lunedì 8 febbraio 2010

Repubblica 8.2.10
Suonerà Emma la sveglia al Pd?
di Mario Pirani

Quando Emma Bonino si presentò alle elezioni del Lazio, rompendo l´incantesimo delle trattative inconcludenti per cercare un candidato che non si trovava, scrissi che quel gesto, se raccolto con un sussulto di fantasia, avrebbe potuto aiutare gli elettori di centro sinistra a recuperare un senso di identità che era andato via via smarrendosi. Mi basavo su due precedenti, storicamente assai più rilevanti, che avevano in comune l´essersi rivelati praticabili dopo una specie di "precipitazione chimica", una "contaminazione" tra un personaggio esterno, eterodosso, e un partito stremato dalle sconfitte subite o indebolito dalla caduta della sua spinta propulsiva.
Il primo episodio si riferisce al rapporto tra Mitterrand e il partito socialista francese. All´inizio degli anni Settanta questo partito ridotto al lumicino, stracciato da De Gaulle, compromesso dalla guerra d´Algeria, tallonato a sinistra dai comunisti non raccoglieva ormai più del 6-7% dei voti. Si susseguirono vani tentativi di rilancio, fino al congresso di Epinay, dove vennero chiamati al capezzale del morituro anche gruppetti e circoli radicali, post sessantottini ed altri. Il personaggio esterno più noto era l´ex ministro radicale, Francois Mitterrand che, avvantaggiato dalla generale debolezza della coalizione, si offrì come federatore e futuro candidato alle elezioni presidenziali.
Sconfisse la vecchia nomenclatura socialista, trasformò il partito in "partito del candidato", funzionale al presidenzialismo e al combinato disposto tra "effetto presidenziale" e "effetto maggioritario", e dieci anni dopo, il 10 maggio 1981, vinse le presidenziali. Il partito socialista, completamente trasformato dalla sua "contaminazione", governerà a lungo.
L´altro episodio l´ho vissuto personalmente. Nel 1976 Altiero Spinelli che frequentavo quasi quotidianamente, stava per scadere da commissario della Comunità europea, dove era stato nominato da Nenni, ministro degli Esteri del centro sinistra.
Avrebbe voluto continuare la sua battaglia per una Europa diversa ma si stava rassegnando a ritirarsi ormai a vita privata per accudire la moglie inferma. In quei giorni ricevette una telefonata da Antonio Giolitti che gli proponeva a nome del Psi di correre come sindaco alle elezioni di Roma, ma la carica non gli interessava. «E se ti offrissero un altro trampolino per l´Europa? Nel ´79 ci saranno le elezioni dirette per Strasburgo e, nel frattempo, a maggio, si svolgeranno quelle nazionali. Cosa ne dici?», buttai lì quasi per caso. «Allora sarebbe diverso», rispose. Conoscevo un solo personaggio, non socialista ma comunista, Giorgio Amendola, in grado di capire e raccogliere un messaggio del genere. Gli telefonai. Mancavano tre giorni alla presentazione delle candidature. Berlinguer dette ordine di rivoluzionare l´ordine dei capilista a Roma e Torino per lasciare spazio ad un reprobo che era stato cacciato dal partito nel 1937 e che si era inventato quel sospetto federalismo europeo. A quei tempi i comunisti si erano semi convertiti all´Europa, ma ogni tanto ci ripensavano (voteranno ancora contro il Sistema monetario europeo e contro gli euromissili, invisi all´Urss). Ma la ventata di europeismo che Spinelli riuscì negli anni di Strasburgo ad infondergli sono alla fine risultati decisivi. Il paragone con la Bonino, sia chiaro, non vuol essere storico ma "chimico".
Se il Pd seguiterà a tormentarsi su se medesimo, a dilaniarsi in ridicole contese interne, a perdere tempo (a 50 giorni dal voto non ha ancora scelto i candidati e neppure gli scrutatori, non ha stampato un manifesto o indetto un comizio) presto chiuderà bottega per fine esercizio. Gli resta una grande opportunità: dal popolo che è corso a votare Vendola a quello che si affolla alle prime apparizioni di Emma Bonino, emana una autentica passione.
Forse un "innesto" esterno ridarà linfa al Pd. Se ne faccia "contaminare", accantoni pretese e povere gelosie. Persino la "gioiosa macchina da guerra" potrebbe ripartire.

Repubblica Roma 8.2.10
Bonino: la Regione non è al servizio del Campidoglio
La Bonino polemizza con il sindaco. Il Pdl: non è informata. Cesa: "Emma osso duro"
di Chiara Righetti

La frecciata all´"asse" Alemanno-Polverini arriva da Frosinone, dove Emma Bonino incontra i Giovani socialisti. «Da molte dichiarazioni, anche di esponenti dell´altro schieramento, sembra che la Regione debba essere concepita come ente al servizio del sindaco di Roma o di Roma come tale». Diverso, spiega la candidata del centrosinistra, il modello di Lazio che ha in mente: «In giunta saranno rappresentate tutte le Province, perché è la Regione nel suo insieme che può e deve essere competitiva».
«A Renata voglio dare un consiglio - aveva detto Casini in mattinata - La sua non sia una candidatura in continuità con la giunta Alemanno, deve avere requisiti di trasversalità da non disperdere in campagna elettorale». Ma è stata la stessa Polverini la prima a parlare del «patto d´onore» siglato col sindaco prima di accettare la candidatura. Tema ripreso da Alemanno, che giorni fa ha scaldato il Palacongressi spiegando al Pdl come sarà il futuro di Roma se Comune e Regione avranno giunte dello stesso colore. E del resto Fabio Rampelli l´ha detto chiaro: «Il piano per il lavoro del sindaco è al centro del nostro programma». Tuttavia la frecciata irrita Andrea Augello, che ribatte: «Temo che la Bonino non sia ben informata. Gran parte degli ex assessori regionali erano assessori o consiglieri di Veltroni: Montino, Di Carlo, Nieri, Valentini». E aggiunge che «nell´era Veltroni il Campidoglio dispose largamente di risorse regionali, e il povero Marrazzo fu oscurato dal primo cittadino; dopo la vittoria di Alemanno è arrivato il contrordine».
La Bonino, che oggi vedrà Acer e Legacoop, raccoglie l´appello di Zingaretti sul listino: «Dobbiamo liberare energie, aprire alla società e chiamare a raccolta, non solo in campagna elettorale, imprese, volontariato, cooperative, spesso emarginati dall´eccessiva presenza dei partiti». Tra le energie da raccogliere anche quelle al femminile, con il grande raduno di domenica prossima. Sarà presentato oggi l´accordo con la Federazione della sinistra, mentre la direzione Pd riunita a discutere delle liste dovrebbe ufficializzare il ruolo di capolista per Montino.
Bonino avverte: «La coalizione avversaria è potente, non solo dal punto di vista finanziario. La sfida è difficile, ma potrà essere vinta se ognuno si sentirà candidato». Il segretario Udc Lorenzo Cesa ricambia la cortesia: «La Bonino è un osso duro, non sarà una passeggiata. Ma credo che Renata riuscirà a guidare la Regione, abbiamo condiviso questioni importanti che devono far fare al Lazio un balzo in avanti». Cesa glissa opportunamente su un altro balzo in avanti della Polverini, quello sulle coppie di fatto: «Più opinione personale che sostanza, perché il programma parla chiaro». Poi interviene Luciano Ciocchetti, che ne approfitta per "mettere il cappello" su un posto in giunta regionale: «Abbiamo proposto alla Polverini e lei lo ha sottoscritto - ricorda il segretario regionale Udc - di creare un assessorato unico per Lavoro, formazione e politiche giovanili». In prima fila al convegno Udc c´è anche la mamma della candidata, che ieri non si è sottratta al consueto tour de force: in mattinata era a Viterbo, dove ha parlato ancora dell´aeroporto; dopo pranzo è riapparsa dagli schermi di Domenica In a spiegare che «serve un patto tra generazioni, o avremo tante Alcoa».

Repubblica 8.2.10
Quando sognavamo Giustizia e Libertà
di Beniamino Placido

Pubblichiamo una lettera di Beniamino Placido alla figlia Barbara del 1990. Sulle sue passioni politiche e l´impegno
"Tutti noi siamo fatti anche di miti, di pulsioni, di interessi, di ambizioni"
"Il vecchio spirito azionista: provarci sempre. Senza paura di fare. Senza paura di sbagliare"

Carissima Barbara, ho voglia di raccontarti tantissime cose (due o tre almeno) ma non so da che parte incominciare. Comincerò allora con un fatto antico, antichissimo, quasi un episodio d´infanzia: che potrebbe, dovrebbe (vorrebbe?) commuoverti.
Nei primissimi anni del dopoguerra c´era in Italia una cosa bellissima: il Partito d´Azione. In Lucania l´aveva fondato zio Valentino, con altri giovani antifascisti. Altri antifascisti – giovani o meno giovani – l´avevano fondato in tutta Italia. Il Partito d´Azione veniva fuori da una tradizione degnissima. Dal gruppo di "Giustizia e Libertà"; che era stato fondato da Carlo e Nello Rosselli, due meravigliosi antifascisti fiorentini, che il Fascismo aveva fatto uccidere: esuli in Francia. Il Partito d´Azione è stato l´unico gruppo politico organizzato a fare del vero attivo antifascismo, durante il ventennio, accanto al Pci. I suoi rappresentati avevano fondato il Non Mollare, quando tutti mollavano. Poi andarono, uno dopo l´altro, in galera e ci rimasero per un bel po´. Ernesto Rossi, l´economista ( autore di Abolire la miseria; I padroni del vapore, Settimo non rubare) anche per tredici anni di fila.
Chi ha fatto la resistenza? Due gruppi politici: i comunisti e gli "azionisti" (che venivano anche chiamati sprezzantemente "visipallidi" perché non avevano la faccia contenta e biscottata alla Berlusconi). In che cosa gli "azionisti" erano diversi dai comunisti? In questo: volevano la Giustizia, ma volevano anche la Libertà.
Benedetto Croce diceva che non era possibile. Che se tu vuoi proprio la Giustizia, l´Uguaglianza, finirai fatalmente col rinunciare alla libertà. Farai la fine della Russia di Stalin. Gli "azionisti" erano fermamente avversi alla Russia di Stalin. Mai, neppure per un momento, cedettero alle fiabesche sciocchezze che sulla Russia comunista i comunisti italiani allora dicevano. E che si sono dimostrate sanguinosamente false.
Questo li rendeva invisi a Dio ed ai nimici sui. Ai conservatori come ai comunisti ortodossi (con i quali conservarono però sempre un rapporto di affettuosa, rissosa familiarità). Nel Partito d´Azione militavano tutti (o quasi tutti) gli intellettuali italiani di quegli anni. Quelli grandi, di cui non ti faccio i nomi perché non ti direbbero nulla (De Ruggiero, Omodeo, Arturo Carlo Jemolo, Calamandrei, Codignola) e tanti altri più piccoli. Anche per questo, anche per questo prestigio, il Partito d´Azione ebbe subito fortuna, in tutto il Paese. Che aveva contribuito a liberare dai fascisti e dai nazisti.
Pensa che a Rionero, paesino di dodicimila abitanti, la sezione fondata da zio Valentino contava seicento iscritti. Poi cosa accadde? Accadde che questi intellettuali si misero a litigare fra di loro. Arrivò la scissione, consumata in un dolorosissimo, drammaticissimo congresso a Roma, al Teatro Italia (che si trova intorno a Piazza Bologna).
Il Partito d´Azione si sciolse. I suoi rappresentati più bravi si distribuirono tra i vari partiti della sinistra italiana. E vi hanno fatto le cose migliori. Cosa sarebbe stato il Partito Repubblicano italiano senza Ugo La Malfa? Cosa sarebbe stato il Partito Socialista italiano (quello di Nenni, non quello attuale di Craxi) senza Riccardo Lombardi? E questi nomi forse ancora dicono qualcosa (spero) a quelli della tua generazione.
Il Partito d´Azione si sciolse, ma non si dissolsero nel nulla i suoi componenti: anche quelli più piccoli, in ogni senso. Continuarono ad operare nella società civile, dentro e fuori i partiti, dentro e fuori le Università, dentro e fuori i sindacati. Mai rassegnandosi all´ondata di restaurazione che intanto era arrivata. La prima delle tante ondate di restaurazione che di tanto in tanto affliggono il nostro Paese. Ondata di restaurazione propiziata da un enorme imperdonabile errore del Partito comunista di allora: presentandosi come paladino della Russia di Stalin – che aveva impiccato abbondantemente, che continuava ad impiccare allegramente – i comunisti resero più agevole l´inondazione democristiana del 18 aprile 1948. Inondazione che perdura; dalla quale cerchiamo faticosamente di riemergere.
Fra quegli "azionisti" c´era anche il tuo papà: piccolo, piccolissimo allora; piccolo, piccolissimo sempre. E che non ha mai dimenticato quel giorno lontano. Quando la notizia ufficiale dello scioglimento arrivò. Quando la sezione del Partito d´Azione di Rionero fu chiusa. Quando quelle bandiere gloriose, ardimentose (le bandiere del Partito d´Azione erano rosse, con lo stemma di G. iustizia e L. ibertà) nel mezzo: gli azionisti si chiamavano "compagni") si ammonticchiarono nel cortile della nonna: dove erano state portate amorosamente da zio Valentino. E poi furono mandate al macero. Mai dimenticato.
Perché morì il Partito d´Azione? Ce lo si è chiesto molte volte. Dedicò all´interrogativo le sue riflessioni Palmiro Togliatti. Forse abbiamo una spiegazione. Che potrebbe interessare l´antropologo. Morì perché terribilmente astratto. Composto da intellettuali, aveva l´intellettualistica convinzione che gli uomini fossero fatti di sola razionalità. E che quindi bastasse fare appello alla loro ragione per convincerli a votare. Gli uomini (tutti gli uomini e tutte le donne: anche noi, non solo "gli altri") sono fatti anche di miti, di pulsioni profonde e inconfessabili, di ambizioni, di interessi. In una cosa invece il Partito d´Azione aveva ragione. Così come «non si fa la poesia con i sentimenti, ma con le parole» (l´ha detto Paul Valery) non si costruisce la società giusta con i sentimenti, siano pure i più nobili, ma con le articolazioni istituzionali.
Ed è questo che avrei voluto dire agli studenti dell´Università di Roma; è questo che vorrei dire a tutti coloro che stanno dentro a questo dibattito sulla nuova sinistra da costruire: a quelli del no, a quelli del sì, a quelli del forse. Lo avrei detto – tanto per cambiare – nella forma di un raccontino. Che si riferisce anch´esso – tanto per non cambiare – alla mia "infanzia" lucana. Il racconto ha una premessa. La seguente. Non è che sia venuta meno in noi la voglia di volare. Negli "azionisti" non viene mai meno. E adesso tu sai che tuo padre è un "azionista": non nel senso finanziario del termine, fortunatamente. No, la voglia di volare alto, di non strisciare per terra, di non vegetare, è sempre quella. Ma come si fa a volare? Quand´eravamo ragazzi, a Potenza, ci pensavamo sempre, talvolta ne parlavamo. Una volta, passeggiando passeggiando, ci trovammo sul ponte di Montereale, che è altissimo e maestoso. Uno di noi, che si chiamava Brucoli – e quindi era della dinastia dei gelatai di Potenza, e quindi apparteneva alla buona società potentina – ad un certo punto si affacciò dalla spalletta del ponte, guardò in giù (cinque metri di altezza). Poi prese il suo bastone – si poteva permettere di andare in giro con un bel bastone liberty fra le mani – e lo buttò. Poi chiese a noi – che con lui ci eravamo affacciati a guardare nella valle sottostante – ha volato il mio bastone? Si è fatto forse male? E allora volerò anch´io. Si buttò giù, e si ruppe tutte e due le gambe.
La voglia di volare – generosa e legittima – che animava i comunisti classici, che anima oggi alcuni gruppi di studenti, rassomiglia a questa. Non porta da nessuna parte. Solo ai disastri, personali o collettivi. Abbiamo imparato poi a volare. Ma rispettando le leggi di gravità, non violandole. Ma rassegnandoci ad essere – paradossalmente – più pesanti dell´aria, senza illuderci di poter mai diventare più leggeri. Ma costruendoci dei dispositivi artificiali e complessi: estremamente artificiali, estremamente complessi. Che non ci danno la soddisfazione del volo umano, ma ci fanno andare per aria, a rispettabile velocità.
E non è questa la civiltà, non è questo il progresso? La civiltà è una continua costruzione di protesi, un assiduo artigianato ortopedico. Per correggere l´inuguaglianza di partenza nel senso dell´uguaglianza; per correggere le ingiustizie di base nel senso della giustizia. Non ci si può aspettare che la libertà di stampa arrivi solo perché da qualche parte qualcuno si illude di aver costruito, o trovato, o inventato l´"uomo nuovo". Solo perché è stato eliminato il capitalismo. Come pensavano i comunisti dell´altro ieri. Come pensavano quegli studenti di ieri. Questo vale a maggior ragione per la libertà di stampa: che si costruisce – e si custodisce – non con gli esorcismi verbali all´indirizzo del capitalismo, ma con un artigianale lavoro di revisione delle leggi. Tenendo conto di resistenze, inerzie, interessi, eccetera.

