sabato 20 febbraio 2010

l’Unità 20.2.10
«Queste elezioni sono illegali» I Radicali mettono in forse la partecipazione alle regionali
Cappato verso il forfait in Lombardia. Bonino e Pannella vanno oltre: «La decisione se partecipare o no s’impone». Il nodo della raccolta delle firme. Esposto contro la Rai. Annunciata «richiesta di annullamento del voto».
di Simone Collini

«Se continua così, non ci sarà la mia candidatura in Lombardia». Marco Cappato fa parte della pattuglia di Radicali che alle regionali di fine marzo corre in solitaria. E se Emma Bonino, nel Lazio, può contare su una coalizione che va da Rifondazione all’Idv e non ha problemi a raccogliere le firme necessarie per candidarsi, per i suoi compagni di partito tira una brutta aria. Denuncia il segretario dell’Associazione Luca Coscioni, sceso in campo per sfidare Penati e Formigoni al Pirellone: «Ci viene impedito di presentare la lista Bonino-Pannella. Non è partita l’informazione istituzionale sul fatto che si possono raccogliere le firme per le liste. Agli autenticatori, 300 mila persone in tutta Italia, quasi 50 mila in Lombardia, non sono mai stati ufficialmente spiegati tempi e modi in cui svolgere la loro funzione. Solo i partiti che hanno consiglieri possono autenticare le liste. Agli altri è reso impossibile».
Ma il problema va oltre la Lombardia e i Radicali hanno depositato presso la Procura di Roma un esposto denuncia nei confronti del Direttore generale, del Cda e dei direttori dei tg della Rai per mancato rispetto degli obblighi di informazione: «A causa della pressoché totale mancanza di informazione da parte della Rai si legge nell’esposto gli elettori continuano ad ignorare gli adempimenti previsti così come la possibilità di recarsi presso ogni Comune per la sottoscrizione delle liste».
E ora Bonino e Pannella hanno scritto un documento in cui si mette in forse la partecipazione dei Radicali in tutte le regioni: «Se, come è purtroppo ormai probabile, si dovesse giungere al voto regionale di marzo nelle attuali condizioni di negate legalità e democrazia, la decisione del parteciparvi o no s’impone sin d’ora come gravissimo, inevitabile problema di coscienza dinanzi all’inverarsi (per nonviolenti democratici quali siamo) del sicuro rischio di incorrere nel reato di complicità con opere di un regime che negano radicalmente diritti umani, costituzionali, internazionali, individuali e collettivi...».
Il problema è che i moduli per la raccolta delle firme stanno tornando indietro vuoti. E visto che entro sabato prossimo vanno depositati con annesse tra le mille e le duemila firme per provincia, rischiano di non esserci le candidature dei Radicali. Dice Cappato: «Queste sono elezioni totalmente illegali. Se le condizioni non cambiano ci sarà una nostra richiesta di annullamento». Anche se la Bonino confermerà che corre nel Lazio? «Non è che la tornata elettorale diventa legale per questo. Chiederemo l’annullamento del voto per violazione delle leggi».❖

Repubblica 20.2.10
Bonino e Pannella: ritiriamo le candidature
Regionali, la minaccia dei Radicali: "Troppe irregolarità nella raccolta delle firme"
di Aldo Fontanarosa

Per la Par condicio in Rai salta anche "Protestantesimo" Sky, per noi quelle regole non valgono
I Radicali denunciano la Rai per la mancata informazione sulle firme delle liste

ROMA - La par condicio in Rai è una mina vagante. Persino un programma come "Protestantesimo" incappa nel regolamento che applica la legge e due servizi - sul caso-Rosarno e sulla Costituzione, previsti per lunedì notte su Rai2 - sono stati cancellati. Giudicati «troppo politici» a un mese dalle regionali. Invece, dopo tante polemiche, la macchina della par condicio ha sdoganato la puntata di "A sua immagine" su Vittorio Bachelet, a trent´anni dalla morte, con l´intervento del figlio Giovanni (deputato Pd): andrà in onda oggi su Rai1.
Lucio Malan, onorevole (Pdl) di fede valdese, interviene sull´altolà a "Protestantesimo", programma della Federazione Chiese evangeliche: «Sono gli effetti collaterali di una legge che crea storture. Ho elaborato una proposta per riordinare la legge». Il centrosinistra vuole evitare la mordacchia sui talk show Rai più seguiti (da Annozero a Porta a Porta). Giorgio Merlo (Pd), vicepresidente della Vigilanza, caldeggia una «modifica» al regolamento che azzoppa i talk-skow, auspica «una riflessione seria e non strumentale sull´applicazione della par condicio». Ma Giuseppe Giulietti, portavoce di Articolo 21, e Vincenzo Vita, senatore pd, indicano al presidente dell´AgCom, Calabrò, che i candidati del Pdl «Cota e Brunetta violano la par condicio» nei programmi tv.
Anche i Radicali mettono sotto tiro la Rai. Ieri, il legale che rappresenta la Lista Bonino-Pannella, ha depositato presso la Procura di Roma una denuncia per omissioni di atti d´ufficio contro il direttore generale Rai Masi, il Cda, i direttori dei tg. Per la mancanza di informazione Rai: «gli elettori ignorano gli adempimenti come la possibilità di sottoscrivere le liste presso ogni comune». Pannella e Bonino mettono in forse la partecipazione dei Radicali e delle liste Bonino-Pannella alle prossime regionali. Una minaccia per il Lazio, dove la Bonino è candidata. Altri quattro dirigenti sono in corsa per la guida di altrettante Regioni.
La par condicio è un nervo scoperto anche per Sky. Tom Mockridge, amministratore delegato della tv satellitare, ha scritto ai commissari dell´Autorità per le Tlc. Mockridge avverte i commissari di non estendere a Sky le norme anti-talk show che hanno investito la Rai. Mettere sullo stesso piano la Rai, soggetto pubblico, e i privati come Sky sarebbe a suo avviso un´operazione «illegittima».

