giovedì 18 febbraio 2010

Repubblica 5.2.10
La sinistra e il pensiero reazionario
di Norberto Bobbio

Un testo inedito di Norberto Bobbio sul fascino esercitato da alcuni teorici della destra
La rivalutazione della violenza è caratteristica di queste tendenze
Il passaggio da una parte all´altra non è una novità: il caso di Georges Sorel

Anticipiamo una parte del testo, pubblicato da "Micromega", della Lezione tenuta da l´8 marzo 1985 presso il Centro Studi Piero Gobetti di Torino, nel corso della IV edizione del seminario su "Etica e politica"
In questi ultimi anni c´è stata una certa confusione tra la sinistra e la destra, nel senso che molti studiosi di sinistra, che appartengono alla sinistra, che si dichiarano di sinistra, hanno rivendicato, o, come si dice oggi, con un anglismo che io non uso mai, «rivisitato» (da noi si dice: riconsiderato), degli scrittori di destra, per esempio Nietzsche, il quale era sempre stato considerato un filosofo reazionario, la massima espressione di una filosofia antisocialista, antidemocratica, soprattutto antiegualitaria (non è un caso che Hitler quando volle fare un regalo a Mussolini, gli regalò le opere di Nietzsche). Poi, soprattutto, Carl Schmitt, che è stato ritirato fuori dal mio amico e collega Gianfranco Miglio; Schmitt, scrittore politico, giurista, grande scrittore di diritto, ma che certo un progressista non è. E poi altri ancora: si può citare Junger, per esempio, che abbiamo ricordato più volte; Cioran, c´è anche questo scrittore rumeno, che però scrive in Francia (in Italia le sue opere sono state tradotte da Adelphi ed è stato citato con grande onore da Vattimo in un articolo recente)…
D´altra parte, se è avvenuta questa rivisitazione di scrittori di destra da parte della sinistra, è avvenuto anche il contrario. Abbiamo già più volte parlato di un "gramscismo di destra" Probabilmente molti di voi non sanno che una corrente della destra estrema si considera gramsciana e ha accolto alcune tesi di Gramsci, soprattutto quella cosiddetta dell´egemonia, e le ha fatte proprie.
Questo passaggio dalla destra alla sinistra e viceversa non è nuovo. Il caso più clamoroso, che dovrebbe essere riesaminato nel corso del nostro seminario, è quello di Sorel, che certamente è uno scrittore di sinistra. Da Sorel ha origine l´ala della sinistra rivoluzionaria, del sindacalismo rivoluzionario. Ma poi, non lui personalmente, ma i suoi seguaci – i seguaci italiani – sono diventati notoriamente dei fascisti, sono stati dei teorici del fascismo. Dico non lui personalmente, perché se Sorel sia stato o non sia stato fascista è ancora sub iudice. Non so se voi sapete che da qualche tempo esce una rivista dedicata a Sorel, edita da una associazione di studi francese, i Cahiers Georges Sorel (ne sono già usciti due volumi). Ebbene, nel primo, che è dell´anno scorso, è apparso un articolo di un autore francese il quale sostiene che Sorel non è mai stato fascista; l´ articolo è scritto proprio per confutare quella che lui chiama «la tenace leggenda del fascismo di Sorel».
Io non voglio entrare in questa polemica. Però è un fatto che molti seguaci di Sorel diventarono dei teorici del fascismo. Voglio ricordare soprattutto un autore, su cui forse vale la pena di ritornare, Sergio Panunzio, che fra le altre opere (io le ricordo perché sono tanto vecchio da ricordare quando Panunzio era professore all´università ai miei tempi) ha scritto un libro nel 1920 dal titolo Diritto forza violenza. Lineamenti di una teoria della violenza. Panunzio era stato uno dei sindacalisti soreliani e diventò poi un teorico del fascismo. La sua opera Dottrina del fascismo andava di pari passo con quella di Costamagna, che abbiamo più volte ricordato. Forse il libro di Costamagna è più interessante e varrebbe la pena di esaminarlo. Comunque il libro di Panunzio, quando lui lo scrisse nel 1920, era già un libro fascista.
Per dimostrare la commistione, lo scontro-incontro tra le varie ideologie, si può ricordare che questo libro fu pubblicato dall´editore Cappelli nella biblioteca di cultura politica di Rodolfo Mondolfo, con prefazione dello stesso Mondolfo, che non era né socialista rivoluzionario, né fascista ma era un grande amico di Turati – come di Gobetti – e un teorico del marxismo interpretato riformisticamente. La tesi di Panunzio era che bisogna distinguere la violenza dalla forza: la violenza è positiva e la forza è negativa. La violenza rappresenta la rottura di una società e il momento di trapasso dal vecchio al nuovo, la forza è autoritaria. Questa distinzione tra forza e violenza è proprio l´opposto di quella che di solito si fa. Generalmente si attribuisce valore positivo alla forza e negativo alla violenza. Per "forza" si intende la forza al servizio del diritto, la forza dello Stato, la coazione; quando i giuristi parlano della coazione dicono forza, mentre la violenza viene considerata negativamente. Qui c´è una inversione: una inversione che deriva da Sorel. Su questo non c´è dubbio. Per Sorel la violenza è positiva, la forza negativa. La violenza è eversiva, è l´"ostetrica della storia", per usare l´espressione di Marx; la forza è autoritaria.
In questi giorni, essendomi occupato di Carlo Levi, mi sono andato a rileggere gli articoli che Carlo Levi ha pubblicato su La Rivoluzione Liberale di Gobetti. Devo dire che l´articolo più interessante di Levi, oltre a quello su Salandra, è una recensione del libro di Panunzio, apparsa sul numero del 17 aprile 1923. Levi, giovinetto (aveva vent´anni), coglie molto bene la caratteristica fascista di questo libro. Anche se Panunzio era un soreliano e quindi veniva da sinistra, egli aveva ormai compiuto il suo viaggio da sinistra a destra. C´è una frase che mi ha particolarmente colpito e che mi pare spieghi molto bene come sia facile il passaggio da un estremo all´altro. Dice Levi: «L´unico pregio del libro è che ci permette di capire perché i sindacalisti rivoluzionari sono passati al fascismo. Gli adoratori della violenza proletaria si sono trasformati in zelatori di una violenza del tutto generica e scolorita dove il passo è breve alla violenza antiproletaria, che è appunto la violenza fascista, la violenza dei disoccupati amatori della violenza».
Si sposta il fine della violenza (inizialmente considerata mezzo lecito solo in rapporto a determinati fini), e poi, a un certo punto, la violenza diventa fine a se stessa. La violenza fascista è ormai fine a se stessa, non è più un mezzo per raggiungere un fine rivoluzionario.
Volendo ricordare un caso clamoroso di questo passaggio, si può fare il nome di D´Annunzio. È un episodio molto noto. D´Annunzio, eletto deputato al principio del secolo dalla destra, quando entrò in parlamento, si sedette all´estrema sinistra, pronunciando la famosa frase: «Vado verso la vita». Badate che la parola vita è importante. Vita perché c´è (lo vedremo dopo) un elemento di vitalismo nell´estremismo sia di destra sia di sinistra.
Questo passaggio dalla destra alla sinistra e viceversa sta alla base della tesi – questo è il nostro punto – che la differenza tra destra e sinistra non esista più o perlomeno sia sfumata. Le formulazioni di questa tesi sono molte, sostenute per lo più – almeno sinora – da destra. Sarebbe interessante sapere perché. Non saprei dire quale sia la causa e quale l´effetto: se si ritenga che non esiste più la differenza tra destra e sinistra per il fatto che c´è questo scambio di autori o se ci sia questo scambio di autori perché non c´è più questa differenza. Questo è il punto che dovremmo in qualche modo esaminare. Si potrebbe dedurre che questo avvenga perché la sinistra ha perduto la sua identità. La sinistra ha tanto perduto la sua identità che, si dice, non c´è più nessuna differenza tra destra e sinistra. Ma c´è anche una variante di questa tesi sostenuta dalla destra, che forse non abbiamo mai esaminato: che non si può più fare la distinzione tra destra e sinistra perché ormai la destra non c´è più. È tutta sinistra. È una tesi di estrema destra. Si sostiene che la sinistra ormai ha occupato tutto il campo e che la famosa destra, la destra conservatrice, la destra storica, la destra illuminata, la destra che aveva rappresentato, diremo così, l´evoluzione dell´Europa e dell´Italia, non c´è più.

Il Foglio 23.7.08 prima pagina
Falce e macello
Secondo il filosofo bertinottiano Fagioli, "Vendola e Ferrero non valgono neppure mezzo Fausto"
"Vendola è cattolico, dunque non può fare il segretario. Ferrero è valdese, ma è un fatto privato"
intervista di Salvatore Merlo

Roma. Il "professor" Massimo Fagioli parla lungo e denso. Il suo fraseggio è così affollato di dottrine che è difficile individuare il soggetto, il verbo e il predicato. Ma poi a una domanda sulla successione al trono di Rifondazione (domani il congresso) risponde chiaro: "Né Paolo Ferrero né Nichi Vendola valgono mezzo Bertinotti. Vendola poi è un'aporia vivente. È all'unisono cattolico, comunista e omosessuale. È mai possibile conciliare queste tre identità?". Pasolini lo faceva. "Ma non era candidato alla segreteria - dice Fagioli - Ferrero è rimasto ai tempi della svolta occhettiana, è incartato nel passato marxista leninista. Ridicolo". Dice così il professore, il settantenne psichiatra che da quattro anni mantiene un sodalizio intellettuale con Fausto Bertinotti. Qualcuno ("i cretini", dice lui) lo definisce il guru del subcomandante Fausto. "Fu nel 2004 - racconta al Foglio - che con Bertinotti ci ritrovammo nell'avviare la svolta non violenta" del partito. Un passaggio storico. Da allora l'ex presidente della Camera ha preso le distanze dalle violenze dei noglobal e ha emarginato Nunzio D'Erme, celebre per avere sparso letame davanti all'abitazione romana del Cav. Un rapporto, quello tra Fagioli e Bertinotti, difficile da decifrare. Abbastanza intenso da aver fatto storcere il naso a molti nel Prc e nella sinistra in genere. Epica la lite con Giulietto Chiesa, che abbandonò la rivista Left all'arrivo del professore, capo - diceva Chiesa - "di una setta". "Io offro una nuova strada da percorrere spiega Fagioli - dopo il fallimento del comunismo perseguo 'la realtà umana'". Mica poco. Un orizzonte che pare abbia ispirato anche l'ultima - non riuscitissima per la verità - svolta bertinottiana, il lancio di quella sinistra Arcobaleno poi naufragata lontano dal Parlamento. L'ultimo incontro tra i due è avvenuto lunedì scorso, quando Bertinotti ha presentato il sesto numero della rivista "Alternative" a un pubblico di così detti "fagiolini", il gruppo di persone (qualche centinaio) che quattro volte alla settimana in piazza San Cosimato, nel rione Trastevere, partecipa a mastodontiche sedute di analisi collettiva che Fagioli chiama "psicoterapia di folla", Cosa ha detto a Bertinotti? "Che il cardine della nuova sinistra non è più la classe operaia, ma sono gli immigrati. Questo è il terreno del nuovo scontro. Anche gli italiani in America, prima di diventare operai, erano immigrati".
Ma Bertinotti ha lasciato, si ritira per "dedicarsi alla ricerca - ha spiegato lunedì - alla teoria politica più che alla prassi". Una perdita insostituibile per Fagioli, a cui i giovani duellanti di Rifondazione, Ferrero e Vendola, non piacciono affatto. Specie Vendola. "Come si fa ad accettare che il segretario di Rifondazione sia un cattolico praticante? Si rischia una sindrome bipolare, dissociativa. La religione cattolica non è un fatto personale. Come scriveva l'altro giorno Ritanna Armeni su Liberazione: la realtà umana conta in politica. Vendola è cattolico e in quanto tale non può fare il segretario". Ma anche Ferrero è uomo religioso, è valdese. "Sì - dice Fagioli - ma essere valdesi è un fatto privato. La chiesa valdese non ha mai avuto influenze sulla politica e lo stato. Come farà invece Vendola a proseguire nel solco del pensiero laico tracciato in Europa da Zapatero su aborto, divorzio, fecondazione assistita ed eutanasia? Si iscriva al partito di Casini". Eppure Vendola si è spesso smarcato dal Vaticano ed è un libertario omosessuale. "È lo stesso discorso. La sessualità è un fatto privato, che si può coltivare all'interno di associazioni di scopo, ma non si può proporlo come identità politica. E poi cattolico e omosessuale sono in contraddizione - continua Fagioli - Non bisogna confondersi le idee, tanto più che noi ci proponiamo di cercare la realtà umana. Insomma chi è Nichi Vendola? Non si capisce". Sarà. Ma è il favorito e gode della stima di Bertinotti (e non solo).

il Fatto 18.2.10
La Cei scomunica la Bonino: L’Avvenire si spaventa e attacca
“Incompatibile e ostile alla visione cristiana”
di Marco Politi

