venerdì 5 febbraio 2010

Repubblica 25.1.10
Piccoli sogni crescono assenti nei bimbi si formano con l´età
Scoperta in Usa: la vera attività onirica inizia a 5 anni
Solo nel 20% dei piccoli il sonno è animato da qualche scena. Quasi mai d´azione. Le prime storie interessanti arrivano dopo
di Elena Dusi

ROMA - Anche a sognare si impara. Le trame piene di azioni ed emozioni non sono affare da bambini ma si costruiscono solo crescendo. Nonostante quel che si immagina osservando le smorfie o i movimenti del corpo, le notti dei piccoli sono calme e placide come specchi d´acqua senza vento. E ai genitori svegliati da pianti o resoconti di incubi i neuroscienziati spiegano che non dal sonno quelle paure scaturiscono, ma da stati incompleti di veglia in cui i piccoli si ritrovano confusi e disorientati.
Allo sviluppo dell´attività onirica nei bambini dedicano un capitolo Giulio Tononi e Yuval Nir, del dipartimento di psichiatria dell´università del Wisconsin a Madison, in uno studio più generale sulla natura dei sogni pubblicato dalla rivista Trends in cognitive sciences. Prima di elaborare scene ricche di movimenti, colori, interazioni ed emozioni, secondo i ricercatori, un bambino deve aver sviluppato le proprie capacità cognitive e arricchito la propria immaginazione. E questo avverrebbe attorno ai 7 anni di età.
Il pioniere degli studi sui sogni nell´infanzia fu lo psicologo americano David Foulkes che con infinita pazienza passò gli anni ´80 e ´90 a svegliare bimbi in piena notte nel suo laboratorio per farsi raccontare tra uno stropicciamento di occhi e un mugugno cosa stavano sognando. Fu lui il primo a stupirsi del fatto che, mentre gli adulti hanno quasi sempre una scena bizzarra da ricordare se svegliati durante la fase Rem (quella in cui si concentra l´attività onirica), solo il 20 per cento dei bambini riferiva di aver avuto un sogno in corso fino a un attimo prima.
«La natura statica dei sogni prima dell´età scolare - scrivono Tononi e Nir - si accorda con la difficoltà di pensare gli oggetti durante le rotazioni o le trasformazioni in genere» e con «lo sviluppo incompleto della facoltà di immaginazione, in particolare di quella visuale e spaziale». La mancanza di un vocabolario adatto a descrivere la bizzarria dei sogni o la scarsa voglia di collaborare con quel signore col camice bianco che li ha svegliati sul più bello del riposo non bastano a spiegare, secondo i ricercatori di Madison, perché i più piccoli non abbiano quasi mai sogni da raccontare.
I sogni piuttosto crescono insieme ai bambini. Fino a 5 anni le scene sono fisse e i protagonisti immobili. Nel sogno appare magari un animale, o si ha desiderio di mangiare. Le emozioni sono assenti, come pure le interazioni fra i personaggi. I ricordi delle giornate trascorse non bussano alle porte della notte e i bambini non riferiscono mai scene di aggressione, situazioni spiacevoli, paura o altre emozioni.
È a partire dai 5 anni che i sogni cominciano ad avere una trama, ancora molto banale. I protagonisti si muovono e scambiano qualche parola. Ma la frequenza degli episodi onirici è ancora bassa, lontana da quell´80-90 per cento registrata negli adulti svegliati durante il sonno Rem, anche fra coloro che sono convinti di non sognare mai semplicemente perché al mattino la memoria ha perso ogni traccia della movimentata vita notturna del cervello.
L´incapacità dei bambini di sognare scene complesse fa pensare a Tononi e Nir che neanche gli animali sappiano elaborare trame di caccia, corsa o avventurosi salti fra gli alberi. E che la loro attività onirica si limiti piuttosto a scene semplici e prive di azione. Nelle persone che hanno perso la vista invece (purché questo sia avvenuto dopo i 5-7 anni di età) le immagini e gli oggetti registrati durante l´infanzia tornano per tutte le notti della vita a riproporsi nella corteccia visiva, come se gli occhi non avessero perso la loro funzione.
I piccoli sognatori cominciano ad avere storie interessanti da raccontare a partire dai 7 anni. Ecco allora affacciarsi le emozioni nelle loro notti. I bambini in sogno si ritrovano a pensare, provano gioie o paure. Rivivono episodi avvenuti durante la giornata o ripescati dalla memoria autobiografica. E diventano finalmente protagonisti di trame sempre più colorate, complicate e - come in ogni sogno che si rispetti - bizzarre e divertentissime da raccontare.

Repubblica 25.1.10
Giulio Tononi, neuroscienziato dell´Università del Wisconsin
"Di notte il film d´un regista maldestro che ci saccheggia il fondo del cervello"
La corteccia cerebrale "suggerisce" un tema, per esempio la paura, e lì parte un’elaborazione piuttosto disorganizzata
di e. d.

ROMA - Dai tempi di Aristotele l´uomo scrive e si interroga sulla natura dei sogni. E per Giulio Tononi, neuroscienziato dell´università del Wisconsin, oggi disponiamo dei mezzi tecnici per svelare molti dei suoi misteri. «Mi occupo di sonno e di studi sulla coscienza» spiega. «E il sogno si trova esattamente all´incrocio fra questi due mondi».
Qual è il nesso fra sonno e coscienza?
«Prendiamo la fase del sonno a onde lente all´inizio della notte. Se qualcuno ci sveglia non abbiamo nulla da dire, da ricordare. Non c´eravamo, avevamo perso coscienza. Durante l´attività onirica invece, tipica ma non esclusiva del sonno Rem, il cervello genera un intero universo di esperienze coscienti. E tutto questo pur essendo disconnesso dalla realtà esterna».
Il cervello non risponde agli stimoli ma la coscienza funziona.
«Esatto, e ancora non sappiamo perché e in che modo questo avvenga. Abbiamo sperimentato che mantenendo le palpebre aperte in una persona che dorme e proiettando un film, le immagini vengono percepite dagli occhi e sono trasportate dai nervi ottici fino alla corteccia cerebrale. Ma lì si bloccano. Perché? Quale interruttore entra in funzione? È uno dei misteri più affascinanti del sonno, e speriamo di potervi rispondere presto».
L´altra domanda che affrontate è quale sia la sorgente dei sogni.
«Esistono due idee generali. La prima è che dalla parte profonda del cervello partano degli stimoli sensoriali piuttosto disordinati verso la corteccia, e che questa faccia il possibile per dare un´interpretazione a questi segnali. La seconda ipotesi, per la quale io propendo e che nasce dalle teorie di Freud, prevede che sia la corteccia a "suggerire" un tema che le sta molto a cuore. La paura, per esempio. E da lì un regista piuttosto disorganizzato cerchi di mettere insieme un film con gli elementi più disparati presi dalle aree profonde del cervello».

Repubblica Roma 6.2.10
Lazio, scoppia la battaglia del nucleare
Polverini: "Non possiamo tirarci indietro". Bonino: "Insostenibile rapporto costi-benefici"
Sfidanti contro all´indomani della bagarre scoppiata tra governo-regioni sui nuovi impianti
di Giovanna Vitale

Finora ha sempre preferito non rispondere. Se verrà eletta, autorizzerà la costruzioni di centrali atomiche nel Lazio? «Valuteremo», s´è limitata a scrivere due giorni fa sul suo blog. Ma lo scontro governo-regioni scatenato dal ricorso di Palazzo Chigi alla Consulta ha accelerato il processo di riflessione e costretto Renata Polverini a uscire allo scoperto.
Incalzata dall´avversaria che di buon mattino, su Radio Popolare, ha sfidato l´esecutivo («Il governo senza grandi consultazioni è tornato al nucleare. Ma vuol dire almeno ai cittadini dove vuol fare le centrali?», ha chiesto Bonino), la candidata del centrodestra ha provato a barcamenarsi. «Il governo ha preso una decisione: quella del nucleare è una battaglia che non si può combattere ideologicamente. D´altra parte il problema non si risolve spostando un impianto nella regione affianco». Tradotto: in quanto espressione della maggioranza che ha stabilito di resuscitare l´atomo, la segretaria Ugl non può certo opporsi; se le ordineranno di aprire nuove centrali nella regione, lei lo farà. Ma dietro di lei c´è l´incertezza di una coalizione divisa, a livello locale, tra pasdaran del nucleare (gli ex forzisti) e frenatori (una parte di An, in testa il deputato Fabio Rampelli).
Ben più netta la posizione del centrosinistra. Da tempi non sospetti Bonino sostiene che «il futuro della produzione di energia passa per le fonti rinnovabili» e che le centrali sono «insostenibili dal punto di vista costi-benefici». Tanto più che «il governo non ha il coraggio di dire dove le farà prima della campagna elettorale», ha constatato la leader radicale alludendo all´imbarazzante silenzio sulla localizzazione, necessario per non perdere voti. Un escamotage che però non inganna il Pd. «Votare Emma Bonino alla presidenza della regione equivale a dire "no" alle centrali nucleari nel Lazio e alla discarica di Roma nel comune di Allumiere», esorta infatti il presidente della Pisana, Bruno Astorre. Non è un mistero che «a Montalto di Castro, in provincia di Viterbo, ci sarà la centrale numero uno d´Italia, dove forse sono previsti addirittura due reattori», ha denunciato ieri il presidente dei Verdi Angelo Bonelli. «Il vero rischio è che il Lazio diventi la pattumiera radioattiva del Paese», ha insistito: «Dopo Montalto, come sito nucleare il governo ha preso anche in considerazione Borgo Sabotino, in provincia di Latina, mentre Garigliano, tra Latina e Caserta - dove già in passato tre incidenti hanno provocato danni alla salute della popolazione - potrebbe diventare il sito per il deposito nazionale delle scorie». E tutto questo «senza che dalla candidata Polverini arrivino parole chiare sulla questione». Eppure «la risposta è semplice: deve solo dire sì o no» ironizza amaro Enrico Fontana (SeL), «ci riuscirà prima delle elezioni?».

Repubblica Roma 6.2.10
Organizzato da Zingaretti. Api verso la Bonino. Montino capolista
E alla Casina Valadier va in scena l´"aperitivo per la candidata Emma"
di Valeria Forgnone

Posti in piedi per l´aperitivo organizzato da Nicola Zingaretti per Emma Bonino alla Casina Valadier. «È vero che il centrosinistra è arrivato a questa scelta sulla base di difficoltà oggettive», ha spiegato il leader del Pd, «ma è pure vero che Emma è diventata una grande opportunità», rappresenta una «garanzia» perché portatrice di «valori, competenza, capacità di indirizzo e visione del futuro» e «farà bene al centrosinistra e al tessuto imprenditoriale del Lazio». Tra la folla, tanti gli assessori, vecchi e nuovi, da Nieri a D´Alessandro; ecco Ascanio Celestini e Simona Marchini, poi il presidente di Federlazio Maurizio Flamminii e i grandi costruttori (Claudio Sette e Claudio Cerasi, Sandro e Luca Parnasi, l´editore Domenico Bonifaci e Vincenzo Bonifati). Ancora: il rettore Fabiani, Ciccuto dell´Istituto Luce, l´economista Paolo Guerrieri, Sabrina Florio di Anima, Di Berardino della Cgil. Bonino non si fa pregare. Sale sul palco e arringa: «Sarà bello vedere una città addobbata con la voglia di vincere, perché noi vogliamo vincere non solo partecipare, ma deve tornare la voglia di andare a votare», incalza. «Ognuno di noi deve ritrovare il coraggio di discutere di politica in strada, in ufficio, in famiglia, deve tornare la passione per la res publica, che ci rende cittadini consapevoli delle nostre idee e convinzioni». Deciso infine il capolista del Pd: Montino. A breve l´accordo con l´Api.

l’Unità 6.2.10
Eluana un anno dopo. Le bugie e i fatti
all’interno uno speciale di otto pagine con articoli di:
Vittorio Angiolini Carlo Alberto Defanti Ignazio Marino Mario Riccio Remo Bodei, e il racconto di Beppino «Per amore di mia figlia ho seguito la legge e in questo Paese di scorciatoie può dare fastidio». Le bugie e i fatti. Cancellato ogni dubbio: Eluana non poteva svegliarsi. Ma il suo caso divenne terreno di ipocrisie e menzogne

http://www.scribd.com/doc/26459197/inserto-Eluana

l’Unità 6.2.10
La scelta del Colle
Quel che ci ha insegnato il caso Eluana
di Maurizio Mori

