giovedì 11 febbraio 2010

Il Giorno 24 maggio 1964
L'autogoverno li strappa alla fossa dei serpenti






Una clinica psichiatrica senza celle, senza camicie di forza, senza infermieri, dove i malati vivono in libertà, discutono con i sanitari i loro problemi: ecco quanto si è realizzato nella "comunità" di Roma, una iniziativa per certi aspetti unica e che comunque sta tentando una strada nuova in questo campo delicatissimo.

di Stelio Martini

«I malati psichiatrici possono governarsi da soli? Sono capaci di vivere in una ordinata comunità, di assolvere a certi compiti sociali, di prendere delle "sagge" decisioni?»

Mi sembravano ipotesi assurde, e non senza scetticismo suonai alla porta della Comunità. Il cancello si aprì quasi subito e, mentre attraversavo il breve giardino che divide la villa dalla strada, mi investì il suono di un disco di Celentano.

Le note rimbalzavano anacronisticamente sulla facciata 1930, anacronisticamente per lo stile, ma ancora di più per il suo contenuto. In fin dei conti non si trattava di una clinica per malati psichiatrici? Nessuno mi venne incontro, e perciò entrai direttamente nella stanza a pianterreno, che era piena di gente. C'erano uomini e donne: chi leggeva chi ascoltava la musica chi chiacchierava, e alcuni risposero al mio saluto. La loro disinvoltura favorì la mia.

Ma mi sentivo ugualmente a disagio. Di fronte ad un malato, anche la disinvoltura è una forma di ipocrisia, e io temevo che incontrando qualcuno di «loro» il mio comportamento avrebbe tradito il mio stato d'animo, di timore e istintiva pietà. Ma si trattava di una preoccupazione ormai inutile. Quasi tutte le persone che avevo incontrato fino a quel momento erano membri della Comunità, cioè malati. Me lo rivelò il dottor Fagioli, Il giovane direttore, ricevendomi nel suo ufficio.

Da tre anni egli abita, mangia, dorme e lavora, insieme alla moglie che sta per avere un figlio e «senza nessuna precauzione psichiatrica » (un eufemismo per dire: senza celle infermieri, camicie di forza), in mezzo ai pazienti, e queste cose non gli fanno più effetto. Si, era un malato quel tale che usciva mentre io entravo . E anche quello che mi aveva accompagnato in ascensore. E anche quello, aggiunse, che all'ora di pranzo ritira le medicine in infermeria e le distribuisce si suoi compagni, osservando la nota consegnatagli dal medico. « Certo…» sorrise lo psichiatra all'espressione della mia incredulità. Del resto, se mi fossi trattenuto avrei potuto constatarlo di persona. «E le dirò, in tre anni non è mai successo che un paziente incaricato di questo compito sbagliasse una dose. Come un infermiere, anzi meglio di un infermiere…»

Giovane ed entusiasta del metodo di cura applicato e perfezionato dal dottor Fabrizio Napolitani, Massimo Fagioli era assistente presso l'ospedale psichiatrico di Padova quando seppe dell'esperimento che il suo collega stava conducendo in Svizzera, in un padiglione a sé del sanatorio di Kreuzlingen. Immediatamente abbandonò il posto e lo raggiunse. I suoi colleghi dissero che era matto; oggi egli può vantarsi di aver partecipato ad un'iniziativa per certi lati unica, e che comunque tenta una strada nuova in un campo molto difficile.

Alla parola «malato di mente» la gente reagisce ancora con la paura. Senza far distinzioni, questo tipo di malato è considerato un'irresponsabile per eccellenza , dal quale bisogna difendersi. La legge riflette ed esaspera questa concezione, demandando il ricovero dei malati all'autorità giudiziaria. In tal modo ci si cautela contro le possibili conseguenze, ma si sottrae alla medicina la possibilità di vagliare, distinguere ed intervenire in condizioni ideali. E se è vero che in alcuni ospedali psichiatrici si sono fatti dei passi avanti, la codificata diffidenza contro la malattia è ancora molto grande. Uno dei pregi dell'esperimento tentato con la Comunità è quello di opporsi a questa diffidenza. E proprio certe parole che sembrano le più assurde sono, almeno per il profano, le più stimolanti. Autogoverno dei malati psichiatrici. Consiglio normativo della Comunità formato da medici e pazienti. Comitato di infermi e assistenti sociali. E così via.

Una casa come le altre
Esponente della moderna psichiatria, che sta abbandonando i tradizionali sistemi per le nuove tecniche psicoterapiche ispirate alla psicoanalisi, Fabrizio Napolitani ha creato in sostanza una specie di famiglia, dove malati e medici collaborano alla cura, si fa vita di gruppo e dove tutti (salvo il veto dei medici) accettano le decisioni della maggioranza. Egli ha lavorato diversi anni a questa iniziativa. Per la prima volta ne parlò al Congresso internazionale di Montreal nel '61; ora, dopo tre anni di rodaggio in Svizzera, ha trasferito a Roma la sua «democratica» Comunità, suscitando molto interesse negli ambienti medici.
Di fuori la clinica (situata in una via quasi centrale), è una casa come le altre, in mezzo alle altre. Far sì che il malato non si senta isolato, messo al bando dalla società, è infatti uno degli scopi di questo metodo che si propone prima di tutto di socializzare il paziente. « Socializzare e motivare…», precisò il dottor Napolitani, «sono gli scopi pregiudiziali della cura...».. Bruno tarchiato, le sopracciglia folte, quasi unite, il «padre» (anche in senso affettivo) della comunità ha lo sguardo di chi è abituato a scrutare le sofferenze dell'animo umano; ma spira dalla sua persona anche la rassicurante fiducia della persona che crede nelle inesauribili risorse dell'uomo.

Il punto di partenza delle nuove tecniche cui si è ispirato è infatti quello di considerare il malato non oggetto ma soggetto di cura. Cioè capace di collaborare alla sua guarigione. Tutto sta che esista in lui una parte sana, un nucleo anche piccolo, sulla quale far leva. «Se esiste è possibile spezzare il muro dietro il quale, per paura dell'ambiente, si è chiuso, fargli riprovare il piacere di comunicare e quindi far sorgere in lui il desiderio di guarire. Se si riesce a tanto, il più è fatto. Da quel momento infatti si può iniziare con il malato, divenuto consapevole della sua malattia, un colloquio che un po' alla volta lo riporta verso la normalità…» Questo colloquio non si svolge soltanto tra il medico e paziente, ma anche tra malato e malato. Come intuì John Maxwell, i malati di mente hanno un effetto terapeutico gli uni sugli altri, e su questo principio sono basate le cosiddette «psicoterapie di gruppo», nelle quali si inquadra anche la Comunità fondata dal dottor. Napolitani.

Ma insieme al dottor. Fagioli egli ha fatto un passo di più, organizzando qualcosa che fa venire in mente la «Città dei Ragazzi». Il caso del paziente che sostituisce l'infermiere, non è un'eccezione. Qui dentro ognuno è incaricato di una certa funzione, e fa parte quindi di un certo comitato. I comitati sono quattro: di Assistenza Vitto e Alloggio, Sociale, Culturale. E se dietro questi nomi importanti (un po' i « ministeri» della comunità) si nascondono solo compiti di carattere pratico, « è sorprendente che un maniaco depressivo si occupi di tenere la corrispondenza con i pazienti dimesso, o un malato bilaureato, sia pure in via di guarigione, di stabilire le coppie di cucina, o di servire il pranzo in tavola, o la mattina di mettere fuori della porta il secchio dell'immondizia »

Sempre vicino ai suoi malati
Oltre ai comitati vi sono 3 consigli, che corrispondono idealmente ai 3 poteri dello stato democratico. Legislativo, d'azione e di riabilitazione. Ciò significa che i malati, eletti ogni 2 mesi, sono investiti anche del potere di fare e disfare le leggi della comunità? E' proprio così, anche se ai medici spetta l'ultima parola. Ma il parere dei pazienti è sempre sollecitato e ogni argomento affrontato con loro. Nelle bisettimanali riunioni di gruppo, si discute di tutto. Dei problemi comuni e di quelli individuali, in una sorta di confessione collettiva nella quale ciascuno porta i suoi casi di fronte al gruppo, racconta tutto di sé, e ci fu uno che una volta raccontò persino che si era innamorato di una paziente, e lei lo seppe solo in questa occasione.

«Con i malati», disse il dottor. Fagioli, «si discute perfino se accettare o dimettere un paziente, anche se la decisione finale è riservata a noi. La cosa importante però è abituarli a discutere, farli sentire partecipi di una comune famiglia». Di questa famiglia, mentre il dottor Napolitani che l'ha fondata è il «padre ideale», Il dottor Fagioli, accondiscendente benevolo, sempre vicino ai malati e disposto ad ascoltarli, impersona un po' la figura «materna». Dal punto di vista scientifico si potranno muovere obiezioni all'esperimento della comunità ma questo medico che vive sempre in mezzo ai malati è una prova a favore del metodo e un indubbio esempio d'abnegazione. E siccome si era fatta l'ora di pranzo, e il dottor Fagioli doveva mettersi a tavola con i suoi « pensionanti» lasciammo l'ufficio ed entrammo nella Comunità.

Nell'interno questa assomiglia ad una comune pensione, con le camere a due o tre letti, la sala da pranzo con il tavolo comune, fatto a elle, il soggiorno con la TV, le riviste, il giradischi. Le camere erano tutte aperte. In una c'era una piccola libreria, tra i cui volumi c'era anche un libro di Freud. In un'altra una ragazza si stava ravviando i capelli davanti allo specchio. In cucina mi presentarono, col suo nome e cognome, una signora che stava preparando i piatti. Alcuni pazienti erano già a tavola. C'era, malgrado tutto un'aria di famiglia. E infatti la funzione essenziale della Comunità è proprio di costituire per ciascun paziente una famiglia ideale, in sostituzione della loro che spesso è stata la causa prima della malattia.

Ogni anno il professore ritorna
Così si spiega come alcuni riescano a svolgere durante il giorno una normale attività e rientrino «a casa» la sera. E perché quelli che lasciano restino sempre legati ai loro «fratelli» da vincoli affettivi. «C'è un professore di università» diceva il dottor Fagioli « che ritorna a trovarci ogni anno», ma già sfrecciava verso i suoi pazienti e collaboratori, quasi assurdo nella sua dedizione e nella sua fiducia nelle loro risorse. Ma un po' di fiducia è necessaria; altrimenti si resta sempre fermi alle celle, agli infermieri, e alle camicie di forza.

Repubblica Roma 11.2.10
Bocciato Ceccanti, arriva D'Ubaldo Un altro ex dc nello staff della Bonino
Ruolo chiave per il senatore Popolare: responsabile del programma
La nomina dell'ex segretario del Ppi è un nuovo segnale agli elettori cattolici
di Giovanna Vitale

Sarà per fugare i sospetti di una coalizione troppo sbilanciata a sinistra, soprattutto dopo la virata a destra dell´Udc. Sarà per rassicurare l´elettorato cattolico, che potrebbe essere intimorito dalla ultra-laicità della candidata Bonino. Fatto sta che dopo aver designato come coordinatore del comitato elettorale Riccardo Milana, senatore democratico di rito diellino, ex rutelliano di ferro prima della fondazione di Api, ieri il Pd ha assegnato - e imposto agli alleati - un altro ruolo chiave a un altro ex democristiano doc. Sarà il senatore popolare Lucio D´Ubaldo il responsabile del programma dell´aspirante governatrice di centrosinistra. Dopo aver incassato l´ok delle varie anime democratiche che martedì pomeriggio si sono riunite alla Camera (presenti il segretario regionale Alessandro Mazzoli per i bersaniani, Michele Meta per l´area Marino, Roberto Morassut per Area Democratica e lo stesso D´Ubaldo), nel tardo pomeriggio è arrivato il via libera di tutti i partiti della coalizione. Così consolidando l´Opa lanciata dallo scudocrociato sulla campagna della leader radicale.
Una necessità, più che una scelta. Condivisa appieno da Emma Bonino, che martedì sera, alla fine del suo turno di presidenza a Palazzo Madama, ha voluto comunicare personalmente l´investitura al prescelto. Individuato dopo l´altolà di Pannella a Stefano Ceccanti, il costituzionalista veltroniano inizialmente suggerito dal Pd come responsabile del programma elettorale. Uno stop che ha poi favorito la convergenza su D´Ubaldo, già segretario romano del Ppi, fervido ascoltatore di Radio Maria, fra gli uomini più fedeli all´ex presidente del Senato Franco Marini. Il quale fu il primo a sdoganare la candidatura della leader radicale, benedicendone la corsa: «Non vedo un rischio di fuga degli elettori cattolici», disse all´indomani della discesa in campo della Bonino. «I moderati sanno scegliere e distinguere fra ciò che riguarda i nostri valori etici, intangibili, e ciò che riguarda invece un voto amministrativo. Del resto, non è andata così alle elezioni del 2008, non ci ha fatto perdere voti nel mondo cattolico l´alleanza con i radicali». Una risposta preventiva all´offensiva lanciata dai giornali di destra e, ieri, persino da Berlusconi: «La sinistra ha scelto la signora Bonino, ma c´è anche l´elettorato cattolico, che nel Lazio è importante e avrà il suo peso».
La contromossa non s´è fatta attendere. Da settimane lo storico segretario della Cisl manovra nell´ombra per vincere la diffidenza della galassia moderata. Ed è sempre lui ad aver suggerito una più massiccia presenza democristiana nel comitato elettorale. In questa luce va pure inquadrato l´incontro informale, avvenuto qualche giorno fa, fra l´ex ministro dell´Istruzione Giuseppe Fioroni con il cardinale vicario di Roma Agostino Vallini nella sua dimora nel viterbese. Un´azione a tutto campo. Che una probabile alleanza con l´Api di Rutelli potrebbe completare. «La discussione è in corso», ha confermato ieri Bonino. «Decideranno loro, com´è giusto che sia».

Europa 11.2.10
Con Emma va bene, con i radicali meno
di Mario Lava

Emma Bonino ha dovuto ascoltare ieri varie lamentele di esponenti del Pd riguardo alla linea tenuta dal radicale Marco Beltrandi in commissione di vigilanza Rai che - va ricordato - ha incontrato il pieno consenso della destra. E improvvisamente il barometro del rapporto Pd radicali vira sul brutto stabile. Lei, militante radicale disciplinata, ha preso atto delle obiezioni del Pd ma condivide pienamente la soluzione-Beltrandi che rischia di travolgere quelle tramissioni politiche non da oggi bersaglio degli strali di Torre Argentina.
Una volta di più, ieri Beltrandi si è scagliato contro i vari Floris e Santoro, «l`ala sinistra del regime politico italiano, profittatori del regime politico». Il relatore sulla par condicio in vigilanza non aveva neppure informato della sua proposta il presidente della commissione Sergio Zavoli, che ieri mattina, accasciato su una poltrona nella sala Garibaldi del senato, ha confidato tutto il suo rammarico e l`imbarazzo per una decisione da lui neppure lontanamente condivisa. «Un regalo alla destra, che nemmeno ci aveva pensato», commenta Vincenzo Vita. Una situazione difficile da correggere: scripta manent, no? Comunque Paolo Gentiloni ritiene che «non mancano precedenti di correzioni di regolamenti già emanati dalla commissione».
La vicenda della par condicio ripropone in settori del Pd la questione del non facile rapporto con i radicali. «La formula della "delegazione" di un altro partito dentro il nostro gruppo parlamentare si è rivelata per quella che è sempre stata: una presa in giro», ha detto fuori dai denti Enrico Farinone, deputato ex popolare che non per la prima volta esprime a voce alta dubbi sulla "coesistenza fra dem e radicali nei gruppi parlamentari.
Ma come si capirà il problema assume un rilievo particolare alla luce dell`unità raggiunta nel Lazio sotto il nome della Bonino. Superati i peraltro non numerosissimi mal di pancia iniziali, il Pd è apparso via via sempre più convinto della scelta compiuta.
Semmai sembra che sia proprio l`esponente radicale a nutrire più di un dubbio sulla effettiva capacità del Pd di muoversi adeguatamente: «A dire la verità spero che tutte le forze della coalizioni si mettano in moto», dice la Bernardini, che coordina il comitato elettorale della Bonino insieme al democrat Milana. In effetti finora per le strade di Roma, nei paesi e paesini del Lazio, la campagna di Emma non si vede moltissimo, piuttosto imperversa la frangetta di Renata.
Se è evidente che ormai Emma viene considerata dai dem una candidata animata da una sincera volontà di cooperare per vincere una battaglia che si considerava persa in partenza e che invece ora risulta, soprattutto grazie a lei, del tutto aperta, l`interrogativo riguarda invece la reale volontà di tutti i radicali di condurre una battaglia unitaria e non di partito.
Prendiamo la questione della lista civica che, secondo alcuni osservatori, rivelerebbe un Marco Pannella più attento alle fortune del suo partito che non a quelle della candidata.
Questa scelta infatti non sarebbe stata apprezzata dal leader storico, conscio del rischio di una confusione con la lista Bonino-Pannella e timoroso che la lista civica possa sottrarre voti alla "vera" lista radicale: «A me questo non risulta - dice Rita Bernardini - la lista civica non è la
lista dei radicali ma una delle varie liste a sostegno di Emma».
Bisognerà però tecnicamente risolvere il problema di due simboli con lo stesso nome, se non si vuole sfidare il rischio della confusione.

l’Unità 11.2.10
Un colpo al cuore all’informazione libera
di Bianca Di Giovanni

Il Governo conferma i «paletti» e i tagli per l’accesso ai contributi. Cento testate a rischio
Bonaiuti «scopre» solo ora la crisi: 20% di fondi in meno. Cancellato il diritto soggettivo
Il governo tira dritto sull’editoria: nessun ripristino delle vecchie regole e meno fondi per il 2010. Un colpo mortale alle testate di opinione e di idee che non accedono alla ricca torta della pubblicità.

