precari, il centrodestra sa solo delegare il rilancio economico alle multinazionali».
Una Polverini che, di fronte a Brunetta, strizza l´occhio agli statali: «Ho sempre contestato la generalizzazione che tutti sono fannulloni. Spesso sono poco valorizzati e lavorano senza strumenti adeguati». E ancora: «Ci sono due trattamenti diversi: da una parte c´è chi, anche se prende un euro, è costretto a dichiararlo. Dall´altra chi stabilisce il proprio reddito». Però attenzione: «Non diciamo che c´è chi evade e chi no, solo due sistemi che non si parlano».
Ma è anche dura, come quando (intervistata da "Pocket") non resiste alla tentazione del colpo basso: «Io ho l´età e la determinazione per farcela. Voglio rappresentare la società del futuro. Emma Bonino è oggettivamente portatrice di sensibilità e storie di un´altra stagione politica». E pure quando a Vespa assicura: «Sono d´accordo con Alemanno, voglio dire anche io ai miei candidati di smetterla di affiggere manifesti in tutta Roma, e di farlo solo negli spazi adibiti», dimentica che è stata la rivale a fare del "no" al cartellone selvaggio il segno distintivo della campagna.
Intanto in casa centrodestra la guerra scatenata dall´apertura della Polverini (poi ridimensionata) sulle coppie di fatto apre un nuovo fronte cattolici-laici. Con un Luciano Ciocchetti agitato (forse anche dalle voci che mettono in forse un suo ruolo alla Sanità) che avverte: «In questi giorni siamo andati a ruota libera, tra silenzi e le dichiarazioni più disparate. Chiedo una riunione al più presto», perché «il voto cattolico dev´essere rispettato». Ma insorge Donato Robilotta (Sr-Pdl): «Anche il voto laico-socialista è importante e, nonostante sia berlusconiano, è molto attratto dalla candidatura Bonino».
Intanto si compone il puzzle della lista civica, costruita dall´ex segretario Ugl Stefano Cetica con un occhio di riguardo alle professioni sanitarie. Ieri ha arruolato Nicodemo Panuccio (curriculum variegato: esperto di sterilizzazione ospedaliera, cultore di arti marziali, commendatore presso la Santa Sede) e il neonatologo Giuseppe Melpignano.

Il Messaggero Roma 4.2.10
Bonino: «Spezzare la commistione fra sanità e politica»

Bisogna fare saltare la commistione fra sanità e politica. La ricetta di Emma Bonino, che deve comunque fare i conti con una realtà non facile da governare, è stata illustrata ieri pomeriggio, nel corso di un dibattito al Policlinico Umberto I, con il direttore generale, Ubaldo Montaguti, e il rettore della Sapienza, Luigi Frati. Il Policlinico Umberto I è il perno di tante eccellenze della sanità laziale ma anche il simbolo dei suoi mali. Emma Bonino: «Una soluzione miracolo per la sanità del Lazio non esiste, se non in un cambiamento radicale di metodo. Si deve rompere il vincolo tra politica e gestione della sanità. In tanti anni c’è stata una commistione politica-managerialità che è finita in corto circuito. Non vi propongo la rivoluzione. Ma la convocazione, se sarò eletta, degli stati generali della salute entro tre mesi. Possiamo uscire da questa situazione rendendo i cittadini consapevoli». A proposito del debito regionale, lo spettro che inseguirà chiunque diventerà il nuovo presidente della Regione: «Le azioni di fondo sono state avviate ma siamo lungi da essere in una situazione rosea. Va fatta nel Lazio una grande operazione verità e trasparenza. Su un bilancio di 18 miliardi, 12 sono relativi alla sanità, ma a fronte di questa spesa non c’è soddisfazione da parte degli utenti. E’ importante la trasparenza nelle procedure, per esempio nella nomina dei vertici delle Asl, i cui curricula andrebbero pubblicati su internet».
Ieri mattina, con una nota, Emma Bonino ha parlato anche di Acea. Ha spiegato: «La decisione di Alemanno di accelerare sulla privatizzazione di Acea, in queste condizioni di opacità, è doppiamente sbagliata: nei tempi e nei modi. Oltre a essere viziata da un grave difetto di trasparenza, la vendita del patrimonio pubblico di Acea, quando il titolo è ai minimi storici, rischia di trasformarsi in una maxisvendita a danno dello stesso Comune e, soprattutto, dei cittadini romani». Dura la risposta del presidente della Commissione lavori pubblici del Comune, Giovanni Quarzo (Pdl): «L’opposizione continua ad alimentare un polverone polemico circa una serie di presunte decisioni su Acea che tuttavia ancora non sono state prese nè dall’amministrazione comunale nè dal management della municipalizzata». Giordano Tredicine, vicecapogruppo del Pdl: «Il centrosinistra preferisce gettare fumo negli occhi ai cittadini pur di farsi propaganda».
M.Ev.


l’Unità 4.2.10
Berlusconi parla alla Knesset: Gaza, giusta reazione israeliana
di Ninni Andriolo

«So di deluderla, ma non me ne sono accorto». Eloquente la freddezza di Abu Mazen mentre ascolta le parole del premier italiano durante la conferenza stampa congiunta. «Presidente Berlusconi lei oggi ha visto per la prima volta il Muro che separa Israele dai Territori – aveva chiesto un giornalista – Cosa ha provato mentre lo attraversava?». «Stavo prendendo appunti. Me ne scuso, ma non l'ho visto». Quel serpente di cemento balza agli occhi già alla periferia di Gerusalemme come simbolo di un conflitto senza fine.
Da ieri, però, quella barriera bianca è diventata anche l'emblema di una frattura con l'Anp che contraddice l'immagine di mediatore di pace dalla quale Berlusconi si era fatto precedere. E il gelo era palpabile, ieri, nella muqata di Betlemme, mentre la fanfara provava l'Inno di Mameli sfidando pioggia e vento. E già, perché le parole pronunciate solennemente alla Knesset dal nostro Presidente del Consiglio erano state accolte con un misto di incredulità e di delusione dall'entourage di Abu Mazen.
Nel suo discorso, infatti, Berlusconi aveva etichettato come «giusta» la reazione israeliana ai missili lanciati da Gaza, la stessa che aveva provocato centinaia di morti e la condanna delle Nazioni Unite. Oltre a puntare il dito contro «l'ondata terroristica della seconda Intifada”, tra l'altro, il nostro premier aveva rivendicato il «no» italiano al rapporto Goldstone dell'Onu «che intendeva criminalizzare Israele». Questo mentre un'inchiesta interna dell'esercito israeliano ha accertato la responsabilità di tre alti ufficiali per l'uso a Gaza di proiettili al fosforo bianco. Nel discorso scritto diffuso alla stampa, tra l'altro, la reazione d'Israele non veniva definita «giusta». Quel termine, pronunciato d'impeto dal Cavaliere davanti al Parlamento, però, dava il segno che la bilancia italiana pendeva decisamente dalla parte di Tel Aviv.
Abu Mazen non poteva non mettere in conto l'effetto di quelle parole sugli umori dei palestinesi. Così, prima ancora che Berlusconi raggiungesse Betlemme, l'Anp ribadiva che «a Gaza ci fu un'aggressione». Il Cavaliere, poi, aveva cercato di correggere il tiro, chiedendo lo stop agli insediamenti israeliani e affermando che «come è giusto piangere le vittime della Shoah così è giusto manifestare dolore per Gaza». Ma il tempo ristretto dell'incontro con Abu Mazen dimostrava in modo eloquente lo stato d'animo palestine-
se. Una delle solite gaffe? Berlusconi, in realtà, ha fatto di tutto per accreditarsi come amico privilegiato di Tel Aviv in Europa e non solo.
L'accoglienza riservatagli da Netanyahu alla Knesset, ieri mattina, era tutt'altro che formale. Il premier israeliano aveva definito Berlusconi, un «apostolo» e un «leader coraggioso». E il Cavaliere si era commosso quando Netanyahu aveva ricordato sua madre «incinta che salvò una ragazza ebrea da un poliziotto tedesco».
DODICI APPLAUSI
Berlusconi, da parte sua – interrotto 12 volte dagli applausi – aveva parlato di Israele come di «un simbolo» di democrazia, aveva ripetuto che il posto di Tel Aviv «è in Europa» ed era tornato a chiedere «sanzioni efficaci» contro l'Iran.
Aveva definito «infami», poi, le leggi razziali fasciste del 1938. «Ma il popolo italiano trovò la forza di riscattarsi con la lotta di liberazione», aveva aggiunto ricordando anche Giorgio Perlasca. Un discorso «stupendo»' per il ministro Barak, «commovente» per Tzipi Livni. Shimon Peres, a proposito di Berlusconi, spiegava che «non è importante quello che i giornali scrivono, ma quello che gli italiani votano». E il Cavaliere ricambiava annunciando l'invio al Presidente israeliano di «un disco con le mie cento canzoni». Così la giornata prima del glaciale incontro con Abu Mazen.
LA BARZELLETTA
Alla fine la visita alla basilica della Natività di Betlemme. Dove, a dispetto del luogo, la solennità del discorso alla Knesset cedeva il passo alle consuete performance. Con il Cavaliere che, davanti alla Santa Grotta, confidava ai francescani che anche lui «a Palazzo Chigi» aveva fatto un «bellissimo presepe». «Questo, però, è quello originale aggiungeva Dovreste farvi dare una percentuale da chi entra». Una barzelletta su San Giuseppe e la Madonna, infine, mentre monaci e suore si affollavano per farsi fotografare. Ma Berlusconi sceglieva una coppia di sposi in viaggio di nozze. «Io sto in mezzo – spiegava faccio la parte di Gesù bambino».❖

il Fatto 4.2.10
La ‘ndrangheta per il racket parla indiano
Ecco come le cosche fanno entrare (regolarmente) gli immigrati
di Enrico Fierro

Quando a Singh chiedono come vive in Italia, lui risponde beffardo. “Bene, da gran signore. Il mio lavoro principale è quello dei documenti, ormai mi sono abituato a guadagnare di più, con gli altri lavori si può solo mangiare”. E guadagnava cifre da capogiro Singh Sher con “i documenti”. I visti falsi che lui e i suoi uomini procuravano ai loro connazionali per sbarcare finalmente in Italia. In Calabria Sher aveva capito come funziona: non ti muovi se non ti allei con la ‘Ndrangheta, con i Iamonte di Melito Porto Salvo, e i Cordì, le due cosche entrate nel business dell’immigrazione. Con loro Sher aveva costruito una organizzazione perfetta. Non erano scafisti, gli immigrati non arrivavano sulle coste joniche a bordo di barconi. Quella è roba buona per gli africani o per gli albanesi di una volta. No, gli indiani partivano direttamente da Nuova Delhi, in aereo, con regolari passaporti e regolarissimi permessi di soggiorno. C’erano i datori di lavoro che stipulavano contratti fittizi, sindacalisti e mediatori culturali compiacenti, funzionari di Asl e dell’Ispettorato del lavoro ai quali veniva chiesto di chiudere un occhio e loro, volentieri, li chiudevano tutti e due, funzionari di consolati e complici negli aeroporti indiani. Bastava pagare, c’era un tariffario preciso per gli indiani che sognavano l’Europa. Un visto per sei mesi costava 9 lak, 15 mila euro, per 11 mesi da 18 a 25 mila. Il business è durato anni e ha fruttato all’organizzazione calabro-indiana 6 milioni di euro. Con i Iamonte e i referenti dei Cordì, Singh Sher trattava alla pari. “Movimenta notevolissime somme di danaro, lui è il capo di tutta l'organizzazione, nel senso che lui è un soggetto trainante di queste cose”, dichiara ai magistrati della Direzione antimafia di Reggio Calabria, Saverio Foti. Foti è un imprenditore agricolo di Melito Porto Salvo, i Iamonte vogliono accaparrarsi la sua azienda, lo riducono sul lastrico, fino a quando riescono a coinvolgerlo nel business dei contratti di lavoro falsi.
Singh Sher ha un fortissimo ascendente sugli indiani, nelle telefonate lo appellano “Virk”, un vero e proprio blasone, in questo modo in India ci si rivolge a coloro che appartengono al jet-clan, la classe superiore. Il suo è un clan potentissimo, in India controlla, sia politicamente sia economicamente, intere città, ma è presente anche in Pakistan, negli Stati Uniti. In Italia il “trafficante di indiani” ha stabilito ottimi rapporti anche con pezzi delle istituzioni. “Tu puoi fare tutto, puoi anche comprare la Prefettura”, gli dice ammirato un suo complice. All’organizzazione collaboravano “pubblici funzionari italiani – scrivono i magistrati dell’antimafia reggina – collocati strategicamente negli uffici amministrativi (Prefettura e Direzione del lavoro) o in organizzazioni sindacali”. Un meccanismo raffinato, ma anche spietato. Per pagare l’organizzazione, i migranti “si indebitano in maniera notevole o vendono tutti i loro beni per far fronte alle ingenti richieste di denaro” degli “scafisti”, i quali molto spesso acquistano direttamente le loro proprietà o i terreni da loro posseduti”. Il cartello calabro-indiano non si limitava a vendere contratti di lavoro e permessi di soggiorno farlocchi, ma riciclava anche passaporti. Che i migranti indiani ricevevano da un complice direttamente all’aeroporto di Nuova Delhi, senza passare dall’Ufficio visti. “O Sher consegna falsa documentazione a chi sta per imbarcarsi – scrivono i pm – oppure anche i suoi sodali hanno conoscenze all’interno degli uffici consolari”. Un vorticoso giro di soldi che passava attraverso una banca particolare. Singh Sher è infatti un referente del metodo “hawala”, i circuiti bancari clandestini presenti in Africa, America latina e paesi arabi. Banche parallele dove il danaro circola senza lasciare tracce e senza incorrere nei controlli dell’antiriciclaggio. Ma a guadagnare erano anche gli imprenditori calabresi compiacenti che per danaro si impegnavano a fare richieste di manodopera false. C’è un dato impressionante nell’inchiesta: dal 2007 al 2009 gli indiani assunti in provincia di Reggio Calabria sono 877, 282 di questi hanno lavorato massimo per 3 mesi, il 32% non è arrivato a 10 mesi di lavoro. Per gli indiani la Calabria è terra di passaggio, molti di loro aspirano ad andare in Inghilterra. Anche a questo provvedeva il cartello.

il Fatto 4.2.10
Traffico di uomini 67 arresti
di Lucio Musolino

S i occupavano di tutto loro. Dall’acquisizione dei nulla osta lavorativi, al pagamento degli imprenditori compiacenti, al biglietto aereo per giungere in Italia dove, in alcuni casi, l’organizzazione criminale si premurava anche della sistemazione degli immigrati sul territorio nazionale. Un servizio “all’inclusive” che aveva un altissimo costo per gli extracomunitari, principalmente indiani e pakistani, costretti a sborsare somme da 10 a 18mila euro, a seconda del tipo di visto che volevano ottenere. Sullo sfondo, la ‘ndrangheta tirava le fila di un sistema collaudato che andava avanti da anni con la collaborazione di tre impiegati della Direzione provinciale del Lavoro. Con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, la squadra Mobile di Reggio Calabria ha eseguito ieri mattina 67 ordinanze di custodia cautelare in carcere emesse dal gip Gianluca Sarandrea. Gli uomini di Renato Cortese hanno girato le manette ai polsi a tre soggetti affiliati alle cosche Cordì di Locri e Iamonte di Melito Porto Salvo. Tra questi il boss Nino Iamonte che avrebbe costretto l’imprenditoreagricolo Saverio Foti a simulare una fittizia assunzione di una ventina di operai indiani da impiegare nella sua azienda, gestita di fatto dagli uomini della cosca. Già testimone chiave nel processo “Ramo Spezzato”, Foti ha illustrato al pm Antonio De Bernardo come gli Iamonte speculavano sulla disperazione delle centinaia di indiani e pakistani. Sono 107 gli indagati nell’inchiesta “Leone”, dal nome dell’indiano Singh Sher. È lui la figura centrale attorno alla quale ruota l’intera indagine della polizia di stato. Un sistema in cui mangiavano tutti: imprenditori, mafiosi, impiegati infedeli dell’ispettorato del lavoro, sindacalisti ed extracomunitari che gestivano i contatti con i connazionali. Secondo gli inquirenti, era di oltre sei milioni di euro il giro di affari del sodalizio criminale che aveva ramificazioni in altre città italiane. Il modus operandi era sempre lo stesso: l'utilizzo di contratti di assunzione fittizi, richiesti da imprenditori compiacenti a favore degli stranieri, che permetteranno loro di richiedere il visto per entrare in Italia ed il conseguente permesso di soggiorno. Una volta giunti in Italia, indiani e pakistani firmavano le lettere di licenziamento, l’ultimo passaggio di una procedura che ha consentito a centinaia di loro di arrivare in Calabria senza un reale impiego.