il Fatto 20.2.10
Ecco perché Bertolaso non poteva non sapere
I radicali presentarono un’interrogazione parlamentare sui lavori alla Maddalena
di Paola Zanca

Era il 5 gennaio 2009. Guido Bertolaso stava sereno al timone della Protezione civile, Balducci e Anemone erano nomi sconosciuti al grande pubblico, i lavori alla Maddalena procedevano coperti dal segreto di Stato. Ma una settimana prima, su l’Espresso, Fabrizio Gatti aveva lanciato la prima pietra nello stagno. Raccontava dei legame d'affari tra i familiari di Balducci e le imprese appaltatrici, denunciava l’uso di manodopera in nero, chiedeva conto delle macerie contaminate da amianto, ipotizzava spese gonfiate. Grande inchiesta, indifferenza generale. Solo i deputati radicali, dopo aver letto quell’articolo, sobbalzarono sugli scranni. E il 5 gennaio 2009, appunto, presentarono un’interrogazione parlamentare al presidente del Consiglio, al sottosegretario per la Protezione civile, ai ministri dell’Ambiente, della Giustizia e dell’Interno. Chiedevano se quelle cose scritte da Gatti corrispondessero “anche solo parzialmente alla realtà”, ed avanzavano la proposta di levare il segreto di Stato da quell’affare multimilionario. Risposte? Nessuna. Né Berlusconi, né Bertolaso, né Prestigiacomo, né Alfano, né Maroni spiccicarono una parola. Funziona così: i parlamentari presentano un’interrogazione, questa viene trasmessa agli uffici dei ministeri destinatari che istruiscono la pratica: fanno verifiche, trovano le risposte e poi sottopongono il documento alla firma del sottosegretario responsabile. Nel caso dei lavori alla Maddalena – come succede spesso – quella pratica si inabissò negli uffici. Ma qui il punto è un altro: è che Bertolaso non poteva non sapere. “Nella sua intervista a Panorama – spiega la deputata radicale Elisabetta Zamparutti, prima firmataria di quell’interrogazione e componente della commissione Ambiente e Infrastrutture della Camera – Bertolaso dice che qualcosa può essergli sfuggito: qualcosa sì, ma non certo quello di cui parlavamo nell’interrogazione, visto che gliel’abbiamo chiesto per iscritto, in tempi non sospetti. Ti può sfuggire un articolo di stampa, non ti può sfuggire un’interrogazione parlamentare”. I Radicali, tra l’altro, usano anche sollecitare periodicamente la risposta alle interrogazioni rimaste senza: in questo caso, dal gennaio 2009 a oggi, l’hanno fatto otto volte. Bertolaso non poteva non sapere. “Il sottosegretario – prosegue Zamparutti – sostiene anche che per ogni segnalazione di presunti abusi veniva attivata una commissione di controllo. Come mai, nonostante la nostra segnalazione, non c’è mai stato modo e tempo di verificare gli appalti a La Maddalena?”. Bertolaso (e il governo) non l’hanno fatto. Zamparutti lo chiama “il complotto del silenzio”. I complici stanno anche nell’opposizione: “Sul tema degli appalti non vedo un grande interesse dei partiti a fare luce”. Quell’interrogazione, un anno fa, la firmarono solo i deputati radicali. Sotto alle domande sugli appalti a La Maddalena nessuno ha voluto metterci nome e cognome.
Repubblica 20.2.10
Popolo viola pronto al bis in piazza il 27 febbraio "Alt alle leggi-privilegio"
E un libro racconta il movimento nato sul web
di Alessandra Longo

L´Idv aderisce subito. Bersani: battaglie comuni, anche i nostri militanti ci saranno