Bersani aveva scritto al quotidiano ricordando la presenza dei cattolici nel Pd
Lo scandalo Protezione civile sta allontanando molti credenti dal polo
Berlusconi
La Cei sperona il Partito democratico e scomunica la candidatura Bonino nel Lazio. Con parole durissime l’Avvenire prende di petto Bersani, bollandola come “incompatibile e ostile alla visione cristiana”.
L’attacco violento segnala l’intenzione della gerarchia ecclesiastica di scontrarsi direttamente con il Pd per impedire la vittoria della Bonino. Il linguaggio aggressivo, usato nei confronti dell’esponente radicale, riflette oltre all’irriducibile opposizione del Vaticano le pressioni sia del cardinal Ruini sia dell’Udc, per i quali il centro-sinistra va assolutamente sconfitto nella regione dove simbolicamente Berlusconi e Casini si sono ritrovati alleati (come l’ex presidente della Cei avrebbe tanto voluto nelle elezioni politiche del 2008).
Martedì Bersani aveva scritto all’Avvenire (dopo un editoriale critico sull’uscita dal Pd della Binetti e degli altri cattolici teodem) per negare una presunta “deriva zapaterista” nel Partito democratico e ricordare che al suo interno le varie culture (cattolica compresa) dovevano riconoscersi nelle caratteristiche fondamentali della “casa comune”. Di più – sosteneva Bersani – come lamentare una mancanza di pari dignità dei cattolici nel partito se “il presidente, il vicesegretario, il capogruppo alla Camera, i responsabili dei settori Scuola e Welfare” sono tutti credenti impegnati? “Di che cosa stiamo parlando?”. Contro il segretario del Pd scende in campo in prima persona il nuovo direttore dell’Avvenire Marco Tarquinio, manifestando un “crescente senso di allarme” dei lettori e denunciando la “pretesa incredibile della superabortista e iperliberista” Bonino di rappresentare anche valori cattolici. Poi l’affondo. La storia della Bonino, incalza Tarquinio rivolgendosi direttamente a Bersani, rappresenta una posizione incompatibile con il cattolicesimo, anzi un programma di “aperta e spesso aspra ostilità verso la visione cristiana della vita e della società”. Accettare la sua candidatura e la sua cultura come parte del Pd, è l’avvertimento, significa “fare una scelta pesante e precisa”.
Lo stile politicamente aggressivo, che travalica la linea critica, ma abbastanza moderata tenuta finora dall’Avvenire, viene direttamente dai massimi vertici ecclesiastici così come fu quando l’allora direttore Boffo minacciò che la legalizzazione delle coppie di fatto, cioè l’approvazione dei Dico, avrebbe rappresentato uno “spartiacque” della storia politica italiana. L’Avvenire torna pesantemente sull’argomento anche nella pagina delle lettere dei lettori con un titolone che grida: “Radicali, un’incompatibilità irriducibile”. Definendo l’intenzione della Bonino di rappresentare anche l’elettorato cattolico un’ “operazione insensata e truffaldina, un insulto all’intelligenza e alla memoria collettiva degli italiani”. La sua linea viene letteralmente smontata in quanto in campo etico e per ciò che riguarda solidarietà, mercato e lavoro “i radicali predicano sistematicamente l’opposto della dottrina sociale della Chiesa”.
Eppure l’attacco urlato rivela timori e debolezze della gerarchia ecclesiastica. La candidatura della Bonino, in realtà, non spaventa molti elettori cattolici, mentre la Polverini non li scalda. Inoltre lo scoppio dello scandalo sul malaffare intorno alla Protezione civile sta facendo perdere proprio tra i cattolici moderati l’attrattiva del polo di Berlusconi.
Il consenso scende, lo sanno i vertici del Pdl. Perché il “cattolico quotidiano”, il normale credente che vive la sua fede in parrocchia, nelle organizzazioni assistenziali, nei gruppi biblici, nel volontariato, nell’impegno catechistico, non è un baciapile. Non gli interessano tanto le storie dei massaggini brasiliani. Ma generalmente (a meno che non si lasci dominare dalla diffidenza verso la politica) è molto sensibile al concetto di “bene comune”, di legalità, di giustizia. Sapere che in un momento di crisi (quando quasi un quinto delle famiglie non riesce ad arrivare alla fine del mese) decine di milioni vengono buttati in appalti gonfiati lo irrita. Il padre di famiglia cattolico, che ha la figlia neolaureata disperatamente precaria, si infuria leggendo di “figli eccellenti” pagati tremila euro per un contratto di “apprendistato”. Afflitto perché la prole è impossibilitata a mettere su casa senza impiego, il genitore cattolico si disgusta apprendendo di rampolli la cui grande preoccupazione è di farsi prenotare alberghi a spese di soldi, che sarà la collettività a pagare. L’Avvenire stesso sta dedicando largo spazio allo scandalo e sin dal primo giorno ha sventato il tentativo di Berlusconi di aggredire i magistrati e di nascondere il bubbone. Alla strategia del premier il giornali dei vescovi ha inferto una pugnalata mortale con una scelta semplicissima. Pubblicando un grafico del “sistema gelatinoso”, con le freccette che indicano i vari appalti e i nomi dei miracolati dai vari regali. Un quadro devastante: esattamente quello che il lettore cattolico legge la sera tornando a casa.
Come ha scritto proprio sull’Avvenire di ieri il lettore Gianluigi Vergari: “Chiamare poveracci senza dignità gli sciacalli che ridevano sul terremoto dell’Aquila – pregustando il ricco banchetto della ricostruzione – è sbagliato”. Un’espressione riduttiva, quasi da indurre pietà per persone malvagie che non riescono a provare buoni sentimenti. “Invece è necessario chiamare questi esseri per quello che sono: avidi speculatori, anche molto pericolosi visto il loro modo di pensare, per cui è necessario renderli inoffensivi per il futuro”.
Anche queste reazioni peseranno nell’urna. E’ indubbio che la gerarchia ecclesiastica riesce a mobilitare nelle elezioni una pattuglia di voti che – a spanna – vengono calcolati intorno al 3-5 per cento al massimo. Voti preziosissimi in caso di corsa testa a testa. Ma, appunto, l’intervento massiccio dell’Avvenire dimostra che il Vaticano teme che la Bonino sia in testa, grazie all’appoggio silenzioso di molti credenti.

Repubblica 18.2.10
Il caso Democratici. La vicenda Bonino per il senso politico che assume si sta configurando sempre più come un caso Pd
Emma una fuoriclasse. Emma è una fuoriclasse, non trovo giusto negarle la capacità di interpretare un programma di coalizione
Cattolici, duello tra vescovi e Bersani "Bonino incompatibile". "È la migliore"
Ma l´esodo dal Pd adesso si fa sentire anche in periferia
di Giovanna Casadio

ROMA - Duello tra Bersani e Avvenire . A quaranta giorni dalle regionali, il quotidiano dei vescovi lancia l´affondo contro i radicali e la scelta del Pd di candidare la leader storica del Pr, Emma Bonino alla guida della Regione Lazio. Il segretario dei Democratici la difende: «Emma è una fuoriclasse, è la scelta migliore». Nega Bersani che il partito stia cambiando ragione sociale mettendo in mora i cattolici. Rivendica anzi, in una lettera scritta al quotidiano, il rispetto e l´attenzione per la cultura, la tradizione e i valori cattolici.
Ma Avvenire non molla e va all´offensiva per il secondo giorno consecutivo. Il direttore Marco Tarquinio parla di «crescente senso di allarme» e osserva: «Il caso Bonino...si sta configurando sempre più come un caso Pd. Le sottovalutazioni e le sufficienze si pagano. Tra radicali e cattolici c´è una incompatibilità irriducibile». Attacco pesante. Il quotidiano dei vescovi parla dell´operazione «insensata e truffaldina» in base alla quale «la superabortista, l´iperliberista» Bonino ha «l´incredibile pretesa di rappresentare i valori cattolici». Sono gli stessi argomenti con cui la teodem Paola Binetti, ultima in ordine di tempo, ha lasciato il Pd per l´Udc di Casini e da ieri è candidata "governatore" nella rossa Umbria per i centristi. «Non a caso - scrive sempre Avvenire - si stanno producendo contraccolpi, crepe e lacerazioni...» nel partito di Bersani.
Di crepe se ne scorgono alcune. I transfughi cattolici del Pd - dal co-fondatore e ultimo segretario della Margherita, Francesco Rutelli (che ha creato il movimento Api) a Renzo Lusetti, Enzo Carra, Dorina Bianchi (che sono approdati nell´Udc) - sostengono che i contraccolpi si vedono in periferia. Al netto dei fuoriusciti noti. A Finale Emilia, ad esempio, il sindaco Raimondo Soragni ha convocato un consiglio comunale straordinario per farsi confermare la fiducia dopo che il Pd, il partito da lui abbandonato, lo aveva sollecitato martedì sulla stampa locale a dimettersi. Soragni è candidato consigliere regionale dell´Udc e commenta: «Per i cattolici non c´è più spazio, Bonino è l´esempio eclatante». Marco Calgaro, che è stato il vice di Chiamparino a Torino, un democratico cattolico che ha deciso di andare nell´Api di Rutelli, elenca: «Marco Borgione, ex assessore all´Assistenza, dal Pd è passato all´Api; io e Gavino Olmeo facciamo gruppo in consiglio comunale. Non è che chi va via dal Pd si porta dietro truppe cammellate, però nel tempo si vedrà l´effetto: è evidente che la deriva zapaterista dei Democratici preoccupa». Nel Lazio l´Udc ha da tempo fatto una campagna acquisti a spese del Pd con Alessandro Onorato consigliere in Campidoglio, Antonio Zanon e, post candidatura Bonino, Matteo Costantini segretario della storica sezione romana di via dei Giubbonari. In Campania, la diaspora vera e propria si era già avuta con i demitiani e il loro leader transitati all´Udc.
L´intreccio tra i problemi con i cattolici e le regionali, agita i Democratici. Bersani tuttavia rassicura («Emma interpreta le anime della coalizione») e a Berlusconi che del voto di marzo vuole fare un test nazionale, risponde: «Noi dove ci cerca, ci trova. Se vuole un confronto alle regionali, abbiamo programmi e candidati. Se ritiene di fare un confronto politico da noi problemi zero, se ci cerca ci troverà». Affermazioni fatte durante una manifestazione elettorale con Bonino. Beppe Fioroni, ex popolare, rincara: «Il ceppo del Ppi e dei cattolici democratici che hanno scelto il Pd continua ad essere la spina dorsale del partito. Le defezioni appartengono all´area rutelliana». Di candidature, di cattolici, di un Pd "largo" parlerà anche "Area democratica", la corrente di Franceschini e Veltroni che si riunisce martedì prossimo, dopo un rinvio per tensioni interne.

Repubblica Roma 18.2.10
Rettori al tavolo della candidata la Bonino nel circolo di Malagò
L’incontro con la candidata e i lavoratori Acea. "Tagliare l´Irap? Promesse che non si possono mantenere"
"Dobbiamo aiutare Emma a vincere" Bersani in campo per la sfida del Lazio
"Con la sua personalità potrà portare questa Regione a un livello europeo"
di Anna Rita Cillis e Chiara Righetti

Nel cuore di Roma Nord, nel circolo Aniene per una cena ristrettissima e off-limits. Emma Bonino, la candidata Pd per la presidenza del Lazio, alle 21 in punto varca la soglia del quartier generale di Giovanni Malagò, uno dei più prestigiosi circoli della Capitale. Ad accompagnarla c´era il coordinatore della campagna elettorale, Riccardo Milana.

«Dobbiamo dire che nel Lazio ce la possiamo fare. Aiutare Emma a vincere, perché può vincere, e nel 2013 accompagnarla all´incontro col nuovo sindaco di Roma». Pierluigi Bersani scalda la platea nel Cral Acea a Marconi. Sembra un´assemblea sindacale più che un incontro elettorale per Emma Bonino, e davvero fra politici e simpatizzanti Pd ci sono tanti lavoratori venuti a consegnare storie e preoccupazioni per la privatizzazione avviata dal Campidoglio. Bersani promette «sostegno a questa battaglia», poi riprende: «Emma è una fuoriclasse; è sobria, modesta, ma questo non nasconde la forte personalità che le permetterà di portare il Lazio a livello europeo. Siamo in condizione di battere una destra che sta ammassando le sue forze più retrive».
La Bonino in giacca rosso fiammante sull´Acea entra nel merito: «Il Comune sbaglia a giocare la partita da solista. La competenza sull´acqua è della Provincia, quella sui rifiuti della Regione. Un´amministrazione oculata non può prescindere dall´accordo con le altre istituzioni, anche perché non parliamo di una salsiccia da affettare ma di una mega-utility». E contro una «privatizzazione senza liberalizzazione» propone «un´Authority, un elemento terzo di controllo». Poi attacca: «In questa campagna elettorale si cambia troppo spesso idea: qualche solidità in più sarebbe utile. Il governo ha fatto una scelta nucleare, poi Zaia dice "In Veneto no", Formigoni "In Lombardia no", e ora anche nel Lazio si dice "Abbiamo già dato". Ma dove dobbiamo metterlo questo nucleare?». E rilancia: «Dobbiamo essere coerenti. Io sto ascoltando le categorie, ma senza lisciare troppo. Se uno mi dice: "Abbassa l´Irap il primo aprile" gli rispondo: "Sì, il primo aprile, perché gli altri giorni non si può". Basta promesse che non si possono mantenere: forse portano voti, ma il ruolo della politica è un altro». Poi ribadisce alcuni punti fermi: «lo sviluppo del territorio, non può essere tutto concentrato su Roma»; tocca i temi del lavoro, dalla green economy («molto più di uno slogan») alla "cultura come impresa". «Credo possibile un nuovo inizio e so che i cittadini ci ascolteranno, perché, se ben informati, non sono allocchi. Dobbiamo smettere di guardare nello specchietto retrovisore. E non basta scrivere un libro dei sogni: bisogna dotarsi degli strumenti per realizzarli, premiare chi raggiunge gli obiettivi e tirare la giacchetta a chi non lo fa».
Ieri Bonino ha incontrato i cattolici democratici David Sassoli, Silvia Costa, Giuseppe Lobefaro e Giorgio Pasetto che le hanno consegnato un loro contributo per il programma. Sul fronte candidature, dopo Giulia Rodano, anche l´ex assessora Alessandra Tibaldi potrebbe passare da Sel all´Idv. Nello schieramento opposto non correrà nella lista Polverini Cristiano Sandri, fratello di Gabbo; scelta fatta per «rafforzare il carattere non di parte» della fondazione intitolata a Gabriele.