Cara Barbara, non sono sicuro che questi uomini di sinistra del "forse" siano migliori di quelli del "sì", e di quelli del "no". Però sono la mia cultura, la mia biografia, la mia storia, hanno qualcosa del vecchio (e mai morto) spirito azionista. Provarci sempre, non cedere mai. Senza paura di fare. Senza paura di sbagliare.
Un abbraccio
dal tuo papà
Roma, domenica 11 febbraio 1990

l’Unità 8.2.10
L’area Marino lancia il maxi-Pd Ma l’idea non convince Bersani
di Simone Collini

Per il segretario Pd è sbagliato voler andare sempre oltre l’esistente: «Ora concentriamoci ad accorciare le distanze tra le forze di opposizione». E registra con soddisfazione il «cambiamento» dell’Idv.

«Serve una prospettiva diversa», dice Michele Meta, «c’è un disorientamento interno molto forte a cui dobbiamo saper rispondere». E per il coordinatore dell’area Marino la risposta sta nel dar vita a «un Pd più largo e aperto rispetto al duopolio sinistra-cattolici democratici». Si chiude con questa proposta politica il seminario organizzato ad Orvieto dal senatore-chirurgo e i suoi. Ignazio Marino, aprendo i lavori sabato, ha chiesto a Bersani di lavorare sui «contenuti» per dare un profilo più netto al partito e di smetterla di «privilegiare» l’Udc. Meta fa un passo oltre e, come già Bettini qualche giorno fa, propone un drastico cambio di strategia: «È fallita la vecchia idea delle alleanze e di un centro-sinistra come somma algebrica di tutti quelli contro Berlusconi. E abbiamo visto che non funziona un Pd fondato su una sorta di minicompromesso storico interno perché produce solo una trattativa di potere». La proposta è di dar vita a un «maxi-Pd» che si apra alle forze di sinistra
Ignazio Marino rimaste fuori dal Parlamento e ai Radicali: «La vittoria di Vendola alle primarie pugliesi e la candidatura di Bonino nel Lazio non sono due incidenti di percorso ma due opportunità».
ACCORCIATE LE DISTANZE
L’ipotesi del «maxi-Pd» non convince però Bersani, che dopo aver partecipato all’iniziativa sabato, ne ha seguito a distanza la chiusura. L’«oltrismo», il voler andare oltre l’esistente, non gli piace. E invece per il leader Pd ora vanno registrati il positivo «cambiamento» dell’Idv, gli accordi siglati con la sinistra in quasi tutte le regioni e anche il fatto che la stessa Bonino ha riconosciuto che dopo il congresso il rapporto tra Pd e Radicali ha conosciuto «un nuovo inizio». Le distanze tra le forze di opposizione «si stanno accorciando», nota con soddisfazione Bersani dopo questo fine settimana. E se Casini va all’attacco sostenendo che «l’Idv è un macigno su qualsiasi alternativa credibile a Berlusconi», secondo il leader Pd queste sono parole che hanno più a che vedere con la campagna elettorale che con la reale intenzione dei centristi di fare fronte comune contro l’asse Pdl-Lega.❖

l’Unità 8.2.10
Finanziamento pubblico
Editoria, l’ultima chance
di Vincenzo Vita

Allarme rosso per le testate –nazionali e localinon profit, cooperative, di partiti e movimenti politici, di minoranze linguistiche, di comunità italiane all’estero. L’ultima legge finanziaria abolì, con il maxiemendamento del governo arrivato all’ultimo con la protezione del voto di fiducia, il diritto soggettivo dei giornali ad accedere ai contributi pubblici previsti dalla legge. Dal 2010: dunque subito, visto che le risorse vengono erogate l’anno successivo. Ora c’è una possibilità (forse l’ultima?) di rimettere nella nostra normativa quel diritto. Almeno per due anni, una “tregua” necessaria a varare la tanto necessaria riforma del settore. È la richiesta di un emendamento “bipartisan” presentato nella discussione del decreto “milleproroghe”: adesso al voto presso la commissione affari costituzionali del Senato. Senza l’approvazione di quell’emendamento, ogni ipotesi di riordino è una presa in giro, a cominciare dal Regolamento portato dal sottosegretario Bonaiuti competente per materianelle sedi parlamentari. Ed appare ancor più squallido il conflitto di interessi pantelevisivo di cui sono vittime proprio l’editoria e la rete. Tra l’altro, la stessa commissione bilancio, generalmente rigidissima, ha dato parere favorevole, pur chiedendo la riduzione da due a un anno del periodo di transizione. Così, a maggior ragione, se la “tregua” troverà, al contrario, il consenso nella commissione, sarà più facile il completamento positivo dell’intero iter nelle due Camere. E diverrà credibile discutere con la cura dovuta la revisione degli stessi meccanismi che presiedono al finanziamento pubblico, da rendere insieme più aperti alle novità e di maggior rigore nei criteri. Sono almeno cento le testate interessate, quelle meno tutelate dal finto mercato dei media italiani. Sindacati, Federazione della stampa, associazioni si sono espressi nettamente. E, quindi, speriamo bene, benché il recente decreto sulla televisione o l’ennesimo colpo alle edicole non siano sintomi incoraggianti. Ma battiamoci fino in fondo: la difesa della libertà di informazione non ammette tregue. ❖

Repubblica 8.2.10
La fiction sull'uomo che provò a chiudere i manicomi è una bella "rivoluzione"
Basaglia in tv, l'utopia dei matti
di Umberto Galimberti

Trasformare i pazzi in uomini la bella rivoluzione va in tv
Precisione efficacia e commozione nella descrizione delle pratiche punitive terribili
Il medico si batté contro la miseria e il degrado a cui la follia non di rado si imparenta
Stasera su RaiUno la seconda puntata di "C´era una volta la città dei matti", il bel film di Marco Turco che ripercorre la vicenda dello psichiatra veneziano. E ci convince a non cancellare le sue conquiste

COME faccio a sapere che malattia ha una persona legata in un letto di contenzione da 15 anni? Come faccio a sapere di che cosa soffre un individuo a cui sono stati tolti, oltre ai suoi abiti, tutti gli oggetti personali, in cui poter rintracciare una pallida memoria di sé?
E che dire di quanti, in occasione di una crisi, venivano immersi in un bagno d´acqua gelata, o sottoposti a elettroshock? Erano queste alcune domande che Franco Basaglia si era posto quando, escluso dalla carriera universitaria per le sue idee non proprio in linea con la psichiatria vigente, giunse a Gorizia a dirigere il manicomio di quella città.
Marco Turco, regista della fiction televisiva, la cui prima puntata è andata in onda su RaiUno ieri sera, descrive con precisione, efficacia e commozione le pratiche di punizione, di controllo e persino di tortura che si praticavano nei manicomi in nome della scienza psichiatrica, ma soprattutto coglie e mette bene in evidenza che la chiusura dei manicomi era, negli intenti dello psichiatra veneziano, solo un primo passo verso una rivisitazione dei rapporti sociali a partire dalla "clinica", la quale, per tranquillizzare la società, non aveva trovato di meglio che incaricare la psichiatria a fornire le giustificazioni scientifiche che rendessero ovvia e da tutti condivisa la reclusione dei folli entro mura ben cintate.
Entro queste mura Basaglia, prima della follia, incontrò la miseria, l´indigenza, il degrado, l´emarginazione, l´abbandono, la spersonalizzazione, a cui la follia non di rado si imparenta. Infatti la follia dei ricchi non si esprime con la "segregazione", ma tutt´al più con l´"interdizione", qualora intacchi gli interessi patrimoniali. E allora non è che per controllare e contenere questa miseria non s´è trovato modo migliore che renderla muta come "miseria" e farla parlare solo come "malattia"?
Questo tema è messo bene in evidenza dallo sceneggiato televisivo che ha colto perfettamente l´intenzione di Basaglia secondo il quale: se la clinica ha messo il suo sapere al servizio di una società che non vuole occuparsi dei suoi disagi, non è il caso di tentare a l´operazione opposta, ossia l´accettazione da parte della società di quella figura, da sempre inquietante, che è la follia, dal momento che, scrive Basaglia: "La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, per tradurre la ‘follia´ in ‘malattia´ allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d´essere che è poi quella di far diventare razionale l´irrazionale. Quando qualcuno è folle ed entra in manicomio smette di essere ‘folle´ per trasformarsi in ‘malato´. Diventa razionale in quanto malato".
L´ansia di accreditarsi come scienza sul modello della medicina ha fatto sì che la psichiatria trascurasse, senza curarsene, la "soggettività" dei folli, i quali furono tutti "oggettivati" di fronte a quell´unica soggettività salvaguardata che è quella del medico. Ma è davvero credibile che, negando istituzionalmente la soggettività del folle, sia possibile guarirlo, cioè restaurarlo nella sua soggettività? Di qui l´invito agli operatori sanitari di togliersi i camici, simboli del potere medico che non può operare, dice lo sceneggiato, se prima non si smonta il lager. "Ma i pazienti sono muti" obiettano gli infermieri. E allora, risponde Basaglia: "Avresti voglia di parlare quando nessuno ti ascolta?". E ancora: "Le anime di questi pazienti non sono ‘vuote´, come voi dite, ma semplicemente ‘svuotate´, in questo carcere di cui voi siete ‘buoni´ carcerieri, ma sempre carcerieri". E poi perché non restituire ai ricoverati gli abiti e i loro effetti personali. "Se a voi, medici e infermieri, togliessero tutte le cose più care che avete in casa, che cosa resta di voi?"
Accettando la condizione di parità tra medico e paziente Basaglia scopre che, restituendo al folle la sua soggettività, questi diventa un uomo con cui si può entrare in relazione. Scopre che il folle ha bisogno non solo delle cure per la malattia, ma anche di un rapporto umano con chi lo cura, di risposte reali per il suo essere, di denaro, di una famiglia e di tutto ciò di cui anche il medico che lo cura ha bisogno. Insomma, dice Basaglia: "Il malato non è solamente un malato, ma un uomo con tutte le sue necessità".
L´utopia di Basaglia di fare della clinica un laboratorio per rendere "umane" e non "oggettivanti" le relazioni tra gli uomini, attraverso la creazione di servizi di salute mentale diffusi sul territorio, residenze comunitarie, gruppi di convivenza, con la partecipazione di maestri, educatori, accompagnatori, attori motivati, oggi sembra in procinto di naufragare e fallire. Anche se l´Organizzazione Mondiale della Sanità, che nel 2003 ha definito la legge Basaglia che ha chiuso i manicomi come "uno dei pochi eventi innovativi nel campo della psichiatria su scala mondiale", ci informa che un giovane su cinque in Occidente soffre di disturbi mentali, che nel 2020 i disturbi neuropsichiatrici cresceranno in una misura superiore al 50 per cento, divenendo una delle cinque principali cause di malattia, di disabilità e di morte. Che facciamo? Mettiamo tutti in manicomio o facciamo recuperare loro quel rapporto col mondo che il manicomio preclude definitivamente e i servizi di salute mentale, così come sono oggi, non garantiscono, per incuria, trascuratezza, indifferenza, per la paura che la società ha della diversità che ospita nelle figure degli immigrati, dei tossici, dei senzatetto, degli emarginati?
Questo Basaglia lo temeva e perciò, un anno prima di morire scrisse: "Magari i manicomi torneranno a essere chiusi e più chiusi di prima, io non lo so, ma a ogni modo noi abbiamo dimostrato che si può assistere la persona folle in un altro modo, e la testimonianza è fondamentale. Noi, nella nostra debolezza, in questa minoranza che siamo, non possiamo ‘vincere´, perché è il potere che vince sempre. Noi possiamo al massimo ‘convincere´. Nel momento in cui convinciamo, vinciamo, cioè determiniamo una situazione da cui sarà più difficile tornare indietro". E il contributo dello sceneggiato televisivo, bellissimo nel suo ritmo, nelle sue cadenze e nella sua documentazione, va nella direzione di convincerci a non tornare indietro.

l’Unità 8.2.10
Questioni di cuore sul lettino
Nuovi modelli clinici Lo psicanalista, i genitori e il bambino, tutti insieme nella stessa stanza
di Manuela Trinci

Dina Vallino la chiama «consultazione partecipata», un’esperienza creativa: mette al centro il fatto che l’analisi diventa un campo di studio per i genitori e per il bambino.