Repubblica 4.2.10
Immigrati e criminalità, cosa dicono i numeri
di Tito Boeri

La polemica seguita alle dichiarazioni di Berlusconi sul rapporto fra immigrazione e criminalità ha un significato che va molto al di là dell´oggetto del contendere. La dice lunga sullo stato dell´informazione in Italia soprattutto su temi elettoralmente sensibili come l´immigrazione. Sia chi ha difeso le tesi del Presidente del Consiglio, sia chi le ha contestate non ha ritenuto necessario consultare le statistiche disponibili, liberamente accessibili dal sito dell´Istat http://giustiziaincifre.istat. it/. Se lo avesse fatto (si veda il "vero o falso?" sul sito lavoce .info) si sarebbe reso conto che l´equazione fra immigrazione e criminalità è priva di fondamento. A fronte di un incremento del 500 per cento del numero di permessi di soggiorno dal 1990 ad oggi (e di un aumento presumibilmente ancora più consistente dell´immigrazione totale, irregolari compresi), i tassi di criminalità sono rimasti pressoché invariati in Italia. Inoltre, non c´è stata crescita della criminalità nelle regioni a più alta immigrazione. Al contrario, in queste regioni, il numero di crimini per 100.000 abitanti si è ridotto.
L´informazione dovrebbe concentrarsi sui casi tipici, sui dati medi, invece di riportare solo episodi isolati, non rappresentativi. Da noi avviene esattamente il contrario. I media in Italia trattano dell´immigrazione sempre più insistentemente con riferimento a notizie di cronaca che coinvolgono gli immigrati, ma non riportano mai o quasi mai le statistiche su immigrati e popolazione autoctona nel loro complesso. La percentuale di notizie e articoli contenenti la parola "immigrazione" è cresciuta negli ultimi cinque anni in Italia del 15 per cento, più che in tutti gli altri paesi dell´Unione Europea, dove i media continuano a dare più o meno la stessa importanza al tema. E le notizie che vengono fornite sull´immigrazione in Italia sono quasi esclusivamente negative, inquietanti per la popolazione che le ascolta. La percentuale di notizie su atti criminali sul totale delle notizie sugli immigrati è da noi tre volte superiore che negli altri paesi dell´Unione Europea. In Spagna la legge sulla privacy impone restrizioni a giornali e televisioni nel riportare la nazionalità degli individui coinvolti in atti di cronaca. Da noi la nazionalità dei presunti colpevoli viene sparata sui titoli di testa. È la notizia nella notizia.
I commenti alle notizie, gli approfondimenti, dovrebbero poi concentrarsi sugli interrogativi davvero importanti, quelli che hanno maggiore rilevanza dal punto di vista pratico. Quando Berlusconi ha proposto l´equazione fra immigrazione e criminalità lo ha fatto a supporto delle misure di inasprimento delle restrizioni all´ingresso e alla permanenza nel nostro paese di cittadini extracomunitari decise a più riprese in questi anni dal suo Governo. Il vero quesito da porsi è perciò: servono questi provvedimenti nel ridurre il numero di crimini commessi dagli stranieri in Italia? È un quesito cui non è possibile dare delle risposte a priori. Da un lato, politiche davvero efficaci nel contenere i flussi migratori (non è il nostro caso, data la dimensione dell´immigrazione irregolare in Italia), potrebbero negare l´ingresso o la permanenza nel nostro paese anche di potenziali criminali. D´altra parte, queste norme precipitano un numero sempre maggiore di immigrati già presenti sul territorio in una condizione di illegalità, a cui si associano peggiori prospettive occupazionali nell´economia ufficiale e, contestualmente, una maggiore propensione ad intraprendere attività criminali.
È molto difficile determinare quale dei due effetti prevalga perché gli immigrati illegali non sono normalmente osservabili nelle statistiche ufficiali. Inoltre la probabilità di richiedere e ottenere un permesso di soggiorno non è indipendente da caratteristiche che incidono sulla propensione a delinquere (ad esempio le abilità individuali, dunque le possibilità di guadagno sul mercato del lavoro regolare) il che impedisce di capire quanto incida in sé il fatto di essere clandestino sull´attitudine a delinquere. Alcune indicazioni utili a riguardo vengono da uno studio di due giovani ricercatori, Giovanni Mastrobuoni e Paolo Pinotti, che hanno confrontato la propensione a delinquere degli immigrati rumeni, che hanno tutti indiscriminatamente ottenuto lo status legale in Italia a seguito dell´ingresso del loro paese nell´Unione Europea il primo gennaio 2007, con quella degli immigrati in provenienza da altri paesi che non hanno beneficiato dell´allargamento a Est dell´Unione. Per riuscire a monitorare anche gli immigrati clandestini, Mastrobuoni e Pinotti hanno analizzato il comportamento degli immigrati scarcerati a seguito dell´indulto del 2007. Lo studio mette in luce come l´estensione dello status legale a tutti i rumeni abbia diminuito drasticamente la probabilità di riarresto (tecnicamente recidività) nei 10 mesi successivi alla scarcerazione per l´indulto, rispetto a chi non è stato regolarizzato. La maggiore propensione a delinquere degli immigrati irregolari (il fatto che siano sovra rappresentati nelle nostre carceri) sembra dunque dovuta, in larga parte, alla condizione stessa di illegalità, piuttosto che alle caratteristiche degli immigrati in quanto tali.
Politiche migratorie restrittive come quelle varate dal Governo Berlusconi rischiano perciò di rivelarsi controproducenti nella lotta alla criminalità. Si sono rivelate poco efficaci nel contenere l´immigrazione clandestina e potrebbero avere spinto molti immigrati già presenti sul nostro territorio a commettere reati. Ci sono altri modi di contrastare l´immigrazione clandestina che non espongono a questo rischio. Ad esempio, si possono fare controlli più stringenti sui posti di lavoro riducendo quel lavoro nero che alimenta l´immigrazione clandestina. Utile anche offrire permessi di soggiorno temporanei agli immigrati che denunciano condizioni di irregolarità nel loro lavoro. È la strada suggerita dall´Unione Europea con l´art. 48 al voto del Senato la settimana scorsa. Ma la maggioranza la settimana scorsa ha deciso di opporsi a questo provvedimento nel silenzio assordante dei Tg, gli stessi che avevano dato grande risalto alle affermazioni del nostro Presidente del Consiglio sul rapporto fra immigrazione e criminalità. Nell´informazione dovrebbero contare i numeri e gli atti concreti. Da noi, invece, contano soprattutto le frasi in libertà dei politici. Che godono in effetti di una libertà assoluta, dato che nessuno, o quasi, si occupa di verificarne la fondatezza.

Liberazione 3.2.10
Rapporto di Medici senza frontiere sui centri per immigrati: «Chiudete Lamezia e Trapani»
Cie, un film dell'orrore
«Violati i diritti fondamentali»

Dormono in stanze all'addiaccio, senza carta igienica né sapone per due settimane, costretti spesso a consumare pasti freddi per terra o nei loro letti, senza una adeguata assistenza sanitaria o legale.
Vivono ammassati, promiscui, delinquenti e incensurati insieme, in un clima di perenne tensione che a volte sfocia in atti di autolesionismo, suicidi, risse, ribellioni.
Sono le condizioni dei centri per migranti descritte nel rapporto di Medici senza frontiere intitolato "Al di là del muro", secondo dossier dell'associazione dedicato interamente a Centri di identificazione ed espulsione (Cie), centri di accoglienza per migranti appena arrivati in Italia (Cda) e centri di accoglienza per richiedenti asilo (Cara). Ventuno strutture diverse una dall'altra eppure accomunate dalla extraterritorialità, come se fossero luoghi sospesi nel vuoto normativo dove i diritti fondamentali possono anche attendere. Soltanto per fare un esempio: i centri per migranti spesso non stipulano convenzioni con il Sistema sanitario nazionale, né d'altronde la Asl competente è tenuta a verificare gli standard di igiene e sicurezza come avviene per carceri, canili, strutture sanitarie.
I peggiori - «da chiudere immediatamente» - sono quelli di Lamezia Terme e Trapani.
Medici senza frontiere, che agli antichi Cpt aveva dedicato un lavoro di ricerca nel 2003, constata con amarezza «il persistere di un sistema impermeabile a osservatori esterni». Tanto è vero che l'associazione, nonostante il prestigio internazionale, non ha ottenuto l'autorizzazione a visitare il centro di Lampedusa e il Cie riaperto di Crotone. Da Milano a Caltanissetta, gli edifici che dovrebbero contenere i migranti da rimpatriare non hanno fatto nulla per adeguarsi alla nuova legge che, dall'estate 2009, estende il periodo di detenzione da due a sei mesi con conseguente sovraffollamento delle strutture. La carenza di personale e di controllo esterno è drammatica. Come nel Cie di Ponte Galeria (Roma), gestito dalla Croce Rossa, dove i detenuti passano le notti invernali in stanze non riscaldate mentre nella stagione estiva mancano a volte gli indumenti per cambiarsi o, addirittura, le saponette e la carta igienica. Non solo: la mediazione culturale e la presenza degli interpreti è «cronicamente carente in tutti i centri», e così molti soggetti vulnerabili come potenziali rifugiati, vittime della tratta o persone con patologie psichiatriche rischiano di non ricevere un aiuto sufficiente. Raramente, scrive Medici senza forntiere, i centri firmano protocolli con associazioni esterne che possono fornire un aiuto decisivo. Acnur, Oim, Save the children e Croce Rossa sono presenti soprattutto nel Sud, ma con discontinuità. Gli ambulatori che dovrebbero fornire un'assistenza medica di base sono essenziali, ma chiaramente insufficienti quando c'è sovraffollamento. Soltanto a Bari e Milano i migranti possono accedere a visite specialistiche esterne in caso di necessità. Nonostante questi centri esistano da quasi un decennio, Msf rileva come la loro gestione sia ispirata ancora da «un approccio emergenziale».
Preoccupante, soprattutto, la convivenza nei Cie di migranti appartenenti a categorie diversissime: il 43% proviene dalle carceri, i rimanenti sono stranieri senza permesso di soggiorno ma incensurati, da poco in Italia oppure residenti addirittura da dieci e più anni. Questi ultimi spesso hanno una famiglia e hanno regolarmente lavorato nel nostro Paese, poi hanno perso l'occupazione e sono finiti nell'incubo della illegalità.
Finiranno tutti espulsi? Niente affatto. Il rapporto mette in luce, se ce ne fosse ancora bisogno, l'inutilità pressoché totale del sistema: soltanto il 45% viene effettivamente rimpatriato, e se questo dato viene riferito al 2008, quando circa diecimila migranti vennero rinchiusi nei Cie, questo significa che quell'anno soltanto 6mila stranieri cosiddetti "clandestini" - quattro su dieci, ricordiamo, provenienti dalle carceri - hanno davvero abbandonato l'Italia: una quota piccolissima se paragonata con l'insieme dei migranti irregolari che il governo vorrebbe cancellare dalle carte geografiche nostrane.

Liberazione 3.2.10
Conferenza stampa a Roma: vivono in strada, vogliono incontrare il Prefetto
«I mandarini non cadono dal cielo»
Esiliati da Rosarno chiedono giustizia
di Stefano Galieni

Lo striscione già esposto a Roma "Troppa (in)tolleranza, nessun diritto" è tornato in piazza, ieri mattina, davanti agli uffici delle Nazioni Unite, in P.zza S. Marco. Ma stavolta, dietro il drappo bianco, non c'erano soltanto i militanti delle associazioni antirazziste, di quella rete auto organizzata che si è ormai spontaneamente formata nella Capitale. Dietro c'erano loro, i lavoratori migranti di Rosarno, fuggiti o mandati via, per "garantire la loro incolumità", dalla Piana di Gioia Tauro, con in tasca un biglietto ferroviario di sola andata, per Bari, Crotone, Napoli, Roma. Ad andarsene da Rosarno sono stati in oltre 2500, le loro vite si sono disperse. C'è chi è ancora nei Cie, in attesa di espulsione, chi nei centri di accoglienza o per richiedenti asilo, chi ha cercato posto da amici che vivono in condizioni migliori, chi è andato verso le città del nord, chi è tornato in Africa, stanco di vivere fra paure e soprusi. A Roma si stima una presenza che varia dalle 70 alle 200 persone che hanno vissuto quella tremenda esperienza. Molti non si fidano neanche degli italiani che si offrono di aiutare, molti hanno paura di essere espulsi o rinchiusi, ma una parte si è incontrata domenica scorsa in assemblea e ha deciso di rompere gli indugi. Hanno formato l'Assemblea dei lavoratori africani di Rosarno a Roma, provengono in gran parte dall'Africa sub sahariana francofona e ieri mattina, insieme alla rete di associazioni antirazziste romane che si sono rese disponibili, hanno indetto, nei giardini antistanti gli uffici dell'Onu una affollata conferenza stampa.
Hanno diffuso un comunicato nel cui titolo "I mandarini e le olive non cadono dal cielo" c'era la perfetta sintesi politica delle loro richieste.
Non solo il racconto scarno delle condizioni di vita e di lavoro subite sin ora, non solo i fatti dell'8 gennaio come il punto di non ritorno dopo anni di angherie, violenze, sfruttamento, esploso perché non ne potevano più di veder calpestata la propria dignità. Ieri si sono potute ascoltare le voci di quei lavoratori che hanno alzato la testa definitivamente, che hanno deciso di non aver più nulla da perdere. Molti dormono nei pressi della Stazione Termini, altri sono stati ospitati dalla Rete antirazzista, hanno perso tutto: bagagli, cambi di vestiti, i soldi che dovevano ricevere dai padroni. Si arrangiano come possono per mangiare e lavarsi, sono qui da tempo ma le istituzioni che dovrebbero farsene carico hanno finto di non sapere e di non vedere. Li hanno considerati polvere da tenere sotto il tappeto. E invece loro le istituzioni, a partire dal Prefetto, le vogliono incontrare. Richieste dirette: il permesso di soggiorno per tutti, non solo per chi è stato direttamente ferito nel corpo a Rosarno, basterebbe recepire una direttiva europea e estendere l'applicazione dell'art. 18 del Testo unico, quello che garantisce protezione a chi denuncia gli sfruttatori. Vogliono poter avere alloggi decenti quando vanno a fare le raccolte, vogliono assistenza sanitaria e lavoro regolare. Una piattaforma di lotta vera e propria, spiegano alcuni di loro, che li vedrà in piazza nei prossimi giorni con la volontà di interloquire ma anche con la determinazione ad ottenere ciò che considerano un diritto elementare. Saranno in piazza anche il primo marzo, per la "giornata senza di noi" e intendono andare avanti. Lo dicono a chiare lettere:«Basta con la caccia al negro! Noi vogliamo lavorare, mandarini, olive e arance, non cadono dal cielo. Siamo noi che li raccogliamo».