Esattamente un anno fa, il 6 febbraio 2009, Eluana rimetteva in discussione delicati equilibri istituzionali dello Stato: il presidente della Repubblica, Napolitano, annunciava il rifiuto di firmare un eventuale decreto-legge «salva Eluana» fatto per annullare le sentenze legittime pronunciate dai massimi tribunali dello Stato, suscitando durissime reazioni da parte del capo del governo, Berlusconi. La tensione era altissima e le emozioni al massimo livello di intensità per lo scontro di due visioni del mondo: quella del rispetto della «legge scritta» che prevede il diritto delle persone di rifiutare terapie non volute, e quella che richiama una presunta «legge naturale» scritta nel cuore degli uomini che prevede invece il sostegno alla vita biologico.
Per alcuni quel vissuto così intenso è stato nocivo in quanto non ha consentito soluzioni mediate tese ad evitare lo scontro e la divisione pubblica. Si può altresì dire che quel lacerante coinvolgimento passionale era inevitabile perché ha segnato sul piano pubblico la svolta indicante il mutato atteggiamento delle persone sul proprio morire. È stato come una celebrazione che ha sigillato il nuovo imprinting pubblico sui temi del fine vita, con l’abbandono del vitalismo che privilegia la vita biologica per l’autonomia delle scelta ove la vita abbia perso il minimo di dignità.
La trasformazione di sentimenti così profondi e coinvolgenti è un processo graduale e sotterraneo come il cunicolo della talpa che poi, quando sbuca fuori, appare improvviso e sconvolge la tranquillità di superficie. Eluana ha posto solo il sigillo al cambiamento di paradigma e di atteggiamento sul fine vita e, lungi dall’essere troppo rigido, Beppino non ha fatto altro che lasciare briglia sciolta dando voce al «purosangue della libertà».
Eluana ha fatto emergere che la secolarizzazione ha già trasformato nel profondo i nostri paradigmi di vita e si richiedono norme adatte che regolino i nuovi stili esistenziali. Invece di proseguire la linea dei saggi magistrati che assecondano le nuove esigenze morali, ampliando le libertà individuali, il Palazzo sembra insistere nella direzione opposta cercando di frenare o di frenare l’ampliamento delle libertà.
Può darsi che nell’immediato l’operazione riesca, e che sia anche approvata una legge come quella attualmente in discussione alla Camera. Ma alla lunga (come già sta avvenendo con la legge 40/2004), simili leggi liberticide saranno smantellate perché incongrue con le esigenze profonde della gente, lasciando visibili i disastri causati da paradigmi valoriali ormai obsoleti come quello del vitalismo. ❖

Repubblica 6.2.10
L’ultima spallata alla legge 40 partono i ricorsi contro l’eterologa
Fecondazione, i giudici smantellano la legge
di Maria Novella De Luca Caterina Pasolini

Fecondazione libera. O quasi. Come accade nel resto del mondo. Per poter essere genitori. Per poter essere famiglia. Per amare e crescere un figlio. In Italia sta per partire un nuovo assalto alla legge 40 sulla "Procreazione medicalmente assistita", già smantellata, depotenziata e di fatto riscritta negli ultimi mesi a colpi di sentenze.

L´iniziativa di famiglie, avvocati e associazioni dopo la sentenza della Consulta che ha cancellato alcuni divieti
Se l´articolo 4 sarà riconosciuto incostituzionale di fatto sarà azzerata la normativa sulla procreazione assistita

Grazie alla tenacia, a volte alla disperazione, di decine di coppie, medici, avvocati e associazioni, i cui sforzi hanno portato alla recente e clamorosa sentenza della Corte Costituzionale, che ha cancellato alcuni dei divieti più severi della legge 40, dall´obbligo di impianto degli embrioni al loro congelamento, alla diagnosi genetica. Adesso quello stesso agguerritissimo pool si prepara a dimostrare l´incostituzionalità dell´articolo sulla fecondazione eterologa, il numero 4 della legge 40, il più difficile, il più controverso, quello che va a toccare il "nodo", anzi il tabù del "terzo elemento", che si inserisce nel meccanismo procreativo di una coppia. L´articolo quattro sancisce in Italia il divieto assoluto, punito con multe da trecento a seicentomila euro, di diventare genitori con l´ausilio del seme di un donatore o dell´ovocita di una donatrice. Ma se anche in questo caso, così come è avvenuto nell´aprile scorso, i giudici ritenessero incostituzionale la norma, la legge sulla procreazione medicalmente assistita sarebbe, di fatto, cancellata. Mettendo fine (forse) al turismo della provetta, alle migrazioni della fertilità, ai viaggi della speranza per avere un figlio. Per far tornare l´Italia nell´Europa della scienza e delle cure. Perché in cinque anni i divieti della legge 40 hanno obbligato quasi 50mila coppie ad emigrare in cerca di un figlio, con un business che ha portato milioni di euro nelle cliniche di tutta Europa.
L´annuncio è stato alcuni giorni fa. Riuniti in una sorta di conclave scientifico organizzato ad Acireale dal professor Nino Gugliemino, direttore del centro Hera, uno dei più famosi centri italiani di fecondazione assistita, e tra i più specializzati nella diagnosi pre-impianto, medici, avvocati e giuristi hanno messo a punto e svelato la loro "campagna di primavera". Dove verrà ripetuta quella sorta di class action promossa da un gruppo di pazienti, tutti affetti da serie patologie, che si sono visti negare l´accesso alla fecondazione eterologa. «Ogni giorno vedo coppie costrette ad andare all´estero. Donne in menopausa precoce, uomini che hanno combattuto e vinto il cancro, ma che le cure hanno reso sterili. Coppie discriminate perché chi ha i soldi può andare all´estero e tentare, diventare genitore con l´ausilio di seme od ovocita altrui. Chi non può affrontare le spese deve rinunciare. Al centro Hera di Catania vediamo 800 coppie l´anno, quando queste tecniche erano legali facevamo centinaia di fecondazioni eterologhe, soprattutto maschili. Quei bambini li ho visti crescere, sono amatissimi. Non si può continuare a pensare che essere genitori sia legato solo alla genetica, è un´assunzione di responsabilità, di amore».
È soltanto in Italia, infatti, che vige il divieto totale di fecondazione eterologa. In una situazione dove, nonostante la legge 40 sia ancora in vigore, dopo la sentenza della Corte Costituzionale in tutti i centri si è tornati ad eseguire le tecniche consentite fino al 2004, e poi vietate dalla nuova normativa. Tranne, naturalmente, la fecondazione eterologa. Ma alla fine di marzo l´avvocato Maria Paola Costantini, già autrice dei ricorsi che hanno portato alla clamorosa sentenza dell´aprile 2009, presenterà in 10 tribunali con l´ausilio di un pool di legali e l´appoggio di associazioni come Sos infertilità, i ricorsi di un gruppo di coppie affette da diverse patologie, che chiedono di poter effettuare questi tipo di fecondazione, unica speranza per alcune forme di sterilità, di malattie genetiche ed ereditarie.
«Sappiamo che non sarà una battaglia facile. Il tema della fecondazione eterologa fa paura a molti, evoca lo spettro di mamme nonne, o di altri eccessi. Invece no. Le cinque coppie per le quali presenteremo ricorso hanno malattie serie, documentate. E cercheremo di sostenere il nostro iter giuridico con convegni, dibattiti, per ampliare la cultura diffusa su questo tema». Sulla salute, anche psicologica, dei bambini nati con queste tecniche, ad esempio. «Per quanto riguarda l´incostituzionalità - spiega Maria Paola Costantini - le norme sulla fecondazione eterologa sono in contraddizione con l´articolo 3 della Costituzione, che sancisce il principio di uguaglianza. Tra coppie infertili che possono produrre gameti e sono ammesse alle cure. E quelle con una infertilità più grave, ma che paradossalmente sono escluse dalle terapie, proprio perché non hanno gameti... La legge viola poi anche il principio di "ragionevolezza" perché impone un divieto assoluto, invece di regolamentare il fenomeno». Ma ci sono altre difformità: come la negazione del diritto costituzionale di formarsi una famiglia. «Se poi pensiamo che la legge 40 - conclude Costantini - disciplina le eventuali conseguenze di una fecondazione eterologa, vietando il disconoscimento di paternità, è evidente che il legislatore ha messo in conto il turismo procreativo, ossia un intervento fatto all´estero. Un vero paradosso. E qui si profila un´altra discriminazione, di tipo economico».

Repubblica 6.2.10
E Vendola sceglie slogan in poesia per la campagna elettorale in Puglia

BARI - «Non si può scavare il fondo del più bel mare del mondo». Filastrocca per dire no alle piattaforme petrolifere al largo della costa pugliese. «Giù le mani dalla brocca: l´acqua è nostra, non si tocca!», a proposito dell´Acquedotto pugliese». Sono alcune delle rime scelte da Nichi Vendola per la sua campagna elettorale, le proposte e le cose fatte da governatore.

il Riformista 6.2.10
Vendola: «Io rivendico la poesia perché secondo me non è un reato introdurre l’elemento della poesia, dell’utopia, del sogno nella politica».

il Riformista 6.2.10
Scandalo nel miglior liceo di Berlino I gesuiti abusavano degli studenti
Canisius College. Qui si è formata l’élite del- la Germania. Negli anni 70 tre religiosi vi mal- trattavano sistematicamente i ragazzi. E ora che l’omertà è stata spezzata, lo scandalo si allarga rapidamente, scuotendo la Chiesa cattolica
di Alessandra De Ferrà

http://www.scribd.com/doc/26460687/il-Riformista-6-2-10-p12

Repubblica 6.2.10
Così l’economia è diventata una religione
Un saggio provocatorio di Latouche, teorico della "decrescita serena", per liberare il pianeta dalla dittatura del Pil che fagocita tutto
a cura di Francesca Bolino

Chi avrebbe il coraggio di esaltare le virtù della "decrescita" davanti agli operai di Termini Imerese o ai minatori dell´Alcoa? Non è un caso se l´ambientalismo più radicale ha successo nei ceti professionali medioalti; mentre le forze politiche legate a una visione "produttivista" – la Lega Nord in Italia o il Tea Party Movement della destra populista in America – fanno breccia in quel che resta della classe operaia. "Fermare lo sviluppo" diventa uno slogan quasi irreale quando lo sviluppo comunque non c´è più, nell´Europa di oggi stremata dalla disoccupazione. D´altra parte suona come un atteggiamento snobistico, da élite privilegiate, se viene brandito contro le aspirazioni di centinaia di milioni di cinesi e indiani: solo grazie alla continuazione del boom attuale in quell´area del mondo, potranno vedersi realizzate le loro aspettative di un tenore di vita appena decente. Eppure anche i fautori dello sviluppo-ad-ogni-costo ammutoliscono davanti agli scenari di una prolungata stagnazione. Al World Economic Forum di Davos, una settimana fa, il direttore del Fondo monetario internazionale ha annunciato dai 5 ai 7 anni di "lacrime e sangue" per l´intera Europa, alle prese con colossali deficit pubblici. Neppure i leader più demagogici in Occidente osano promettere che alla fine del tunnel tutto tornerà come prima. Non basta che Obama faccia la voce grossa coi cinesi perché d´incanto tornino a spuntare capannoni industriali in tutto il Midwest.
L´economista francese Serge Latouche è da anni il più autorevole critico dello sviluppo. Una delle sue opere di maggiore successo, uscita proprio mentre l´Occidente sprofondava nella più grave crisi degli ultimi settant´anni, si intitolava Breve trattato sulla decrescita serena (Bollati Boringhieri, 2008). Il rischio è che la decrescita si confonda con la recessione, tutt´altro che serena. Come conciliare la necessità di dare sbocchi professionali ai giovani, con un orizzonte di stagnazione, precariato, regresso del potere d´acquisto? Per evitare questa impasse, Latouche suggerisce un cambio di terminologia nel suo nuovo saggio L´invenzione dell´economia (Bollati Boringhieri, in uscita oggi). A scanso di equivoci, parliamo di "a-crescita" come si parla di ateismo. Perché proprio di questo si tratta, dice Latouche: «Uscire dalla religione della crescita». Una religione che esige dalle masse dei credenti una fede cieca, assoluta, irrazionale. Lo si capisce da un test logico elementare. Come conciliare l´idea di una crescita infinita, con le risorse naturali del pianeta che sono limitate? Latouche mette a nudo questo paradosso: con il tasso attuale di crescita della Cina (10% di aumento del Pil annuo, nei primi otto anni del XXI secolo), si ottiene una moltiplicazione di 736 volte in un secolo. Immaginiamo invece che la Repubblica Popolare si assesti su una velocità di sviluppo più moderata, per esempio quel 3,5% annuo che fu la media europea negli anni della ricostruzione post-bellica: si avrebbe pur sempre una moltiplicazione di 31 volte in un secolo. Chi può pensare che ci sia sul pianeta abbastanza petrolio, acqua da bere, ossigeno da respirare, per una Cina che produce e consuma trenta volte più di adesso?
La critica di Latouche va al cuore della scienza economica, che smonta e demistifica assegnandole una parabola storica ben precisa: è da Aristotele a Adam Smith che la visione economica si codifica e conquista un ruolo centrale, dominante, infine totalitario, nella civiltà occidentale (poi conquista via via tutte quelle altre zone del mondo che si sono modernizzate emulando i modelli dell´Occidente). Il marxismo in questo senso è una finta alternativa, un rovesciamento fallito, la sua prospettiva rimane la stessa: il produttivismo, l´idolatria dello sviluppo. «Viviamo ancora – scrive Latouche – in piena apoteosi dell´èra economica. Viviamo l´acme della onnimercificazione del mondo. L´economia non solo si è emancipata dalla politica e dalla morale, ma le ha letteralmente fagocitate. Occupa la totalità dello spazio. Il discorso pubblicitario, che invade tutto, diffonde la visione paneconomica e la spinge fino all´assurdo: pretendendo di dare un senso alla vita, ne rivela la mancanza di senso».
Pochi autori possono unire l´erudizione e la profondità analitica di Latouche, insieme con la sua capacità di attaccare alle radici venti secoli di pensiero occidentale: in passato proprio Karl Marx, e tra i contemporanei Giovanni Arrighi, si sono cimentati con operazioni così ambiziose. In questa sua ultima opera Latouche accetta anche qualche mediazione politica. Il suo orizzonte ultimo è una Utopia da terzo millennio, una società di abbondanza sulla base di quella che Ivan Illich chiamava la "sussistenza moderna", una sorta di neofrugalità appagata. Per arrivarci, Latouche è disposto a una transizione fatta di nuove regole e ibridazioni: «In questo senso le proposte concrete degli altermondialisti, dei sostenitori dell´economia solidale e del paradigma del dono, possono ricevere un appoggio incondizionato». In fondo c´è posto in questa visione anche per il progetto di Nicolas Sarkozy: abbandonare la "dittatura del Pil", fondando su altri parametri la misura del benessere sociale di una nazione.