«Questioni di cuore» quelle che arrivano nella stanza di analisi infantile portate da babbi e mamme al-
le prese con l’incomprensibile malessere dei loro bambini. Genitori con le lacrime a fior di pelle, tormentati dalla colpa di aver commesso chissà quanti e quali errori, o paralizzati da un senso di inadeguatezza per scelte educative impellenti, e comunque sia genitori che chiedono consiglio e aiuto coi cuori palpitanti per il futuro dei loro piccini. E sono proprio le «questioni di cuore» ad essere messe al centro dell’ultimo, avvincente, libro di Dina Vallino psicoanalista didatta della Società Psicoanalitica Italiana e psicoanalista infantile – intitolato Fare psicoanalisi con genitori e bambini (Ed. Borla, pp. 293, euro 30,00).
Un lavoro psicoanalitico tanto straordinario quanto inedito rispetto alla tradizione quello proposto dalla psicoanalista milanese dove all’unisono genitori e figli sono i protagonisti in azione. Indubbiamente, in quella che Dina Vallino chiama la «consultazione partecipata» si annuncia un nuovo modello clinico. Un modello corale, dalle molte facce, focalizzato sulla collaborazione tra lo psicoanalista e i genitori, integralmente riconosciuti «nelle loro funzioni naturali, che sono quelle di accudire, curare, vigilare sui loro figli».
Ma non sembri scontato perché, anche in un recente passato, l’analisi infantile, costruita sulle analogie con quella degli adulti, giustificava il lasciare fuori dalla stanza d’analisi i genitori, centrandosi piuttosto sulla relazione intrapsichica fra analista e piccolo paziente. Nel tempo, le riflessioni su questa stessa esperienza ne hanno contraddetto i presupposti, mostrando la solitudine dei genitori nonché il loro sentirsi esautorati ed esclusi da un’esperienza così importante. Senza considerare che sono stati proprio i nuovi scenari familiari – dal progressivo sgretolamento del welfare state, con mamme strangolate fra corse in carriera o angosce di disoccupazione, all’aumento di divorzi e big-family conseguenti, alle tantissime adozioni ecc... a dirottare più o meno forzatamente la psicoanalisi verso un’apertura diversa ai problemi dei genitori con i figli.
In tale modificato panorama, la «consultazione partecipata» (a ben guardare leggibile come una sorta di estensione dell’Infant observation, che genera la consuetudine a stare con i genitori e il loro bambino, insieme) è una delle esperienze più creative che mette al centro il fatto che l’analisi diventa un campo di studio: per i genitori, per riconoscere i loro fraintendimenti e, per il bambino, per apprendere come avviene il confronto con la realtà di punti di vista diversi dai suoi.
GUARDARE CON OCCHI NUOVI
Parlare con il bambino anziché parlare di lui, predisporre uno schermo sul quale madre e padre abbiano l’opportunità di guardare il figlio con occhi nuovi e di capire il legame che passa tra loro, cogliere l’atmosfera emotiva familiare, rendere i genitori consapevoli di come anche un bebé sia sensibile ai loro lamenti o commenti, di come per i piccoli perdere la cacca possa essere pauroso, così come allontanarsi troppo dalla mamma gattonando, così come andare a scuola o mangiare o dormire. Ecco, durante questo lavoro di cooperazione, le paure, come qualsiasi altro segnale o sintomo dei bambini, devono essere osservati, segnalati. Bisogna andare oltre i comportamenti, cogliere le sofferenze interne, mostrare ai genitori
la vulnerabilità del bambino, il suo bisogno di protezione e di sicurezza ma anche il suo il suo talento. Cambiare, ribaltare l’ottica... e, dunque, far respirare i legami che già ci sono, raccogliere le note di fiducia rispetto alla stanchezza, liberare il campo dai fraintendimenti per arrivare a relazioni più schiette. Nella «consultazione partecipata» emergono conflitti, rabbioni, rimproveri, desideri; e i pensieri segreti possono essere narrati, trovando un «luogo» immaginario, ma concreto, per farsi riconoscere da tutti.
Così bambini e genitori si fanno inventori di sogni e brandelli di storielle ascoltate, di cartoon, di quotidiana banalità possono venire ricamati, tessuti, cucinati, raccontati o messi in scena giocando. Dal fraintendimento alla comprensione confortante, sotto l’occhio poetico di Dina Vallino, i genitori ritrovano quella tenerezza che aiuta a crescere. Tutti.❖

La Stampa 8.2.10
Dimenticare i manicomi
Salute mentale, il recupero attraverso il lavoro funziona
Lavorare come matti: a trent’anni dalla morte di Basaglia si moltiplicano le esperienze di recupero. In Spagna la catena di Zara apre un outlet di abbigliamento gestito da disabili psichici
di Gian Antonio Orighi
qui
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/societa/201002articoli/51996girata.asp

La Stampa 8.2.10
Piccoli Freud ti aiutano in Rete
Tra i sogni ricorrenti la paura per gli esami
È boom di siti che interpretano i sogni: «Sono queste le nuove community»
di Alice Castagneri
qui
http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/societa/201002articoli/51975girata.asp


l’Unità 8.2.10
La riforma delle superiori ha il solo scopo di ridurre gli organici specie nei tecnici e professionali
I tagli per una scuola classista

Tagli e ancora tagli. E poi, con la canalizzazione precoce, una scuola sempre più classista. È assai negativo il giudizio della Flc CGIL sui nuovi regolamenti della scuola superiore che ridisegnano licei, istituti tecnici e professionali e che sono stati la scorsa settimana approvati dal Consiglio dei ministri. Altro che riforma epocale, come è stato sbandierato con grande enfasi dal ministro Gelmini e dal premier Berlusconi: “Ciò che il governo ha approvato – ha commentato duramente Mimmo Pantaleo, segretario generale Flc – non è una riforma ma solo una rigorosa applicazione dei tagli decisi dal ministro Tremonti”. Con una forte coloritura, come dicevamo, classista: “La decisione di ridurre l'orario nella classi successive alla prima e nei soli istituti tecnici e professionali – aggiunge il sindacalista –, accentua la separatezza tra i diversi segmenti, producendo nei fatti una divisione sociale grave e inaccettabile tra i giovani, sulla base del censo e delle condizioni sociali e culturali di partenza”. Questo vulnus è stato reso possibile dalla volontà di procedere al taglio di quasi 20.000 cattedre nei prossimi due anni e che “risale” alla legge 133/08; tuttavia, visto che il parere delle commissioni Cultura di Camera e Senato e del Consiglio di Stato aveva sconsigliato di far iniziare la riforma dalle prime classi, si è deciso di tagliare nelle classi seconde, terze e quarte degli istituti tecnici e professionali, che così passano da 36a32ore.
La riforma appena approvata rende ancora più importante il percorso di iniziative già deciso dalla CGIL. Il 17 febbraio sarà organizzata una grande assemblea nazionale della scuola secondaria superiore, aperta agli studenti, alle associazioni e alle forze politiche per decidere tutte le opportune iniziative di mobilitazione. Il 12 marzo poi, come è noto, si terrà lo sciopero generale: e lo svilimento della scuola pubblica sarà sicuramente uno dei temi forti della protesta.

La Stampa 8.2.10
Il riflusso dopo il successo del 3+2
L'università ritorna un lusso per pochi
Crollano le iscrizioni tra i ragazzi usciti dalla maturità. Ma sono soprattutto i figli delle classi più deboli a rinunciare
di Andrea Rossi
qui
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/scuola/grubrica.asp?ID_blog=60&ID_articolo=1279&ID_sezione=255&sezione=

l’Unità 8.2.10
Problema carceri, nessuna volontà di umanizzarle
di Annino Mele

Siamo sicuri che le problematiche dei detenuti possano essere risolte investendo nell’edilizia carceraria? Forse più che ai detenuti, queste dichiarazioni di perenne emergenza servono a mantenere alta la propaganda della paura. Da carcerato voglio informare gli emergenzialisti che c’è una legge che prevede di poter lasciare il carcere con il residuo pena degli ultimi tre anni: la legge «Simeoni-Saraceni». E da carcerato noto la totale mancanza di volontà di umanizzare le carceri: si parla di duemila agenti della polizia penitenziaria da arruolare, ma non si fa alcun accenno a nuove assunzioni di educatori e assistenti sociali. Da carcerato, avendo alle spalle oltre 32 anni di carcere, da anni chiedo di poter visitare mia madre, anche accompagnato dalla scorta, ma i permessi puntualmente vengono negati.
A maggio del 2009 ho chiesto di partecipare alla presentazione di un mio libro alla Fiera del Libro di Torino: mai avuto risposta. I medici dell’infermeria di questo carcere, dal mese di aprile 2009, hanno sollecitato un mio ricovero in un centro clinico, anche in questo caso nessuna risposta.
La situazione delle mansioni lavorative è a dir poco indescrivibile. Con la scusa delle poche ore lavorative, un portavitto arriva a prendere non più di 150 euro al mese. Uno scopino non più di 250. Lo spesino, cioè colui che distribuisce la spesa del sopravvitto nelle sezioni, prende sì e no 100 euro al mese. Il barbiere, che poi barbiere non è, viene assunto giusto per coprire una mansione che dovrebbe essere coperta da un vero barbiere, ma quello costa, e chiede i giusti diritti. Al detenuto basta dare dai 30 ai 40 euro al mese.
Quando al carcerato viene impedito di visitare il proprio genitore con gravi problemi di salute.
Quando vengono lesi i diritti al lavoro e alla giusta retribuzione.
Quando vengono lesi i diritti alla salute.
Quando si viene meno al principio richiamato dall’art. 27 della Costituzione, vuol dire che si vuole cancellare volontariamente l’esistenza delle persone recluse.
E quando si oltrepassano questi limiti, di che civiltà parliamo? Quei soldi che intendete investire per le costruzioni di nuove carceri, investiteli costruendo case per quei poveracci che vengono da noi per raccogliere pomodori e clementine.
A noi basterebbero le leggi. Quelle leggi che, fino a poco fa, facevano filtrare un po’ di luce in questi luoghi angusti. Fate in modo che possano nuovamente operare le strutture esterne, perché è il tessuto della società libera che comunque dovrà farsi carico del detenuto quando sarò fuori. Spero che, invece di spendere per nuove carceri, si investa affinché il delinquere diminuisca, e in carcere si entri di meno.❖

l’Unità 8.2.10
Appello di Shirin Ebadi: «L’11 febbraio l’Onda verde in piazza»
I democratici vogliono usare l’anniversario della caduta dello Shah per denunciare il tradimento degli ideali rivoluzionari
di Ga B.

Cresce come una febbre in Iran l’attesa per l’anniversario della rivoluzione khomeinista, che governo ed opposizione si apprestano a celebrare in opposta maniera. Il movimento democratico vuole trasformare la ricorrenza in un’occasione per denunciare il tradimento degli ideali rivoluzionari. Il potere si appresta a reprimere con la forza ogni manifestazione di dissenso.
Il regime cerca pretesti Un appello ai connazionali affinché giovedì 11 febbraio scendano in piazza ed esprimano la loro esigenza di libertà, è stato rivolto ieri dalla premio Nobel per la pace 2003, Shirin Ebadi. La donna vive all’estero dai giorni delle elezioni presidenziali del giugno scorso. Ha buone ragioni di temere di essere arrestata non appena metta piede in patria.
In un'intervista al giornale britannico Sunday Telegraph, Ebadi, avvocata e fondatrice di un centro per la tutela giuridica delle vittime di abusi e violenze, esorta gli iraniani a «protestare pacificamente». «Penso che tutti dovrebbero partecipare alle dimostrazioni -affermae rivendicare i propri diritti in modo pacifico». La premio Nobel mette anche in guardia verso il fatto, a suo giudizio «evidente, che il regime cerca una scusa per poter intervenire».
Il regime già sta intervenendo. Sette dissidenti sono stati arrestati ieri cono l’accusa di avere svolto attività sovversive. Alcuni di loro, secondo notizie diffuse dall’agenzia di Stato Irna, avrebbero agito su istruzioni della Cia e avrebbero avuto legami con «i network satellitari sionisti». Vengono loro imputati rapporti con l'emittente americana in lingua farsi Radio Farda. Sono accusati di essere stati «assunti come spie» dagli Stati Uniti e «addestrati a Dubai e a Istanbul».
I pasdaran minacciano Sui media ufficiali è un susseguirsi di messaggi intimidatori. La notizia degli arresti è impacchettata in un comunicato del ministero dell’intelligence, secondo cui i sette avrebbero svolto un ruolo importante negli incidenti post-elettorali ed in particolare in quelli del giorno dell’Ashura, il 27 dicembre scorso. Il governo sostiene che stavano progettando una sedizione proprio per giovedì prossimo, anniversario della caduta dello shah.
«Le forze di sicurezza si occuperanno di garantire lo svolgimento delle dimostrazioni e affronteranno decisamente chiunque volesse uscire dai binari del percorso rivoluzionario», ha ammonito il comandante delle Guardie rivoluzionarie (Pasdaran), Hossein Hamedani. Secondo Hamedani l’anniversario della rivoluzione «appartiene a tutti i settanta milioni di iraniani e non permetteremo ad alcuno di appropriarsene per gli interessi di un gruppo particolare».
I dirigenti dell’Onda verde non si lasciano intimidire. Sui siti vicini alle organizzazioni progressiste, i massimi dirigenti del movimento democratico continuano a invitare i seguaci a mobilitarsi per il trentunesimo anniversario della nascita della Repubblica islamica. Sia Mirhossein Mousavi sia Mehdi Karroubi chiedono ai concittadini di esprimere pacificamente la loro protesta nei confronti del regime, degli arresti arbitrari, delle torture.
E mentre il presidente Mahmoud Ahmadinejad sfida il mondo ribadendo l’intenzione di andare avanti con l’arricchimento dell’uranio nei siti atomici nazionali, la Guida suprema Ali Khamenei annuncia l’«imminente» distruzione di Israele. L’ayatollah si dice «molto ottimista sul futuro della Palestina» e ritiene «che l’entità sionista sia sulla strada del tramonto a e del deterioramento. A dio piacendo, la sua distruzione è imminente». ❖

l’Unità 8.2.10
Stato vegetativo: quegli «incoscienti» che comunicano
di Pietro Greco

Studi recenti pubblicati dal “New England Journal of Medicine” sembrano dimostrare la possibilità di comunicare con chi è in stato vegetativo. Non solo questione di diagnosi: in ballo c’è la bioetica.
La ricerca In alcuni casi i pazienti reagivano correttamente alle informazioni
Risvolti etici Potranno decidere se essere sottoposti a terapie invasive?

