domenica 14 febbraio 2010

Repubblica 14.2.10
Blitz a Fondi, che il prefetto voleva sciogliere per mafia
La Bonino avverte gli elettori "Pdl, candidati non trasparenti"
Accuse al senatore azzurro Fazzone, uno dei grandi elettori di Renata Polverini
di Giovanna Vitale

FONDI - «Credo che questa città abbia perlomeno il diritto alla speranza e alla fiducia». Quando Emma Bonino conclude il suo intervento all´auditorium di Fondi, il comune di centrodestra che il prefetto di Latina avrebbe voluto sciogliere per mafia, la platea esplode in un applauso. «Erano secoli che da queste parti non si sentiva parlare di legalità, regole, trasparenza», commenta una coppia di mezz´età venuta ad ascoltare la donna che, con tutte le sue forze, sta tentando di confermare il centrosinistra al governo della regione. «È una vita che mi batto per questo» ripete la pasionaria radicale a ogni tappa del suo tour alla conquista del basso Lazio, un´impresa viste le percentuali bulgare di cui gode il Pdl; alla guida, in provincia di Latina, di ben 27 municipi su 33.
«Ho un dossier alto così», dice Bonino a proposito del "caso Fondi", non è certo una coincidenza che sia arrivata sin qui, nel feudo del senatore azzurro Claudio Fazzone, l´uomo che più di tutti si oppose allo scioglimento del comune «infiltrato dalle ´ndrine calabresi», come accertato dai giudici e denunciato dal prefetto Frattasi. Ora lui non solo è uno dei motori del comitato Polverini: è pronto a candidarsi al consiglio regionale. Una scelta «politicamente biasimevole, io non lo metterei nelle mie liste», alza le spalle Bonino, «starà ai cittadini decidere se votarlo o meno». Punta sulla sua «diversità» e sulla «intelligenza degli elettori», la vicepresidente del Senato: «Spero che la gente non ne possa più di annunci e di promesse e voglia parole di serietà». Sconfortata ma non rassegnata. «C´è uno scadimento totale, non c´è più decenza istituzionale», ragiona alludendo allo scandalo che ha travolto la protezione civile. «O ci mettiamo in testa che le regole garantiscono tutti, mentre le deroghe e gli appalti su chiamata diretta premiano solo pochi, sempre gli stessi, oppure non abbiamo futuro. È impensabile chiedere ai cittadini di essere onesti quando chi governa è di una disonestà patente». Chiede di «cambiare mentalità e metodo», la candidata. «Siamo passati da popolo ad audience e poi da audience a plebe, chiamata a raccolta solo quando si deve votare con battute e barzellette già insopportabili al bar, figuriamoci se pronunciate dal premier». Perché «amministrare la res publica significa avere onori ma soprattutto oneri», vuol dire «organizzare servizi che rispondano ai cittadini non a lobby e potentati», esige «trasparenza». Per migliorare la sanità, aiutare «le persone fragili», dire «no al nucleare in tutto il Paese, non solo un po´ più su o più giù, magari in una regione non proprio amica: non sono Zaia per intenderci», opporsi alla «privatizzazione dell´acqua, come a Latina, dove costa più che altrove». Gestita da una società per azioni il cui presidente si chiama, guarda caso: Claudio Fazzone.

«i ratti ... non si ammalano come gli umani di depressione, ansia, sindrome bipolare»
Repubblica 14.2.10
Nel campus dei ricercatori Glaxo "La nostra vita sospesa senza lavoro"
Costa troppo fare ricerca sulle cure per le malattie mentali e troppe sono le incognite
di Roberto Mania

VERONA - «E´ la prima volta che vi parlo dopo la notizia che ha devastato il cuore e la mente di ognuno di noi e ha cambiato la nostra vita». Sono le 12 e 10 di venerdì quando Emiliangelo Ratti prende la parola nell´auditorium del Centro ricerche della GlaxoSmithKline alla periferia di Verona, ai bordi dell´autostrada Serenissima Milano-Venezia. Ad ascoltarlo c´è buona parte dei 550 ricercatori che vi lavorano. A Verona è giorno di festa: è il "Venerdì Gnacolor", l´antico carnevale con carri e maschere per il centro storico. Ma qui c´è un´altra atmosfera.
Ratti, jeans, camicia verdolina botton down con colletto sbottonato dal quale sbuca la canottiera bianca, è il capo della Divisione sulle Neuroscienze che la multinazionale britannica del farmaco (99 mila dipendenti nel mondo con un fatturato di circa 30 miliardi e utili in crescita dell´11%) ha deciso di chiudere entro l´anno. Costa troppo fare ricerca sulle cure per le malattie mentali e troppe sono le incognite legate alla sperimentazione, mentre gli azionisti vanno sempre remunerati secondo gli obiettivi. Per Big Pharma la malattia è un business come un altro. Si sa. E poi i generici stanno erodendo sempre più i margini di profitto. Per l´industria mondiale del farmaco è in atto una violenta ristrutturazione. Allora si chiude, se non c´è un ritorno sicuro sugli investimenti. In Italia, ma anche ad Harlow, a nord di Londra; e poi in Croazia, in Polonia, in Canada. Non si torna indietro. Ratti, che comanda anche a Harlow (2.400 persone), lo dice senza giri di parole ai suoi ricercatori, che da una settimana hanno la certezza - come lui, d´altronde - che saranno licenziati. Qui vengono da tutta Italia e da tutto il mondo. Ci sono 17 nazionalità: americani, indiani, coreani, egiziani, spagnoli, olandesi, francesi, tedeschi e altri ancora. Per oltre l´80% sono laureati: biologi, chimici, farmacisti. Il 20% circa è diventato una "coppia Gsk", cioè si sono sposati tra ricercatori e messo su famiglia. Questo è l´unico centro di ricerca integrata in Italia. Questo è un luogo di eccellenza. Il fiore all´occhiello di Verona dal 1990. Ma ora è un caso nazionale, per i posti di lavoro che salteranno, per gli effetti che avrà sull´indotto tradizionale (i fornitori di pipette, solo per fare un esempio) e quello soft (le università), per la perdita di valore in tutto il sistema produttivo.
Dal 4 febbraio, da quando Slaoui Moncef, direttore mondiale della ricerca della Gsk, "il marocchino" come lo chiamano per ripicca i ricercatori, ha annunciato che, «unfortunately», il Centro chiude i battenti, il Campus veronese (c´è anche un asilo per i figli dei dipendenti) vive una sorta di vita sospesa. Nessuno se l´aspettava. Qui c´è uno dei tassi di imprenditorialità tra i più elevati d´Italia, non le piccole aziende del nord-est ma le medie internazionalizzate del lombardo-veneto; qui la crisi è arrivata ma ha colpito meno che in altre zone, la cassa integrazione è cresciuta del 612% contro il 790% del Veneto; qui, prima della recessione, la disoccupazione non superava il 4%.
Ma queste cifre non cambiano i contorni del caso Glaxo. All´assemblea Ratti parla per poco più di mezz´ora. Dice che bisogna «avere il coraggio di guardarsi allo specchio». E da lì ripartire per il futuro, «senza la coperta arancione protettiva di Gsk». Insomma: ciascuno deve rimettersi in gioco sul mercato forte delle proprie conoscenze e della propria esperienza.
Prende la parola Davide e spiega che lui viene da Tivoli, che è stato sradicato e che, come altri, ha fatto propria la realtà di Verona. Ora non ha altra scelta: «Venderò la mia casa sulla quale ho un mutuo e andrò da un´altra parte. Il mio specchio l´ha rotto Gsk!». Applausi. Paolo è il responsabile delle Divisione Information Technology, parla di «catastrofe collettiva», dice di sentirsi dentro «un tunnel in cui non si capisce quale sia la realtà e quale l´illusione». Roberto ha 48 anni si domanda come si possa pensare al futuro «dal niente».
Luciana Romanelli lavora da 22 anni alla Glaxo. Cinquantenne di Ferrara, laurea in Biologia, è sposata con un ex ricercatore tedesco che la Glaxo ha licenziato nella precedente ristrutturazione: «Il 4 febbraio è stato il nostro "11 settembre". Una cosa indescrivibile. Sono stata due notti a piangere. Non ho pensato al futuro, non posso pensare che la ricerca chiuda. Questo della Glaxo era l´ultimo baluardo della ricerca applicata». Il marito della Romanelli ha 51 anni e non ha più trovato un lavoro. Ora tocca a lei cercarne un altro: «Nel mio campo, alla mia età, escludo di poter trovare una nuova occupazione. Siamo troppo, troppo specializzati. Mi adatterò al territorio».
La colpa dell´angoscia che si è impadronita del Campus qui a Verona è anche dei topi. Ma non è una battuta. E´ che i ratti (con la "r" minuscola) non si ammalano come gli umani di depressione, ansia, sindrome bipolare. Ratti la racconta, con passione dello scienziato, come «la scarsa predittività dei modelli animali». Questo è il problema per i ricercatori e per Big Pharma perché - dall´intuizione del ricercatore per arrivare poi alla pastiglia - ci vogliono 15-20 anni, almeno 1,3 miliardi di dollari e la probabilità di fallire è alta. Bisogna cambiare prospettiva: trovare i "marcatori" certi della depressione e degli altri disturbi della psiche. Ma forse non è proprio più tempo di ammalarsi delle patologie del benessere. Anche questa è la Grande Depressione, quella economica.

sabato 13 febbraio 2010

Repubblica 13.2.10
Domani incontro al femminile per la sfida nel Lazio. Tra le supporter anche Marchini e Finocchiaro
Il tifo di Mannoia, Filippi e Fendi la campagna della Bonino parte in rosa
di Chiara Righetti

ROMA - Poetesse, sportive, imprenditrici. Da Alessia Filippi a Piera Degli Esposti, da Fiorella Mannoia a Franca Valeri, sono diverse per età, storia personale, convinzioni le donne che hanno risposto alla chiamata di Emma Bonino. Un valore aggiunto che lei sottolinea, quando assicura che quella con la Polverini «sarà una sfida non volgare o insultante. Ma appassionante sì. Perché le differenze ci sono: a me è piaciuto iniziare la mia campagna al femminile». E aggiunge: «Mi daranno della vetero-femminista. Ma se il nuovo è quello che vediamo, ben venga se c´è qualcosa di antico».
Domattina a Roma, nella sala Umberto di via della Mercede, la voce narrante sarà quella di Daniela Poggi. Molti i volti noti sul palco e in platea. Quattro testimonial hanno affidato il loro sostegno ad un video: Simona Marchini, Alessia Filippi, la stilista Anna Fendi e la capogruppo Pd in Senato Anna Finocchiaro. In sala ci saranno, certo, politiche: parlamentari, assessore, consigliere. Ma anche molte rappresentanti della società civile. Forti delle loro battaglie, scelte in rappresentanza dei temi su cui la Bonino gioca il suo impegno per elezioni che - ha spiegato ieri mentre il Pd romano si spellava in applausi - saranno «più che mai politiche». Attesa quindi Elsa Marsili, mamma di un ragazzo disabile e fondatrice del centro "Insieme Uguali", ma anche Nadia Cerioli che porterà la voce dei precari dell´Ispra, e la docente universitaria Jacqueline Risset. E ancora: Margherita Granbassi, Luisa Rizzitelli, presidente del sindacato delle atlete, Marinella D´Innocenzo, che dirige l´Ares 118. E gli organizzatori danno per certo che ci saranno, un po´ defilate, anche diverse religiose, che pur se lontano dai riflettori hanno assicurato che non faranno mancare il loro appoggio.
Quanto al mondo della cultura l´elenco è davvero lunghissimo: l´attrice Giuliana Calandra e la poetessa Gemma Bracco, la scrittrice Ippolita Avalli e la regista Giovanna Gagliardo. Diverse le biografie, comune l´impegno per pari opportunità e diritti civili. Ecco quindi Donatella Maiorca, regista del discusso "Viola di mare", storia d´amore fra due donne nella Sicilia dell´800, a fianco di Lorella Zanardo, che ha raccontato in un documentario l´uso mercificato del corpo delle donne.
Intanto la sfida elettorale entra nel vivo: oggi Emma sarà a Fondi, il Comune pontino sciolto per infiltrazione mafiosa. Nei prossimi giorni due appuntamenti con Bersani, con cui mercoledì pomeriggio incontrerà i lavoratori dell´Acea. E il 22 il segretario del Pd sarà allo Spazio Eventi per presentare i candidati governatori del centrosinistra.