ROMA - «Guardo i ragazzi e le ragazze accanto a me sul palco: hanno facce la cui felicità riesce a cancellare i segni della stanchezza, hanno sguardi che mi sarà difficile dimenticare, lo sguardo di chi sa di averla fatta grossa, ma ricomincerebbe subito. Poi spengo la luce: che sia stato tutto un sogno?». Gianfranco Mascia, blogger, giornalista freelance, fondatore, al tempo del fax, dei Bobi (i comitati Boicotta il Biscione), animatore dei Girotondi, racconta l´emozione di quel 5 dicembre 2009 che ha «spiazzato» un po´ tutti, partiti e classe dirigente. Quell´autoconvocazione che parte dalla Rete e travolge gli argini, quelle centinaia di migliaia di persone in piazza che urlano: «Dimissioni! Dimissioni!».
L´azzardo ora ritorna. L´appuntamento è per sabato prossimo, a Roma, piazza del Popolo, quando i viola arriveranno da tutta Italia al grido di «Basta! La legge è uguale per tutti». L´Italia dei Valori sarà ancora della partita e Bersani da subito assicura: «Non mancheranno i nostri militanti». Altre uscite nel mese di marzo: un «No razzismo Day» a Milano, e un «No Mafia Day» a Reggio Calabria. I viola sono vivi e già si raccontano. Esce in questi giorni "Il Libro viola - Storia del Movimento No B-day" (edizioni Baldini Castoldi Dalai), copertina ovviamente viola, diario della prima manifestazione di massa promossa via web. Mascia è stato uno dei protagonisti di quella giornata, di «quella cosa grandissima e inaspettata» che ha sconfitto «il pensiero pigro» di tanti italiani delusi dalla politica.
Il libro parte da lontano, ricostruisce le origini dell´antiberlusconismo, basate sull´»anomalia tutta italiana» del cosiddetto «Uomo Nuovo» che «non ha un megafono, ma tre reti televisive». Conflitto di interessi mai risolto. Frecciata, nelle prime pagine, anche a Walter Veltroni. Era lui, racconta Mascia, il responsabile dell´Informazione a Botteghe Oscure quando due giudici ordinarono il black out televisivo della Fininvest in Piemonte, Lazio e Abruzzo. Motivo: «Trasmetteva su scala nazionale malgrado la legge non lo consentisse». Veltroni criticò il black out, preoccupato «per le abitudini degli utenti». Mascia riporta le sue parole: «Non è così che si risolvono i problemi».
Storia ripercorsa tante volte, quella della nascita dello strapotere mediatico di Berlusconi. Storia che, secondo Mascia, porta dritta all´esplosione dell´onda viola. Storia scandita anche da una terribile esperienza personale che l´autore ha il coraggio di rievocare. 18 febbraio 1994: Mascia, con i suoi Comitati di boicottaggio, dà fastidio. A Ravenna, nel suo studio, ignoti fanno irruzione, «mi seviziano con un manico di scopa». Pare fossero personaggi vicini all´estrema destra veneta. «Questo episodio mi è costato tanto», scrive Mascia che trova utile ricordare «in quale contesto può nascere questo genere di violenza».
Deluso dai partiti, anche da quelli che ha contribuito a fondare, come i Verdi, subito abbandonati perché troppo interessati al «loro percorso nazional-istituzionale». Sconcertato «dalla logica da vecchio politburo», rintracciata a volte persino in Sel, la creatura vendoliana, allergica «alle modalità aperte, virali e ironiche della Rete». Ecco che Mascia ritrova energia altrove, cliccando su Facebook e scoprendo che un anonimo «San Precario» sta convocando i frustrati cittadini italiani che vogliono le dimissioni di Berlusconi, dopo la bocciatura del Lodo Alfano.
Nasce il «popolo viola» (colore «a metà strada tra passione e intelligenza»). Di Pietro e Ferrero afferrano al volo l´occasione, il vertice Pd è prudente. Bersani non verrà alla manifestazione ma scriverà su Facebook un messaggio in cui dichiara interesse per l´inedito fenomeno. «Stile burocratico-politico», chiosa l´insoddisfatto Mascia. E adesso? Adesso si torna in piazza il 27. Da lì partirà l´appello ai senatori perché non votino la legge sul legittimo impedimento già passata alla Camera. I viola vanno avanti, senza un capo, con la formula dell´»intelligenza collettiva». Parte dei proventi del libro, dice Mascia, sarà usata per la creazione di «un giornale online» che aiuti a «imbrigliare l´energia sana di questo Paese».

l’Unità 20.2.10
I dati scientifici secondo Avvenire
Il caso Eluana e la strategia delle illusioni
di Carlo Alberto Defanti