Pietra tombale sul pluralismo dell’informazione. Il governo non salva le testate di idee, opinioni, cooperative e non profit: nessun emendamento nel decreto Milleproroghe. Nonostante le rassicurazioni di Giulio Tremonti. Dopo un pomeriggio di stop-and-go sul provvedimento in Senato, in serata è arrivato il maxiemendamento su cui è stata chiesta la fiducia che si voterà oggi. L’ennesima. Evidente che il governo non si fida della sua stessa maggioranza. Testo blindato: modifiche impossibili.
MORTE ANNUNCIATA
Anche quella sull’editoria, che pure aveva trovato un sostegno trasversale, su cui si era esposto anche il presidente della Camera Gianfranco Fini. Non solo restano in piedi le norme infilate con un blitz in Finanziaria, che cancellano il diritto soggettivo delle aziende ad accedere ai contributi diretti. C’è di più. C’è anche un comunicato di Palazzo Chigi in cui si annuncia un taglio ai contributi di circa il 20% sui fondi del 2010, che saranno erogati secondo un nuovo regolamento da stilare in estate dopo gli Stati generali dell’Editoria, convocati per giugno. Insomma, il sistema passato è cancellato. Per ora c’è l’assenza del diritto e meno fondi «per via della crisi», dichiara Paolo Bonaiuti. Un binomio mortale, che getta nella crisi decine di aziende già pronte
a chiedere cassa integrazione e stato di crisi. Se non cambia nulla alla fine dell’anno delle 92 testate finanziate dal fondo ne resteranno in piedi sì e no la metà, azzarda qualche addetto ai lavori. Con un danno grave al pluralismo dell’informazione. Tra le testate colpite compaiono infatti giornali importanti per la loro storia e la loro diffusione, come l’Unità, il loro forte rapporto con i lettori come il Manifesto. Ma anche nuove e ricche esperienze editoriali, che sperimentano nuovi modelli di comunicazione. Ci sono le cooperative e le imprese senza scopo di lucro e le testate delle minoranze linguistiche. Un universo variegato, che ha difficoltà ad accedere alla ricca torta della pubblicità. Tra questi anche giornali «finti», aperti solo per intercettare i contributi: per questo esiste la forte determinazione alla riforma del settore. Ma non certo con la spada di Damocle del rischio chiusura sulla testa.
DIRITTO SOGGETTIVO
Il rischio maggiore non sta tanto nelle minori risorse (dovrebbero scendere a circa 130 milioni, dai 170 utilizzati per il 2008), che comunque hanno copertura, come ha deliberato la commissione Bilancio del Senato. Il vero attacco sta nell’abolizione del diritto soggettivo. Grazie a quel sistema, infatti, ciascuna testata godeva della certezza di poter accedere a una somma stabilita, in base a certi criteri. Questa certezza fondata appunto sul diritto soggettivo al sostegno consentiva alla testata di iscrivere a bilancio il contributo pubblico, o di utilizzarlo come garanzia su prestiti bancari fin quando il contributo non fosse stato effettivamente erogato. I finanziamenti infatti vengono sbloccati nell’anno successivo a quello di riferimento. In questi mesi si attende il contributo relativo al 2009, che in via di principio dovrebbe essere erogato secondo il vecchio sistema, ma che il governo intende invece calcolare secondo il nuovo. Eliminato il diritto soggettivo, si adotta il sistema della «torta» da distribuire tra i vari richiedenti. Una «fetta» a ciascuna testata. Il fatto è, però, che fino a fine anno non si conosce la consistenza della «fetta», perché non si sa tra quanti soggetti si dovrà spartire la torta. Questo impedisce alle imprese di iscrivere cifre in bilancio o di accedere a crediti bancari. Ecco perché è una scelta mortale, un vero accanimento che non produce risparmi, ma solo stati di crisi. Non sembra una grande trovata per un ministro dell’Economia che voglia combattere gli effetti della crisi.
Il fronte dei giornali di opinione e il sindacato dei giornalisti non rinuncia alla battaglia parlamentare, nonostante la blindatura del governo. Ora la battaglia si sposta alla camera e se anche lì il governo dovesse tirare dritto, si utlizzerà il decreto annunciato dal ministro Scajola per lo sviluppo. Ma di quel decreto non si è vista ancora traccia. ❖

l’Unità 11.2.10
Fini chiama ancora Tremonti. Da decidere i criteri dei tagli
di Susanna Turco

La cortese pressione corre sul filo, ancora una volta. A dicembre, si era andati
in viva-voce, davanti a quattro direttori di giornale. Stavolta si è trattato di un tu per tu. Nella tarda mattinata di ieri infatti, come già aveva fatto a dicembre (per ora senza risultati concreti, nonostante le assicurazioni del ministro), il presidente della Camera Gianfranco Fini ha alzato il telefono e ha chiamato il suo nemico-amico Giulio Tremonti per perorare presso il governo la causa dei giornali di partito, colpiti dai tagli in Finanziaria fatti sui fondi all’editoria.
Con lui, il superministro dell’Economia ha confermato l’impegno di «tamponare per il 2010» la questione dell’erogazione dei contributi per le testate che ne hanno diritto. Sul come, però, pare che non sia stato più chiaro. Del resto, anche l’altra volta, all’inizio di dicembre, aveva semplicemente assicurato che i fondi tagliati in finanziaria sarebbero stati ripristinati.
Ieri, il ministro ha anche sottolineato come la sua intenzione sia quella di risolvere «per il prossimo anno», ossia per il 2011, il problema di un bacino «troppo ampio» di aventi diritto. Un «taglio drastico», finalizzato a tutelare soltanto le testate storiche, per il quale Tremonti si è rivolto a Paolo Bonaiuti, chiedendogli «a gran voce» di fare un controllo.
Nelle intenzioni del ministro dell’Economia, il sottosegretario alla Presidenza con delega sull’Editoria dovrebbe verificare quali testate posseggano i requisiti sufficienti e quali no. Un’operazione che tuttavia, a sentire le voci di Palazzo, Bonaiuti preferirebbe proprio non intestarsi. E, in effetti, a metà pomeriggio Palazzo Chigi ha diramato un comunicato per annunciare che «il governo si impegna a convocare gli stati generali dell’editoria per una riforma globale del sistema entro il giugno prossimo». A quanto pare, Tremonti dovrà attendere.

l’Unità 11.2.10
Pubblicità, mercato drogato dallo strapotere televisivo
Il 51% dell’intera torta degli spot è assegnata ai network. Le briciole a tutti gli altri
Ecco come le grandi aziende soggette a concessioni governative «preferiscono» investire
di Roberto Rossi

In Italia la televisione fa la parte del leone nel mercato pubblicitario. In Europa le cose vanno diversamente. Forse perché abbiamo un premier proprietario di tre reti e un’industria poco libera.

Se l’Unità fosse stampata in Irlanda anziché in Italia, questo articolo non avrebbe mai visto la luce. Non ci saremmo mai dovuti occupare, infatti, del mercato della pubblicità. In particolare della sua distorsione. Se fossimo a Dublino come sottolinea il rapporto statistico 2008 diffuso pochi giorni fa dall’Ofcom, l’autorità inglese che ha messo la lente su tutto il settore dei media metà delle reclame in circolazione sarebbero stampate su carta, mentre il resto sarebbe ripartito tra tv, internet e, in minima parte, radio.
Invece siamo a Roma. Con un presidente del Consiglio proprietario di tre televisioni private. E con un settore che fa la parte del leone e si mangia circa metà dell’intera torta (oltre il 51%), mentre gli altri si devono accontentare del resto: ai quotidiani la parte più sostanziosa (il 18%), qualcosa meno ai settimanali (il 15,1%), poco per Internet (8,7%) e radio (5,3%), briciole per la cartellonistica (2,5%) quasi nulla al cinema (0,6%).
UNICI
Il nostro è l’unico caso in Europa con una sproporzione così accentuata. In Francia le televisioni assorbono il 28% del mercato, in Inghilterra il 26,4%, in Germania, addirittura, si scende al 23%. Vicino a noi, si posizionano invece Polonia (43,9% della spesa finisce alla tv) e Spagna (43,9%).
In Italia la televisione, invece, gioca un ruolo preponderante. Del resto, sempre secondo quanto riportato da Ofcom, è da noi che si passa più tempo davanti al video, con 234 minuti al giorno. Al polo opposto troviamo invece la Svezia e l’Olanda, dove gli spot assorbono appena il 20%, e l’Irlanda, circa il 23%.
Questa anomalia ha anche una ragione economica. Legata al tessuto industriale del Paese. A parte Fiat, le nostre maggiori aziende sono quasi tutte controllate da Tesoro (Eni, Enel, tanto per citare un esempio) o comunque soggette a concessioni governative (Autostrade e Telecom). E visto che le aziende più grandi sono anche quelle che investono di più in pubblicità è logico pensare che alcuni settori, in questa battaglia ad armi impari, siano avvantaggiati. E in particolare alcune aziende. Ma non è solo un retropensiero. È una realtà certificata. Come spiegava un rapporto Nielsen, del giugno del 2009 ma ancora attualissimo, i maggiori 15 inserzionisti del nostro mercato, nei primi mesi dell’anno, con la crisi che già mordeva, avevano aumentato i loro investimenti su Mediaset per 30 milioni di euro circa. D’altro canto la Rai era rimasta pressoché ferma.
Ad esempio, Eni aveva versato 17,8 milioni a Publitalia, 5 milioni in più rispetto al 2007, l’Enel era passata da 10 milioni a 13, le Poste Spa negli ultimi due anni avevano moltiplicato per sei la quota per il Biscione.
La regola non vale solo per le grandi aziende private. Anche gli investitori istituzionali, cioè lo stesso Stato, avevano contribuito ad aumentare le tasche del padrone. Quando i ministeri e la presidenza del consiglio informano i cittadini con le campagne sui temi sociali (ma anche sull’anniversario della nascita di Garibaldi) la Rai non riscuote (per legge). Mediaset sì. Sempre nei primi mesi del 2009 la società era passata da 4,5 milioni a quasi 9. Con il risvolto grottesco dei 35 spot per i 60 anni della Costituzione con cui s’infarcì la programmazione di Rete4, canale sentenziato come incostituzionale.
Sarà anche per questo che la tv non soffre troppo la crisi. Al contrario dell’editoria, ancora in mezzo al guado. «Non ci sono segnali di uscita» ha detto recentemente il presidente della Fieg, il cartello che raccoglie gli editori in Italia, Carlo Malinconico. Anzi «la pubblicità va ancora male». Forse anche lui vorrebbe essere in Irlanda.❖

l’Unità 11.2.10
Media, in 4mila a rischio. La Fnsi: pronti allo sciopero
di Roberto Monteforte

La Federazione Nazionale della Stampa da lunedì stabilirà i modi e i tempi della protesta. Chiesto un incontro urgente a Letta, Fini e Schifani. «Qui non si tratta di dessert, ma del pane per centinaia di testate».

Nessuna soluzione nel Milleproroghe. Non c’è la norma per il ripristino dei fondi e del diritto soggettivo per l’editoria. Ancora un rinvio e scatta la protesta della Fnsi e del coordinamento dei cdr delle testate non profit, di idee e politiche da Avvenire al Secolo d’Italia, al Manifesto. Contro il rischio di reale chiusura per un centinaio di testate con oltre 4000 i posti di lavoro scatta lo sciopero di tutte le realtà interessate e la mobilitazione dell’intera categoria a difesa del pluralismo. Lo scandisce il presidente della Fnsi, Roberto Natale ieri in una conferenza tsmpa al Senato. Annuncia anche il blocco di «ogni interlocuzione tra il sindacato dei giornalisti e il governo sulla riforma dell’editoria e sul Regolamento». Lunedì si stabiliranno le modalità della protesta. La polemica di Natale è diretta con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Paolo Bonaiuti che ieri mattina aveva avvalorato la politica dei tagli. Per il sindacato sono state affermazioni «sconsiderate e irresponsabili». «Peccato commenta Natale che con una fetta più piccola i giornali già in crisi chiuderanno». Per questo, ha proseguito, «chiederemo un incontro al sottosegretario Gianni Letta e ai presidenti delle Camere». Il sottosegretario si è giocato la sua credibilità. Chiede un intervento straordinario del governo e il ripristino dei fondi anche il segretario Fnsi, Franco Siddi. «Bonaiuti deve smettere di prendere in giro il mondo dell'editoria. Due mesi fa ci ha detto che i fondi sarebbero stati confermati, oggi si accorge che in Italia c'è la crisi. E per affrontarla il governo cosa fa? Taglia orizzontalmente a tutti, invece di fare davvero una riforma che recuperi risorse moralizzando il settore». Lo dice Matteo Orfini, responsabile Informazione del Pd. La Fnsi riafferma il suo no al salvataggio delle sole testate storiche, ipotizzato da Tremonti. «Nessuna corsia di favore. La battaglia è più ampia». ribadisce Natale. Questa battaglia è a difesa del pluralismo e non può essere ritenuta «una difesa degli sprechi e dei costi della politica».
Appoggia la decisione della Fnsi per «una giornata di lotta» il segretario confederale Cgil, Fammoni che assicura «verificheremo insieme alla Slc-Cgil le modalità della nostra partecipazione».
Condivide le ragioni della protesta anche il fronte degli editori. Lelio Grassucci di Mediacoop, definisce «cattiveria incomprensibile» la scelta del governo. Spiega come non sia un problema di risorse e come il ripristino del diritto soggettivo sia indispensabile per la vita della testate. I senatori del Pd Lusi e Vita denunciano la prevaricazione del governo. Va trovata una soluzione positiva anche per i senatori Roberto Mura (Lega) e Alessio Butti (finiano del Pdl) che con l’on. Raisi assicurano la loro «battaglia parallela». Ora invitano a puntare sul «decreto sviluppo».

l’Unità 11.2.10
Elezioni, bavaglio alla Rai Il premier: «Solo un pollaio»
di Natalia Lombardo

Attacco frontale ai programmi di approfondimento. Giornalisti in rivolta a viale Mazzini
Bersani: «Da rivedere, si toccano i profili di libertà». Spallata del Cavaliere alla par condicio

«Pollai catodici da sostituire con tribune elettorali». Così il capo del governo e di Mediaset. Che silenzia la televisione pubblica prima del voto regionale. L’allarme del Pd, la rabbia dei giornalisti. Tegola sulla Rai. Oggi Cda.

«In Italia siamo sempre in par condicio, allora cosa mandiamo in onda? Le “pecorelle dell’intervallo anni 60?”: Michele Santoro, Lucia Annunziata, Giovanni Floris e altri conduttori, Milena Gabanelli, Iacona e Vianello, accorsi alla Federazione della Stampa, hanno chiesto ai vertici Rai di essere ricevuti oggi nel Cda e fermare in 48 ore il nuovo regolamento sulla par condicio, contro il quale l’Usigrai ha indetto uno sciopero. In un colpo tolti di mezzo dalla Rai i programmi di approfondimento odiati dal premier: Annozero, Ballarò, In Mezz’ora, per dire i più ascoltati. Nel mese prima delle elezioni non potranno parlare di politica, né ospitare politici. Unica possibilità: ridursi a contenitori per le Tribune elettorali e, se vogliono, spostare i loro programmi in altri giorni a patto che «parlino d’altro».
Per il segretario Pd, Bersani, la decisione della Vigilanza va rivista perché tocca profili di libertà». «Una decisione sciagurata, ne pensiamo tutto il male possibile» per Roberto Natale, presidente Fnsi che annuncia manifestazioni. Un «abuso di potere senza fondamento legale», per Santoro che dedica all’ingerenza della politica la puntata di oggi (titolo:
L’Era glaciale). Il regolamento è stato votato alle 23 di martedì dalla Commissione di Vigilanza con un blitz del Pdl che ha colto al volo (previo via libera del premier) l’occasione offerta dal relatore, il radicale Beltrandi. Il Pd è uscito dall’aula ma il numero legale c’è stato, l’Udc s’è astenuto.
Sono i parlamentari a decidere format e ospiti di un programma? Addio autonomia del giornalista; (il calendario delle Tribune lo stila la Vigilanza). Una norma «ad alto rischio incostituzionale» per la libertà d’espressione, secondo Lucia Annunziata; la sua In Mezz’ora dovrebbe rispettarla da domenica: «Rifiuto trattative private, se resta questa norma non andrò in onda»; per Santoro è un’altra prova di conflitto d’interessi che avvantaggia Mediaset; per Floris è «bulimia della politica»; tutti spingono l’azienda a verificare le strade legali. Stesso bavaglio per Bruno Vespa, che giudica «grave l’azzeramento dei programmi d’informazione». La mannaia cade anche su l’Ultima Parola del leghista Paragone, e rinvia l’esordio di Belpietro.
BERLUSCONI E IL POLLAIO
Ma a fianco di Vespa durante la presentazione del suo ultimo libro, c’è Silvio Berlusconi che tuona: «La par condicio è da abolire, è una legge liberticida», e quindi è giusto far tacere il «pollaio tv». «È una decisione del Parlamento», dice il premier che di solito lo ignora, «non vedo lo scandalo. Solo in Italia abbiamo delle trasmissioni in cui non c’è confronto ma risse da pollaio». Ha provato ad abolire la legge, per avere presenze in tv in proporzione ai voti dei partiti. Tra l’altro il regolamento chiude la bocca ai «piccoli» sotto al 4% nei primi quindici giorni.
L’EDITTO DI SAN MACUTO
È una vendetta del Pdl contro Santoro, ma anche dei radicali per il poco spazio in tv. Beltrandi infatti schernisce «l’arbitrio assoluto dei conduttori». Che s’arrabbiano.
Una tegola che cade anche sui vertici Rai; il direttore generale Masi ne ha discusso in una riunione con il vice Marano. Garimberti è preoccupato per la fuga degli spot in una fase di conti in rosso. I consiglieri d’opposizione, Rizzo Nervo, Van Straten e De Laurentis chiedono che venga «riformulato» il regolamento. Il presidente Rai ne ha parlato a San Macuto con Sergio Zavoli, presidente della Vigilanza. Che ha riunito l’ufficio di presidenza in cerca di una mediazione, ma il Pdl fa muro.
Cauta l’Authority delle Telecomunicazioni, che deve varare il regolamento par condicio per le tv private. Il Garante Corrado Calabrò ieri ha votato solo la prima parte del testo e non quella che cancella i talk show. Zavoli si dice «amareggiato» per l’esclusione dei «piccoli» e «preoccupato» per le ricadute sulla Rai, ma in una nota difende le altre norme. ❖

l’Unità 11.2.10
Intervista a Mehdi Khalaji
«Regime moribondo, Khamenei e Ahmadinejad sono sempre più soli»
di Gabriel Bertinetto