l’Unità 6.2.10
Camus il primo uomo
Umanista controcorrente, seppe resistere all’”aria del tempo”: i ricordi di Jean Daniel
di Goffredo Fofi

Su Camus si è scritto molto nei mesi scorsi, in vista del cinquantesimo anniversario della sua morte, a soli 47 anni. Aveva avuto il Nobel per la letteratura tre anni prima, nel 1957, forse il più giovane tra gli insigniti da un premio che era ancora molto prestigioso. Benché la sua attività venisse stroncata dal mortale incidente del 1960, quanto ha scritto è bastato a farne uno dei pensatori più influenti del secolo scorso. E di oggi. Maestro per scrittori di mezzo mondo – innumerevoli, dalla Svezia di Dagerman al Giappone di Dazai, dall’Italia di Flaiano (Tempo di uccidere) alla stessa America di Faulkner, a tutta o quasi l’Europa dell’Est nei duri anni dello stalinismo – il segreto della sua durata è stato nel saper «resistere all’aria del tempo», nel non accettare le linee dominanti della cultura dei suoi anni in nome di un’onestà intellettuale innamorata della realtà, della verità. Jean Daniel, uno dei giornalisti francesi più importanti tra la guerra e oggi, fondatore del Nouvel Observateur, che gli fu vicino e amico sin dagli esordi perché anche lui nato e cresciuto come Camus nell’Algeria coloniale, ha scritto pochi anni fa questo aureo libro di ricordi e riflessioni su Camus, constando sintetizzando in questo modo l’itinerario camusiano: «Se si esclude il rifugio nella religione o la fuga nell’ideologia, rimangono l’imperativo della creazione felice e l’urgenza di una compassione attiva e sempre controllata». Camus si voleva «solitario e solidale» e ha ripetuto molto spesso quest’essenziale definizione del suo programma di vita e di pensiero, che parte dall’impossibilità di accettare i luoghi comuni e i grandi ricatti del suo tempo – e in sostanza le due grandi distinzioni, di ieri e non più di oggi, tra il modello statalista e quello occidentale, americano, basato sull’assoluto del mercato.
Si accusò Camus di non tener conto delle «leggi» della storia, gli uni irridendo la sua radicale critica del «comunismo reale» e gli altri quella, né più né meno, del sistema capitalista. Il suo amico-nemico Sartre sacrificò alla logica di «non mettere in crisi la classe operaia» occidentale e le sue prospettive di rivoluzione con la denuncia degli orrori del gulag, e ruppe con Camus (se fu Camus a rompere con lui, il discorso non cambia) perché Camus non accettò questo ricatto così come non accettò quelo della spirale di violenza algerina (e forse lo scritto più terribile di Sartre fu proprio la sua prefazione a I dannati della terra di Fanon, in cui, andando ben oltre Fanon, esaltava la necessità della violenza algerina su ogni piano, compreso quello psicologico e morale).
In sostanza, Camus ha sempre messo in discussione il rapporto tra fini e mezzi e considerato anzitutto la verità delle vittime, di qualunque parte esse fossero. Una prima rottura con il pensiero comune e «l’aria del tempo» Camus l’aveva affermata, guadagnandosi irrisioni e inimicizie, proprio quando tutti esultarono per l’atomica a Hiroshima vedendovi la data risolutrice della guerra mondiale. Se si usano le armi del nemico, si finisce per somigliargli, per diventare il nemico. «Io voglio lottare per la giustizia», ha scritto Camus, «non per la punizione degli uni e la vendetta degli altri». Quella giustizia, diceva Simone Weil così amata da Camus, che abbandona sempre il carro dei vincitori. Bisognava imparare a diffidare dei «giustizieri con le mani pulite». E anche da quella «pietà che induce a soccorrere le vittime preparandone l’asservimento», e che a me sembra fin troppo presente, oggi, nell’aria del nostro tempo.
L’OMAGGIO DI SARTRE
Ebbene, fu proprio Sartre, ricorda Daniel, a scrivere il necrologio dello scrittore più vicino al suo spirito: «Il suo umanesimo testardo, severo e puro, austero e sensuale, intraprendeva una lotta senza certezze contro i gravi e difformi eventi di questo tempo. E per converso, con la caparbietà dei suoi rifiuti, egli riaffermava, nel pieno della nostra epoca, contro i machiavellici, contro i vitelli d’oro del realismo, l’esistenza del fatto morale. Egli era, per così dire, quella incrollabile affermazione. Per poco che si leggesse o si pensasse, ci si imbatteva nei valori umani che teneva stretti in pugno: metteva in questione l’atto politico».
Metteva in questione l’atto politico, è forse qui la più scottante attualità del pensiero e dell’opera letteraria di Camus. Il libro di Daniel parla di molti aspetti dello scrittore e ricorda molte sue frasi esemplari, nella loro semplicità e immediatezza, ma non quella che a me sembra centrale, nella sua essenzialità: «Mi rivolto dunque siamo» (si veda la piccola antologia camusiana di Eleuthera che porta questo titolo, uscita due anni fa). Ricorda per esempio le sue parole d’ordine «giustizia, onore e felicità», vedendo l’originalità soprattutto della seconda e della terza, e commentando quest’ultima con la constatazione che «occorre amarsi un po’ e se possibile essere felici per amare gli altri», contro ogni logica di mortificazione. Parla diffusamente del lavoro giornalistico di Camus in pagine che dovrebbero servire di monito ai giornalisti di oggi. Insiste sull’idea camusiana di responsabilità («essere responsabile è in primo luogo partecipare») e sul dovere di non accettare lo stato delle cose presenti, di metterlo in discussione, di reagirvi («vivere è non rassegnarsi»), sul rifiuto di mentire e di mentirsi (citando Malraux: «essere un uomo è ridurre al massimo la propria parte di commedia»).
Di questo piccolo libro in cui il vecchio Daniel mette insieme ricordi e riflessioni e definisce, datandolo, un percorso tra i più necessari e affascinanti nella storia della società e della cultura del Novecento, voglio per finire ricordare l’aneddoto che egli racconta, e che mi pare vada collegato a una delle più scandalose frasi di Camus: «Noi siamo di quelli che non sopportano che si parli della miseria se non con cognizione di causa». Eccolo: «Un 14 luglio, doveva essere quello del 1951, Albert Camus, la madre (che era una domestica semianalfabeta, d’origine spagnola, per chi non lo ricordasse e non avesse letto Il primo uomo, il bellissimo libro postumo di Camus), alcuni amici e io, andammo in place Saint Sulpice dove si ballava. Stavamo seduti attorno a un tavolo e, come faceva di tanto in tanto, Camus si alzò per ballare con una delle donne che ci accompagnavano. Poi tornò vicino alla madre. Si sedette, si chinò verso di lei e, parlando molto forte per vincere la sua sordità e la musica e perché gli altri potessero sentire, disse: “Mamma, sono stato invitato all’Eliseo”. Lei si fece ripetere la frase almeno tre volte e soprattutto la parola “Eliseo”. Rimase silenziosa per qualche minuto. Poi chiese a suo figlio di stare a sentirla e gli disse a voce molto alta: “Non è cosa per noi. Non ci andare, figlio mio, non ti fidare. Non è cosa per noi”. Camus ci guardò. Non disse niente, ma mi sembrò che fosse fiero di sua madre. Comunque sia, non è mai andato all’Eliseo» (p.154).

il Fatto 6.2.10
L’India che rinuncia al Nirvana
Oltre centomila suicidi all’anno, in aumento costante da un ventennio
di Alessandro Cisilin

Ma come, l’India non è il paese in cui tutti sorridono e la vita si accetta con filosofia,
anche quando è colma di miseria? Le recenti cronache dei suicidi in India mettono a repentaglio i preconcetti fricchettoni che avvolgono il subcontinente sin dall’epoca coloniale.
Il tema è stato rilanciato nei giorni scorsi dal caso di un’undicenne di Mumbai, recente protagonista di un reality televisivo. Si chiamava Narendra Sawant, si è impiccata in casa con una sciarpa, perché “voleva continuare a ballare in tv anziché tornare a scuola come le imponeva la famiglia”. La motivazione ha già scatenato decine di tuttologi in sofisticate sociologie sulla distanza tra l'illusione dello schermo e la durezza della realtà. La realtà del suicidio in India è però anche quella di una prassi antica e diffusa, con cifre che oramai superano i centomila l'anno. E' un primato mondiale, che segnala una percezione particolare dell'esistenza umana e di quel che segue. La cristianità ha orrore della morte e codifica l'ambizione alla fisica sopravvivenza con la teologia della reincarnazione di Gesù, e per estensione di tutti i corpi nel Giudizio Universale. L'induismo muove dall'obiettivo opposto, quello di emanciparsi dalla vita, dalla società e dall'estenuante ciclo delle rinascite. Gli esempi sono infiniti: la scelta dei “rinuncianti”, che vagano nelle foreste allontanandosi da ogni contatto umano; le epopee reali, che raccontano di furiose battaglie per il trono dei “giusti”, i quali però, riconquistato il regno, decidono infine di abdicare; l'etica di Gandhi, che predicava la rivoluzione attraverso il distacco dagli istinti, e quindi la castità e la non-violenza; la tradizione del sui-
cidio delle vedove, che si autoimmolavano per seguire il consorte nell'aldilà. Si tratta di concetti cari soprattutto alle caste sacerdotali ma, siccome l'ideologia prevalente tende a esser quella delle classi dominanti, raccontano tuttora una mentalità dif-
Il boom economico ha creato i nuovi ricchi Ma i contadini sono sempre più indebitati
fusa e ne disegnano in fondo la gerarchia sociale: si sta tanto più in alto quanto più, per la natura della propria professione, si è lontani dai contatti vitali e dalle interdipendenze sociali. Sono dunque precetti religiosi carichi di implicazioni concrete, e tuttavia raccontano solo una parte della verità e van detti a voce bassa, perché sono spesso usati ad alibi dagli economisti occidentali quando presentano conti che non tornano. La teologia descrive l'idea relativistica indiana sulla vita e sulla morte, ma non spiega il netto incremento nei suicidi negli ultimi vent'anni. Ebbene, a cambiare in questo periodo sono state le condizioni materiali delle masse rurali sotto l'impulso di una virata politica nel segno della liberalizzazione degli scambi internazionali e del mercato del lavoro. Secondo la Banca Mondiale (e i tanti che ne diffondono acriticamente i dati), le riforme avrebbero non solo generato il ceto dei celebrati nuovi miliardari, ma altresì ridotto la povertà dal 60% al 42. Quel che non si dice è che se si fissasse la soglia dell'indigenza sui due dollari al giorno anziché sull'uno la proporzione salirebbe all'85%. E il dramma coinvolge soprattutto i contadini perchè nel frattempo, tra espropri e investimenti delle multinazionali dell'Ogm, i
costi reali dei loro fattori produttivi (anzitutto le semenze) risultano all'incirca decuplicati. Il risultato è che la proporzione di indebitati si è raddoppiata, coinvolgendo oramai trecento milioni di agricoltori, che rappresentano infatti il nucleo prin-
cipale della popolazione suicida. In decine di migliaia scelgono annualmente di immolarsi, ammantando di significati religiosi uno stato di disperazione. C'è però chi opta per un'altra strada, che allarma ben di più le autorità e gli investitori stranieri. An-
ziché suicidarsi si mostra pronta a uccidere. È la scelta compiuta da altre decine di migliaia di indiani. È il fenomeno parallelo, e altrettanto inedito nelle dimensioni, della guerriglia maoista. Le vittime, solo nell'ultimo anno, sono circa seimila.