Prosegue lo scambio a distanza fra Assuntina Morresi e il sottoscritto sulla questione se Eluana fosse o no capace di interagire con il mondo esterno, così dimostrato in alcuni casi descritti nel recente articolo di Martin M. Monti. Nella mia replica avevo affermato che i risultati dell’esame neuropatologico di Eluana avevano chiarito la questione e avevo riferito le conclusioni dei periti sulla coerenza fra i reperti e la diagnosi di stato vegetativo permanente. In proposito Morresi fa osservare che «non esistono studi che mostrino un legame fra la gravità del grado di atrofia e il po-tenziale di reversibilità del disturbo di coscienza». La sua asserzione è corretta: non ci sono in letteratura studi scientifici che abbiano correlato in modo esatto i dati anatomici con lo stato di coscienza. Tuttavia, la gravità delle lesioni riscontrate, in particolare il gravissimo impoverimento delle fibre nervose che collegano le aree della corteccia cerebrale fra loro e con i centri sottostanti, soprattutto con il talamo, nonché la degenerazione di quest’ultima struttura così importante, rendono assai poco verosimile la loro compatibilità con un’attività di coscienza. I periti, inoltre, hanno sottolineato, sulla base del confronto fra gli esami radiologici eseguiti in vita, che nel cervello di Eluana sono avvenuti, a distanza dal trauma, processi degenerativi che hanno interessato strutture nervose inizialmente non colpite.
Morresi riprende poi le note di una cartella clinica del 1993 in cui viene riferito che Eluana avrebbe pronunciato due volte la parole “mamma” e che avrebbe eseguito talora semplici ordini. L’esperienza di chi assiste questi malati è ricca di segnalazioni come queste, che suscitano nei familiari grandi speranze e che poi tanto spesso sono deluse. Ribadisco però che, dal febbraio 1996, quando ho preso in cura Eluana, non c’è mai stata alcuna segnalazione di questo tipo.
Infine Morresi afferma che i risultati scientifici confermano la sua convinzione che queste persone siano vive e non “inerti vegetali”, ma su questo non c’è mai stato il minimo dubbio: anzi il problema nasce proprio dal fatto che questi soggetti sono vivi e si trovano in condizioni che la maggior parte dell’opinione pubblica considera “invivibili”. Mi permetto di osservare che, contrariamente a quanto Mortresi pensa, il riscontro di segni di coscienza in un piccolo numero di pazienti diagnosticati come vegetativi non risolve affatto il problema morale di come comportarci nei loro riguardi. Alcuni studiosi di bioetica hanno cominciato a riflettere su questo e a chiedersi se i nuovi dati scientifici, proprio in quanto dimostrano il persistere (in alcuni malati) di tracce di coscienza e rendono verosimile che essi provino dolore e sofferenza, non possano essere addotti come argomento non a favore, ma piuttosto contro il mantenimento del sostegno vitale.
Consulta di bioetica onlus

l’Unità 20.2.10
Incontro a Palazzo Chigi Il sindacato dei giornalisti: «Va avviata una incisiva riforma»
Milleproroghe Può essere inserito nel provvedimento «un opportuno emendamento»
Editoria, la Fnsi a Bonaiuti: «Subito il ripristino dei fondi»
Faccia a faccia di due ore a Palazzo Chigi tra i vertici della Fnsi e il sottosegretario all’editoria Bonaiuti. Il sindacato dei giornalisti ha chiesto di inserire «un opportuno emendamento finanziario» nel milleproroghe.
di Giuseppe Vittori

«I fondi per l’editoria debbono essere ripristinati». La Federazione nazionale della stampa ha ribadito in un incontro a Palazzo Chigi con Paolo Bonaiuti che il governo deve mantenere gli impegni presi nel settore dell’editoria. «Va garantito il diritto soggettivo fin qui maturato e, contestualmente, va avviata una incisiva riforma che assicuri trasparenza e rigorosi criteri di effettivo sostegno al pluralismo e all’occupazione giornalistica», hanno detto i vertici della Fnsi al sottosegretario con delega all’editoria.
E l’occasione per intervenire può essere il cosiddetto «mille proroghe», provvedimento di legge in cui può essere inserito «un opportuno emendamento finanziario»: «È un’occasione sottolineato la delegazione della Fnsi su cui il governo può e deve dare risposta alle istanze del sindacato dei giornalisti e delle parti sociali e deve sentirsi impegnato a coerenti soluzioni con l’appello sottoscritto, sino ad ora, da più della metà dei deputati di tutti gli schieramenti e già contenuto in un ordine del giorno approvato dal Senato».
La delegazione della Fnsi era composta dal segretario generale, Franco Siddi, dal presidente, Roberto Natale e dal direttore, Giancarlo Tartaglia e l’incontro è durato oltre due ore. Un nuovo incontro ci sarà la prossima settimana.
NO AI TAGLI
I tagli previsti nella Finanziaria, sottolinea la Fnsi, colpiranno «facendole sprofondare in una grande emergenza, decine di testate giornalistiche gestite da cooperative, o dei settori no profit, minoranze linguistiche e di partito, si è sviluppato nella ricerca di soluzioni concrete». Al sottosegretario Bonaiuti è stata sottolineata anche l’opportunità di ricorrere ad uno strumento straordinario ad hoc che fissi le garanzie per la fase di transizione a nuove regole da definire, meglio con soluzioni bipartisan dopo aver adeguatamente sentito le parti sociali.
Con nettezza, la Fnsi ha anche ribadito che non sarebbe affatto una soluzione un’ipotesi di intervento tampone riservato solo a testate cosiddette storiche o di partito. La Fnsi ha apprezzato la disponibilità del sottosegretario a ricercare soluzioni condivise e ha dato la disponibilità a concorrere attivamente al tavolo di confronto per la riforma della legislazione per l’editoria da avviare subito dopo la pausa elettorale.❖

L’intervento sul perché i cattolici devono impegnarsi in politica. Ma il contesto è particolare
Il segretario di Stato interviene fra i ministri, governatori, candidati del popolo della libertà
l’Unità 20.2.10
Alla kermesse elettorale del Pdl c’è Bertone, che insegna la politica
La lezione del segretario di Stato, cardinale Bertone apre a Riccione la kermesse dei giovani «cattolici» del Pdl organizzata da Roberto Formigoni. Parlano i ministri, domenica chiude il premier Silvio Berlusconi.
di Roberto Monteforti