Corriere della Sera Roma 13.2.10
Pdl e Pd il giorno delle accuse rosa
di Alssandro Capponi
qui

l’Unità 13.2.10
Quando la scienza viene ignorata
Eluana e i cavalieri del miracolo
di Maurizio Mori

Al tempo della rivoluzione astronomica erano gli aristotelici che si rifiutavano di guardare nel cannocchiale di Galileo. Oggi, al tempo della rivoluzione bioetica, sono i vitalisti che si rifiutano di considerare i risultati dell’autopsia di Eluana, che ha confermato la distruzione dei centri nervosi necessari per provare dolore. Infatti, il direttore di Avvenire (9 febbraio, prima pagina) continua a scrivere della «dolorosissima morte di Eluana Englaro “per disidratazione”, cioè per sete – così ha certificato l’autopsia» – dove l’ultima clausola prova la faziosità nel dare informazione.
Un tempo i cattolici aristotelici dicevano chiaramente che la scienza era una diavoleria, oggi i cattolici vitalisti preferiscono farle un omaggio formale, per poi usare la retorica per riproporre la sana semplicità del vitalismo prescientifico contrapponendola ai «digrignanti sofismi» di chi dubita o nega le cose «così chiare» che sono «dentro di noi e nelle comunità di cui facciamo parte». Proprio come con Galileo, accusato di fare astrusi ragionamenti per negare il fatto più semplice del mondo: che il Sole gira intorno alla Terra! Proprio non cambia nulla ...
Più specificamente si afferma che «amare la vita umana, difenderla, sostenerla e comunque e sempre accoglierla e rispettarla è la cosa più semplice di questo mondo. E viene naturale». Parole che sembrano piane e condivisibili ma che in realtà sono fuorvianti, perché la scienza ha scomposto la “vita umana” cosicché chi è in Stato Vegetativo Permanente non tornerà mai più tra noi. Riproporre l’irenica semplicità del passato ora che le condizioni sono radicalmente mutate diventa un inaccettabile semplicismo che può avere effetti malvagi, perché si bolla subito come debole (o depravato) chi non riesce o non vuole fare la cosa che dapprima è presentata come la cosa che «viene naturale» e poi diventa però una «durissima prova», la quale è sopportata dalle famiglie coraggiose che capiscono che «l’amore aiuta i “miracoli”».
Ma insistere sul “miracolo” nel caso del Vegetativo Permanente è spargere illusioni e false speranze in impossibili ritorni. Dire poi che ora le macchine di Liegi trovano «la vita (spirituale o personale) anche nei “vegetativi”» è una forma di materialismo radicale che mostra i paralogismi cui porta il continuare a sostenere l’ormai obsoleto vitalismo.
È vero che i vitalisti sono ancora molti nonostante la dottrina sia ormai obsoleta. Le grandi svolte storiche richiedono tempo: la Chiesa ha impiegato 400 anni per riconoscere di aver sbagliato con Galileo. E molta gente continua a credere agli oroscopi, ai riti vodoo, alle nascite verginali e a tanti altri miti dipendenti da visioni obsolete. «È più facile spezzare l’atomo che un pregiudizio!». ❖

l’Unità 13.2.10
Il coraggio di cambiare le cose
La grande lezione di Basaglia: volere la luna
di Livio Pepino

Tra i meriti della bella fiction televisiva di Marco Turco dedicata a Franco Basaglia c’è il rilancio di una prospettiva che sembra passata di moda, anche a sinistra: quella del cambiamento (della sua possibilità e della sua necessità). Il messaggio vale per tutti: anche per chi quella prospettiva ha coltivato e praticato.
Nel 1979, a poco più di un anno dalla riforma che porta il suo nome, Basaglia, in un intervento che può essere letto in Conferenze brasiliane, disse parole allora sorprendenti: «La cosa importante è che abbiamo dimostrato che l’impossibile diventa possibile. Dieci, quindici, vent’anni fa era impensabile che un manicomio potesse essere distrutto. Magari i manicomi torneranno ad essere chiusi e più chiusi di prima, io non lo so, ma ad ogni modo noi abbiamo dimostrato che si può assistere la persona folle in un altro modo, e la testimonianza è fondamentale. Non credo che il fatto che un’azione riesca a generalizzarsi voglia dire che si è vinto. Il punto importante è un altro, è che ora si sa cosa si può fare». Oggi da quelle parole profetiche occorre ripartire. Sapendo che il cambiamento è possibile. Anche in una stagione difficile come quella che stiamo attraversando. Purché continuiamo a “volere, ostinatamente, la luna”.
Anni prima, mentre si preparava la chiusura dei manicomi, nasceva Psichiatria democratica e cominciava a dipanarsi una vicenda parallela, un’altra scommessa giocata sul crinale della trasformazione del sistema istituzionale in senso ugualitario. Riguardava, questa vicenda, la giustizia, la cui trasformazione cominciò ad essere considerata una possibilità reale e non «una nuova utopia per consentirci di sopportare il tipo di vita che siamo costretti a vivere» (per usare, ancora, parole di Basaglia). Era la vicenda di Magistratura democratica, che qualche anno dopo Giuseppe Borrè avrebbe sintetizzato in questi termini: «Perché è nata Md? Personalizzando un po’ potrei dire: perché sono entrato in Md? Credo che la risposta stia nello stretto e indissolubile intreccio di due ragioni complementari. Da un lato, il rifiuto del conformismo, come gerarchia, come logica di carriera, come giurisprudenza imposta dall’alto, in una parola come passività culturale; dall’altro, il sentirsi dalla parte dei soggetti sottoprotetti, e sentirsi “da questa parte” come giuristi, con le risorse e gli strumenti propri dei giuristi».
Sono passati gli anni. Con alti e bassi. Da ultimo, prevalgono i bassi. Ma, anzitutto, siamo ancora qui, Magistratura democratica e Psichiatria democratica e molti altri. E, poi, conosciamo la strada. L’importante è continuare a percorrerla, incuranti degli inviti al realismo di troppi “cattivi maestri”. ❖

Corriere della Sera 13.2.10
I malati di mente senza assistenza
di Mario Pappagallo
qui

l’Unità 13.2.10
Il bidone della scuola
La chiamano riforma ma si tratta di omicidio: lo dice un preside, lo pensano gli studenti. Intanto Sarkozy per uscire dalla crisi rafforza le universita
di Claudio Fava

Mettiamo che tra voi lettori ci sia un giovanotto da poco laureato in Lingue e Letterature straniere con un voto generoso, diciamo tra il 105 e il 110. Mettiamo ancora che conosca perfettamente inglese e francese, che abbia un diploma post laurea come esperto bibliotecario e che possa contare su una congrua esperienza maturata nell’organizzazione dei fondi bibliotecari. Mettiamo infine che abbia perfette conoscenze di biblioteconomia, bibliografia e storia delle biblioteche. E naturalmente che sappia usare tutti i programmi informatici necessari. Bene, se qualcuno di voi possiede questi titoli potrà partecipare a un concorso per la gestione della biblioteca della facoltà di Lingue con sede a Ragusa. Se i titoli verranno ritenuti idonei, se avrà sbaragliato la concorrenza e se supererà il colloquio d’ammissione, otterrà un incarico per sei mesi, dietro un compenso lordo complessivo di cento euro. Che, tolte le tasse, fa 13 euro al mese. Più o meno dieci centesimi di euro l’ora.
Il bando sta nel sito dell’Università di Catania, numero di riferimento 458. E non è storia isolata. Quando il ministro Brunetta parla dei bamboccioni che invece di andare a faticare vivono appesi alle gonne delle mamme, quando allude a un paese di pigri e imbelli, dovremmo chiedergli se il governo di cui è ministro è lo stesso che ospita la signora Gelmini. E se anche lui, Brunetta, ha condiviso i colpi di mannaia che il suo governo ha vibrato contro l’università e la ricerca. Qualche cifra? La sforbiciata al Fondo per il finanziamento ordinario delle università, operata dalla Finanziaria per il 2009, registra un taglio progressivo dai 702 milioni di euro nel 2010 agli 835 milioni di euro nel 2011. Il programma sistema universitario e formazione post-universitaria perde in un solo anno un miliardo e seicentoquarantasei milioni di euro. I fondi per borse di studio, i prestiti d’onore, i contributi per alloggi, residenze universitari e attività sportiva diminuiscono del 60%.
La ministra dice che i tagli servono a colpire gli sprechi, le cattedre inutili, i corsi fantasma, le aree di parcheggio universitario. Giusto. Peccato che queste sforbiciate abbiamo invece risparmiato le baronie, i califfati, le sacche di potere clientelare che si sono costruite all’ombra dei senati accademici nel corso dei lustri. Alla fine chi pagherà pegno sarà il laureato con titoli, eccellenze ed esperienza che si vedrà offrire tredici euro al mese per gestire una biblioteca universitaria. Non è né una riforma né una controriforma, commentava un preside di facoltà: è un omicidio che ha per vittima l’università e la ricerca.
Quando Sarkozy, presidente gollista, ha vinto le elezioni, il primo provvedimento che ha imposto al suo esecutivo è stato uno stanziamento ulteriore per la ricerca scientifica e l’università francese, un miliardo e settecento milioni in più. Il ragionamento suo e degli altri leader politici europei, di destra o di sinistra poco importa, è che un’uscita dalla crisi passa anche attraverso un investimento sulla qualità del nostro sapere, sugli strumenti cognitivi che metteremo a disposizione dei bamboccioni, su una ricerca scientifica adeguata a un tempo e a un mondo in cui crisi finanziaria e devastazione ambientale richiedono contromisure strutturali. E dove pensi di costruirle, queste contromisure, se non investendo nell’università, in un sapere applicato alle cose vere e concrete del mondo? Dove nasce la green economy, attorno alle macchinette del caffè alla Borsa di Milano o nelle aule universitarie che cercano e ricercano, sperimentano e inventano?
Noi invece i tagli preferiamo farli sulla pelle di quei ragazzi. Tredici euro al mese, e ringrazia che te li diamo. Altrimenti ti tocca fare come certi amici miei, eterni professori in attesa di cattedra, che per fare un po’ di punteggio sperando in una supplenza, vanno a lavorare gratis nelle scuole private. Alla fine del mese si troveranno una busta paga compilata alla perfezione, stipendio ministeriale, tredicesime, assegni familiari, ferie non godute, spese d’aggiornamento professionale, scatti d’anzianità, contributi, straordinario... ogni cifra al posto giusto. Peccato che dentro non ci sia un centesimo. Una patacca. Questo è un paese di patacche. Non contano le cose, ma il modo in cui si dicono o si vendono. Il bando di concorso per quell’incarico da tredici euro al mese ha lo stesso linguaggio alto e perentorio dei bandi di gara della Nasa. Loro vanno sulla luna, noi restiamo qui, a casa: a chiederci, leggendo di Bertolaso, quale sia la differenza tecnica tra l’andare a puttane con i soldi degli italiani e un massaggio privato per combattere lo stress. ❖

l’Unità 13.2.10
Primo Marzo
Che giorno, quel giorno Partecipiamo, per capire cosa saremmo senza loro

Mancano poco più di 15 giorni al 1 marzo, quando si punteranno i riflettori sulla condizione degli immigrati in Italia. Nell’idea degli organizzatori, la giornata dovrebbe essere un’occasione di riflessione sul ruolo sociale, economico e culturale degli immigrati nelle famiglie, nelle aziende, nelle scuole, nelle relazioni interpersonali. Una riflessione su cosa sarebbe il Paese senza di loro e su cosa poter fare perché cresca la consapevolezza da parte dei residenti di quanto la presenza straniera possa costituire un fattore di progresso.
Giorno dopo giorno, l’organizzazione di questa iniziativa si è arricchita di adesioni da parte di associazioni di italiani e di stranieri su tutto il territorio nazionale. Forse per la prima volta, insieme italiani e stranieri.
Dai dibattiti ai pranzi per la raccolta di fondi agli incontri con le comunità straniere. Da Palermo a Bolzano, da Roma a Monza, da Milano a Genova, da Sassari a Trino: sono ormai decine le città italiane coinvolte nell’iniziativa e in ognuna di esse si moltiplicano gli incontri di preparazione per quella giornata. Il calendario delle singole iniziative è disponibile sui siti primomarzo2010.it e su italiarazzismo.it, dove troverete anche l’elenco delle associazioni che hanno già aderito, la descrizione delle diverse forme di appoggio decise da alcuni sindacati, la mappa dei comitati locali che continuano a formarsi e tutti i dati utili per contribuire alla realizzazione di questa iniziativa.
L’invito è quello di partecipare, ciascuno nei modi che riterrà più opportuni, recandosi a un incontro, parlando con un lavoratore straniero, compiendo un atto di amicizia nei loro confronti. Ah, a proposito: il colore di quella giornata è il giallo.