il Fatto 6.2.10
In Giappone, il Paese del Sol calante il salvagente dei “telefoni della vita”

di Raffaela Scaglietta

N el Far East il disagio economico o sociale porta sempre più dritto alla morte. Se negli ultimi anni era diventato un fenomeno collettivo per i giovani, fomentato da richiami inspirati ai manga e amplificati dal web o se per gli adulti era considerato un gesto di esasperazione individuale a volte anche romantico tratto dai racconti epici dei samurai o dall'eroici kamikaze della guerra; il suicido non è piu' dettaglio di una società complessa che corre tra moderno e memorie
del passato. Bensì un problema sociale che il nuovo governo di Tokyo non può più far finta di non vedere e adesso contrasta come può: perché la crisi economica mondiale che coinvolge anche il Giappone non e' finita e il disagio aumenta. Certo l'impresa non è facile e servono le risorse per affrontare questo nuovo tsunami della morte. I suicidi in Giappone hanno superato quota 30.000 per 11 anni consecutivi, e negli ultimi dieci mesi di quest'anno ci sono stati 17.076 casi, +4,7% sullo stesso periodo del
2008, un dato che rischia di superare il record negativo di sempre del 2003 con 34.427 casi. Il motivo scatenante di quest'onda anomala della morte, secondo le fonti ufficiali, è la crisi economica, l'indebitamento finanziario del sistema impresa familiare.
Il male oscuro per eccellenza della società nipponica, basata di principio collettivo e sulla stabilità del lavoro, anche se temporaneo. Eppure il suicidio non è un fatto nuovo. Se prima i signori giapponesi sceglievano di impiccarsi nella foresta del Monte Fuji , o più velocemente si lanciavano sotto i treni della metropolitana. Adesso succede anche a nord est di Tokyo, e si tuffano dagli scogli di Tojimbo per non tornare mai più a galla. Questa logica della fine estrema, radicale fa parte di una cultura.
È sempre stata considerata quasi un'eccezione. Ma dai dati statistici sembra che sia piuttosto diventato un fenomeno in progress che avviene non solo perché c'è alienazione della società urbana o disagio di un singolo o di un gruppo di giovani ma tocca anche quelle sacche “protette” della società agricola e contadina. Ed è forse per questo che nascono delle iniziative puntuali. L'ultima riguarda per l'appunto il problema finanziario delle famiglie agricole e dà l'accesso ai “prestiti della speranza”: i prestiti “Nozomi”. Questa azione nasce proprio dalla città di Kurihara, che ospita gli scogli di Tojimbo, cosi tanto frequentati.
I prestiti non vengono dalle banche, che sono ferree e barricate dietro regole inderogabili finanziarie, ma dalle istituzionali munici-
pali. Un padre di famiglia grazie a questo prestito è riuscito a pagare la scuola dei suoi figli e fare investimenti per la sua azienda agricola anche in tempi di crisi. Si tratta di un'azione d'emergenza per una provincia che soffre di una crisi economica senza precedenti. Nessuno per ora è capace di dare segnali convincenti di una ripresa economica e in qualche modo bisogna vivere e adattarsi alle nuove esigenze sociali e limitare i danni. Senza farsi prendere dalla depressione o dall'idea individuale o collettiva di farla finita.
Ma in Giappone quando si parla di disagi psicosociali, si ha sempre un po’ di distacco e tutto si ricongiunge sempre alle questioni razionali. Così è nata un'altra iniziativa da parte di un'organizzazione no profit, promotrice di uno sito web nipponica, tramite cui i navigatori possono effettuare una donazione virtuale che andrà a tradursi in soldi veri destinati alla prevenzione dei suicidi.
Il sito, battezzato “Uniamo le forze per prevenire i suicidi con un clic”, permette a ogni visitatore di cliccare su un apposito pulsante una volta al giorno.
Ogni clic equivale a uno yen, che sarà donato concretamente dallo studio legale 'Home-Onè specializzato nell’assistenza delle persone indebitate al gruppo di volontari Inochi no denwa (telefono della vita), attivo 24 ore su 24 con un servizio di supporto per gli “aspiranti” suicidi. Tutto sta a vedere se chi ha bisogno di aiuto in momenti così estremi, ha la lucidità di chiamare. Ma la speranza è sempre l'ultima a morire.
l’Unità 5.2.10
La Sinistra sta con la Bonino. E candida il ferroviere
Verrà annunciata oggi l’intesa tra la candidata alla presidenza del Lazio del centrosinistra, Emma Bonino, e la Federazione della sinistra (Rifondazione, Pdci e Socialismo 2000). La Federazione in caso di vittoria non parteciperà
alla giunta ma proporrà per il listino il macchinista licenziato dalle Fs Dante De Angelis («Mi è stato proposto, ma è una scelta difficile»). Ieri intanto primo incontro cordiale a Fiumicino tra le due sfidanti alla Regione Lazio.

l’Unità 5.2.10
Su Emma e Nichi volevo dire...
Una settimana fa scrivevo che Vendola e Bonino dovevano entrare nel Partito Democratico ma qualcuno ha equivocato... Oggi chiarisco
di Luigi Manconi

«Io credo che l’esistenza di una forza di sinistra semplicemente di sinistra resti un obiettivo (quasi) irrinunciabile» così Rina Gagliardi sull’Unità del 31 gennaio, replicando al mio «Lavoro ai fianchi» di due giorni prima. Io e la Gagliardi siamo pressoché coetanei: e da lunga pezza, attraverso travagliate esperienze, ci diamo da fare distanti ma non lontanissimi per costruire una forza «semplicemente di sinistra». Io fino al 2005 (e oggi nel Pd), lei tuttora. Ma la Gagliardi è troppo avveduta per non sapere che quel progetto, pur incontrando ancora oggi adesioni e sentimenti diffusi sul piano sociale, resta fermo a un 2-3% sul piano elettorale. (È la stessa percentuale che mi indusse a dimettermi da portavoce nazionale dei Verdi nel 1999). Attenzione: non ho alcun disprezzo e nemmeno un atteggiamento di sufficienza, per le idee minoritarie (tutte le questioni per le quali mi batto, dall’immigrazione al Testamento biologico, lo sono), ma ritengo un grave errore inchiodare tematiche controverse e battaglie radicali a un piccolo partito autosufficiente, che si riproduce all’infinito, perpetuando apparati e leadership. Insomma, penso che la probabilità di quelle tematiche e battaglie di ottenere consensi e conquistare la maggioranza sia più alta all’interno di un «partito grande». (Ne ho scritto diffusamente nel mio Un’anima per il Pd). In ogni caso non chiedo ai vendoliani e ai Radicali di abbandonare la propria autonomia di elaborazione e di mobilitazione. Questa sembra essere, e giustamente, la preoccupazione principale di Angiolo Bandinelli (l’Unità del 30 gennaio): secondo quest’ultimo, «le attuali strutture» del Pd porterebbero inevitabilmente i Radicali a «farsi schiacciare o emarginare». Io penso, al contrario, che «le attuali strutture», ossia la «felice anarchia» (Paolo Mieli) che rende il Pd flessibile e liquido, possa costituire la migliore opportunità per un ingresso nel Pd di Radicali e vendoliani, senza che la rispettiva autonomia risulti «schiacciata». Certo, affinché casino non si aggiunga a casino (uso un francesismo come direbbe Paolo Hendel), è necessario che ciò avvenga contemporaneamente alla realizzazione di un quadro di maggiore stabilità e legalità, dove finalmente le regole regolino e i patti siano vincolanti. Dove viga il principio di maggioranza e, al contempo, si tutelino i diritti delle minoranze. Oggi palesemente, così non è: e questo rischia di costituire più che un’opportunità, un problema. Ma non si dimentichi che, se quella pur esile opportunità esiste, è perché i Radicali sono presenti in Parlamento come delegazione all’interno del Pd; e se Vendola ha buone chance di vittoria, è perché un Pd, pur mal concio e rattoppato, esiste anche in Puglia. Insomma, l’aritmetica è politica.
Post Scriptum/1 Per definire la Bonino, la Gagliardi usa due termini: «anglosassone» e «liberista». Anglosassone: vabbe’, diciamo che c’è stato un taglio improvvido, che ha reso incomprensibile una definizione bizzarra e/o sbrigativa. Ma «liberista» è un termine che davvero non rende giustizia alla elaborazione dei Radicali in materia economica. Insomma, è uno stereotipo.
Post Scriptum/2 Non liberista sarebbe dunque chi si dice comunista? Sono così contrario a una «imbarcata generale» (ancora la Gagliardi) che non desidero l’ingresso nel Pd dei comunisti di Oliviero Diliberto e di Marco Rizzo. E proprio perché «di destra» (autoritari, antigarantisti, sovietici, filocastristi... ).
Post scriptum/3 Ho scritto di condividere l’80% del programma di Vendola ma di non apprezzarne il linguaggio: e la Gagliardi mi spiega che quell’oratoria «è parte essenziale della sua invidiabile capacità di comunicazione». Ma io non discuto l’efficacia del linguaggio vendoliano: dico solo che è demagogico in senso tecnico-linguistico. Afflitto, cioè, da un sovraccarico di retorica: attraente, ma non formativo.❖

Repubblica Roma 5.2.10
Renata a Emma: "Fatti baciare" Le sfidanti al primo incontro
di Giovanna Vitale

BACIA tutti Renata Polverini. Anche chi preferirebbe invece, come Emma Bonino, stringerle solo la mano. Arrivata di buon'ora a Fiumicino per tenere a battesimo, insiemea un migliaio di invitati illustri, il cantiere del porto turistico by Bellavista Caltagirone, la candidata del centrodestra non ne salta uno. Stivali da cowboy su gonna a palloncino, molto a suo agio nella parte dell'ape regina, distribuisce schiocchi sulle guance come caramelle: prima il patron dell'Acqua Marcia, poi il presidente della Provincia Zingaretti, quindi il reggente Montino, a seguire Baccini, il sindaco Canapini e diversi altri prima di mettersi a sedere. Solo per l'assessore Croppi, che pure è di simpatie finiane, un sorriso appena accennato: lui non si avvicina per omaggiarla e lei neppure. La platea di industriali, banchieri e manager, praticamente tutti maschi - da Palenzona a Gaetano Micciché, da Ponzellini ai Brachetti Peretti sino a Domenico Arcuri - la scruta attonita.
È un gran giorno questo della prima pietra del "porto della Concordia", come lo appellerà in lacrime Francesco B. Caltagirone dedicandolo «alla memoria di Maria Angiolillo, che avrebbe certo applaudito un bell'esempio di collaborazione fra istituzioni di colore diverso». Il primo in cui le dame che si contendono il Lazio possono incrociare lo sguardo, oltre che le lame. A meno di 24 ore dal duello anagrafico innescato da Polverini: «Emma appartiene a un'altra stagione politica», aveva affondato lei con poca eleganza. «La differenza tra noi? L'esperienza, io sono stata ministro e commissario Ue», aveva contrattaccato la candidata di centrosinistra. E ora eccole qui, sotto lo stesso tendone, accanto al vecchio faro.
Arriva appena in tempo, la Bonino: s'era fermata sul piazzale, a parlare coi manifestanti che protestavano contro il porto e il rischio speculazione. «Le infrastrutture sono strategiche per lo sviluppo del territorio», aveva cercato di convincerli, «ma vi prometto che, se sarò eletta, vigilerò». Entra di corsa, fa capolino tra la calca: appena Polverini la vede, scatta in piedi per salutarla. Con compostezza sabauda Emma le tende la mano, Renata - sorriso a 32 denti come per farsi perdonare - quasi la travolge: «Vabbè, ci possiamo pure bacia'», l'apostrofa in romanesco.I fotografi impazziscono. La speaker annuncia che la cerimonia sta per iniziare. Bonino passa davanti a Gianni Letta che si alza per abbracciarla, il ministro Matteoli resta invece seduto. La vicepresidente del Senato non si trattiene, gli chiede di far qualcosa per i lavoratori dell'Alcoa. «Credo che la proprietà avesse già maturato l'idea di andar via», si stringe nelle spalle il sottosegretario. C'è poco da fare. Bonino va a sedersi, accanto a Baccini: nella stessa fila del governo,a poche sedie di distanza. La sua avversaria, dall'altra parte della sala, si sporge, si agita, forse non gradisce la collocazione. Tre ore di discorsi. Polverini si spella le mani.
Bonino guarda impaziente l'orologio: c'è da siglare l'accordo con la Federazione della Sinistra. Baccini va via prima; il presidente di Bpm, Ponzellini, ne approfitta per prendere il suo posto. Parla fitto nell'orecchio di Emma. Le chiede il numero di telefono. Lei non ha un biglietto da visita, glielo scrive su quello di lui. Titoli di coda. Il vescovo Reali benedice la prima pietra. Bonino scappa, Polverini resta sino allo spegnimento delle luci.