Una brillante lectio magistralis sul perché i cattolici devono impegnarsi in politica a difesa del bene comune. Il segretario di Stato, Tarcisio Bertone ammaestra e sprona i giovani a ritrovare il gusto dell’impegno politico. L’obiettivo è quello di costruire «una nuova generazione di politici cristiani» avendo come riferimento la dottrina sociale della Chiesa. «La politica non è una cosa sporca» così inizia la sua relazione che apre il convegno organizzato da «Rete Italia», la struttura promossa da Roberto Formigoni che raccoglie l’anima ciellina del Partito delle Libertà. Il tema è attualissimo: «Costruire il bene comune possibile». Bertone ricorda le sollecitazioni di Giovanni Paolo II e le parole di Benedetto XVI che a Cagliari invocò la formazione di una nuova generazione di politici cattolici. Invita a lasciarsi alle spalle cinismo e utilitarismo. A guardare alla «buona politica» e ai buoni maestri. A Tommaso Moro contrapposto allo spregiudicato Macchiavelli e alle culture politiche utilitaristiche che hanno aperto la strada al relativismo. Cita la lezione di Maritain e di don Luigi Sturzo, l’impegno degli intellettuali cattolici che nel 1943 lavorarono alla stesura del Codice di Camaldoli che fu alla base del sistema di valori cristiani recepiti dalla Costituzione. Ripercorre i nodi della dottrina sociale della Chiesa: solidarietà, sussidarietà, bene comune, richiamo al senso etico dell’economia, alla coscienza dell’agire politico,il valore della famiglia e della scuola, l’attenzione alla giustizia sociale e ai più poveri. «Il bene comune osserva non è delegato allo Stato, il suo fondamento è nella dignità dell’uomo». Invita «alla rettitudine e al discernimento alla luce del Vangelo». Spiega che il bene comune «non è solamente un obiettivo, ma un modo di essere». Ricorda che tutti devono concorrere alla sua costruzione «ricercando ciò che unisce su ciò che divide».
Principi etici, moralità pubblica, spirito di servizio: c’è tutto nella dotta relazione del cardinale. Come quelle che si tengono ai giovani nei seminari di formazione organizzati dalla Acli o dall’Azione cattolica. O negli incontri del Meeting di Rimini organizzato da Comunione e Liberazione. L’ambiente è simile. La località poco distante: il palazzo dei Congressi di Riccione. L’iniziativa si presenta come una carrellata elettorale. Partecipano in massa i ministri: Fitto, Sacconi,Bondi,Frattini, Gasparri, Gelmini, Scajola. E i parlamentari, gli assessori, i «Governatori» Cappellacci (Sardegna),Iorio (Basilicata), Chiodi (Abruzzo) tutti rigorosamente del Pdl. Sarà il premier Berlusconi a chiudere i lavori domani 21 febbraio.
La partecipazione del segretario di Stato ad iniziative di questo tipo in campagna elettorale è una novità assoluta. Forse in Vaticano non se ne sono accorti. Non si sono ricordati che il prossimo 28 e 29 marzo in Italia si vota. Oppure hanno deciso di correre il rischio della strumentalizzazione politica pur di indicare la via della «buona politica», dell’onesta e del rigore morale, del servizio e del disinteresse personale. Della coerenza tra morale privata e morale pubblica. Temi smarriti. L’aria che si respira è ben diversa. Le parole del pastore riusciranno a fare breccia? Forse questa era l’intenzione del porporato: «Ho parlato di rettitudine per tutti i politici e non solo per quelli cattolici» ha puntalizzato ai giornalisti al termine del suo intervento senza nascondere la sua preoccupazione per l'attuale situazione politica. ❖

Repubblica 20.2.10
Aborto, bufera in Vaticano su monsignor Fisichella
Lettera di 5 membri dell´Accademia per la vita: deve dimettersi, difese la bimba stuprata dal patrigno
di Marco Ansaldo

CITTÀ DEL VATICANO - Una dura polemica sul tema dell´aborto sta agitando in Vaticano la Pontificia accademia per la vita. In una lettera riservata, ma in circolazione su Internet, cinque membri dell´organismo che si occupa di bioetica hanno scritto un documento per chiedere al Papa e al suo segretario di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone, di rimuovere il presidente dell´accademia, monsignor Rino Fisichella. Ma la Santa Sede smentisce che la lettera sia mai arrivata a Benedetto XVI.
Il pomo della discordia è un articolo che il presule scrisse sull´Osservatore romano sul caso della scomunica comminata dall´arcivescovo brasiliano, Josè Cardoso Sobrinho, ai medici e alla madre che avevano aiutato una ragazzina di Recife ad abortire. La bambina di 11 anni era rimasta incinta di due gemelli dopo i ripetuti stupri del patrigno. Nel suo articolo Fisichella aveva criticato lo stile pastorale di Sobrinho, affermando che la Chiesa deve essere prima di tutto accanto alla bambina vittima, e poi suggerito «che ci sono situazioni difficili in cui i dottori godono di uno spazio per esercitare autonomamente la propria coscienza».
Le proteste che quel testo provocò, nei settori più intransigenti del movimento per la vita, originarono una Chiarificazione da parte della Congregazione per la dottrina della fede, che denunciava la «manipolazione e strumentalizzazione» di cui era stato oggetto l´articolo di monsignor Fisichella, ribadendo la dottrina cattolica sull´aborto.
Ieri il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, ha detto che «non è arrivata nessuna lettera», sottolineando come «uno dei firmatari, il professor Michael Schooyans», non fosse «neppure presente all´assemblea plenaria». Nella lettera si spiegava però la decisione di non sfidare Fisichella in Plenaria, pur auspicandone le dimissioni.