Lo studioso iraniano: «Quelli di oggi ricordano gli ultimi giorni dello Scià L’opposizione cresce ed è unita nel chiedere il rispetto dello Stato di diritto Siamo stanchi di violenze, l’Onda verde punta a un cambiamento pacifico»
Un regime in agonia. E situazione attuale ricorda gli ultimi giorni dello Shah».
Cos’è la crisi iraniana, prof. Khalaji? Un conflitto fra linee politiche (riformisti contro conservatori, duri contro moderati), o fra diverse visioni del sistema politico stesso? In altre parole l’opposizione mette in discussione le basi stesse della Repubblica islamica?
«Il movimento verde, eterogeneo, è unito su alcuni obiettivi di fondo. In primo luogo chiede un nuovo sistema di voto che garantisca elezioni corrette in futuro. La richiesta deriva dalla valutazione che le presidenziali di giugno non siano state manipolate solo al momento dello spoglio, e che l’intero processo elettorale vada perciò cambiato. Altra rivendicazione comune riguarda il rilascio dei detenuti politici e garanzie di piena libertà democratica. L’opposizione esige anche la punizione dei funzionari rei di violenze, torture, stupri ai danni degli arrestati, l’applicazione delle più elementari norme di uno stato di diritto. Ma nel movimento verde ci sono anche opinioni divergenti. Per alcuni la radice dei problemi iraniani sta nella mancata applicazione della Costituzione e delle leggi vigenti. Per altri la Costituzione stessa è parte del problema, perché poggia sul principio dell’autorità assoluta della Guida suprema, e perché giustifica discriminazioni di religione e sesso. In ogni caso però anche i fautori di un cambiamento di regime vogliono perseguire l’obiettivo in modo pacifico. Abbiamo sperimentato la violenza dei gruppi più diversi: islamisti, di sinistra, filo e anti-governativi. Ne abbiamo abbastanza».
Un numero crescente di dirigenti politici e religiosi si aggregano all’opposizione. Ahmadinejad e Khamenei sono isolati?
«È così. Nelle fasi di declino, le ideologie perdono significato e subentra il culto della personalità. Accade oggi in Iran con Khamenei, per il quale l’adesione all’ideologia islamica è ormai cosa secondaria rispetto alla lealtà personale nei suoi confronti. La sua regola di giudizio è: o sei con me o sei contro. Così finiscono sotto attacco anche rivoluzionari della prima ora, che passano all’opposizione perché non possono accettare quella persona come rappresentante autentico dell’ideologia in cui credono. Cresce un fossato fra Khamenei e chiunque osi criticarlo».
E Ahmadinejad?
Lui verso Khamenei si accredita come colui che, fra tante fazioni, è a capo di quella a lui più fedele. Ecco perché la Guida suprema ritiene che il proprio destino politico sia ormai legato al presidente, lo appoggia in maniera incondizionata, e non tollera obiezioni alle sue scelte. Molti degli stessi conservatori tentano invano di fargli capire che in quel modo danneggia se stesso e la Repubblica islamica. Il cerchio di sostenitori si restringe sempre più intorno a Khamenei, che è sempre più solo. Legandosi strettamente ad Ahmadinejad e facendone quasi l’essenza della Repubblica islamica, la Guida suprema, al di là delle proprie intenzioni sta rimpolpando i ranghi avversari».
È vero che il regime sopravvive soprattutto grazie al sostegno degli apparati militari e di sicurezza? «Khamenei non è mai stato popolare negli ambienti religiosi, perché non era lui il successore naturale di Khomeini. Quando ha visto che non poteva contare nemmeno su un largo appoggio politico, ha cercato una sponda fra i militari, dando loro molto potere, anche economico. Un terzo dell’economia nazionale è in mano ai Pasdaran. La legittimità di Khamenei è offuscata, il suo potere limitato. La scelta elettorale pro Àhmadinejad è stata un errore pericoloso, ed ora sta perdendo potere. La situazione è simile a quella che ci fu negli ultimi anni dello Shah, che aveva le forze armate più sviluppate di tutto il Medio oriente, ma sbagliò nel puntare unicamente sul loro aiuto. Non bastano truppe e prigioni per governare. Anche le istituzioni religiosi e politiche hanno il loro peso. Khamenei sta vivendo in un castello di illusioni».
Si può dire che Pasdaran e milizie Basiji siano insieme il punto di forza e di estrema debolezza del regime? «Esatto. Tanto più che non tutti i militari sono pronti ad obbedire a qualunque ordine. Il 27 dicembre, giorno dell’Ashura, molti ufficiali e soldati si sono rifiutati di sparare sulla folla. Li hanno arrestati e processati. Se la crisi si aggrava, non so fino a quando Khamenei e Ahmadinejad potranno contare sui generali per reprimere la protesta. La loro disponiblità non è illimitata, così oggi come ai tempi dello Shah. Tra l’altro a un certo punto i Pasdaran potrebbero valutare se sia più importante quello che Khamenei dice loro di fare, oppure la cura dei loro interessi economici privati». Inizialmente Ahmadinejad aveva seguaci in parte dei ceti popolari, i poveri delle periferie urbane, gli abitanti delle aree rurali, le persone meno istruite etc. La crisi attuale sta intaccando gli schieramenti sociopolitici tradizionali? «Qualcosa sta mutando. Il populismo di Ahmadinejad ha funzionato nei primi anni della sua presidenza. Ora però gli iraniani vedono che le promesse non sono state mantenute. Il prezzo del carburante è salito, certi sussidi sono stati eliminati, crescono inflazione e disoccupazione. La formula populista ha prodotto illusioni e delusioni. Così l’opposizione guadagna terreno ben oltre i confini del ceto medio urbano. Il malcontento si estende». La comunità internazionale discute nuove sanzioni economiche contro Teheran a causa del suo programma nucleare. Che effetto potrebbero avere sull’economia iraniana e sugli assetti politici interni?
«Dipenderà dal tipo di sanzioni. Se fossero a tutto campo avrebbero un impatto negativo. Diverso l’effetto se venissero indirizzate su bersagli specifici, in particolare i Pasdaran, per indebolirne la forza economica e militare. I Verdi non sono ostili ai Pasdaran come istituzione, ma al ruolo politico ed economico che sono venuti ad assumere. L’opposizione vuole che le Guardie rivoluzionarie facciano il loro dovere nella difesa del territorio, ma non si impiccino nelle faccende politiche e nella gestione di attività economiche, perché questo aumenta la corruzione e indebolisce l’imprenditoria privata. Se le sanzioni vengono ben mirate, saranno efficaci». Cosa riserva il prossimo futuro? Una rivolta violenta, un repressione ancor più feroce, l’implosione del regime? «È poco probabile un compromesso fra Khamenei e i Verdi. Le autorità possono scatenare un attacco indiscriminato all’opposizione. Oppure il regime si sfascia, e in tal caso o emergono i Pasdaran attraverso un colpo di Stato, oppure si impone l’opposizione. In ogni scenario comunque è certo che Khamenei perda potere. Già ora di fatto non è più la Guida suprema, è sempre più un soggetto politico fra tanti altri. Chiunque vinca, lui ha già perso. Ora io penso che l’Occidente abbia un ruolo importante da svolgere nel dare forma al futuro dell’Iran. Se intacchi la forza dei Pasdaran, calano le probabilità che possano prendere il potere. Se le forze armate sono indebolite, avranno spazio i civili, sia quelli vicini al governo che gli avversari».
Khamenei sconfitto in ogni caso. E Ahamdinejad può svolgere un ruolo autonomo? «No. Sono i Pasdaran a comandare. Per ora hanno bisogno di lui e di Khamenei per trarne rispettivamente legittimità politica e religiosa. Ma nel momento in cui quella doppia legittimità vacilla, i Pasdaran non avranno esitazioni a mettersi in proprio».❖

l’Unità 11.2.10
Yehoshua: «Pace con i palestinesi per fermare gli ayatollah»

La pace con i palestinesi come arma strategica per togliere ossigeno alla propaganda iraniana e disinnescare la minaccia alimentata dai piani nucleari del regime degli ayatollah e dal suo odio antisemita. A invocarla al fianco delle sanzioni e in alternativa a ipotesi di azioni militari dagli esiti potenzialmente devastanti è Abraham Yehoshua, scrittore di fama e voce controcorrente in Israele, in un articolo affidato ieri alle colonne di Haaretz. Un'analisi nella quale l'autore di «Fuoco amico», coscienza critica dell'anima liberal del Paese, non sminuisce la sensazione di pericolo avvertita dagli israeliani di fronte all'incubo di un Iran dotato di armi atomiche. Ma si smarca dalla convinzione del governo e di quasi tutto l'establishment di Gerusalemme secondo cui la sfida iraniana non può che relegare in secondo piano i faticosi tentativi di rilancio del negoziato con l'Autorità nazionale palestinese (Anp) o con la Siria. Convinzione fin troppo sbrigativa, se non alibi frutto di cattiva volontà, lascia intendere Yehoshua. Lo scrittore è persuaso, al contrario, che proprio un accordo israelo-palestinese possa essere se mai raggiunto l'elemento in grado di «neutralizzare il velenoso contagio dell'odio (della nomenklatura iraniana) contro Israele e di frantumare il meccanismo politico-propagandistico per il quale il «piccolo Satana» (sionista) va distrutto ad ogni costo».
Yehoshua ricorda come la dirigenza dell'Anp abbia di recente invitato Teheran a non immischiarsi e a non strumentalizzare la propria causa. E come in fondo l'Iran in questi ultimi anni si sia limitato a sobillare l'estremismo di Hamas, salvo lasciare che fossero poi gli abitanti della Striscia di Gaza a pagare il conto della «dura risposta israeliana». Di qui la convinzione che ci sia il modo di sottrarre spazio ai pretesti retorici dell'Iran. Come? Attraverso un progetto di pace fra israeliani e palestinesi ❖

il Fatto 11.2.10
L’11 febbraio dell’Iran:
Storia di una rivoluzione tradita
Nell’anniversario della cacciata dello Scià, Ahmadinejad intima gli oppositori a non manifestare. Sanzioni Usa contro le aziende dei pasdaran
di Mauro Mauri

P er il mondo occidentale oggi è l’11 febbraio, mentre il calendario persiano indica che è il 22° giorno del mese di Bahman, data in cui l’Iran celebra il 31° anniversario della Rivoluzione islamica, concretizzatasi quando, acclamato da milioni di persone, l’Ayatollah Khomeini tornò dall’esilio parigino per salire al potere detronizzando lo Scià Reza Pahlavi. Ma questa volta tutto è completamente diverso rispetto agli anni scorsi: sono irreversibili le conseguenze del broglio elettorale di giugno e si è raggiunto il punto di non ritorno. L’impressione è che nulla sarà più come prima e che il regime si sia messo in un cul de sac. Ora Mir Hussein Moussavi e Mehdi Karrubi, i due ex sfidanti di Ahmadinejad, non conducono più l’Onda Verde ma sono trasportati da lei. Paradossalmente, c’è un valore condiviso dall’intero establishment religioso, Ahmadinejad e Khamenei in testa,e dai leader riformatori: l’importanza per la società iraniana della Rivoluzione islamica. Però regime e riformisti sulla rivoluzione hanno due visioni che sono agli antipodi: ma cos’è stata, o meglio, cosa voleva essere? Dissidenti e intellettuali sostengono che gli ideali, le teorie su cui era basata, in occidente siano stati recepiti in modo completamente distorto a causa dell’American Propaganda, la vendetta mediatica delle compagnie petrolifere cacciate via a malo modo dal suolo persiano. A conferma, è sconosciuta la figura del suo ideologo, non Khomeini – come quasi tutti pensano – ma Ali Shariati: laico, laureato in Sociologia, brillante studente di Filosofia a Parigi, scomparve nel 1977 a Londra, dov’era rifugiato da poche settimane. I referti medici sostennero che fu colpito da un infarto, ma in Iran tutti puntarono il dito alla Savak, l’odiata intelligence dello Scià. Terzomondista di simpatie marxiste, l’intento di Shariati era plasmare una società laica e democratica ispirata da moralità e valori tradizionali dell’islam persiano – diverso da quello arabo – affrancando il paese da influenze politiche esterne, restituendoil potere al popolo.Insintesi intendeva costituire una via intermedia tra socialismo e capitalismo.
Non a caso, durante i moti antecedenti la fuga dello Scià, accanto agli esponenti del clero sciita scesero in piazza studenti e rappresentanti della sinistra, convinti che una volta abbattuto il regime, i mullah, disinteressati al potere politico, sarebbero tornati nelle moschee. Ma non andò così. “La Rivoluzione ha fallito, è morta sul nascere. La dittatura laica dello Scià venne sostituita da una dittatura di matrice religiosa che calpesta i veri valori islamici”. Queste le dure parole del Gran Ayatollah Ali Hussein Montazeri, che poco prima di morire, dopo aver definito illegittimo e fascista il regime di Ahmadinejad, paragonò la situazione sociale dell’Iran odierno, a quella antecedente la fuga di Reza Pahlavi.Un’altra voce critica è quella dell’Ayatollah Hussein Khomeini, nipote dell’imam per antonomasia, che tuona “La Rivoluzione è uscita dai binari divorando i suoi figli migliori”. Negli anni scorsi finì agli arresti domiciliari per aver provocatoriamente invitato mr Bush ad invadere l’Iran per liberare il paese dalla dittatura dei mullah. Se non fosseper il cognome che porta probabilmente sarebbe finito nella lista dei dissidenti deceduti per un improvviso arresto cardiaco, identico a quello che fulminò Shariati.
In Iran è proibita qualsiasi manifestazione antigovernativa, ma l’Onda Verde per oggi ha previsto un mobilitazione possente (tre milioni di persone in tutto il paese). Anche per questo è arrivata la risposta pronta del capo della polizia iraniana, Esmail Ahmadi-Moqaddam, che ha avvertito: “Saranno impedite manifestazioni dell’opposizione”. E, minacciosamente, ha detto che alcune persone che cercavano di organizzare raduni di protesta sono già state arrestate. Sempre ieri, il sito in italiano della radiotelevisione di Stato iraniana è tornato ad attaccare il governo Berlusconi in una lettera aperta al ministro degli Esteri Frattini. “La polizia iraniana – si legge – ha impedito danni alla vostra ambasciata e ha solo acconsentito che gli studenti intonassero i loro slogan come è giusto che avvenga in una democrazia; vuole che impediamo le manifestazioni?”. Frattini, ha detto: “E’ tempo di sanzioni nei confronti dell’Iran. A Teheran abbiamo visto provocazioni inaudite e gesti inconsulti. Credo che per
la comunità internazionale oggi sia una prova di credibilità: se non riusciamo a ragionare in fretta su un pacchetto di sanzioni condivise dimostriamo la nostra debolezza”. Ieri mattina, sul New York Times, un editoriale (facendo riferimento alle ambizioni nucleari di Ahmadinejad) ha premuto un acceleratore in materia di sanzioni. Il tempo per esercitare pressioni sull’Iran “sta per scadere”, si legge sull’autorevole quotidiano americano. Se il Consiglio di Sicurezza temporeggia o fa compromessi “gli Stati Uniti e i loro alleati devono andare verso a pesanti sanzioni individuali”. Gli Usa hanno annunciato l'inasprimento delle misure già prese nei confronti di aziende legate ai pasdaran. Anche la Russia, attraverso il viceministro degli Esteri, Sergei Ryabkov, sostiene che una dura politica di sanzioni contro l’Iran sia diventata ormai necessaria.

mercoledì 10 febbraio 2010

l’Unità 10.2.10
L’incontro de l’Unità
«Legalità e trasparenza Così governerò il Lazio»
di Jolanda Bufalini