Alcuni pazienti con una diagnosi di stato vegetativo potrebbero essere incapaci di comunicare, ma ancora parzialmente coscienti. È quanto sembra indicare la ricerca condotta da un’ equipe di medici inglesi e belgi ,i cui risultati sono stati pubblicati sull’ultimo numero del New England Journal of Medicine. La ricerca ha riguardato 54 pazienti che a una diagnosi effettuata con metodi classici sono risultati: 23 in uno stato vegetativo (alcuni dei quali permanente) e 31 in uno stato di coscienza minimo. Tutti sono stati sottoposti a una nuova indagine mediante risonanza magnetica funzionale per immagini (Fmri) . Cinque di loro hanno mostrato una certa consapevolezza e anche la capacità di elaborare le informazioni. Quattro su 5 avevano una diagnosi di stato vegetativo. Sottoposti a nuova diagnosi con metodi classici, 3 su 5 hanno mostrato una capacità reattiva: segno che o in precedenza la diagnosi era errata o che le loro condizioni si sono modificate nel tempo. Il test cui sono stati sottoposti i pazienti è abbastanza sofisticato. Il loro cervello veniva osservato, con la risonanza magnetica funzionale per immagini, mentre erano stimolati a figurarsi in due diverse situazioni: giocare a tennis o aggirarsi un luoghi conosciuti. Con le loro reazioni cerebrali i cinque hanno mostrato di poter recepire ed elaborare le informazioni fornite. Un paziente in particolare ha mostrato anche di poter comunicare, rispondendo correttamente con un sì o con un no a cinque domande su sei: alla domanda se il padre si chiamasse Thomas il paziente, attivando certe aree cerebrali, ha risposto correttamente no. Alla domanda se il padre si chiamasse Alexander, ha risposto correttamente sì.
ERRORI POSSIBILI
Questa ricerca conferma che le diagnosi sui danni al cervello effettuate normalmente negli ospedali possono essere sbagliate. Nell’articolo nato da questa ricerca si sostiene che gli errori riguardano addirittura il 40% delle diagnosi. Nel campione sottoposto a indagine dall’equipe l’errore ha riguardato 5 casi su 54: poco più del 9%. In 2 di questi casi la risonanza magnetica funzionale per immagini ha fornito informazioni non accessibili alle diagnosi classiche. Tutto questo sembra confermare che sappiamo ancora poco degli stati vegetativi e degli stati di coscienza minima. Che la tecnica della risonanza magnetica funzionale per immagini (Fmri) è molto potente e andrebbe utilizzata di routine. Questa tecnica potrebbe essere utile anche per stabilire dei canali di comunicazione con quei pazienti che, pur conservando un qualche grado di consapevolezza, non hanno alcun altro modo per esprimerla. Si potrebbero avere così informazioni utili per migliorare la qualità della loro vit, chiedendogli ad esempio se provano dolore. Bisognerebbe, infine, indagare la possibilità di far esprimere questi pazienti su questioni di grande rilevanza etica: per esempio, se vogliono continuare a essere sottoposti a terapia medica invasiva.❖

La Stampa 8.2.10
I super-doveri degli immigrati
La cittadinanza dell’Ue e quelle dei singoli Paesi membri seguono due logiche antitetiche. Il permesso di soggiorno a punti rischia di imitare quella sbagliata
di Giovanna Zincone
qui
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=6954&ID_sezione=&sezione=

domenica 7 febbraio 2010

l’Unità 7.2.10
Bersani e Bonino: il no al nucleare è la nostra bandiera
Assemblea ecodem. Il leader alla candidata: «Ci capiamo, governo ed esponenti in lista dicano sì o no alle centrali» Emma: «Privatizzare Acea un favore ai potenti»

Cambio di passo, le prime parole che Pier Luigi Bersani mette in campo all’inizio di una giornata che correrà frenetica come una gimcana dagli Idv a congresso ai «critici» del Pd raccolti a Orvieto, da un doppio abbraccio con la Bonino a un incontro fugace con Vendola sono un «No» al nucleare e un «Sì», al risparmio energetico. «E così ci capiamo», scandisce il segretario Pd di buon mattino l’invocata chiarezza evangelica? -, davanti agli ecodem che si sono dati appuntamento mella sede nazionale del Pd sotto l’insegna «Afferrare il futuro, ambiente e green economy». È lì che parte il primo abbraccio, che proseguirà qualche ora dopo a Orvieto. Da una parte il segretario del Pd che rivendica: «Noi siamo quelli del lavoro, del sociale e dell’ambiente, dobbiamo far capire che con questo governo le cose non girano, ma se non hai un’altra proposta è difficile che Berlusconi faccia le valigie». Dall’altra Emma Bonino, la candidata «fuoriclasse» alle regionali del Lazio, quella che dovrà farcela anche senza l’Udc e nonostante il caso Marrazzo, che cerca lo scarto fin dallo stile della campagna elettorale («non imbrattiamo con i manifesti, inventiamoci altro») e fa l’anti-demagoga anche quando parla di «legalità e trasparenza»: «Rinunciare all’auto blu? risponde a un cronista L’autista mi serve». «Bonino? Va alla grandissima», le tira la volata Bersani, che la solleva abbracciandola. «Paura di vincere?», si schermisce lei: «No, noi radicali se diciamo sì è sì».
Bisogno di mission Ciò che segue dà la misura della sintonia che può scattare, lasciandosi alle spalle «anarchismi» e «microfeudalesimo», e concentrandosi sulle parole d’ordine. Green Economy, per esempio. L’ecodem Vigni suggerisce di declinarla in tutti i programmi elettorali: «Efficienza energetica, energie rinnovabili, no al consumo di suolo, sviluppo di servizi pubblici locali». Bersani concorda. Come il welfare negli anni Settanta, l’ambiente deve diventare la bandiera di un centrosinistra che si candida a governare le Regioni in una stagione decisamente meno favorevole. «La destra ragiona: più crisi, meno ambiente. Per noi la Green Economy è la risposta alla crisi», rilancia Bersani, suggerendo che questo è anche il terreno concretissimo su cui incalzare la destra. «Noi la scelta del ritorno al nucleare non la diamo per fatta», avverte. «Ma al governo e a chi si candida a governare le Regioni dobbiamo chiedere chiarezza: dicci sì o no e dove vuoi le centrali, non dopo le elezioni, si pronuncino, gli impianti non li fai mica mandando i carabinieri».
Accanto a lui Emma Bonino dà il primo assaggio di una campagna elettorale in cui, fair play a parte, su ambiente e nucleare è scontro duro.
«Non basta dire che sentirai i cittadini... E ci manca pure che non li senti», scandisce, sfidando la sua avversaria Renata Polverini alla chiarezza di cui parlava Bersani: «I consulenti non le mancheranno, se la sarà fatta una idea del territorio e del nucleare». «Noi l’alternativa la forniamo», rivendica: «L’efficienza energetica, che porta lavoro, altro che i 100mila posti promessi da Alemanno». E ancora più dura, Emma, è nel denunciare gli interessi dietro la campagna elettorale. A discapito dell’ambiente. E di un bene pubblico essenziale come l’acqua. La società che a Roma ne gestisce la rete di distribuzione, l’Acea, vede gomito a gomito il Comune di Roma, azionista pubblico, per ora, di maggioranza, e Caltagirone, azionista privato, nonché suocero di Casini. La parola «privatizzazione» per i radicali non è un tabù. E però «la situazione è troppo opaca». E come sul nucleare il «no» deve essere netto: «Non siamo Alice nel paese delle meraviglie e conosciamo gli interessi in gioco, privatizzare Acea servirebbe solo a qualche potente/prepotente e non darebbe ai cittadini un servizio migliore». ❖

Repubblica Roma 7.2.10
Bersani lancia la Bonino "Saprà guidarci al successo"
di Chiara Righetti

NEL Lazio «possiamo cavarci una grossa soddisfazione».
Pierluigi Bersani, in una densa giornata al suo fianco tra Romae Orvieto, tira la volataa Emma Bonino: «Una donna fuori dagli stereotipi, una candidata forte, che saprà guidare una coalizione vastae complessa». Di più: «Emma va alla grandissima»; a convergere su di lei «ci abbiamo messo due secondi, io anche meno».
Lei ringrazia il segretario Pd e il partito («avete accolto la mia candidatura non come atto di ostilità, ma come un'opportunità») e li invita a «mettersi alle spalle un'atmosfera di depressione. Nel Lazio ce la possiamo fare». Poi chiede «uno sforzo per rispondere alla gente su un tema di fondo: la legalità. Il dramma è che in Italia è diventata un optional». Le ragioni? «Mancano il monitoraggio e il controllo. Prendete Malagrotta: i limiti per l'inquinamento ci sono, ma non ci sono le centraline di controllo». Per questo torna a chiedere ai candidati: «A partire dall'attacchinaggio, siate i primi a dare l'esempio. E non venite a dirmi che vince chi mette più manifesti: se non sporcate, i cittadini ci fanno caso».
Promette di accelerare nel Lazio «il processo di risanamento del debito avviato». Ma sulla strada per uscire dalla crisi suggerita da Alemanno non risparmia il sarcasmo: «Ho sentito parlare di 100mila posti di lavoro in due anni: non ci allarghiamo. Questi annunci in campagna elettorale funzionano solo se manca il contraddittorio.
Sarebbe simpatico chiedere al sindaco dove vuole crearli, in quale settore, con quale visione». E non è l'unico aspetto sul quale rimprovera allo schieramento avversario la mancanza di trasparenza. Anche sul caso Acea: «Con questa opacità, ogni ipotesi di privatizzazione è inaccettabile. Non siamo Alice nel Paese delle meraviglie, sappiamo che interessi ci sono.
Accelerare soddisfa i potenti, ma non fa il bene dei cittadini». E sul nucleare: «Non basta dire "Ascolterò la cittadinanza", ci mancherebbe. Si saranno fatti un'idea su luoghi e costi-benefici. Occorre incalzarli a dire queste cose prima delle elezioni, e non dopo».
Al convegno per il "battesimo" dell'area Marino ribadisce che «lo stereotipo di antireligiosa non mi si attaglia». Il tema semmai è la laicità dello Stato, «garantire a tutti la possibilità di riconoscersi nelle istituzioni». Fuori dagli schemi, come quando spiega perché non rinuncerebbe all'auto blu: «È utile: non posso metterci tre ore a spostarmi e cercare parcheggio. Il problema vero è la trasparenza.
Bisogna dire: questa persona ha l'autista, che la porta qui e lì e costa tot». E a chi le chiede se abbia più speranza o più paura di vincere risponde: «La paura non è il mio forte».

l’Unità 7.2.10
Bufera sul liceo dei gesuiti Berlino sotto shock per gli abusi sugli alunni
Bufera sul prestigioso liceo privato Canisius di Berlino. Negli anni 70 e 80 nel suo austero edificio si sono consumati abusi sessuali a danno di decine di scolari. Lettera dell’attuale direttore: chiedo perdono alle vittime.
di Gherardo Ugolini