l’Unità 20.2.10
Come divento italiano? Ecco il kit culturale di sopravvvivenza

La firma dell’«accordo per l’integrazione» segna l’inizio del macchinoso percorso, della durata di due anni, al termine del quale si accumulano i 30 punti necessari per ottenere il permesso di soggiorno (secondo la ricetta del ministro dell’Interno). Tre sono le prove da superare: italiano; Costituzione; iscrizione al Servizio sanitario. Chi ha figli deve garantire loro l’istruzione primaria. E i reati fanno perdere punti. Quindi tutti a scuola, sperando di non essere bocciati. Provvidenzialmente, qualcuno si dà da fare per agevolare la volontà di integrazione di così tanti immigrati. Si tratta del Knowledge Network Estero (Kne) che avrà inizio, in via sperimentale, dopodomani a Roma con l’obiettivo di agevolare l’inserimento degli immigrati nel mondo del lavoro e accelerare i processi di inclusione sociale. La formazione sarà di tipo linguistico, civico e professionale con uno stage finale in alcune aziende del settore preso in considerazione. L’Irfi, Azienda Speciale della Camera di commercio di Roma, è tra i promotori del progetto. La buona riuscita di iniziative come questa è fondamentale affinché si sperimenti un metodo e si realizzi un modello di inserimento sociale degli stranieri. L’immigrazione infatti non dovrebbe più essere trattata come un fenomeno extra ordinario a cui far fronte in maniera coercitiva, ma come una pratica abituale e diffusa per cui si predispongono degli schemi razionali, che mirino a fornire alle persone interessate un kit culturale di «sopravvivenza» nel paese dove giungono. Ciò appare sempre più necessario se si considera la decisione del governo di aprire i flussi 2010 a 150mila lavoratori, che si aggiungeranno agli oltre 4milioni di stranieri già residenti. ❖

l’Unità 20.2.10
Quei santi più veri del vero
Crivelli e Brera
di Renato Barilli

a cura di Emanuela Daffra
Milano
Pinacoteca di Brera
Fino al 28 marzo
Catalogo: Electa

Siamo abituati a vedere in Napoleone il grande razziatore dei beni artistici del nostro Paese, intento ad asportare capolavori da palazzi e chiese per avviarli oltr’Alpe. Ma almeno in un caso egli ha proceduto asportando sì, però per concentrare in un luogo interno, nella Milano da lui eretta a capitale del regno d’Italia, che quindi volle dotare di un’Accademia di belle arti, insediandola a Brera, con annessa Pinacoteca. Il tutto prese vita nel 1808, e dunque se ne sta celebrando la ricorrenza con una serie di eventi. Un beneficiato o danneggiato da quest’intervento centralizzante è stato il veneziano Carlo Crivelli (1430-1494-5), salvato con ciò dall’oblio in cui era caduto, ma fin troppo, ben tredici furono i dipinti di lui concentrati a Brera, tanto che i dirigenti della Pinacoteca intesero poi barattare quell’eccesso di opere di un artista non considerato primario procedendo a opportuni baratti con musei stranieri. È stato utile di conseguenza che tra gli eventi concepiti per il bicentenario di Brera ci fosse il rientro nell’antica dimora di gran parte di quei polittici.
Ma certo il Crivelli aveva tutto da perdere per quell’eccesso di visibilità ottenuto a un tratto, forse era meglio lasciarlo a un destino «provinciale», di fuga da una Venezia in cui si veniva imponendo la grande arte di Giovanni Bellini, ormai avviato alla modernità, pronto a porgere il testimone a Giorgione e Tiziano. Mentre il Crivelli se ne stava ben dentro quella «seconda maniera» dura, acerba, inanimata, che meritava non pochi strali da parte del Vasari, intrepido sostenitore della maniera moderna, capace di dare alle figure umane il sapore della carne viva. Invece l’artista padovano Squarcione e tutti i suoi seguaci, tra cui appunto il Crivelli, trattavano le membra umane come se fossero dei reperti fossili. E Crivelli, nella schiera degli squarcioneschi, tra cui il grande Mantegna, e perfino i ferraresi capeggiati da Cosmé Tura, si caratterizzava proprio per lo scrupolo con cui praticava quest’invito al congelamento dei corpi. I santi dei politittici in mostra a Brera sembrano fusi nel bronzo, con sentori e splendori metallici, inseriti in muri di tappezzerie, o in panoplie di fiori e frutti redatti nel nome del «più vero del vero».
CORPI CONGELATI
Forse a Crivelli sarebbero state utili le attuali resine sintetiche che consentono ad artisti come Piero Gilardi o Dwane Hanson di simulare alla perfezione le sembianze di natura. Il Mantegna o il Tura riuscivano a balzar fuori da quel letto di spine agitando le membra delle loro creature in spasimi, in guizzi e palpiti, invece il Crivelli le lascia immobili a un destino di pietrificazione cimiteriale. Con un solo luogo di riscatto, ravvisabile nei volti della Madre e del Bambino, in questo senso la Madonna della candeletta, immagine di culto del nostro pittore, resta l’esempio più superbo e suadente, col pallore del volto simile a quello della bacca del vischio, diafana, morbida, fragile, ma protetta da una selva di aridi rami e spine.●