Liberazione 3.2.10
«Un abuso sui migranti»
Tempi rapidi per il rilascio dei permessi. L’appello

Dopo lo sciopero della fame iniziato il 13 dicembre da Gaoussou Ouattarà, membro della Giunta dei Radicali italiani con altri 300 immigrati e proseguito da Shukri Said dal 1° gennaio sino al giorno 20, al termine del suo ricovero in clinica avvenuto il precedente 16 gennaio, e ancora attualmente proseguito, con adesione sino a 503 immigrati tra cui Kurosh Danesh, dirigente nazionale della Cgil e Piero Soldini, responsabile immigrazione Cgil.
Shukri Said, Segretaria e Portavoce dell'Associazione Migrare, lancia il suo appello al Governo e al ministro Maroni:
- Chiediamo al Governo italiano ed al Ministro Roberto Maroni di rispettare il termine di venti giorni fissato nel Decreto Legislativo n. 286/1998 per il rilascio e il rinnovo dei permessi di soggiorno agli immigrati.
- Stigmatizziamo che, attualmente, siano necessari dai sette ai quindici mesi e che la procedura preveda che l'immigrato, nell'attesa, disponga solo di un cedolino che non ha le caratteristiche per essere univocamente riconosciuto come documento sostitutivo del permesso di soggiorno.
- Segnaliamo che il possesso di quel semplice cedolino è motivo di abusi contro gli immigrati che si vedono ridotti, di fatto, i pur limitati diritti di cui godono in Italia.
- Sollecitiamo affinché, da subito e come misura d'urgenza, venga modificata la procedura nel senso che l'immigrato possa disporre del permesso di soggiorno, anche durante il periodo del suo rinnovo, mediante l'apposizione di un timbro che ne attesti la validità oltre la scadenza legale e sino alla sua sostituzione con il documento nuovo.
- Invitiamo al più celere smaltimento dell'arretrato di circa un milione di pratiche attualmente nelle mani dello Stato.
Oliviero Beha, Rossana Rossanda, Maura Cossutta, Jean Leonard Touadì, Pino Di Maula, Massimo Orsini, Furio Colombo, Antonio Padellaro, Massimo Bordin, Concita De Gregorio, Cesare Buquicchio, Dino Greco, Gian Antonio Stella e le testate Terra, Il Manifesto, Il Fatto Quotidiano, L'Unità, Radio Radicale, Liberazione.

Repubblica 4.2.10
"Ru486 senza ricovero", la sfida di Torino
Ignorati i limiti posti dal governo. "Sarà possibile prenderla anche in day hospital"
di Sara Strippoli

Sulle modalità della pillola abortiva decideranno insieme la donna e il ginecologo

TORINO - Da fine febbraio le donne piemontesi potranno abortire con la pillola Ru486. Appena il farmaco sarà a disposizione, l´ospedale Sant´Anna di Torino, dove nel 2005 si è svolta la sperimentazione che aveva scatenato le reazioni dell´allora ministro Francesco Storace, è pronto a partire con l´aborto farmacologico. Il protocollo studiato dal gruppo di lavoro regionale nominato dall´assessore alla sanità Eleonora Artesio indica che non ci saranno diktat esterni: a scegliere l´eventuale ricovero o il day hospital saranno la donna e il medico, che insieme valuteranno le condizioni fisiche e psicologiche, la situazione familiare, tutte quelle variabili che possono indirizzare la scelta in un verso o nell´altro. Una scelta che peraltro potrà essere cambiata in caso di necessità. «Abbiamo imboccato la via del pragmatismo, mettendo da parte ogni posizione ideologica che su questo tema rischia di essere solo dannosa», spiega Walter Arossa, il direttore generale dell´azienda Oirm Sant´Anna-Regina Margherita. «Non sono arrivate linee guida del ministero che prevedano indicazioni diverse, in quel caso non potremmo non adeguarci», chiarisce ancora.
La commissione regionale piemontese si incontrerà ancora una volta, ma il protocollo di applicazione è ormai definito: nessun ricovero obbligatorio fra la prima e la seconda somministrazione del farmaco abortivo, ma neppure la scelta netta del day hospital. La decisione spetta ai medici e alle donne che insieme sceglieranno il percorso ritenuto più adeguato. «Anche le paure della donna all´inizio potrebbero giocare un ruolo. Se il ricovero potrà tranquillizzarle saranno ricoverate - dice il ginecologo radicale Silvio Viale, che ha condotto la sperimentazione e al Sant´Anna è responsabile dell´Ivg, l´interruzione volontaria di gravidanza - anche se la mia esperienza mi insegna che con il tempo la stragrande maggioranza delle donne preferirà andare a casa». Saranno rispettate le procedure previste dalla legge 194 e le donne firmeranno un consenso informato al quale saranno affiancate delle note informative.
Se il Piemonte ha preferito puntare sulla libertà di scelta, l´Emilia Romagna, dove finora la pillola abortiva veniva importata direttamente, ha invece intenzione di proseguire con il day hospital. Il ginecologo Corrado Melega dell´ospedale Maggiore di Bologna conferma: «Si prosegue senza ricovero, rispettando le indicazioni dell´Aifa, l´agenzia italiana per il farmaco che non entra nel merito del ricovero e seguendo le linee della Società italiana di ostetricia e ginecologia». Parole in linea con quanto dichiarato a dicembre dall´assessore emiliano Giovanni Bissoni: «Rispettiamo l´autonomia dei professionisti e la legge 194». Diversa la posizione della Lombardia, orientata verso il ricovero e negli ultimi mesi al lavoro per garantire i posti letto necessari.
Secondo il modello già seguito con la sperimentazione condotta al Sant´Anna - in nove mesi, dal settembre del 2005, 362 donne hanno abortito con la pillola abortiva - si potrà somministrare la Ru486 su quattro o sei pazienti al giorno due volte alla settimana, spiega Silvio Viale. I posti letto per il ricovero ci sono e le richieste sono in aumento: «Ogni giorno ci chiamano decine di donne che vogliono sapere quando iniziamo».

Repubblica 4.2.10
Intervista a Carlo Galli: tre libri per spiegare cosa resta della politica
Destra sinistra e il demone Carl Schmitt
di Antonio Gnoli

"Il criterio per distinguerle non può più essere la contrapposizione libertà-autorità"
Ordine e disordine sono categorie che vanno ripensate alla luce di quello che è accaduto

Sono ben tre i libri che parzialmente o interamente rimandano a Carlo Galli, filosofo della politica che insegna all´Università di Bologna. Il primo è Genealogia della politica che il Mulino ristampa a distanza di 15 anni. Si tratta di un lavoro monumentale su Carl Schmitt, un´opera imprescindibile per chiunque intenda mettere le mani su questo controverso giurista che appoggiò la causa del nazismo, ma la cui esperienza teorica non può ridursi alle nefandezze di quel regime.
Il secondo è un volumetto proprio di Carl Schmitt su Cattolicesimo romano e forma politica, edito sempre dal Mulino con una postfazione di Carlo Galli. Pubblicato nel 1923, l´opera è un grande omaggio alla Chiesa cattolica, alla sua capacità di adattamento, restando fondamentalmente se stessa. Ma è altresì un´analisi del suo potere che non può, spiega Schmitt, fondarsi su mezzi economici ma su di una esperienza giuridica che ne fanno la vera erede della giurisprudenza romana. Infine un terzo libro, in uscita dall´editore Laterza, che Carlo Galli ha scritto sul concetto di destra e sinistra.
Mi chiedo se c´è un filo che unisca questi tre lavori: «Direi», risponde Galli, «la passione per la radicalità del ragionamento politico, per il gesto teorico che ha la capacità di ricondurre la complessa fenomenologia della politica alle sue origini. In certi momenti, penso, sia più importante sparigliare saperi consueti e consunti che seguire opinioni tramandate e ricevute».
Le sue analisi hanno poco di conformistico. Ma è ancora attuale riproporre oggi quel testo di Schmitt dai toni trionfalistici sulla missione della Chiesa?
«Certamente quel trionfalismo non credo interessi più le gerarchie, benché queste non siano particolarmente devote al concilio Vaticano II. Per Schmitt la politica è creare forma - sempre transitoria e minacciata - a partire dal disordine del mondo. Ora la "burocrazia dei celibi", come Schmitt chiama la Chiesa, è la maestra di questa creazione d´ordine, molto prima e molto meglio dello Stato moderno».
La Chiesa, agli occhi del giurista, era la sola che potesse arginare la catastrofe che la civiltà moderna aveva innescato. Ma in che modo sarebbe stato possibile?
«Per Schmitt senza rappresentazione dall´alto (come d´altro canto senza conflitto) non c´è politica. E lui era convinto che la civiltà moderna, sebbene tutta centrata sulle immagini, e sull´immagine dell´uomo, non sa rappresentare».
Il Parlamento è una forma di rappresentazione.
«Non per Schmitt, il quale riduceva la rappresentazione del parlamento a chiacchiera e vedeva solo nella Chiesa la forza per frenare quella catastrofe cui lei alludeva».
Date queste premesse, perché a un certo punto a sinistra ci si è innamorati di questo pensatore che è difficile non collocare a destra?
«Schmitt, più di ogni altro, coglie la radicale indeterminatezza della politica moderna. Il "politico" è appunto la politica come energia che opera nel disordine e mai definitivamente racchiudibile in una forma giuridica. Una potenza che può essere trattata solo con la decisione e non con la ragione. Schmitt era convinto che il mondo mai e poi mai sarebbe stato a misura d´uomo. Ai suoi occhi contava solo ciò che i rapporti di potenza di volta in volta disegnano. È chiaro che per non avere neppure tentato di riflettere su una politica umanistica egli va ascritto ai pensatori di destra. Il che non toglie che sia stato doveroso conoscerlo, senza farsene una bandiera, anche a sinistra. La sfida che egli ha portato all´umanesimo - ingenuo o sofisticato - che è o dovrebbe essere l´emblema della sinistra, è tutt´altro che banale. Quindi fu giusto misurarsi col suo pensiero, aprirsi alle sue vertiginose prospettive e alle sue tragiche durezze. L´importante fu non aderirvi oltre che condannarne le aberrazioni».
Su destra e sinistra lei aggiunge un nuovo libro. In che misura il suo lavoro si distacca da quello che Bobbio dedicò parecchi anni fa all´argomento?
«La mia tesi è che sinistra e destra sono due modalità in cui necessariamente si presenta la politica moderna. Il criterio per distinguerle non può essere quello consueto che contrapponeva la libertà all´autorità, o la tradizione al progresso, o la collettività all´individuo (dove i primi termini sarebbero riferiti alle sinistre e i secondi alle destre). Queste antitesi sono tutte perfettamente rovesciabili: ci sono destre progressiste che puntano sullo sviluppo e sinistre che teorizzano la decrescita; ci sono destre comunitarie e sinistre liberali, concentrate sull´autonomia dell´individuo; destre che esaltano la libertà e sinistre che credono, o hanno creduto, in una qualche autorità. Quanto alla proposta di Bobbio - che sia l´eguaglianza a costituire il discrimine tra la sinistra che la propugna e la destra che la nega - è parecchio più attuale e comprensiva. Io ho cercato di andare oltre questa asserzione e di individuarne la causa nel modo stesso con cui la politica moderna originariamente si presenta. Ossia nella sua indeterminatezza».
In che senso intende che la politica alla sua origine è indeterminata?
«Intendo che la novità davvero epocale del pensiero politico moderno, nelle sue versioni più consapevoli, consiste nel non fare più ricorso a una idea di Ordine dato, rispetto al quale misurare il bene e il male, il giusto e l´ingiusto. La verità è che la politica non ha nessuna misura intrinseca e che il suo ambiente è il grande caos del mondo, lo stato di natura in cui tutto è possibile. Nondimeno in questo caos c´è un seme di ragione, di libertà, di uguaglianza, ossia l´uomo, che deve essere salvaguardato e sviluppato nell´ordine politico».
Lei rovescia l´opinione abbastanza diffusa che è la destra ad amare l´ordine e la sinistra il disordine. Come è giunto a questa conclusione?
«L´amore della destra per l´ordine è proporzionale alla percezione che esso sia continuamente minacciato, che sia cioè instabile e infondato. E, aggiungerei, la destra sa anche presentarsi come la potenza che più radicalmente assume questa infondatezza. Mentre la sinistra deve il suo pedagogismo e il suo costruttivismo, e anche la propria tendenza a modificare radicalmente le condizioni del mondo storico, proprio all´idea che si debba liberare e sviluppare un dato di valore normativo: l´uomo nella sua complessità e pluralità»
Ma ha ancora senso la coppia destra/sinistra, o è una sopravvivenza lessicale senza più contenuto specifico?
«La sua efficacia sta nel fatto che anche in un contesto politico per molti versi post-moderno la posta in gioco sembra essere sempre la medesima: da una parte la destra resta attaccata alla consapevolezza che il reale è un caos infinitamente plasmabile, un disordine che impone di adattarsi in ogni modo ai rischi e ai pericoli sempre insorgenti. Mentre la sinistra - quando è all´altezza del proprio compito e della propria storia - vorrebbe sviluppare il lato normativo della modernità, ossia vorrebbe centrare la politica su un set di valori inderogabili che hanno come riferimento l´umanesimo moderno».
All´attuale crisi della sinistra corrisponde il tentativo della destra di creare una nuova egemonia. È possibile che la destra si doti di una cultura all´altezza delle sue ambizioni?
«La destra ha già creato una nuova egemonia, non grazie ai partiti ma all´uso combinato delle televisioni e alla capacità di azzerare - nello spazio virtuale della rappresentazione televisiva - ogni riferimento politico diffuso a linee di continuità, a brusche fratture, a lotte ideali per costruire la democrazia. Voglio dire che la dimensione storica è sostituita dai casi personali, dagli aneddoti privati schiacciati sul presente nel quale il mondo è percepito come una sorta di giungla pericolosa in cui tutto è permesso per difendersi e affermarsi. Un mondo che non è a misura d´uomo, ma di altre entità che lo sovrastano e gli dettano legge a cui si deve adattare: il mercato, la competizione geopolitica, l´identità culturale e religiosa. Sì, la destra la sua egemonia l´ha costruita, tanto quanto la sinistra l´ha perduta».

martedì 2 febbraio 2010

Repubblica Roma 3.2.10
Bonino, subito in campo Bersani "Se vinco nel Lazio lascio il Senato"
di Chiara Righetti Giovanna Vitale