Berlino. Violenza sessuale a scuola su ragazzini di 13-16 anni. Lo scandalo che in questi giorni sta sconvolgendo l’opinione pubblica tedesca si allarga e crea sempre più forti imbarazzi nella Chiesa cattolica. Nell’occhio del ciclone è finita un istituto privato di Berlino, il liceo Canisius, gestito dai gesuiti e considerato tra più prestigiosi della città.
L’AUSTERO EDIFICIO
A vederlo dal di fuori si presenta come un austero edificio, situato ai bordi del grande parco berlinese di Tiergaten, a due passi dalla sede della Cdu e dalle ambasciate di Giappone e Italia. Ebbene, in questo istituto, dove si è formata gran parte dell’elite pubblica ed economica tedesca, si sono perpetrati negli anni Settanta e Ottanta sistematici atti d’abuso sessuale ai danni di decine di scolari.
La rivelazione è stata fatta la scorsa settimana dall’attuale direttore, padre Klaus Mertes, il quale ha inviato una lettera a tutti coloro (circa 600 persone) che all’epoca erano studenti del liceo invitandoli a riferire eventuali informazioni che possano far luce sulla vicenda. In precedenza erano girate voci insistenti sugli abusi e c’era stata anche una denuncia da parte di alcuni ex alunni. Messo sotto pressione, il rettore si è convinto che non si trattava di singoli episodi, bensì di un fenomeno ampio e sistematico. «Con profonda costernazione e vergogna, ho appreso di queste terribili violenze, non isolate ma sistematiche, andate avanti per anni»: sono queste le parole con cui inizia la lettera del rettore e che i media tedeschi hanno ripreso con grande evidenza. Padre Mertes prosegue chiedendo perdono a nome della scuola a tutte le vittime assicurando la sua volontà di collaborare perché sia accertata la verità.
E così molti ex allievi, che fino ad oggi erano rimasti zitti per vergogna o per paura dei loro aguzzini, hanno iniziato a raccontare le violenze subite da bambini: carezze non desiderate, palpeggiamenti delle parti intime, l’obbligo di raccontare nei particolari eventuali «atti impuri».
RIFLETTORI SUGLI INSEGNANTI
Sotto accusa sono finiti due sacerdoti che all’epoca erano insegnanti rispettivamente di ginnastica e di religione. Entrambi hanno da tempo lasciato sia l’insegnamento, sia l’ordine dei gesuiti. Uno di loro, oggi residente in Sudamerica, ha confessato i propri crimini, ma probabilmente non sarà condannato perché secondo la legge tedesca si tratta di reati ormai caduti in prescrizione (scatta dieci anni dopo il diciottesimo compleanno della vittima). Le indagini della polizia puntano ora a verificare se ci siano responsabilità giuridiche da parte della direzione della scuola. Il sospetto è che le autorità dell’istituto e dell’ordine dei gesuiti sapessero e abbiano volutamente coperto il tutto per evitare danni d’immagine.
Lo scandalo si va allargando di giorno in giorno, e analoghi casi di violenza su minori sono emersi in altri istituti scolastici cattolici di varie località della Germania, da Amburgo alla Selva Nera. All’Aloisiuskolleg di Bad Godesberg, un istituto religioso affine al Canisius di Berlino, ci sarebbero stati casi abuso sessuale particolarmente gravi. Secondo il settimanale Der Spiegel sono almeno 94 gli insegnati (tra sacerdoti e laici) complessivamente coinvolti nello scandalo. Ed è un colpo durissi-
mo per la credibilità della Chiesa tedesca, messa sotto accusa per gli spaventosi ritardi della sua dottrina in fatto di sessualità. «Queste rivelazioni mostrano un lato oscuro della Chiesa che mi fa orrore» ha commentato Hans Langendörfer, segretario generale della Conferenza episcopale tedesca, il quale ha anche promesso il massimo impegno per fare piena luce sulla vicenda. ❖

l’Unità 7.2.10
Matteo Ricci, eroe dell’altro mondo
La mostra Pechino s’inchina alla memoria del mitico gesuita che alla fine del ‘500 aprì la via del dialogo tra la cultura cinese e quella europea, con un’esposizione che ripercorre tutte le tappe della sua avventura
di Stefania Scateni

Il giardino è spoglio e silenzioso, bassi mucchietti grigi di neve ghiacciata decorano gli angoli dei sentieri, lasciando la strada si cammina tra due siepi in uno stretto viottolo che si apre su un piccolo spiazzo che accoglie due alberi e una tomba. Fuori dalla calma del giardino, la città è in fibrillazione: questo è l'ultimo weekend utile per comprare i doni di capodanno, i clacson sbraitano, il traffico intasa le strade decorate di luci e girandole cangianti agitate dal vento freddo, centinaia di persone camminano veloci sotto le insegne luminose dei negozi e di centri commerciali addobbati come profani templi pop. Pechino si muove veloce e rumorosa.
Ma qui, appena fuori le mura della città vecchia, c’è un po’ di pace. Una piccola delegazione di italiani e cinesi rende omaggio alla tomba di Li Madou, il primo straniero che nel 1610 ebbe l'onore di essere sepolto in terra cinese per decreto dell'imperatore. Li Madou è Matteo Ricci, il gesuita che alla fine del '500 riuscì ad aprire un dialogo tra la cultura cinese e quella europea al quale l'Italia ha dedicato una mostra itinerante. E la cerimonia di ieri mattina sulla tomba di Matteo Ricci è l'inizio di una storia che i cinesi conoscono forse meglio di noi. Anche se Ricci era italiano, nato a Macerata nel 1552: poco noto agli italiani, per i cinesi un «maestro occidentale» la cui opera viene ricordata e studiata.
Matteo Ricci Incontro di civiltà nella Cina dei Ming promossa e realizzata dalla Regione Marche, terra natale del gesuita, si è aperta ieri al Capital Museum di Pechino e toccherà anche Shanghai, Nanchino e Macao.
L'esposizione racconta una storia, l'avventura di un uomo che ha raggiunto un altro mondo con il coraggio, la curiosità e l'apertura mentale di un grande esploratore di terre e saperi. Matteo Ricci era uno scienziato in missione per conto del suo Dio. Un gesuita dalla memoria prodigiosa, che sapeva costruire orologi e maneggiava con naturalezza la teologia, la giurisprudenza, la geometria, le lettere, l'astronomia, la geografia e la cartografia. Un intellettuale del Rinascimento, il suo tempo, per il quale la conoscenza non ha steccati, così come non ha ostacoli il piacere di imparare. Ricci affrontò la sua missione con prudenza e nello spirito dell'incontro e dell'amicizia: era consapevole che la Cina fosse un «altro mondo», con una forte identità di civiltà e cultura. Non aveva intenzione né possibilità di «occupare» o «imporre». E non aveva paura dell'«altro». Nel suo avvicinamento lento e graduale da Macao a Pechino (ci mise 18 anni) decise di attenersi scrupolosamente ai costumi e ai cerimoniali, stabilì che ci fossero due padri stranieri in ogni residenza per non suscitare sospetti, si rasò il capo e vestì come i monaci buddisti, perché a Zhaoqing la condizione per avere un terreno su cui costruire una casa e una cappella era quella di accettare di equipararsi ai bonzi, e soprattutto mise a disposizione il suo sapere umanistico e scientifico, insegnando matematica, l'uso della dialettica, l'arte della memoria.
Nei suoi incontri con i letterati confuciani e le personalità importanti mostrò la carta geografica del globo e un orologio automatico; introdusse i cinesi alla filosofia greca, sostenendo che Confucio aveva delle grandi affinità con Seneca, tradusse in cinese i primi libri degli Elementi di Euclide e realizzò un atlante mondiale in cinese, la Grande Mappa dei Diecimila Paesi sulla Terra. Donò e ricevette, lontano dalla Santa Sede e dalla politica vaticana fu più libero e meno dogmatico.
La mostra, curata da Filippo Mignini, direttore dell'Istituto Matteo Ricci per le relazioni con l'Oriente, ripercorre tutte le tappe di questa avventura. Ci introduce al paese di origine del gesuita, la nascita nelle Marche, gli studi a Roma, e alla cultura rinascimentale nella quale visse fino a ventisei anni: una sala è dedicata agli artisti rinascimentali dell'Italia centrale e propone due arazzi disegnati da Raffaello, il Ritratto di Filippo II di Tiziano, Battesimo e La forza che sconfigge la Fortuna di Lotto, opere di Giulio Romano, Simone de Magistris, Barocci.
Il lungo viaggio, compiuto per lo più a bordo di galeoni portoghesi, inizia nel 1577: dopo le Marche e Roma, continua per La Spezia, Genova, Cartagena, Coimbra, Lisbona, Mozambico, Goa, Cochin, Malacca, Macao. Il percorso da Macao a Pechino occupa la parte più corposa della mostra, che descrive non solo il percorso fisico di Matteo Ricci, ma anche il suo viaggio intellettuale attraverso stampe, rotoli dipinti, oggetti dell'epoca, carte geografiche.
AMBASCIATORE D’EUROPA
Cinque le tappe che segnano il lento e deciso avvicinamento all'imperatore: Zhaoqing, Shaozhou, Nanchang, Nanchino e Pechino, dove vivrà nove anni fino alla morte sotto la protezione dell'imperatore Wanli, che però non incontrerà mai personalmente. Tra i doni che il missionario gli fece recapitare come «ambasciatore d'Europa», una Madonna con Bambino e S. Giovannino del Sermoneta e una copia cinquecentesca della Madonna di S. Maria Maggiore. Pare che l'estremo realismo delle figure e i loro occhi grandi avessero spaventato l'imperatore, che li affidò alla madre, buddista, la quale li chiuse in un armadio. Questo, naturalmente, non ebbe alcun ricasco sul successo della missione di Matteo Ricci. Pochi anni dopo la sua morte l'imperatore decretò la possibilità per i cristiani di praticare la loro religione.
La mostra si chiude con il celebre ritratto a olio di Ricci dipinto a Pechino dal pittore cinese Yu Wen-Hui, detto il Pereira, il giorno dopo la morte del «maestro occidentale» (conservato nella Chiesa del Gesù a Roma). A guardarlo attentamente, si nota che la veste nera del gesuita ha una sfasatura: il bianco del collare «taglia» a metà la linea di un collo a scialle, come se il disegno originale fosse stato coperto col colore. Forse Matteo Ricci indossava un abito da mandarino?●

il Fatto 7.2.10
“Dove governa la destra siamo trattati come cose da buttare”
Manifestazione di immigrati, a Brescia, contro il "razzismo istituzionale" dei comuni lombardi
di Elisabetta Reguitti

“Io mi sono dimenticato com’è il Pakistan, con le sue tradizioni e i suoi colori. I miei figli sono nati qui e non l’hanno mai visto. Non possiamo più essere trattati ancora come ospiti”. Sono le parole di Mahfooz Safdar vicepresidente dell’ associazione pakistana nazionale. Per la comunità pakistana il gioco del cricket è importante quanto il calcio per gli italiani. Per questo motivo, il divieto imposto dalla città di Brescia di non poterlo praticare nei parchi pubblici è stato per loro uno schiaffo fortissimo. Ma non si arrendono promettendo di portare la nazionale italiana di cricket ai mondiali oltre ad un grande raduno sportivo fissato per agosto sempre a Brescia. Alla testimonianza di Safdar si aggiunge quella di Ennya Ariss del coordinamento immigrati della Cgil di Brescia. “Il problema più importante, però, resta quello del lavoro. Oggi se un immigrato perde l’occupazione ha sei mesi di tempo per trovarne un’altra, altrimenti non gli viene rinnovato il permesso di soggiorno. Noi siamo i primi ad essere stati lasciati a casa per le conseguenze della crisi”. “Questo è il nostro paese, vogliamo bene all’Italia e paghiamo le stesse tasse che pagate voi. Per questo motivo vogliamo partecipare alla vita del paese, nel bene e nel male, e abbiamo diritto agli stessi aiuti di cui godono gli italiani” afferma invece Iqbal Mazhar dell’associazione Diritti per tutti.A loro si aggiungono poi le parole di Adama Mbodj, segretario generale della Fiom di Biella e fratello del senegalese ucciso lo scorso dicembre nel comune piemontese dal suo datore di lavoro perché chiedeva la regolarizzazione della propria situazione. “Dove governa la destra, veniamo considerati come carta da buttare. Vogliamo ricordare a chi ci ascolta che esiste una Costituzione che oggi però viene male interpretata, anche nei loro confronti”, ha spiegato Mbow Momar, rappresentante di tutte le associazioni di immigrati della provincia di Brescia. Che aggiunge: “Ci hanno attaccato con i bonus bebè, con le ronde, con i decreti sicurezza, con i controlli a tappeto senza esito, vietando il gioco del cricket nei parchi e infine ci umiliano offrendoci 500 euro per tornare volontariamente a casa”. Mbow si riferisce alla nuova iniziativa messa in campo dalla giunta comunale di Brescia che tra l’altro si appresta ad inserire nel nuovo Pgt (piano di governo del territorio) vincoli alla costruzione di edifici di significato politico/identitario/religioso come minareti e moschee.
Queste sono alcune delle voci raccolte nella grande manifestazione che si è svolta ieri a Brescia, in piazza della Loggia, promossa dalle Associazioni Migranti. Un adesivo rettangolare giallo e nero con la scritta “Combatti il razzismo e lo sfruttamento per la sicurezza sociale”: niente bandiere ma solo striscioni per le tante sigle e associazioni (Coordinamento migranti Cgil, Diritti per tutti, Radio Onda d’urto, Sinistra critica, centro sociale 28 Maggio di Rovato, movimento Cittadinecittadini, Cisl) che hanno aderito all’invito ritrovandosi per dire no al razzismo e alle politiche discriminatorie nei confronti dei migranti. Una manifestazione considerata da molti una tappa di avvicinamento al primo marzo giornata dello sciopero degli immigrati che promettono di non andare al lavoro, di chiudere i negozi, non fare acquisti e non mandare i propri figli al scuola. Intanto è stato il giorno della protesta contro le delibere locali che cercano di ridisegnare le politiche sociali in base alla nazionalità (l’obbligo di parlare italiano durante gli incontri pubblici o i premi scolastici per gli studenti meritevoli che escludono gli immigrati sono un esempio) senza dimenticare il grande nodo della legge Bossi-Fini che vincola la permanenza in Italia al contratto di lavoro. In mezzo ci sono intoppi burocratici, balzelli sui rinnovi e altro ancora e poi la richiesta che non venga costruito il Cie (Centro identificazione ed espulsione) annunciato invece dal vice sindaco di Brescia durante la visita del ministro Roberto Maroni. Saranno state almeno 10 mila le persone venute anche da fuori provincia per sfilare lungo le vie della città. Cosa significhi immigrazione in questa parte del profondo nord? Nel 1990 gli immigrati regolari a Brescia erano meno di duemila. Oggi sono più di 31mila. In provincia, tra regolari e non, sono quasi 185mila: un abitante su sette. Solo in città le nazionalità presenti sono più di 160. E se 20 anni fa l’immigrato era per molti il vù cumprà, ora questa associazione è più difficile da fare: tanti sono i migranti che lavorano nelle fabbriche e nei cantieri della bassa bresciana. E molte sono le donne impiegate nei lavori di cura. Basta sfogliare le statistiche di adesione ai maggiori sindacati bresciani: tra i lavoratori attivi, gli immigrati raggiungono oramai il 20 per cento del totale degli iscritti. Considerando gli alunni tra i 5 e 14 anni della città, un quinto di loro è figlio di persone che non hanno la nazionalità italiana.

il Riformista 7.2.10
E la sinistra restò sola. Tranne Nichi
Bersani strizza l’occhio alla nuova linea del partito, e Vendola si profila come il nuovo alleato privilegiato. E Ferrero e Diliberto si ritrovano ai margini
di Giacomo Russo Spena

venerdì 5 febbraio 2010

Repubblica 25.1.10
Piccoli sogni crescono assenti nei bimbi si formano con l´età
Scoperta in Usa: la vera attività onirica inizia a 5 anni
Solo nel 20% dei piccoli il sonno è animato da qualche scena. Quasi mai d´azione. Le prime storie interessanti arrivano dopo
di Elena Dusi