Repubblica Roma 18.2.10
Il logo Ecco il simbolo del Pd per la Bonino presidente

Partito Democratico per Bonino. È la scritta che compare sul simbolo del Pd del Lazio per le regionali. «Il nostro simbolo è accostato al nome della Bonino - spiega il segretario del Pd del Lazio, Alessandro Mazzoli - per ribadire l´importanza dell´incontro tra le idee del Pd e la competenza della Bonino».

il Fatto 18.2.10
Quando salta il tappo
Gli scoppi di rivolta esprimono una domanda di legge, di protezione. Di giustizia. Agli occhi dei clandestini non è ingiusto cercare di vivere meglio, ma essere sfruttati o uccisi come bestie
di Nando Dalla Chiesa

Castelvolturno, Rosarno, Milano. Tre spie. In contesti diversissimi il problema dell’immigrazione si è messo nuovi vestiti. Non i barconi, né le masse di disperati che arrivano. Ma le masse di disperati che già ci sono. Non lo stupro o l’atto di delinquenza. Ma la rivolta sociale. Di gente che la clandestinità o la precarietà obbliga all’anonimato silenzioso. Ogni esplosione ha le sue caratteristiche. Ma alla fine c’è un denominatore comune. La pentola scoppia davanti a una violenza subìta da una comunità immigrata, omogenea o frastagliata non importa. Chi è capace di dimenticare i volti disperati, increduli e rabbiosi degli africani sulla Domiziana, dopo la strage di Castelvolturno? La Camorra aveva voluto terrorizzare e punire – sparando nel mucchio, peggio che si trattasse di bestie – gli stranieri che si erano messi a spacciare in proprio. Fu la prima vera rivolta popolare spontanea contro la Camorra. E la denuncia che giunse da quella manifestazione fu una sferzata in piena faccia per le nostre istituzioni: questo è un paese senza legge, un far west dove chi ha le armi fa quel che vuole. Detto dagli immigrati.
Le armi sono riapparse a Rosarno. Per colpire come leprotti, secondo l’immagine del sindaco Gentilini, che evidentemente è in buona compagnia anche al sud, dei disgraziati ammassati in baracche fetide in cui nessun disoccupato italiano vivrebbe ma che chissà perché dovrebbero bastare e anzi educare alla nostre leggi uomini che si spaccano la schiena per pochi euro al giorno. Che tutti fanno finta di non vedere, che tutti (o quasi) vorrebbero usare approfittando del ricatto dei documenti, dei permessi, della paura. E che vengono scientificamente preparati (basta l’occasione) a quegli scoppi di collera nei quali nulla più si calcola, né il giusto e l’ingiusto, né l’utile e il dannoso. Le armi sono riapparse a Milano. Bianche ma sempre per uccidere. Brandite dai giovani di una delle bande latinoamericane che prosperano impunite nella promiscuità del quartiere ghetto. Che è tale anche grazie a una molteplicità di affittuari italiani fuorilegge. Di nuovo un orrido addensamento urbano, forse non fetido come quello di Rosarno ma che parla un analogo linguaggio di emarginazione e abbrutimento umano, a fare da teatro alla violenza. Violenza tra immigrati, stavolta. Insomma, sarà pure paradossale, duro da digerire. Suonerà blasfemo sentirselo dire parlando di un’umanità spesso borderline rispetto alle nostre leggi. Ma gli scoppi di rivolta esprimono una domanda di legge, di protezione. Di giustizia. Agli occhi dei clandestini non è ingiusto, moralmente illecito, cercare di vivere meglio, aggirare vincoli e normative sull’ingresso. E’ ingiusto, moralmente illecito, essere sfruttati o essere uccisi come animali o dovere adattarsi ai nostri codici in quartieri far west. E’ duro accettare che nei posti in cui vivono è comunque la violenza a farla da padrona. Il problema non è dunque la prima, la seconda o la terza generazione. Il problema è il grado di integrazione, il progetto che il paese è in grado di elaborare verso gli stranieri che chiedono di diventare italiani. Nel caso della Lombardia è la capacità della regione più ricca d’Italia di aprirsi a un popolo che, anche volendo attenersi al solo parametro economico, contribuisce per oltre il dieci per cento al suo prodotto lordo. La Lombardia, appunto. Da qui soprattutto è venuta la spinta ideologica alla Grande Rimozione. All’investimento politico sulla cancellazione del problema. Perché mai fare progetti, immaginare forme di integrazione più efficaci e giuste, se si hanno di fronte masse di delinquenti che, per ogni euro destinato a loro, rubano il pane ai milanesi perbene? Il gioco di presentare gli immigrati come la prova del peccato dell’avversario politico e di scaricare anche adesso sugli “altri” la responsabilità della rivolta esprime per intero un drammatico deficit di cultura di governo.
Milano è amministrata dalla Legada17anni.Edaunnumero di anni poco minore è governata ininterrottamente la Lombardia. Né è mancato in tanti anni di governo nazionale il tempo per regolare saggiamente (non con “buonismo”, si vuol dire, ma con realismo) una materia così complessa e cruciale. Il guaio è che nonostante i proclami e le ronde la Lega e i suoi alleati stanno dimostrando di essere in Lombardia, sulla sicurezza, un autentico colabrodo. Di fronte alle pressioni migratorie e alle tensioni etniche. E di fronte alla ‘Ndrangheta. Ma questo è un altro capitolo.

Repubblica 18.2.10
Gli immigrati senza voce
L’assenza di rappresentanza
di Pap Khouma

Quando nel 2007 fu organizzato un grande convegno sull´integrazione, arrivarono politici ed esperti da tutta Italia e da tutto il mondo per analizzare il problema: ma non furono invitati stranieri residenti qui
Non vengono mai coinvolti, nemmeno nei quartieri

Non c´è solo via Padova. Zone simili si trovano anche nel resto della Lombardia. In alcune la convivenza non pone delle difficoltà, in altre ritroviamo dei ghetti degradati e intenzionalmente trascurati dalle amministrazioni locali, dove sono concentrate le classi più povere della società. Ci scandalizziamo soltanto quando succede il peggio.
Non sembrano invece interessare quelle trasformazioni del Paese che vedono gli immigrati essere protagonisti silenziosi di soluzioni di spontanea integrazione.
A Milano, alla fine degli anni Novanta tanti negozi di quartieri periferici stavano chiudendo. La giunta comunale guidata dal Sindaco Albertini prometteva un incentivo ai negozianti che tornavano a investire in quei quartieri. L´iniziativa del sindaco era reclamizzata dai mezzi di comunicazione e da molti manifesti. All´epoca, la città di Milano stava cambiando e viveva una delle sue tante metamorfosi. Questa era collegata all´aumento di famiglie di residenti stranieri, che andavano ad abitare in periferia. Ebbene: gli immigrati, senza pretendere gli incentivi comunali, hanno progressivamente riaperto o ripreso dei punti vendita abbandonati o in difficoltà. Nella maggior parte dei casi li hanno convertiti in negozi di prodotti etnici. Nello stesso periodo tante scuole rischiavano di essere soppresse a causa del calo demografico. I ricongiungimenti famigliari e di conseguenza le nascite di figli d´immigrati hanno risolto parzialmente il problema. Ma la forte presenza di stranieri in alcuni quartieri e nelle scuole ha spinto tante famiglie di italiani a cambiare zona di residenza.
Tutte le grandi città del mondo, dove si sono verificati dei flussi migratori, hanno dovuto vivere e anche cercare di risolvere con equilibrio dei problemi ancora più difficili, dando voce - e in parecchi casi anche il diritto di voto - agli immigrati.
In Italia sono presenti milioni di immigrati: sono residenti legalmente e regolarmente pagano le tasse. Ma non hanno voce. Le loro strutture organizzative sono emarginate persino quando sono in ballo le tematiche legate al futuro delle loro famiglie. Gli immigrati devono almeno aver il diritto di decidere nei quartieri dove vivono e dove producono benessere e cultura.
Il 21 e 22 settembre 2007, il ministero dell´interno del governo di Romano Prodi e l´Associazione Nazionale dei Comuni d´Italia avevano organizzato a Firenze la prima conferenza sull´integrazione degli stranieri.
Erano intervenuti rappresentanti delle amministratori locali e regionali, ministri, sindacalisti, datori di lavoro, esponenti di organizzazioni nazionali e internazionali impegnate nel settore dell´immigrazione. C´erano tanti esperti stranieri arrivati da Francia, Germania, Olanda, Inghilterra. C´erano circa cinquanta relatori. Ma neanche un immigrato residente in Italia era stato invitato.
Questo si chiama "noncuranza" o "disprezzo". Ed è indice di una sfiducia assoluta e ben radicata nella possibilità di riconoscere l´immigrato come referente e non solo come eterno ospite. Le soluzioni non si trovano nella contrapposizione di posizioni politiche a livello nazionale e locale. L´immigrazione non solo è una realtà innegabile ma è una realtà che evolve e va innanzitutto conosciuta.
Il 1 marzo 2010 (per informazioni c´è il sito www. primomarzo2010. it) vari comitati di immigrati hanno organizzato a livello nazionale una giornata di protesta pacifica, per far sentire la propria voce, chiedere un po´ di rispetto. Sperando di essere ascoltati.

Repubblica 18.2.10
Diseguaglianza
La rabbia dei deboli
Intervista alla sociologa Saskia Sassen di Leonetta Bentivoglio

La diseguaglianza non consiste solamente nell´avere meno soldi. Ma anche nell´essere espulsi, cacciati, respinti proprio fisicamente dalle zone più ricche, più belle, più eleganti delle città

Per ripensare l´identità di Milano e districare quell´accumularsi di tensioni che ne stanno modificando il volto, può essere utile l´idea di «città globale» elaborata da Saskia Sassen? «Per molti versi sì», replica la sociologa statunitense, e sottolinea la peculiarità di un conflitto «sviluppatosi all´interno della popolazione di immigrati», aggiungendo che gli scontri «rappresentano la forma estrema di un vecchio fenomeno: quello per cui i gruppi più deboli, in una società, scatenano una forte aggressività reciproca essendo per loro inaccessibili i livelli del potere».
Esperta di processi transnazionali, Saskia Sassen è autrice di lavori che hanno stabilito nuovi quadri metodologici nelle definizione di città come elemento strategico dell´economia globale: da Le città globali (Utet) fino a Territorio, autorità, diritti (Bruno Mondadori), che nello stravolgimento dell´accezione tradizionale di quei tre concetti identifica il motore della trasformazione epocale.
Le sue analisi sull´ineguaglianza derivante dalla globalizzazione possono applicarsi ai fatti di Milano?
«Certo. L´ineguaglianza dilaga da tempo nelle città, ma quella emersa negli ultimi anni Ottanta, e che si sta mostrando in crescita continua, è di genere diverso. In passato gli abitanti più poveri delle città, pur se discriminati, potevano sentire che era quello il loro luogo. Invece oggi il quesito centrale degli emarginati è: a chi appartiene questa città? L´ineguaglianza non consiste solo nella miseria, ma nell´essere espulsi, cacciati, respinti fisicamente dalle zone più belle, ricche ed eleganti della città».
Quando definisce i conflitti tra immigrati un fenomeno "vecchio", a cosa si riferisce?
«A quanto è accaduto a New York negli anni Ottanta e Novanta: vi si sono insediate le nuove comunità latino-americane scontrandosi coi portoricani e altri gruppi ispanici radicati da tempo. Lo si è visto pure all´interno della comunità nera, quando sono arrivati gli haitiani e gli immigrati dei Caraibi. Ciò che si scatenerà in modo sempre più violento sarà una sorta di nazionalismo "sotterraneo" tra i vari gruppi di immigrati. Sto scrivendo un nuovo libro, Città e Nuove Guerre, dove espongo quelle che secondo me sono le cause di questo scenario di ineguaglianze ed espulsioni: la città perde la sua facoltà di trasformare la conflittualità in civiltà, che è stata una delle capacità sviluppate dalla città tanto nel tempo della storia quanto nello spazio del pianeta».
Quali sono i modi più opportuni e sperimentati per arginare le esplosioni di violenza nelle città globali?
«Difficile rispondere. Molte città globali, apparentemente, sono riuscite a controllare l´ineguaglianza e la violenza che ne risulta, ma il più delle volte è stato fatto tramite la repressione. Oggi a New York ci sono trecentomila immigrati in carcere in attesa di processo: li si imprigiona senza sapere neppure se sono colpevoli di qualcosa! E al di sotto delle immagini luccicanti di Dubai, c´è un intero mondo di immigrati che lavorano in condizioni di vergognoso sfruttamento. L´unica cosa che si può fare è adoperarsi intensamente per una vera integrazione».