«QUANDO mi assumo un incarico lo faccioa tempo pieno», dice in tv Emma Bonino, smontando sul nascere la polemica della Polverini che ne aveva criticato i troppi impegni. Significa che, se dovesse diventare governatore, mica farà come Brunetta che resterà ministro anche se verrà eletto sindaco di Venezia: addio Senato, la candidata del centrosinistra sarà tutta per il Lazio.
Tuttavia, mentre il suo comitato elettorale cominciaa prendere forma con l'innesto nel corpaccione radical-democratico di uomini provenienti dai partiti alleati (l'ultimo acquisto dovrebbe essere il senatore Idv Elio Lannutti che, forte della sua esperienza a favore dei consumatori, si occuperà dei rapporti con associazioni, comitati di cittadini, società civile),è il Pda tradire i maggiori problemi di tenuta interna. Ciascuna corrente impegnata in queste orea definire la propria rosa di nomi da sottoporre alla direzione regionale che venerdì dovrà varare, con sapiente uso del bilancino, i vari comitati ristretti per la stesura del programma e per la formazione delle liste (quella di partito e il listino del presidente). Una logica spartitoria che ieri Nicola Zingaretti ha deciso di stoppare: se il centrosinistra vuole davvero vincere - è il suo ragionamento - ha l'obbligo di guardare oltre i suoi confini. A partire dal listino che «deve essere usato per allargare la coalizione, non per replicare la rappresentanza dei partiti», dice il presidente della Provincia, «aprendolo alle forze del mondo del lavoro, dell'impresa, della cultura e del sociale». Una linea chiara: derogarvi, a giudizio di Zingaretti, equivarrebbe a condannarsi a sconfitta sicura. Un'esigenza assecondata dalla Bonino che ieri ha dato il via libera definitivo alla lista civica del presidente e innescato la prima vera sfida a distanza con la Polverini sul programma. La candidata del Pdl propone «una cabina di regia sui fondi Ue»? Lei, che della Ue è stata commissario, replica secca: «È una modalità francamente un po' antica. Di solito le cabine di regia si inventano per prendere tempo: ogni governo le fa ma poi non funzionano perché non si trovano più né la cabina né il regista. Io ho un'idea diversa di come portare più Lazio in Europa e più Europa nel Lazio: servono soluzioni snelle e veloci». Renata applaude Alemanno che annuncia 100mila posti di lavoro in due anni? «Noi non promettiamo mari e monti, ma di continuare ad essere ciò che siamo sempre stati, io l'ho concentrato in tre parole: regole, trasparenza e legalità. Credo che elettori che magari in altre elezioni hanno votato altrove possano riconoscersi in questi valori». In attesa che si definisca il suo prossimo tour elettorale (sabato mattina con Bersani e gli Ecodem a parlare di energia nucleare, domenica a Frosinone per la prima visita alle province del Lazio), la Bonino va.

il Fatto 3.2.10
Il Comitato Bonino, tra Radicali e fedelissimi di Marrazzo
Polemiche sul coordinatore Milana, ex segretaio del Pd romano
di Paola Zanca

Trasparente, puntigliosa, tuttofare. Per vincere, a Emma Bonino manca solo una cosa: i soldi. Chi l’ha vista all’opera in questi giorni non ha parole: sa rispondere a tutto, si è già letta tutti i dossier che le sono stati consegnati, dice la sua su questioni che manderebbero nel pallone anche chi fa l’assessore da anni. ‘Emmatar’ – come lo spot ispirato ad Avatar che si è fatta confezionare – ha i super poteri. Niente scorta né autoblu. Va in giro in taxi e treno. Un solo portavoce, stranamente per nulla assillante con i giornalisti. Fedina fiscale pulita, dice: controllate pure, non ho mai evaso un euro. A chiunque chiedi di lei, non parla d’altro che di “entusiasmo”. Peccato che, come sintetizzava bene un dirigente Pd, “le campagne elettorali non si fanno con l’entusiasmo ma con i soldi”. A dire il vero, al Comitato Bonino, non hanno intenzione di spendere molto: pochi manifesti, spazio ai banner da scaricare via Internet, santini da mettere alla finestre, e così via. “Un segno distintivo – spiegano al Comitato – Anche in termini di impatto ambientale. Confidiamo che i cittadini si accorgano che noi non abbiamo imbrattato la città”. Dopo di ché, si obietta, se la faccia di Renata Polverini te la ritrovi ad ogni angolo è probabile che qualcuno, ad urne aperte, se la ricordi più facilmente. La raccolta fondi è in mano a un fiscalista, radicale, Carlo Pontesilli. Ammette subito che soldi a disposizione al momento ce ne sono pochi: “Ci aspettiamo che la coalizione metta a disposizione tutte le risorse disponibili. Li abbiamo invitati a dare il 110 per cento dei contributi. Si è messa in moto una macchina, vediamo”. Diciamolo subito, l’unico che ha i soldi, nella coalizione, è il Pd. Che però forse non ha tutta questa voglia di spendere e spandere per un nome che non è nemmeno suo. In compenso, di loro, i democratici, hanno il coordinatore del Comitato. Si chiama Riccardo Milana, è senatore e fino a una settimana fa era segretario del Pd romano. Rutelliano deluso, è il simbolo del patto tra dalemiani e popolari che ha fatto vincere Bersani, ma non ha mai acceso il cuore degli iscritti: troppo moscio nell’opposizione ad Alemanno, qualche oscurità nella gestione economica del partito, porte chiuse in federazione. E infatti la sua nomina non è stata esattamente salutata con favore: “Sbagliata”, “inspiegabile forzatura”, “colpo di mano”, giusto per ricordare alcuni commenti dei dirigenti che accusano i bersaniani di aver nominato Milana senza consultare le altre anime del partito. Per aggirare l’ostacolo, quei tre quarti di Pd che non lo volevano coordinatore, sono passati alla controffensiva: da un lato, a capo del partito romano – in attesa del nuovo segretario – è stato messo un coordinamento guidato da uno “zingarettiano” doc, Marco Miccoli. Dall’altro, si è messo in piedi un coordinamento regionale, composto da esponenti di ogni mozione, che avrà potere assoluto su liste, listino e deroghe alle candidature. In pratica, all’indigesto Milana, hanno sfilato di mano la carta più importante: quella che decide chi va dove.
In grande spolvero al Comitato Bonino anche la “macchina” di Marrazzo, rimasta suo malgrado disoccupata dopo lo scandalo di via Gradoli: all’ufficio stampa dovrebbero arrivare gli ex addetti alla comunicazione del presidente. Anche l’agenda – uno dei ruoli chiave in una campagna elettorale breve come questa, dove un incontro esclude l’altro – sarà in mano ad un ex fedelissimo di Marrazzo.
Intanto, c’è ancora da definire il programma. Gli incontri tra gli esponenti della coalizione si stanno tenendo in questi giorni. La deputata Rita Bernardini – che tiene le fila del comitato per conto della Bonino – dice che solo una cosa dev’essere chiara: “Quella di Emma è una storia radicale. Nascondere o mitigare la sua natura è fuori discussione”. Tutto comunque dovrebbe filare liscio. Di Pietro incoronerà la candidata nei prossimi giorni in un’iniziativa al Tendastrisce di via Collatina, Sinistra e Libertà, in occasione della vittoria pugliese di Vendola, ha già scritto sui suoi manifesti “Adesso avanti con la Bonino”. Verdi e socialisti ci sono, il Pd dovrebbe farcela a uscire dall’impasse. Lo diceva lo stesso Milana: “Non dobbiamo essere un peso per Emma, ma dare un contributo determinante a farla vincere”.

l’Unità 3.2.10
Termini, ultimo rifugio per fantasmi e reduci della guerra di Rosarno
di Jolanda Bufalini

Sono un centinaio gli africani che hanno raggiunto Roma fuggendo Vivono alla stazione o nelle strutture occupate dai no global nella capitale Nei loro racconti gli orrori dell’Africa insanguinata e dell’Italia razzista

Keita Modibo è nato il primo gennaio 1987, il suo paese di origine è la Guinea Konakry, tiene in mano il numeretto 070 nella fila dell’ambulatorio del San Gallicano. Poggia sulla gamba destra, la sinistra la tiene leggermente piegata. «Il piede era stato già rotto in Guinea», spiega. Ma poi, cosa è successo a Rosarno? «Era sera, tornavo dal lavoro a Collina, verso le sei e mezza. Noi finiamo il lavoro alle sei». Collina è una località di campagna, fra gli agrumeti, di là dal ponte che segna il confine del comune. Era l’otto gennaio. Da quelle parti è stata bruciata anche una casa fatiscente che ospitava sei braccianti. «Si sono avvicinati in tre mostra la gamba, fa il segno con la mano messa di taglio ... battu (mi hanno colpito)». Aveva paura, dopo, di tornare in paese, a Rosarno. Alla fermata dell’autobus è passato un amico che lo ha accompagnato alla ferrovia di Gioia Tauro. È fuggito in treno, senza farsi medicare. «Ora non posso alzare la gamba».
«Ero contento quando sono arrivato in Italia». «Sono qui, sono vivo, sono contento», ripete nel suo stentato italiano. «Invece ora ho paura, dove vai? Non lo so». A ventitré anni la vita di Modibo è segnata nel corpo e nella psiche, come attesta il referto medico che ha accompagnato la richiesta di asilo. Nel 2007 la Guinea ha sfiorato la guerra civile, nei moti di quell’anno morì un centinaio di persone e molte centinaia rimasero ferite. Il padre di Modibo era un seguace di Alpha Condè, all’opposizione. Le forze del presidente fecero irruzione in casa e suo padre fu ucciso. La mamma fu portata in prigione dove è morta. Il ragazzo fu picchiato. Risale a quei giorni la prima rottura della gamba. Poi la fuga attraverso il Mali e l’Algeria. Dall’Algeria fu rispedito indietro e poi di nuovo, il lungo viaggio attraverso il deserto e il mare. «Ero contento ripete ero vivo. Ma qui non siamo uguali».
Era il secondo anno che andava a raccogliere i mandarini a Rosarno. Ora chiede di essere trattato come gli altri feriti di Rosarno, avere un permesso di soggiorno per ragioni umanitarie. Quanti sono i ragazzi neri di Rosarno approdati a Roma da Bari e da Crotone? Difficile fare un conto preciso, ottanta, forse cento, vagano da giorni come fantasmi.
Giovanna Cavallo di Action si avvicina, per dare un appuntamento alle 19 e 30. Hanno trovato altri quattro posti per dormire, ospitalità nelle occupazioni. Quattro a San Giovanni, uno a via Tempesta, altri all’ex Snia.
Almeno una trentina dorme ancora alla stazione Termini. Un po’ di tolleranza c’è, dopo una certa ora e prima che la luce sia alta. Paese inverosimile l’Italia, dove solidarietà, welfare, servizi e problemi si scaricano su chi se ne fa carico. Le famiglie aiutano i giovani, la rete no global gli immigrati.
Anche Lassine è guineano ed ha ventitré anni. Daouda è più grande, classe 1982, viene dalla Costa d’Avorio, ha sei fra fratelli e sorelle. L’appuntamento è a Termini, alle 13 e 30. «Posso offrire, mangiamo qualcosa?». «No grazie, abbiamo già mangiato». Educati e istruiti, il francese imparato all’école francaise. Si convincono a sedersi in un bar ma prendono solo un caffè. «Prima ero a Foggia, per la raccolta de tomates, lì è meglio perché pagano a cassetta, non a giornata. Dieci-quindici cassette al giorno per tre quattro euro l’una. Invece in tre mesi a Rosarno non ho guadagnato più di mille euro».
Chiedo di spiegare, dal loro punto di vista, la rivolta nera di Rosarno. Quella che è servita di pretesto alla pulizia etnica. «Eravamo esasperati, nervosi. Le condizioni di vita terribili, il lavoro poco e malpagato». «In più c’era da pagare il trasporto». Se la sera arrivava la telefonata del loro intermediario, Souvalle, il giorno dopo si faceva la giornata (20 al massimo 25 euro). Altrimenti si restava alla fabbrica dismessa a dormire. Nessun rapporto con i rosarnesi. Gli unici contatti erano con il padrone e al discount per fare la spesa, «ma cucinavamo a casa»
Il racconto di Daouda: «Succedeva che, quando ci spostavamo in bicicletta, un’auto sterzasse apposta per investirci o spaventarci. Oppure ci tiravano le arance. Poi sono arrivati gli spari sulle persone. Non ne potevamo più». Daouda ancora non è certo che non ci siano stati morti: «Non posso confermare che ci siano stati o non ci siano stati. Ma i feriti li ho visti con i miei occhi».
Il racconto di Lassine: «Tutti sapevano, tutti vedevano, quelle sparatorie contro di noi erano molto popolari». Daouda: «È per questo che chiediamo asilo. È giusto che il permesso per ragioni umanitarie sia dato ai feriti. Ma anche noi siamo, vittime. Siamo stati deportati da Rosarno».
Lassine, cosa speri per il futuro? «Adesso il mio problema è lavorare per migliorare la mia condizione. Per andare avanti nella vita, per mettere su famiglia bisogna migliorare la propria condizione. Altrimenti è impossibile».❖

l’appello promosso da «Associazione Migrare» che viene pubblicato oggi su L’Unità, Terra, Liberazione, Il Fatto Quotidiano, Notizie Radicali.
l’Unità 3.2.10
Stop agli abusi Garantire il permesso a chi lavora

S nellire le pratiche per il permesso di soggiorno, rispettare i termini per il rilascio, agevolare gli immigrati che lavorano. Sono alcune tra le richieste contenute nell’appello promosso da «Associazione Migrare» che viene pubblicato oggi su L’Unità, Terra, Liberazione, Il Fatto Quotidiano, Notizie Radicali. Ecco il testo dell’appello
«Chiediamo al Governo italiano ed al Ministro Roberto Maroni di rispettare il termine di venti giorni fissato nel Decreto Legislativo n. 286/1998 (Testo Unico dell’Immigrazione così come modificato ed integrato dalla Legge Bossi-Fini n. 189/2002) per il rilascio e il rinnovo dei permessi di soggiorno agli immigrati.
1) Stigmatizziamo che, attualmente, siano necessari dai sette ai quindici mesi e che la procedura preveda che l’immigrato, nell’attesa, disponga solo di un cedolino che non ha le caratteristiche per essere univocamente riconosciuto come documento sostitutivo del permesso di soggiorno.
2) Segnaliamo che il possesso di quel semplice cedolino è motivo di abusi contro gli immigrati che si vedono ridotti, di fatto, i pur limitati diritti di cui godono in Italia.
3) Sollecitiamo affinché, da subito e come misura d’urgenza, venga modificata la procedura nel senso che l’immigrato possa disporre del permesso di soggiorno, anche durante il periodo del suo rinnovo, mediante l’apposizione di un timbro che ne attesti la validità oltre la scadenza legale e sino alla sua sostituzione con il documento nuovo.
4) Invitiamo al più celere smaltimento dell’arretrato di circa un milione di pratiche attualmente nelle mani dello Stato»
Hanno aderito all’appello personaggi della politica, scrittori, giornalisti, cittadini. ❖

il Fatto 3.2.10
L’appello
Permessi di soggiorno: il governo rispetti i termini di legge