ROMA - Anche a sognare si impara. Le trame piene di azioni ed emozioni non sono affare da bambini ma si costruiscono solo crescendo. Nonostante quel che si immagina osservando le smorfie o i movimenti del corpo, le notti dei piccoli sono calme e placide come specchi d´acqua senza vento. E ai genitori svegliati da pianti o resoconti di incubi i neuroscienziati spiegano che non dal sonno quelle paure scaturiscono, ma da stati incompleti di veglia in cui i piccoli si ritrovano confusi e disorientati.
Allo sviluppo dell´attività onirica nei bambini dedicano un capitolo Giulio Tononi e Yuval Nir, del dipartimento di psichiatria dell´università del Wisconsin a Madison, in uno studio più generale sulla natura dei sogni pubblicato dalla rivista Trends in cognitive sciences. Prima di elaborare scene ricche di movimenti, colori, interazioni ed emozioni, secondo i ricercatori, un bambino deve aver sviluppato le proprie capacità cognitive e arricchito la propria immaginazione. E questo avverrebbe attorno ai 7 anni di età.
Il pioniere degli studi sui sogni nell´infanzia fu lo psicologo americano David Foulkes che con infinita pazienza passò gli anni ´80 e ´90 a svegliare bimbi in piena notte nel suo laboratorio per farsi raccontare tra uno stropicciamento di occhi e un mugugno cosa stavano sognando. Fu lui il primo a stupirsi del fatto che, mentre gli adulti hanno quasi sempre una scena bizzarra da ricordare se svegliati durante la fase Rem (quella in cui si concentra l´attività onirica), solo il 20 per cento dei bambini riferiva di aver avuto un sogno in corso fino a un attimo prima.
«La natura statica dei sogni prima dell´età scolare - scrivono Tononi e Nir - si accorda con la difficoltà di pensare gli oggetti durante le rotazioni o le trasformazioni in genere» e con «lo sviluppo incompleto della facoltà di immaginazione, in particolare di quella visuale e spaziale». La mancanza di un vocabolario adatto a descrivere la bizzarria dei sogni o la scarsa voglia di collaborare con quel signore col camice bianco che li ha svegliati sul più bello del riposo non bastano a spiegare, secondo i ricercatori di Madison, perché i più piccoli non abbiano quasi mai sogni da raccontare.
I sogni piuttosto crescono insieme ai bambini. Fino a 5 anni le scene sono fisse e i protagonisti immobili. Nel sogno appare magari un animale, o si ha desiderio di mangiare. Le emozioni sono assenti, come pure le interazioni fra i personaggi. I ricordi delle giornate trascorse non bussano alle porte della notte e i bambini non riferiscono mai scene di aggressione, situazioni spiacevoli, paura o altre emozioni.
È a partire dai 5 anni che i sogni cominciano ad avere una trama, ancora molto banale. I protagonisti si muovono e scambiano qualche parola. Ma la frequenza degli episodi onirici è ancora bassa, lontana da quell´80-90 per cento registrata negli adulti svegliati durante il sonno Rem, anche fra coloro che sono convinti di non sognare mai semplicemente perché al mattino la memoria ha perso ogni traccia della movimentata vita notturna del cervello.
L´incapacità dei bambini di sognare scene complesse fa pensare a Tononi e Nir che neanche gli animali sappiano elaborare trame di caccia, corsa o avventurosi salti fra gli alberi. E che la loro attività onirica si limiti piuttosto a scene semplici e prive di azione. Nelle persone che hanno perso la vista invece (purché questo sia avvenuto dopo i 5-7 anni di età) le immagini e gli oggetti registrati durante l´infanzia tornano per tutte le notti della vita a riproporsi nella corteccia visiva, come se gli occhi non avessero perso la loro funzione.
I piccoli sognatori cominciano ad avere storie interessanti da raccontare a partire dai 7 anni. Ecco allora affacciarsi le emozioni nelle loro notti. I bambini in sogno si ritrovano a pensare, provano gioie o paure. Rivivono episodi avvenuti durante la giornata o ripescati dalla memoria autobiografica. E diventano finalmente protagonisti di trame sempre più colorate, complicate e - come in ogni sogno che si rispetti - bizzarre e divertentissime da raccontare.

Repubblica 25.1.10
Giulio Tononi, neuroscienziato dell´Università del Wisconsin
"Di notte il film d´un regista maldestro che ci saccheggia il fondo del cervello"
La corteccia cerebrale "suggerisce" un tema, per esempio la paura, e lì parte un’elaborazione piuttosto disorganizzata
di e. d.

ROMA - Dai tempi di Aristotele l´uomo scrive e si interroga sulla natura dei sogni. E per Giulio Tononi, neuroscienziato dell´università del Wisconsin, oggi disponiamo dei mezzi tecnici per svelare molti dei suoi misteri. «Mi occupo di sonno e di studi sulla coscienza» spiega. «E il sogno si trova esattamente all´incrocio fra questi due mondi».
Qual è il nesso fra sonno e coscienza?
«Prendiamo la fase del sonno a onde lente all´inizio della notte. Se qualcuno ci sveglia non abbiamo nulla da dire, da ricordare. Non c´eravamo, avevamo perso coscienza. Durante l´attività onirica invece, tipica ma non esclusiva del sonno Rem, il cervello genera un intero universo di esperienze coscienti. E tutto questo pur essendo disconnesso dalla realtà esterna».
Il cervello non risponde agli stimoli ma la coscienza funziona.
«Esatto, e ancora non sappiamo perché e in che modo questo avvenga. Abbiamo sperimentato che mantenendo le palpebre aperte in una persona che dorme e proiettando un film, le immagini vengono percepite dagli occhi e sono trasportate dai nervi ottici fino alla corteccia cerebrale. Ma lì si bloccano. Perché? Quale interruttore entra in funzione? È uno dei misteri più affascinanti del sonno, e speriamo di potervi rispondere presto».
L´altra domanda che affrontate è quale sia la sorgente dei sogni.
«Esistono due idee generali. La prima è che dalla parte profonda del cervello partano degli stimoli sensoriali piuttosto disordinati verso la corteccia, e che questa faccia il possibile per dare un´interpretazione a questi segnali. La seconda ipotesi, per la quale io propendo e che nasce dalle teorie di Freud, prevede che sia la corteccia a "suggerire" un tema che le sta molto a cuore. La paura, per esempio. E da lì un regista piuttosto disorganizzato cerchi di mettere insieme un film con gli elementi più disparati presi dalle aree profonde del cervello».

Repubblica Roma 6.2.10
Lazio, scoppia la battaglia del nucleare
Polverini: "Non possiamo tirarci indietro". Bonino: "Insostenibile rapporto costi-benefici"
Sfidanti contro all´indomani della bagarre scoppiata tra governo-regioni sui nuovi impianti
di Giovanna Vitale

Finora ha sempre preferito non rispondere. Se verrà eletta, autorizzerà la costruzioni di centrali atomiche nel Lazio? «Valuteremo», s´è limitata a scrivere due giorni fa sul suo blog. Ma lo scontro governo-regioni scatenato dal ricorso di Palazzo Chigi alla Consulta ha accelerato il processo di riflessione e costretto Renata Polverini a uscire allo scoperto.
Incalzata dall´avversaria che di buon mattino, su Radio Popolare, ha sfidato l´esecutivo («Il governo senza grandi consultazioni è tornato al nucleare. Ma vuol dire almeno ai cittadini dove vuol fare le centrali?», ha chiesto Bonino), la candidata del centrodestra ha provato a barcamenarsi. «Il governo ha preso una decisione: quella del nucleare è una battaglia che non si può combattere ideologicamente. D´altra parte il problema non si risolve spostando un impianto nella regione affianco». Tradotto: in quanto espressione della maggioranza che ha stabilito di resuscitare l´atomo, la segretaria Ugl non può certo opporsi; se le ordineranno di aprire nuove centrali nella regione, lei lo farà. Ma dietro di lei c´è l´incertezza di una coalizione divisa, a livello locale, tra pasdaran del nucleare (gli ex forzisti) e frenatori (una parte di An, in testa il deputato Fabio Rampelli).
Ben più netta la posizione del centrosinistra. Da tempi non sospetti Bonino sostiene che «il futuro della produzione di energia passa per le fonti rinnovabili» e che le centrali sono «insostenibili dal punto di vista costi-benefici». Tanto più che «il governo non ha il coraggio di dire dove le farà prima della campagna elettorale», ha constatato la leader radicale alludendo all´imbarazzante silenzio sulla localizzazione, necessario per non perdere voti. Un escamotage che però non inganna il Pd. «Votare Emma Bonino alla presidenza della regione equivale a dire "no" alle centrali nucleari nel Lazio e alla discarica di Roma nel comune di Allumiere», esorta infatti il presidente della Pisana, Bruno Astorre. Non è un mistero che «a Montalto di Castro, in provincia di Viterbo, ci sarà la centrale numero uno d´Italia, dove forse sono previsti addirittura due reattori», ha denunciato ieri il presidente dei Verdi Angelo Bonelli. «Il vero rischio è che il Lazio diventi la pattumiera radioattiva del Paese», ha insistito: «Dopo Montalto, come sito nucleare il governo ha preso anche in considerazione Borgo Sabotino, in provincia di Latina, mentre Garigliano, tra Latina e Caserta - dove già in passato tre incidenti hanno provocato danni alla salute della popolazione - potrebbe diventare il sito per il deposito nazionale delle scorie». E tutto questo «senza che dalla candidata Polverini arrivino parole chiare sulla questione». Eppure «la risposta è semplice: deve solo dire sì o no» ironizza amaro Enrico Fontana (SeL), «ci riuscirà prima delle elezioni?».

Repubblica Roma 6.2.10
Organizzato da Zingaretti. Api verso la Bonino. Montino capolista
E alla Casina Valadier va in scena l´"aperitivo per la candidata Emma"
di Valeria Forgnone

Posti in piedi per l´aperitivo organizzato da Nicola Zingaretti per Emma Bonino alla Casina Valadier. «È vero che il centrosinistra è arrivato a questa scelta sulla base di difficoltà oggettive», ha spiegato il leader del Pd, «ma è pure vero che Emma è diventata una grande opportunità», rappresenta una «garanzia» perché portatrice di «valori, competenza, capacità di indirizzo e visione del futuro» e «farà bene al centrosinistra e al tessuto imprenditoriale del Lazio». Tra la folla, tanti gli assessori, vecchi e nuovi, da Nieri a D´Alessandro; ecco Ascanio Celestini e Simona Marchini, poi il presidente di Federlazio Maurizio Flamminii e i grandi costruttori (Claudio Sette e Claudio Cerasi, Sandro e Luca Parnasi, l´editore Domenico Bonifaci e Vincenzo Bonifati). Ancora: il rettore Fabiani, Ciccuto dell´Istituto Luce, l´economista Paolo Guerrieri, Sabrina Florio di Anima, Di Berardino della Cgil. Bonino non si fa pregare. Sale sul palco e arringa: «Sarà bello vedere una città addobbata con la voglia di vincere, perché noi vogliamo vincere non solo partecipare, ma deve tornare la voglia di andare a votare», incalza. «Ognuno di noi deve ritrovare il coraggio di discutere di politica in strada, in ufficio, in famiglia, deve tornare la passione per la res publica, che ci rende cittadini consapevoli delle nostre idee e convinzioni». Deciso infine il capolista del Pd: Montino. A breve l´accordo con l´Api.

l’Unità 6.2.10
Eluana un anno dopo. Le bugie e i fatti
all’interno uno speciale di otto pagine con articoli di:
Vittorio Angiolini Carlo Alberto Defanti Ignazio Marino Mario Riccio Remo Bodei, e il racconto di Beppino «Per amore di mia figlia ho seguito la legge e in questo Paese di scorciatoie può dare fastidio». Le bugie e i fatti. Cancellato ogni dubbio: Eluana non poteva svegliarsi. Ma il suo caso divenne terreno di ipocrisie e menzogne

http://www.scribd.com/doc/26459197/inserto-Eluana

l’Unità 6.2.10
La scelta del Colle
Quel che ci ha insegnato il caso Eluana
di Maurizio Mori

Esattamente un anno fa, il 6 febbraio 2009, Eluana rimetteva in discussione delicati equilibri istituzionali dello Stato: il presidente della Repubblica, Napolitano, annunciava il rifiuto di firmare un eventuale decreto-legge «salva Eluana» fatto per annullare le sentenze legittime pronunciate dai massimi tribunali dello Stato, suscitando durissime reazioni da parte del capo del governo, Berlusconi. La tensione era altissima e le emozioni al massimo livello di intensità per lo scontro di due visioni del mondo: quella del rispetto della «legge scritta» che prevede il diritto delle persone di rifiutare terapie non volute, e quella che richiama una presunta «legge naturale» scritta nel cuore degli uomini che prevede invece il sostegno alla vita biologico.
Per alcuni quel vissuto così intenso è stato nocivo in quanto non ha consentito soluzioni mediate tese ad evitare lo scontro e la divisione pubblica. Si può altresì dire che quel lacerante coinvolgimento passionale era inevitabile perché ha segnato sul piano pubblico la svolta indicante il mutato atteggiamento delle persone sul proprio morire. È stato come una celebrazione che ha sigillato il nuovo imprinting pubblico sui temi del fine vita, con l’abbandono del vitalismo che privilegia la vita biologica per l’autonomia delle scelta ove la vita abbia perso il minimo di dignità.
La trasformazione di sentimenti così profondi e coinvolgenti è un processo graduale e sotterraneo come il cunicolo della talpa che poi, quando sbuca fuori, appare improvviso e sconvolge la tranquillità di superficie. Eluana ha posto solo il sigillo al cambiamento di paradigma e di atteggiamento sul fine vita e, lungi dall’essere troppo rigido, Beppino non ha fatto altro che lasciare briglia sciolta dando voce al «purosangue della libertà».
Eluana ha fatto emergere che la secolarizzazione ha già trasformato nel profondo i nostri paradigmi di vita e si richiedono norme adatte che regolino i nuovi stili esistenziali. Invece di proseguire la linea dei saggi magistrati che assecondano le nuove esigenze morali, ampliando le libertà individuali, il Palazzo sembra insistere nella direzione opposta cercando di frenare o di frenare l’ampliamento delle libertà.
Può darsi che nell’immediato l’operazione riesca, e che sia anche approvata una legge come quella attualmente in discussione alla Camera. Ma alla lunga (come già sta avvenendo con la legge 40/2004), simili leggi liberticide saranno smantellate perché incongrue con le esigenze profonde della gente, lasciando visibili i disastri causati da paradigmi valoriali ormai obsoleti come quello del vitalismo. ❖

Repubblica 6.2.10
L’ultima spallata alla legge 40 partono i ricorsi contro l’eterologa
Fecondazione, i giudici smantellano la legge
di Maria Novella De Luca Caterina Pasolini

Fecondazione libera. O quasi. Come accade nel resto del mondo. Per poter essere genitori. Per poter essere famiglia. Per amare e crescere un figlio. In Italia sta per partire un nuovo assalto alla legge 40 sulla "Procreazione medicalmente assistita", già smantellata, depotenziata e di fatto riscritta negli ultimi mesi a colpi di sentenze.