Urticante Emma arriva di corsa e parte di corsa dal forum de l’Unità (diretta web e su RedTv) verso il Senato, per presiedere la seduta delle 12. Porta un piccolo dossier sulle energie rinnovabili: «Sono dati giusti, li ho controllati». Cita le ragazze, «energie creative al lavoro» per i manifesti che finalmente oggi dovreste incontrare sulla vostra strada, ad un mese dall’inizio dell’avventura. Il primo: «Ti puoi fidare». La foto non è di quelle concepite in uno studio di comunicazione e marketing. Anche quella l’ha fatta di corsa, prima di partire per Berlino (incontro sullo smaltimento dei rifiuti) e Davos (vertice sullo stato dell’economia): «Dalle polemiche sembrava stessi andando ai Caraibi». Seguirà «Emma presidente, tutta un’altra storia». E ci sono le parole chiave per vincere in una Regione con un bilancio da 19 miliardi di cui 12 sulla sanità: trasparenza, onestà, legalità. «Con Storace le Asl non presentavano i bilanci, in violazione della legge».
Emma dice di sé stessa: «irritante». «Ci sono regioni dove siamo irritanti», e risponde così anche alle domande arrivate on line: «Come fa a stare con il centro sinistra nel Lazio e da sola in Lombardia?». Intanto: o da soli o con il centro sinistra, in nessun caso dall’altra parte, «in Piemonte sin dall’inizio con Mercedes Bresso». In Lombardia, invece, è stata una valutazione politica, «discutibile» ma «dove con Formigoni ci sono derive clericali e non si applica quasi più la legge 194, mi pare sia più efficace una campagna proprio radicale, anche verso i delusi di centro destra». La questione delle firme per l’urticante Bonino è una premessa al Lazio, al programma, sulla sanità, sull’occupazione, sulle donne. «Io non amo tirare per la giacca il presidente della Repubblica ma lo stato di diritto non è un optional». Il problema è che le liste Bonino Pannella non riescono a raccogliere le firme. C’è la gente che firmerebbe, i tavoli ci sono. Mancano gli autenticatori. «150.000 in Italia, legati a uno o l’altro schieramento e, dove andiamo da soli, ambodue per motivi opposti non aiutano». Chi è fuori dai consigli regionali resta fuori. Roba da casta. Ma «non si contrabbandano le convinzioni con le convenienze».
Nel Lazio il matrimonio è di convenienza o di convinzione? La dote è scarsa, difficile parlare di convenienza, niente nababbi all’orizzonte. Infatti c’è il problema dei manifesti: «Chi ha più soldi più compra. E basta fare un giro per Roma per vedere chi ha già comprato. Da oggi bisogna comprare gli spazi che rimamgono, perché io non imbratto gratis la città».
Emma spera nella convinzione. «Pier Luigi Bersani ha accolto subito la candidatura. Il corpo del Pd ha stentato. Mi sono presentata in un periodo di grande incertezza, in cui si dava per scontato di aver perso ed è difficile mettere la faccia su una sconfitta». I dibattiti interni, «tesi», sono «legittimi». «Io li rispetto e ora ci sarà anche la composizione delle liste. Però c’è un momento in cui si dice basta. Mi permetto di ricordare che si vota il 28 marzo». Risponde via agenzie Alessandro Mazzoli, segretario Pd del Lazio: «Tutto il Pd sta lavorando e lavorerà per la sua elezione a presidente, con passione, competenza e risorse. Non è più tempo di dubbi: concentriamoci sulla campagna elettorale».
Trasparenza, legalità, onestà e monitoraggio sulle convenzioni, le leggi, le delibere. Emma non è un’integralista: «Gli appetiti meno trasparenti si manifestano dove ci sono i soldi, nelle bocciofile c’è poca corruzione». Corruzione zero è un obiettivo irrealistico, però si possono mettere dei paletti. La trasparenza, un sistema giudiziario che funzioni, limiti alla politica nella gestione. E poi c’è da rendere più efficiente il sistema sanitario: spostare risorse in favore dell’assistenza agli anziani. Perché se tutto è sanità «si crea una strozzatura, un collo di bottiglia e il sistema non funziona».
Niente integralismo anche verso le veline: «Non sono una bacchettona ma mi dispiace che su “Raiset” le donne siano rappresentate solo secondo due stereotipi: o svestite (d’estate o d’inverno) oppure commesse o infermiere. Se una donna è in carriera allora è la Meryl Streep de “il diavolo veste Prada”».
E su Marrazzo: «Non mi importa dei rapporti fra persone adulte, trovo imbarazzanti livelli inaccettabili di ipocrisia. Nella vicenda Marrazzo ci sono tre filoni: l’indagine della magistratura; la compassione per i figli, i familiari e lui stesso; ma poi c’è il comportamento politico, non bisogna porsi nella condizione di farsi ricattare». Discorso che vale anche per il presidente del Consiglio? Il discrimine per Emma la laica è quello dove si trovano i reati. Ma chi svolge funzioni pubbliche «ha più onori e quindi più oneri, e un po’ di esempio lo deve dare». Senza bacchettonismi: «il ministro degli Esteri tedesco è felicemente omosessuale e con il suo compagno va a tutti i ricevimenti pubblici».
I cattolici la voteranno, chiede il direttore de l’Unità? la risposta è un secco e netto «Sì». «Non siamo mica un paese musulmano. Chi erano quelli che all’84 per cento confermarono la legge 194?». Il voto dei cattolici è un «evergreen» ma appartiene più al politichese che al mondo reale. Porta l’esempio della coalizione che si è creata in Piemonte intorno a Mercedes Bresso, dai radicali a l’Udc. Quanto a Di Pietro e l’Idv «spero che la svoltina non sia solo elettorale».
La Emma più a sorpresa è quella del working in progress con i sindacati, con cui è in sintonia sui sanità, servizi di assitenza territoriale, ai disabili, agli anziani, su crisi e lavoro, mobilità, trasporti e pendolari. Il 17 febbraio è in calendario l’incontro con i segretari della Cgil. «Il Lazio è l’unica Regione ad aver approvato una legge sul reddito minimo garantito. Va rifinanziata e rafforzata». Accanto a questo ci vuole una «visione per il futuro» delle piccole e medie imprese che fanno l’ossatura economica del Lazio, «grande regione d’Europa» come è per il Piemonte e l’Emilia Romagna.

l’Unità 10.2.10
«E se noi donne scioperassimo per un giorno?»
di Mariagrazia Gerina

L ’idea Emma Bonino ce la racconta mentre è ancora in progress. Uno sciopero mai visto. Data e modalità ancora da fissare. Ma un giorno attorno all’8 marzo non sarebbe male. Titolo: ventiquattro ore senza di noi. Dove «noi» sta per donne. Quelle che accudiscono i figli, gli anziani, i disabili se in casa ce ne sono. «Se ci fermassimo tutte per una intera giornata sarebbe un bel disastro, non pensate?», sorride la candidata, all’idea di giocare con un certo estro la sua campagna elettorale per le regionali nel Lazio,facendola camminare, per la parte che vorranno, sulle gambe delle donne. Niente nostalgie femministe. Che non siamo negli anni Settanta, è chiaro. «Questo è un tempo di semina e non so quando scoppierà l’ora del raccolto ma so che quando, dopo gli anni ‘70, abbiamo detto “fermiamoci un attimo” è successo di tutto». Vedi la legge 40: «E meno male che la Corte Costituzionale, pezzo a pezzo, sta facendo cadere le parti più aberranti». Oppure le veline: «Nulla contro di loro, ma contro lo stereotipo sì». Fare argine, dunque. Si comincia domenica, con una chiamata a raccolta delle «Donne per Emma». Appuntamento tradizionale, se non fosse che il 14 febbraio è anche San Valentino. E per le ospiti, che verranno un po’ da tutti gli ambienti, anche cattolici. E poi giovani imprenditrici, ricercatrici, sportive, attrici. Ma non è che l’inizio. Obiettivo: far emergere il potenziale femminile, «tesoro nascosto» del Lazio e non solo. La Regione che Emma da donna, radicale, europeista, si candida a governare è in questo un paradigma del paese. Italia: 96mo posto al mondo per la partecipazione delle donne al mondo economico, 88mo al mondo del lavoro, 91mo al reddito da lavoro. Lazio: un po’ sotto la media. Il dato cruciale è uno. Nel Lazio le donne laureate o dottorate sono 379mila, gli uomini 338mila. Ma se si va a vedere quante sono inattive la proporzione si inverte: 70mila contro 38mila uomini inattivi. Eccolo, lo spreco. Su tre milioni di inattivi, due sono donne, laureate e non. L’occupazione femminile è ferma al 46,6% (quella italiana è di poco superiore: 48%), quando l’obiettivo fissato a Lisbona è del 63%.
La domanda è: non lavorano, non fanno nemmeno figli, che fanno? «Le funambole», risponde Emma: «Si fanno carico del welfare che non c’è, dei servizi di assistenza ai bambini che non ci sono, della popolazione che sta invecchiando, dei disabili e delle altre fragilità». È da qui che Emma Bonino suggerisce di partire. Perché se è chiaro che, nella sfida tutta al femminile che si gioca nel Lazio, le donne saranno tema cruciale, le risposte che Emma Bonino e la sua avversaria Renata Polverini si preparano a declinare non potrebbero essere più diverse. «La destra e la Polverini dicono: aiutiamo le donne a stare più in casa e occuparsi di più dei figli», spiega Emma criticando la via del «quoziente familiare». «La mia risposta è l’inverso: che lo Stato inizi a fare la sua parte, garantendo i servizi di assistenza,», dice Emma, che da liberista non disdegna l’idea di sperimentare soluzioni nuove, compresa quella dei «voucher spendibili per coprire almeno parte delle spese per le badanti».
ASILI NIDO E ANZIANI
Problema numero uno: i nidi. Nel Lazio il 34% delle domande non vengono soddisfatte, l’accesso al nido è garantito solo all’11% dei bambini da 0 a 3 anni. Risposta: incrementare gli asili nido, ma sperimentare anche altre forme, come il tagesmutter, l’asilo di caseggiato. E introdurre dei meccanismi premiali per cui si fa un monitoraggio e le esperienze che funzionano vengono premiate. Secondo: gli anziani. Gli over 65 nel Lazio sono 1 milione, uno su dieci ha più di 85 anni. Affollano i pronto soccorso, gli ospedali, le strutture di riabilitazione, anche se a volte è solo di assistenza che hanno bisogno. «La spesa oggi è tutta concentrata sulla sanità, ma di contro sulle strutture ospedaliere si scaricano anche i costi delle politiche sociali». Risposta: potenziare i servizi pubblici socio-assistenziali, ma anche pensare a fondi ad hoc per servizi di semplice assistenza. Infine: creare un osservatorio. «Altrove ha obbligato a cambiare rotta e quello che non va nel nostro paese non è un destino scritto».

l’Unità 10.2.10
«Il nucleare non produce posti di lavoro»
di Ma.Ge.

Il sondaggio è già fatto. L’80 per cento degli italiani vorrebbe che le energie rinnovabili fossero la fonte principale con cui produrre l’elettricità. Solo il 14 per cento opta per il nucleare. Emma Bonino l’ha portato con sé, insieme a qualche dato (studi della Bocconi, dati Enea e del Centro Europeo di Ricerche) che spiega perché «No» al nucleare. Un tema che entra direttamente nella campagna elettorale per il Lazio visto che «il governo ha già annunciato il piano delle nuove centrali nucleari e anche se non vuole dire prima delle elezioni dove saranno localizzate, pensando alla tecnologia scelta, quella francese di terza generazione, che ha bisogno di moltissima acqua per raffreddare i reattori, si può immaginare facilmente Lazio dove saranno collocate». Nel Lazio, i luoghi deputati sono due: Montalto di Castro e Borgo Sabotino. Ma il «no» alle centrali nucleari in questi due siti del Lazio ha ragioni anche più generali. «Usiamo delle cifre, così ci capiamo», dice Emma, che ha con sé uno studio dell’Enea e alcuni dati sull’impatto che avrebbe in termini di economia e occupazione puntare davvero sulle energie rinnovabili. Si parla di 10mila posti di lavoro solo nel Lazio entro il 2020, 250mila in tutta Italia. «Poi ci sono tutte le altre questioni, le scorie e tutto il resto». Ma il punto è anche che «di fronte alla crisi occupazionale, oltre a sostenere i lavoratori bisogna avere una visione del futuro», spiega la candidata del centrosinistra. E la scelta del nucleare come visione del futuro proprio non funziona. Quattro reattori doppi spiega infatti Emma costano 25-30 miliardi di euro. Se pure si comincia a costruirli nel 2013 il primo reattore sarà in funzione nel 2020. E secondo le «loro stime» quando tutto sarà in rete, «nel 2030, forse, non so bene», il nucleare coprirà il 4,5% dei consumi finali di energia. «È chiaro che non stiamo parlando di fondi privati, perché non conosco imprenditore che investe nel 2013 per avere il primo chilowatt nel 2020, al mondo non se ne sono trovati, dubito che ne troviamo da queste parti». Di contro lo studio dell’Enea «che non è esattamente un gruppo di Tupamaros» dice che un piano di efficienza energetica può partire subito, perché la tecnologia in Italia c’è già, che porterebbe occupazione perché si tratta di tecnologia media. E che può produrre in termini di efficienza energetica il doppio della scelta nucleare. «Ecco basterebbe partire da qui, dal rapporto tra costi e benefici e dall’immediatezza, per dire che è evidente che l’alternativa che indichiamo noi efficienza, ricerca, potenziamento rinnovabili è molto più fattibile, convincente e redditizia sia dal punto di vista occupazionale che energetico».

Repubblica Roma 10.2.10
Regionali, Bonino avanti su Polverini ma il Pdl stacca il centrosinistra
Nuovo sondaggio sul voto: centrodestra al 43%, Pd al 26
di Giovanna Vitale

Al momento la differenza la fanno gli indecisi, quel 20% di elettori che a un mese e mezzo dalle regionali non ha ancora stabilito per chi votare. Per il resto, l´ultimo sondaggio Crespi per Omniroma conferma il sostanziale testa a testa Bonino-Polverini, con la prima in vantaggio di un punto e mezzo sulla seconda, che però accorcia le distanze. Rispetto a due settimane fa, la candidata del centrosinistra perde infatti un punto percentuale e si attesta al 39,5, quella di centrodestra guadagna altrettanto e sale al 38. Una rimonta scontata per Andrea Augello, responsabile del comitato Polverini: «Man mano che la popolarità di Renata cresce perché continua a girare, perché si vede il suo volto sui manifesti, è chiaro che recuperi». Mentre secondo Riccardo Milana, suo omologo sul fronte avverso, «Polverini ha goduto finora di un´esposizione mediatica anche scorretta, vedi la sua apparizione a Domenica In, ma nei prossimi giorni, anche grazie alle leggi dello Stato, non avverrà più e la partita sarà diversa». Più ottimista la radicale Rita Bernardini: «La nostra campagna deve ancora cominciare. Si tenga conto che finora non si è visto un manifesto uno della Bonino».
A preoccupare il centrosinistra è il risultato complessivo della coalizione, inchiodata a uno striminzito 43,5%, che salirebbe al 44,5 se l´Api di Rutelli dovesse infine risolversi ad allearsi, con un distacco di ben dieci lunghezze dal cartello di centrodestra. Il quale schizza invece al 53,4% grazie al traino di un Pdl che da solo totalizza il 43, ma anche al contributo decisivo dell´Udc (6,9) e della Destra (3). Deludente, sul fronte opposto, la performance del Pd fermo al 26%, soprattutto se confrontato con l´exploit della lista Bonino-Pannella che vola al 5,5, mentre l´Idv fa peggio delle attese (6,5), la Federazione della Sinistra non supera il 2,5, SeL l´1,5, i Verdi l´1, i socialisti lo 0,5.
Intanto, mentre la Lista civica Cittadini per Bonino ha individuato la sua coordinatrice nell´editrice Anna Maria Malato, già responsabile della civica per Veltroni e moglie del senatore pd Raffaele Ranucci, nelle prossime settimane la comunità ebraica romana inviterà Bonino, Polverini e Michele Baldi «a farci visita in sinagoga per un incontro al quale prenderà parte anche il rabbino capo», ha reso noto il presidente Riccardo Pacifici. Un confronto elettorale che in nessun caso si tradurrà in «un appello al voto per qualcuno dei candidati in lizza», precisa. Nel frattempo la candidata del Pdl un primo risultato lo ha già ottenuto. «Sì è vero, sono dimagrita, è la campagna elettorale», ha rivelato entusiasta incontrando i vertici regionali di Confagricoltura. «La consiglio a chi vuole perdere qualche chilo».

Repubblica Roma 10.2.10
L’accusa di Staderini: "Non in regola i cartelloni negli spazi del Comune"
I radicali all´attacco di Renata "Non paga i diritti per i manifesti"
di Chiara Righetti

Ce la farà Renata Polverini a spendere solo 500mila euro per le elezioni? «Pare improbabile visto il numero di manifesti in giro», aveva osservato Emma Bonino. Ma ora sono gli stessi Radicali a suggerire una spiegazione a tanta parsimonia: «I manifesti della Polverini negli spazi a pagamento del Comune - denuncia il segretario Mario Staderini - non sono in regola con le tariffe: come provano le foto di FaiNotizia. it, manca il timbro che attesta il pagamento della tassa di pubblicità. Bel modo di ridurre le spese a danno dei cittadini».
Da giorni i manifesti "Con te", che come da slogan sono davvero ovunque, hanno scatenato una bufera sulla candidata Pdl. «Gentile signora, abbiamo svolto un´indagine sulle affissioni abusive: la stragrande maggioranza erano di candidati di centrodestra che riportavano il suo nome e la sua immagine»: così scrive alla Polverini il presidente Aduc Primo Mastrantoni. E le fa notare l´incongruenza, visto che proprio ora che «il Comune guidato dal centrodestra ha avviato una campagna per il decoro». Soprattutto, si chiede l´Aduc, tra vigili e "stacchini", «quanto ci costerà questa deturpazione ad opera dei suoi sostenitori? Smetta di andare ai convegni di chi ha affisso manifesti abusivi». Ma la candidata si limita a ribadire: «Ho già fatto un appello a chi affigge manifesti perché lo faccia negli spazi consentiti. Oggi partirà una lettera ai partiti che mi sostengono».
«Non so se la Polverini vincerà la campagna dei voti ma ha vinto quella dell´inciviltà», tuona il consigliere Pd Enzo Foschi, che si chiede «dov´è la credibilità di un candidato che fa pagare lo scotto della sua pubblicità ai cittadini». E Montino aggiunge: «Bonino ha la massima attenzione, la candidata di centrodestra abbonda in manifesti fuori dagli spazi consentiti». Quanto alla Bonino, la sua campagna (che la ritrae in giacca fucsia e maglia nera con lo slogan "Ti puoi fidare") partirà oggi. In ritardo, spiega lei stessa, perché «abbiamo deciso di correre a gennaio. Poi dovevamo comprare gli spazi e per farlo servono soldi. Sporcare gratis è facile, fare una campagna legale costa». Intanto infuria la polemica sulla sanatoria per le affissioni abusive spuntata a sorpresa nel Milleproroghe. A denunciarla ancora Staderini, che spiega: «È un condono valido fino al 31 maggio, in pratica una licenza a delinquere per tutte le regionali» e parla di «blitz in puro stile partitocratico messo a segno nottetempo dalla Lega con la complicità del Pdl».