Il Fatto Quotidiano ha aderito all’appello lanciato da Shukri Said, portavoce dell'associazione Migrare, rivolto al governo e al ministro dell’Interno, Roberto Maroni. Riportiamo in seguito il testo che spiega le ragioni della protesta, partita il 13 dicembre con lo sciopero della fame di Gaoussou Ouattarà, membro della Giunta dei Radicali italiani, e proseguito da Shukri Said dal 1° al 20 gennaio (al termine del suo ricovero in clinica) assieme a 503 immigrati:
“Chiediamo al governo italiano e al ministro Roberto Maroni di rispettare il termine di 20 giorni fissato nel Testo Unico dell’Immigrazione per il rilascio e il rinnovo dei permessi di soggiorno agli immigrati. Stigmatizziamo il fatto che, attualmente, siano necessari dai sette ai quindici mesi e che la procedura preveda che l’immigrato, nell’attesa, disponga solo
di un cedolino che non ha le caratteristiche per essere univocamente riconosciuto come documento sostitutivo del permesso di soggiorno. Segnaliamo che il possesso di quel semplice cedolino è motivo di abusi contro gli immigrati che si vedono ridotti, di fatto, i pur limitati diritti di cui godono in Italia. Sollecitiamo affinché, da subito e come misura d’urgenza, venga modificata la procedura nel senso che l’immigrato possa disporre del permesso di soggiorno, anche durante il periodo del suo rinnovo, mediante l’apposizione di un timbro che ne attesti la validità oltre la scadenza legale e sino alla sua sostituzione con il documento nuovo. Invitiamo al più celere smaltimento dell’arretrato di circa un milione di pratiche nelle mani dello Stato”. Hanno sottoscritto l’appello: Oliviero Beha, Rossana Rossanda, Maura Cossutta, Jean Leonard Touadì, Pino Di Maula, Massimo Orsini, Furio Colombo, Antonio Padellaro, Massimo Bordin, Concita De Gregorio, Cesare Buquicchio, Dino Greco, Gian Antonio Stella e, oltre al Fatto Quotidiano, le testate Terra, Il Manifesto, L'Unità, Radio Radicale, Liberazione.

il Fatto 3.2.10
Razzismi. Il Questore vuole controlli casa per casa
Ordine elettorale a Milano
La Lega ordina: scovate i clandestini E il questore di Milano chiede controlli casa per casa. Prima del voto
di Peter Gomez

All’ombra della Madonnina ad accendere la miccia era stata, subito dopo Natale, la Lega nord. Non si erano ancora placate le polemiche per il White Christmas di Coccaglio, in provincia di Brescia, dove il sindaco aveva ordinato controlli a tappeto sugli stranieri per scoprire gli eventuali clandestini, che subito in due consigli di zona di Milano era stata presentata una mozione per chiedere al primo cittadino Letizia Moratti un giro di vite sugli extracomunitari. Controlli “igienico sanitari” nelle abitazioni dei sans papier, caccia a chi affitta appartamenti o offre lavoro agli immigrati irregolari, e infine l’invito ai milanesi a segnalare al comune tutti gli irregolari. E anche se in molti avevano gridato al razzismo – proporre la caccia al clandestino casa per casa ricorda da vicino i rastrellamenti tedeschi del secolo scorso – la trovata era stata catalogata nell’archivio delle boutade elettorali. Il Carroccio, invece, fa sul serio. Il malumore contro gli stranieri e i diversi in genere cresce nella pancia del Paese. La tigre va cavalcata subito in vista delle elezioni regionali del prossimo 28 marzo. Così a Milano, tra i brontolii di molti agenti e funzionari, a scendere in campo addirittura la polizia. Ovvero il corpo diretto da Roma, dal ministro dell’Interno leghista, Bobo Maroni.
Il 13 gennaio, con ordine di comunicare i risultati “entro e non oltre il 15 marzo”, il questore Vincenzo Indolfi ha inviato una circolare ai commissariati ordinando “rigorosi controlli amministrativi, con eventuale supporto di aliquote di Forza Pubblica” su tutti gli “stabili degradati” delle rispettive zone. Detta in questo modo, e al di là della coincidenza elettorale (i dati saranno resi pubblici alla vigilia delle regionali), l’iniziativa potrebbe persino sembrare meritoria. Come non essere d’accordo con i controlli che mirano a scoprire i fuorilegge? Il fatto è però che la faccenda è un po’ più complicata. Nella circolare si fa infatti esplicito riferimento a “situazioni di degrado ambientale connesse alla presenza abusiva o al sovraffollamento di cittadini stranieri, dediti spesso ad attività illecite, all’interno di immobili e stabili” della provincia. Per questo “gli immobili interessati dai predetti fenomeni” vanno controllati e va “verificata e acquisita la documentazione relativa alla permanenza negli immobili delle persone dimoranti”. La polizia però non può farlo. O almeno non potrebbe farlo. L’articolo 14 della costituzione, in proposito è chiaro: “Il domicilio è inviolabile”. E nelle case, siano esse abitate da italiani o stranieri, le forze dell’ordine possono entrare solo con in mano un regolare mandato di perquisizione. Si tratta di una garanzia per tutti i cittadini che così vengono messi al riparo da eventuali colpi di testa di agenti o militari e da tentazioni autoritarie da parte del governo di turno. Oggi infatti tocca agli stranieri, ma domani potrebbe toccare agli oppositori politici o a altre minoranze.
Certo, la circolare parla di semplici “controlli amministrativi”. Ma è fin troppo ovvio considerare che per accertare “situazioni di degrado” o di “sovraffollamento di cittadini stranieri” l’unico sistema per i poliziotti sia quello di entrare nelle abitazioni di chi parla una lingua diversa dall’italiano o ha una pelle di un colore diverso. Non a caso la legge prevede che i controlli di amministrativi di polizia vengano eseguiti nei locali pubblici o in quelli aperti al pubblico e non nei domicili privati. E poi, visto che gli agenti dovranno verificare documenti come i “contratti di locazione e le denuncie di cessione di fabbricato”, cosa accadrà se ci si troverà di fronte a casi di comodato gratuito come il prestito di una stanza o di un posto letto? In questo caso nessun tipo di documentazione è prevista. Mentre nelle cessioni di fabbricato è il proprietario dell’immobile che deve comunicare alle autorità di pubblica sicurezza la presenza di un nuovo ospite o inquilino, quando la sua presenza in casa supera il mese.
Intendiamoci, il problema del sovraffollamento delle abitazioni da parte di lavoratori stranieri, visto il costo degli affitti, è reale. Così come è reale la questione di interi stabiliti ceduti in nero a inquilini extracomunitari da proprietari italiani. Ma risolverlo con le ispezioni non si può. Lo insegna, tra l’altro, l’esperienza di Camposampiero, in provincia di Padova, dove il locale assessore alla Sicurezza, Salvatore Scirè, e due vigili urbani, sono finiti sotto inchiesta per abuso d’ufficio e perquisizione abusiva. Il 2 settembre, a caccia di clandestini, erano entrati senza mandato nelle abitazioni di alcuni stranieri. Ma alla seconda “ispezione” era scattata la denuncia. Perché la Costituzione, salvo modifiche dei prossimi mesi, vale anche per chi non è nato in Italia.

il Fatto 3.2.10

Dove sono finiti gli immigrati di Rosarno?
Dopo averli identificati li hanno lasciati liberi e senza documenti: “Basta che sparite”
di Paola Zanca

Li abbiamo sfruttati, lasciati nelle mani delle organizzazioni criminali, qualcuno ha perfino aperto il fuoco contro di loro. E noi, anziché chiedere scusa e provare a salvare la faccia, li abbiamo deportati con la forza e ora li lasciamo morire di freddo nelle strade delle nostre città. Ricordate la protesta degli immigrati di Rosarno? Ecco, quegli uomini – quei ragazzi – non sono spariti, come a molti piacerebbe credere. Sono intorno a noi: solo a Roma ne sono arrivati duecento. Gli altri sono fuori dalla stazione di Napoli, accampati nelle strade di Aversa, di Villa Literno, di Caserta, nascosti nelle campagne di Torre di Pescopagano. Hanno paura, sono senza documenti, e sentono ancora addosso la rabbia dei cittadini calabresi che non li volevano più come vicini di casa. Come è possibile che nessuno li abbia difesi? Le cronache di quei giorni raccontavano del trasferimento nei Cie del sud Italia. Invece, dopo averli portati nei centri di identificazione di Bari e Crotone, li hanno lasciati liberi. Trattati come bestie, allo stato brado. “Andatevene”. Dove? “Via. Basta che sparite”. Qualcuno aveva i soldi per un biglietto del treno. Altri per raggiungere una destinazione ci hanno messo giorni interi: il controllore li beccava, loro scendevano e prendevano il convoglio successivo. Jamadou ha 28 anni, viene dal Congo. A lavorare nei campi della piana di Gioia Tauro c’è stato due anni. Usciva di casa la mattina alle 6, ritornava che era già buio, per venticinque euro al giorno. Fino a quel 7 gennaio, quando è scoppiata la rivolta. Jamadou, come tanti altri, è stato mandato al Cie di Crotone. Poi, due giorni dopo, gli hanno detto che se ne poteva andare. A Roma ci è arrivato solo con i vestiti che aveva addosso. Anche a Mohamed, 25 anni, ghanese, dopo una settimana recluso nel Cie di Bari hanno detto di sparire. Anche lui non ha più niente: da Rosarno non sono partiti, sono fuggiti. E la paura era più forte del pensiero della roba da raccimolare. Quando sono arrivati a Roma non si sono subito fidati di chi ha provato ad offrirgli aiuto. Dei duecento arrivati, la metà si è sistemata attraverso la rete di amici e conoscenti. Gli altri, piuttosto che andare a dormire nelle case occupate dal Coordinamento cittadino di Lotta per la Casa o nei locali del centro sociale Ex Snia Viscosa che gli offriva alloggio, preferivano restare sotto i portici della stazione Termini. Qualcuno dorme ancora lì. Altri si sono convinti che era ancora possibile che qualcuno volesse dargli una mano. Qualcuno ha perfino deciso di tornare a Rosarno. “Tre su quattro”, calcola Mohamed. Tornano a vedere se le loro cose sono ancora là, provano a convincere i caporali a pagare gli arretrati.
Ieri erano davanti al Campidoglio.
Chiedono – come già è avvenuto per gli 11 africani feriti a Rosarno – il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Molti di loro sono anche richiedenti asilo, non possono tornare nei loro Paesi d’origine, sono perseguitati: gli avvocati dell’associazione Progetto Diritti hanno già verificato che la maggioranza ha le carte in regola per ottenere asilo, ma chissà quanto tempo dovrà passare prima che la burocrazia si decida a stampare quel pezzo di carta. “Io a quel documento ci penso giorno e notte”, dice Ibrahim, 24 anni dalla Nigeria, rifugiato. “È molto grave quello che è successo in Italia – dice Ibrahim – Ho lasciato il mio Paese perché ho sentito troppi spari. Sono venuto qui perché cercavo la pace. Invece ho sentito sparare di nuovo”. I lavoratori africani di Rosarno si sono riuniti in un collettivo: sanno che solo restando insieme possono tentare di ottenere qualcosa. Proprio quello che il nostro ministero non voleva: se, lasciandoli liberi, il ministro Maroni sperava che si disperdessero, questa volta si è sbagliato di grosso. Con loro, abbiamo più di un conto in sospeso.

l’Unità 3.2.10
L’Africa guarda Rosarno con gli occhi tristi di chi è tornato dall’Italia
di Saverio Lodato

Da Dakar al Gambia con la guida dell’ex emigrato Pape che ha trascorso tre anni da noi come clandestino e alla fine ha scelto la fame della propria casa. Poi una sera, dagli schermi della tv, ecco le immagini degli scontri...