L´iniziativa di famiglie, avvocati e associazioni dopo la sentenza della Consulta che ha cancellato alcuni divieti
Se l´articolo 4 sarà riconosciuto incostituzionale di fatto sarà azzerata la normativa sulla procreazione assistita

Grazie alla tenacia, a volte alla disperazione, di decine di coppie, medici, avvocati e associazioni, i cui sforzi hanno portato alla recente e clamorosa sentenza della Corte Costituzionale, che ha cancellato alcuni dei divieti più severi della legge 40, dall´obbligo di impianto degli embrioni al loro congelamento, alla diagnosi genetica. Adesso quello stesso agguerritissimo pool si prepara a dimostrare l´incostituzionalità dell´articolo sulla fecondazione eterologa, il numero 4 della legge 40, il più difficile, il più controverso, quello che va a toccare il "nodo", anzi il tabù del "terzo elemento", che si inserisce nel meccanismo procreativo di una coppia. L´articolo quattro sancisce in Italia il divieto assoluto, punito con multe da trecento a seicentomila euro, di diventare genitori con l´ausilio del seme di un donatore o dell´ovocita di una donatrice. Ma se anche in questo caso, così come è avvenuto nell´aprile scorso, i giudici ritenessero incostituzionale la norma, la legge sulla procreazione medicalmente assistita sarebbe, di fatto, cancellata. Mettendo fine (forse) al turismo della provetta, alle migrazioni della fertilità, ai viaggi della speranza per avere un figlio. Per far tornare l´Italia nell´Europa della scienza e delle cure. Perché in cinque anni i divieti della legge 40 hanno obbligato quasi 50mila coppie ad emigrare in cerca di un figlio, con un business che ha portato milioni di euro nelle cliniche di tutta Europa.
L´annuncio è stato alcuni giorni fa. Riuniti in una sorta di conclave scientifico organizzato ad Acireale dal professor Nino Gugliemino, direttore del centro Hera, uno dei più famosi centri italiani di fecondazione assistita, e tra i più specializzati nella diagnosi pre-impianto, medici, avvocati e giuristi hanno messo a punto e svelato la loro "campagna di primavera". Dove verrà ripetuta quella sorta di class action promossa da un gruppo di pazienti, tutti affetti da serie patologie, che si sono visti negare l´accesso alla fecondazione eterologa. «Ogni giorno vedo coppie costrette ad andare all´estero. Donne in menopausa precoce, uomini che hanno combattuto e vinto il cancro, ma che le cure hanno reso sterili. Coppie discriminate perché chi ha i soldi può andare all´estero e tentare, diventare genitore con l´ausilio di seme od ovocita altrui. Chi non può affrontare le spese deve rinunciare. Al centro Hera di Catania vediamo 800 coppie l´anno, quando queste tecniche erano legali facevamo centinaia di fecondazioni eterologhe, soprattutto maschili. Quei bambini li ho visti crescere, sono amatissimi. Non si può continuare a pensare che essere genitori sia legato solo alla genetica, è un´assunzione di responsabilità, di amore».
È soltanto in Italia, infatti, che vige il divieto totale di fecondazione eterologa. In una situazione dove, nonostante la legge 40 sia ancora in vigore, dopo la sentenza della Corte Costituzionale in tutti i centri si è tornati ad eseguire le tecniche consentite fino al 2004, e poi vietate dalla nuova normativa. Tranne, naturalmente, la fecondazione eterologa. Ma alla fine di marzo l´avvocato Maria Paola Costantini, già autrice dei ricorsi che hanno portato alla clamorosa sentenza dell´aprile 2009, presenterà in 10 tribunali con l´ausilio di un pool di legali e l´appoggio di associazioni come Sos infertilità, i ricorsi di un gruppo di coppie affette da diverse patologie, che chiedono di poter effettuare questi tipo di fecondazione, unica speranza per alcune forme di sterilità, di malattie genetiche ed ereditarie.
«Sappiamo che non sarà una battaglia facile. Il tema della fecondazione eterologa fa paura a molti, evoca lo spettro di mamme nonne, o di altri eccessi. Invece no. Le cinque coppie per le quali presenteremo ricorso hanno malattie serie, documentate. E cercheremo di sostenere il nostro iter giuridico con convegni, dibattiti, per ampliare la cultura diffusa su questo tema». Sulla salute, anche psicologica, dei bambini nati con queste tecniche, ad esempio. «Per quanto riguarda l´incostituzionalità - spiega Maria Paola Costantini - le norme sulla fecondazione eterologa sono in contraddizione con l´articolo 3 della Costituzione, che sancisce il principio di uguaglianza. Tra coppie infertili che possono produrre gameti e sono ammesse alle cure. E quelle con una infertilità più grave, ma che paradossalmente sono escluse dalle terapie, proprio perché non hanno gameti... La legge viola poi anche il principio di "ragionevolezza" perché impone un divieto assoluto, invece di regolamentare il fenomeno». Ma ci sono altre difformità: come la negazione del diritto costituzionale di formarsi una famiglia. «Se poi pensiamo che la legge 40 - conclude Costantini - disciplina le eventuali conseguenze di una fecondazione eterologa, vietando il disconoscimento di paternità, è evidente che il legislatore ha messo in conto il turismo procreativo, ossia un intervento fatto all´estero. Un vero paradosso. E qui si profila un´altra discriminazione, di tipo economico».

Repubblica 6.2.10
E Vendola sceglie slogan in poesia per la campagna elettorale in Puglia

BARI - «Non si può scavare il fondo del più bel mare del mondo». Filastrocca per dire no alle piattaforme petrolifere al largo della costa pugliese. «Giù le mani dalla brocca: l´acqua è nostra, non si tocca!», a proposito dell´Acquedotto pugliese». Sono alcune delle rime scelte da Nichi Vendola per la sua campagna elettorale, le proposte e le cose fatte da governatore.

il Riformista 6.2.10
Vendola: «Io rivendico la poesia perché secondo me non è un reato introdurre l’elemento della poesia, dell’utopia, del sogno nella politica».

il Riformista 6.2.10
Scandalo nel miglior liceo di Berlino I gesuiti abusavano degli studenti
Canisius College. Qui si è formata l’élite del- la Germania. Negli anni 70 tre religiosi vi mal- trattavano sistematicamente i ragazzi. E ora che l’omertà è stata spezzata, lo scandalo si allarga rapidamente, scuotendo la Chiesa cattolica
di Alessandra De Ferrà

http://www.scribd.com/doc/26460687/il-Riformista-6-2-10-p12

Repubblica 6.2.10
Così l’economia è diventata una religione
Un saggio provocatorio di Latouche, teorico della "decrescita serena", per liberare il pianeta dalla dittatura del Pil che fagocita tutto
a cura di Francesca Bolino

Chi avrebbe il coraggio di esaltare le virtù della "decrescita" davanti agli operai di Termini Imerese o ai minatori dell´Alcoa? Non è un caso se l´ambientalismo più radicale ha successo nei ceti professionali medioalti; mentre le forze politiche legate a una visione "produttivista" – la Lega Nord in Italia o il Tea Party Movement della destra populista in America – fanno breccia in quel che resta della classe operaia. "Fermare lo sviluppo" diventa uno slogan quasi irreale quando lo sviluppo comunque non c´è più, nell´Europa di oggi stremata dalla disoccupazione. D´altra parte suona come un atteggiamento snobistico, da élite privilegiate, se viene brandito contro le aspirazioni di centinaia di milioni di cinesi e indiani: solo grazie alla continuazione del boom attuale in quell´area del mondo, potranno vedersi realizzate le loro aspettative di un tenore di vita appena decente. Eppure anche i fautori dello sviluppo-ad-ogni-costo ammutoliscono davanti agli scenari di una prolungata stagnazione. Al World Economic Forum di Davos, una settimana fa, il direttore del Fondo monetario internazionale ha annunciato dai 5 ai 7 anni di "lacrime e sangue" per l´intera Europa, alle prese con colossali deficit pubblici. Neppure i leader più demagogici in Occidente osano promettere che alla fine del tunnel tutto tornerà come prima. Non basta che Obama faccia la voce grossa coi cinesi perché d´incanto tornino a spuntare capannoni industriali in tutto il Midwest.
L´economista francese Serge Latouche è da anni il più autorevole critico dello sviluppo. Una delle sue opere di maggiore successo, uscita proprio mentre l´Occidente sprofondava nella più grave crisi degli ultimi settant´anni, si intitolava Breve trattato sulla decrescita serena (Bollati Boringhieri, 2008). Il rischio è che la decrescita si confonda con la recessione, tutt´altro che serena. Come conciliare la necessità di dare sbocchi professionali ai giovani, con un orizzonte di stagnazione, precariato, regresso del potere d´acquisto? Per evitare questa impasse, Latouche suggerisce un cambio di terminologia nel suo nuovo saggio L´invenzione dell´economia (Bollati Boringhieri, in uscita oggi). A scanso di equivoci, parliamo di "a-crescita" come si parla di ateismo. Perché proprio di questo si tratta, dice Latouche: «Uscire dalla religione della crescita». Una religione che esige dalle masse dei credenti una fede cieca, assoluta, irrazionale. Lo si capisce da un test logico elementare. Come conciliare l´idea di una crescita infinita, con le risorse naturali del pianeta che sono limitate? Latouche mette a nudo questo paradosso: con il tasso attuale di crescita della Cina (10% di aumento del Pil annuo, nei primi otto anni del XXI secolo), si ottiene una moltiplicazione di 736 volte in un secolo. Immaginiamo invece che la Repubblica Popolare si assesti su una velocità di sviluppo più moderata, per esempio quel 3,5% annuo che fu la media europea negli anni della ricostruzione post-bellica: si avrebbe pur sempre una moltiplicazione di 31 volte in un secolo. Chi può pensare che ci sia sul pianeta abbastanza petrolio, acqua da bere, ossigeno da respirare, per una Cina che produce e consuma trenta volte più di adesso?
La critica di Latouche va al cuore della scienza economica, che smonta e demistifica assegnandole una parabola storica ben precisa: è da Aristotele a Adam Smith che la visione economica si codifica e conquista un ruolo centrale, dominante, infine totalitario, nella civiltà occidentale (poi conquista via via tutte quelle altre zone del mondo che si sono modernizzate emulando i modelli dell´Occidente). Il marxismo in questo senso è una finta alternativa, un rovesciamento fallito, la sua prospettiva rimane la stessa: il produttivismo, l´idolatria dello sviluppo. «Viviamo ancora – scrive Latouche – in piena apoteosi dell´èra economica. Viviamo l´acme della onnimercificazione del mondo. L´economia non solo si è emancipata dalla politica e dalla morale, ma le ha letteralmente fagocitate. Occupa la totalità dello spazio. Il discorso pubblicitario, che invade tutto, diffonde la visione paneconomica e la spinge fino all´assurdo: pretendendo di dare un senso alla vita, ne rivela la mancanza di senso».
Pochi autori possono unire l´erudizione e la profondità analitica di Latouche, insieme con la sua capacità di attaccare alle radici venti secoli di pensiero occidentale: in passato proprio Karl Marx, e tra i contemporanei Giovanni Arrighi, si sono cimentati con operazioni così ambiziose. In questa sua ultima opera Latouche accetta anche qualche mediazione politica. Il suo orizzonte ultimo è una Utopia da terzo millennio, una società di abbondanza sulla base di quella che Ivan Illich chiamava la "sussistenza moderna", una sorta di neofrugalità appagata. Per arrivarci, Latouche è disposto a una transizione fatta di nuove regole e ibridazioni: «In questo senso le proposte concrete degli altermondialisti, dei sostenitori dell´economia solidale e del paradigma del dono, possono ricevere un appoggio incondizionato». In fondo c´è posto in questa visione anche per il progetto di Nicolas Sarkozy: abbandonare la "dittatura del Pil", fondando su altri parametri la misura del benessere sociale di una nazione.

l’Unità 6.2.10
Camus il primo uomo
Umanista controcorrente, seppe resistere all’”aria del tempo”: i ricordi di Jean Daniel
di Goffredo Fofi