l’Unità 20.2.10
Preti pedofili
Colpa del ‘68
di Toni Jop

C hiesa tedesca in subbuglio per via dei preti pedofili. Ma ecco che Walter Mixa, vescovo di Augsburg, in un’intervista alla Sueddeutsche Zeitung mette a fuo-
co un concetto degno della cultura del partito della Libertà: se questa infamia ha travolto le sacre tonache, la colpa tuona è del permissivismo sessuale e della culla che lo ha sdoganato, e cioè il Sessantotto. Suggeriamo che anche la Bibbia, con quel travolgente numero di disinvolti accoppiamenti raramente regolari è figlio di quella tremenda cultura sessantottina. Perfino i massaggi allo stanco capo della Protezione civile vengono da lì. Mentre i nostri bastioni arretrano incalzati da una mascalzonaggine culturale che fa sembrare il congresso di Vienna un covo di rivoluzionari, incassiamo un altro duro colpo: Sanremo è tornato al sesso contro natura nei confronti del paese provvedendo a recuperare l’inno reazionario messo in scena da Emanuele Filiberto e dal suo portamazze, Pupo. Ci risiamo: colpa del Sessantotto.

venerdì 19 febbraio 2010

l’Unità 19.2.10
Lazio, Ruini «manovra» contro Bonino Ma il Vaticano: parrocchie fuori dal voto
Dietro il duello Bonino-Polverini un altro capitolo dello scontro Cei-Vaticano. Le simpatie elettorali sono ovviamente le stesse ma mentre Ruini vuole un impegno diretto per la candidata Pdl, il Vicariato si oppone.
di Mariagrazia Gerina

Anche dietro l’uscita di Binetti dal Pd la lunga mano dell’ex presidente della Cei
Mons.Miglio: «Sono elezioni amministrative, siparli di problemi concreti come il lavoro»


Le prime battute sono state tracciate a casa di Marco Pannella, sotto gli auspici di un sacerdote di Teramo. Don Giacinto Pannella, omonimo leader radicale, che del prozio ordinato nel 1871 custodisce gelosamente il ritratto. Simbolico traghettatore tra la sponda radicale e quella cattolica tutt’altro che intenzionata a sparire all’interno del Pd. Parola di Franco Marini: «Sono un mezzo pensionato ma ci sono», ha ricordato ad arginare la portata dell’addio al Pd di Paola Binetti. Dopo che la sua difesa a spada tratta aveva spianto la strada della candidatura nel Lazio alla radicale Emma Bonino. Tra una comune origine abruzzese e un racconto su don Giacinto, è stato lui, in casa Pannella, a gettare le basi del dialogo che continua in queste ore nelle stanze del comitato per Emma Bonino, dove al programma della candidata lavorano fianco a fianco il radicale Gianfranco Spadaccia e l’uomo da lui indicato, Lucio D’Ubaldo. «Queste sono elezioni amministrative ed Emma incarna meglio di chiunque altro un bisogno diffuso di moralità e di voltare pagina», ragiona D’Ubaldo. La vera posta in gioco spiega è conquistare i tanti anche tra i cattolici che disgustati dalla politica propendono per il non-voto. Battere sulla questione morale, dunque. E lasciare sullo sfondo, ovvero fuori dal programma, «le questioni che appartengono alla sensibilità di ciascuno», leggi coppie di fatto, «su cui la Regione, fatta salva la necessità di erogare a tutti i servizi, non decide». Questo lo schema dei cattolici pro-Bonino. Riusciranno a rompere la chiamata al voto cattolico anti-Bonino?
Prima l’uscita di Paola Binetti dal
Pd, poi gli attacchi di Avvenire alla candidata radicale e al Pd che ha scelto di appoggiarla. I segnali più evidenti finora non fanno ben sperare. Ma ci sono anche altri segnali. Come la prudenza raccomandata ai vescovi laziali dal cardinale vicario di Roma Agostino Vallini, scelto dal segretario di Stato Tarciso Bertone. La parte più oltranzista dei vescovi laziali, che fa ancora riferimento a Ruini, auspica una presa di posizione pubblica sulla sfida Bonino-Polverini. Vallini ha risposto, per ora, chiedendo di tenere fuori la politica dalle parrocchie. «Niente comizi nelle parrocchie», recita il suo altolà. Che suona come un argine rispetto alla crociata anti-Bonino. Come la presa di posizione di monsignor Arrigo Miglio, responsabile problemi sociali della Cei, anche lui vicino a Bertone: sono elezioni amministrative, anche nel Lazio, al cen-
Foto Ansa
tro vanno messi i problemi concreti, i sostegni a chi perde il lavoro.
Segnali contrastanti, dietro cui leggere un altro capitolo dello scontro tra Cei e Segreteria di Stato, tra Bertone e Ruini, che ha fatto di Roma e del Lazio il fronte più importante di un nuovo scontro di religione. È stato il suo intervento diretto la spinta per Paola Binetti a lasciare il Pd. E la sua convocazione di Gianni Letta e Silvio Berlusconi nella sua dimora, presso il Seminario Minore, ribattezzato dai maligni “Vaticano Due”, a rovesciare nel Lazio, a favore della candidata del Pdl, l’alleanza con l’Udc. La segretaria dell’Ugl d’altra parte si sta dando da fare, con la sua presenza alle manifestazioni religiose ed ecclesiali. Ma soprattutto lavora a garantire presenze cattoliche significative nella sua lista civica. Come quella di Mimma Giaccari, espressione dell’ala “destra” delle Acli, che la stessa Comunione e Liberazione si accingerebbe a far votare. Dall’altra parte però non stanno fermi. L’ex ministro Beppe Fioroni, unito a Bertone da un rapporto molto diretto, fa la spola in queste ore tra le cliniche cattoliche, che non guardano con favore al ritorno della vecchia compagine storaciana alla guida della sanità laziale. E dopo gli ultimi cambi nel cda della Cattolica, che gestisce il Policlinico Gemelli, nodo centrale della sanità laziale, può contare su alcuni amici, fedelissimi di Bertone, come il presidente del Bambin Gesù, Giuseppe Profiti.❖