Entriamo nella notte di Dakar, afosa, umidiccia e stracarica di odori, dall’uscita principale dell’aeroporto intitolato a Leopold Senghor, poeta, primo teorico dell’indipendenza del suo paese, primo insegnante africano nelle locali scuole di lingua francese, leader di quel sogno panafricano che ha sempre avuto vita grama. Una muraglia vociante di tassisti serra la sua morsa attorno a turisti che cercano di farsi largo con zaini e valige, ma istintivamente riluttanti a concedersi al primo offerente. Vecchi taxi gialli e sgangherati, dalla tappezzeria lercia, tenuti insieme da protesi metalliche, con due sportelli funzionanti su quattro, che meriterebbero un dignitoso fine corsa in un cimitero di ferraglie, sono parcheggiati a due passi. Una voce calma, chiara, si rivolge a noi in un italiano scorrevole: «In che albergo devi andare? Io non ho un taxi, ma questo mio amico sì. Lui però non parla italiano, e per questo gli faccio da interprete. Se ti fidi di me puoi fidarti anche di lui». La piccola macchia dei turisti, nel frattempo, si è andata assottigliando, e le carcasse gialle hanno miracolosamente ripreso ad ansimare. L’interprete ispira fiducia, e il suo socio lo guarda fiducioso convinto che alla fine rimedierà la corsa.
Pape, è questo il nome dell’interprete, ci racconta che ha 30 anni, di come ha imparato l’italiano, di aver lavorato per due anni a Catania e per un anno a Milano, di essere appartenuto all’esercito dei vu cumpra’; che viveva in un appartamento insieme ad altri venti connazionali, che mangiava un giorno sì e uno no, che con la vendita dei cd, se ti va bene, racimoli dai quattro ai cinque euro al giorno di guadagno. Pape ci dice di essere sopravvissuto a quella vita fuggendo sempre per primo all’arrivo dei vigili urbani o degli agenti di polizia, di non essersi mai lasciato coinvolgere in risse, di non aver mai “fatto reati”, di avere due sorelle, due fratelli, la moglie e due figli, e la madre che non lavorano e hanno sempre vissuto a Dakar. Il padre, invece, che è ispettore di polizia proprio in aeroporto, per uno degli infiniti misteri africani, riesce a tenere in piedi l’intera baracca. Ora lui, Pape, dell’Italia si e stancato, fame per fame meglio la fame di casa propria, certo che in Italia ci tornerebbe, ma da regolare, con tanto di contratto, senza dovere scappare, anche se sa benissimo l’aria che tira. Ci si può fidare di Pape? Forse, secondo Roberto Maroni, sarebbe meglio di no.
Per due settimane, Pape ci ha accompagnato in viaggio da Dakar al Gambia secondo alcune statistiche il paese più povero dell’Africa, persino del Burkina Faso a Serekunda e Banjul, la capitale, per entrare nuovamente nel Senegal della Casamance, a Ziguinchor, sino alle spiagge di Cap Skiring che si affacciano sulla costa dell’Oceano atlantico. Non ha mai chiesto alcun compenso. Ovviamente, abbiamo diviso gli stessi piatti di riso speziato, lo stesso pollo fritto, le stesse salse a base di cipolla, lo stesso pesce stufato, le stesse brochette e croquette di carne di manzo; sgranocchiato le arachidi, principale coltivazione del Senegal. E diviso le stesse locande, con acqua fredda, lenzuola dal colore indefinito, materassi dall’età indefinita. Pape è seguace di uno dei tanti marabout che godono in Senegal, al novanta per cento musulmano e suddiviso in una mezza dozzina di etnie, di immenso consenso. Sacerdote, stregone, medico, capo carismatico, il marabout appartiene a una delle tante confraternite, qualcuna di origine marocchina, senza il cui appoggio il potere politico non potrebbe sopravvivere. Le foto dei tanti marabout, viventi o scomparsi da tempo, campeggiano nelle strade, sugli autobus, nei mercati vocianti delle città-mercato del Senegal. E il Senegal trabocca di giovani che vanno in giro con bidoncini vuoti a raccogliere elemosine per le confraternite.
D’altra parte, anche le salmodianti voci dei muezzin, amplificate dagli altoparlanti, ricordano, a ore fisse, che questo non sarebbe un paese adatto a Maroni e ai capi leghisti.
Sarebbe oltremodo presuntuoso voler raccontare il Senegal è il nostro secondo viaggio in questo paese sulla base di fugaci impressioni. Per questo, esistono guide che offrono tutto quello che c’è da sapere.
I bambini senegalesi, invece, bisogna vederli dal vivo, se si vuol davvero capire cos’è la fame, cos’è il terzo mondo, cosa c’è dietro i televisori di casa nostra quando, nel servizio di un minuto, un minuto e venti, vorrebbero educarci alla solidarietà. Pape ha una sua filosofia per tutto questo: dice che la vita di ciascuno, se trova il marabout giusto, può cambiare. Ma ci si può fidare di Pape?
Il Senegal, ormai dal 20 giugno 1960, è paese indipendente. Ma i francesi, qui, sono rimasti di casa. Dirigono, ancora oggi, le più importanti branche dell’economia locale, gli alberghi e i ristoranti migliori. E scendono in Senegal come un romagnolo scende a Rimini. Dakar o Cap Skiring, Saint Louis o Zuigunchor traboccano di coppie, clair e noir, i cui amori sono alimentati da un estate perenne, appena infastidita, nei mesi più caldi, dall’harmattan, il vento polveroso che arriva dal Nord, dal Sahara.
Siamo al centro della rotta degli schiavi che nella stazione finale dell’isola di Gorée dove esiste ancora la Maison des Eclaves, la casa degli schiavi diventata museo permanente, nel punto di costa più avanzato sull’Oceano atlantico vide, per quasi due secoli, la concentrazione degli schiavi che salpavano in catene e, dopo essere stati debitamente messi all’ingrasso per essere venduti a prezzo maggiore, verso il Brasile, Haiti, Cuba.
Una notte, Pape ha bussato con forza alla porta della nostra stanza. Era trafelato. Non riusciva a parlare. L’abbiamo seguito sino alla hall della locanda, una hall all’aperto, fra i palmizi. Qui, per terra, stavano seduti una cinquantina di senegalesi. Stavano attorno a un vecchio televisore, alimentato da un’infinita prolunga che si perdeva fra le palme e arrivava chissà dove, che trasmetteva un altro fra i tanti misteri africaniimmagini del Tg2. Ed erano le immagini di Rosarno.
Cento occhi neri erano puntati su quello schermo che restituiva l’ultima puntata dell’infinita storia della rotta degli schiavi. Volti tesi, occhi sgranati, lo sgomento, qualche parola appena sussurrata.
In quei momenti, non so cosa pensasse Pape. Se dentro di sé si compiacesse per la scelta d’aver lasciato l’Italia. O gli prudessero le mani per non trovarsi insieme ai suoi fratelli. Non ha detto nulla. Per quel che ho conosciuto della sua indole, sarei portato a credere alla prima ipotesi.
A fine viaggio, dopo 13 ore di nave da Cap Skiring a Dakar, e con la gente, a poppa, che ballava sino a notte fonda, ci siamo salutati dove c’eravamo conosciuti: in quell’aeroporto dove ormai, grazie a lui, eravamo diventati di casa e abbiamo stretto le mani dell’infinita pletora dei tassisti con volti finalmente sorridenti, rassicuranti.
Forse tornerai in Italia da “regolare”, Pape, gli ho detto con poca convinzione. «Inshallah», mi ha risposto. E l’ho visto sparire alla mie spalle, nella folla vociante, appena dopo il controllo di polizia.
Tornato in Italia, mi è caduto lo sguardo su una notizia pubblicata da l’Unità.
Si trattava di questa dichiarazione di Abdoulaje Wada, il presidente dl Senegal, sul terremoto di Haiti: «Se volete tornare in Africa, vi accogliamo a braccia aperte. Avrete un riparo e un lavoro. Non avete scelto di andare in quell’isola e non sarebbe la prima volta che ex schiavi o loro discendenti possano tornare nella terra dei loro antenati: è già successo in Liberia, dove gli ex schiavi si sono integrati con la popolazione locale e hanno formato la nazione liberiana». E Mamadou Bamba, portavoce del presidente, ha precisato: «Se saranno solo alcune persone, offriremo loro un tetto e un pezzo di terra; se verranno in massa, daremo loro un’intera regione».
«Inshallah», direbbe Pape.
Decisamente, il Senegal non si addice a Maroni.❖

l’Unità 3.2.10
La denuncia: nei Cie non c’è posto per i diritti
di Cinzia Zambrano

In quasi tutti l’assistenza sanitaria è carente, in alcuni mancano addirittura le coperte e la carta igienica. È la fotografia scattata da Medici senza frontiere nei 21 centri di detenzione per gli immigrati

Autorità sanitarie assenti. Assistenza legale insufficiente, come pure quella sociale e psicologica. Servizi scarsi e scadenti. Impianti di riscaldamento spesso non funzionanti. Beni di prima necessità carenti: niente coperte, né carta igienica. Spazi ridotti, 25 metri quadrati da condividere in 12. Strutture fatiscenti. Episodi di autolesionismo. Risse. Rivolte. Ecco come si vive «al di là del muro», la cortina che nasconde agli occhi di tutti (o quasi) il dramma di migliaia di persone, uomini donne bambini, trattenue nei Cie, (Centri di identificazione ed espulsione), nei Cara (Centri di accoglienza per richiedenti asilo) e nei Cda (Centri di accoglienza) italiani. Condizioni di vita ridotte al minimo, delle vere e proprie carceri, con muri alti 4 metri e filo spinato, tanto che per un clandestino, «la permanenza in un Cie fa più paura di un rimpatrio nel paese di origine».
A fornirci la drammatica fotografia è Medici senza Frontiere. Che a distanza di 5 anni, unica organizzazione indipendente a scrivere un rapporto sui Cie e Cara, è tornata nei luoghi di detenzione per gli immigrati privi di permesso di soggiorno. Il risultato? Una netta bocciatura. Per Msf nulla, o poco, è cambiato: nei centri visitati la scarsa tutela dei diritti fondamentali è la norma. E per due di essi, i Cie di Trapani e Lamezia Terme, l’organizzazione umanitaria chiede l’immediata chiusura.
INDAGINE
L’indagine, riportata nel rapporto «Al di là del muro. Viaggio nei centri per migranti in Italia», mostra come a più di 10 anni dall’istituzione dei centri per migranti, la gestione generale sembra ispirata ancora oggi a un approccio emergenziale. Eppure
dall’anno scorso il governo di centro-destra ha esteso il periodo massimo di trattenimento all’interno dei Cie da 2 a sei mesi. Un periodo che sfora la «durata emergenziale», rendendo la detenzione non più misura straordinaria e temporanea, ma di lungo periodo.
Sono 21 i centri osservati. In alcuni, come in quelli di Lampedusa e Bari, agli operatori è stato negato l’ingresso agli alloggi nonostante la visita fosse stata comunicata con diverse settimane di preavviso. «Rispetto alle visite condotte nel 2003 poco è cambiato, molti sono i dubbi che persistono, su tutti la scarsa assistenza sanitaria, strutturata per fornire solo cure minime, sintomatiche e a breve termine. Stupisce inoltre l’assenza di protocolli sanitari per la diagnosi e il trattamento di patologie infettive e croniche. Mancano soprattutto nei Cie come ad esempio in quello di Torino, i mediatori culturali senza i quali si crea spesso incomunicabilità tra il medico e il paziente. Sconcerta in generale l’assenza delle autorità sanitarie locali e nazionali», racconta Alessandra Tramontano, coordinatrice medica di Msf in Italia. La vita nei Cie dice ancora la Tramontano, dove i ritmi della giornata sono scanditi solo dai pasti e dal dormire, dove la gente non fa nulla, «aggrava uno stato mentale, un disagio dopo l’odissea vissuta per arrivare fino a qui, che crea un vero e proprio stress per molti pazienti». Il rapporto evidenzia come di fatto nei centri convivono negli stessi ambienti vittime di tratta, di sfruttamento, di tortura, di persecuzioni, così come individui in fuga da conflitti, altri affetti da tossicodipendenze, da patologie croniche o della sfera mentale. Sono luoghi dove coesistono e s’intrecciano in condizioni di detenzione storie di fragilità estremamente eterogenee tra loro da un punto di vista sanitario, giuridico, sociale e umano, a cui corrispondono esigenze molto diversificate. Quasi sempre non soddisfatte. «I Cie di Trapani e Lamezia Terme andrebbero chiusi subito perché totalmente inadeguati a trattenere persone in termini di vivibilità. Ma anche in altri Cie abbiamo riscontrato problemi gravi: a Roma mancavano persino beni di prima necessità come coperte, vestiti, carta igienica, o impianti di riscaldamento consoni», denuncia Msf. Per non parlare dei Cara di Foggia e Crotone: «12 persone costrette a vivere in container fatiscenti di 25 o 30 metri quadrati, distanti anche un chilometro dai servizi. Fra l’altro, l’assenza di mensa obbliga centinaia di persone a consumare i pasti sui letti o a terra». ❖

l’Unità 3.2.10
Quando la scuola «scheda»: dimmi
chi sei e da dove vieni
di Massimiliano Perna

A Catania una singolare iniziativa dell’Ufficio provinciale Agli studenti stranieri vengono chiesti dati «sensibili» Ad esempio: «Quanti viaggi fai verso il paese d’origine?»

L’Ufficio scolastico provinciale di Catania, il 23 novembre scorso, ha inviato alle scuole una circolare con cui si chiedeva la compilazione, entro il 14 dicembre 2009, di schede di rilevazione dei dati relativi a tutti gli studenti stranieri. La motivazione: attuare interventi «a favore degli alunni immigrati che in atto frequentano le istituzioni scolastiche di questa provincia».
La firma è del direttore dell’ufficio, Raffaele Zanoli, l’intestazione è quella del ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, ma l’input è del ministero dell’Interno, attraverso la locale prefettura. A confermarlo è lo stesso Zanoli: «Abbiamo preso parte a un bando Fei del Ministero dell’Interno, finalizzato all’integrazione. La prefettura ha sollecitato diversi enti ed istituzioni a partecipare. Siamo stati interpellati e abbiamo risposto affermativamente.
Per tale ragione, abbiamo raccolto i dati degli studenti stranieri, che dovranno essere coinvolti nel progetto».
Il problema è che non si tratta di dati quantitativi, ma di dati sensibili, non necessari al progetto e che, nel caso di studenti stranieri, rischiano di trasformarsi in una schedatura di eventuali clandestini, cioè di quegli immigrati che non sono iscritti a nessun anagrafe e che scuole e ospedali, per legge, non hanno l’obbligo di denunciare. Quanto avviene a Catania è singolare: dopo la legittima e consueta rilevazione dei dati relativi ai soggetti, italiani e stranieri, in dispersione scolastica, l’Ufficio scolastico ha richiesto i dati di tutti gli studenti stranieri, anche di chi frequenta regolarmente. Una richiesta inusuale, che non ha l’obiettivo di quantificare i soggetti in questione, bensì di conoscerne in maniera approfondita le caratteristiche: nella scheda allegata si chiedono nomi, cognomi, data e luogo di nascita, eventuali spostamenti nel corso dell’anno per tornare al paese d’origine, ecc. La “teoria” del progetto del ministero dell’Interno presenta, tra l’altro, numerose lacune. Se è vero che le prefetture hanno invitato gli enti a partecipare, non si spiega perché, in città come Siracusa, né l’Ufficio scolastico, né le scuole di ogni ordine e grado abbiano ricevuto tale invito, considerato che se l’iniziativa è ministeriale dovrebbe essere valida per tutte le province. Inoltre, è strano che non si sia scelto di coinvolgere gli uffici scolastici attraverso il ministero dell’Istruzione, quello competente: tutto è stato delegato alle prefetture, cioè al ministero dell’Interno, che certo non si occupa di educazione ed istruzione.
La Flc-Cgil di Catania, in una nota firmata dal segretario generale, Lillo Fasciana, e indirizzata all’Usp etneo, ha chiesto chiarimenti, esprimendo «forte preoccupazione sulle ripercussioni negative che tale atto potrebbe comportare nei confronti degli alunni stranieri per effetto del cosiddetto pacchetto sicurezza», e chiedendo lo stop dell’iniziativa, in quanto attuata «in violazione dei diritti individuali delle persone».
L’ufficio scolastico provinciale sostiene, riguardo alla rilevazione dei dati, di aver agito di proprio impulso, ribadendo che l’unica sollecitazione della prefettura ha riguardato la partecipazione al progetto del Viminale. Non c’è alcun collegamento, invece, con la circolare inviata in data 8 gennaio dal ministero dell’Istruzione relativa al tetto del 30 per cento di alunni stranieri per classe, in quanto successiva all’iniziativa dell’Ufficio scolastico catanese. Un caso da chiarire. Si tratta di capire se la scuola pubblica è ancora un’istituzione educativo-formativa oppure se si intende trasformarla in una struttura di identificazione e schedatura. ❖

l’Unità 3.2.10
Immigrazione: smontiamo i luoghi comuni
Un prontuario contro le frasi fatte
di Giuseppe Civati

Concita De Gregorio, rifacendosi a un’antica lezione di Vittorio Foa, ricordava giorni fa l’importanza delle parole e la necessità di restituire al linguaggio della politica il senso che ha ormai perduto. Grazie allo straordinario contributo di Berlusconi e della Lega, i “luoghi comuni” sono slogan elettorali e frasi da ripetere in ogni occasione, secondo il noto principio per cui un’informazione ribadita un milione di volte diventa comunque “vera”. Con loro e con il loro governo, le “frasi fatte” (e non verificate), diventano proposta politica a tutti gli effetti. Al Pd e al centrosinistra troppo spesso sono mancate le parole per opporsi e sono venuti meno l’orgoglio di difenderle e la volontà di riportare il discorso pubblico a una dimensione di razionalità e comprensibilità. Anche per questo abbiamo realizzato un prontuario dedicato all’immigrazione (in rete anche sul sito www.unita.it) e che vuole rovesciare i luoghi comuni («mandiamoli a casa loro», appunto), le frasi dette al bar o dal podio di un ministero, le espressioni che da triviali diventano politiche.
«Ci rubano il lavoro», «ci portano via le donne», «vivono alle nostre spalle», «gravano sul nostro welfare», «sono tutti criminali». Tutte “verità” che molti ripetono, senza che nessuno dica loro che sono sbagliate. La stessa parola “clandestino”, una delle più potenti intuizioni del governo e delle più influenti sul modo di pensare degli italiani. «Basta la parola»: e tutti gli immigrati irregolari, sprovvisti di permesso di soggiorno, diventano persone malintenzionate e, finalmente, criminali. È l’esempio più chiaro: non sono irregolari, sono “clandestini”, “quasi” criminali, quindi è il caso di inventare il reato di “clandestinità” per definirli. Non importa se si tratta di lavoratori in nero, non importa se in molti casi si tratta di lavoratori regolari che, perdendo il lavoro, “clandestini” lo diventano, non importa che le cose siano più complesse e che quasi tutto sia dovuto al solerte impegno di molti italiani e di molte leggi che fanno di tutto per tenerli nelle condizioni di “clandestinità”. Gli stranieri «sono troppi» (anche se nessuno sa bene quanti), e le ronde «ci vogliono» (anche se sono del tutto inutili), e i barconi «vanno respinti» (anche se quasi tutti arrivano con il visto turistico per altre vie). Un altro punto di vista è necessario e urgente: perché arrivino anche al bar, provenendo dalla rete, dove questa iniziativa nasce, grazie all’intuizione di un mio omonimo, Andrea Civati (Varese), e al lavoro di Ernesto Ruffini (a Roma), Ilda Curti e Roberto Tricarico (a Torino), Carlo Monguzzi (in Lombardia). Ecco il famoso radicamento nel territorio. Che non è piantare bandiere per le strade, come si sente spesso ripetere, ma saperle “piantare” nella testa delle persone, come voleva un esperto di marketing, un secolo e mezzo fa. Si chiamava Friedrich Engels. ❖

l’Unità 3.2.10
Radu Mihaileanu
«L’Italia? Cacciando i rom ha violato Schengen»
di Monica Capuani