Su Camus si è scritto molto nei mesi scorsi, in vista del cinquantesimo anniversario della sua morte, a soli 47 anni. Aveva avuto il Nobel per la letteratura tre anni prima, nel 1957, forse il più giovane tra gli insigniti da un premio che era ancora molto prestigioso. Benché la sua attività venisse stroncata dal mortale incidente del 1960, quanto ha scritto è bastato a farne uno dei pensatori più influenti del secolo scorso. E di oggi. Maestro per scrittori di mezzo mondo – innumerevoli, dalla Svezia di Dagerman al Giappone di Dazai, dall’Italia di Flaiano (Tempo di uccidere) alla stessa America di Faulkner, a tutta o quasi l’Europa dell’Est nei duri anni dello stalinismo – il segreto della sua durata è stato nel saper «resistere all’aria del tempo», nel non accettare le linee dominanti della cultura dei suoi anni in nome di un’onestà intellettuale innamorata della realtà, della verità. Jean Daniel, uno dei giornalisti francesi più importanti tra la guerra e oggi, fondatore del Nouvel Observateur, che gli fu vicino e amico sin dagli esordi perché anche lui nato e cresciuto come Camus nell’Algeria coloniale, ha scritto pochi anni fa questo aureo libro di ricordi e riflessioni su Camus, constando sintetizzando in questo modo l’itinerario camusiano: «Se si esclude il rifugio nella religione o la fuga nell’ideologia, rimangono l’imperativo della creazione felice e l’urgenza di una compassione attiva e sempre controllata». Camus si voleva «solitario e solidale» e ha ripetuto molto spesso quest’essenziale definizione del suo programma di vita e di pensiero, che parte dall’impossibilità di accettare i luoghi comuni e i grandi ricatti del suo tempo – e in sostanza le due grandi distinzioni, di ieri e non più di oggi, tra il modello statalista e quello occidentale, americano, basato sull’assoluto del mercato.
Si accusò Camus di non tener conto delle «leggi» della storia, gli uni irridendo la sua radicale critica del «comunismo reale» e gli altri quella, né più né meno, del sistema capitalista. Il suo amico-nemico Sartre sacrificò alla logica di «non mettere in crisi la classe operaia» occidentale e le sue prospettive di rivoluzione con la denuncia degli orrori del gulag, e ruppe con Camus (se fu Camus a rompere con lui, il discorso non cambia) perché Camus non accettò questo ricatto così come non accettò quelo della spirale di violenza algerina (e forse lo scritto più terribile di Sartre fu proprio la sua prefazione a I dannati della terra di Fanon, in cui, andando ben oltre Fanon, esaltava la necessità della violenza algerina su ogni piano, compreso quello psicologico e morale).
In sostanza, Camus ha sempre messo in discussione il rapporto tra fini e mezzi e considerato anzitutto la verità delle vittime, di qualunque parte esse fossero. Una prima rottura con il pensiero comune e «l’aria del tempo» Camus l’aveva affermata, guadagnandosi irrisioni e inimicizie, proprio quando tutti esultarono per l’atomica a Hiroshima vedendovi la data risolutrice della guerra mondiale. Se si usano le armi del nemico, si finisce per somigliargli, per diventare il nemico. «Io voglio lottare per la giustizia», ha scritto Camus, «non per la punizione degli uni e la vendetta degli altri». Quella giustizia, diceva Simone Weil così amata da Camus, che abbandona sempre il carro dei vincitori. Bisognava imparare a diffidare dei «giustizieri con le mani pulite». E anche da quella «pietà che induce a soccorrere le vittime preparandone l’asservimento», e che a me sembra fin troppo presente, oggi, nell’aria del nostro tempo.
L’OMAGGIO DI SARTRE
Ebbene, fu proprio Sartre, ricorda Daniel, a scrivere il necrologio dello scrittore più vicino al suo spirito: «Il suo umanesimo testardo, severo e puro, austero e sensuale, intraprendeva una lotta senza certezze contro i gravi e difformi eventi di questo tempo. E per converso, con la caparbietà dei suoi rifiuti, egli riaffermava, nel pieno della nostra epoca, contro i machiavellici, contro i vitelli d’oro del realismo, l’esistenza del fatto morale. Egli era, per così dire, quella incrollabile affermazione. Per poco che si leggesse o si pensasse, ci si imbatteva nei valori umani che teneva stretti in pugno: metteva in questione l’atto politico».
Metteva in questione l’atto politico, è forse qui la più scottante attualità del pensiero e dell’opera letteraria di Camus. Il libro di Daniel parla di molti aspetti dello scrittore e ricorda molte sue frasi esemplari, nella loro semplicità e immediatezza, ma non quella che a me sembra centrale, nella sua essenzialità: «Mi rivolto dunque siamo» (si veda la piccola antologia camusiana di Eleuthera che porta questo titolo, uscita due anni fa). Ricorda per esempio le sue parole d’ordine «giustizia, onore e felicità», vedendo l’originalità soprattutto della seconda e della terza, e commentando quest’ultima con la constatazione che «occorre amarsi un po’ e se possibile essere felici per amare gli altri», contro ogni logica di mortificazione. Parla diffusamente del lavoro giornalistico di Camus in pagine che dovrebbero servire di monito ai giornalisti di oggi. Insiste sull’idea camusiana di responsabilità («essere responsabile è in primo luogo partecipare») e sul dovere di non accettare lo stato delle cose presenti, di metterlo in discussione, di reagirvi («vivere è non rassegnarsi»), sul rifiuto di mentire e di mentirsi (citando Malraux: «essere un uomo è ridurre al massimo la propria parte di commedia»).
Di questo piccolo libro in cui il vecchio Daniel mette insieme ricordi e riflessioni e definisce, datandolo, un percorso tra i più necessari e affascinanti nella storia della società e della cultura del Novecento, voglio per finire ricordare l’aneddoto che egli racconta, e che mi pare vada collegato a una delle più scandalose frasi di Camus: «Noi siamo di quelli che non sopportano che si parli della miseria se non con cognizione di causa». Eccolo: «Un 14 luglio, doveva essere quello del 1951, Albert Camus, la madre (che era una domestica semianalfabeta, d’origine spagnola, per chi non lo ricordasse e non avesse letto Il primo uomo, il bellissimo libro postumo di Camus), alcuni amici e io, andammo in place Saint Sulpice dove si ballava. Stavamo seduti attorno a un tavolo e, come faceva di tanto in tanto, Camus si alzò per ballare con una delle donne che ci accompagnavano. Poi tornò vicino alla madre. Si sedette, si chinò verso di lei e, parlando molto forte per vincere la sua sordità e la musica e perché gli altri potessero sentire, disse: “Mamma, sono stato invitato all’Eliseo”. Lei si fece ripetere la frase almeno tre volte e soprattutto la parola “Eliseo”. Rimase silenziosa per qualche minuto. Poi chiese a suo figlio di stare a sentirla e gli disse a voce molto alta: “Non è cosa per noi. Non ci andare, figlio mio, non ti fidare. Non è cosa per noi”. Camus ci guardò. Non disse niente, ma mi sembrò che fosse fiero di sua madre. Comunque sia, non è mai andato all’Eliseo» (p.154).

il Fatto 6.2.10
L’India che rinuncia al Nirvana
Oltre centomila suicidi all’anno, in aumento costante da un ventennio
di Alessandro Cisilin

Ma come, l’India non è il paese in cui tutti sorridono e la vita si accetta con filosofia,
anche quando è colma di miseria? Le recenti cronache dei suicidi in India mettono a repentaglio i preconcetti fricchettoni che avvolgono il subcontinente sin dall’epoca coloniale.
Il tema è stato rilanciato nei giorni scorsi dal caso di un’undicenne di Mumbai, recente protagonista di un reality televisivo. Si chiamava Narendra Sawant, si è impiccata in casa con una sciarpa, perché “voleva continuare a ballare in tv anziché tornare a scuola come le imponeva la famiglia”. La motivazione ha già scatenato decine di tuttologi in sofisticate sociologie sulla distanza tra l'illusione dello schermo e la durezza della realtà. La realtà del suicidio in India è però anche quella di una prassi antica e diffusa, con cifre che oramai superano i centomila l'anno. E' un primato mondiale, che segnala una percezione particolare dell'esistenza umana e di quel che segue. La cristianità ha orrore della morte e codifica l'ambizione alla fisica sopravvivenza con la teologia della reincarnazione di Gesù, e per estensione di tutti i corpi nel Giudizio Universale. L'induismo muove dall'obiettivo opposto, quello di emanciparsi dalla vita, dalla società e dall'estenuante ciclo delle rinascite. Gli esempi sono infiniti: la scelta dei “rinuncianti”, che vagano nelle foreste allontanandosi da ogni contatto umano; le epopee reali, che raccontano di furiose battaglie per il trono dei “giusti”, i quali però, riconquistato il regno, decidono infine di abdicare; l'etica di Gandhi, che predicava la rivoluzione attraverso il distacco dagli istinti, e quindi la castità e la non-violenza; la tradizione del sui-
cidio delle vedove, che si autoimmolavano per seguire il consorte nell'aldilà. Si tratta di concetti cari soprattutto alle caste sacerdotali ma, siccome l'ideologia prevalente tende a esser quella delle classi dominanti, raccontano tuttora una mentalità dif-
Il boom economico ha creato i nuovi ricchi Ma i contadini sono sempre più indebitati
fusa e ne disegnano in fondo la gerarchia sociale: si sta tanto più in alto quanto più, per la natura della propria professione, si è lontani dai contatti vitali e dalle interdipendenze sociali. Sono dunque precetti religiosi carichi di implicazioni concrete, e tuttavia raccontano solo una parte della verità e van detti a voce bassa, perché sono spesso usati ad alibi dagli economisti occidentali quando presentano conti che non tornano. La teologia descrive l'idea relativistica indiana sulla vita e sulla morte, ma non spiega il netto incremento nei suicidi negli ultimi vent'anni. Ebbene, a cambiare in questo periodo sono state le condizioni materiali delle masse rurali sotto l'impulso di una virata politica nel segno della liberalizzazione degli scambi internazionali e del mercato del lavoro. Secondo la Banca Mondiale (e i tanti che ne diffondono acriticamente i dati), le riforme avrebbero non solo generato il ceto dei celebrati nuovi miliardari, ma altresì ridotto la povertà dal 60% al 42. Quel che non si dice è che se si fissasse la soglia dell'indigenza sui due dollari al giorno anziché sull'uno la proporzione salirebbe all'85%. E il dramma coinvolge soprattutto i contadini perchè nel frattempo, tra espropri e investimenti delle multinazionali dell'Ogm, i
costi reali dei loro fattori produttivi (anzitutto le semenze) risultano all'incirca decuplicati. Il risultato è che la proporzione di indebitati si è raddoppiata, coinvolgendo oramai trecento milioni di agricoltori, che rappresentano infatti il nucleo prin-
cipale della popolazione suicida. In decine di migliaia scelgono annualmente di immolarsi, ammantando di significati religiosi uno stato di disperazione. C'è però chi opta per un'altra strada, che allarma ben di più le autorità e gli investitori stranieri. An-
ziché suicidarsi si mostra pronta a uccidere. È la scelta compiuta da altre decine di migliaia di indiani. È il fenomeno parallelo, e altrettanto inedito nelle dimensioni, della guerriglia maoista. Le vittime, solo nell'ultimo anno, sono circa seimila.

il Fatto 6.2.10
In Giappone, il Paese del Sol calante il salvagente dei “telefoni della vita”

di Raffaela Scaglietta

N el Far East il disagio economico o sociale porta sempre più dritto alla morte. Se negli ultimi anni era diventato un fenomeno collettivo per i giovani, fomentato da richiami inspirati ai manga e amplificati dal web o se per gli adulti era considerato un gesto di esasperazione individuale a volte anche romantico tratto dai racconti epici dei samurai o dall'eroici kamikaze della guerra; il suicido non è piu' dettaglio di una società complessa che corre tra moderno e memorie
del passato. Bensì un problema sociale che il nuovo governo di Tokyo non può più far finta di non vedere e adesso contrasta come può: perché la crisi economica mondiale che coinvolge anche il Giappone non e' finita e il disagio aumenta. Certo l'impresa non è facile e servono le risorse per affrontare questo nuovo tsunami della morte. I suicidi in Giappone hanno superato quota 30.000 per 11 anni consecutivi, e negli ultimi dieci mesi di quest'anno ci sono stati 17.076 casi, +4,7% sullo stesso periodo del
2008, un dato che rischia di superare il record negativo di sempre del 2003 con 34.427 casi. Il motivo scatenante di quest'onda anomala della morte, secondo le fonti ufficiali, è la crisi economica, l'indebitamento finanziario del sistema impresa familiare.
Il male oscuro per eccellenza della società nipponica, basata di principio collettivo e sulla stabilità del lavoro, anche se temporaneo. Eppure il suicidio non è un fatto nuovo. Se prima i signori giapponesi sceglievano di impiccarsi nella foresta del Monte Fuji , o più velocemente si lanciavano sotto i treni della metropolitana. Adesso succede anche a nord est di Tokyo, e si tuffano dagli scogli di Tojimbo per non tornare mai più a galla. Questa logica della fine estrema, radicale fa parte di una cultura.
È sempre stata considerata quasi un'eccezione. Ma dai dati statistici sembra che sia piuttosto diventato un fenomeno in progress che avviene non solo perché c'è alienazione della società urbana o disagio di un singolo o di un gruppo di giovani ma tocca anche quelle sacche “protette” della società agricola e contadina. Ed è forse per questo che nascono delle iniziative puntuali. L'ultima riguarda per l'appunto il problema finanziario delle famiglie agricole e dà l'accesso ai “prestiti della speranza”: i prestiti “Nozomi”. Questa azione nasce proprio dalla città di Kurihara, che ospita gli scogli di Tojimbo, cosi tanto frequentati.
I prestiti non vengono dalle banche, che sono ferree e barricate dietro regole inderogabili finanziarie, ma dalle istituzionali munici-
pali. Un padre di famiglia grazie a questo prestito è riuscito a pagare la scuola dei suoi figli e fare investimenti per la sua azienda agricola anche in tempi di crisi. Si tratta di un'azione d'emergenza per una provincia che soffre di una crisi economica senza precedenti. Nessuno per ora è capace di dare segnali convincenti di una ripresa economica e in qualche modo bisogna vivere e adattarsi alle nuove esigenze sociali e limitare i danni. Senza farsi prendere dalla depressione o dall'idea individuale o collettiva di farla finita.
Ma in Giappone quando si parla di disagi psicosociali, si ha sempre un po’ di distacco e tutto si ricongiunge sempre alle questioni razionali. Così è nata un'altra iniziativa da parte di un'organizzazione no profit, promotrice di uno sito web nipponica, tramite cui i navigatori possono effettuare una donazione virtuale che andrà a tradursi in soldi veri destinati alla prevenzione dei suicidi.
Il sito, battezzato “Uniamo le forze per prevenire i suicidi con un clic”, permette a ogni visitatore di cliccare su un apposito pulsante una volta al giorno.
Ogni clic equivale a uno yen, che sarà donato concretamente dallo studio legale 'Home-Onè specializzato nell’assistenza delle persone indebitate al gruppo di volontari Inochi no denwa (telefono della vita), attivo 24 ore su 24 con un servizio di supporto per gli “aspiranti” suicidi. Tutto sta a vedere se chi ha bisogno di aiuto in momenti così estremi, ha la lucidità di chiamare. Ma la speranza è sempre l'ultima a morire.