Repubblica 13.2.10
Martin Walser "Vi racconto l’ultimo amore di Goethe"

A 73 anni, Goethe s´innamorò della diciannovenne Ulrike von Levetzov, conosciuta nella cittadina termale di Marienbad. Lo scandalo provocato dalla grande differenza di età non lo trattenne dal chiederne la mano, incaricando di farlo per suo conto l´amico e protettore Karl August di Sassonia-Weimar. Questa storia di amore e passione del grande poeta tedesco, che su quell´incontro scrisse la sublime Marienbader Elegie, è il tema dell´ultimo romanzo di Martin Walser, 83 anni, ed è subito chiaro che lo scrittore racconta Goethe e allo stesso tempo se stesso.
Che cosa l´affascina negli amori in cui c´è una grande differenza di età?
«Ho scritto quattro romanzi su questo tema, ma in un caso era la donna anziana ad amare un giovane uomo. E in quel caso i critici, parlo soprattutto di critici donne, furono benevole, apprezzarono molto. Parlo delle stesse che poi hanno stroncato i romanzi dove il più vecchio era l´uomo con parole che non si dimenticano: "moralmente, biologicamente e esteticamente inammissibile", hanno scritto. È così che ho finito per scrivere questo romanzo, dove la differenza di età è perfino superiore a tutto ciò che avevo scritto in precedenza, ma il protagonista è Goethe, e perciò i critici hanno taciuto, anzi hanno lodato, e questo me lo lasci dire, è un po´ strano: con Goethe ve bene ciò che con gli altri protagonisti dei miei romanzi era scandaloso. Comunque le garantisco che il tema ora per me è chiuso. Oltre Goethe e Ulrike non si va».
Walser è quello che i tedeschi chiamano un Rechtshaber. Non rinuncerebbe mai a una polemica. Come Michael Kohlhaas, protagonista di una famosa novella di Kleist, finirebbe sulla forca piuttosto che spostarsi dalle proprie posizioni. Per sua fortuna invece che sulla forca la vis polemica lo ha portato a scrivere il suo più bel romanzo, Un uomo che ama.
Ma ancora non ci ha spiegato il fascino di questi amori...
«È quello di essere amori infelici. Né potrebbe essere diversamente quando c´è una grande differenza di età. L´evidente disposizione all´infelicità e il fatto che tuttavia accadano è ciò che li rende degni di essere raccontati. Una storia d´amore riuscita è noiosa. Per me poi c´era anche un altro interesse, quello di misurarmi con le famose parole di Goethe secondo cui l´arte permette sempre di superare il dolore. Scrivendo si può venire a capo di passioni, tormenti, sofferenze. È questo il tema del suo ultimo grande romanzo, Wilhelm Meisters Wanderjahre (Gli anni del pellegrinaggio di Wilhelm Meister). Questa espressione culturale del classicismo tedesco è però assolutamente falsa. Perciò m´interessava smentirla. Il mio è un Goethe che soffre. Così è nella realtà. Mentre si scrive ci si sente forti, ma non appena finito di scrivere siamo deboli come prima».
Quando sono i veri momenti di felicità per Goethe?
«Con Ulrike ha molti momenti di felicità, per esempio si parlano e lui ha l´impressione di non aver mai potuto parlare con qualcuno come con Ulrike. È felice, ma la felicità non dura. In tedesco esiste la parola Ungluecksglueck, nessuna felicità è pura felicità».
L´amore è il più grande mistero della vita, canta Salome nell´opera di Strauss. Altri dicono la morte. Quale dei due misteri la occupa di più in questo momento?
«Morte è una parola di cui non ho esperienza. Della parola morire ne ho di più, nel senso che tutto quello che si può dire sulla realtà del morire è assolutamente sbagliato. Nessuno si prepara a morire, anche se ognuno di noi da una certa età in poi fa finta di farlo. Ho visto morire mia madre, che era una cattolica fervente, ma la fede non l´ha aiutata per niente. Morire è stato brutale per le come per un non credente».
Lei è religioso?
«Sto lavorando in questo momento a un libro dal titolo Muttersohn, figlio di madre: il protagonista è uno cui la madre è riuscita a far credere che per la sua procreazione non c´è stato bisogno di un uomo. L´azione si svolge a Roma, l´uomo va a vedere la Madonna dei Pellegrini di Caravaggio, un suo antenato aveva scritto un libriccino sul fatto che le reliquie non devono essere necessariamente vere per operare miracoli, basta che ci si creda. Crediamo sempre molto di più di quanto sappiamo».
Sua figlia Alissa ha scritto un romanzo, in cui i critici sentono "il tono letterario del padre", il famoso Walser sound. Che effetto le fa?
«Il sound del padre, che stupidaggini».
E a proposito di figli, lei si è rifiutato di commentare le recenti dichiarazioni di Jakob Augstein, il quale ha rivelato di essere in realtà figlio suo e non del famoso giornalista e fondatore dello Spiegel. Le sarebbe piaciuto fare l´esperienza di crescere un figlio maschio?
«No per carità. Sono felice di aver avuto quattro figlie e credo che questo abbia attenuato ogni possibile conflitto. In un´intervista con un giornale Alissa ha detto di recente: "Sono contenta di non essere un figlio", e credo che abbia perfettamente ragione».

l’Unità 13.2.10
La foto più bella dell’anno? L’ha scattata un italiano a Teheran

«Ero chiuso in casa: troppo pericoloso uscire. Ma ogni sera, dai tetti delle case saliva la protesta contro il regime: ho voluto documentare le emozioni, le paure, ma anche la speranza della gente di Teheran». Pietro Masturzo è l’autore dello scatto che ha vinto il World Press Photo nella categoria «Foto dell’Anno», e spiega così come è nata l’istantanea che lo ha collocato sul podio più alto del premio di fotogiornalismo più prestigioso al mondo. La foto premiata , scattata in seguito alle presidenziali iraniane del 12 gennaio, raffigura alcune donne che sui tetti delle case di Teheran continuano a gridare la loro protesta. Masturzo, appena trentenne, da soli tre anni avviato nella professione di fotografo freelance, appena arrivato in Iran è stato arrestato: «Mi avevano visto scattare foto durante le manifestazioni dei sostenitori di Moussavi e fui arrestato perchè ero entrato con il solo visto turistico».

venerdì 12 febbraio 2010

Repubblica 31.12.09
Il dottor Hester la signora Anna e l'elogio della follia
di Oliver Sacks

QUANDO udiamo la parola "manicomio", siamo portati a pensare a posti orribili, fosse di serpenti straboccanti di squallore, miseria, brutalità. La maggior parte è oggi chiusa e abbandonata. Ricordiamo con un brivido di terrore quei poveretti che un tempo erano costretti a vivere in simili posti. È dunque salutare ascoltare la voce di una paziente, una certa Anna Agnew, giudicata malata di mente nel 1878 - da un giudice, non da un medico - e rinchiusa nell' Ospedale per malati di mente dell' Indiana. Anna venne ospedalizzata dopo diversi tentativi di uccidere se stessae uno dei suoi figli. Anna si sentì sollevata quando le porte dell' ospedale si chiusero dietro di leie trasse sollievo dal fatto che la sua malattia era stata riconosciuta. Come lei stessa lasciò scritto: «Dopo solo una settimana di soggiorno nell' ospedale, avvertivo un senso di appagamento quale non sentivo da più di un anno. Non perché mi fossi riconciliata con la vita, ma perché avevano capito il mio stato mentale, ed ero trattata di conseguenza. Ero circondata da altri nelle mie condizioni, turbati e confusi, e mi ritrovai a provare interesse per le loro miserie, il mio senso di simpatia umana si risvegliava. Al tempo stesso, ero trattata come una donna malata, con una gentilezza che nessuno mi aveva mostrato prima di allora. Il dottor Hester fu la prima persona abbastanza gentile da rispondere alla mia domanda: "Sono matta?", "Sì signora. Lei è pazzae molto ...".E continuò: "Ma vogliamo aiutarla in ogni modo, e la nostra speranzaè che questo posto possa farlo"». Il vecchio termine per indicare gli ospedali per malati di mente era in inglese "lunatic asylum", e "asilo", nella sua accezione originaria, significava rifugio, protezione, santuario. A partire dal IV secolo dell' era Cristiana, i monasteri e le chiese erano luoghi d' asilo. A questi si aggiunsero gli asili laici, creati, come Foucault ha suggerito, utilizzando le strutture ormai inutili dei lebbrosari per ospitare gli indigenti,i criminaliei malati di mente. Nel suo famoso libro Asylums, Erving Goffman li classificava tutti- ospedali religiosi e laici, manicomi e ospizi - come "istituzioni totali", luoghi dove la distanza tra il personale e i degenti era immensa, dove rigidi ruoli e altrettanto rigide regole impedivano ogni forma di solidarietà e di simpatia, dove i ricoverati erano privati dell' autonomia, della libertà e della dignità, ridotti a numeri senza volto o identità. Negli Anni 50, quando Goffman conduceva le proprie ricerche presso l' ospedale St. Elizabeth di Washington, le cose stavano proprio così, almeno nella maggior parte dei manicomi. Eppure, non erano queste le finalità che si erano prefissi quei filantropi e bravi cittadini che avevano fondato i primi manicomi in America, tra gli inizi e la metà del XIX secolo. In mancanza di trattamenti specifici per la malattia mentale, il "trattamento morale" veniva visto come l' unica alternativa possibile: ci si occupava dell' individuo nel suo insieme, come espressione di una potenzialità di salute fisica e mentale, e non solo di quella parte del suo cervello che sembrava non funzionare. I primi manicomi statali erano spesso veri e propri palazzi con soffitti alti, finestre grandi e giardini, dove l' aria e la luce non mancavano, si faceva molto esercizio fisico e il vitto era variato. Molti manicomi erano autosufficienti, e coltivavano gran parte delle risorse che consumavano. I pazienti lavoravano spesso nei campi o nelle stalle e il lavoro era considerato come una cruciale forma di terapia, oltre che di sostentamento. Il senso di comunitàe la solidarietà erano importanti, vitali per i pazienti, che si sarebbero altrimenti sentiti isolati nei loro mondi mentali, vittime delle loro ossessioni e allucinazioni. Parimenti cruciale era il riconoscimento e l' accettazione del loro stato da parte del personale e degli altri pazienti. Infine, per tornare al termine originario di "asilo", questi ospedali fornivano ai pazienti controllo e protezione, sia dai loro stessi impulsi (omicidi o suicidi che fossero) sia dal ridicolo, dall' isolamento, dalle aggressioni o dagli abusi che spesso subivano nel mondo esterno. Gli asili fornivano una vita protetta e certo limitata, una vita semplificata e ristretta, ma all' interno della struttura protettiva godevano anche della libertà della loro follia, di attraversare le proprie psicosi ed emergere, a volte, dal baratro come persone più stabili e sane. Col tempo, i manicomi statali divennero piccole città. Pilgrim State, il manicomio di Long Island, ospitava circa 14.000 pazienti. Era inevitabile che i grandi numeri e le scarse risorse facessero allontanare i manicomi statali dagli ideali delle origini. Già alla fine dell' Ottocento erano diventati sinonimo di squallore e abbandono, spesso amministrati da burocrati inetti, sadici e corrotti, una situazione che si è prolungata sino alla metà del XX secolo. Il movimento di anti-istituzionalizzazione dei malati di mente, un rivolo negli Anni 60, divenne un fiume in piena negli Anni 80, anche se era sempre più chiaro che le buone intenzioni stavano creando problemi gravi quanto quelli che intendevano risolvere. In molte città, l' enorme popolazione di "psicotici del marciapiede" era una drammatica dimostrazione di come mancassero cliniche psichiatriche e centri di accoglienza, o infrastrutture capaci di occuparsi delle centinaia di migliaia di pazienti che erano stati allontanati dai manicomi statali. Le medicine antipsicotiche che avevano favorito il processo di deistituzionalizzazione si rivelarono meno miracolose di quanto si fosse sperato. Erano certo in grado di affievolire i cosiddetti sintomi "positivi" della schizofrenia: allucinazioni e deliri psicotici. Ma a poco servivano per porre rimedio ai sintomi "negativi" - l' apatia e la passività, la mancanza di motivazioni e la capacità di rapportarsi agli altri - che spesso erano più pesanti dei sintomi "positivi". Agli inizi degli Anni 90 divenne chiaro a tutti che ci si era sbagliati, che la chiusura dei manicomi era avvenuta troppo in fretta, senza che si fossero attivate strutture alternative. Non c' era bisogno di chiudere tutti i manicomi. Occorreva invece farli funzionare: mettere mano all' affollamento, alla mancanza di personale, porre fine all' abbandono e alla brutalità. L' approccio farmacologico, sia pur necessario, da solo non bastava. Ci eravamo scordati degli aspetti positivi degli "asili", o forse non volevamo più sborsare soldi per tenerli aperti; per dare ai pazienti spazi e senso di comunità, un posto per lavorare e giocare, per apprendere un mestiere e imparare a vivere insieme - quel rifugio sicuro che i manicomi statali delle origini intendevano offrire. Qual è ora la situazione? I manicomi ancora aperti sono pressoché vuoti, e la popolazione dei pazienti consiste essenzialmente di malati cronici che non rispondono più a nessun trattamento farmacologico, o di individui talmente violenti che non possono essere lasciati liberi. La grande maggioranza dei malati di mente vive fuori dalle strutture ospedaliere. Alcuni restano in famiglia e si servono di supporto ambulatoriale nei momenti di crisi, altri vivono in residenze aperte: strutture che garantiscono al paziente una certa libertà e autonomia, pur provvedendo alle necessità terapeutiche. Esistono anche, negli Stati Uniti, delle comunità residenziali che si rifanno in parte alle comunità terapeutiche degli "asili" dell' Ottocento e offrono ai pochi che vi vengono ammessi un' assistenza completa. Ne ho visitate alcune, e ho ritrovato quel che c' era di meglio nei vecchi manicomi statali: un forte senso di solidarietà, delle opportunità di lavoro e spazi di creatività, il rispetto per gli individui. Il tutto unito a quanto di meglio la psicoterapia e i trattamenti farmaceutici possono offrire oggi. Purtroppo, strutture simili sono rare, e possono ospitare qualche centinaia di pazienti, a fronte dei milioni che negli Stati Uniti soffrono di malattie mentali. I pazienti che sono ammessi debbono contare sul supporto finanziario delle famiglie, visto che in media la degenza costa intorno ai 100.000 dollari l' anno. Gli altri - il 99 per cento di malati privi di risorse adeguate - debbono accontentarsi di cure insufficienti e rinunciare al proprio potenziale di vita. L' Alleanza nazionale dei malati di mente fa quel che può, ma i milioni di malati di mente restano ancor oggi la parte più esclusa e la più abbandonata della nostra società. Eppure è chiaro che persino la schizofrenia nonè necessariamente una malattia che inesorabilmente peggiora (anche se ciò può verificarsi). In circostanze ideali, e con risorse adeguate, anche persone molto malate, quelle che vengono classificate come senza speranza, possono vivere una vita produttiva e degna. La versione integrale di questo articolo comparirà nel numero di gennaio 2010 della Rivista dei Libri (Traduzione di Pietro Corsi)