Cinema Parla il regista del film Il concerto, una favola dolce-amara sul comunismo e sull’individualismo che consuma tutto l’Occidente «Gli zingari non sono perfetti, ma adoro la loro follia. Sono meravigliosi»

È un uomo alto, folti ricci scuri e un’aria molto seria, Radu Mihaileanu. Quando mi affaccio al caffè La Place Verte, a rue Oberkampf, a Parigi, dove mi ha dato appuntamento, lui è già seduto, al telefono. Lo spio da fuori, mentre termina la conversazione. Mi viene in mente Alexandru, l’adorato figlio «americano» della coppia di ingegneri rumeni di Ai miei non piaci molto, lo sai di Catherine Cusset, che qui ha vinto il premio Goncourt des Lycéens, appena uscito da Einaudi. In Italia la gente dovrebbe leggerlo. Per farsi un’idea un po’ diversa dei rumeni. E dovrebbe vedere anche Radu Mihaileanu, e soprattutto guardare i suoi film. Il concerto (che esce venerdì in Italia) come del resto Train de vie, che gli ha dato notorietà internazionale, e Vai e vivrai qui ha avuto un enorme successo. È una favola dolce-amara sul comunismo, sull’arte, sulla forza degli ideali, sull’individualismo che ormai consuma tutta la civiltà occidentale, paesi dell’Est in testa. Un’orchestra stroncata trent’anni prima dalla mano di Breznev si riunisce per sostituirsi a quella del Bolshoi e fare un concerto a Parigi. Situazioni esilaranti, attori russi incomparabili, la giovane star francese Mélanie Laurent, consacrata da Inglorious Basterds di Tarantino, e una riflessione acuta sui nostri tempi.
In questo film, più che negli altri, lei sembra fare ironicamente i conti con il suo passato est-europeo... «Sì, è soprattutto Ivan, il funzionario comunista che si improvvisa manager dell’orchestra, il personaggio che mi ha consentito di rievocare con tenerezza e ironia quello che ho vissuto sotto il regime di Ceauescu, una storia comune a tutto il blocco comunista, anche se la Romania era abbastanza indipendente. Nel Kgb, nella Securitate, nella Stasi, c’erano persone che non sempre erano dei mostri. C’era anche chi conservava la propria umanità e una certa capacità di commozione, a dispetto dell’abbrutimento imposto dalla macchina infernale e assurda della dittatura. Ivan nel film ha l’occasione di tornare un uomo, pur restando nella sincera convinzione che il comunismo è l’unico strumento di salvezza del mondo e che in Francia può tornare a vincere le elezioni».
La scelta degli attori russi è straordinaria. Come li ha trovati? «Volevamo delle star, perché era importante portare i russi al cinema a vedere questo film. Un mio assistente è andato a Mosca e ha selezionato una cinquantina di attori con un ca-
sting russo: tutti sostenevano di essere la più grande star del paese. Mi sono subito innamorato dei tre protagonisti: Aleksej Guskov era toccante, Valerij Barinov divertentissimo, Dmitri Nazarov grosso e tenero. Tutti gli attori russi fanno anche teatro, è una grande scuola».
E la scelta di Mélanie Laurent?
«Per la prima volta ho scritto un ruolo pensando a un’attrice, cosa che non mi succede mai. Dopo una serie di vicissitudini, il ruolo è arrivato davvero a lei, che era la scelta giusta. Al-
l’inizio doveva essere fredda, quasi antipatica, poi lasciare intravedere una ferita, fino a far culminare la sua emotività nel concerto. Le grandi star della musica sono persone tagliate fuori dal mondo, che vivono come in una bolla. Non hanno avuto un’infanzia, e questo li rende diversi, lontani. Ann-Marie è tipica di questo mondo. Ma poi doveva succedere che la sua tristezza esplodesse quando comincia ad accostarsi all’armonia di Caikovskij».
Anche qui c’è un grande omaggio agli zingari, come spesso suoi film...
«Sono cresciuto con loro. Abitavo a Bucarest, ma trascorrevo le vacanze in un paese a cento chilometri a nord, dove ce n’erano molti. Anche lì si diceva di fare attenzione, perché rubavano i bambini, ma io sono diventato loro amico. Non sono perfetti, ma adoro la loro libertà, la loro follia. È un popolo meraviglioso. In Italia, avete un problema con gli zingari e per esteso con i rumeni, credete che siano tutti uguali, tutti delinquenti, ma le mafie sono dappertutto, non bisogna generalizzare. C’è un grande problema di incomprensione politica e l’Italia cacciando gli zingari ha violato il patto di Schengen». Lei ha studiato cinema in Francia. Come mai ha scelto proprio quel paese? «È stata una scelta naturale. Mio padre era francofono, era giornalista e scrittore e aveva tradotto molti autori francesi, come André Malraux, del quale era anche molto amico, ma anche Mauriac e Sartre. Parigi era il sogno. Io approfittai di un accordo tra Romania e Israele, che consentiva agli ebrei rumeni di visitare il paese e a un numero esiguo di emigrarvi. Chiesi di andare a trovare mio nonno. Ma sapevo che da Israele sarei partito per la Francia senza più tornare».
Come ha avuto accesso al mondo del cinema? «Avevo finito la scuola di cinema, non avevo più una borsa di studio né un lavoro. Il produttore di I love you di Marco Ferreri mi chiamò e mi chiese se avessi la macchina. Ne avevo una tutta scassata, ma mi prese come autista di Marco. Lui era sempre nervoso, capii con lui non bisognava sbagliare altrimenti mi avrebbe licenziato e non potevo permettermelo. Era il 1984. La sera, con mia moglie, studiavamo il tragitto in cui ci sarebbero stati meno semafori, meno traffico, meno sensi unici, qualche scorciatoia segreta. Se ci mettevo di più, Marco si irritava. Il primo giorno mi fece fermare per comprare le sigarette. Il giorno dopo, quando mi chiese di andare dal tabaccaio, tirai fuori una stecca. Poco a poco cominciai a piacergli. Cominciò a parlarmi del film e a consultarsi con me invece che con il suo aiuto regista. Alla fine di I love you ero il suo aiuto, il suo direttore di produzione e il suo autista, e lo sono rimasto sempre. Ho dovuto imparare dalle sue scenate cosa fossero la luce, il suono, gli accessori, la scenografia. Dovevo conoscere tutto per poter verificare. È stata una scuola incredibile».
È stato più facile trovare finanziamenti dopo il successo di «Train de vie«? «Train de vie ha avuto grandi difficoltà a trovare finanziamenti all’epoca, perché era la prima volta che si affrontava il tema dell’Olocausto con ironia. Il mio amico Roberto Benigni aveva letto la sceneggiatura, ma poi decise di fare un altro film. Pazienza. Nel ’96, qui in Francia, tutti mi dicevano no. Ma io sono ebreo, mio padre era stato deportato, e so che la tradizione yiddish fa dell’ironia su tutto. L’umorismo per noi è parte della tragedia. Una volta realizzato il film, però, il successo ha fatto sì che poi fosse più facile per me trovare i soldi per farne altri. Il concerto è stato un po’ più complicato, perché il budget era il doppio dei miei standard. Ma il successo in Francia lo ha già molto premiato».
Dove fu deportato suo padre?
«Trascorse sei mesi in un campo di lavoro in Romania. Dalla Transilvania, i rumeni venivano deportati ad Auschwiz, come Elie Wiesel. Dalla Moldavia, si veniva deportati in Ucraina. Mio padre venne convocato in un campo di lavoro, dove contrasse la polmonite perché durante l’inverno i prigionieri indossavano divise estive con temperature che arrivavano a -20. Lo ricoverarono in ospedale e di lì evase. Poiché era comunista, il partito gli procurò documenti d’identità falsi. Si chiamava Mordechai Bochmann e cambiò nome in Ion Mihaileanu per poter andare a lavorare al giornale, sempre terrorizzato che i nazisti gli facessero abbassare i pantaloni scoprendo che era circonciso. Poi conservò il nome falso per paura di Stalin. È stato per vent’anni direttore aggiunto de Il Contemporaneo, la più grande rivista culturale rumena. Il giornale lo faceva lui, ma era ebreo e non ha mai potuto dirigerlo». ❖

il Fatto 3.2.10
Fiat: Casa Pound scavalca i sindacati
Striscioni del gruppo di destra davanti alle fabbriche. Oggi lo sciopero
di Stefano Caselli

E’ accaduto in tutta Italia nella notte fra lunedì e martedì, ma vederlo a Torino, di fronte ai santuari della Casa madre, fa un certo effetto. Non certo perché striscioni appesi all’ingresso principale di Mirafiori in corso Agnelli, o del Lingotto in via Nizza, siano una novità. Più che altro è la firma accanto a quel “La Fiat odia l’Italia” issato sui cancelli a incuriosire: “Casa Pound Italia”, network sociale di estrema destra, che – partito da Roma – ha oggi sedi un po’ dappertutto.
Scavalcati a sinistra
Passi per la timidezza del Partito democratico di fronte all’annuncio della cassa integrazione e della chiusura di Termini Imerese e Pomigliano d’Arco, ma se anche sul piano dell’antagonismo sociale si supera a destra, allora piove davvero all’insù: “La nostra è una provocazione – dichiara Marco Racca, responsabile piemontese di Casa Pound – ma con un obiettivo preciso. Che la Fiat decida di chiudere due stabilimenti in Italia lasciando a terra 30 mila persone è il frutto naturale di una politica di delocalizzazione attuata contro la classe lavoratrice italiana. Perché la Fiat non è più un’azienda italiana, continua a produrre all’estero con manodopera a basso costo nonostante gli ingenti contributi statali, a partire dagli incentivi alla rottamazione, che ha sempre ricevuto. La verità è che se ne fregano”. La soluzione? “Che fallisca pure”, recita il volantino distribuito di fronte a oltre 40 concessionarie in tutta Italia: “Con i soldi risparmiati tagliando le sovvenzioni – continua Racca – possiamo creare un’industria dell’automobile italiana al cento per cento. Un governo forte dovrebbe agire in questo senso. E invece le domande che sentiamo dai politici, di destra e di sinistra, sono sempre del tipo ‘cosa possiamo fare per salvare la Fiat?’. Adesso basta, che fallisca. La Fiat è contro l’Italia e noi siamo contro la Fiat, un’azienda da sempre a metà tra privato e pubblico, ma nella cui proprietà lo Stato non è mai voluto, o potuto, entrare”. Che fare degli stabilimenti destinati alla chiusura? “Siano sequestrati, nazionalizzati e affidati a Finmeccanica e Fincantieri”.
SINTONIE. Se la soluzione finale rischia di apparire un po’ velleitaria, è pur vero che le critiche di Casa Pound alla politica Fiat, che produce in casa meno di un terzo delle vetture che vende in Italia, su alcuni punti non sono così dissimili da quelle dei sindacati: “Il fatto si commenta da sé – commenta Giorgio Airaudo, segretario provinciale della Fiom torinese – anche loro si sono accorti di quello che la Fiat sta facendo da 15 anni. Non è certo una novità ed è evidente che i ragazzi di Casa Pound ne approfittino per farsi un po’ di pubblicità. La soluzione ‘che fallisca’, però, è delirante. Un discorso del genere poteva avere senso nei decenni passati, quando si davano contributi a pioggia senza contropartite. Oggi è inutile recriminare su quanto si è dato alla Fiat ieri, il punto decisivo è capire come impegnare la Fiat domani. Il governo dovrebbe incalzare la Fiat, chiedere quale sia la sua idea di sviluppo, condizionarla a mettere in campo le risorse, di cui peraltro dispone, per un vero progetto di sviluppo dell’autoveicolo. Nel caso in cui si intavolasse una trattativa seria e ci fosse la necessità di mobilitare risorse pubbliche, che queste vengano poi restituite ai cittadini. Non è fantascienza, è quanto accade negli Stati Uniti dopo il maxiprestito di Obama per Chrysler. Questa sì che sarebbe una straordinaria novità”. Osservazioni che non fanno breccia in Casa Pound: “Fanno ridere le critiche di sindacati che – replica Racca – hanno sempre meno seguito. Io lo so, ho lavorato in fabbrica. I lavoratori li hanno abbandonati, sanno bene che certe scelte dell’azienda vengono prese anche grazie ad accordi sottobanco con questi signori”. Oggi i lavoratori della Fiat si fermeranno per quatto ore in tutti gli stabilimenti del Gruppo. Uno sciopero proclamato unitariamente dai sindacati dei metalmeccanici Fim-Cisl, Fiom-Cgil, Uilm-Uil, Fismic in vista dei prossimi incontri col governo e con la Fiat sul futuro di Termini Imerese.

il Fatto 3.2.10
I veleni di “Piombo fuso” contaminano terra e uomini di Gaza
di Stefania Pavone