il Fatto 5.2.10
Inchiesta Vendola, i pm si spaccano

Concussione nella sanità, scontro sull'archiviazione
eleni e sospetti. Il Pool che indaga sulla sanità pugliese si sarebbe spaccato. La rottura tra i tre pubblici ministeri che coordinano l’indagine è divenuta evidente e riguarda la sussistenza stessa dell’inchiesta nella quale è indagato per concussione il presidente della regione Puglia, Nichi Vendola. Nei confronti del presidente due pubblici ministeri, Francesco Bretone e Marcello Quercia, ritengono che gli elementi raccolti finora inducano a ritenere che l’indagine debba essere archiviata; un terzo pm, Desirèe Digeronimo, ipotizza invece il contrario, cioè che l’indagine debba proseguire. A Vendola e ad altre dieci persone la procura contesta di aver fatto, nel 2008, pressioni politiche nei confronti dei direttori generali di alcune Asl pugliesi per indurli a nominare direttori amministrativi e sanitari graditi al governo regionale. Quindi, l’inchiesta non riguarderebbe – così come si era saputo due settimane fa – gli sforzi fatti per far rientrare uno dei cervelli italiani migrati in Usa, il professore di Neurologia di Harvard Giancarlo Logroscino, che aveva accettato nel 2006 di tornare in Italia, ed è ora docente associato all’Università di Bari. Un fatto questo che portò Vendola a difendersi pubblicamente dicendo di “meritare una lode”. Il diverso orientamento dei tre pm emerge dalle lunghe missive riservate che essi hanno inviato nei giorni scorsi al procuratore, Antonio Laudati, dopo che questi aveva chiesto ai tre sostituti spiegazioni sulla fuga di notizie relative all’iscrizione di Vendola nel registro degli indagati, invitandoli anche a riferire sullo stato e sui risultati raggiunti dalle indagini. Dalle risposte è emerso il contrasto. Al momento non si sa che cosa deciderà di fare Laudati perché tutti gli atti del procedimento sono a firma congiunta. Una via d’uscita potrebbe essere rappresentata dal deposito (pare prossimo) dell’informativa conclusiva a cui stanno lavorando gli investigatori. L’in - formativa potrebbe fornire una chiave di lettura della vicenda poiché conterrà tutte le trascrizioni dei colloqui telefonici e ambientali intercettati, l’esame dei testimoni e degli atti amministrativi acquisiti nel corso degli accertamenti. Permetterà quindi di incrociare elementi e di fare valutazioni complessive su tutta l’indagine.

il Fatto 5.2.10
Il popolo viola lancia il “No B. Day2”

a Roma il 27 febbraio contro il legittimo impedimento
di Federico Mello

Roma Un altro No Berlusconi Day. Questa volta contro il legittimo impedimento. Le pagine Facebook che hanno portato alla grande manifestazione viola del cinque dicembre, ieri hanno pubblicato tutte lo stesso annuncio: “Il popolo del No Berlusconi Day torna in piazza il 27 febbraio alle 14.30, a Roma, in Piazza del Popolo”. Se l’innesco della manifestazione di Piazza San Giovanni era stata la bocciatura del lodo Alfano, questa volta è il legittimo impedimento, la ventesima legge ad personam, che fa rompere gli argini ai militanti viola. “Il popolo del No Berlusconi Day – scrivono su Facebook – chiede ancora le dimissioni di Berlusconi e lo fa alla luce delle ultime novità scaturite dalla votazione di ieri alla Camera sul legittimo impedimento”. Se, aggiungono i manifestanti, “l’approvazione alla Camera del cosiddetto Legittimo Impedimento consente a Berlusconi di evitare di partecipare ai processi che lo vedono imputato a causa dei suoi impegni politici” allora “noi ribadiamo quanto già gridato il 5 dicembre: si deve dimettere. In modo da potersi fare processare tranquillamente”. L’annuncio, sul Web, è come un fulmine, partono subito commenti, reazioni, link degli internauti. Quando lo scorso ottobre venne lanciata la manifestazione del cinque dicembre, sembrava semplicemente folle l’idea che la società civile autoorganizzata su Internet potesse davvero scendere in piazza. Ma in poco tempo la mobilitazione virtuale si conquistò rispetto e attenzione da parte dei media e della politica. Fu per primo Antonio Di Pietro – con Paolo Ferrero – ad aderire convintamente. Ma giorno per giorno fioccarono le adesioni di intellettuali, artisti, semplici cittadini. Il Pd, fresco di primarie, rimase ondivago fin all’ultimo. Rosy Bindi dichiarò, a ridosso del cinque dicembre, che se non fosse stata “presidente del Pd” sarebbe andata in piazza. Alla fine anche lei ruppe gli indugi: arrivò sotto al palco del No B. Day applaudita da due ali di folla. I comitati locali, nati spontaneamente per il cinque dicembre, sono ancora in piedi. Sono i nervi che portarono alla mobilitazione dalla Rete ai territori, fino in piazza. Questa volta, per una nuova manifestazione, la strada sarebbe già spianata: i meccanismi sono già rodati e i viola uniti da conoscenza se non da amicizia. Eppure l’annuncio di ieri, se ha convinto tantissimi, ha trovato anche dei dubbi sul social network. La decisione è stata presa dal gruppo che ha continuato a tenere le redini della mobilitazione: coloro che hanno organizzato sit-in in tutta Italia a difesa della Costituzione sabato scorso, e il gruppo romano che ha lanciato il presidio permanente contro il legittimo impedimento solo due giorno fa. Su Facebook molti, come detto, approvano: “Bene”; “Ok, ci sarò”; “bravi ragazzi! ”. Ma emergono anche dei dubbi: “Stavolta chi paga pullman e palco? ” chiede polemicamente un utente: il cinque dicembre un generoso contributo arrivò dall’Italia dei Valori e da Rifondazione. “Tro p p o p re s t o! ” scrive qualcun altro, mentre: “Ci sarò, ma secondo me è un errore, rischiamo un fiasco” precisa Paolo. C’è chi invece vorrebbe tante manifestazioni locali al posto di un appuntamento nazionale. Vedremo presto che succederà. I viola hanno già stupito tutti una volta. Potrebbe farlo di nuovo, a tempo di record, il 27 febbraio prossimo

l’Unità 5.2.10
Varata dal governo la cosiddetta riforma. Decretata la fine della sperimentazioni
Riduzioni di orario oltre le prime classi. Ma non è chiaro cosa sarà tagliato e perche
Superiori. Con Gelmini si studia di meno. E anche peggio
La riforma della scuola superiore è stata varata dal Consiglio dei ministri. Regolamenti che prevedono solo tagli di ore senza spiegare a quale idea di scuola corrispondano. Partirà per le prime classi dal 2010/2011.
di Maristella Iervasi

Meno ore di scuola rispetto alle medie. Un «taglio» drastrico agli indirizzi (sei licei, sfoltiti i tecnici e i professionali) e tante materie che scompaiono e riappaiono come Geografia e Diritto. Il Consi-
glio dei ministri dà il via libera alla riforma dell’istruzione superiore senza tener conto delle proteste di insegnanti, famiglie e sindacati. Il tutto nel pieno caos per le imminenti iscrizioni degli studenti, dove a tutt’oggi non c’è certezza sull’offerta formativa.
Il tanto annunciato opuscolo del Miur ancora non c’è, forse sarà pronto tra oggi domani via web. Tuttavia, Berlusconi e la Gelmini in conferenza stampa esultano. E si scopre il vero «piano» del governo: fare cassa e accontentare le imprese, Confindustria in primis. I licei restano «reginette» anche se scompare il diritto. Resta la divisione con gli istituti tecnici e professionali, confinati a «Cenerentole».
Il presidente del Consiglio lo dice usando questi termini: «La scuola attuale non sforna ragazzi con cognizioni adeguate alle richieste del mondo del lavoro».
E Gelmini decanta il riordino: «Riforma epocale, non ideologica». Tace però sui nuovi quadri orari e rivendica l’opzione del nuovo liceo, quello musicale. Una «carnevalata», per dirla con la Rete degli studenti. Il premier ci mette del suo: «Studiate le mie canzoni e quelle di Apicella...», è il messaggio che manda ai ragazzi che devono scegliere dove iscriversi entro il 26 marzo.
DAL PROSSIMO ANNO
La riforma entrerà in vigore dal prossimo anno scolastico 2010-2011, a partire dalle sole prime classi per i licei, non per i tecnici e i professionali però, dove le riduzioni di orario saranno pesanti da subito anche per le classi terze e quarte. La nuova scuola targata Gelmini prevede un taglio netto degli indirizzi di studio: i licei diventeranno sei. Gli istituti tecnici passeranno da 10 con 39 indirizzi a 2 con 11 indirizzi e le ore scenderanno da 36 a 32; i professionali da 5 corsi e 27 indirizzi scenderanno a 2 corsi e 6 indirizzi, anche qui le ore saranno 32 invece delle attuali 36.
Per dirla con Antonio Rusconi, capogruppo Pd in commissione istruzione del Senato «è un ciclone che devasta l’istruzione».
I LICEI
Si passa dai quasi 450 indirizzi (tra sperimentali e progetti assistiti) a sei licei: classico, scientifico, linguistico, artistico (con 6 indirizzi distinti) e le new entry del liceo musicale e delle scienze umane.
Al Classico rispetto all’oggi, si studierà inglese per cinque anni e
verrà potenziata l’area scientifica e matematica.
Resta obbligatorio il Latino al classico ma non in tutto lo scientifico. Chi opterà per lo Scientifico troverà la nuova opzione delle «scienze applicate» che raccoglie l’eredità della sperimentazione scientifico-tecnologica.
Altra novità, il liceo delle scienze umane, che sostituisce quello sociopedagogico, con l’opzione economico-sociale.
ISTITUTI TECNICI
Due soli settori: economico e tecnologio, e 11 indirizzi. L’orario settimanale sarà di 32 ore (un taglio di ben 4 ore di scuola rispetto ad oggi). Ci saranno i laboratori: 264 ore nel biennio che salgono a 891 nel triennio. Il biennio sarà comune per i due percorsi. È favorita la diffusione di stage, tirocini e l’alternanza scuola-lavoro.
ISTITUTI PROFESSIONALI
Da cinque settori e 27 indirizzi si passa a 2 macro-settori servizi e industria/artigianato e 6 indirizzi. L’orario settimanale si accorcia a 32 ore. Il percorso di studi è articolato in due bienni e un quinto anno. Anche qui entra in gioco l’alternanza scuola-lavoro. ❖

l’Unità 5.2.10
Altro che Finlandia: così la scuola torna al modello del 1800
Nei sistemi più evoluti la scuola funziona anche quando non ci sono lezioni. E i ragazzi possono usarla anche per i loro progetti. Da noi si riducono le ore, ma non si dà nulla in piu
di Benedetto Vertecchi