Repubblica 10.2.10
Escluse le forze che non hanno raggiunto il 4 per cento alle Europee: Radicali, Prc, Pdci, Verdi , Destra
Partiti minori fuori dalle tribune Rai e nei talk show obbligo di ospitare tutti
di Silvio Buzzanca

ROMA - Tribune politiche regionali "vietate" per Rifondazione e Pdci, Radicali Italiani e Verdi, la Destra di Storace e tutti gli altri partiti che alle Europee sono rimasti sotto la soglia del quattro per cento. Per tutti queste formazioni la par condicio nella prima fase della campagna elettorale, dalla convocazione delle elezioni alla presentazioni delle liste, è abolita. Lo ha deciso ieri pomeriggio la commissione di Vigilanza della Rai che sta discutendo la regolamentazione della prossima campagna elettorale. La proposta di lasciare fuori i "piccoli" dalla prima fase della campagna elettorale televisiva è stata lanciata dal leghista Caparini e ha avuto il voto favorevole della maggioranza.
L´idea di non fare partecipare gli altri partiti alle tribune politiche si è materializzata sotto forma di emendamento al testo preparato dal relatore Marco Beltrandi, radicale eletto nelle liste del Pd. I Democratici avevano presentato una proposta di mediazione che prevedeva una soglia al due per cento e "salvava" la presenza di molti partiti. Ma l´approvazione dell´emendamento Caparini ha precluso la discussione e la votazione di questo emendamento.
Contro la proposta di Pdl e Lega hanno votato i Democratici, i centristi di Casini e l´Italia dei Valori. Ieri sera, inoltre, la maggioranza ha votato una proposta del relatore Beltrandi che, nella seconda fase della campagna elettorale, prevede la presenza di tutti i candidati all´interno dei talk show contemporaneamente e una tribuna politica, con parità di tempo, all´interno di ogni trasmissione. Un modo, accusa il Pd, per svuotare e sterilizzare Santoro e Floris. Per questo i democratici hanno protestato e lasciato la Vigilanza.
Il voto della Vigilanza sulle tribune ha naturalmente suscitato le proteste dei partiti estromessi. Il leader verde Angelo Bonelli, giunto al quattordicesimo giorno di sciopero della fame per richiamare l´attenzione sull´oscuramento mediatico dei temi ambientali, si è appellato al presidente della Repubblica per fermare quello che definisce «un furto di democrazia».
Quel voto, aggiunge Paolo Ferrero, «è una palese violazione della Costituzione che fissa le elezioni perché il popolo si possa esprimere, non per condizionare il popolo a votare chi ha già il potere». Gennaro Migliore, responsabile comunicazione di Sinistra e Libertà, intanto si appella ai presidenti di Camera e Senato e al presidente della Vigilanza Sergio Zavoli,. Chiede loro di «intervenire urgentemente di fronte ad una palese violazione costituzionale». Infine Oliviero Diliberto, segretario dei Comunisti italiani, punta l´indice anche contro la minoranza. Con questo voto, dice Diliberto, «non si vuole che i cittadini siano informati. Si mette un bavaglio a chi potrebbe disturbare i giochini di una maggioranza e di una finta opposizione che sono d´accordo - al di là dei finti voti ed emendamenti presentati - con l´obiettivo di cancellare le voci fuori dal coro».

Repubblica 10.2.10
Roccella: le affermazioni dei parenti non bastano
"Nessun ritardo sulla legge lavoriamo per un´intesa"
Speriamo di trovare un accordo con l´opposizione, ma le accuse sulle mancanze del governo rasentano la diffamazione
di Mario Reggio

ROMA - «La discussione parlamentare sul testamento biologico continua e va avanti, non è vero che un anno è passato senza fare nulla. Speriamo che l´opposizione trovi dei punti di convergenza su una serie di aperture presentate dal relatore di maggioranza».
Un anno dopo, lei e Sacconi avete deciso di andare dalle suore che hanno curato Eluana.
«Siamo andati a Lecco solo per consegnare una lettera del presidente del Consiglio. Le accuse di Livia Turco sull´assenza del governo per evitare la discussione rasentano la diffamazione. Abbiamo sempre assicurato i lavori in Commissione alla Camera. Dopo l´approvazione del ddl al Senato, alla Camera i lavori vanno avanti e spero che, su alcuni emendamenti del relatore di maggioranza, si trovi una convergenza».
Ci sono margini d´intesa?
«La prima apertura del relatore di maggioranza riguarda l´allargamento della platea di chi può usufruire della dichiarazione anticipata di trattamento. Al Senato si amplia a tutti quelli che hanno perso la capacità d´intendere e di volere, quindi ai malati terminali. Poi, per la prima volta, una legge sancirebbe il diritto al consenso informato del paziente».
Ed il diritto a rinunciare all´idratazione ed all´alimentazione?
«Riguarda solo i malati terminali che non possono più assorbire il trattamento».
Se una persona sceglie e mette nero su bianco che non vuol essere curato?
«Vale fino a che è in grado di confermare quello che ha deciso. Dopo c´è sempre un elemento di incertezza, quindi vale il principio di precauzione, perché se una persona muore non si può tornare indietro. E non basta che un parente affermi che la persona aveva dichiarato di non voler essere tenuta in vita».

Repubblica 10.2.10
Veronesi: così si impone l´alimentazione forzata
"Ma il testo in discussione è contro la Costituzione"
di Carlo Brambilla

Dopo tutto quello che è successo, in questi ultimi mesi migliaia di persone hanno capito il significato del testamento biologico

MILANO - «Penso che Beppino Englaro abbia dato al Paese una grande lezione di civiltà. Invece di risolvere il suo dramma nell´ombra ha scelto di portarlo nell´agorà, sapendo di esporsi così alle accuse, anche infamanti, di chi non la pensa come lui. Per questo ho deciso, un anno dopo, di dare la mia adesione al Comitato scientifico dell´associazione "Per Eluana" (www. pereluana. it)». Umberto Veronesi è tra i nomi prestigiosi che hanno aderito alla neonata associazione presieduta da Beppino Englaro, con lo scopo di tutelare il diritto individuale a una scelta libera e consapevole sull´accettazione dei trattamenti sanitari.
Professor Veronesi, un anno fa moriva Eluana. La discussione sulla fine della vita e su chi deve decidere, per che cosa, è entrata ormai in tutte le famiglie.
«Quando in Senato è giunta la notizia della fine della tragedia di Eluana ho sentito il dovere morale di esprimere pubblicamente il mio sostegno alla battaglia di Beppino Englaro per il rispetto della libera volontà di sua figlia. Tutta questa vicenda è servita a far nascere una nuova consapevolezza. Sono migliaia le persone che hanno capito il significato del testamento biologico, lo hanno scaricato da internet e lo hanno consegnato a loro persone di fiducia. E altri continuano a farlo».
Cosa pensa della proposta attuale di regolamentazione dell´espressione delle volontà anticipate, cioè di testamento biologico?
«Penso che se fosse approvata peggiorerebbe la situazione. Perché in pratica, imponendo l´alimentazione e idratazione forzata, vieterebbe a tutti i cittadini di dire lucidamente "no" alla vita artificiale, come era lo stato vegetativo permanente di Eluana. Sarebbe una legge anticostituzionale perché tradirebbe il principio della libertà dei cittadini di poter rifiutare qualsiasi trattamento».

l’Unità 10.2.10
Gelmini-Tremonti, una rifoma con la scure
di Francesca Puglisi

Al di là della propaganda governativa di queste ore, valgono i fatti e presto studenti, insegnanti e famiglie si accorgeranno del male inflitto al sistema scolastico dal Governo Berlusconi. A guidare il riordino delle superiori non è uno spirito riformatore, ma una concezione elitaria dell’istruzione e un drastico ridimensionamento della spesa per l’istruzione pubblica (circa 8 miliardi di euro in tre anni), attuato senza discussione in Parlamento e senza alcuna logica educativa.
Si tratta della stessa scure che ha già eliminato nell’anno scolastico 2009-2010, nella sola scuola secondaria superiore, 11.347 docenti, con l’aumento oltre misura del numero di studenti per classe. Ora, con la riduzione del tempo scuola, saranno eliminati altri 20.339 insegnanti nei prossimi due anni, un licenziamento di massa di cui faranno le spese soprattutto i precari.
Il ministro afferma che con il riordino dei licei avranno più ore materie come le lingue straniere, la matematica e le scienze. In realtà si tratta delle materie che il ministro Gelmini ha azzoppato senza pietà. Per fare solo qualche esempio, nel liceo linguistico la seconda lingua straniera avrà il 33% in meno delle ore, nei licei scientifici viene eliminata la sperimentazione dello studio della seconda lingua. La matematica non sta meglio delle lingue: si accorpa con la Fisica e diventa un’unica disciplina nei licei delle scienze umane e linguistici, con un’ulteriore riduzione oraria. Altra perla “gelminiana” è l’assenza, in tutti i licei, dell’insegnamento almeno quadriennale di Scienze, una delle caratteristiche della moderna scuola del XXI secolo.
Il riordino degli istituti tecnici è una brutta copia della riforma approntata dal governo di centrosinistra, con l’aggravante che non ci sono risorse per i laboratori, tagliati anch’essi del 30% insieme ad un gran numero di insegnanti tecnico pratici. Il Pd ha avanzato le proprie proposte nelle Commissioni competenti di Camera e Senato, ma a parte la “riduzione del danno” di far partire il riordino solo dalle nuove iscrizioni, su tutti gli altri punti c’è stata un’insensata sordità. L’accetta di Tremonti alla fine ha colpito l’istruzione di ogni ordine e grado e a conti fatti, dal prossimo anno scolastico, ad ogni bambino o bambina che varca per la prima volta la porta di una scuola primaria, al termine dell’obbligo, saranno sottratte 63 settimane di istruzione, quasi due anni in meno di scuola. Il Partito Democratico promuoverà nelle prossime settimane una giornata nazionale di mobilitazione per la scuola pubblica, il più grande investimento nel capitale umano del Paese, chiamando a raccolta tutte le migliori energie della nostra società, che hanno a cuore il futuro dei nostri ragazzi e ragazze.

l’Unità 10.2.10
Su Radio Radicale storie di ordinaria illegalità al Cie di Bari

Peggio della galera!». «Viviamo come dei cani». Sono arrivate alla redazione di RadioRadicale.it le immagini del Cie di Bari Palese, registrate con un cellulare da un immigrato tunisino ora espulso. Beseghaier Fahi ci ha fornito una imponente documentazione cartacea, fotografica e video, che abbiamo montato e pubblicato sul nostro sito e che il Tg3 delle 19.00 ha mandato in onda domenica scorsa. Oltre alle immagini scioccanti delle condizioni igienico-sanitarie in cui versa la struttura, il video contiene diversi appelli degli immigrati e alcune storie di ordinaria illegalità dello Stato italiano.
Chi è il responsabile? La O.E.R, “onlus” che ha vinto la gara d’appalto per la gestione del CIE? Le ditte Medica Sud srl e Ladisa, che partecipano alla gestione di questo centro? I militari del battaglione S. Marco, addetti alla sorveglianza? Politicamente il primo responsabile è il Ministro Maroni, cui si deve una legge che allunga il trattenimento nei CIE. Su quello di Bari, nell’ottobre scorso il deputato del Pd, Dario Ginefra, ha depositato un’interrogazione che attende ancora risposta; il Radicale Maurizio Turco è tornato a visitare il Cie a gennaio denunciando come nulla sia cambiato.
Chi ha realizzato quel video e chi vi ha partecipato ha trovato la forza di assumersi la responsabilità di denunciare l’ingiustizia anche per conto di quanti in quei centri lavorano o prestano la loro attività volontaria.
Radio Radicale mette a disposizione nel suo sito di giornalismo partecipativo FaiNotizia.it la possibilità di segnalare gli abusi attraverso materiale video, fotografico e scritto. Speriamo che altri, italiani o stranieri, facciano quanto ha fatto Beseghaier Fahi.
SIMONE SAPIENZA Internet@radioradicale.it

l’Unità 10.2.10
Fondo editoria: pressing bipartisan sul governo Ma c’è il rischio fiducia
di B. Dig.

È allarme rosso per i giornali di idee e opinioni. Il governo non ha ancora ripristinato le regole per l’accesso ai fondi modificate con un blitz in Finanziaria. Oggi al voto un emendamento bipartisan. Ma c’è il rischio fiducia

Ancora nulla di fatto sui fondi per le testate di idee, opinioni e per l’editoria cooperativa. Giulio Tremonti, che a fine 2009 aveva rassicurato alcuni direttori dei giornali coinvolti (tra cui anche Concita De Gregorio) promettendo un intervento entro gennaio, non ha ancora sciolto le riserve. Oggi è il giorno decisivo: un emendamento bipartisan al milleproroghe che ristabilisce il diritto soggettivo ad accedere ai fondi andrà al voto nell’Aula di Palazzo Madama. I giochi sono aperti, ma la partita è ad alto rischio. Il governo, infatti, non ha ancora dato un’indicazione chiara, tanto che in commissione la proposta è stata accantonata per evitare brutte sorprese. E alla vigilia sono circolati insistenti le voci di un possibile maxiemendamento del governo, con la richiesta di fiducia. In questo caso cadrebbero tutti i tentativi parlamentari di intervenire sul testo.
MOBILITAZIONE
Per l’informazione è allarme rosso. La Federazione nazionale della stampa annuncia la mobilitazione delle testate politiche, cooperative e di idee. In gioco c’è molto. Non solo fondi, ma anche il diritto a un’informazione plurale, non condizionata soltanto da forti poteri economici o dal mercato pubblicitario. L’intervento del governo in Finanziaria ha sostanzialmente eliminato il diritto soggettivo delle testate politiche e non profit ad accedere al finanziamento pubblico. Tradotto in cifre vuol dire che le attuali norme consentono al tesoro di stanziare una somma, che poi le diverse testate dovranno spartirsi pro-quota. Se aumentano le testate, la quota singola diminuisce. In questa situazione, diventa complicato per molte aziende editoriali persino chiudere i bilanci. Insomma, il blitz del Tesoro mette a rischio sia l’informazione, sia la sopravvivenza di decine di imprese editoriali, sia centinaia di posti di lavoro. Un vero terremoto.
La «questione» editoria non è nuova: ormai già da mesi divide il governo. Il Tesoro aveva già tentato mesi fa di imporre il nuovo sistema: tentativo sventato poi da un intervento parlamentare. Con l’ultima finanziaria è arrivato il secondo blitz, su cui si è consumato anche un duro braccio di ferro tra Tremonti e Paolo Bonaiuti, che nel frattempo ha presentato in Parlamento il nuovo regolamento per l’editoria. Ma sarebbe grave come osservano all’unisono Vincenzo Vita e Giuseppe Giulietti se il regolamento fosse approvato senza prima ripristinare il diritto soggettivo all’accesso ai fondi. Proprio quello che chiede l’emendamento bipartisan, voluto dai senatori Vita e Lusi dell’opposizione, e Butti e Mura della maggioranza. Una proroga di un anno delle condizioni ante Finanziaria, che consenta di riscrivere nuove regole complessive. «L’emendamento è indispensabile per trovare il tempo per varare una riforma condivisa del settore come richiesto dalle organizzazioni sociali e dal mondo della comunicazione», ha dichiarato ieri la presidente dei senatori Pd Anna Finocchiaro. A questo hanno lavorato ieri le «diplomazie» parlamentari fino a tarda sera. I parlamentari della maggioranza avrebbero avuto un incontro con un esponente del Tesoro (forse con lo stesso Tremonti) in tarda serata. Ma la situazione è rimasta fluida per l’intera giornata. I giochi si capiranno soltanto oggi.❖

l’Unità 10.2.10
Capiremo i folli solo con la nostra follia
L’esperienza basagliana travalica i confini suscitando entusiasmi In Brasile, in Norvegia, in Canada le tracce del suo insegnamento
di Luigi Cancrini

Trieste, 1976. Mi incontro con Franco nel suo ospedale. Un paziente con un buffo cappello sulla testa passa veloce accanto a noi che parliamo chiedendogli dove sta Big House, lui risponde «di là mi pare», poi si gira verso di me e mi spiega che stava parlando di Casagrande, il suo aiuto che di li a qualche anno sarebbe andato a dirigere l’ospedale dei servizi psichiatrici di Venezia. Stavamo per salutarci, avevamo discusso della legge che stava per venire, il mio ruolo era quello di rappresentante della commissione sanità del Pci nell’ambito della trattativa complessa che sarebbe sfociata nella 180 e mi dispiaceva andarmene e mi venne da chiedergli dove viveva in quel periodo, la sua famiglia era a Venezia e lui sembrava come un po’ smarrito nella confusione di una vita troppo piena di cose da fare. Mi guardò Franco allora per un attimo negli occhi con quella sua aria trasognata e dolce e si guardò intorno e gli occhi gli si fermarono su una valigia aperta che era la sua, e mi disse ridendo che era lì che abitava, forse, nella valigia con cui andava in giro per il mondo a raccontare la buona novella del superamento degli ospedali psichiatrici, dei matti, che erano solo persone che non avevano più la capacità o la possibilità di raccontare se stessi e la loro vita. Suscitando entusiasmi straordinarii di cui ho trovato le tracce quando ho viaggiato per parlare di lui e della rivoluzione psichiatrica italiana. In Canada dove le sue idee erano oggetto di insegnamento all’università e in Inghilterra dove R. Laing, Esterson ed altri portavano avanti, in contesti tanto diversi, un discorso tanto simile al suo, in Brasile dove le sue conferenze furono raccolte in un libro straordinario ed in Norvegia dove, a Tromso, mi sarebbe capitato di ricordarlo insieme agli psichiatri che avevano seguito i suoi consigli liberando i pazienti dall’ospedale, a Liegi dove ancora c’è oggi una associazione con il suo nome e un po’ dappertutto nel mondo dove l’esperienza di Gorizia e di Trieste è stata presentata e discussa come una proposta rivoluzionaria dal punto di vista politico e straordinariamente coerente dal punto di vista scientifico.
Semplice e forte, il discorso di Franco sulla follia ha aperto prospettive teoriche di grande respiro di cui il superamento degli ospedali era solo la premessa. Contestuale e non genetica, l’origine dei comportamenti che non capiamo e che difensivamente chiamiamo «folli» va cercata sempre nella storia della persona e nella geografia dei suoi rapporti più significativi. Nulla accade a caso nella vita psichica, aveva detto Freud e Basaglia l’invera, questa affermazione, nel contatto quotidiano con gli ultimi degli ultimi. Con quelli che a parlare non provano più dopo che tanti muri hanno incontrato che respingono e soffocano le loro parole. Cui è possibile stare vicini solo se si riesce a stare in contatto con le parti «folli» e bambine di sé. Conoscere l’handicap, diceva Franco (è uno degli ultimi ricordi che ho di lui a Roma, la malattia lo condizionava già molto) è possibile solo per chi si guarda dentro alla ricerca del suo di handicap. Sorridendo lo diceva, come se lo stesse ancora cercando.