Repubblica Roma 12.2.10
La polemica Alemanno: "Sono d'accordo con Renata". Mazzoli: "Annuncio elettorale". Bonelli: "Una balla atomica"
Polverini: "Il nucleare non ci serve" Bonino: "Poteva dirlo al premier"
di Chiara Righetti

«RITENGO che nel Lazio non ci sia bisogno di nuove centrali». Dopo l'"outing" online sulle coppie di fatto, Renata Polverini sceglie di nuovo il suo blog per far scoppiare, è il caso di dirlo, un'altra "bomba" elettorale. Forse stanca dei manifesti che chiedono "Il Pd dice no al nucleare. E la Polverini?", si affida al suo diario sul web per spiegare: «In tempi rapidissimi il Lazio diventerà energeticamente autosufficiente e in pochi anni andrà in surplus, esportando energia in altre Regioni». Quindi Una presa di posizione, arrivata dopo settimane di "Devo pensarci, stiamo lavorando al programma", che fa esultare un anti-nuclearista della prima ora, il deputato Fabio Rampelli: «Inattaccabile. Nel Lazio non si faranno centrali. Sono così soddisfatti tutti coloro che da venti giorni cercano di provocarla su questo tema». «Scopro adesso che la Polverini non vuole centrali nel Lazio. È fantastico. Poteva dirlo ieri sera a Berlusconi, magari sarebbe stato contento», è la reazione di Emma Bonino. Che aveva denunciato, all'indomani dell'approvazione in consiglio dei ministri del decreto legislativo in materia, «un'operazione opaca e centralista. Una strategia in cui il governo da una parte si guarda bene dal dare, prima delle elezioni, indicazioni sui siti scelti per le centrali. Dall'altra finge di coinvolgere le Regioni, salvo poi scavalcarle». Il tema, in mesi di campagna elettorale per tredici Regioni su venti, è più che mai scottante. Come dimostra l'equilibrismo (solo ieri, a "Repubblica Tv") del sottosegretario con delega all'Energia Stefano Saglia: «Non si fa un impianto di questo tipo se la Regione non è d'accordo». Non ci sta il presidente dei Verdi Angelo Bonelli, che definisce la presa di posizione della Polverini «una balla atomica». E aggiunge: «Ieri a cena con Berlusconi si dichiarava d'accordo col cavaliere.
Oggi, in evidente difficoltà rispetto all'opinione pubblica, e con un'ipocrisia che rasenta la vergogna, dice no alle centrali nel Lazio».
Mentre «la sua maggioranza vuole il nucleare a tutti i costi ed è ormai certo che la prima centrale sarà a Montalto di Castro». Pure il coordinatore della campagna elettorale Milana rileva la stranezza di un no «comunicato all'indomani della cena con Berlusconi: una volta tanto il premier poteva ascoltare una barzelletta invece di raccontarla». E il segretario regionale Pd Mazzoli fa notare che, «come gran parte dei candidati di centrodestra (da Zaia a Formigoni, ndr ), la Polverini è contraria alle centrali, ma solo nella propria Regione. Una presa di posizione tardiva e elettorale». Mentre un altro viterbese antinuclearista doc, l'assessore all'Energia Giuseppe Parroncini, si domanda «se questa convinzione rispecchi il pensiero della coalizione che in questi giorni (con esponenti importanti come Robilotta, Desideri, Ciocchetti ed altri), rivendica con forza il contrario». È bufera, al punto che la portavoce Lorenzin si sente in dovere di precisare: «Nessun dietrofront, semplicemente una valutazione sui bisogni del Lazio». Intanto però nel tamtam sul web l'annuncio di Renata comincia a fare effetto: «Finalmente» esulta Alessandro, «Grande Renata», gli fa eco Ornella. Anche se Nick avverte: «Non basta dire "Il nucleare nel Lazio non serve"! Occorre dire che il nucleare nel Lazio non ci sarà di sicuro! Così si perdono le elezioni». Perfino Alemanno nel pieno del consiglio comunale straordinario su Acea non riesce a evitare un «Sono d'accordo».
E ai consiglieri dell'opposizione che fanno notare che un sindaco non può schierarsi apertamente con un candidato replica: «Vorrà dire che presto la inviterò come presidente della Regione Lazio».
Oggi la Polverini sarà in giro fra mercatie cliniche del II municipio.
Per la Bonino attesa alle 18 al Teatro Vascello l'apertura ufficiale della campagna elettorale Pd con Montino e Zingaretti.

l’Unità 12.1.10
I sondaggi premiano De Luca e Bonino
Bersani: «Ora combattere»
di Simone Collini

Franceschini sulla Bonino: «Avrei fatto una scelta diversa». E sull’Udc: «Inaccettabile la strategia di Casini». Ma il leader del Pd chiede ai suoi «ottimismo e combattività»: «Posizione lineare del Pd, non è il caso di sollecitare dubbi».

«Il centrodestra può anche fare di tutto per nascondere la realtà del Paese, ma non ce la farà a invertire una tendenza che ormai si fa sempre più chiara». Pier Luigi Bersani critica il regolamento sulla par condicio partorito dalla commissione di Vigilanza Rai: «Bisogna ristabilire un minimo di decenza». Ma è convinto che nonostante furbizie e censure, le regionali riserveranno più di una delusione a Berlusconi. «Alle regionali gli italiani hanno l’occasione per dire al governo che così non va», dice. E i sondaggi riservati mostrati ieri ai vertici del Pd da Nando Pagnoncelli sembrano confermare questa sua convinzione.
SONDAGGI POSITIVI
Oltre alle cinque regioni date per praticamente certe (Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Basilicata e Marche), il Pd è in crescita nel Lazio e in Campania, con Emma Bonino e Vincenzo De Luca che sono avanti nei consensi rispetto a Renata Polverini e Stefano Caldoro. Certo, in entrambe le regioni la coalizione di centrosinistra è dietro, seppur non di molto, quella di centrodestra. Ma per quanto riguarda il Lazio, si scommette sul fatto che con l’avvio della campagna elettorale di Emma Bonino, oggi al teatro Vascello con anche Nicola Zingaretti, oltre ai consensi personali aumenteranno anche quelli per i partiti che la sostengono. E, per quanto riguarda la Campania, ancora non è scontato che l’Udc corra col Pdl: «Caserta dice Nicola Cosentino circa le mire dei centristi alla presidenza di quella Provincia è un fatto locale e non può incidere sulle alleanze elettorali che riguardano la presidenza della Campania».
Il Pd registra, così come Bersani registra che i sondaggi appena arrivati al Nazareno danno il suo fronte avanti anche in Liguria, dove Claudio Burlando può contare su una coalizione che va da Rifondazione all’Udc, e in Puglia, dove i centristi vanno da soli con Adriana Poli Bortone e di fatto facilitano la corsa di Nichi Vendola.
BERSANI CHIEDE AI SUOI COMBATTIVITÀ
Un quadro che fa dire a Bersani: «Adesso è il momento della combattività e dell’ottimismo». Un messaggio rivolto soprattutto ai suoi. Che il leader del Pd lancia nel giorno in cui Dario Franceschini dice tra l’altro due cose (oltre che «con i dati delle europee avremmo vinto sette regioni», contrariamente a quel che dice Bersani, che ha più volte difeso la politica della alleanze sostenendo che il Pd da solo, stando al risultato delle europee, «vincerebbe in tre sole regioni»). E cioè che non avrebbe scelto la Bonino nel Lazio («Io avrei fatto una scelta diversa», fa sapere il capogruppo del Pd alla Camera) e che rispetto all’Udc si debbono mettere dei paletti: «Si possono fare accordi caso per caso, ma seguire la strategia di Casini e dichiarare chiusa la stagione della chiarezza delle alleanze sarebbe inaccettabile». Bersani, ai giornalisti che lo incontrano al Nazareno, ribadisce che per lui la Bonino è «una fuoriclasse» e l’importanza di lavorare per «accorciare le distanze» con tutti gli altri partiti di opposizione per rendere il centrosinistra «competitivo» alle regionali: «Dal congresso in poi ho sempre detto la stessa cosa: sì al bipolarismo, no al bipartitismo. I paletti me li metto io, non ci sono dubbi sulla posizione lineare del Pd e non credo sia il caso di sollecitare dubbi».❖

l’Unità 12.1.10
Una visione solo legalitaria mortifica la politica. A volte la difesa di un diritto può anche voler dire violare la legge. Pannella lo ha dimostrato
Immacolati e pregiudicati
di Luigi Manconi

La scena, vista nel corso di Annozero, è istruttiva: l’uno di fronte all’altro, Niccolò Ghedini, avvocato e parlamentare del Pdl, e il giornalista Marco Travaglio. Il primo accusa il secondo di essere un “pregiudicato” in quanto condannato per diffamazione; il secondo sventola il proprio Casellario giudiziario che definisce “immacolato”, privo cioè di condanne. Ghedini, a sua volta, risponde che quel documento non riporta le sentenze di primo grado, che sarebbero state inflitte a Travaglio. Pertanto, il match si conclude alla pari, e il pubblico pagante mostra di non apprezzare quello che Gianni Brera chiamava “il risultato perfetto”, ovvero lo 0 a 0.
Quello scambio solleva un quesito: e se, invece, Travaglio avesse una condanna definitiva? Forse che, solo per questo, sarebbe meno titolato a muovere le sue accuse all’avversario? Per me, ovviamente no: e per qualunque serio garantista, ma anche per chiunque consideri la lotta politica altra cosa rispetto ai “mattinali di questura”, e al “Forum” del non dimenticato Sante Licheri. È piuttosto lo stesso Travaglio, coerentemente con la propria ideologia, che dovrebbe considerarsi interdetto dal poter muovere accuse, in caso di condanna definitiva: o meglio già al momento in cui ricevesse un’informazione di garanzia. Cosa che io ritengo un abominio giuridico, mentre è Travaglio a considerarlo un fattore di legalità. Si dirà: ma i giornalisti che coltivano una concezione sostanzialista del diritto non sono rappresentanti del popolo, per i quali ultimi sarebbe richiesto un surplus di prudenza e maggiore rigore politico-giudiziario. Non è così per tre ragioni: perché l’azione pubblica può comportare atti amministrativi tali da determinare indagini della magistratura; perché l’attività politica può indurre alla violazione di regole e norme, e quando non è motivato da interesse privato, bensì da una buona causa – ciò non è meritevole di riprovazione morale; perché chiunque può essere vittima di un errore giudiziario.
Da settimane, mi capita di scrivere a favore della candidatura di Vincenzo De Luca alla presidenza della Campania: sia perché l’interessato non ha finora riportato alcuna condanna, sia perché ha sempre indicato nella necessità di difendere il posto di lavoro di 200 operai la motivazione dei reati imputatigli. Il quotidiano Il Fatto risponde: “è una superballa” e racconta come in quelle vicende giudiziarie trovino posto interessi personali e clientelari di un gruppo di potere, che farebbe capo a De Luca. Ma questa è la tesi dell’accusa. Tuttavia, ciò che più mi colpisce è che tutte le critiche rimandino a quella condizione di “indagato”. E a ciò si limitino. È, alla lettera, una abdicazione della politica: e, infatti, a De Luca, non viene contestato ciò che andrebbe contestato, e che io contesto. Ovvero l’aver assunto, in più circostanze, posizioni di destra (sulla sicurezza, sull’ordine pubblico, sull’immigrazione...). Ne risulta confermato che una impostazione tutta e solo legalitaria porta esiti paradossali: riduce l’azione pubblica alla sola dimensione giudiziaria, sacrifica le domande di diritti e di libertà a un tetro richiamo all’ordine, mortifica la politica a un cupo conflitto tra opposti casellari giudiziari. Ma proprio nel momento dell’apparente trionfo, si consuma il fallimento del giustizialismo, al punto che il suo tonitruante alfiere – Antonio Di Pietro – vi deve rinunciare per un momento senza alcuna spiegazione esauriente: sulla base di un calcolo politicistico. Esito malinconico, ma prevedibile di una cultura politica tutta fondamentalmente di destra: non a caso, Di Pietro assicura che se De Luca non rispetterà il patto sottoscritto, dopo Mani Pulite vi sarà “Mani tagliate” (si dirà: è solo una metafora ironica, ma possibile che non gli venga mai in mente qualcosa di diverso dal più truce linguaggio sbirresco?).
Torniamo a quel “pregiudicato”. Ad esempio Marco Pannella e altri militanti radicali sono stati condannati in via definitiva per aver distribuito derivati della canapa indiana. Qualche giorno fa un giudice di Avezzano ha autorizzato la somministrazione gratuita di farmaci a base di cannabinoidi a un malato di sclerosi multipla. Ma chi fa politica non avrebbe dovuto sentire il dovere, ancor prima di quella ordinanza, di violare la legge per tutelare il diritto alla libertà di cura per quel malato?
Intanto, Di Pietro viene criticato da De Magistris che viene criticato da Travaglio che viene criticato da Grillo che viene criticato da Sonia Alfano e più in là, sullo sfondo, un corrucciatissimo Elio Veltri... giova ripeterlo: c’è sempre un puro più puro che epura. ❖

l’Unità 12.1.10
La «par condicio» allargata costa 3 milioni alla Rai
A tanto ammontano i ricavi pubblicitari delle trasmissioni azzerate dalla Vigilanza
Incontro tra Zavoli eNapolitano. Bonino in controtendenza: «Non è un bavaglio»
di Natalia Lombardo