Le norme che modificano l’ordinamento delle scuole secondarie superiori si distinguono per l’assenza di un disegno interpretativo che riguardi, da un lato, le trasformazioni già avvenute altrove e quelle che stanno avvenendo, dall’altro i mutamenti intervenuti nelle condizioni di sviluppo degli adolescenti.
Per quanto riguarda il modello organizzativo, siamo di fronte alla riproposta di una nozione ottocentesca del servizio scolastico, centrata sulla coincidenza tra orario della scuola e orario delle lezioni. Poiché è prevista una riduzione di tale orario, la conseguenza sarà una permanenza più limitata tra le mura scolastiche. È il contrario di quanto, da tempo sta accadendo in altri sistemi scolastici, dove i due orari, quello delle lezioni e quello di funzionamento della scuola, sono nettamente distinti e il secondo è ben maggiore dell’altro. Gli allievi frequentano le scuole non solo per fruire delle lezioni, ma anche per partecipare ad attività che concorrano ad estendere le loro esperienze e a favorire l'interiorizzazione di quanto hanno appreso. Ciò vuol dire utilizzare le strutture disponibili (per esempio i laboratori, le biblioteche, le palestre) in un tempo che si aggiunge a quello previsto per le lezioni. Altrettanto importante è la possibilità per i ragazzi di utilizzare gli spazi della scuola per realizzare progetti che corrispondono ad esigenze culturali
più o meno ampiamente avvertite: possono formarsi gruppi interessati alla musica, al teatro, alla poesia, alla manipolazione di materiali, alla floricultura e via elencando. Non importa quale sia l'oggetto di tali attività: quel che conta è che possano essere organizzate ed effettuate in un ambiente protetto, com'è quello scolastico, nel quale sia anche possibile reperire le competenze necessarie per la realizzazione dei progetti.
Sono queste le condizioni che caratterizzano il funzionamento delle scuole in Paesi ai quali a parole tutti dichiarano che ci si debba ispirare, come la Finlandia. Ci si dovrebbe spiegare a che cosa si ridurrebbero le scuole finlandesi se ad esse fossero applicate norme come quelle che dovrà subire la scuola italiana. Non dovremo meravigliarci se il nostro sistema scolastico, che ha un drammatico bisogno di risalire la china dalle profondità nelle quali è precipitato, continuerà a mal figurare nelle comparazioni internazionali. È difficile pensare che vi siano crescite significative nei livelli di competenza matematica e scientifica o in quelli di capacità di comprensione della lettura se agli allievi non si dà la possibilità di tradurre una conoscenza solo verbale in comportamenti. Peggio: la diminuzione del tempo scolastico avrà effetti negativi anche sull’acquisizione della capacità di usare con correttezza e proprietà la lingua italiana. I profili culturali della popolazione finiranno con l’essere quasi solo condizionati dai messaggi dei mezzi di comunicazione. In pratica, i ragazzi fuori della scuola saranno immersi in un contesto che si caratterizza per la povertà del linguaggio, per la prevalenza dei richiami suggestivi su quelli razionali, per vere e proprie regressioni a stili di argomentazione prescientifica. Vogliamo stupirci se i livelli di apprendimento continueranno ad essere deludenti, e se le discriminazioni sociali torneranno ad essere il solo criterio per spiegare la differenza nei risultati ottenuti dagli allievi?
Il fatto è che porre mano alla modifica degli ordinamenti scolastici vuol dire prima di tutto avere un’idea di scuola, e che, nel caso dell'istruzione secondaria, non si può avere un'idea di scuola se non ci si è chiesti preliminarmente a chi si vuole rivolgere la proposta educativa e quali intenti si vogliono perseguire. Nel caso delle scuole secondarie superiori è banale affermare che la proposta educativa è rivolta agli adolescenti. L’adolescenza si caratterizza, infatti, per la rapidità con la quale si è venuta trasformando. C’è stata un’accelerazione nello sviluppo fisico (quindi nell'inizio dell’adolescenza), ma anche un trascinamento che porta a conservare, più a lungo di quanto generalmente si vorrebbe, tratti adolescenziali in età adulta. Agli adolescenti si propongono, senza che la scuola sia in grado di indurre atteggiamenti non conformisti, modelli di comportamento che esaltano il consumismo e sistemi di valori caratterizzati dalla rapidità nell’acquisire il successo (non importa come). Si direbbe che si prenda atto che esiste un problema dell’adolescenza solo quando emergono aspetti di patologia del comportamento (vandalismo, bullismo). Ma non ci si chiede quanto tale patologia sia un segno di un’organizzazione inadeguata della vita dei ragazzi, che riempiono in modi più o meno deviati un tempo che la scuola rinuncia ad impegnare in modo positivo.❖

l’Unità 5.2.10
Il Consiglio d’Europa in una relazione di 53 pagine smonta le tesi italiane
La lezione europea: il linguaggio di Berlusconi alimenta il razzismo
di Marco Mongiello

Secondo il Consiglio d‘Europa, come rivelato da Thomas Hammarberg, commissario dei diritti umani, sarebbe meglio evitare di adottare un certo linguaggio e certe leggi che applicano a cittadini di paesi terzi leggi speciali.

Criminalizzare l’immigrazione è controproducente e Berlusconi dovrebbe essere più attento all’uso delle parole. È questo il messaggio lanciato dal commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Thomas Hammarberg, a Bruxelles, nel presentare un rapporto sulla crescente tendenza all’uso del codice penale per gestire il fenomeno dell’immigrazione in Europa.
Hammarberg ha commentato anche le affermazioni del Premier italiano, che nel Consiglio dei ministri a Reggio Calabria del 28 gennaio ha messo in relazione la presenza di extracomunitari con la criminalità. Le persone elette, ha detto, dovrebbero «essere più attente nell’uso delle parole che impiegano per evitare qualsiasi
ricorso a slogan contro l’immigrazione, perché questo può far aumentare la xenofobia e i sentimenti anti-rom». Per il commissario svedese dell’organizzazione di Strasburgo, a cui appartengono 47 Paesi europei ma che non fa parte dell’Ue, «cercare di sfruttare la paura e i pregiudizi per motivi elettorali o altro è abbastanza grave e davvero non aiuta quando si tratta della nostra lotta per i diritti umani».
Si tratta dell’ennesima censura della politica del Governo italiano da parte del Consiglio d’Europa, che più di una volta ha usato parole aspre per criticare la politica muscolare di Roma sull’immigrazione, dai respingimenti nel Mediterraneo alla gestione dei campi Rom. Nel rapporto si ricorda che il commissario ha già espresso «preoccupazione per i diritti umani» dopo la legge del 2008, che trasforma in reato l’affitto di locali a immigrati irregolari, e che dal 2009 l’immigrazione illegale è diventata un reato penale, soggetta a sanzioni pecuniarie. Il «pacchetto sicurezza italiano si legge nel testo pone diversi problemi riguardo la criminalizzazione degli stranieri». Secondo Hammarberg, tuttavia, Italia, Grecia, Malta e Cipro hanno ragione nel sostenere che «non hanno ricevuto il sostegno che avrebbero potuto attendersi» dagli altri Paesi europei nella gestione delle frontiere.
Nelle 53 pagine del rapporto si passano in rassegna le principali novità delle legislazioni dei Paesi dell’organizzazione di Strasburgo e dell’Unione europea in materia di immigrazione, sottolineando come, soprattutto a partire dal 2003, si noti una crescente tendenza all’utilizzo di sanzioni penali per gestire il fenomeno. Una tendenza allarmante anche per due aspetti: innanzitutto «gli stranieri sono soggetti a misure che non possono essere applicate ai cittadini, come la detenzione senza accusa, processo o condanna» e, in secondo luogo, «si criminalizzano le persone, sia cittadini che stranieri, che hanno a che fare con gli stranieri». In questo modo, spiega il rapporto, si incoraggia la discriminazione verso le persone sospettate di essere straniere, spesso in base al colore della pelle, e si arriva alla xenofobia.
Secondo il Consiglio d’Europa quindi sarebbe meglio evitare di adottare delle leggi penali che si applicano solamente ai cittadini di Paesi terzi, bisognerebbe evitare in tutti i contesti di utilizzare il termine “illegale” per indicare l’immigrazione non regolare.❖

l’Unità 5.2.10
«Bella ciao» Inno alla memoria
di Carlo Lucarelli

Sarà perché sono appena tornato da Auschwitz con il treno degli studenti della provincia di Modena ma le cose che riguardano la memoria in questo periodo mi colpiscono particolarmente per cui ho ascoltato con interesse le parole del nostro presidente del Consiglio al parlamento israeliano. Mi riferisco a quello che ha detto riguardo alla vergogna delle leggi razziali, che sarebbero state riscattate dalla Resistenza.
È vero. È grazie alla Resistenza e alla guerra di liberazione che il nostro Paese ha riconquistato dignità agli occhi del mondo libero, quando un gruppo di patrioti di tanti colori tra cui parecchie sfumature di rosso hanno cacciato i tedeschi che lo occupavano assieme ai collaborazionisti della Repubblica di Salò, facendo giustizia anche di quello che aveva prodotto tutto questo, e cioè il fascismo delle leggi razziali e dell’alleanza col nazismo.
È per questo che una canzone come Bella Ciao che una volta ho sentito erroneamente contrapposta a Fratelli d’Italia da qualcuno che evidentemente non ne aveva capito lo spirito è una specie di inno nazionale ufficioso, che dovrebbe unire tutti quelli che si riconoscono in quel momento di patriottismo e considerano quelle leggi razziali una vergogna. È da lì che nasce la nostra Repubblica ed è quello lo spirito di quella canzone.
Sarebbe bello ricordarsene più spesso della resistenza come liberazione. Che il presidente del Consiglio e molti dei suoi alleati ma anche alcuni di quelli che stanno all’opposizione lo dicessero altre volte, e con chiarezza.
Insomma, ad essere coerenti, mi aspetterei che Berlusconi, da presidente del Consiglio o anche da privato cittadino, fosse presente il prossimo 25 aprile, in piazza, a cantare Bella Ciao.❖

Repubblica 5.2.10
Una mediazione per il testamento biologico
risponde Corrado Augias

Egregio dott. Augias, è calato il silenzio sul testamento biologico; forse è un bene, dovrebbe permettere una pausa di riflessione prima che riprenda il dibattito in Parlamento. Le discussioni finora hanno avuto un sapore più che altro politico, con i pro e i contro senza pacatezza e quindi senza mediazioni. E' ovvio che l'obbligo del sondino è incostituzionale. Molto meno ovvia la retorica sui «principi non negoziabili». Ma tra i due estremi esistono tante sfaccettature mai approfondite. Ne indico solo una per brevità: si parla della libertà di «non curarsi». E la libertà di curarsi? Senza testamento biologico le decisioni vengono affidate a un tutore che si assume ogni responsabilità, foss'anche quella di 'curare' il tutelato nelle cliniche olandesi dove si pratica l'eutanasia. Con il testamento biologico, la persona avendo «la facoltà di intendere e di volere» può benissimo disporre che non si vuole affidare ad «apprendisti tecnocrati» né a «parenti serpenti», bensì vuole continuare ad essere curata e a rimanere nelle cliniche italiane. Il testamento quindi amplia, in questo caso, la libertà degli individui.
Marco Comandè platone10@libero.it
I l signor Comandè ha ragione: l'argomento è stato affrontato con toni da crociata, il peggiore per la concezione di una legge che deve tener conto della generalità degli interessi e delle varie sensibilità, oltre che beninteso della Costituzione. Infatti il Ddl approvato al Senato è inaccettabile: la volontà dell'interessato, espressa per scritto, può essere disattesa dal medico. L'alimentazione via sondino non è considerata 'terapia' ma sostegno vitale, dunque ineliminabile. Il senatore Domenico Nania (Pdl ascendenza An) ha appena pubblicato un libro sull'argomento (Koiné ed.) nel quale avanza un'ipotesi possibile di mediazione. La volontà dell'interessato di non essere curato al di là di ogni ragionevole speranza va rispettata perché così impongono alcuni protocolli internazionali e (nella sua lungimiranza) la stessa Costituzione all'art. 32, 2 comma: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Nessun dubbio che l'alimentazione forzata sia una terapia, trattandosi di una miscela chimica mista di antibiotici e altri medicamenti. Dunque rientra anch'essa nell'art.32. D'altra parte lo Stato non può far morire un cittadino in una struttura pubblica. Ergo, il malato dovrebbe essere dimesso, rinviato al suo alloggio, beninteso con assistenza medica, e che lì si completi il suo destino. Nania è un costituzionalista, il suo ragionamento è più articolato di come ho potuto riassumerlo. Ha il merito di smantellare le barricate. Può essere una base su cui discutere.