l’Unità 10.2.10
L’azionismo? Molto laico e socialista
di Bruno Gravagnuolo

Si riaccende l’attenzione sul Partito d’Azione. Merito della lettera inedita di Beniamino Placido del 1990 alla figlia Barbara, ripescata da Repubblica. Alla quale ha fatto seguito ieri la lettera di Walter Veltroni sempre su Repubblica sui «valori dell’azionismo che mancano all’Italia». Certo, eticità della politica, civismo, fascismo non come «parentesi» ma come «autobiografia della nazione», bipolarismo, «non mollare» etc., sono grandi lasciti dell’azionismo. Così come lo sono la laicità, la libertà culturale e di coscienza senza compromessi. E ben sappiamo quanto l’Italia difetti di queste virtù e di queste consapevolezze, che animarono una parte cospicua della Resistenza antifascista, particolarmente bersagliata dalla destra e da uno spurio revisionismo acrimonioso. E tuttavia c’è il rischio che qualcosa vada perso, nelle due lettere citate che a quei valori giustamente si richiamano. Cosa? La memoria di quel che fu davvero il Partito d’Azione, scioltosi nel 1947. Un partito modernamente socialista, già a partire da Carlo Rosselli e dal suo Socialismo liberale del 1929. Socialista a sinistra del Pci. Che denunciava la «Resistenza tradita» incapace di fare rivoluzione. Un partito i cui membri di spicco erano non di rado marxisti duri come Francesco De Martino, radical-socialisti come Riccardo Lombardi, anarco-sindacalisti e poi psiuppini come Vittorio Foa. E radicali di sinistra antipadronali come Ernesto Rossi, o socialisti liberali come Bobbio e Salvemini. Poi c’erano i moderati di sinistra come La Malfa, keynesiano e rooseveltiano. E quelli che andarono nel Pci, come Spriano e Trentin. Morale, era gente molto di sinistra, per lo più. Che sognava un nuovo socialismo, non autoritario e fatalista, ad economia mista, e con lo stato e le autogestioni operaie al centro! Quanto a Rosselli in Spagna esaltò persino l’Urss a un certo punto, nel fuoco dello scontro antifranchista. Non erano buonisti civici quegli azionisti, ma piuttosto estremisti e laicisti. Ce li vedete voi oggi gli azionisti a star buoni e calmi nell’odierno Pd? Noi no.

martedì 9 febbraio 2010

Repubblica 9.2.10
Secondo i sondaggi chiesti dal Pd il 14% dei consensi di Emma sarebbe rubato agli avversari
La sfida della Bonino al centrodestra "Convincerò anche i vostri elettori"
di Giovanna Vitale

La leader radicale prevede 2 milioni di euro di spese, ma per ora "non ho una lira"
La percentuale di indecisi stimata al 20%. "Rottamerò l´edilizia degradata delle periferie"

ROMA - «Voglio vincere», ripete come un mantra Emma Bonino. La pasionaria radicale che ha conquistato la nomination alla presidenza del Lazio imponendo la sua candidatura al Pd e al centrosinistra tutto, non si fa illusioni ma comincia a crederci. Sa bene quanto pesino il caso Marrazzo e la fatica di ricompattare una coalizione in frantumi. Senza contare le difficoltà di cassa: «Noi radicali non abbiamo una lira, come sempre e non a caso», ha ricordato ieri a proposito della polemica sui costi della campagna elettorale, una previsione di 2 milioni di euro contro i 500mila dichiarati dalla sua avversaria. «Una cifra che però mi pare assai improbabile, a vedere il numero di manifesti in giro», l´ha subito sfidata la Bonino, costringendo Polverini a correggere il tiro: «Il dato di riferisce alle spese iniziali, che sicuramente aumenteranno. Abbiamo detto ad oggi quello che abbiamo nella disponibilità e come lo impegniamo».
Una battaglia fra dame combattuta colpo su colpo con una strategia ben chiara in testa. «Convincere chi nelle passate elezioni non è andato a votare o ha votato altro». La vicepresidente del Senato l´ha ribadito con forza ieri in tv: «Non so quante chance ho, c´è uno squilibrio di forze in campo, ma io la sto portando avanti con grande determinazione». E i sondaggi sembrano darle ragione. Secondo una rilevazione riservata commissionata dal Pd alla Key Research, Bonino sarebbe avanti di qualche decimale rispetto a Polverini (42,1% contro 41,8), mentre la coalizione di centrosinistra - nella quale ieri è entrata anche la Federazione della Sinistra - è ancora piuttosto indietro (44,9%) rispetto al centrodestra (53%). Ma è dall´analisi delle intenzioni di voto che arrivano le sorprese: Bonino prenderebbe il 14% dei suoi consensi da destra, Polverini solo il 6% da sinistra. Considerando tuttavia che la percentuale di indecisi è ancora altissima (oltre il 20%), a stupire è in particolare la tendenza dei giovani: fra gli elettori di Roma compresi fra i 18 e i 34 anni, Bonino vincerebbe 65 a 35.
Una capacità di attrazione oltre gli schieramenti venuta alla luce ieri nel corso dell´incontro con la giunta dell´Acer, l´associazione dei costruttori romani considerata fra i maggiori artefici della vittoria di Alemanno in Campidoglio. Inaugurando la campagna d´ascolto con le categorie imprenditoriali, i sindacati e il volontariato sociale, è nella "tana del lupo" che la vicepresidente del Senato ha dato il meglio di sé. «Bisogna attuare quello che è stato già deciso, i progetti di Comune e Regione che sono in cantiere ma si sono persi tra le scartoffie. Occorre sburocratizzare le procedure, non solo i pagamenti», ha esordito Bonino toccando i temi più cari ai suoi interlocutori. Uno in particolare, che «è già nei programmi»: ovvero «la rottamazione edilizia di quelle periferie con edilizia non di qualità e il recupero di intere zone di Roma e del Lazio». Demolire e ricostruire, insomma, come prevede il Piano casa «che però va rivisto». Spingendo, anche, «sul partenariato pubblico-privato, soprattutto per le grandi infrastrutture ma non solo», «sull´attivazione dei fondi Ue» e sulla «legge sugli appalti che è ancora in consiglio regionale e mi impegnerò a sbloccare». Non riuscivano a credere alle loro orecchie, i costruttori romani. Entusiasti al punto che «è stato sicuramente un incontro utile», ha esclamato il presidente Eugenio Batelli: «Con la Bonino c´è una comunanza di intenti».

Repubblica Roma 9.2.10
Dal lavoro all´ambiente, i temi dell´accordo. La candidata del centrodestra in Campidoglio
Bonino, patto in 6 punti con la Sinistra
Il Pdc: "Con Emma una ventata di aria nuova"
di Laura Mari

Un altro sì. E il fronte degli alleati si allarga sempre di più. A incassare nuove adesioni in vista delle elezioni del 28 e 29 marzo è la candidata del Pd Emma Bonino, che ieri pomeriggio ha siglato l´alleanza con la Federazione della Sinistra del Lazio. Un accordo che la vicepresidente del senato ci ha tenuto a definire «politico-elettorale, ma non di governo» e che si basa su sei temi fondamentali: il lavoro, l´energia, l´acqua, l´ambiente, il territorio, la pubblica amministrazione e la sanità. Nel patto, tra i punti programmatici, è stato previsto l´incremento del fondo per il reddito minimo garantito, l´istituzione di un osservatorio regionale per la sicurezza sul lavoro e la realizzazione di distretti industriali per il rilancio dell´occupazione. Soddisfazione, sull´accordo, da parte della segretaria Prc del Lazio Loredana Fraleone, che parla «di un confronto positivo», mentre la deputata radicale Rita Bernardini ha sottolineato come «da posizioni diverse è stato tirato fuori qualcosa di nuovo». Un patto, quello siglato con la candidata del Pd alle prossime regionali, che piace anche al segretario del Pdc del Lazio Mario Michelangeli che ha definito la Bonino «una ventata di aria nuova». Intanto il segretario regionale del Pd Alessandro Mazzoli ieri ha proposto alla direzione del Lazio del partito di scegliere Esterino Montino come capolista per le regionali. Una scelta che, ha detto Mazzoli, «valorizza positivamente il lavoro fatto dalla giunta regionale in questi cinque anni».
Nel pomeriggio, invece, per «valutare alcune iniziative elettorali» la candidata del Pdl Renata Polverini ha incontrato in Campidoglio il sindaco Gianni Alemanno e il leader dell´Udc Pier Ferdinando Casini. Un vertice in cui probabilmente si è discusso anche della cena elettorale che domani vedrà la sindacalista dell´Ugl insieme al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. La serata di gala si terrà al Palazzo dei Congressi, all´Eur, e che costerà circa mille euro a persona. Ancora top-secret il menu, ma in tavola lo staff di Berlusconi ha espressamente richiesto che non vengano serviti piatti preparati con aglio o salmone.
Una cena che servirà alla candidata del Pdl per raccogliere fondi elettorali visto che, dopo aver annunciato che per la campagna non spenderà più di 500 mila euro, ieri la Polverini ha corretto il tiro precisando che «la cifra si riferisce solo alle spese iniziali, ma probabilmente il budget aumenterà».

Corriere della Sera Roma 9.2.10
Bonino ai costruttori: «Realizzare i progetti già decisi»
«Si alla rottamazione delle periferie»
di Alessandro Capponi

l’Unità 9.2.10
I dati di una ricerca e l’Avvenire
Il caso Eluana tra scienza e ideologia
di Carlo Albero Defanti

Domenica 7 febbraio, commentando su Avvenire l’articolo di Martin M. Monti e collaboratori apparso sul New England Journal of Medicine, nel quale si descrivono i risultati di uno studio condotto dai due principali centri attivi nella ricerca sul coma (Oxford e Liegi) su una serie di pazienti in stato vegetativo e di minima coscienza, Assuntina Morresi sottolinea il fatto, certamente importante, che in questo studio è stato dimostrato che in 2 pazienti (su 23) diagnosticati in stato vegetativo sono state rilevate, con tecniche sofisticate, risposte di aree corticali che suggeriscono la persistenza di funzioni cognitive. Il dato era già noto dopo lo studio di Owen del 2006 (su un caso singolo, studiato 5 mesi dopo il trauma); la novità è che le risposte rilevate sembrano comportare una componente di volontà e che i due casi avevano una durata di malattia maggiore (inferiore comunque ai 30 mesi). Morresi ne trae la conclusione che tutti gli stati vegetativi sono «persone vive» e sono in grado potenzialmente di comunicare con noi. Non solo, ma si chiede che cosa sarebbe accaduto se Eluana Englaro fosse stata sottoposta a queste indagini.
In realtà la conclusione generale di Morresi non è affatto giustificata e la sua illazione tendenziosa riguardante Eluana non tiene conto né della sua lunghissima fase di malattia (pari a 17 anni), né dei risultati dell’esame neuropatologico, che è stato condotto in maniera estremamente scrupolosa ed è stato molto chiaro sia sulla coerenza con la diagnosi di stato vegetativo permanente sia sull’irreversibilità delle lesioni.
Quel che è certo è che negli ultimi anni si è aperta una nuova era nel campo degli studi sui disturbi di coscienza e che le nuove metodiche promettono di cambiare profondamente il nostro sapere in materia. Come suggerisce Alan Ropper nell’editoriale che, sul New England Journal of medicine accompagna l’articolo di Monti, è presto però per trarre da questo studio conclusioni circa la pratica clinica. E, aggiungo io, è del tutto fuori luogo leggere questo importante contributo scientifico alla luce di un partito preso ideologico. Io spero soprattutto che grazie a queste nuove indagini si possano trarre in un prossimo futuro indicazioni utili per formulare una prognosi più attendibile e un congruo programma di cura.
Carlo Albero Defanti, il neurologo che ha seguito Eluana Englaro, è primario emerito presso l’Ospedale Niguarda di Milano ed è membro della Consulta di Bioetica onlus.❖

Repubblica 9.2.10
Un anno dopo mi batto ancora in nome di Eluana
di Beppino Englaro

Caro direttore, un anno è passato dalla «fine di un incubo». Era un incubo nostro, degli Englaro, perché avevamo un componente della famiglia in balìa di mani altrui, contro la sua volontà. Ma credo che questo incubo familiare sia entrato in molte case. Incontro sempre più persone che vogliono stringermi la mano, salutarmi e dirmi grazie. Penso che questa gente abbia capito il senso dei diritti individuali di libertà delle persone. Sono convinto che molti si siano resi conto del prezzo che abbiamo pagato.
C´è una questione che viene sempre capovolta. Mi sento dire: «Mai più Eluane». E cioè, mai più contro la sacralità della vita e la sua indisponibilità. Ma, secondo me, è l´esatto contrario. E cioè, nessuno deve avere il potere di disporre di un´altra vita com´è avvenuto per Eluana. Il miglior modo di tutelare la vita in tutte le situazioni è affidarne le decisioni a chi la vive. Sia a chi è in condizioni di intendere e volere, sia a chi non è più capace, ma ha spiegato che cosa avrebbe voluto per sé. Che cosa mi diceva Eluana? «La morte l´accetto, fa parte della vita, ma che altri mi possano ridurre a una condizione di non-morte e di non-vita, no, questo non l´accetto». C´è chi la pensa in maniera diversa, e lo so bene. Ma so bene anche che mentre Eluana moriva, il Parlamento aveva organizzato una corsa per approvare una norma che annullasse quello che aveva stabilito la corte di Cassazione.
C´era un giudicato e c´erano dei politici che volevano sovvertirlo. C´era una nostra lunga e dolorosa battaglia, e c´era chi voleva farne carta straccia. Sembrava che quella legge fosse indispensabile per gli italiani. Che fosse fondamentale per la salvaguardia ideologica di alcuni partiti. Adesso io vorrei dire: è passato un anno, e la legge non c´è. Come mai? A che punto è? Tutta quella forza d´urto lanciata mentre una ragazza moriva dov´è finita?
Vedo che non hanno capito niente: i politici ne fanno una questione di conflitto di poteri, di chi decide che cosa. Dimenticano che la corte costituzionale s´è già espressa, avallando l´operato della magistratura di fronte a un cittadino che s´era rivolto a loro per il riconoscimento di un suo diritto. E se questi politici leggono bene la sentenza del 16 ottobre 2007, capiscono che è perfettamente allineata ai principi della nostra Costituzione.
Se i politici vogliono riappropriarsi, come del resto a loro spetta, del diritto "dell´ultima parola" su temi eticamente controversi, devono tenere conto di quello che è accaduto sinora. E come diceva Pulitzer, «un´opinione pubblica bene informata è la nostra corte suprema». I sondaggi ci sono, dicono che il mio è il sentire comune. E invece questa legge, così come viene formulata, non tiene e non terrà. E poi come non considerare che anche la terza carica dello Stato si è espressa sul tema, mettendo in guardia il legislatore da autoritarismi da stato etico?
I cittadini, come era esasperatamente cittadina Eluana, vogliono essere messi in condizione di assumersi le loro responsabilità. E non essere trattati come se non fossero responsabili delle loro scelte di coscienza. Un anno dopo la morte di Eluana, io voglio semplicemente separare la tragedia privata di aver perso una figlia dalla violenza terapeutica. Non credo che la medicina giusta sia quella che offre una «vita senza limiti». Eluana un anno dopo è come un anno fa, o diciotto anni fa: un simbolo pulito della libertà individuale. Ed è nel mio cuore costantemente.