Zavoli da Napolitano ipotizza le dimissioni. Il presidente Rai in Vigilanza col mandato del Cda mostra i punti critici: 3 milioni il danno per la Rai. Calabrò, Agcom, attende modifiche. Mediaset vuole regole per sé.

L’Era glaciale dell’informazione sta per completare il suo avvento, e negli studi di AnnoZero infiamma, ancora per poco, la battaglia. Anche tra Emma Bonino e Francesco Storace (che mostra il simbolo) sulla gestione della sanità nelle regioni. Michele Santoro ha virato la puntata di ieri sul bavaglio che il regolamento sulla par condicio impone ai talk show dal 28 febbraio. E offre un «piccolo assaggio» della tv senza politica: Berlusconi che racconta del nipotino che canta «Meno male che nonno c’èèèè». O risponde a Vespa che gli chiede: Come festeggerà San Valentino? «Manderò mail a tutte le mie fidanzate».
LE PERDITE DELLA RAI
Sono 21 ma, con le varie puntate arrivano fino a 50, i programmi che passano dall’informazione alla «comunicazione» senza mediazione giornalistica. Con una perdita di entrate pubblicitarie per 3 milioni di euro, una mazzata sui sofferenti conti Rai. Il direttore generale Masi ha incaricato il vice, Antonio Marano, di riscrivere il palinsesto secondo le norme della Vigilanza. La chiamano «simulazione» da presentare alla commissione, un rebus che sarà sbrogliato martedì.
Molto critico Pierluigi Bersani: «Sono norme assurde, non capisco perché ci siamo messi in questa situazione», e si augura che venga «ridotto il danno, perché di danno si tratta, e tocca i profili di libertà». Nello stile radicale, invece, per Emma Bonino «non è un bavaglio», semmai «le regole evitano che ci sia la giungla» nei programmi tv. Una divergenza che, nell’entourage del segretario Pd assicurano non influirà sulla campagna elettorale.
ZAVOLI MEDITA LE DIMISSIONI
Il primo ad essere preoccupato è il presidente della commissione di Vigilanza che ha affidato quel regolamento al radicale Beltrandi (che minaccia lo sciopero della fame). Sergio Zavoli ieri ha chiesto e ottenuto un incontro con Napolitano, altrettanto preoccupato. A lui ha avanzato l’ipotesi di dimettersi se non riuscirà a modificare il regolamento, ma il Capo dello Stato lo ha invitato a resistere e a lavorare per «soluzione che passi attraverso un ripensamento della maggioranza, con il concorso dell’opposizione».
Nel tentativo di riparare il danno Zavoli ha convocato i vertici Rai nell’ufficio di presidenza: il presidente Paolo Garimberti a nome di tutto il Cda e con il Dg Masi (più rigido) ha illustrato le «criticità» anche incostituzionali che la norma comporta: sul piano «giuridico» perché «in conflitto con la legge sulla par condicio», divieto ribadito dalla Consulta; sui palinsesti e per «il danno economico»; terzo, «l’autonomia del lavoro giornalistico»; infine perché il pubblico «non può vedere solo tribune elettorali». Nella stessa riunione a San Macuto è stato accolto anche Corrado Calabrò, il presidente dell’Authority per le Telecomunicazioni, che aveva scritto a Zavoli. Il Garante Agcom deve stilare le stesse regole per le tv private. Pressato da Mediaset che, nonostante i vantaggi negli ascolti, pretende di non avere gli stessi limiti della Rai. Calabrò ha preso tempo, ha varato solo la parte del regolamento fino al 28 febbraio. Sul nodo black out aspetta le mosse della Vigilanza. Qui il Pdl si è mostrato appena meno rigido «siamo passati dallo scontro al confronto», si rincuora Zavoli. Ma la disponibilità è solo sull’applicazione delle regole, non sul cambiare il testo.
Garimberti ieri ha mostrato «i canini, vedete? sono scesi». Altro che «passività» di cui è stato accusato da Santoro, «sono irritato».
Rifiuta «compromessi o trattative» e annuncia uno sciopero bianco: la Rai non toglierà le patate dal fuoco alla Vigilanza: «Devono cambiare loro e non noi. Ma se resta così, la Rai applicherà alla lettera le regole sulla par condicio».
Garimberti poi ha incontrato i conduttori a Viale Mazzini: Annunziata, Floris e gli altri, con Natale della Fnsi e Verna dell’Usigrai che conferma lo sciopero. Assente Vespa (stava registrando), Paragone (altrettanto critico) era a Milano e Santoro al lavoro. Gran parte di loro non vogliono offrire la sponda (quelle «trattative sugli ospiti» che teme Annunziata): Masi si assuma la responsabilità di cambiare i palinsesti, ma se non sappiamo cosa dobbiamo fare non ci muoviamo.❖

il Fatto 12.2.10
Tv politica, politica tv
di Furio Colombo

Sapevo quel che Marco Bertrandi, il Radicale solitario, stava cercando di fare alla Commissione di Vigilanza, muovere i pezzi del gioco e i voti di destra e sinistra della Commissione e uscirne facendo sbattere gli uni contro gli altri e, alla fine, niente più politici in tv. Niente programmi di approfondimento, solo tribune politiche, noiose, ma non truccate, non umilianti. Precisazione. Non sto dicendo che so cosa avrebbe fatto Bertrandi. Non ne abbiamo mai parlato e mi dispiace un po’. Sto dicendo – e ho provocato non poco dissenso in questo giornale e in tutta l’opposizione – che sono d’accordo sul risultato di questa operazione. Sto dicendo che condivido il giudizio netto e negativo sui cosiddetti programmi di approfondimento. Sto dicendo che la politica italiana, povera e vuota e smarrita com’è ai nostri giorni, non perde nulla senza Gasparri in video tutte le sere con debita controparte di partito avverso. E noi, tutti insieme, quel che resta della sinistra o comunque dell’opposizione democratica a Berlusconi, come possiamo ridurci a dire che senza “Porta a Porta” non c’è libertà? E’ vero, siamo il paese in cui ogni politico di buon nome si metterebbe in fila per presentarsi volontario alla decima o undicesima presentazione di un libro di Vespa le cui “anticipazioni” hanno già segnato e sviato sei mesi di politica italiana. E’ vero anche che abbiamo una fortuna in più. La sola tra tante circostanze negative: Berlusconi non scrive libri, al massimo distribuisce albi floreali di famiglia tipo Kim Il-sung. Ah, e c’è un’altra circostanza fortunata: Berlusconi non accetta confronti o dibattiti con altri esseri umani. Tollera solo, per i suoi monologhi, direttori di giornali di clausura, due ore e non una parola. Così non abbiamo il programma di approfondimento del premier e non siamo costretti a rinunciarvi. Tra le circostanze meno fortunate c’è un’abile manovra combinatoria. Non so se esista una formula matematica. Ma un giro fisso di dieci-dodici teste parlanti compare la stessa settimana nel giro di tutti i “programmi di approfondimento”, quelle teste e non altre, da sempre e per sempre. Abbiamo detto tante volte che in Italia i politici nazionali eletti sono troppi. Diciamo mille? Eppure soltanto dieci-dodici di essi hanno facoltà di parola, non in base a criteri giornalistici e a libere scelte professionali. No, esclusivamente in base alle gerarchie e scelte interne di partito. Qualcuno crede che, in America, siano il Partito repubblicano o il Partito democratico a dire alle reti Usa chi devono intervistare? Da noi non si sgarra mai. Nel GR3 del mattino viene chiesto a Daniele Capezzone di spiegare la giornata politica e al senatore Latorre di aprire una finestra sui democratici. Poi la giornata continua così, con pochi cambiamenti simmetrici. E così continua la settimana e poi il mese. Finché la sera, ogni sera, compaiono tutti insieme. La politica comincia e finisce lì. Direte: c’è “Annozero”. Giusto. Appezzo e sostengo. So, naturalmente che “Annozero” ha un forte punto di vista e approvo. Vengo da un paese – gli Stati Uniti – in cui una sola intervista condotta da un giornalista considerato “amico” ha liquidato l’ambizione di candidatura presidenziale di Ted Kennedy. Un paese dove è toccato ai giornalisti dire a George Bush, faccia a faccia, ciò che molti cittadini pensavano e pensano della guerra in Iraq e che molti politici non hanno mai osato dire. “Annozero” è un programma robusto. Ma ha i suoi invitati politici, ospiti semifissi, ora l’uno, ora l’altro, a volte in coppie dosate in modo da parare i colpi del regime. E adesso, con una certa angoscia, cominciamo a notare l’infiltrazione del politico dentro il bellissimo Tg3 della notte. La sera dell’anniversario di Eluana Englaro quel nuovo, intelligente Tg aveva in studio il senatore Quagliariello. Avete letto bene, amici democratici dei programmi di approfondimento, il senatore Quagliariello. Credetemi, le tribune politiche, con divieti di arbitraria esclusione dei candidati, sono noiose ma meno umilianti.

Liberazione 11.2.10
Riccardo Iacona: «Chiudere giornali e programmi è assurdo e incostituzionale»
di Laura Eduati


Riccardo Iacona esce furente dalla conferenza stampa della Fnsi al Senato. Un incontro che non è riuscito a calmare gli animi. Anzi. La Federazione nazionale della stampa lancia l'allarme rosso. Alla conferenza sono accorsi giornalisti come Michele Santoro e Milena Gabanelli. Non soltanto per capire la faccenda dei tagli all'editoria: sul piatto, questi giorni, è piombato anche il divieto di mandare in onda talk-show politici come Porta a Porta , Ballarò , In mezz'ora e Annozero fino alle regionali, decisione della Commissione di vigilanza della Rai.

Il Parlamento ha paura delle trasmissioni che parlano di politica?
Questo è un provvedimento gravissimo e orribile. Bisogna capire bene quello che stanno facendo: cancellano delle trasmissioni per un mese intero, proprio alla vigilia delle elezioni ovvero quando gli italiani hanno il bisogno di informarsi. Non era mai accaduto prima.

E' la solita ingerenza della politica nella Rai?

Non è ingerenza, è abuso di potere. Speriamo che nelle prossime ore il direttore generale dell'azienda chieda di sospendere la decisione della Commissione di vigilanza. Marco Beltrandi (deputato Pdl, ndr) è arrivato a dire che, se vogliono, Santoro e compagnia possono anche andare in onda ma senza parlare di politica. Di questo passo possono chiudere anche Report , la mia trasmissione ( Presa Diretta , ndr), e tutti quei programmi di inchiesta che, bene o male, parlano anche di politica in senso lato.

Non bastava la par condicio?

A me non piace la par condicio, ma sono convinto che i conduttori dei talk show sanno come gestire le trasmissioni in periodo elettorale. Questa è una "par cancellazione".
Siete pronti, voi conduttori non colpiti dal provvedimento, a manifestare solidarietà a Floris, Santoro e Vespa?

Ecco, nemmeno Vespa è d'accordo con la Commissione di vigilanza. Comunque certo, siamo solidali con loro e pensiamo alla mobilitazione. Per lo scioperò, però forse arriviamo tardi perché bisogna indirlo con due settimane di anticipo. Poi mi chiedo: chi pagherà i costi industriali di questa scelta? La Rai ha investito soldi su questi programmi, un mese di sospensione provocherebbe anche un danno economico. Ora il sindacato sta valutando ricorsi legali.