Repubblica 18.2.10
Se l´Italia perde il sogno della convivenza
Gli scontri di Milano hanno mostrato le difficoltà d´integrazione nel nostro Paese. Ma altrove le cose funzionano diversamente
di Gad Lerner

Per la Costantinopoli ottomana come per la New York di oggi la presenza di popolazioni diverse è stata fonte di ricchezza e sviluppo

Per secoli Costantinopoli, l´odierna Istanbul, fu al tempo stesso la più grande città turca, greca, armena, curda, ebraica, romena del Mediterraneo. Era la New York del suo tempo, la capitale del mondo (ammesso che possiamo permetterci il lusso, allora come oggi, di escludere la Cina). Grazie a questa straordinaria peculiarità multietnica la metropoli plurale cresciuta sul Bosforo, al confine tra Europa e Asia, prosperava senza paragoni possibili con gli altri centri urbani europei: Parigi e Londra apparivano borghi trascurabili al suo cospetto.
Prima che sopraggiungesse l´epoca dei nazionalismi, contrassegnata da genocidi, trapianti di popolazione e pulizie etniche, la città-mosaico aveva rappresentato il più potente fattore di sviluppo economico e culturale lungo tutta la sponda sud del Mediterraneo: furono multietniche fino a non molto tempo fa Salonicco, Smirne, Antiochia, Aleppo, Haifa, Alessandria d´Egitto, Algeri, Orano, successivamente ridotte con la forza a innaturale omogeneità. È banale constatare come la brutale cancellazione dell´esperienza urbana levantina, nel giro di pochi decenni del secolo scorso, abbia contribuito decisivamente al declino delle regioni mediterranee interessate. La Istanbul monoetnica di oggi resta una grande città ma non è più una capitale. Un senso di vuoto, di mutilazione subita, infonde sentimenti di rimpianto e nostalgia nelle altre città che furono plurali e oggi sono ridotte al rango di province arretrate.
E prima ancora, l´equazione multietnicità uguale progresso era stata confermata dalla nuova potenza mondiale: gli Stati Uniti d´America, un nuovo impero generato dall´incontro fra comunità migranti. Tuttora, per fare un solo esempio, New York ha una popolazione ebraica numericamente superiore alla somma di Tel Aviv e Gerusalemme. Mentre l´estirpazione della presenza ebraica dall´est Europa può essere annoverata tra le cause del suo impoverimento.
Magari bastasse la consapevolezza storica per convincere i popoli. Le recenti contrapposizioni ideologiche su un concetto astratto come il multiculturalismo segnalano dunque come sia difficile per le leadership politiche e culturali misurarsi con il fallimento di un´illusione: far coincidere semplicemente, sulla carta geografica, gli Stati con le nazioni.
Quando un leader che è anche imprenditore globale come Berlusconi (con soci arabi e interessi sparsi oltreconfine) proclama di battersi "contro la società multietnica", denota l´urgenza opportunistica di assecondare una spinta difensiva anacronistica lontana dal suo linguaggio originario: il format televisivo commerciale, apolide per definizione. Quando protesta contro il fatto che a passeggio nel centro di Milano s´incontrano troppi africani, nega l´abc della nuova metropoli europea di cui anche lui è figlio. Quasi mai la città multietnica è il prodotto di una politica abitativa consapevole, pianificata. Perché i flussi migratori possono essere regolati da governi responsabili, ma ben difficilmente pianificati. Accade così, con il senno di poi, che le diverse visioni culturali e soprattutto le convenienze politiche diano luogo a teorie dell´integrazione o del rifiuto che solo a parole rivendicano la dignità di un progetto.
I due "modelli" alternativi di integrazione spesso contrapposti sono oggi in Europa il "modello repubblicano francese" e il "modello comunitarista britannico". La Francia, erede di una concezione rivoluzionaria della cittadinanza fondata sui diritti, e quindi disgiunta dal vincolo di sangue della nazionalità, ha perseguito una pedagogia delle regole che trasformi gli immigrati in concittadini su base laica. Ciò non ha impedito la formazione di agglomerati urbani separati, di problematica integrazione. Ma finora le rivolte delle banlieu, seppure violente, hanno visto prevalere la dimensione sociale e semmai criminale rispetto a quella religiosa integralista. Viceversa la storia coloniale dell´impero britannico ha favorito nel Regno Unito la crescita di vere e proprie comunità immigrate a sé stanti, dotate di leadership separate anche nell´elaborazione di codici morali e di cittadinanza, finendo per costituire entità in comunicanti. Perfino corpi estranei, talvolta "nemici interni".
In diverse città italiane (Torino e Genova al nord, Palermo e Catania al sud) l´occupazione di vaste porzioni di centro storico da parte delle comunità immigrate è stata parzialmente gestita nel tempo con un´affannosa rincorsa di integrazione spontanea, affidata soprattutto alla scuola e al volontariato sociale, oltre che all´azione preventiva e repressiva delle forze di polizia. Diverso è il caso di Milano, governata ormai da decenni da amministrazioni di destra che rifiutano ideologicamente la nuova dimensione multietnica. Ciò naturalmente non ha frenato la vitalità dei nuovi cittadini milanesi immigrati, le cui imprese registrate presso la Camera di Commercio ormai detengono una quota di ricchezza irrinunciabile per l´economia metropolitana; senza contare la quota dell´economia illegale e della malavita. Il risultato è che la nuova forza economica degli immigrati, rifiutata a parole e boicottata con normative anacronistiche, spontaneamente cerca luoghi di residenza e d´investimento che aggirino l´ostacolo.
Fu così per la prima "casbah" di Porta Venezia, oggi non solo bonificata ma arricchita grazie alla sua nuova dimensione multietnica. È toccato poi alla non distante arteria commerciale di via Padova di divenire il ricettacolo di subaffitti senza regole e di vendite d´appartamenti e negozi alla spicciolata, con prezzi in costante ribasso.
Il laissez faire di chi rifiutava ogni pianificazione perché elettoralmente gli conveniva proclamare "no allo straniero", di certo non era in grado di bloccare la metamorfosi in atto. Ma ha causato un´identificazione fra città multietnica e degrado che stride con la storia della civiltà.

l’Unità 18.2.10
Cgil e professori preparano lo sciopero del 12 marzo. Non sarà l’unica protesta
«Una riforma ingiusta, che discrimina i non liceali. La impugneremo alla Corte Costituzionale»
«Contro la deforma-Gelmini andremo alla Consulta»
«Vanno costituiti gli stati generali della conoscenza entro l’estate».È il messaggio lanciato dal segretario confederale della Cgil, Fulvio Fammoni, all’assemblea nazionale sulla scuola secondaria superiore.
di Maria Grazia Gerina

Gli insegnanti: «Abbiamo scritto una lettera al ministro: ci sono già 1.200 firme»

La cosa, per ora, funziona così. Accompagni tuo figlio ad iscriversi alla scuola superiore, ma che cosa studierà, cosa gli insegneranno, non lo sai. Sai però che le ore di lezione, a meno che non sia un liceale in erba, gli saranno ridotte. È la nuova scuola superiore disegnata da Tremonti e Gelmini. «E non chiamatela riforma, per piacere», avvertono gli insegnanti. Qualcuno suggerisce di chiamarla «deforma». Qualcuno burocraticamente «riordino».
Rossella Zamparini, insegnante di matematica, dal suo osservatorio di frontiera, l’Iiss Von Neumann, «la scuola più complessa di Roma» (due sedi nella periferia di San Basilio, una terza nel carcere di Rebibbia), la vede così: «La distruzione della scuola pubblica è iniziata, i nostri ragazzi sono stati stati premiati in Cina per i progetti sulla robotica, ma l’insegnante che li ha seguiti con questa riforma rischia di perdere il lavoro, come molti insegnanti tecnico-pratici, dicono “più matematica” e poi scopro che il prossimo anno la mia materia verrà tagliata del 30 per cento». E ragiona: «Noi a San Basilio i ragazzi li andiamo a prendere casa per casa, saremo in contatto con almeno 800 famiglie, dobbiamo coinvolgere anche loro».
Assemblea pubblica della Cgil Flc, ieri mattina, nella Sala delle Carte geografiche, a Roma. Si prepara lo sciopero della scuola del 12 marzo. Gli insegnanti arrivano da tutta Italia, da Bari, da Venezia, da Napoli. Mettono insieme un cahier de doléances, che dovrebbe chiamare in piazza tutti, non solo chi nella scuola lavora. O almeno convincere il governo a rinviare di un anno l’attuazione della riforma piovuta sulle scuole superiori, senza nemmeno i regolamenti attuativi. «Dobbiamo fermarli», dicono il segretario generale della Cgil Flc, Domenico Pantaleo, e la segretaria nazionale Maria Brigida. «Gli esuberi saranno 26mila, solo per gli insegnanti» (il 23 è fissato l’incontro sugli organici al ministero). «Le scuole non ha i soldi nemmeno per i corsi di recupero: vantano credi di 1miliardi e 600mila euro». Quanto alla riforma: «Arriveremo anche alla Corte Costituzionale se serve, perché c’è un problema di uguaglianza tra gli studenti dei licei e gli altri che si vedranno ridurre le ore di lezione da 36 a 32». In prima fila, a sentire, Giovanni Bachelet, Francesca Puglisi, del Pd, Loredana Fraleone, Prc, Bergonzi, Pdci, Simonetta Salacone, SeL. Danilo Prosdoci insegna in provincia di Venezia, nelle scuole professionali e, per paradosso, è uno di quegli insegnanti tecnico-pratici di cui la scuola secondo la riforma Tremonti-Gelmini potrà fare a meno. «Ho uno scatolone di titoli, la mia professionalità è stata riconosciuta dalla Microsoft, ma per la scuola sono un lavoratore ad esaurimento e a 52 anni non voglio nemmeno sapere cosa significa». Eppure: «Quando escono dalle nostre scuole ai ragazzi chiedono: cosa sai fare? Io invece adesso di fronte ai tagli della riforma mi chiedo: con tre ore a settimana cosa gli insegnerò?».
Il tam tam in molte scuole è già partito. «Noi abbiamo scritto una lettera al ministro e abbiamo chiesto alle famiglie di firmarla: 1200 firme e molti nel nostro territorio hanno votato questa maggioranza che ci governa», racconta Mirella Alcamone, del liceo Anco Marzio di Ostia.
«Abbiamo bisogno di un sistema di istruzione che sappia promuovere i più deboli e che non separi i forti dai deboli a quattordici anni», è il grido di aiuto di Pina Bonaiuto, preside di istituto professionale a Nola: «L’istituto alberghiero della nostra zona vanta 700mila euro di credito dallo Stato e non sa nemmeno se li avrà restituiti».

Repubblica 18.2.10
Solo qui si è costretti a scegliere tra scuola e musica, tra tv e teatro. E si è dimenticato Keynes
Cultura, cronache dall’asteroide Italia
di Salvatore Settis

L´asteroide Italia si è perso nello spazio. Dimentichi del pianeta in cui fino a ieri abbiamo vissuto, sempre meno ci confrontiamo con gli altri, sempre più serriamo le finestre, chiudiamo a chiave non le porte, ma i nostri occhi.