Repubblica 5.2.10
"I Taliban erano ebrei" uno studio cambia la storia
di Alberto Stabile

Nemici da sempre ma accomunati dalla stessa origine: lo dice una ricerca I pashtun afgani sarebbero discendenti di un´antica tribù perduta d´Israele

Gli Efraim in fuga si stabilirono nella cosiddetta area tribale. La stessa nella quale oggi vivono i "guerrieri" dell´Islam radicale
"La teoria potrebbe avere un impatto positivo sulla situazione geopolitica in India, Afghanistan, Pakistan e Kashmir"

Nascosta in una qualche ragnatela cromosomica, misteriosamente emigrata dalle Terre dell´Antico Testamento al subcontinente asiatico e finora confinata nelle dimensioni incerte del mito, potrebbe esserci una verità capace di sconvolgere la storia. Sono i Taliban, in quanto appartenenti all´etnia Pashtun, discendenti da una delle Tribù perdute d´Israele e dunque di lontane origini ebraiche? La domanda, che finora solo qualche studioso ha osato porre, provocando un tamtam di speculazioni forzate, allusioni ironiche e imbarazzati dinieghi, potrebbe avere una risposta chiarificatrice e scientificamente certa dall´indagine che una ricercatrice indiana, Shahnaz Ali, del prestigioso Institute of Immunohaematology di Mumbay, sta conducendo in quello che viene considerato la punta di diamante della ricerca scientifica israeliana, il Technion di Haifa. Dettaglio non trascurabile: lo studio, della durata minima di tre mesi, viene finanziato dal ministero degli Esteri.
Non è la prima volta che il governo israeliano dimostra un chiaro interesse verso gruppi etnici e popolazioni che vantano o si suppone possano vantare ascendenze nella tradizione ebraica. La Legge del Ritorno garantisce che ogni ebreo, in qualsiasi angolo del mondo viva, ha il diritto di emigrare in Israele. A parte gli ebrei etiopi, i Falashà, un popolo africano che si ritiene frutto dell´unione tra Salomone e la Regina di Saba, portati in Israele negli anni 80 in tre ondate successive, recentemente è stato approvato un piano per l´immigrazione dall´India di circa settemila Bnei Menashe, i Figli di Menashe, appartenenti ad un´altra delle cosiddette tribù perdute.
La tradizione, appunto, vuole che dieci delle 12 tribù che popolavano il regno d´Israele fossero state deportate dopo la conquista degli Assiri nel settimo secolo a. c. disperdendosi per il mondo. Fra queste vi sarebbe stata anche la tribù di Efraim le cui propaggini si sarebbero stabilite tra il Pakistan nord occidentale, la cosiddetta area tribale, l´Afghanistan orientale e la città di Malihabad, in India.
Questo è oggi il regno dei Pashtun, vale a dire del gruppo etnico più numeroso dell´Afghanistan (il 44% della popolazione) nonché uno dei più numerosi del Pakistan nel cui seno alberga tutto e il contrario di tutto, il diavolo e l´acqua santa, il moderato presidente Karzai, il suo gentile, filo occidentale sfidante, Abdallah Abdallah e gli "studenti" guerrieri dell´islam radicale, i Taliban inquadrati sotto le bandiere del Mullah Omar e di Osama Bin Laden.
Ora, non ci vuole molta immaginazione per intuire il terremoto politico e culturale che potrebbe generare la prova di un collegamento genetico, per quanto annacquato dalle piene della Storia, tra i Pashtun (e la "famiglia" talebana) con il popolo ebraico. «La ricerca - dice Aryeh Gallin, fondatore di un´organizzazione volontaria per il miglioramento delle relazioni tra Israele e il mondo - potrebbe avere un impatto positivo sulla situazione geopolitica in Afghanistan, Pakistan, Kashmir e India e potrebbe servire come antidoto spirituale al veleno talebano, salafita, wahabita».
L´interesse intorno all´ipotesi di un collegamento genetico tra gli antenati degli ebrei e i Pashtun deriva anche dal saggio scritto nel 2006 da uno studioso indiano d´ascendenza ebraica, Navras Iaat Aafridi, che ha analizzato e messo in luce tutta una serie di riferimenti culturali e pratiche religiose in comune con l´ebraismo da parte di una piccola comunità (circa 600 persone) di abitanti della città di Malihabad, a maggioranza Pashtun, detti Afridi, per una chiara assonanza con Efraim.
La tesi, in sostanza, è che gli appartenenti alla tribù di Efraim, giunti dopo la fuga da Israele nella loro nuova destinazione, avrebbero celato le loro tradizioni, o le avrebbero onorate segretamente, per non incorrere nella repressione dei governanti locali a loro ostili. Ma poi il gruppo si sarebbe allargato a dismisura abbracciando, in seguito, la religione islamica. Lo studio, condotto in parte all´Università di Tel Aviv, è stato molto apprezzato in Israele.
A ruota è arrivata la ricerca di Shahnaz Ali che a Malihabad ha raccolto 50 campioni genetici di cittadini Afridi e li ha portati in ISraele per confrontarli. Adesso si aspettano i risultati. Ma a prescindere da quelle che possano essere le conclusioni, non tutti sembrano pronti a rivedere le proprie radici. Tra questi c´è anche il nonno di Aafridi, Kavi Kamal Khan che al Times of India ha dichiarato: «Sono orgoglioso di essere un Pashtun e non voglio essere un´altra cosa».

Repubblica 5.2.10
"Così il cervello comunica dal coma"
di Elena Dusi

Il New England Journal of Medicine riporta lo studio su un 22enne Da 5 anni in stato vegetativo, ha risposto bene alle domande dei ricercatori

Di fonte a due diverse fantasie il paziente attiva due differenti aree del cervello
L´obiettivo di questa ricerca è anche individuare meglio lo stato di sofferenza

Chiusi al mondo esterno: sono i pazienti in stato vegetativo in cui ogni forma di comunicazione è perduta. Una piccola serratura è stata sbloccata per entrare nella loro mente, scalfire l´isolamento e cercare di capire se coscienza e consapevolezza esistono ancora. La via di comunicazione è stata trovata in un ragazzo di 22 anni, in stato vegetativo da 5, ricoverato all´ospedale universitario di Liegi. Il giovane ha risposto correttamente con un "sì" o un "no" a 5 semplici domande su 6 sulla composizione della sua famiglia. Per "ascoltare" le sue reazioni i medici di Liegi e dell´università inglese di Cambridge hanno pensato di entrare direttamente nel cervello, andando a osservare l´attivazione dei neuroni con l´apparecchio della risonanza magnetica funzionale. La "conversazione" tra il ragazzo in stato vegetativo e i medici è stata pubblicata sul New England Journal of Medicine.
«Tuo padre si chiama Alexander?» hanno domandato i camici bianchi al ragazzo, chiedendogli di immaginarsi in un campo da tennis mentre muove il braccio per colpire una pallina in caso affermativo e a pensarsi invece in una città familiare, camminando per strada, o all´interno della propria casa spostandosi da una stanza all´altra in caso di risposta negativa. Alle due diverse fantasie, corrisponde l´attivazione di due aree distinte del cervello: quella dell´immaginazione motoria nel primo caso (una luce arancione si accende nella risonanza magnetica quasi alla sommità del cranio) e quella dell´immaginazione spaziale nel secondo (rappresentata da una macchia blu alla base del nostro organo del pensiero).
Il padre del ragazzo si chiama davvero Alexander e sullo schermo della risonanza magnetica i medici hanno visto illuminarsi l´area arancione dell´immaginazione motoria, quella corrispondente al "sì" e al campo di tennis. «Con questa tecnica potremmo chiedere ai nostri pazienti se soffrono, e decidere come curarli meglio» scrivono gli autori dello studio, guidati da Adrian Owen di Cambridge e Steven Laureys dell´ospedale universitario di Liegi. Ma Marco Venturino, direttore della terapia intensiva all´Istituto europeo di oncologia e autore del romanzo "Cosa sognano i pesci rossi" sul rapporto tra un malato incapace di comunicare e il suo medico, invita a non sovrapporre la realtà al risultato di un esperimento. «Nessuno ha mai negato che i pazienti in stato vegetativo abbiano aree del cervello funzionanti, in grado di attivarsi dopo stimoli adeguati. Non sono certo morti. Ma non possiamo usare i dati di un esperimento isolato per domandargli se vogliono vivere o morire. Stiamo attenti, i ricercatori possono tirare fuori risultati bellissimi dai loro studi. Ma applicarli su larga scala potrebbe rivelarsi fuori luogo».
Il ragazzo che è stato capace di collocarsi con coerenza su un campo da tennis o fra le strade della sua città faceva infatti parte di una coorte di 54 pazienti o in stato vegetativo o in uno stato di coscienza minimo. E solo cinque hanno mostrato un qualche segno di attività cerebrale all´interno della risonanza magnetica. Sempre Laureys a novembre dell´anno scorso aveva annunciato di essere riuscito a comunicare con un uomo uscito da uno stato vegetativo lungo 23 anni. Il paziente, Rom Houben, aveva raccontato che nonostante l´immobilità riusciva a sentire tutto, e avrebbe avuto voglia di gridare. Ma il metodo usato (il malato digitava le parole su una tastiera, ma con l´aiuto di altre persone) venne giudicato poco affidabile e Laureys finì in un polverone di polemiche. «Il valore di questi studi - riassume Gabriele Miceli, neurologo dell´università di Trento - non è scoprire che un paziente in stato vegetativo è dotato di consapevolezza o coscienza, ma affinare la diagnosi e cercare di capire quale margine di recupero esiste».

Repubblica 5.2.10
La sinistra e il pensiero reazionario
di Norberto Bobbio

Un testo inedito di Norberto Bobbio sul fascino esercitato da alcuni teorici della destra
La rivalutazione della violenza è caratteristica di queste tendenze
Il passaggio da una parte all´altra non è una novità: il caso di Georges Sorel

Anticipiamo una parte del testo, pubblicato da "Micromega", della Lezione tenuta da l´8 marzo 1985 presso il Centro Studi Piero Gobetti di Torino, nel corso della IV edizione del seminario su "Etica e politica"
In questi ultimi anni c´è stata una certa confusione tra la sinistra e la destra, nel senso che molti studiosi di sinistra, che appartengono alla sinistra, che si dichiarano di sinistra, hanno rivendicato, o, come si dice oggi, con un anglismo che io non uso mai, «rivisitato» (da noi si dice: riconsiderato), degli scrittori di destra, per esempio Nietzsche, il quale era sempre stato considerato un filosofo reazionario, la massima espressione di una filosofia antisocialista, antidemocratica, soprattutto antiegualitaria (non è un caso che Hitler quando volle fare un regalo a Mussolini, gli regalò le opere di Nietzsche). Poi, soprattutto, Carl Schmitt, che è stato ritirato fuori dal mio amico e collega Gianfranco Miglio; Schmitt, scrittore politico, giurista, grande scrittore di diritto, ma che certo un progressista non è. E poi altri ancora: si può citare Junger, per esempio, che abbiamo ricordato più volte; Cioran, c´è anche questo scrittore rumeno, che però scrive in Francia (in Italia le sue opere sono state tradotte da Adelphi ed è stato citato con grande onore da Vattimo in un articolo recente)…
D´altra parte, se è avvenuta questa rivisitazione di scrittori di destra da parte della sinistra, è avvenuto anche il contrario. Abbiamo già più volte parlato di un "gramscismo di destra" Probabilmente molti di voi non sanno che una corrente della destra estrema si considera gramsciana e ha accolto alcune tesi di Gramsci, soprattutto quella cosiddetta dell´egemonia, e le ha fatte proprie.
Questo passaggio dalla destra alla sinistra e viceversa non è nuovo. Il caso più clamoroso, che dovrebbe essere riesaminato nel corso del nostro seminario, è quello di Sorel, che certamente è uno scrittore di sinistra. Da Sorel ha origine l´ala della sinistra rivoluzionaria, del sindacalismo rivoluzionario. Ma poi, non lui personalmente, ma i suoi seguaci – i seguaci italiani – sono diventati notoriamente dei fascisti, sono stati dei teorici del fascismo. Dico non lui personalmente, perché se Sorel sia stato o non sia stato fascista è ancora sub iudice. Non so se voi sapete che da qualche tempo esce una rivista dedicata a Sorel, edita da una associazione di studi francese, i Cahiers Georges Sorel (ne sono già usciti due volumi). Ebbene, nel primo, che è dell´anno scorso, è apparso un articolo di un autore francese il quale sostiene che Sorel non è mai stato fascista; l´ articolo è scritto proprio per confutare quella che lui chiama «la tenace leggenda del fascismo di Sorel».
Io non voglio entrare in questa polemica. Però è un fatto che molti seguaci di Sorel diventarono dei teorici del fascismo. Voglio ricordare soprattutto un autore, su cui forse vale la pena di ritornare, Sergio Panunzio, che fra le altre opere (io le ricordo perché sono tanto vecchio da ricordare quando Panunzio era professore all´università ai miei tempi) ha scritto un libro nel 1920 dal titolo Diritto forza violenza. Lineamenti di una teoria della violenza. Panunzio era stato uno dei sindacalisti soreliani e diventò poi un teorico del fascismo. La sua opera Dottrina del fascismo andava di pari passo con quella di Costamagna, che abbiamo più volte ricordato. Forse il libro di Costamagna è più interessante e varrebbe la pena di esaminarlo. Comunque il libro di Panunzio, quando lui lo scrisse nel 1920, era già un libro fascista.
Per dimostrare la commistione, lo scontro-incontro tra le varie ideologie, si può ricordare che questo libro fu pubblicato dall´editore Cappelli nella biblioteca di cultura politica di Rodolfo Mondolfo, con prefazione dello stesso Mondolfo, che non era né socialista rivoluzionario, né fascista ma era un grande amico di Turati – come di Gobetti – e un teorico del marxismo interpretato riformisticamente. La tesi di Panunzio era che bisogna distinguere la violenza dalla forza: la violenza è positiva e la forza è negativa. La violenza rappresenta la rottura di una società e il momento di trapasso dal vecchio al nuovo, la forza è autoritaria. Questa distinzione tra forza e violenza è proprio l´opposto di quella che di solito si fa. Generalmente si attribuisce valore positivo alla forza e negativo alla violenza. Per "forza" si intende la forza al servizio del diritto, la forza dello Stato, la coazione; quando i giuristi parlano della coazione dicono forza, mentre la violenza viene considerata negativamente. Qui c´è una inversione: una inversione che deriva da Sorel. Su questo non c´è dubbio. Per Sorel la violenza è positiva, la forza negativa. La violenza è eversiva, è l´"ostetrica della storia", per usare l´espressione di Marx; la forza è autoritaria.
In questi giorni, essendomi occupato di Carlo Levi, mi sono andato a rileggere gli articoli che Carlo Levi ha pubblicato su La Rivoluzione Liberale di Gobetti. Devo dire che l´articolo più interessante di Levi, oltre a quello su Salandra, è una recensione del libro di Panunzio, apparsa sul numero del 17 aprile 1923. Levi, giovinetto (aveva vent´anni), coglie molto bene la caratteristica fascista di questo libro. Anche se Panunzio era un soreliano e quindi veniva da sinistra, egli aveva ormai compiuto il suo viaggio da sinistra a destra. C´è una frase che mi ha particolarmente colpito e che mi pare spieghi molto bene come sia facile il passaggio da un estremo all´altro. Dice Levi: «L´unico pregio del libro è che ci permette di capire perché i sindacalisti rivoluzionari sono passati al fascismo. Gli adoratori della violenza proletaria si sono trasformati in zelatori di una violenza del tutto generica e scolorita dove il passo è breve alla violenza antiproletaria, che è appunto la violenza fascista, la violenza dei disoccupati amatori della violenza».
Si sposta il fine della violenza (inizialmente considerata mezzo lecito solo in rapporto a determinati fini), e poi, a un certo punto, la violenza diventa fine a se stessa. La violenza fascista è ormai fine a se stessa, non è più un mezzo per raggiungere un fine rivoluzionario.
Volendo ricordare un caso clamoroso di questo passaggio, si può fare il nome di D´Annunzio. È un episodio molto noto. D´Annunzio, eletto deputato al principio del secolo dalla destra, quando entrò in parlamento, si sedette all´estrema sinistra, pronunciando la famosa frase: «Vado verso la vita». Badate che la parola vita è importante. Vita perché c´è (lo vedremo dopo) un elemento di vitalismo nell´estremismo sia di destra sia di sinistra.
Questo passaggio dalla destra alla sinistra e viceversa sta alla base della tesi – questo è il nostro punto – che la differenza tra destra e sinistra non esista più o perlomeno sia sfumata. Le formulazioni di questa tesi sono molte, sostenute per lo più – almeno sinora – da destra. Sarebbe interessante sapere perché. Non saprei dire quale sia la causa e quale l´effetto: se si ritenga che non esiste più la differenza tra destra e sinistra per il fatto che c´è questo scambio di autori o se ci sia questo scambio di autori perché non c´è più questa differenza. Questo è il punto che dovremmo in qualche modo esaminare. Si potrebbe dedurre che questo avvenga perché la sinistra ha perduto la sua identità. La sinistra ha tanto perduto la sua identità che, si dice, non c´è più nessuna differenza tra destra e sinistra. Ma c´è anche una variante di questa tesi sostenuta dalla destra, che forse non abbiamo mai esaminato: che non si può più fare la distinzione tra destra e sinistra perché ormai la destra non c´è più. È tutta sinistra. È una tesi di estrema destra. Si sostiene che la sinistra ormai ha occupato tutto il campo e che la famosa destra, la destra conservatrice, la destra storica, la destra illuminata, la destra che aveva rappresentato, diremo così, l´evoluzione dell´Europa e dell´Italia, non c´è più.