Repubblica 9.2.10
"Aiutai Eluana a morire da allora la mia vita non è più la stessa"
Il medico De Monte: sotto scorta per mesi
di Piero Colaprico

Ho lasciato passare l´onda del lutto, poi mi sono scese le lacrime Il libro l´ho scritto per raccogliere le emozioni

MILANO - Un anno fa c´era alla clinica La Quiete un medico robusto, con il camice slacciato, gli occhi arrossati, in una sorta di "corazza" professionale. Oggi Amato De Monte, anestesista, primario, l´uomo che osservò Eluana spegnersi e ne avvisò il padre è - come successo a non poche persone dopo quella tragedia personale e collettiva - un uomo cambiato.
Professore, c´è una domanda che s´impone: quali contraccolpi ha avuto dalla storia di Eluana?
«Pensavo che nella fase acuta, del tritacarne tra politica e telegiornali, avessi quasi quasi dominato la situazione meglio di quanto pensassi. Invece allora ero sotto stress e dovevo essere presente, reagivo. Le cose più pesanti sono venute fuori dopo».
Non si riferisce solo all´inchiesta...
«No, anche se quando sono partite le denunce di omicidio, sono rimasto di stucco. È stata anche brutta da sopportare la consegna del silenzio, in modo da essere rispettosi dell´indagine. Terribile poi non poter ribattere al "battage" sul fine vita, a libri e articoli con cose inventate di sana pianta. E che dire della scorta?».
Due mesi di scorta per timore di qualche pazzo...
«Queste difficoltà mi hanno un po´ minato. A uno come me non andava proprio giù di essere accusato e indagato per aver fatto una cosa che era "passata in cassazione". Solo in Italia sembrava non aver valore. Tutto alla fine passa, ma è che mi è successo quello che annunciava Borasio».
Il professore Borasio, milanese, cattolico, palliativista, e consulente della Chiesa tedesca sul "testamento biologico", che oltre le Alpi approvano.
«Già, da collega mi aveva avvertito. Ti arriverà l´onda del lutto, lasciala passare. Io pensavo di non essere toccato, non è mia parente, mi dicevo. E noi medici, un po´ come alcuni di voi giornalisti, ne vediamo da vicino di cose terribili. Invece un giorno mi sono scese le lacrime, copiose».
Come se l´è spiegato?
«Per me, ora come allora, Eluana è morta diciassette anni prima, per l´incidente d´auto. Non sottovaluto il condizionamento mediatico. Anzi, faccio fatica a dire che Eluana non sia la persona virtuale di cui si vedono le foto dovunque, ma è quel povero essere... Quante menzogne sono state diffuse sulla sua salute, io lo so bene, eppure "vedo" l´Eluana delle foto».
Lei è cambiato come medico?
«Sì, certo. Prima con le persone ero più controllato, più riflessivo. Ora mi viene più facile parlare con i parenti, mi è più facile trovare le parole per ricordare che la morte è l´unica cosa certa che abbiamo nella nostra vita».
E sulla vita e la morte? Ha trattato Eluana come doveva o...?
«Il mio punto di vista medico non è cambiato, ero e resto sicuro che in quella stanza ho assistito a un processo di morte naturale. Non occorre essere anestesisti o grandi specialisti per capirlo. Lo spegnersi Eluana per la sospensione della nutrizione e dell´alimentazione è molto simile alla morte a casa sua dell´anziano, che non si alza dal letto, a cui si affievoliscono funzioni vitali. È che prima non me ne occupavo, lavoravo molto nella terapia intensiva. Adesso mi sono accorto che anche accompagnare alla morte una persona, senza farle perdere dignità, è importante».
Non ha tenuto un diario?
«Avevo preso degli appunti. E sa la cosa strana? Con mia moglie, che è stata anche la mia capoinfermiera (Cinzia Gori, ndr) un po´ evitavamo di parlare delle nostre sensazioni, dei vari episodi, forse per non stare a rivangare. Ma poi scopro che anche lei ha preso appunti. Ci siamo detti delle cose che entrambi abbiamo vissuto. "Ma perché non me l´hai detto subito?", ci siamo chiesti, ma non esistono risposte in un episodio come questo, che non è passato liscio sulle nostre vite».
Fatene un libro più serio degli altri che contestate, o no?
«Sì, uscirà tra un paio di mesi. Esiste un prima e un dopo Eluana, descrivere per onore di documentazione e raccogliere le nostre emozioni ci serve».

l’Unità 9.2.10
Amnesty all’Italia: «Stop ai respingimenti dei migranti in Libia»
Tra le richieste anche la fine delle discriminazioni di rom e minoranze e il bando della tortura. Oggi a Ginevra il Consiglio Onu esaminerà il «caso italiano»
di Umberto De Giovannangeli

Sarà un esame molto impegnativo. Le premesse per una solenne bocciatura sembrano esserci tutte. L’appuntamento è oggi a Ginevra, dove l’Italia sarà sottoposta all’Esame periodico universale da parte del gruppo di lavoro del Consiglio Onu dei diritti umani. In vista della riunione di Ginevra, Amnesty International ha sottoposto all’attenzione del Consiglio Onu un documento contenente informazioni sulla situazione dei diritti umani in Italia e una serie di raccomandazioni indirizzate al governo italiano, che l’organizzazione auspica siano prese in considerazione durante l’esame. L’Unità anticipa il vademecum sette capitoli estremamente impegnativi per un Paese più degno in un campo decisivo: quello delle libertà e dei diritti umani.
«L’esame dice a l’Unità Riccardo Noury, portavoce e direttore dell’Ufficio comunicazione della sezione italiana di Amnesty International è una opportunità importante come tutte le occasioni in cui organismi internazionali per i diritti umani si occupano di sottoporre a scrutinio la situazione interna ai vari Paesi. Amnesty International ha rappresentato al Consiglio Onu di Ginevra una fotografia dell’attuale erosione della tutela dei diritti umani in Italia. Erosione che si manifesta sottolinea Noury attraverso norme discriminatorie e un vocabolario spesso altrettanto discriminatorio nei confronti di minoranze, rom, migranti e possibili richiedenti asilo». «Oltre che a raccomandare la fine di tutto questo aggiunge il Consiglio Onu ha l’occasione per raccomandare all’Italia l’adeguamento delle norme interne al Diritto internazionale e di segnalare le leggi in vigore che con esso confliggano». «Di recente conclude Noury le autorità italiano hanno manifestato più volte insofferenza nei confronti dei richiami degli organismi internazionali in materia di diritti umani. Ci auguriamo che in questa occasione il Governo italiano si impegni in un dialogo costruttivo con il Consiglio di Ginevra e che tenga conto delle sue osservazioni finalizzate ad un miglioramento sostanziale della tutele dei diritti umani».
Reato di tortura. Amnesty International chiede che sia introdotto nell’ordinamento italiano il reato di tortura adottando una definizione di tortura che includa tutti gli elementi contenuti nell’articolo 1 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura.
«Pacchetto sicurezza». Modificare le disposizioni del «pacchetto sicurezza» che possono risultare discriminatorie nei confronti delle minoranze che vivono in Italia. Assicurare che quelle disposizioni siano pienamente conformi agli obblighi dell’Italia derivanti dalle norme internazionali sui diritti umani garantendo, in particolare, il rispetto del diritto a un alloggio adeguato e fornendo assistenza in tal senso. Astenersi da azioni che potrebbero indurre alla discriminazione e all’ostilità verso minoranze quali i rom, i sinti e i migranti.
Migranti, richiedenti asilo e rifugiati. Assicurare il pieno rispetto dei diritti umani dei richiedenti asilo, dei migranti e dei rifugiati. Cooperare strettamente con gli altri Paesi affinché coloro che vengono soccorsi in mare siano portati immediata-
mente in un luogo sicuro nel pieno rispetto del principio di non-refoulement, e abbiano accesso a un ́equa e soddisfacente procedura di asilo. Assicurare che il controllo delle frontiere non sia realizzato a scapito dei diritti umani dei migranti ma rispetti gli obblighi internazionali e regionali sui diritti umani; porre fine immediatamente al trasferimento verso la Libia di cittadini di Paesi terzi intercettati nelle acque internazionali.
Sgomberi forzati. Assicurare che gli sgomberi forzati siano eseguiti solo dopo aver valutato ogni altra soluzione alternativa e includano consultazione delle persone coinvolte e una notifica dello sgombero in anticipo, con tempi ragionevoli e adeguati. Garantire una sistemazione alternativa e il diritto di ricorrere legalmente contro lo sgombero contestandolo davanti alla magistratura.
Accordi di Diritto internazionale. Rispettare la Convenzione europea sui diritti umani, il Patto internazionale sui diritti civili e politici delle persone e il trattato delle Nazioni Unite contro la tortura.
Legislazione anti-terrorismo.
Rendere la legislazione antiterrorismo, incluse le norme della legge Pisanu, conforme agli obblighi internazionali dell’Italia sui diritti umani. Astenersi dal trasferire persone verso Paesi dove potrebbero subire torture o altri maltrattamenti. Dare piena e immediata attuazione alle decisioni della Corte europea dei diritti umani.
Aziende estrattive. Adottare una legislazione che imponga alle aziende estrattive italiane di prendere tutte le misure necessarie e adeguate per rispettare e tutelare i diritti umani nel corso delle operazioni che conducono all’estero, con particolare attenzione alle aree ad alto rischio come il Delta del Niger.
Stabilire un meccanismo di supervisione parlamentare che riceva ed esamini le denunce relative alle attività delle aziende del settore estrattivo. Assicurare che le vittime di violazioni dei diritti umani causate dalle aziende estrattive italiane possano avere accesso a una tutela efficace, compresa la possibilità di accedere ai tribunali italiani, nel caso in cui tale possibilità sia negata nel loro Paese. Assistere il governo della Nigeria nella”istituzione di un ente indipendente che supervisioni le operazioni estrattive di gas e petrolio.
Il meccanismo dell’Esame periodico universale – spiega Amnesty International consente di esaminare la situazione dei diritti umani di ogni Stato membro delle Nazioni Unite ogni quattro anni; dà la possibilità agli Stati membri di esprimere la loro posizione sulla necessità che la situazione dei diritti umani del Paese sotto esame sia migliorata e di lavorare in modo cooperativo con il Paese stesso all’identificazione di misure che possano portare a tale miglioramento.
Per questo è importante che il dialogo tra il paese sotto esame e gli altri Paesi che partecipano al meccanismo sia condotto nel miglior modo possibile. Tale dialogo dovrebbe essere basato sui principali problemi relativi al rispetto e all’attuazione dei diritti umani in quel Paese, e i Paesi che partecipano dovrebbero rivolgere raccomandazioni precise e concrete per risolvere questi problemi e rafforzare il pieno rispetto dei diritti umani di tutti i cittadini del Paese posto sotto esame. ❖

l’Unità 9.2.10
Immigrati vessati
Permessi senza diritti
di Amara Lakhous

Il ministro Maroni ha definito il permesso di soggiorno a punti «una cosa buona, perché è un processo che migliora gli strumenti di integrazione, tutto il contrario di quello che dice certa sinistra». Ormai la parola “integrazione” non ha più senso. Forse, è più corretto parlare di disintegrazione. La politica del governo non mira ad includere gli immigrati, ma ad escluderli dalla società. Anziché migliorare la legge attuale sull’immigrazione, si tende a burocratizzarla ancora di più.
La Bossi Fini aveva già ridotto la durata del permesso da quattro a due anni, mandando in tilt le questure. Il tempo previsto per il rinnovo non dovrebbe superare tre settimane. Però questa è pura teoria. In pratica, gli immigrati devono aspettare tempi biblici che possono arrivare fino a due anni, quindi c’è il rischio di ritirare un permesso rinnovato, ma già scaduto! In attesa del nuovo documento, viene rilasciato un cedolino, un pezzetto di carta con un numero, che non ha nessun valore giuridico. Il titolare non può aprire un conto in banca, comprare una macchina, affittare una casa, andare all’estero, ecc. In sostanza, diventa un mezzo clandestino, tenuto in ostaggio!
I nuovi requisiti per il permesso di soggiorno vanno dalla conoscenza dell’italiano e della Costituzione all’iscrizione al servizio sanitario, dal possesso della fedina penale pulita alla trasparenza nei contratti abitativi. Queste condizioni in realtà, vengono richieste per ottenere la cittadinanza. Che senso ha insistere sui doveri senza garantire i diritti?
Poche settimane fa, un gruppo di immigrati (sostenuti dai radicali) ha iniziato uno sciopero della fame per protestare contro i lunghi tempi di attesa per il rinnovo del permesso di soggiorno. La risposta del governo non si è fatta aspettare. Se questa è integrazione!

l’Unità 9.2.10
Giolitti, il «socialismo possibile» che s’oppose a Togliatti e Craxi
di Bruno Gravagnuolo

«Padre costituente» Partigiano, comunista, dopo i fatti d’Ungheria lasciò il Pci per il Psi
Intellettuale più volte ministro del Bilancio. Napolitano, appena eletto, andò a trovare lui

È scomparso ieri a Roma a 95 anni l’uomo che si contrappose a Togliatti dopo i fatti di Ungheria e si schierò con Nenni. Oggi la camera ardente alla Sala Moro alla Camera: parlano Amato, Ruffolo, ci sarà Napolitano.

Con il suo grande avo Giovanni Giolitti, del quale era nipote, Antonio Giolitti aveva in comune due cose: tenacia e grande visione, legate a un grande progetto. All’interno di un medesimo tema, diversamente declinato e in nome di altri interessi di fondo. Il tema comune era quello dell’ingresso al governo dei ceti subalterni e delle loro rappresentanze politiche. Socialisti dell’otto-novecento ieri. Comunisti e socialisti del secondo dopoguerra poi. Se l’obiettivo del liberale Giovanni fu l’incontro tra Italia liberale e movimento operaio, il fine di Antonio ex comunista e Ministro del Bilancio Psi fu invece quello di schiudere a Psi e Pci le vie di un’alternativa di governo. Passando per una fase intermedia di condominio tra Dc e Psi, ma senza sacrificare autonomia progettuale del Psi e idea di un’altra società.
Ecco, a questo grande disegno mancato è legata indissolubilmente la figura di Antonio Giolitti, intellettuale, partigiano, fuoriuscito dal Pci nel 1957 e anima pensante della politica autonomista nenniana, nonché dell’intera stagione «programmatoria» del centrosinistra. Giolitti se ne è andato ieri sulla soglia dei 95 anni, che avrebbe compiuto venerdì. Dopo una vita straordinaria e ben spesa, che ha lasciato tracce profonde nella nostra storia nazionale.
Laureato in legge nasce a Roma, e si muove tra la capitale e Torino dove presto comincia a lavorare come consulente per Einaudi. Arrestato dalla polizia per attività sovversiva, viene scagionato dal Tribunale speciale per insufficienza di prove e prosegue quel lavoro clandestino che lo porterà dopo l’8 settembre a fondare con Pajetta le Brigate Garibaldi del Piemonte. Ferito gravemente in battaglia nel 1944, si cura in Francia e ritorna in Italia nel 1945, dove diventa sottosegretario agli Esteri con Parri, membro dell’Assemblea Costituente e poi deputato Pci dal 1948 al 1957.
Data chiave il 1957, anno della sua uscita «con dolore» dal Pci, dopo lo scontro con Togliatti al VIII Congresso, dominato dalla tragedia ungherese del 1956, e dalla contesa su revisione democratica del socialismo e rapporto con l’Urss. Da quella stretta e con tempi e ragioni diverse esce dal Pci gente come Furio Diaz, Asor Rosa, Renzo De Felice, Luciano Cafagna, Piero Melograni. Firmatari con Giolitti del «Manifesto dei 101». Rientrato ufficialmente, e però egualmente devastante per la diaspora intellettuale che ne segue. Giolitti è contro il socialismo alla sovietica, contro la non riformabilità del capitalismo, e contro il legame di ferro con l’Urss, che giustifica i carri a Budapest. Ed è viceversa per un «Socialismo possibile», per il ruolo programmatorio dello stato, per la democrazia come terreno e sostanza del socialismo, tramite i diritti sociali e la redistribuzione.
In nome di tutto questo si schiera con l’autonomismo di Pietro Nenni, che nel frattempo ha rotto il patto d’unità d’azione con il Pci e lavora ad un centrosinistra dinamico, che revisiona il legame con Pci ma chiede ad esso di mutare pelle. Per un alternativa possibile, compatibile con l’economia data e gli equilibri internazionali.
IL NEOPRESIDENTE GLI DETTE RAGIONE
Quello di Giolitti a questo punto è il ruolo dell’artefice della Programmazione, come Ministro del Bilancio a più riprese tra il 1963 e il 1974. Lotta su due fronti perciò, con gli strumenti tecnici del Programma: contro l’inerzia Dc e contro l’opposizione per lo più pregiudiziale del Pci (oscillante a riguardo con Togliatti). Altro riferimento di Giolitti: Riccardo Lombardi. Accanto al quale militerà in una prospettiva che legava «riforme di struttura» fatte proprie a poco a poco dal Pci e spostamento a sinistra del centrosinistra. La vera svolta però è il craxismo, che Giolitti contesterà dopo il Midas come perversione del disegno originario di Nenni. Non più un far leva dentro il centro sinistra, per spostare a sinistra il paese in alleanza a distanza col Pci. Bensì manovra di potere al centro che bloccava il sistema politico, eliminava l’alternativa in nome dell’alternanza. E condannava il sistema dei partiti alla degenerazione. Su questi punti Giolitti rompe nel 1985 con Craxi e il Psi, denunciando presidenzialismo e carismatismo. Sino all’approdo nel 1987 al Pci come senatore indipendente, ruolo che lascerà nel 1992, quando dà l’addio alla politica. Insomma, politico serio e testa fine, studioso di Weber e del New Deal. Che nel 2006 ricevette l’onore di una visita di Napolitano: già suo avversario al VIII Congresso, il nuovo presidente appena eletto al Quirinale andò da lui a dargli ragione su quel 1956. Ragione incontrovertibile, e non l’unica però. A cominciare dal suo «Socialismo possibile» al quale mai Antonio Giolitti rinunciò.❖

l’Unità 9.2.10
Ci insegnò moralità e cultura
di Vittorio Emiliani

Per i 90 anni gli scrissi che aveva insegnato a noi ventenni di metà anni ’50 moralità, cultura, passione riformatri-
ce. Mi rispose con una grafia appena incerta: ti sono molto grato, ma forse esageri. Giolitti era così. Non esponeva mai medaglie. Nel ’56 uscì dalla «chiesa» comunista in modo netto ed elegante, il solo «eretico» a non diventare anti-comunista. Tuttavia il primo dei «libri bianchi» curati per Einaudi fu Qui Budapest di Luigi Fossati inviato dell’Avanti! (ancor oggi palpitante). Gli interessava elaborare idee per un socialismo rinnovato. Fondò Passato e presente. Leggevamo con passione Alberto Caracciolo, Franco Momigliano, Alessandro Pizzorno. Poi impresse una svolta culturale a Mondoperaio facendone un vero laboratorio riformatore (all’epoca «riformista» suonava flebile). Molti di quei giovani intellettuali furono con lui all’ufficio del Piano, nella difficile ma entusiasmante esperienza di governo: Ruffolo, Sylos Labini, Coen, Cafagna, Amato e tanti altri. Del ’67 è Un socialismo possibile, una delle rare riflessioni sullo Stato regionale in confusa gestazione. Inascoltata.
In pieno Midas, nel luglio ’76, col comitato centrale del Psi impantanato alla ricerca di un nuovo segretario, il suo nome venne portato dai sindacalisti socialisti (Marianetti, Benvenuto e altri) e dal gruppo di Mondoperaio. Anche Lombardi (i due si erano allontanati non condividendo Antonio le punte radicali di Riccardo) si disse pronto a votarlo. Fausto De Luca, Pansa, Scardocchia ed io gli assicurammo il sostegno dei primi giornali nazionali. Non se la sentì. Peccato. Sarebbe stato un gran bel segretario, moderno, socialista, europeo. Se «socialismo» torna a non esser più una brutta parola, con Giolitti bisognerà fare i conti. ❖

Repubblica 9.2.10
I valori dell’azionismo che mancano all’Italia
di Walter Veltroni