Il suolo di Gaza esala veleno. Le armi non convenzionali usate da Tsahal durante la campagna di “Piombo Fuso” un anno fa hanno impastato il terreno della Striscia con una quantità impressionante di metalli cancerogeni, con effetti sulla salute degli abitanti. Cadmio, mercurio, molibdeno e cobalto si annidano nelle pieghe del terreno di Gaza City. Leucemie, problemi di fertilità, malformazioni nei neonati e patologie di origine genetica sono alcune delle malattie che rischiano di marchiare a fuoco il futuro della salute della popolazione della Striscia. È quanto emerge dallo studio di un comitato di scienziati indipendenti con sede in Italia (il New Weapons Research Group) che indaga sull’impiego di armi non convenzionali nei conflitti del nuovo secolo e sugli effetti di medio
periodo nelle aree in cui questi vengono utilizzati. Sono quattro i crateri analizzati dagli scienziati, formatisi a seguito delle esplosioni di bombe durante la campagna di Piombo Fuso: due nella città di Beit Hanoun, uno nel campo profughi di Jabalia ed, infine a Tufah, sobborgo di Gaza City. A Beit Hanuon sono state rilevate quantità consistenti di tungsteno e mercurio: altamente cancerogeni. La deflagrazione di una bomba ha contaminato acque e terreno. E poi: il molibdeno, presente in grosse quantità in tutti i crateri, è risultato tossico per gli spermatozoi. Cadmio nel cratere di Tufah: anch’esso cancerogeno. E ancora: cobalto, manganese, zinco, stronzio, tutti materiali con effetti devastanti per il corpo umano. Se si pensava che l’immagine dell’orrore della guerra a Gaza fosse incarnato solo da quelle lingue di luce emanate dalle bombe al fosforo bianco, ci si è in parte sbagliati. Gli scienziati del New Weapons Group hanno analizzato la composizione di una polvere residua di una bomba esplosa presso l’ospedale di Al Wafa: oltre al fosforo, altri metalli altrettanto pericolosi impastano il terreno contaminandolo, come molibdeno e tungsteno. Perché, dunque, tutto questo? Una prima risposta è quella fornita dalle accuse di crimini di guerra contro i civili del rapporto Goldstone, il giudice ebreo che ha compilato per l’Onu un dettagliato resoconto su Piombo Fuso. Ma una seconda risposta la fornisce Paola Manduca, ordinaria di Genetica presso l’Università di Genova e portavoce del gruppo internazionale degli scienziati. Che afferma: “Auspichiamo che le indagini fino a ora svolte dalla Commissione Goldstone, voluta dalle Nazioni Unite vadano oltre il rispetto dei diritti umani e prendano in considerazione gli effetti sull’ambiente provocati dall’uso di varie tipologie di bombe e le ricadute sulla popolazione nel tempo. Una rapida raccolta di dati può essere realizzata secondo modalità che si possono descrivere agevolmente e programmare”. E mentre a Gaza City il veleno avvolge un’intera popolazione, nei campi profughi le precarie condizioni di vita fanno da veicolo alle peggiori malattie attraverso la cute e gli alimenti. Cosa potrebbe fare la scienza per evitare il peggio? Dice ancora la Manduca: “Le persone possono essere curate con farmaci che costano poco ma che non entrano a Gaza, mentre per i territori e gli animali il discorso è più complesso, c’è il rischio che si possa fare molto poco, nell’area mediorientale in molti territori non si può fare più nulla. Nelle guerre contemporanee sono state usate armi formate da una serie di componenti chimici altamente tossici, che rimangono nei territori. Il mercato delle armi è il più florido di cui l’Occidente disponga”. Intanto l’ospedale Ash Shifa ha sfornato la prima mostruosità di Piombo Fuso. Si tratta di un bambino soprannominato “baby gorilla” per via del naso schiacciato, dell’incarnato rosso bruno, degli arti accorciati e delle dita dei piedi incurvate verso l’interno, proprio come i gorilla. Il neonato è stato rifiutato dai genitori. Sembra che, nel corso del 2009, i casi di bambini malformati siano saliti a 50. Per i medici, il colpevole numero uno si chiama a chiare lettere fosforo bianco. E mentre questo accade a Gaza City, in una quotidiana guerra per la sopravvivenza e nel disinteresse della comunità internazionale, nel cielo della Striscia i bambini non fanno volare più gli aquiloni.

l’Unità 3.2.10
Mousavi: oggi dittatura in Iran come sotto lo Shah
di Gabriel Bertinetto

Annunciata in Iran la prossima impiccagione di altri 9 oppositori. Il leader dell’«onda verde» Mousavi esorta i seguaci a celebrare con pacifiche proteste il ventesimo anniversario della rivoluzione, l’11 febbraio.

Sarà contento l’ayatollah Ahmad Jannati, che venerdì scorso aveva sollecitato i magistrati ad ordinare l’esecuzione di nuove condanne a morte. Un alto funzionario del potere giudiziario di Teheran, Ebrahim Raisi, ha annunciato che «altre nove persone saranno presto impiccate», oltre ai due presunti affiliati ad un’organizzazione monarchica saliti sul patibolo sei giorni fa. Gli uni e gli altri, secondo Raisi, «avevano legami con correnti antirivoluzionarie e furono arrestati per avere preso parte alla rivolta per rovesciare il sistema».
CELEBRAZIONI NON RITUALI
Le autorità di Teheran intensificano la repressione, e non si fanno scrupolo di mostrare tutta la brutalità di cui sono capaci. Non a caso ciò avviene mentre si avvicina l’11 febbraio, anniversario della rivoluzione khomeinista.
Quella che a lungo è stata una ricorrenza festeggiata in maniera rituale, diventa quest’anno occasione di scontro politico acceso. Sia il governo che i suoi avversari si apprestano a celebrarla, rivendicando a sé l’osservanza degli ideali libertari che accompagnarono il rovesciamento dello shah, e scaricando sugli altri l’onta di averli traditi.
Mirhossein Mousavi, leader del movimento che denuncia come fraudolenta la rielezione di Mahmoud Ahmadinejad alla presidenza il 12 giugno scorso, si è rivolto ieri ai seguaci, invitandoli a manifestare pacificamente l’11 febbraio a sostegno della democrazia. Senza giri di frase, ha esplicitamente accusato il sistema istituzionale iraniano di incoerenza con i valori originari.
Sul sito online Kalemeh è stata diffusa una dichiarazione in cui Mousavi indica nelle impiccagioni, incarcerazioni, torture, uccisioni dei dimostranti, la prova che la rivoluzione del 1979 «non ha raggiunto i suoi obiettivi». Anzi, il Paese vive tuttora in condizioni di tirannia. «Riempiendo le prigioni e assassinando ferocemente i manifestanti, si dimostra che la radice della dittatura dell’era monarchica non è stata estirpata».
Mai forse sinora il capo dell’opposizione aveva usato un linguaggio altrettanto duro, mettendo in discussione non alcuni aspetti dell’azione di governo, ma la natura stessa della teocrazia iraniana. «Un dispotismo esercitato in nome della religione è il peggiore dei dispotismi», ha aggiunto Mousavi. E ancora: «Nei primi anni dopo la rivoluzione c’era la convinzione che fossero state eliminate le strutture che possono portare alla dittatura. Anch’io ne ero convinto, ma ora non lo credo più». Mousavi è stato a suo tempo una delle figure chiave del regime, avendo esercitato la carica di premier dal 1981 al 1988 nel pieno della guerra con l’Iraq di Saddam.
I PASDARAN MINACCIANO
Sia Mousavi sia l’altro dirigente riformatore Mehdi Karroubi esortano i concittadini a mobilitarsi per i raduni che l’opposizione prepara in vista dell’11 febbraio. «Il movimento verde (il colore dell’organizzazione pro-Mousavi) non abbandonerà la sua lotta non violenta fino a quando i diritti del popolo non saranno garantiti continua l’appello diffuso su Kalemeh -. Protestare pacificamente è uno di questi diritti».
Il trentunesimo anniversario del trionfo khomeinista rischia di trasformarsi in una nuova giornata di violenze. Khamenei, Ahmadinejad e soci manderanno in piazza i loro fedelissimi e soprattutto sguinzaglieranno sbirri e miliziani integralisti.
La parola d’ordine delle autorità integraliste è impedire i raduni dei democratici. Un ufficiale dei Pasdaran, Hossein Hamedani, è stato sinistramente minaccioso: «A nessuna condizione lasceremo che il movimento verde si mostri in giro. Sarebbe affrontato da noi con fermezza».❖

l’Unità 3.2.10
Firenze
Middle East Now

FIRENZE Prende il via oggi la prima edizione di “Film Middle East Now”, il festival italiano dedicato al Medio Oriente e in programma fino al 7 tra Odeon e Stensen. La pellicola
mento con Eugenio Allegri, Laura Curino e compagnia è al Teatro Mestastasio, da stasera a domenica (feriali ore 21, festivi ore 16, info 0574/608501).
d’apertura (ore 21, cinema Odeon in piazza Strozzi, ingresso a 5 euro) è “About Elly”, il film del regista iraniano Asghar Faradhi, vincitore dell’orso d’argento all’ultimo Festival di Berlino.

l’Unità 3.2.10
Addio manicomi Ecco dove germogliano i semi di Basaglia
di Cristiana Pulcinelli

Tendenze In Italia torna il vento della «psichiatria della sicurezza», all’estero ci si ispira alla legge 180
p L’eredità Gli esempi del Brasile, ma anche dell’Inghilterra, dell’Islanda, dei Balcani: il modello Basaglia

A quasi trent’anni dalla morte di Basaglia, si torna a parlare in Italia, ma non solo di psichiatria della sicurezza. Ma in altri paesi la legge 180 ha lasciato segni profondi: il Brasile di Lula, per esempio...

Trent’anni fa il Brasile aveva un enorme numero di pazienti psichiatrici chiusi in manicomi privati per venti, trent’anni della loro vita. Lo stato pagava le rette e quindi la psichiatria nel paese era un grande business. Nel 1979 Franco Basaglia tiene una serie di seminari nel paese raccontando l’esperienza italiana di superamento del manicomio con l’apertura delle strutture e la restituzione dei diritti al malato. Nel paese c’era ancora la dittatura militare e i seminari di Basaglia incontrano una diffusa voglia di libertà: partecipano centinaia di operatori, psichiatri, intellettuali. La luta antimanicomial del Brasile comincia da lì. Negli anni «fermenta»: già con il governo precedente a quello attuale comincia un processo di riforma. I contatti con gli psichiatri di Trieste sono costanti: Franco Rotelli, che andò a dirigere il manicomio di Trieste al posto di Basaglia nel 1979 e che lo chiuse definitivamente un anno dopo, va spesso in Brasile. Nasce un enorme movimento di utenti. I risultati: i posti letto in psichiatria diminuiscono del 40%, in 15 anni i centri territoriali aumentano del 70%. Oggi il Brasile di Lula ha ridotto drasticamente i grandi ospedali psichiatrici, talvolta li ha chiusi definitivamente. Ha creato 2000 servizi territoriali e ha esperienze di punta a Santos, San Paulo, Bel Orizonte, nel Minas Gerais. I semi di Trieste nel mondo stanno germogliando? «Trieste è un modello di riferimento per l’Oms –commenta Franco Rotelli Il superamento degli ospedali psichiatrici e l’utilizzo di servizi decentrati ormai è un dato acquisito, ma poi esistono realtà molto diverse fra loro. La frammentazione delle pratiche e delle teoche sia difficile disegnare una mappa, sia mondiale che italiana». Esperienze avanzate nel mondo ce ne sono molte: in Nuova Zelanda e in Australia, ad esempio.
DA TRIESTE AL MONDO
Alcune fanno riferimento esplicito al modello triestino: in Brasile, in Argentina, in Islanda, nei Balcani, dove si parte da situazioni molto arretrate, ma dove si stanno verificando importanti cambiamenti. E in alcune zone dell’Inghilterra, come racconta John Jenkins che oggi dirige la International Mental Health Collaborating Network, una Ong che aiuta i paesi che vogliono aprire servizi di salute mentale centrati sulla comunità: «Sono diventato direttore di un grande ospedale psichiatrico nel 1976. L’anno successivo, ispirati in parte dal lavoro di Trieste, decidemmo di aprire i servizi di salute mentale di comunità che avrebbero rimpiazzato l’ospedale. Così avvenne: l’ospedale fu chiuso nel 1985. Da allora, il governo inglese ha appoggiato questa politica e i molti altri manicomi sono stati chiusi».
E l’Italia? «Non esiste il disastro italiano di cui talvolta si sente parlare – dice Peppe Dell’Acqua, direttore del dipartimento di salute mentale di Trieste Pensiamo solo alla zona di Aversa: fa riflettere che nella patria dei casalesi ci siano 5 centri di salute mentale aperti 24 ore al giorno per 7 giorni su 7». I protagonisti di queste esperienze, italiane e straniere, saranno a Trieste dal 9 al 13 febbraio per l’incontro «Che cos’è salute mentale?», fortemente voluto da Dell’Acqua: «Usciamo da un periodo difficile, i segnali che arrivano sono quelli di un ritorno della psichiatria della sicurezza». Rotelli è d’accordo: «Sarkozy ha detto che bisogna qualificare gli ospedali psichiatrici. È l’esempio del vento che sta girando in Europa. Il paziente è considerato persona da tenere d’occhio perché rischiosa e quindi crescono i sistemi di controllo». Il mondo vastissimo di operatori, cooperatori, familiari, pazienti dice però cose diverse. È questo mondo che l’incontro di Trieste vuol mettere insieme. L’incontro triestino vuole essere anche la risposta al paradigma secondo cui «la malattia mentale è qualcosa che non funziona nel cervello. Qualcosa che i farmaci rimetteranno a posto». «Un paradigma vecchio – prosegue Dell’Acqua – che dietro ha strutture territoriali misere e psichiatri ridotti a prescrittori di farmaci». A questo “sé” neurochimico si contrappone un “sé” che si costruisce attraverso le relazioni tra le persone.❖

l’Unità 3.2.10
«Ma nel mondo l’85% dei malati non ha alcuna cura»
Il direttore del dipartimento salute mentale dell’Oms: «Quasi ovunque il comun denominatore è la discriminazione e l’assenza di ogni trattamento»
Intervista a Benedetto Saraceno di C. Pul.

Il direttore del dipartimento salute mentale dell’Oms: «Quasi ovunque il comun denominatore è la discriminazione e l’assenza di ogni trattamento»

Si calcola che nel mondo 450 milioni di persone abbiano un problema importante di salute mentale. La maggior parte di essi vive in paesi poverissimi: «Ci sono stati come il Mozambico dove c’è uno psichiatra per tutto il paese e alcuni villaggi distano venti ore di autobus dal primo servizio medico», racconta Benedetto Saraceno, direttore del dipartimento salute mentale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Cosa si può fare per ridurre il disagio di queste persone? «Il problema principale che ci troviamo di fronte come Oms è che l’85% delle persone che hanno una malattia mentale non riceverà alcun tipo di trattamento nel corso della sua vita, non incontrerà mai uno psichiatra e molto probabilmente neppure un medico generico. Questo vuol dire che l’85% delle persone con psicosi sarà emarginata, spesso reclusa in casa o esposta a drammatiche discriminazioni o violenze. L’85% delle donne con una depressione grave post parto se la terrà e il 90% delle persone con epilessia non riceverà alcun trattamento. La politica dell’Oms in primo luogo è quella di diminuire un po’ il gap tra chi ha accesso alle cure e chi non ce l’ha».
Ma quel 15% che riceve una risposta, che risposta riceve? «L’80%di quel 15% viene mal curato in ospedali psichiatrici che spesso sembrano campi di concentramento. In alcuni casi ci si domanda se non è meglio che stiano per strada piuttosto che in mano a una psichiatria che viola i loro diritti umani e li sequestra. Noi che ci occupiamo di salute mentale abbiamo un doppio problema: stabilire l’accesso alle cure e modificare radicalmente la qualità della risposta».
Esiste un modello unico di salute mentale, nonostante le differenze tra i paesi? «Sì, perché alcuni dati sono costanti in tutto il mondo. Ad esempio, il fatto che le persone con malattia mentale sono stigmatizzate e discriminate. Oppure, la tendenza di una certa psichiatria a fornire un modello repressivo ed espulsivo è frequente sia nei paesi poveri sia in quelli ricchi. Così come esiste ovunque la necessità di decentrare i servizi psichiatrici. Non bisogna dimenticare che la malattia mentale è di lunga durata: vuol dire che i pazienti passano la maggior parte dei loro giorni fuori dall’ospedale. Quindi, dobbiamo fare i servizi fuori dall’ospedale. La psichiatria deve stare sul territorio perché lì c’è la domanda. Il bisogno delle persone non è solo bisogno di farmaco, ma anche di lavoro, casa, affettività e sessualità». La riforma italiana è un modello? «L’Oms guarda alla riforma dei servizi di salute mentale italiana con estremo interesse. Sono pochi i paesi che possono essere presi a modello: oltre all’Italia, il Brasile, alcune esperienze spagnole e inglesi. Ma ci sono esperienze diverse che sono degne di attenzione. Ad esempio lo Sri Lanka, dove i manicomi sono stati ridotti grazie ai fondi stanziati per lo tsunami e utilizzati in parte per una riforma dell’assistenza psichiatrica in tutto il paese».❖