Attardato in un thatcherismo-reaganismo di maniera, chi ci governa sbandiera le superiori ragioni della crisi per giustificare i tagli a ogni investimento in cultura, dai musei alla scuola elementare, dalla musica alla ricerca. Senza sospettare, a quel che sembra, che quella retorica aziendalistica è obsoleta (a cominciare dall´America di Obama) perché si è infranta contro i problemi che ha creato, inclusa la crisi finanziaria in cui navighiamo a vista. Senza nemmeno immaginare che i Paesi più avvertiti (come gli Usa) investono in cultura precisamente per reagire alla crisi, per preparare una stagione più favorevole giocando d´anticipo, puntando sulla cultura perché crea innovazione, favorisce lo sviluppo, promuove democrazia e responsabilità. La "sinistra", troppo occupata a rincorrere la Lega e Berlusconi sul loro stesso terreno in un cupio dissolvi per definizione perdente, non muove un dito per correggere il tiro, anzi lietamente contribuisce a spingere l´asteroide ulteriormente fuori orbita. Allegria di naufraghi.
Vincenzo Cerami sull´Unità e Gioacchino Lanza Tomasi sul Sole hanno lapidariamente osservato che alla sinistra (come del resto alla destra) «manca la cultura della cultura». Non è un gioco di parole. Cultura della cultura vuol dire (sul pianeta Terra) riflettere, anzi sapere che le attività artistiche, la creazione letteraria, la ricerca scientifica, i progetti museografici, la scuola hanno una funzione alta e insostituibile nella società. Sono, anzi in Italia furono, luoghi di consapevolezza e di educazione alla creatività, alla democrazia e ai valori civici e identitari: il cuore di quella capacità di crescita endogena che i migliori economisti individuano come uno stimolo potente all´innovazione e all´occupazione non di quei settori specifici, ma di una società nel suo insieme. Eppure destra e "sinistra" troppo facilmente concordano nel genuflettersi davanti alle Superiori Esigenze dell´Economia di Crisi e all´Inevitabile Federalismo (del quale ultimo, peraltro, nessuno indugia a calcolare i costi devastanti). Allargando le braccia, e magari fingendo di vergognarsi, si tagliano le spese in cultura, dando per scontato che beni culturali, teatro, ricerca siano optional a cui dedicare solo il superfluo (che non c´è mai).
Quasi un anno è passato da quando Baricco ha aperto su Repubblica (24 febbraio 2009) un´ampia discussione sugli investimenti in cultura. In tempi di crisi, questa la sua tesi, non si può pensare che la cultura sia finanziata con fondi pubblici. È arrivato il momento di scegliere. Basta soldi di Stato al teatro, puntiamo sulla scuola e la televisione, le sole cose che contino «nel paesaggio che ci circonda» (per la loro dimensione di massa). Quanto al teatro, all´opera lirica e così via, «meglio lasciar fare al mercato e non disturbare», tanto più che «se non sono stagnanti, poco ci manca». Ergo: non tagliare fondi a musica e teatro, ma spostarli integralmente sulla scuola e la televisione, «il Paese reale è lì». Proposta volutamente provocatoria, che a destra come a sinistra fu presa troppo spesso alla lettera, suscitando qualche esultanza di troppo (per esempio, dei ministri Brunetta e Bondi). Proviamo dunque, prendendola alla lettera, a farci a voce alta due domande.
Prima domanda: oltre a scuola, televisione e teatro, quale è il posto di altre "voci", come ricerca, università, musei e monumenti? Anch´essi non fanno più parte del Paese reale? Dobbiamo (a "sinistra" come a destra) vestire il cilicio e chiedere al governo, flagellandoci, di indirizzare anche quelle già scarse risorse su televisione e scuola? «Spostate quei soldi», scriveva Baricco, e intendeva quelli del teatro: ma siamo sicuri che per una delle "voci" della cultura si possano usare sempre e solo i soldi di altre "voci" della stessa natura? Perché non possiamo dire: "spostate soldi" sulla cultura, ma prendendoli da opere costose e dannose come il minacciato Ponte sullo Stretto, dal cosiddetto salvataggio Alitalia che ha borseggiato il contribuente, o riducendo i costi della Tav (il quadruplo, per chilometro, che in Francia)? Lista, inutile dirlo, che può allungarsi a piacimento. E perché non proviamo a recuperare anche solo in parte la gigantesca evasione fiscale, in cui l´Italia detiene il record mondiale (300 miliardi l´anno di imponibile non dichiarato secondo il Corriere della Sera). A meno che l´evasione non sia «in sintonia con l´intimo sentimento di moralità», come dichiarò Berlusconi in un discorso alla Guardia di Finanza (11 novembre 2004).
Seconda domanda: ma in quale Paese al mondo si è mai dovuto scegliere fra scuola e musica, fra televisione e teatro? Perché non è possibile promuovere tutte le attività culturali? Negli Stati Uniti, persino i biglietti per andare all´opera sono deducibili dal reddito (e in tal modo indirettamente finanziano il teatro). Ha mille volte ragione Baricco di chiedere più soldi per la scuola e una decente Tv pubblica che recuperi (se mai è possibile) il degrado culturale che proprio la televisione, privata e pubblica, va consolidando. Ma i tagli degli ultimi anni (con governi d´ogni segno) a beni culturali e teatro non si sono tradotti in vantaggi né per la Tv né per la scuola. Incrementare le risorse della scuola è essenziale; ma perché farlo strappando risorse ad altre "voci" del già magrissimo paniere della cultura? Se nell´asteroide Italia queste domande trovano così poche voci convinte, a destra esattamente come a "sinistra", è perché vi manca la cultura della cultura. Celebrando i funebri rituali della crisi, tappandoci gli occhi davanti all´evasione fiscale e agli sprechi in spese pubbliche non necessarie anzi dannose, dovremo veder morire l´opera lirica o il museo che in Italia sono nati, e intanto prosperano sul pianeta Terra, da Berlino a New York a Melbourne? Dovremo assistere impotenti alla devastazione del paesaggio culturale italiano (e, non dimentichiamolo, alla cementificazione del paesaggio reale)?
A quel che pare, anche la "sinistra" ha innalzato a principio supremo quello che Keynes chiamava «l´incubo del contabile», e cioè il pregiudizio secondo cui nulla si può fare, se non comporta immediati frutti economici. «Invece di utilizzare l´immenso incremento delle risorse materiali e tecniche per costruire la città delle meraviglie, abbiamo creato ghetti e bassifondi; e si ritiene che sia giusto così perché "fruttano", mentre - nell´imbecille linguaggio economicistico - la città delle meraviglie potrebbe "ipotecare il futuro"». E Keynes continua: questa «regola autodistruttiva di calcolo finanziario governa ogni aspetto della vita. Distruggiamo le campagne perché le bellezze naturali non hanno valore economico. Saremmo capaci di fermare il sole e le stelle perché non ci danno alcun dividendo». Sorgerà mai, nell´asteroide Italia, una sinistra capace di capire che chiudere teatri e musei sarebbe come fermare il sole e le stelle?

Repubblica 18.2.10
L´uomo presente sull'isola prima di quanto ipotizzato finora. Lo provano alcuni reperti Una scoperta che riscrive la teoria delle migrazioni: l´arrivo in Europa non avvenne solo via terra
Marinai. L'Homo sapiens navigatore esperto l'arrivo a Creta già 130 mila anni fa
di Luigi Bignami

Duemila utensili e alcune punte di lance ritrovati da una spedizione archeologica
E spunta un´ipotesi affascinante: che a conquistare il Mediterraneo sia stato l´Erectus

Duemila oggetti di pietra trovati sull´isola di Creta potrebbero rivoluzionare la nostra storia più antica. I reperti, infatti, raccontano che i primi esseri umani e forse addirittura chi li precedette navigarono per i mari del Mediterraneo conquistando varie isole più di 100.000 anni prima di quanto ipotizzato finora. Secondo un gruppo internazionale di archeologi gli utensili venuti alla luce vicino al villaggio di Plakias hanno un´età di 130.000 anni: l´isola, dunque, era abitata già a quel tempo.
Poiché Creta è isolata dal resto delle terre che circondano il Mediterraneo da oltre 5 milioni di anni, significa che chi costruì quegli attrezzi deve averceli portati fin lì per mezzo di imbarcazioni e quindi devono aver sfidato le acque del mare. Fino a oggi gli oggetti costruiti dall´uomo trovati su isole del Mediterraneo non sono più vecchi di 10-12 mila anni. E per questo motivo si era sempre ipotizzato che le capacità nautiche dell´Homo sapiens si fossero sviluppate in quel periodo. Testimonianze di viaggi importanti per mare ci raccontano che l´Homo sapiens aveva raggiunto l´Australia 60.000 anni fa. Sull´isola indonesiana di Flores, poi, vi sono reperti e scheletri ancora più antichi, che dimostrano l´intraprendenza che il sapiens ebbe in tempi così lontani. Ma mai si era ipotizzato che anche nel Mediterraneo fossero stati intrapresi viaggi per mare oltre 100.000 anni fa.
Le ipotesi che si aprono con questa scoperta sono state avanzate da un gruppo di archeologi guidati da Thomas F. Strasser e Eleni Panagopoulou, del Providence College nel Rhode Island. I ritrovamenti sono stati descritti durante un simposio all´Archeological Institute of America e pubblicato sulla rivista Hesperia, dell´American School of Classical Studies di Atene.
«Le prove di tutto ciò sono scritte nei livelli di suolo dove sono stati trovati i reperti, e che abbiamo analizzato. Il terreno è stato studiato a fondo dai geologi per ricostruire la nascita dell´isola di Creta e le vicissitudini geologiche dei periodi glaciali e interglaciali», spiega Curtis Runnels, della Boston University, che ha partecipato alle ricerche. La datazione degli strumenti, infatti, è resa possibile proprio grazie a quanto si conosce dello strato di suolo in cui essi sono venuti alla luce.
Ma c´è qualcosa di ancor più affascinante. Secondo gli archeologi che hanno scoperto i reperti lo stile con cui sono state intagliate le punte farebbe pensare che esse siano vecchie addirittura di 700.000 anni. Potrebbero avere, dunque, un´età doppia rispetto ai livelli di suolo in cui sono stati trovati. Se così fosse, anche se i dubbi sono molti, chi attraversò il Mediterraneo per primo fu l´Homo erectus (e non il Sapiens), che produsse oggetti riconducibili alla cultura Acheulana. Essa produceva manufatti litici lavorati su due lati in modo simmetrico e a forma di mandorla. In Italia si hanno esempi di utensili simili a Monte Poggiolo, ai piedi dell´Appennino romagnolo.
Sia in un caso sia nell´altro l´arrivo in Europa da parte dei nostri avi è sempre stato ipotizzato attraverso il Medio Oriente e la Turchia, mai per mare. Ma senza arrivare all´ipotesi più estrema (l´Erectus alla conquista del Mediterraneo), cosa cambia sul passato dell´Homo sapiens di fronte a questi ritrovamenti? «Innanzitutto dobbiamo riconoscere che le capacità di navigare dell´Homo sapiens erano più elevate di quel che abbiamo sempre pensato e questo ci fa ipotizzare l´arrivo in Europa non solo dall´Oriente, di cui si hanno testimonianze certe, ma anche da Occidente, forse attraverso lo Stretto di Gibilterra», afferma Strasser. In tal caso l´Europa potrebbe essere stata raggiunta molto tempo prima di 50-60.000 anni fa e dunque si apre una nuova sfida: trovare un Sapiens europeo vecchio di almeno 100.000 anni.

Repubblica 18.2.10
I princìpi non sono merce
Colloquio tra Claudio Magris e Gustavo Zagrebelsky

Dalla difesa della Costituzione alla diffidenza verso i valori, lo scrittore e il giurista si sono confrontati sull´Italia di oggi e su quel che dovrebbe costituire un´identità comune
"In questi tempi certe parole vengono usate in un modo che non è proprio"
"La ragione è stata anche alla base di molte tragedie Rivalutiamo il sentire universale"