Corriere on line 5.2.10

Veronesi: «La religione impedisce di ragionare»

«La religione, per definizione, è integralista, mentre la scienza vive nel dubbio, nella ricerca della verità»

MILANO - La religione impedisce di ragionare mentre la scienza vive nella ricerca della verità. Sono mondi molto lontani. Umberto Veronesi, nel corso di Sky Tg24 Pomeriggio, ha spiegato i motivi che, da scienziato, lo hanno portato ad allontanarsi dalla fede. «Scienza e fede non possono andare insieme - ha affermato l' oncologo - perché la fede presuppone di credere ciecamente in qualcosa di rivelato nel passato, una specie di legenda che ancora adesso persiste, senza criticarla, senza il diritto di mettere in dubbio i misteri e dogmi che vanno accettati o, meglio, subiti».
«INTEGRALISTA» - Secondo Veronesi, infatti, la religione, per definizione, è integralista, mentre la scienza vive nel dubbio, nella ricerca della verità, nel bisogno di provare, di criticare se stessa e riprovare. In sostanza, è la sua tesi, si tratta di due mondi e concezioni del pensiero molto lontani l'uno dall'altro, che non possono essere abbracciati tutti e due. Nel corso della trasmissione l'oncologo ha poi ricordato di venire da una famiglia religiosissima, «ho recitato il rosario tutte le sere fino ai 14 anni», ma di aver deciso di allontanarsi, nei primi tempi con grande difficoltà, dopo aver esaminato a fondo tutte le religioni. «Perché - ha concluso - mi sono convinto che ogni religione esprime il bisogno di una determinata popolazione in quel momento storico». (Fonte: Ansa)

The Lancet, Volume 375, Issue 9713, Page 434, 6 February 2010
Mental illness in Australian immigration detention centres

Detainees in Australian immigration centres have poor mental and physical health, according to a study by the University of Wollongong, NSW. 40% of those held for 2 years or longer developed new mental health symptoms. A third of Australia's 7375 detainees are seeking asylum under the 1951 UN Convention Relating to the Status of Refugees. Many are traumatised, with high rates of post-traumatic stress disorder and severe depression, and about 20% have been tortured, imprisoned for political offences, or have witnessed murder of family or friends.
The study was undertaken after UN and human-rights groups condemned the infamous Woomera detention camp in South Australia, and drew attention to serious flaws in Australia's treatment of asylum seekers. Australia hardly stands alone—the UK has seen suicides, self harm, and rioting among detainees, and has been accused of holding children and adults in removal centres arbitrarily. However, Australia is the only Convention signatory to detain illegal immigrants until deportation or visa acceptance, rather than humanely allowing community placement until immigration decisions are made. Last week, psychiatrist Patrick McGorry, 2010 Australian of the Year for his advocacy of better treatment for young people with mental illnesses, described detention centres as “factories for producing mental illness and mental disorder”. Disappointingly, Deputy Prime Minister Julia Gillard responded, stating “We believe mandatory detention is necessary, for security reasons”.
Although the situation in Australia has improved, with closure of remote desert detention centres and provision of non-camp facilities for children, the status quo is hardly satisfactory. The Australian Government and the Detention Health Advisory Group need to respond to this continuing problem as asylum seekers continue to flee conflict-ridden areas in Iran, Iraq, Afghanistan, and parts of southeast Asia. The Australian medical profession should support Patrick McGorry in lobbying government decision makers about the need to change harsh detention policies that erode the already fragile mental and physical health of asylum seekers.

L'espresso 21.1.10
Perché Baarìa ha fatto flop
di Alessandra Mammì

Il kolossal "made in Fininvest" era stato pensato per vincere tutto. Invece, dopo la débâcle di Venezia, è stato escluso sia dai Golden Globe sia dagli Oscar. Ma la sfortuna non c'entra. Il problema, semmai, è la presunzione
Era costruito apposta "Baarìa", nato per vincere tutto: il festival di Venezia, una manciata di Golden Globe e di sicuro l'Oscar come miglior film straniero. Chi altri sennò? E' un kolossal italiano come non se ne erano mai visti: 28 milioni di euro per ammissione dei produttori (Medusa più Tarek Ben Ammar) senza contare le varianti in corso d'opera e quelli spesi per il lancio. E poi giù numeri: 25 settimane di riprese, 12 mesi per ricostruire il paesino in Tunisia, sei ettari di set, un super cast con 63 attori professionisti, 147 non professionsti, 30 mila comparse... insomma tutto lo star system italiano più i volti da esportazione tipo Monica Bellucci. Per non parlare delle musiche firmate dall'Oscar Morricone che di certo non si è risparmiato. Sono cose che avrebbero dovuto colpire lo spirito pragmatico d'America.
E su questo, un affresco a tinte forti di quell'Italia pittoresca e genuina da cui arrivano spaghetti, pizza e belle donne. 

Ci si mise pure il Cavaliere a benedire il film prima del debutto a Venezia, definendolo un capolavoro in quanto vi aveva visto la storia di un comunista deluso dall'Unione Sovietica. Lettura tutta sua, ma che nella deep America che rimpiange la guerra fredda poteva dare i suoi frutti. Invece niente. Niente Venezia, niente Golden Globe e ora l'ultima umiliazione. Fuori persino dalla preselezione degli Oscar. 

"Baarìa" salutato dall'imponente tam tam dei media berlusconani come il film che avrebbe riportato all'Italia il massimo premio mondiale, non perde solo l'ingresso in cinquina, ma anche la faccia. «Il cinema italiano è sfortunato e l'Academy ingiusta», gridano i supporter. Ma la sfortuna stavolta non c'entra. C'entra il fatto che "Baarìa" non ha funzionato. E non solo all'estero. 

In Italia nonostante le fanfare e il bombardamento televisivo il film si è fermato a 10 milioni 525mila euro ( dati Cinetel). Incasso buono per un film medio, non per il più ambizioso kolossal italiano paragonato dai suddetti media ad "Amarcord" di Fellini e "Novecento" di Bertolucci (Dio li perdoni). Ma le chiacchiere stanno a zero: 10 milioni sono pochi quando si è superati persino da un filmino come "Cado dalle nubi" con Checco Zalone che arriva a 13 milioni ed è ancora in sala.
«Il film è un capolavoro riconosciuto internazionalmente e meritava l'Oscar», ha detto sotto schiaffo Carlo Rossella presidente di Medusa. Ma dove sta il riconoscimento se non si sfonda neanche sul pubblico nazionale e non si vince mezzo premio? Vero è che Ang Lee, presidente della giuria di Venezia, sotto tortura mediatica a cose fatte, ha dichiarato con diplomazia mandarina che lui in realtà a "Baarìa" un premio l'avrebbe dato. Però non l'ha fatto ed era presidente. Ed è ancor vero che gli house organ di Berlusconi hanno spiegato che i Golden Globe sono stati persi per un soffio. La solita storia di Martino e la cappa. 

Mentre ci si domanda come mai un film sugli aborigeni australiani girato in uno slum abbia potuto sconfiggere gli eserciti del Cavaliere e di Tarek Ben Ammar. Ma quel film "Samson&Delilah" è un meraviglioso mito portato fra le baracche, chi si stupisce vuol dir che a Cannes non lo ha visto. 
In realtà a sconfiggere "Baarìa" è stato "Baarìa" stesso e la presunzione dei suoi produttori che non hanno fatto tutti i loro conti. 

1) E' vero che l'Academy ama i kolossal e premia volentieri le grandi produzioni. Ma questo vale per i film di casa sua e per quel suo cinema che domina l'immaginario del mondo. Quando si tratta di premiare i film stranieri ecco che la musica cambia e a vincere sono spesso i film autoriali, di ricerca, sperimentali o ancora radicali, severi e perfetti come il capolavoro di Haneke "Il nastro bianco". Ragion per cui avremmo potuto avere più chance nominando agli Oscar il coraggioso e ottimo "Vincere" di Marco Bellocchio piuttosto che il muscolare Tornatore. Ma poi chi lo sentiva il Cavaliere? 

2) "Baarìa" è un film già visto. Non è il capolavoro di Tornatore, è il suo momento manieristico. Troppo virtuoso, troppo lungo, troppo ridondante e con tutti i colori della sua già nota tavolozza. In fondo ha avuto lo stesso destino degli "Abbracci spezzati" di Almodovar , buon film di repertorio che nulla aggiunge al curriculum del maestro. L'Academy se ne accorta e l'ha segati tutti e due.
3) Oltre ad essere già visto è un film vecchio. Somiglia a un quadro di Guttuso, a cui non a caso Tornatore rende omaggio più volte nel film come gloria nazional-siciliana senza rendersi conto che Guttuso non ha mai veramente superato le Alpi neanche quando era vivo e glorioso. Eppure è in qualche modo il suo maestro. C'è in "Baarìa" lo stesso palpito epico, i personaggi corpulenti, le bandiere rosse che punteggiano il capo cromatico. Come Guttuso, Tornatore ha una capacità di tenuta nell'affresco corale e un talento nel dipingere con segno sicuro e pennellate svelte, i personaggi minori. Ma i tempi son cambiati e i pennelli non bastano. Come non basta saper girare vorticosamente e virtuosamente. Il linguaggio visivo sta crescendo altrove. E come "La Vucciria" rifatta oggi non può vincere una Biennale, "Baarìa" non poteva meritare un Oscar.
(21 gennaio 2010)