Caro direttore, la bellissima lettera scritta a sua figlia vent´anni fa e pubblicata ieri da Repubblica racconta innanzitutto che persona fosse Beniamino Placido, quale passione civile, quale modo di intendere la vita lo animassero. Ma questa lettera fa anche altro. Prende «un fatto antico», come lo definisce Placido riferendosi alla sua giovanile adesione al Partito d´Azione, e porta a riflettere sulla politica. Su quella di oggi, non solo su quella di ieri. Non starò a ripetere quel che è già noto e che le parole di Placido spiegano bene: cosa fu il Pd´A, quali erano le sue radici culturali, quanto grandi furono gli intellettuali e i dirigenti politici che ne animarono la breve esistenza. Non vorrei nemmeno indugiare sulle cause che ne segnarono la fine. Molto c´entra quel modo di essere «terribilmente astratto» degli azionisti di cui si parla nella lettera, quel non comprendere fino in fondo che le persone sono fatte anche di «ambizioni e interessi» e che è in base a ciò che in molti casi indirizzano il loro consenso.
Nel dopoguerra, non c´è dubbio che larghi strati della popolazione avvertissero prima di tutto il bisogno di certezze e di sicurezza, e che in tal senso a dare più garanzie erano i partiti di massa, i partiti «chiesa», grazie alla funzione di «riconoscimento» svolta dall´ideologia. Gli azionisti si presentavano in tutt´altro modo: non davano, ma chiedevano; non assolvevano, ma chiamavano tutti a un impietoso esame di coscienza e a fare i conti con il proprio passato (non era forse il fascismo «autobiografia della nazione» e non parentesi?); non concedevano di continuare a vivere allo stesso modo di sempre, aspettando che tutto venisse calato dall´alto da uno Stato caritatevole e indulgente, ma pretendevano uno sforzo di assunzione di responsabilità da parte di ogni singolo individuo, chiamato a domandarsi non solo quali erano i suoi diritti, ma anche quali erano i suoi doveri. Queste idee, questi obiettivi, non fecero presa, non potevano farcela, nell´Italia di quel tempo.
Ecco allora il punto su cui mi interessa soffermarmi: gli azionisti furono sconfitti, è un dato di fatto. Ma cosa ha significato, per questo Paese, la mancata affermazione non tanto del loro partito, quanto delle loro idee? C´è chi è molto netto: si è trattato solo di un piccolo partito, formato da intellettuali lontani dai problemi reali e animati da una sorta di intransigente furore moralistico, che non poteva durare se non lo spazio di un mattino, e anche la cosiddetta «cultura azionista» è stata sempre minoritaria, non ha mai inciso e quando lo ha fatto ha provocato solo danni. Io non sono assolutamente d´accordo. La penso anzi in maniera opposta. Non credo che in quel dato momento storico, con quei vincoli internazionali e quella condizione sociale e «psicologica» del Paese, se il Partito d´Azione fosse rimasto in vita la vicenda nazionale sarebbe andata molto diversamente. Questo no. Sono però convinto che a quella domanda su quanto abbia pesato il mancato affermarsi delle loro idee, la risposta debba essere secca: molto, ha pesato molto. Basta, del resto, elencarne alcune tra quelle di fondo: l´idea di una politica animata da una forte tensione etica, con una forte componente di moralità e di coerenza con i propri ideali; la convinzione che il gioco democratico non possa funzionare senza un chiaro, limpido e netto conflitto di idee e posizioni alternative; il senso vivissimo delle questioni dello Stato e del suo governo; l´assoluta necessità di istituzioni efficienti per dare stabilità al Paese e per far crescere nei cittadini il senso di appartenere a una comunità; il valore della legalità e della responsabilità; una costante attenzione al rapporto tra politica e società, da intendere in modo dinamico e biunivoco, dando spazio alle individualità e ai soggetti sociali, senza le chiusure tipiche di una concezione «professionale» della politica.
Ecco, al di là della vicenda «terrena» del Partito d´Azione, credo sia lecito pensare che una democrazia compiuta, una democrazia integrale, per essere veramente tale avrebbe avuto bisogno (ha bisogno) di comprendere al suo interno più di un elemento di quelli sostenuti dagli azionisti. Elementi che oggi si incontrerebbero e si fonderebbero con le culture del personalismo cristiano, della solidarietà, del comunitarismo, della sostenibilità dello sviluppo, di quella tensione alla giustizia sociale e alla correzione delle disuguaglianze che è scritta nel pensiero del riformismo socialista. Un incontro e una fusione che sarebbe quanto di più vicino alle moderne culture democratiche occidentali. E del resto non riesco a pensare sia un caso l´eterna «permanenza» dell´azionismo nel dibattito pubblico di questo Paese. E´ successo che i suoi nemici si siano fatti sentire, ad esempio, all´inizio degli anni Novanta, quando uscito di scena il Pci la cultura azionista fu attaccata per colpire, come scrisse Vittorio Foa, «quella sfera di pensiero che con qualche approssimazione si potrebbe definire progressista». E succede ancora oggi, quando l´innovazione e il riformismo provano a spingersi più avanti, verso il nuovo, e allora si ritrovano affibbiata l´etichetta negativa di «azionismo di massa». Si tratta, evidentemente, di tendenza alla conservazione, a percorrere strade note e apparentemente più sicure.
Ma a questo proposito la cosa più bella la scrive proprio Beniamino Placido, alla fine della sua lettera, quando a sua figlia dice che in fondo la vera essenza degli azionisti, lo spirito che non si è mai perso, e che continua a destare così tanti timori e resistenze, è «la voglia di volare». E cioè cercare, sperimentare, innovare, cambiare. «Provarci sempre, non cedere mai. Senza paura di fare. Senza paura di sbagliare». Rispettando le leggi di gravità, muovendosi consapevolmente nella realtà, con quell´opera di «artigianato ortopedico» che Placido descrive. E comunque con la voglia, con l´ambizione di volare. E´, d´altra parte, il senso di quel che scriveva lo stesso Foa in Questo Novecento: «L´idea di una politica che va oltre i suoi schemi, oltre i suoi stessi tentativi di definirsi, per cercare nell´agire di uomini e donne il pensiero che lo sorregge, per dare a esso e alle sue passioni un senso e una visibilità capaci di orientare l´agire comune, di tracciare un orizzonte generale. Questa idea non può essere cancellata da una o più sconfitte. Essa si ripresenta con contenuti diversi. Si ripropone anche adesso, quando la politica sembra astrarsi da ogni realtà, quando bisogna andare a cercarla nei luoghi dove può rinascere». E´ questa, ora come allora, la grande sfida di questo Paese meraviglioso e sfortunato. Rompere la corazza del conservatorismo, ovunque dissimulata, e avere il coraggio di un grande disegno, una visione che possa finalmente portare l´Italia fuori dai suoi eterni mali. Per me questo è stato e resta il grande compito dei democratici di questo Paese e del partito che con tanto colpevole ritardo si sono finalmente dati.

Corriere della Sera 9.2.10
La svolta di Togliatti aprì la strada agli Usa
L’ingresso del Pci nel governo Badoglio nel ’44 convinse gli americani ad impegnarsi per l’Italia
di Paolo Mieli

il Riformista 9.2.10
Bertinotti, la Tv e la politica
di Stefano Munafò

Da Fazio, a “Che tempo che fa”, Bertinotti ne ha parlato di nuovo. Lo aveva già fatto qualche giorno prima sul “Corriere”, in una bella intervista con Aldo Cazzullo: “E’ un mondo capovolto. Una politica irriconoscibile, un’informazione impazzita. Scoppia la prima rivolta razzista della storia italiana.. migliaia di operai perdono il lavoro.. il pianeta vive una crisi di sistema, e i giornali e la Tv si occupano soprattutto di gossip”. Un’ accusa durissima. Eppure dei salotti della Tv “capovolta”, l’ex leader di Rifondazione era stato un assiduo frequentatore. Il giudizio attuale di Bertinotti è dunque, anche, un’autocritica? Bertinotti è stato (ed è) un leader politico italiano “diverso”. Diverso non solo per la sua visione del mondo, ma per il linguaggio e lo stile. Unico leader ad assumere con coraggio le responsabilità della recente sconfitta. Anche per queste ragioni, può essere utile capire il suo rapporto con la Tv. Brutalmente: le 79 convocazioni da Vespa (di cui parla Cazzullo) lo hanno favorito o danneggiato? E’vero che Bertinotti in quel contesto ha sempre cercato di difendere le proprie idee. Ma nella percezione dello spettatore comune, spesso è più importante il “contesto” del ” testo”. La presenza costante in un contenitore a torto o a ragione etichettato come il talk berlusconiano per eccellenza, può essere apparsa come un fenomeno di omologazione. La tv tende a ridurre a sua misura chi la frequenta con assiduità. Il caso-Berlusconi, con la sua onnipresenza televisiva, non inganni. Lui non è usato dalla Tv ma la usa, in quanto la governa e la può condizionare. Il rischio di molti politici di sinistra non è tanto quello di apparire poco rispetto agli avversari, quanto quello di non apparire sufficientemente diversi rispetto a loro, anche per le presenze televisive. E poi non è affatto vero che la Tv sia il solo fattore determinante per gli esiti elettorali. Il Premier ha perso per 2 volte le elezioni stando al governo. Le ha vinte, dopo essere stato all’opposizione. Per fortuna contano ancora i vecchi “fattori materiali”. In Tv, comunque, l’inflazione precede quasi sempre l’usura. Ne tenga conto anche Vendola, il quale, dopo il successo alle primarie pugliesi, nella stessa serata di un lunedì è comparso contemporaneamente all’Infedele (in diretta) e a Porta a porta (in registrata). Lerner a un certo punto ha acceso uno schermo sulla trasmissione di Vespa, per sottolineare l’ubiquità di Vendola. Ha poi aggiunto: “a che serve?”

l’Unità 9.2.10
Italia contro Italia
Tra il 1943 e il ’45 il nostro Paese visse una vera guerra civile. Ma un libro dello storico Fabbri mostra come quel conflitto nacque molto prima
di Nicola Tranfaglia

G li anni che portano l’Italia dalla guerra al fascismo restano decisivi nella nostra storia sotto moli aspetti. Il nostro è il primo Paese in Europa a precipitare nella dittatura fascista dopo il trauma del conflitto mondiale e a veder crollare un regime liberale in un ordinamento autoritario in cui le libertà fondamentali degli individui, come dei gruppi sociali, sono negate e in cui lo Stato regola tutto, senza distinzioni. Fabio Fabbri, che a queste vicende ha dedicato numerosi lavori, ricostruisce in maniera analitica quegli anni per cogliere gli elementi economici, politici e culturali che preparano questo esito e lo generano in un cammino che ha inizio con la fine della guerra e si conclude un anno prima della marcia su Roma e della vittoria formale del movimento di Mussolini (Le origini della guerra civile. L’Italia dalla grande guerra al fascismo 1918-1921, Utet editori, pp. 712, euro 28).
Nella nostra storiografia, diversamente da quanto videro in quegli anni i contemporanei a cominciare dallo stesso Mussolini e da un pensatore come Antonio Gramsci, si è sempre parlato di guerra civile per il periodo 1943-45 in cui si contrapposero in uno scontro mortale i partigiani da una parte e i nazisti con i fascisti della Repubblica sociale dall’altra. Come Fabbri dimostra in maniera convincente, invece, le origini della guerra civile emersero molto prima, percorrendo poi tutta la prima parte del secolo ventesimo e vedendo scendere in campo gli industriali, la Chiesa cattolica, la monarchia e il movimento fascista contro operai e contadini che in quel momento rappresentavano con la piccola borghesia la maggioranza dei lavoratori.
Fabbri individua nel fallimento delle agitazioni terriere e operaie del 1919, come nella paura della rivoluzione bolscevica che aveva vinto in Russia, le cause profonde di quella rivoluzione preventiva che trovò in Mussolini e nel suo movimento, caratterizzato dalla violenza di strada, gli strumenti necessari per opprimere la maggioranza della popolazione italiana uscita dalla guerra con lutti e rovine e già dominata dalle regole del latifondo e della fabbrica, senza nessun potere e capacità di contare nel governo del Paese. Ma il movimento fascista ebbe, in quegli anni, la capacità di seguire un doppio binario: quello parlamentare sostenuto dai liberali nelle elezioni dell’aprile 1921 e quello della violenza, nelle campagne della pianura padana come nelle città del centro-nord, per conquistare l’egemonia politica e culturale, sotterrare l’alternativa democratica e socialista e avvicinarsi al potere nell’Italia liberale. A proposito della violenza, basta ricordare, per rendersene conto, le cifre dello scontro riportate da Fabbri. Nel ’21, dal 1 ̊ gennaio al 31 maggio, risultavano 202 vittime per opera dei fascisti e 1144 feriti mentre da parte della forza pubblica erano state uccise 44 persone e ferite 259: un totale dunque di 246 morti e 1402 feriti. Infine era evidente la sproporzione tra i 2240 socialisti e comunisti e i 102 fascisti. Lo aiutarono i comportamenti dei prefetti come dei giudici che si dimostrarono più sensibili alla difesa dello statu quo che a quella della giustizia sociale e dei principi dello Statuto Albertino. In quella crisi naufragò l’esperimento nittiano per molti aspetti contraddittorio ma anche quello giolittiano che cercò di addomesticare i fascisti e inserirli nel gioco parlamentare come se potessero diventare una forza normale, fallendo clamorosamente.
L’ora del fascio cadde nell’estate del 1920 e i fatti di Sarzana mostrarono che lo scontro tra le squadre dei fascisti e le forze dell’ordine non si risolveva sul piano militare ma su quello politico. In questo senso l’occupazione delle fabbriche, nel triangolo industriale del Nord, fu la goccia che fece traboccare il vaso e spingere gli industriali e le principali istituzioni a sferrare l’attacco decisivo contro le classi subalterne colpite dalla guerra. Lo scontro vide forze contrapposte tra la difesa della legalità e la sua violazione e armò le forze decise a un vero e proprio “colpo di Stato” che si sarebbe realizzato con la commedia della marcia su Roma. Non si trattò di un assalto al palazzo ma di una manifestazione folcloristica che coprì, per così dire, l’intensa trattativa tra il movimento armato e la monarchia che alla fine negò il decreto sullo stato d’assedio al Governo Facta e consegnò il potere al duce del fascismo.
Si dipanò così la fragorosa caduta dello Stato liberale in Italia, che altri Paesi, a cominciare dalla Germania di Weimar e all’Austria avrebbero seguito negli anni successivi, e di sicuro fu la guerra, come aveva intuito Sigmund Freud, l’agente fondamentale del trauma e della successiva crisi sociale e culturale.❖

l’Unità 9.2.10
Pedofilia, l’accusa del Papa: diritti violati anche da preti
di Roberto Monteforte

Dal Pontefice dura condanna per abusi compiuti «anche da uomini della Chiesa»
Difesa della famiglia: «Un ambiente sereno la migliore tutela per i minori»

Dura condanna per i preti pedofili, impegno della Chiesa per i diritti dei minori, difesa della famiglia tradizionale «che meglio li garantisce». Il Papa detta la linea e lancia un «vademecum» per le nozze religiose.

I diritti dei bambini sono stati violati anche da uomini di Chiesa. Sugli abusi sessuali su minori la Santa Sede continua a fare outing. Ieri papa Benedetto XVI ha rinnovato la sua denuncia ferma e intransigente contro i preti pedofili. «La Chiesa, lungo i secoli, sull’esempio di Cristo, ha promosso la tutela della dignità e dei diritti dei minori e, in molti modi, si è presa cura di essi. Purtroppo, in diversi casi, alcuni dei suoi membri, agendo in contrasto con questo impegno ha rimarcato -, hanno violato tali diritti: un comportamento che la Chiesa non manca e non mancherà di deplorare e di condannare». Lo mette in chiaro papa Ratzinger ricevendo in udienza i partecipanti dell’assemblea plenaria del Pontificio Consiglio per la Famiglia che ha avuto per tema proprio quello dei diritti dell’Infanzia. «Le dure parole di Gesù contro chi scandalizza uno di questi piccoli ha spiegato ancora il pontefice che ha già annunciato per le prossime settimane una lettera pastorale ai fedeli irlandesi dopo alcuni rapporti giudiziari su abusi compiuti da religiosi impegnano tutti a non abbassare mai il livello di tale rispetto e amore. Perciò anche la Convenzione sui diritti dell’infanzia è stata accolta con favore dalla Santa Sede, in quanto contiene enunciati positivi circa l’adozione, le cure sanitarie, l’educazione, la tutela dei disabili e la protezione dei piccoli contro la violenza, l’abbandono e lo sfruttamento sessuale e lavorativo». La Chiesa, quindi, non solo è impegnata a fare pulizia al suo interno,, ma è ben determinata a fare per intero la sua parte a tutela dei minori partendo dalla difesa della famiglia tradizionale fondata sul matrimonio.
IL DIVORZIO FA MALE AI BAMBINI
La separazione e il divorzio, ha spiegato, «non sono senza conseguenze per i bambini», mentre «sostenere la famiglia e promuovere il suo vero bene» è il «modo migliore» per tutelare i diritti dei minori. «Un ambiente familiare non sereno continua il pontefice -, la divisione della coppia dei genitori, e, in particolare, la separazione con il divorzio non sono senza conseguenze per i bambini, mentre sostenere la famiglia e promuovere il suo vero bene, i suoi diritti, la sua unità e stabilità è il modo migliore per tutelare i diritti e le autentiche esigenze dei minori». Benedetto XVI rinnova, ora da questo punto di vista, la sua critica verso le coppie non tradizionali di fatto e omosessuali. I bambini, ha ricordato, «vogliono essere amati da una madre e da un padre che si amano, complementari nell’educazione dei figli e nella costruzione della loro personalità e della loro identità». «È importante ha aggiunto che si faccia tutto il possibile per farli crescere in una famiglia unita e stabile» e, «a tal fine, occorre esortare i coniugi a non perdere mai di vista le ragioni profonde e la sacramentalità del loro patto coniugale e a rinsaldarlo con l’ascolto della parola di Dio, la preghiera, il dialogo costante, l’accoglienza reciproca ed il perdono vicendevole».
Perché questo avvenga diventa essenziale una adeguata preparazione al matrimonio religioso. Insiste Benedetto XVI che le scorse settimane ha invitato la Sacra Rota a stringere le maglie sugli annullamenti. Ha rilanciato la definizione di un «vademecum» che aiuti bambini, adolescenti e giovani alla preparazione del matrimonio cristiano.❖