TORINO. Legge. Diritto. Giustizia. Tre parole che a un orecchio distratto potrebbero parere analoghe, intercambiabili quasi, e che invece racchiudono modi anche assai lontani di concepire quel sistema di principi e di regole che rende possibile la convivenza tra le persone e tra i popoli. Tre parole che, ieri, hanno aperto con il primo dialogo il ciclo "ItAlieni. Come siamo diventati extraterrestri", un´iniziativa promossa dal Circolo dei Lettori di Torino per riflettere e ritrovare vecchie e nuove parole comuni. Gustavo Zagrebelsky, costituzionalista, autore di numerose riflessioni sul tema delle norme e dei valori fondanti, giuridici e non solo, e Claudio Magris, scrittore e germanista ritrovatosi negli ultimi anni tra le voci italiane più critiche proprio sui temi della giustizia, dei diritti e del loro stravolgimento, hanno dato vita in un sala gremita a un dialogo appassionato, a partire dall´ultimo lavoro di Zagrebelsky, Intorno alla legge. Il diritto come dimensione del vivere comune (Einaudi). Senza potere né volere evitare i riferimenti all´attualità, come quando si è affrontato il tema della riforma della Costituzione o del valore del lavoro, in trasparente polemica con il "liberismo" del ministro Renato Brunetta. Ecco il resoconto del loro scambio.
MAGRIS In un celebre dialogo tra Pericle e Alcibiade quest´ultimo interroga: che cos´è la legge? E Pericle risponde: la legge è la traduzione scritta di ciò che l´assemblea ha deciso. È davvero così? È soltanto la maggioranza a determinare le leggi?
ZAGREBELSKY No. La legge non può non basarsi su un tessuto comune, su idee condivise prima della formazione stessa del diritto. Se il diritto viene imposto con la forza, anch´esso diventa sopraffazione.
MAGRIS Occorrono dunque dei principi fondanti. Ma intorno a questi, che in un certo momento storico appaiono intoccabili, possono cadere i tabù. Qualcuno comincia a dire che la Costituzione italiana deve essere cambiata perché è cambiato il contesto storico che l´aveva determinata. Ma devono essere cancellati anche i suoi principi di base?
ZAGREBELSKY Il tema è attuale e ben noto. Qual è oggi il senso di ispirarsi a norme volute da forze politiche che non esistono più, in un contesto assai diverso dal nostro? La risposta è che esistono principi base che non possono essere toccati, e altri attuativi sui quali si può discutere. Non si può cambiare la Costituzione a ogni cambio di generazione perché questo genererebbe un´instabilità politica non desiderabile.
MAGRIS Non tutti sono d´accordo, però… E proprio sulla Costituzione è ormai battaglia aperta…
ZAGREBELSKY È così. Di recente qualcuno ha detto che il lavoro è una merce e che la Repubblica dovrebbe quindi fondarsi sul mercato del lavoro. Ma si può fondare la Costituzione su una merce? Il lavoro è, innanzi tutto, un elemento della dignità umana, che dovrebbe essere più importante di qualunque merce
MAGRIS Dunque è indispensabile difendere la Costituzione italiana, almeno nella sua parte fondativa?
ZAGREBELSKY Io credo di sì. Non è un caso che essa sia stata così spesso ripresa in altri testi fondamentali, a cominciare dalla Dichiarazione dei Diritti dell´Uomo delle Nazioni Unite, che è di dieci mesi più giovane. Essa si inserisce in un grande movimento politico e culturale che è ancora vivo e attuale. Intorno, di lato, a fianco, deve stare il dibattito politico e culturale, i temi che i Padri costituenti non poterono affrontare per la buona ragione che non si ponevano ancora, come ad esempio molte delle questioni di bioetica di cui si discute oggi.
MAGRIS In questo libro, tu rivaluti il sentimento, l´esistenza di sentimenti comuni su ciò che è giusto e soprattutto su ciò che è ingiusto e non può essere tollerato. Non si tratta di un´illusione? Non può accadere che ci siano persone che non condividono l´intollerabilità di certi atti, compresi i più efferati, come i crimini nazisti, l´uccisione di innocenti?
ZAGREBELSKY Rivalutare il "sentimento comune" in contrapposizione alla ragione ha il senso di riproporre un "universale umano". La ragione è stata alla base di molte tragedie del secolo scorso: ad esempio all´origine del razzismo ci sono alcune idee apparentemente razionali. Perché un sentire universale umano possa esistere, e non rappresentare una mera illusione occorre un lavorio continuo, quel lavoro che fa della legge e del diritto qualcosa di vivo e di vero.
MAGRIS Non sono convinto della radicale distinzione tra sentimento e ragione. Il razzismo non è stato soltanto una teoria basata su fondamenti razionali, ancorché non condivisibili o distorti, ma un modo di sentire. Quando negli Stati Uniti caddero le norme che impedivano agli afroamericani di studiare nelle Università una parte della popolazione lo considerò illegittimo e dovette intervenire l´esercito. Condivido di più la distinzione tra principi e valori. Perché i principi sono da preferire?
ZAGREBELSKY Entrambi diffidiamo della parola "valori", specie per come viene usata di questi tempi. Se io scrivo sul muro davanti a me che la pace è un valore, significa che è un obiettivo da perseguire con ogni mezzo. Se invece la pongo alle mie spalle come principio non potrò che perseguirla con strumenti pacifici.
MAGRIS Occorre che tutti siano persuasi che la legge è giusta? È davvero credibile che le regole che una società si dà possano essere condivise da tutti? E se non è così, come si tutela la minoranza, chi non è d´accordo con quella legge o quelle leggi?
ZAGREBELSKY Esiste un "diritto verticale", imposto dall´alto verso il basso, che è tipico delle monarchie, del comando di uno solo, ed esiste un "diritto orizzontale", che si forma poco alla volta, persuadendo un numero crescente di persone. Pensiamo all´eutanasia: se io parto dall´affermazione che la vita non può in nessun caso essere toccata perché "appartiene a Dio", è chiaro che solo chi la pensa come me fin dall´inizio condividerà la legge che ne deriva, e lo stesso accadrà se affermo che "la vita è mia", e dunque posso disporne come mi pare. Occorre trovare una terza strada, sulla quale i cittadini andranno persuadendosi nel tempo e per far questo i giuristi da soli non bastano.

Repubblica Roma 18.2.10
Fino al 13 giugno
Alle Scuderie del Qurinale in mostra da sabato 20 venticinque opere in occasione del quarto centenario della morte
Tutti i capolavori del genio che vide il buio e dipinse la luce
di Francesca Giuliani

Tutto Caravaggio. Caravaggio puro, assoluto. Quello sicuro, oltre le discussioni che hanno dilaniato la critica. Caravaggio dei capolavori, citato dai contemporanei e riconosciuto, Caravaggio di luce e ombra, senza disegni e col tratto libero che taglia le tele. Il genio assassino, l´uomo appassionato e sempre in fuga, l´artista amato per la commistione tra rivoluzione artistica ed esistenza tormentata. Caravaggio oltre i miti e le mitologie, tutto dentro la città che forse più di ogni altra - nel vagare di un´intera, sia pur breve esistenza - fu la sua. Apre sabato alle Scuderie del Quirinale la mostra "Caravaggio", a cura di Francesco Buranelli e Rossella Vodret, da un´idea di Claudio Strinati nell´occasione del quarto centenario della morte (che lo prese il 18 luglio 1610 a Porto Ercole, solo, malato), e che di tutte le celebrazioni nazionali è probabilmente l´evento più importante e di richiamo.
Delle quaranta opere dipinte da Caravaggio, alle Scuderie se ne possono vedere venticinque, secondo un filo conduttore soprattutto tematico-iconografico. Come nelle due versioni della Cena in Emmaus della National Gallery di Londra e della Pinacoteca di Brera oppure nel Suonatore di liuto dell´Ermitage e i Musici del Metropolitan di New York, capolavori che si trovano eccezionalmente affiancati e insieme ad altri più difficilmente visibili come l´Annunciazione di Nancy (dopo il restauro) o l´Incoronazione di spine dal Kunsthistorisches Museum di Vienna.
La mostra è l´occasione per tornare a riflettere sulle modalità esecutive, sul processo creativo e anche per riguardare la rivoluzione caravaggesca nella rappresentazione del naturale realizzata secondo una modalità che porta chi guarda al centro dell´azione, sotto una luce che è sempre decisiva perché, spiega Strinati «il pittore può pensare il buio ed essere nel contempo uno che vede meglio di ogni altro». È quel che si vede in quadri giovanili celebri come il Giovane con il canestro di frutta, la Buona Ventura o i Bari oppure poi, nella Decollazione del Battista, in cui «Caravaggio fa coincidere la misure della tela con quelle della parete di fondo e il buio oratorio si trasforma in un suggestivo teatro», spiegano Buranelli e Vodret.
Fuori dalle sale delle Scuderie, l´album caravaggesco romano può esser completato con le tre tele della cappella Contarelli a San Luigi dei Francesi, la Conversione di Saulo e la Crocefissione di San Pietro a Santa Maria del Popolo, la Madonna dei Pellegrini a Sant´Agostino e il Giove del Casino Boncompagni Ludovisi. Accanto a queste, la mostra suggerisce la valorizzazione di quelle dei musei romani (quattro alla Borghese, la Maddalena alla Galleria Doria Pamphilj, il San Francesco di Carpineto in deposito a Palazzo Barberini) portando così a circa quaranta le opere di Caravaggio visibili a Roma. Accompagnano la mostra i laboratori per bambini dai 3 agli 11 anni e un ciclo di lezioni d´autore nella sala cinema del Palazzo delle Esposizioni.

mercoledì 17 febbraio 2010

Repubblica Roma 17.2.10
La sfida E i tifosi della Lazio sul blog della Polverini: sulla scheda scriveremo "Lotito vattene"
Zingaretti, volata per la Bonino "Ha intrapreso la via giusta"
di Chiara Righetti

"IL LAVORO prima di tutto". È lo slogan scelto da Emma Bonino per l'incontro di oggi al Cral dell'Acea con Bersani, Montino e Mazzoli; ma anche sindacalisti e lavoratori che racconteranno le loro storie. In campo per lei anche Veltroni, che sarà sabato al seminario di Area democratica da cui uscirà un contributo per il programma.
Mentre Zingaretti assicura: «Emma ha scelto la nota giusta con lo slogan "Ti puoi fidare". Con lei puoi discutere, litigare, ma puoi star certo che dice la verità». Per la Bonino sono giornate dense di incontri, dalle categorie produttive al mondo cattolico. Ieri era coi familiari di persone morte in carcere in circostanze sospette: «Non smetteremo di accompagnarvi: non abbiamo miracoli da promettere, solo l'impegno di restarvi al fianco». In sala, oltre a Ignazio Marino, Ilaria e Rita Cucchi, sorella e madre di Stefano. Emma le ha citate come simbolo d'impegno: «Il vostro coraggio è merce rara, reclamare giustizia è una grande opera di civiltà». È on line da poche ore il sito www. emmapresidente. it: dominato dal giallo, oltre a foto e agenda, contiene uno spazio per inviare proposte e i link ai principali social network per comunicare con Emma, anche attraverso il suo blog. Ha scelto di ricandidarsi nel centrosinistra l'assessora regionale alla Cultura Giulia Rodano, che però passa dalle file di Sel a quelle dell'Idv: «Ho seguito con faticae delusione spiega il percorso di riunificazione a sinistra. Creare un'alternativa è sempre più importante e nel programma dell'Idv ci sono tanti temi su cui da tempo ho costruito la mia vita politica, come trasparenza e della legalità».
Instancabile Renata Polverini: dopo la conferenza "in rosa" con le altre candidate governatrici del Pdl e il pranzo con Berlusconi a palazzo Grazioli, ieri pomeriggio era a ballare la salsa in un centro anziani ad Acilia. La segretaria Ugl fa sapere che nella sua lista civica ci sarà anche l'ex medico sociale della Roma Mario Brozzi.
Ma nelle stesse ore, per non scontentare nessuno, sul blog scrive invece di Lazio: «Condivido le preoccupazioni dei tifosi e mi impegnerò in prima persona per essere utile alla squadra». Tanto basta per far lievitare gli accessi al sito: in meno di due ore i commenti sfiorano il centinaio. Sono perlopiù di tifosi arrabbiati, come Marco: «Non ci venga a dire che la politica con il calcio non centra (sic), o non si sarebbe fatta fotografare con Totti e la Sensi». O minacciosi, come Giovanni: «Prenda posizione, si impegni a liberare la Lazio da quel personaggio squallido o io e famiglia (circa 20persone) voteremo "Lotito vattene"». È Fabrizio Toffolo in una nota a dare la linea ufficiale della curva nord: «Grazie dell'interessamento, ma speriamo che dalle parole si passi a fatti concreti».

Corriere della Sera 17.2.10
Bonino, interviene Veltroni
qui
http://www.scribd.com/doc/26998948/Corriere-Della-Sera-Bonino-Interviene-Veltroni-17-Feb-2010-Page-2

Repubblica 17.2.10
"La pedofilia è un crimine contro Dio"
L'ira del Papa con i vescovi irlandesi: "La Chiesa ritrovi credibilità"
di Marco Ansaldo

CITTÀ DEL VATICANO La vigilia del mercoledì delle Ceneri è il giorno più amaro per la Chiesa d'Irlanda, che sullo scandalo dei preti pedofili deve prepararsi, dice Benedetto XVI,a una lunga penitenza. Un Papa descritto come «profondamente turbato e afflitto» ha infatti usato ieri mattina, nella riunione in Curia con i vescovi irlandesi, parole dure e nette. La pedofiliaha detto Ratzinger «è non solo un crimine odioso, ma anche un grave peccato che offende Dio e ferisce la dignità della persona umana creata a sua immagine». La Chiesa irlandese deve dunque procedere «a un rinnovamento nella fede e a ritrovare la sua credibilità morale». Con l'impegno, gli hanno assicurato i vescovi, a collaborare «con le autorità giudiziarie in Irlanda, nel Nord e nel Sud».
È la conferma della linea di "tolleranza zero" già annunciata in Vaticano dopo le denunce dei due rapporti statali, "Ryan" e "Murphy", sui maltrattamenti negli istituti religiosi e sugli abusi sessuali compiuti da sacerdoti e coperti da altri prelati.
Non ci saranno dimissioni, per ora. «Il problema non era all'ordine del giorno», spiegano in Curia. Reagiscono con rabbia alcune associazioni delle vittime. «Il documento del Vaticano dice da Dublino il segretario generale della Alliance support group, Tom Hayes non contiene soluzioni per le persone abusate».
«Siamo estremamente delusi per il fatto che il Papa non ha mostrato forte leadership nei confronti della crisi», aggiunge la Irish survivors of child abuse. Solo a marzo, in Quaresima, arriverà l'attesa Lettera pastorale che Benedetto XVI indirizzerà ai cattolici irlandesi, e di cui ieri il pontefice ha mostrato una bozza ai vescovi.
Sospesa ogni altra attività, il Papa aveva convocato già lunedì mattina, per la terza volta in sette mesi, i presuli d'Oltremanica.
Una riunione durata un giorno e mezzo, a porte chiuse, ai massimi livelli. Per il Vaticano, oltre al pontefice, erano presenti fra gli altri il Segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone, e il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, cardinale William Levada. A guidare la delegazione di 24 vescovi l'arcivescovo di Armagh e primate d'Irlanda, Sean Brady. Presente monsignor Drennan, uno degli accusati, che finora ha resistito agli appelli alle dimissioni.
È stato un incontro, come ha detto lo stesso cardinale Brady, «franco e aperto». Il che in linguaggio diplomatico significa che lo scambio di vedute fra Ratzinger e i vescovi è risultato a tratti anche aspro. I vescovi hanno parlato con sincerità del «senso di pena e di rabbia, di tradimento, di scandalo e di vergogna» espresso dalle vittime.
Il Papa ha così incoraggiato i prelati ad affrontare la crisi «con determinazione e risolutezza», con «onestà e coraggio», affermando comunque che la situazione «non sarà risolta velocemente». Nel loro comunicato, ha poi spiegato il direttore della Sala stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi, i vescovi «riconoscendo il fallimento della Chiesa d'Irlanda nell'aver omesso, per molti anni, di affrontare casi di abusi sessuali», hanno fatto «una chiara autocritica su quanto accaduto».
«Meritiamo e accettiamo la rabbia delle vittime e dei loro familiari», diceva a Radio Vaticana il vescovo di Ferris, monsignor Dennis Brennan. Ieri sera all'Irish college di Roma, durante messa, il vescovo Colm O'Reilly affermava: «Nell'imminente Quaresima noi ministri del popolo di Dio in Irlanda siamo consci della chiamata al pentimento, un tempo da dedicare alla confessione delle nostre colpe, affidandoci alla misericordia di Dio».