I tagli ai fondi per l'editoria sono un altro pericolo per la libertà di espressione?
Chiudere giornali è sempre sbagliato. Anche se bisognerebbe mettere ordine e dare i contributi ai giornali che davvero escono in edicola e non sono il paravento per dare uno stipendio a qualche direttore.
Questo, infatti, chiedono le testate storiche...

E' demenziale e incostituzionale chiudere giornali, e soprattutto bisognerebbe stigmatizzare questo uso politico dei contributi. Dobbiamo aprire gli occhi su quello che sta succedendo. Possiamo rischiare di alzarci una mattina e non poter più vedere Santoro, Floris, la Gabanelli?

C'è sempre Matrix su Canale 5...

C'è anche questo problema da risolvere.

Repubblica 12.2.10
Nel "milleproroghe" salta il "diritto soggettivo" a ottenere i fondi pubblici Il caso
Giornali, contributi a rischio "Così soffocano cento testate"
di Aldo Fontanarosa

ROMA Giovedì nero per i giornali di partito, per le testate no profit e le cooperative editoriali. Da giorni, il governo prometteva di rendere sicuri i contributi a questo settore grazie a una norma salvagente. Era tutto deciso: la norma sarebbe stata innestata nel decreto "milleproroghe" all'esame del Senato. Ieri però il decreto è passato con 160 voti a favore, 119 contrari e 2 astenuti senza avere a bordo alcun salvagente. Il governo ha blindato il testo con la richiesta di fiducia; ed ora lo trasferisce alla Camera senza modifiche.
La correzione promessa, e poi dimenticata, avrebbe restituito all' Unità, al manifesto, ad Avvenire, al Secolo d'Italia un diritto davvero cruciale. I tecnici lo chiamano "diritto soggettivo". Fino al 2009, il diritto soggettivo permetteva ai giornali di chiedere alle banche l'anticipo degli aiuti, in attesa del pagamento effettivo da parte dello Stato. Pagamento che, in genere, tarda un anno.
L'ultima Finanziaria, l'anno scorso, di colpo ha cancellato questo diritto soggettivo e il "milleproroghe" adesso non lo reintroduce come invece si sperava. Erano dunque giustificate le prime pagine che alcuni giornali hanno dedicato al caso ieri mattina, in vista del voto del Senato. Ieri l'Unità ha titolato, con amarezza: "Ultime notizie". Il manifesto ha annunciato che i suoi giornalisti saliranno sul tetto in difesa della libertà di informare, come fanno centinaia di operai in tutta Italia per le loro aziende in crisi.
«Salire sui tetti dice il deputato Giuseppe Giulietti,a nome dell'associazione Articolo 21 sarà un gesto necessario.
Dopo aver votato tante norme in favore delle aziende del premier ironizza la maggioranza dimentica di votare quelle in favore di preziose aziende editoriali». Giovanna Melandri del Pd ricorda che le notizie cat tive non sono finite: i contributi al settore altra novità rischiano di ridursi a 130 milioni, a causa della crisi. Questi tagli e la mancanza del diritto soggettivo «causeranno la chiusura di 100 testate pronostica il senatore Vincenzo Vita, sempre del Pd e la perdita di 4000 posti di lavoro». «Il disegno aggiunge Claudio Fava di Sinistra Ecologia e Libertà è tutto politico. Vengono colpite testate indipendenti che, nella maggior parte dei casi, sono contrarie a questo governo». L'associazione delle cooperative giornalistiche (Mediacoop) ricorda che il ritorno al diritto soggettivo, non accolto nel "milleproroghe", era sostenuto in realtà da senatori di tutti gli schieramenti. Eppure non è andato a buon fine.
Mediacoop parteciperà alla riunione che il sindacato dei giornalisti (la Fnsi) convoca sulla questione per il 15 febbraio. La speranza è che la Camera faccia quello che il Senato ha negato ieri, correggendo il "milleproroghe". Altro treno possibile per dare stabilità ai contributi-è un decreto per lo sviluppo annunciato dal ministro Scajola, ma ancora fermo in stazione.

l’Unità Lettere 12.2.10
Le famiglie dei pazienti psichiatrici
Molto romantico e commovente il suo commento a proposito di Franco Basaglia. Peccato che nella realtà ci siano migliaia di malati di mente che non vengono curati per niente e vengono abbandonati alle loro famiglie, che sono senza gli strumenti necessari, quando non direttamente responsabili di quelle malattie.
Paolo Izzo
Risponde Luigi Cancrini:
Franco Basaglia non ha mai negato la malattia mentale. Ha detto che l’ospedale psichiatrico la rendeva invisibile sovrapponendo ai sintomi i danni dell’esclusione e dell’emarginazione. La cura, diceva, deve essere portata avanti fuori dall’ospedale con l’aiuto delle famiglie che (la fiction lo mostrava bene) all’inizio fu dato per scontato e che andava costruito invece con pazienza, con umiltà e con mezzi adeguati. Ne discussi a lungo con lui quando venne a trovarci nell’università dove tentavamo di aiutare la famiglia di un ragazzo autistico e credo che si sarebbe battuto con noi e con tanti altri, se avesse vissuto di più, perché il diritto al sostegno e alla cura delle famiglie. La letteratura ci dice che il lavoro con le famiglie è lo strumento più importante nel prevenire le ricadute e le ospedalizzazioni dei pazienti affetti da un disturbo schizofrenico. «Al di là dei ricordi suggestivi lei scrive la malattia rimane» ed io sono d’accordo anche se curarla e alleviarla è assai più facile oggi che ieri. Dobbiamo solo fare di più e di meglio sul territorio in cui, al tempo di Basaglia, le cure non esistevano.

Quella che segue è la versione inegrale della lettera inviata da Paolo Izzo
La follia e la pazzia
Caro Luigi Cancrini,
molto romantico e commovente il suo commento a proposito di Franco Basaglia e i "folli" (l'Unità di oggi, 10 febbraio). Va bene: è tempo di anniversari, di celebrazioni, di ricordi... Peccato che nella realtà ci siano migliaia di malati di mente che non vengono curati per niente e vengono abbandonati alle loro famiglie, che sono senza gli strumenti necessari, quando non direttamente responsabili di quelle malattie. Bello e utopistico sarebbe che il malato di mente conoscesse una volta in vita sua un folle psichiatra o un artista, che trasformino la sua pazzia almeno in follia, ma generalmente non è così. Lei dovrebbe saperlo bene. E, al di là di leggi romantiche e ricordi suggestivi, la malattia mentale rimane, incurantemente incurata. Come la "follia" di chi la nega.

il Fatto 12.2.10
Protezione civile
Perché i potenti hanno bisogno delle prostitute?
di LucaTelese

E cco, per esempio quando leggi questa in-
tercettazione: “Sono Guido, buongiorno... Sono atterrato in questo istante dagli Stati Uniti, se oggi pomeriggio, se Francesca potesse... Io verrei volentieri, una ripassatina”. Ecco, proprio quando leggi queste parole: come mai non ti viene mai in mente che si riferiscano a una “massaggiatrice di mezza età”, come ha provato a spiegarci con la sua proverbiale genialità inventiva Silvio Berlusconi? Perché resti perplesso quando Bertolaso ti racconta di “una grande professionista che mi aiutava a risolvere quell’enorme stress dal lavoro che facevo?”. Perché persino il nome dell’imprenditore che fa da intermediario – Anemone – assume una sonorità da teatro plautino, una suggestione da tragedia greca, da maschera grottesca? Poi di contorno arrivano altre figure mitologiche: le brasiliane, le vergini rallegratrici, persino qualche mediatrice che riaffiora dall’immaginario arcaico del Cacao meravi-
gliao. Se quello che i magistrati ipotizzano fosse vero, se le risate sciacallesche sulle macerie e sui cadaveri non sono un incubo, la domanda che ritorna, ancora una volta è: perché il potere ha questo frenetico bisogno di infilarsi dentro il letto del sesso mercenario? C’è qualcosa che si ripete sempre uguale, da qualche anno a questa parte: donne pagate, donne offerte, donne (ma se serve anche trans e uomini) usate come benefit, come antistress, come carne da macello. Inchiesta di Vallettopoli, anno di grazia 2006. Un certo Giuseppe chiama il portavoce del ministro degli Esteri: “Ti mando Stella: piccola ma carina. Compatta. Come una Smart. 22 anni. È roba fresca”. Altra telefonata.
Il direttore delle risorse umane della Rai, Giuseppe Sangiovanni parla di Maria Monsè: “Una bella Porcella”. E poi la trans Natalie che racconta gli incontri di Piero Marrazzo con Brenda: “Era una cosa a tre, io non andai”. Estate 2009, il sistema Tarantini. Dalle indagini risulta che una escort Terrì De Nicolò, è pagata per prostituirsi con gli amici di
“Gianpi”. Sia con il vicepresidente della regione Puglia Sandro Frisullo (di centrosinistra) sia a Palazzo Grazioli. A Frisullo la casa la offre – gentilmente – un collaboratore: un territorio amico. Negli altri casi ecco i centri benessere, che diventano subito le nuove oasi ristoratrici della contemporaneità.
È un cerchio strano che si chiude ogni volta. Il tarantinismo, ben prima di Patrizia D’Addario (leggersi il suo Gradisca presidente per credere) restituisce una nuova vita alla figura del procacciatore, e all’idea della preda sessuale che viene consegnata al sovrano già doma.
Allora la prima domanda che ti fai è: perché i potenti ci dovrebbero stare? Quale bisogno soddisfano, e quale debolezza scandagliano le arti dei procacciatori? Molti ripetono l’argomentazione difensiva prediletta: “Ma come! Sono uomini così belli e desiderati, che bisogno hanno di una prostituta?”
E invece un bisogno c’è. Hai sempre fretta, sei terribilmente stressato, hai pochi tempi morti nell’agenda del palmare. Devi riempirli appena si liberano. Non devi lasciare tracce. Non devi avere implicazioni sentimentali, strascichi. Non devi accendere una relazione con una figura autonoma, che confligge con la famiglia di riferimento, che spesso – anche in contemporanea – deve essere impegnata nella rappresentazione della drammaturgia istituzionale. Escort è una parola più comoda, asciugata al senso etimologico: la scorta, l’estrema protezione del segreto, la corroborazione curativa del corpo. Non più il corpo del politico, il sottosegretario, il presidente. Ma il capo, il sovrano che deve ristorarsi.
Se è così, però, il capo-semidio, non può sporcarsi le mani con il denaro. Non può distruggere il sogno mettendo mano al portafoglio. Il ruffiano che paga, diventa essenziale perché cancella la traccia e il senso di colpa. Perché ricostruisce l’illusione del dono sessuale-votivo offerto al principe in virtù del suo carisma. La Protezione virile si sostituisce a quella civile. Meno male che ci sono le intercettazioni: ancora per un po’ Anemone resta un cognome, e non un mito.