Repubblica 17.2.10
Si allarga lo scandalo nel Paese di Ratzinger. Le violenze al Canisius Kolleg di Berlino e in altri istituti nel Paese
Germania, allarme nelle scuole cattoliche "Cento casi di abusi sessuali già denunciati"
di Andrea Tarquini

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE BERLINO Lo scandalo degli abusi sessuali nelle scuole cattoliche tedesche si allarga ogni giorno. E la sua ombra minaccia di arrecare gravissimi danni alla fiducia nella Chiesa, proprio nel paese natale di Benedetto XVI. I casi di molestie e violenze di studenti da parte di insegnanti, religiosi, organisti dei ginnasi retti nella maggior parte dei casi da gesuiti sono sempre più numerosi: oltre un centinaio di vittime si sono decise a parlare, ma il numero complessivo potrebbe essere ancora più alto. Dal 22 al 25 febbraio la conferenza episcopale tedesca si riunirà a Friburgo l'arcidiocesi retta dallo stesso presidente dei vescovi monsignor Robert Zollitsch e il grave caso sarà probabilmente il tema principale all'ordine del giorno.
Lo scandalo è emerso a fine gennaio, con le prime denunce, al prestigioso Canisius Kolleg di Berlino, una delle più esclusive scuole superiori della capitale.
Negli anni Settanta e Ottanta, diversi giovani furono costretti con intimidazioni e ricatti a soggiacere alle voglie dei loro docenti e sacerdoti, o di organisti e musicisti della Chiesa. Si parlò di abusi nei sotterranei, di ragazzi invitati in camera da letto da preti in città o durante gite scolastichee costretti ad accarezzarli o ad assistere ai loro onanismi. Per decenni, la vergogna di anime spezzate ha celato il dolore delle vittime nel silenzio. Ma da quando i primi "ex" del Canisius hanno parlato, si è avviata una reazione a catena.
«I casi accertati in tutto il Paese sono oltre un centinaio», ha detto alla Sueddeutsche Zeitung la signora Ursula Raue, a cui l'ordine dei gesuiti ha affidato l'inchiesta.
Il suo primo rapporto è atteso la prossima settimana, poi verrà un documento più approfondito, tra qualche mese. «Nuove vittime continuano a telefonare, bisogna verificare ogni caso, e quando alcuni degli ex studenti riferiscono che anche due o tre loro compagni di classe furono vittima di abusi il rigore dell'inchiesta impedisce di contare automaticamente queste seconde denunce». Ma ciò non esclude affatto che il numero totale delle persone colpite dalle violenze sessuali possa salire.
L'attuale rettore del Canisius, padre Klaus Mertes, è deciso a fare piena luce. Se è vero quanto hanno scritto nei giorni scorsi i media, però, c'è il sospetto atroce di passate complicità ad alto livello. Almeno un ex rettore aveva denunciato confidenzialmente gli abusi ai suoi superiori nell'ordine, ma i casi non erano mai diventati pubblici. Maltrattamenti sessuali di studenti da parte di religiosi, sempre negli anni Settanta e Ottanta, sono avvenuti come è poi emerso anche in altre scuole cattoliche. Dallo Aloisius Kolleg presso Bonn, finoa istituti nell'Est. Lo stesso Osservatore Romano ha affrontato lo scandalo tedesco. Ha pubblicato un articolo della Frankfurter Allgemeine. Il quale invita a evitare ogni frettolosa ostilità contro la Chiesa, perché «tutte le istituzioni per i giovani attirano persone desiderose di contatti illeciti con minorenni», ma sottolinea che «l'abuso sessuale su un minore da parte d'un sacerdote è un crimine ripugnante». E avverte che un colpo alla fiducia nella Chiesa può «distruggere la fiducia in Dio».

Il Fatto 17.2.10
“Le Monde” racconta la vergogna italiana
Da Rosarno a Verona, dalle ronde alle espulsioni il giornale francese spiega il nuovo razzismo
Com’è possibile che un paese che ha fatto emigrare 27 milioni di persone si comporti così?
Pubblichiamo ampi stralci di un reportage di Le Monde in cui il corrispondente dall’Italia ha cercato di spiegare al pubblico francese il nuovo razzismo italiano esploso a Rosarno.
di Philippe Ridet

Due vetture carbonizzate capovolte su un cumulo di pneumatici usati. All’uscita di Rosarno, sulla strada che attraversa la piana calabrese in direzione di Gioia Tauro, questi sono i soli segni visibili degli scontri che, il 9 e 10 gennaio, hanno opposto da una parte gli immigrati africani e dall’altra gli abitanti di questa cittadina calabrese che conta 15 mila abitanti. Non lontano, due poliziotti sorvegliano l’ingresso di un immenso capannone dove, a centinaia, gli africani passavano la notte durante la stagione della raccolta degli agrumi. Un po’ di riposo durante giornate di lavoro di 12 ore pagate 25 euro.
ROSARNO DESERTA. Oggi praticamente tutti se ne sono andati. “E’ strano vedere Rosarno senza africani”, dice con aria sconsolata Damiano, 16 anni, studente del liceo La Piria. “Gli immigrati si trovavano bene a Rosarno – afferma – solo una piccola minoranza ha voluto cacciarli. “Avevamo avvertito le autorità regionali inviando anche delle foto”, ricorda don Ennio Stamile, delegato regionale della Caritas per la Calabria. In due giorni di violenze Rosarno è diventato il simbolo dell’infiltrazione mafiosa nell’agricoltura locale, dell’intolleranza nei confronti degli stranieri, di una forma di moderna schiavitù e dell’impotenza dello Stato. Perché in un paese che ha visto emigrare in tutto il mondo 27 milioni di suoi cittadini, gli africani sono stati terrorizzati e poi cacciati con i fucili a pallettoni e bastonati con i manici delle zappe?
SENZA IDENTITÀ. A Rosarno è emerso in primo luogo il presunto ruolo della ‘Ndrangheta. Una inchiesta è in corso per tentare di accertare se le famiglie mafiose che controllano l’economia locale possano aver volontariamente provocato la “caccia ai neri” di Rosarno per far andar via questi immigrati diventati inutili, in quanto i sussidi dell’Unione europea fruttano a chi controlla questo mercato più della vendita delle arance, dei mandarini e dei kiwi. Anche a Castel Volturno (Campania), quando nel settembre del 2008 furono praticamente giustiziati sette africani, la colpa fu data alla Camorra.
INCENDIO LEGHISTA. Verona, 260 mila abitanti, città del ricchissimo Veneto, mille chilometri a nord di Rosarno. Qui regna il partito anti-immigrati della Lega nord. In municipio Flavio Tosi, il giovane sindaco leghista, eletto nel 2007 con il 60 per cento dei voti, è stato appena condannato con sentenza passata in giudicato per propaganda razzista a tre anni di interdizione a partecipare a elezioni politiche e amministrative. Ci sarà un rapporto causa effetto tra la sua posizione e quella del suo partito e gli avvenimenti di Rosarno? “La Lega non esiste in Calabria. Perché dovremmo essere responsabili?”. Eppure è proprio questo partito, forte di quattro ministri tra cui quello dell’Interno, a moltiplicare le provocazioni razziste. La “criminalizzazione” dell’immigrazione clandestina, passibile oggi di sei mesi di reclusione, è stata voluta dalla Lega. E che dire della legalizzazione delle “ronde cittadine”? E dell’operazione “White Christmas” in un paesino della Lombardia per recensire ed espellere gli immigrati clandestini prima delle feste? Il tema dell’immigrazione è elettoralmente vincente: in alcune province del nord la Lega ottiene il 30 per cento dei voti e la sua influenza è in aumento.“InItalia per la prima volta dal fascismo, forme di razzismo sono arrivate ai vertici delle istituzioni”, spiega Enrico Pugliese, sociologo presso l’Università Sapienza di Roma. “Questa legittimazione della xenofobia conduce ad atteggiamenti violenti e sempre più espliciti”. I puniti, vale a dire gli immigrati con il permesso di soggiorno scaduto e un avviso di espulsione in tasca, li troviamo a Caserta. “La tenda di Abramo” è uno dei numerosi centri di accoglienza dove trovano ospitalità molti africani giunti in Italia via mare prima che la firma di un accordo con la Libia avviasse la politica dei respingimenti. L’edificio, che si trova in una zona abbandonata, offre rifugio a 70 persone mentre ne potrebbe ospitare appena una ventina. Gli immigrati dormono in 6 o 8 per stanza.
25 EURO AL GIORNO. Racconta Assim arrivato dal Togo un anno e mezzo fa: “Tutti i giorni alle 4 e mezzo del mattino ci rechiamo in un punto preciso della città dove vengono a prenderci per portarci nei cantieri edili o nelle piantagioni di tabacco. La giornata lavorativa dura dall’alba fin quando cala la notte. Mi pagano 25 euro al giorno”. Il mediatore non prende mai gli stessi immigrati per due giorni di seguito per paura di essere riconosciuto e denunciato. “Riuscite ad avere con loro buoni rapporti?”, gli chiediamo. “Ci prendono per lavorare, non per sentirci raccontare le nostre storie”, risponde con tono sarcastico l’ivoriano Michel Djibo.
Uscire, avere contatti con la popolazione? “Nei bar se chiediamo un caffè ce lo servono in un bicchierino di plastica. Come se fossimo malati”. L’ivoriano Mamadou ci parla con gli occhi pieni di lacrime: “Qui la vita è troppo difficile. Ci vuole il permesso prima di cominciare a vivere, a lavorare, a trovare una casa. I neri vivono male, malissimo. Siamo degli sventurati che vivono come in prigione. Gli italiani ci considerano dei cani. Anzi peggio. Gli animali vengono trattati meglio di noi”, Gian Luca Castaldi, che dirige il centro di accoglienza, tenta una spiegazione: “Non è necessariamente razzismo da parte degli italiani, ma invidia. Per un giovane di qui il massimo dell’ambizione sociale è ottenere l’indennità di disoccupazione. Vedono arrivare delle persone che hanno rischiato la vita per mettere qualcosa sotto i denti. In fondo invidiano il loro coraggio”.
PERCHÉ L’ITALIA. Ridotti a una forma di schiavitù, questi immigrati non hanno scelto l’Italia per caso. Settori interi dell’economia, l’edilizia e l’agricoltura, dipendono dallo sfruttamento dei clandestini. Meno sono in regola, più sono malleabili e sfruttabili. “Gli immigrati continueranno a sfidare tutte le leggi, anche quelle più restrittive, fin tanto che sapranno che in Italia non serve il permesso di soggiorno per lavorare”, ha scritto su Repubblica l’economista Tito Boeri. La situazione non fa che peggiorare. Sebbene la legge preveda un limite massimo di venti giorni per ottenere il rinnovo del permesso di soggiorno, in realtà gli immigrati debbono aspettare da cinque a 18 mesi per avere il documento. Scelta deliberata da parte della pubblica amministrazione quella di lasciare gli immigrati in una condizione di vulnerabilità al fine di trarne vantaggio? “La legge produce volontariamente clandestinità”.
© Le Monde. Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

Repubblica 17.2.10
Immigrati, la destra e la tattica dei cattivi
di Carlo Galli

Secondo le logiche della comunicazione politica, è il primo messaggio quello che vale, che viene recepito come autentico e che si fissa nella mente dei cittadini. E a proposito delle violenze di via Padova il primo messaggio della maggioranza è stato (per bocca di un eurodeputato della Lega) di "procedere a controlli ed espulsioni casa per casa"; mentre da Roma figure di primo piano come Gasparri rilasciavano interviste sulla "tolleranza zero". Certo, il giorno dopo Bossi e Maroni hanno corretto il tiro, sostenendo che non è il caso di pensare a rastrellamenti, né a uno Stato di Polizia, mentre la soluzione ai problemi dell'immigrazione e della multietnicità generati,a loro dire, dalle politiche lassiste della sinistra starebbe nell'evitare le concentrazioni di stranieri in ghetti urbani e nelle politiche di integrazione. Quanto alle critiche di Bersani al fallimento della politica anti-immigrazione della destra, saranno gli elettori secondo Bossi a decidere, col voto alle elezioni regionali, se sono giuste o sbagliate. E proprio da quest'ultima affermazione si comprende che si è di fronte alla consueta strategia comunicativa della destra: in prima battuta rilasciare dichiarazioni emotive, violente e "politicamente scorrette" ma vicine al presunto comune sentire della gente (o, meglio, capaci di orientare le forme più elementari e superficiali di opinione pubblica), e poi annacquarle il giorno successivo, quando si tratta di mostrare il volto presentabile, governativo, della politica. La convinzione che sta alla base di questo stile politico è che nel senso comune rimane il sedimento delle prime affermazioni, mentre le correzioni passeranno inosservate o verranno classificate come mosse tattiche; al momento del voto sarà determinante il ricordo emotivo delle tesi estreme, delle forzature concettuali e verbali. Che non saranno dunque state degli errori, ma delle mosse azzeccate. Nella convinzione che la politica si giochi anche al livello linguistico, nella costruzione di un discorso pubblico e dei suoi fondamenti razionali, e che una democrazia richieda una costante sorveglianza sul linguaggio, si deve denunciare e smontare la macchina comunicativa della maggioranza di destra. Il punto di partenza può essere proprio la minacciosa richiesta di "tolleranza zero". È infatti sul termine tolleranza che si gioca primariamente l'equivoco. In realtà, ciò che si può e si deve chiedere e che finora non c'è stata è "illegalità zero": è questo, almeno tendenzialmente, lo standard di efficienza richiesto in uno Stato democratico di diritto,a via Padova comea Scampia come in qualsiasi periferia degradata, in balia di bande o della malavita.
Lo slogan "tolleranza zero" non è solo la scimmiottatura decontestualizzata di vecchie politiche urbane del sindaco di New York, Giuliani; e non è solo il tentativo di supplire con la faccia feroce all'incapacità politico-amministrativa che da Roma alla Regione Lombardia al Comune di Milano ha il medesimo colore, quello della maggioranza; è in realtà un messaggio politico preciso. Che consiste nell'attribuire a un eccesso di tolleranzainterpretata come una vaga melassa di irresponsabili buoni sentimenti il disastroso stato della legalità, a Milano e altrove; il che equivale ad affermare implicitamente (ma non certo nascostamente: che si sia alluso a rastrellamenti è stato certificato proprio da Bossi) la necessità dell'intolleranza per risolvere i problemi dell'ordine pubblico. Problemi che attraverso l'enfatizzazione della componente etnica dei disordini milanesi, vengono fatti coincidere con la tipica costruzione del capro espiatorio con le difficoltà del multiculturalismo. L'intolleranza un vizio privato, dettato dalla paura e dalla subalternità culturale e sociale, che dà origine a spaventose dinamiche collettive verrebbe così a sostituirsi, o a esserne il fondamento, alla legalità, che invece deve risultare da una politica rispettosa dei diritti di tutti, e capace di assicurare che tutti compiano il proprio dovere davanti alla legge. Una politica difficile, certo, che non ha nulla a che fare col lassismo, ma che non è neppure alla portata dei semplificatori e dei demagoghi.
Insomma, lo slogan "tolleranza zero" con quanto evoca: ronde di cittadini esasperati, brutalità poliziesche, rivincite etniche è un buon esempio di quel cortocircuito permanentee sempre più profondo fra privato e pubblico, fra emozioni e legge, fra paura e politica, che è la cifra della destra di governo. Una politica che, contrariamente all'immagine che vuole dare di sé, non si cura realmente del "fare", cioè dell'efficienza dell'azione politica (e infatti non investe né in inclusione sociale né in sicurezza) ma che ha a cuore primariamente la costruzione dell'opinione pubblica (la audience) attraverso la manipolazione delle passioni più elementari dei cittadini. Il risultato del successo di questa strategia sarebbe il permanere dell'illegalità, dato che ovviamentei conflittia componente etnica si aggraverebbero, e al contempo la legittimazione dell'intolleranza come virtù civica. Esiti perversi che si devono contrastare già nelle perversioni linguistiche che li annunciano.

Repubblica 17.2.10
"In questo vaso cresceva l'albero con il ramo d'oro"
Il mito di Ovidio e Frazer: la scoperta a Nemi
di Francesco Erbani

NEMI È un recinto quadrato, un vaso incassato nella terra. Sul fondo un reticolo di piccoli mattoni porosi, lungo il bordo un canale sottile dove scorreva l'acqua. Siamo a Nemi, castelli romani, sulla riva settentrionale del lago che la leggenda vuole fosse lo specchio di Diana, la dea della caccia e dei giovani che si affacciavano all'età adulta. Quel vaso, sostiene l'archeologo Filippo Coarelli, potrebbe essere l'alloggiamento dell'albero frai cui rami ce n'era uno che un'altra leggenda racconta fosse d'oro e avesse un potere speciale: la sua storia viene narrata da autori greci e latini e poi giunge finoa James Frazer, l'antropologoe storico delle religioni che intitolò Il ramo d'oro la monumentale opera, scritta fra il 1890 e il 1915, in cui si ragionava di magia, di scienza e dell'origine sacrale della regalità. «Nel santuario di Nemi», scrive Frazer, «cresceva un albero da cui non era lecito spezzare alcun ramo. Soltanto uno schiavo fuggitivo, se ci fosse riuscito, poteva spezzarne uno. In questo caso egli aveva il diritto di battersi col sacerdote e, se l'uccideva, regnava in sua vece col titolo di re del bosco, rex nemorensis ».
Frazer racconta culture primitive e rintraccia il ripetersi di alcune costanti negli usi e nei riti di diversi popoli. Il punto di partenza della sua indagine è questo lago di struggente bellezza, al centro di una conca rivestita dai colori duri e intensi di un vulcano spento.
Qui Frazer ha soggiornato e ha letto le storie, narrate da Strabone, Pausania, Ovidio e altri ancora, di quel rituale, sanguinario e magico, che affidava a un duello mortale l'investitura del rex nemorensis, sacerdote di Diana e sovrano della comunità (ma un ramo d'oro figura anche nell' Eneide: serve a Enea per scendere nell'Ade). I candidati al duello, per sfidare il possessore del titolo, dovevano impadronirsi del ramo d'oro strappandolo da un albero sacro alla dea. Spiega Coarelli, fino allo scorso anno professore a Perugia, una vastissima bibliografia e scavi in tutto il mondo: «In questo rituale si riconosce una struttura primitiva che richiedeva al re, capo militare oltre che politico e religioso, straordinaria efficienza fisica. Il duello serviva a confermarla e qualora questa fosse venuta meno, il re era destinato a decadere e morire». Una specie di ordalia, dunque: questo luogo sarebbe poi diventato il centro federale della lega latina, dove i rappresentanti delle comunità si riunivano per le grandi occasioni civili e religiose, e da dove scaturiva la stessa originaria identità latina. Al recinto che avrebbe ospitato il ramo d'oro si arriva inerpicandosi su una scarpata che le piogge hanno ridotto a una poltiglia di fango. Coarelli, con Giuseppina Ghini e Francesca Diosono, scava qui da alcuni anni per riportare alla luce quel che resta del santuario dedicato a Diana, circa quattromila metri quadrati di estensione, il più grande del Lazio e, ora si può dire, il più antico. A settembre ha individuato il tempio principale all'interno del santuario.E poi siè spinto in alto, attraverso un varco che interrompe la cinta di possenti mura, percorse da grandi nicchie. Lì ha rinvenuto ambienti con fontane, terrazzamenti, una cisterna e un ninfeo.
Ma fra questi reperti e le mura si estendeva un'area dove in epoca medievale c'era stato un crollo. «Abbiamo scavato per mesi, dovevamo togliere enormi blocchi di lava», racconta Coarelli. «La posizione ci diceva che doveva esserci un edificio sacro. Ma venivano fuori solo tantissimi cocci di ceramica, di natura rituale e votiva».
Sembrava un buco nell'acqua. Ma l'archeologia è la scienza delle sorprese. Intanto i cocci risalivano alla mediae tarda età del bronzo, fra il XIII e il XII secolo a. C., (i resti più antichi del santuario sono databili al III). E questo contatto con un passato tanto remoto era come mettere le mani in un mondo mitologico: il culto di Diana è anche un culto infernale. Ma poi il vuoto faceva pensare a un luogo lasciato intatto, nel quale vigesse un divieto a costruire per ragioni sacre, per rispetto misto a timore. L'area sembrava avesse contenuto un bosco e l'impressione veniva confermata dalla scoperta del recinto e dal fatto che questo fosse orientato in maniera da essere il punto più eminente di quel fazzoletto di verde. Il raffronto fra l'evidenza archeologica e le fonti letterarie, fino a Frazer, ha spinto Coarelli a formulare un'ipotesi: questo è il bosco in cui si svolgeva il rituale del rex nemorensis e il recinto è l'invaso in cui sorgeva l'albero ritenuto sacro a Diana, l'albero del ramo d'oro. Ora lo scavo è sospeso e l'area è recintata: ma questo non scoraggia strani incursori notturni che su una pietra hanno lasciato una mela circondata da ricci di castagne sistemati a corona, quasi un'offerta votiva. Il culto di Diana in qualche modo sopravvive in curiosi riti fra il magico e il satanico, racconta Coarelli. «I carabinieri sono avvisati», spiega l'archeologo, «ma non è questo il pericolo più grave, piuttosto il fatto che la nostra ricerca è appesa a un filo: se non riusciamo a recuperare finanziamenti non sappiamo davvero come continuare. Qui si tocca con mano l'assoluto disinteresse nel quale affonda il nostro patrimonio».

Repubblica 17.2.10
Da Freud a Eliot, le influenze di un rito
di Marino Niola

SENZA Il ramo d'oro di James G. Frazer la cultura del Novecento non sarebbe la stessa. Quei dodici volumi usciti nel 1890 sono uno sterminato catalogo dell'immaginario umano. Un fantastico viaggio che parte dal lago di Nemi e dall'uccisione rituale del sacerdote di Diana per mano di un uomo più giovane e forte che vuole prenderne il posto. E attraversa la mitologia degli antichi, i riti dei primitivi e le credenze dei moderni ricerca il filo che unisce il passato e il futuro dell'uomo.
Questa Bibbia dell'antropologia ha avuto un'influenza decisiva sulla psicanalisi, sulla poesia, sulla letteratura e sul cinema contemporanei. A cominciare da Siegmund Freud che ammetteva di dovere all'opera di Frazer l'idea dell'uccisione del padre che sta al cuore di Totem e tabù. Joseph Conrad scrive Cuore di tenebra pensando alla pagina frazeriana sull'assassinio rituale del re congolese Chitombé. E la Terra desolata di Thomas S. Eliot, il grande poema sulla crisi dell'uomo moderno si può considerare una vertigionosa parafrasi poetica del Golden bough. Fino ad Apocalypse Now dove Coppola dedica un memorabile primo piano al libro di Frazer che sta sul tavolo di Marlon Brando. Prima che venga ucciso come un antico sacerdote di Nemi. Chiudendo così un cerchio millenario.

Repubblica 17.2.10
La demolizione della scuola pubblica
risponde Corado Augias

Caro Augias la riforma della scuola rappresenta l'ultimo tassello di un progetto di impoverimento dell'istruzione pubblica. Riduzione di ore e materie che getterà scuole, alunni e famiglie nel caos, trasformerà centinaia di docenti in «supplenti a tempo indeterminato», migliaia di precari in disoccupati. Non è riforma un cambiamento che legalizza la «scomparsa» di discipline e riduce drasticamente di ore insegnamenti fondamentali quali latino, matematica e scienze. Licei «disegnati» per le élite della borghesia cittadina da dove la futura classe dirigente potrà accedere all'università; istituti tecnici e professionali sempre più «ghetto di avviamento al lavoro» in cui si creeranno, già a quattordici anni, gli operai e gli artigiani del domani. Docenti sviliti nella loro funzione educativa, lavoratori trasformati in «agnelli sacrificali», famiglie ed alunni ingannati da una campagna mediatica che «osa» paragonare questa vampiresca sottrazione di ore e discipline all'impianto che resta forte, anche se datato, della riforma di Gentile del 1923. Dove sono i sindacati, gli intellettuali, i docenti, gli alunni, le famiglie e i precari? Prof. Luigi Del Prete Palermo

Non ho competenza sufficiente per discutere nel merito della riforma fatta dalla Gelmini. Rilevo solo con amaro divertimento che il presidente del Consiglio l'ha definita 'epocale' con le stesse esatte parole usate sette anni fa per l'altra riforma promossa dalla Moratti. Non deve avere gran competenza nemmeno lui. Poi ho visto la bella inchiesta di Riccardo Iacona su Raitre e mi sono chiesto con quale spudoratezza si possono definire 'riforma' dei cambiamenti che hanno ridotto la scuola pubblica in quelle condizioni. Professori privi di mezzi, umiliati dal bisogno, studenti che devono subire ingiustizie palesi, tagli drastici alle necessità di base, congelamento dei crediti che le scuole vantano dallo Stato. Mi ha scritto la signora Ediana Mancini: « Si vuole togliere ossigeno alla scuola pubblica, servizio per tutti, luogo della pluralità e della libera trasmissione del sapere, per potenziare la scuola privata, luogo dell'esclusività, in barba non solo ai principi costituzionali, ma anche cristiani, di cui gran parte di quelle scuole si proclamano paladine». E' un'opera di demolizione dell'edificio scolastico pubblico avviato dalla signora Moratti che ora prosegue spacciando per riforma un'azione di ridimensionamento non cieca né dettata dalla necessità di risparmiare. I soldi quando s'è voluto sono stati subito trovati. C'è una spaventosa visione politica dietro tutto questo. Rimpiango, dico la verità, la riforma Bottai del 1939.