Repubblica 12.2.10
La tesi nel libro di Hamerow uscito ora da Feltrinelli
“Gli Alleati non fermarono l’Olocausto”
di Massimo L. Salvadori

La memoria dell'Olocausto e le sue celebrazioni portano periodicamente la coscienza dei posteri a confrontarsi con le colpe dei carnefici nazisti e delle forze che con essi collaborarono nello sterminio degli ebrei d'Europa. Sennonché, con il passare del tempo, la memoria è andata scavando, ancora parzialmente, in un'altra direzione: quella che nella tragica vicenda tocca le responsabilità degli Stati in guerra con la Germania, dei loro governi, di gran parte delle popolazioni e persino di settori assai influenti dell'ebraismo al loro interno. Il libro dello storico statunitense Theodore S. Hamerow, Perché l'Olocausto non fu fermato.
Europa e America di fronte all'orrore nazista, tradotto presso la Feltrinelli, non è il primo a sollevare il coperchio di questa vicenda, ma al suo chiarimento porta un importante contributo.
Dopo aver distinto tra l'antisemitismo "segregazionistico" di matrice religiosa e sociale e l'antisemitismo "sterminatore" del Terzo Reich, l'autore si sofferma sulle radici che resero possibile a quest'ultimo di conseguire con tanto successo le proprie finalità. Si vorrebbe vedere rafforzata la tesi di una follia omicida nazista isolata, contrastata con determinazione al di fuori dei confini del dominio hitleriano. E invece la storia è tutt'altra, ed è una brutta storia. Se a Pio XII vengono attribuite pesanti responsabilità, egli si trova in compagnia di Roosevelt, di Churchill e di Stalin, i «tre grandi» della coalizione antinazista, e di coloro che li circondavano. Se il Papa fu il primo ad essere investito da un'onda polemica non ancora esaurita alimentata dall'accusa di non aver gridato la sua condanna nel nome di Cristo contro la «soluzione finale» per il timore di incontrollabili reazioni da parte nazista, ora va montando l'onda che investe i governi e i popoli i quali, mentre levavano alta la bandiera della democrazia e dell'umanesimo, non fecero per fermare l'Olocausto quello che avrebbero potuto ovvero fecero soltanto ciò che consentiva un realismo politico che anzitutto si misurava con il diffuso antisemitismo presente con diversa intensità a tutti i livelli nei paesi democratici occidentali, nell'Europa centro-orientale e nell'Unione Sovietica. Si trattava di un antisemitismo che andava dal sotterraneo disagio per la «diversità ebraica» a quello acuto e palese di quanti convinti che gli ebrei ricchi costituissero una élite subdolamente dominante e i poveri una componente sgradevole, insomma un corpo rimasto estraneo anche là dove la legislazione gli ebrei aveva formalmente emancipato.
Quando la Germania nazista mise in atto a partire dal 1933 le leggi contro gli ebrei prima che avesse inizio lo sterminio di massa, i governi occidentali respinsero le pressioni per aumentare le quote di immigrazione degli ebrei rispetto agli altri perseguitati non razziali; quando, a guerra iniziata, si diffusero in maniera crescente le notizie sulla caccia agli ebrei e sulle uccisioni di massa, prima si stentò a credere e poi si mise loro la sordina; e quando, dopo il 1942, il piano di sterminio divenne certo al di là di ogni dubbio, continuò a prevalere la scelta di non voler fare i conti con l'«unicità» della persecuzione omicida nei confronti degli ebrei. Entrò allora in ballo un Leitmotiv condiviso dai governi britannico, americano e sovietico: la necessità politica di non conferire alla guerra contro la Germania il carattere di una lotta diretta a privilegiare la salvezza degli ebrei rispetto a quella degli altri gruppi oppressi al fine di non avvalorare la propaganda dei nazisti secondo cui i governi loro nemici erano effettivamente manovrati dai primi. E ciò fu alla base anche del rifiuto di distogliere dal comune sforzo bellico forze da dedicare specificamente al bombardamento della rete ferroviaria e delle strutture che alimentavano il traffico dello sterminio: una scelta ci dice l'autore che si ritenne non sarebbe stata condivisa anzitutto dai militari i quali avrebbero dovuto esserne gli esecutori. E la linea di non voler far apparire la guerra una crociata a favore degli ebrei fu sostenuta da influenti settori delle élites ebraiche, a partire da quella americana. La soluzione all'Olocausto questa la posizione prevalsa sarebbe venuta dalla vittoria finale della coalizione antinazista! Scrive in proposito l'autore: «I governi alleati dovevano fare i conti con un notevole livello di antisemitismo nei loro stessi paesi. La gente tendeva ad attribuire il crescente sacrificio di vite e risorse alle abili manovre dietro le quinte dei finanzierie dei politici ebrei. Le autorità governative dovevano stare attente a non fare nulla che potesse alimentare questi sospetti popolari. Soffermarsi troppo sull'Olocausto avrebbe probabilmente peggiorato la situazione».
Parole, queste, pesanti come macigni. Poi venne il dopoguerra. Alla «questione ebraica» in Europa avevano posto fine i nazisti per via criminale, l'emigrazione e la nascita di Israele. E dopo di allora la memoria dell'Olocausto è stata celebrata con molta commossa solidarietà e compassione umana verso gli ebrei: quella che era troppo mancata tra il 1933 e il 1945. Celebrata sì,

il Fatto 12.2.10
Il sangue degli oppositori dietro il velo del regime
Manifestazioni in tutto l’Iran per l’anniversario della rivoluzione
di Mauro Mauri

La celebrazione odierna per il 31° anniversario della Rivoluzione Islamica è andata come molti immaginavano. Il black out sulle informazioni impedisce di avere riferimenti certi sul numero dei manifestanti: fin da ieri a Tehran il servizio sms era bloccato mentre internet viaggiava a rilento, con l’impossibilità di inoltrare filmati.
Dunque dall’Iran sono usciti quasi esclusivamente le gioiose immagine degli uomini del regime che celebravano se stessi in un clima da messa in scena cinematografica, con tanto di comparse pagate per applaudire, i definiti sandwich supporter, ovvero persone reclutate tra le campagne e nelle fasce del disagio sociale, solitamente ripagate con un semplice sandwich ma ora con un cestino pieno di viveri e un’abbondante mancia. Il capo della polizia aveva spiegato che divulgare sms contrari al regime era un atto da mohareb – nemici di Dio punibile con la pena capitale.
Già da un paio di giorni le principali arterie di Teheran erano presidiate, oggi c’è stato un dispiegamento di forze dell’ordine che ha tenuto a bada l’Onda Verde, in ogni caso non travolgente come in precedenza. Le minacce del regime hanno funzionato: fin dai giorni scorsi aveva disposto affinché i miliziani basiji e poliziotti fermassero i passanti per controllare i messaggi spediti dal proprio cellulare.
La giornata registra almeno due morti nella capitale, uno a Shiraz e decine di arresti avvenuti nel resto del paese. A Teheran la polizia ha disperso i manifestano non solo con i lacrimogeni ma – pare anche sparando sulla folla, mentre i basiji hanno attaccato le autoe dell’ex presidente Mohammad Khatami e del leader dell’opposizione Mehdi Karrubi.
Gli slogan sono stati i classici “Marg bar dictator” (morte al dittatore) rivolti alla Guida Suprema Ali Khamenei ed a Mahmood Ahmadinejad, accusati di esser bugiardi per il broglio elettorale del 12 giugno 2009. Un nuovo slogan – “referendum” si riferiva alla proposta di Khatami di tenere un referendum sulla legittimità della rielezione di Ahmadinejad.
Sul fronte politico non hanno sorpreso le parole di Ahmadinejad: “Il regime sionista si avvicina alla sua distruzione e in merito ad Obama avremmo voluto che rimediasse alle politiche disumane di Bush, invece è asservito agli interessi di una banda di sionisti”. Regime ed opposizione si sono scontrati non solo in piazza ma anche sul web: le milizie basiji informatiche sarebbero in grado di risalire i profili degli utenti che per mascherare il proprio internet provider utilizzano dei proxy (server-specchio), riuscendo così a rintracciare i computer da cui partono i messaggi. Il regime hackera i siti legati all’Onda Verde che replica con mosse analoghe, un must è la messa in linea di fotomontaggi che sberleffano ferocemente Ahmadinejad e Khamenei. Determinante in questo caso l’azione degli iraniani residenti in Occidente, ben più liberi rispetto a chi vive in Iran.
Vi sono poi stati scontri ad Esfahan, con i manifestanti raggruppati attorno allo stupendo ponte delle 33 arcate, l’icona della città, la seconda dell’Iran. Mentre violenti scontri risultano esserci stati pure ad Ahvaz. Invece a Qom, la città santa dell’Islam sciita, calma totale. Davvero curioso quanto accaduto – o meglio non accaduto – a Tabriz, città del nord con circa 4 milioni di abitanti, dove alla celebrazione governativa ha partecipato solo qualche centinaio di persone, con i cameramen impegnati con sforzi indicibili per riprenderli dalle angolature ottimali al fine di far sembrare il loro numero superiore. In ogni caso si può sempre agire in un secondo momento, a tavolino, con Fotoshop, come già successo in passato. Forse che la desolata piazza della capitale dell’Azerbagian iraniano sia dovuta al fatto che il regime abbia esaurito i “sandwich supporter”? Oppure che per un banale errore organizzativo siano stati mandati a Teheran anche i bus che avrebbero dovuto raggiungere Tabriz? A proposito ineccepibile l’analisi di una studentessa iraniana che vive in Italia “Non solo sandwich, davano anche riso ed olio. La gente è affamata, con salari di 300 euro al mese, magari due figli e la carne 15 euro al chilo? Oggi il regime ha speso un occhio per dar da mangiare a tutti. Succo di frutta, torte, tutto era a montagne”.

Liberazione 11.2.10
Abol Hassan Banisadr Primo presidente della Repubblica Islamica
«La rivoluzione del 1979 è stata tradita dai mullah . Dobbiamo completarla»
di Guido Caldiron


«Il regime di Ahmadinejad è ogni giorno più debole e diviso: ha sempre più paura. Così, in vista delle manifestazioni annunciate oggi dall'opposizione, le autorità hanno moltiplicato le minacce e le condanne e deciso di mettere degli altoparlanti in tutte le maggiori strade e piazze di Teheran in modo da poter coprire con i discorsi ufficiali eventuali slogan ostili che potrebbero levarsi dalla folla. Non è il solo segnale di divisione: mentre crescono le proteste in favore di una riforma democratica del paese, sono sempre più numerose le voci di esponenti dello stesso clero sciita che si levano a sostegno dell'opposizione. Si può dire che la rivoluzione del 1979 sia ancora in corso e debba ancora compiersi fino in fondo».
Abol Hassan Banisadr è stato il primo presidente della Repubblica Islamica dell'Iran, dopo la vittoria della rivoluzione che l'11 febbraio del 1979 cacciò dal potere l'ultimo ministro dello Scià Reza Pahlavi. Di formazione marxista, ha studiato economia alla Sorbona, Banisadr ha partecipato al movimento studentesco iraniano e è stato ferito e imprigionato più volte. Nel 1979 incarnò l'anima democratica e progressista della rivoluzione, rapidamente sconfitta dal potere dei religiosi: in rotta con l'ayatollah Khomeini, fu deposto nel 1981 e costretto a fuggire. Da allora vive a Parigi dove l'abbiamo raggiunto telefonicamente alla vigilia dell'anniversario della rivoluzione.


Lei è stato il primo presidente della Repubblica Islamica dopo aver contribuito alla vittoria della rivoluzione del 1979. All'epoca in molti, tra i democratici e i progressisti europei, guardarono positivamente all'Iran, poi che cosa è andato storto e ha aperto la strada a una rapida deriva totalitaria del paese?

Si deve considerare prima di tutto un elemento: la rivoluzione è sempre l'inizio di un cambiamento, non la sua piena realizzazione. Prima del 1979 la struttura del potere in Iran si basava su tre elementi: la monarchia, il clero sciita e l'economica, fondata sulla grande proprietà agraria nelle campagne e sui commercianti dei bazar nelle città. Il regime dello Scià aveva inferto un duro colpo sia agli agrari che al commercio, impostando l'economia nazionale sull'esportazione del petrolio e sull'importazione di prodotti e di servizi, in particolare dall'Occidente. Quindi delle tradizionali strutture di potere erano rimaste in piedi solo quella incarnata dalla monarchia stessa e quella del clero. Così, dopo il 1979 e la caduta dei Pahlavi, è rimasto solo il blocco dei mullah, in cui cui era maggioritaria una tendenza ideologica totalitaria, più politica che religiosa. Il problema non era l'Islam, quanto piuttosto una visione di tipo medievale del rapporto tra fede e politica.


Quando l'ayatollah Khomeini rientrò a Teheran dal suo esilio a Parigi fu accolto come l'uomo che avrebbe potutro riunire l'intero popolo iraniano nel nome della rivoluzione. Lei, come tutte la sinistra iraniana, non vi eravate sbagliati sul conto del grande leader spirituale? 
Non solo noi, il mondo intero. Ricordo che perfino le Nouvel Observateur lo definiva all'epoca come l'«ayatollah libertario». Dall'esilio Khomeini parlava più di politica che di religione e nessuno avrebbe potuto immaginare che una volta tornato in patria avrebbe subito una così rapida trasformazione. In ogni caso, nel mio libro L'espérance trahie (pubblicato nel 1982) spiego esplicitamente che abbiamo sbagliato, tutti noi iraniani, a fidarci di Khomeini, e le conseguenze di questo errore il mio paese ha continuato a pagarle fino ad oggi. Il vero problema all'epoca era però un altro: senza la mobilitazione delle moschee e il ruolo esercitato dai religiosi, la rivoluzione non avrebbe avuto alcuna chance di riuscita. Mi spiego: all'epoca avevamo fatto molti sforzi per riunire le diverse forze di opposizione allo Scià in un unico movimento, ma il risultato non era stato molto incoraggiante, perché rimanevano grandi distanze e divisioni. I mullah, invece, rappresentavano un blocco sociale forte e Khomeini era il personaggio pubblico più noto e rispettato dalla popolazione tra i diversi leader dell'opposizione.


Gli eventi del 1979 hanno però cambiato in ogni caso il paese, producendo una modernizzazione che è sotto gli occhi di tutti. I figli di coloro che cacciarono allora lo Scià potranno fare oggi la loro rivoluzione e portare la democrazia a Teheran?

Credo che in Iran non ci sia bisogno di una "nuova" rivoluzione, quanto piuttosto di realizzare fino in fondo gli obiettivi di quella che è avvenuta nel 1979 e i cui ideali sono stati poi negati dall'élite del clero sciita e dal potere militare, affaristico e mafioso che si è riunito intorno alla figura di Ahmadinejad. Certo, sul piano sociale, oggi come allora, è il potere a creare in qualche modo le condizioni per il proprio superamento. Il regime dello Scià aveva distrutto l'economia e la struttura sociale del paese creando centinaia di migliaia di disoccupati, soprattutto tra i giovani. E sono stati proprio questi giovani che, spinti dalla riforma agraria verso le grandi città del paese, hanno costituito la principale base sociale della rivoluzione del 1979. Ebbene, oggi sta accadendo qualcosa di simile: la dittatura dei mullah strangola l'economia e non solo la vita politica dell'Iran e crea ogni giorno nuovi poveri. Senza democrazia, diritti dell'uomo e dei lavoratori è difficile immaginare una qualche forma di benessere diffuso e così le strade tornano a riempirsi di giovani che manifestano per la libertà e migliori condizioni di vita. 

Nel 1979 il segno che la rivoluzione aveva vinto arrivò l'11 febbraio con la notizia che i soldati non avrebbero sparato contro la folla. Oggi è ipotizzabile qualcosa del genere nel caso il regime decida la linea dura contro l'opposizone?

All'epoca i militari erano odiati dal popolo e rappresentavano solo il potere dittatoriale e sanguinario della famiglia Pahlavi. Oggi le cose sono molto diverse, nel senso che l'esercito è sentito dalla popolazione come una parte importante del paese, non come un elemento in qualche modo estraneo. Altra cosa sono invece i Guardiani della rivoluzione, il corpo militare e politico legato direttamente ai mullah che sono visti con sospetto da molti iraniani. Eppure perfino tra i Guardiani, e penso a quanto accaduto nell'ultimo mese durante le manifestazioni che si sono svolte nei giorni dell'Ashura, è emerso un atteggiamento di attesa se non di vicinanza nei confronti dei giovani che protestavano. Sono solo segnali parziali, e talvolta contraddittori, di un clima che sta però cambiando e evolvendo a favore delle forze democratiche.


il Fatto 12.2.10
“Gaza anno zero: sopravviviamo grazie ai tunnel”
Mohammad Halabi racconta la vita della città palestinese, un anno dopo i raid israeliani di "Piombo fuso"
di Stefania Pavone

Ecco Mohammad Halabi: a soli 35 anni è il responsabile delle Relazioni estere della città di Gaza. È un palestinese che ha vissuto e studiato in Egitto e, forse, avrebbe potuto essere altrove. Invece ha deciso di non tradire la sua gente ed è tornato a Gaza. Mohammad Halabi non fa parte di Hamas, anche se collabora attivamente con gli islamici, occupandosi anche di gestire le offerte commerciali della città: è rimasto umano nonostante la devastazione che un anno fa “Piombo Fuso” ha portato nella sua terra. Nessuna parola d’odio nei confronti dei nemici di sempre. Gli abbiamo chiesto di raccontare cosa accade giorno per giorno in quei gironi d’inferno in cui si è trasformata Gaza City da un anno a questa parte. Allora Mohammad Halabi, com’è è cambiata la percezione della quotidianità a un anno dalla campagna di “Piombo Fuso”? Le distruzioni inferte alla Striscia sono state terribili, Gaza è stata sostanzialmente distrutta. Durante la campagna di “Piombo Fuso” sono morte più di 1.200 persone e non riusciamo neanche a contare quanti siano i feriti. La città è rasa al suolo. La gente vive in luoghi di fortuna che non si possono chiamare neppure case e in tutto questo a rimetterci sono soprattutto i bambini. Pensa che devono andare a scuola in edifici che hanno vetri e muri completamente rotti. A Gaza manca tutto, facciamo fatica a garantire i servizi essenziali, ma si continua a vivere anche così, quotidianamente appesi all’incertezza. Ma il senso della comunità fra gli abitanti è molto forte, ci si sostiene a vicenda, c’è poi la grande gara della solidarietà internazionale. Si ha la sensazione che molti a Gaza avvertano che la vita nella città si sia sgretolata, che sia pervasa dall’insicurezza, che non esistano più riferimenti certi. Cosa fate per cambiare questo stato di cose?
L’insicurezza è sicuramente penetrata nel senso comune delle persone. Ma non solo sul terreno psicologico, ma soprattutto su quello materiale. Più di 30.000 persone hanno perso il loro posto di lavoro e “Piombo Fuso” ha inciso sul tessuto industriale agricolo e marino, distruggendoli tutti. Ma noi stiamo lavorando per restituire delle certezze anche se è molto difficile. L’insicurezza dipende anche da una considerazione di base: i palestinesi non sanno se gli israeliani pagheranno per quello che hanno fatto a Gaza. Noi tutti vogliamo la riparazione dei torti subiti in questa guerra.
E del nuovo Muro che verrà costruito tra l’Egitto e Gaza?
A oggi la nostra sopravvivenza è legata ai tunnel che passano per l’Egitto. Vuol dire che ne scaveremo di più profondi. La Palestina è ancora contro la Palestina. Mentre Netanyahu chiede una pace senza condizioni, siete divisi al vostro interno. Cosa prevedi che accadrà?
Sono nell’amministrazione della città nel 2003 prima delle elezioni che hanno dato la vittoria ad Hamas. Per il processo di pace il paese chiave della regione è l’Egitto. Solo l’Egitto si può contrapporre a Israele nel bilanciamento delle forze nella regione mediorientale, non guardate all’Iran. La pace è difficile perché da noi convivono più religioni ed etnie completamente diverse le une dalle altre, con usi e costumi divergenti, con idee diverse.
Per quel che riguarda lo specifico della questione palestinese, che speranze ci sono? Siamo sotto assedio, il rischio è che l’esplosione dei bisogni della popolazione, se trascurati per troppo tempo, produca delle tensioni difficili da contenere. Si rischia di scivolare di nuovo verso un assetto da guerra civile. Ma per il processo di pace servirebbe poco, basterebbe un’ora per mettersi d’accordo.


Repubblica 12.2.10
Così il cervello ascolta il suono del silenzio
di Elena Dusi

Quando tutto tace si attiva un circuito di neuroni. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Neuron La scoperta dei nuovi "canali" è importante per la cura della dislessia nei bimbi e per chi ha problemi di udito Silenzio Così il cervello ascolta quelle pause piene di suoni
Quando tutto intorno a noi tace, il cervello inizia a percepire il rumore del silenzio.
Che non è assenza di suono, vuoto della percezione, un interruttore spento, bensì un mattone fondamentale del nostro sistema uditivo. Tanto da avere all'interno del cervello un circuito dedicato: un gruppo di neuroni che si attiva quando tutto tace e si assume il compito di trasportare il segnale del silenzio dall'orecchio fino alla corteccia uditiva, all'interno del lobo temporale. Qui il messaggio di pausa viene registrato come uno dei mattoni del linguaggio, indispensabile per dividere una parola dall'altra e dare senso a una conversazione. La capacità del cervello di ascoltare il "suono del silenzio" è stata appena scoperta da Michael Wehr, uno psicologo dell'università dell'Oregon, insieme al gruppo di studenti con cui lavora per decifrare e correggere vari disturbi dell'udito, autismo e dislessia. I risultati, ottenuti su alcuni topolini da laboratorio monitorati con degli elettrodi nella testa, sono stati pubblicati ieri dalla rivista Neuron. «Immaginate di trovarvi in un luogo affollato, o in una festa scrive Wehr nel suo studio. Seguire chi parla di fronte a voi, distinguendo la sua voce dal rumore di fondo è un'impresa tutt'altro che banale.
I computer incontrano molte difficoltàe se il nostro cervello riesce a cavarselaè solo grazie alla capacità di tagliuzzare una conversazione negli elementi base. Riesce a inserire le pause nei momenti giusti, trovando linee di divisione corrette fra le sillabe e le parole».
Ascoltare i silenzi diventa così fondamentale per dare un senso ai suoni. E forse non è un caso che "The sound of silence" si manifesti a Paul Simon "in mezzo a 10mila persone, forse più, che chiacchierano senza parlare e odono senza ascoltare" e che anche Wehr usi l'esempio di una festa rumorosa per spiegarci quanto è importante cogliere le giuste pause fra i discorsi. Ma le similitudini finiscono qui. Perché se Paul Simon ha scritto la sua canzone in bagno al buio con il rubinetto dell'acqua aperto, Wehr ha utilizzato i piccoli roditori del suo laboratorio, sottoponendoli a suoni di frequenza e durata sempre diverse, fino a scoprire che l'inizio di uno stimolo uditivo attivava un gruppo di neuroni e la sua cessazione improvvisa accendeva una scarica in un gruppo di neuroni diverso. Segno che orecchio e corteccia uditiva sono collegati da due canali separati e indipendenti. Uno è incaricato di trasportare l'informazione "suono". L'altro svolge il compito di riferire il messaggio "silenzio". «I canalispiega Wehrlavorano indipendentemente l'uno dall'altro. Abbiamo osservato che la fine di un suono non interferisce con l'inizio di uno stimolo nuovo». Prima era opinione corrente che il rumore provocasse l'attivazione dei neuroni uditivi, e che questi si spegnessero quando il rumore cessava.
«A conferma della nostra scoperta spiega Wehr sappiamo che le persone con problemi di udito hanno difficoltà a seguire una conversazione quando il rumore di fondo è intenso. Ora, capire come il cervello processi le pause fra le parole potrà aiutarci a costruire apparecchi acustici più efficienti o ad aiutare i bambini con dislessia». Il passo successivo suggerito dalla ricerca sarà poi capire se lo stesso meccanismo a doppio canale è valido per gli altri sensi. Se cioè anche la fine di una carezza provoca l'attivazione di nuove sensazioni o se il buio è capace di accendere una luce nella nostra mente.
Quando tutto intorno a noi tace, il cervello inizia a percepire il rumore del silenzio.
Che non è assenza di suono, vuoto della percezione, un interruttore spento, bensì un mattone fondamentale del nostro sistema uditivo. Tanto da avere all'interno del cervello un circuito dedicato: un gruppo di neuroni che si attiva quando tutto tace e si assume il compito di trasportare il segnale del silenzio dall'orecchio fino alla corteccia uditiva, all'interno del lobo temporale. Qui il messaggio di pausa viene registrato come uno dei mattoni del linguaggio, indispensabile per dividere una parola dall'altra e dare senso a una conversazione. La capacità del cervello di ascoltare il "suono del silenzio" è stata appena scoperta da Michael Wehr, uno psicologo dell'università dell'Oregon, insieme al gruppo di studenti con cui lavora per decifrare e correggere vari disturbi dell'udito, autismo e dislessia. I risultati, ottenuti su alcuni topolini da laboratorio monitorati con degli elettrodi nella testa, sono stati pubblicati ieri dalla rivista Neuron. «Immaginate di trovarvi in un luogo affollato, o in una festa scrive Wehr nel suo studio. Seguire chi parla di fronte a voi, distinguendo la sua voce dal rumore di fondo è un'impresa tutt'altro che banale.
I computer incontrano molte difficoltàe se il nostro cervello riesce a cavarselaè solo grazie alla capacità di tagliuzzare una conversazione negli elementi base. Riesce a inserire le pause nei momenti giusti, trovando linee di divisione corrette fra le sillabe e le parole».
Ascoltare i silenzi diventa così fondamentale per dare un senso ai suoni. E forse non è un caso che "The sound of silence" si manifesti a Paul Simon "in mezzo a 10mila persone, forse più, che chiacchierano senza parlare e odono senza ascoltare" e che anche Wehr usi l'esempio di una festa rumorosa per spiegarci quanto è importante cogliere le giuste pause fra i discorsi. Ma le similitudini finiscono qui. Perché se Paul Simon ha scritto la sua canzone in bagno al buio con il rubinetto dell'acqua aperto, Wehr ha utilizzato i piccoli roditori del suo laboratorio, sottoponendoli a suoni di frequenza e durata sempre diverse, fino a scoprire che l'inizio di uno stimolo uditivo attivava un gruppo di neuroni e la sua cessazione improvvisa accendeva una scarica in un gruppo di neuroni diverso. Segno che orecchio e corteccia uditiva sono collegati da due canali separati e indipendenti. Uno è incaricato di trasportare l'informazione "suono". L'altro svolge il compito di riferire il messaggio "silenzio". «I canalispiega Wehrlavorano indipendentemente l'uno dall'altro. Abbiamo osservato che la fine di un suono non interferisce con l'inizio di uno stimolo nuovo». Prima era opinione corrente che il rumore provocasse l'attivazione dei neuroni uditivi, e che questi si spegnessero quando il rumore cessava.
«A conferma della nostra scoperta spiega Wehr sappiamo che le persone con problemi di udito hanno difficoltà a seguire una conversazione quando il rumore di fondo è intenso. Ora, capire come il cervello processi le pause fra le parole potrà aiutarci a costruire apparecchi acustici più efficienti o ad aiutare i bambini con dislessia». Il passo successivo suggerito dalla ricerca sarà poi capire se lo stesso meccanismo a doppio canale è valido per gli altri sensi. Se cioè anche la fine di una carezza provoca l'attivazione di nuove sensazioni o se il buio è capace di accendere una luce nella nostra mente.