l’Unità 19.2.10
Se mandarini e pomodori
sono sporchi e invadenti
La nostra Italia razzista
Rosarno, Obama e il piccolo paese di Tallulah: le discriminazioni razziali e il ruolo dell’informazione. L’intervento di Enrico Deaglio, oggi a Firenze
di Enrico Deaglio

Questo mio intervento divaga tra il tempo e lo spazio, sul tema del razzismo e vi gira delle domande alle quali io sicuramente non so dare risposta. Per esempio: mi è venuto in mente che forse tra vent’anni venderemo i nostri mandarini, arance, pomodori avviluppate in quelle carte sottili che si usavano nell’Ottocento, con magnifici design grafici. Un uomo nero che raccoglie i rossi e succosi frutti della terra, lui nerboruto con un cappello di paglia, un pipa di legno in bocca e un gran sorriso bianco. E la scritta: made in Italy. Oppure andrà tutto diversamente e tra vent’anni avremo un sindaco Ahmed di Rosarno. Oppure tutte le culture agricole del sud Italia saranno abbandonate, perché quel modello economico – fare raccogliere i frutti dagli schiavi – non regge più.
Fantasie. Ma intanto mi accorgo di quanto noi conosciamo poco della nostra terra. Proprio oggi, una onlus – la Da sud – presenta a Roma uno studio sulla violenza razziale a Rosario. Si scopre che lì, sempre con il beneplacito della ’ndrangheta cominciarono a sparare ai neri a partire dal 1990. Finora ne hanno uccisi una dozzina, e centinaia sono rimasti feriti. Tutti senza nome conosciuto. Ancora prima, nel 1986, mi ricordo che andai a Castelvolturno (un po’ più su di Rosarno, lì stanno sotto la camorra, a Rosarno sotto la ’ndrangheta) perché mi avevano raccontato che quella era una specie di territorio senza stato né legge e che sembrava di essere nel Mississippi con tutti quei neri (anzi, al tempo si diceva ancora negri) che lavoravano nei campi. Era proprio così e a me e al fotografo Maurizio Bezziccheri dell’Europeo capitò verso mezzanotte di sentire degli spari in campagna. Illuminammo con i fari la strada e c’era un africano rantolante con un grosso buco nel petto. Un altro era cadavere addossato a un muretto. Nessun quotidiano ne parlò e il nostro settimanale ci mise a pagina 98 (la buona notizia è che dieci anni dopo la procura di Santa Maria Capua a Vetere ci chiamò a testimoniare perché il ferito, che noi avevamo dato per morto, era sopravvissuto).
Noi italiani non abbiamo un razzismo di vecchia data. Le leggi razziali sono appena del 1938. Noi siamo innocenti per natura, il nostro impero è durato meno di dieci anni. Trent’anni fa in Italia, praticamente non c’erano immigrati. E quindi non sappiamo bene cosa fare, anche se oggi circa 4 milioni di immigrati ci sbrigano tutte le faccende. Ho letto che nel giro di trent’anni, se l’Italia vorrà conservare la sua popolazione di 60 milioni di abitanti, sarà necessaria l’immigrazione di almeno dieci milioni di persone. Ma sono pochi, anzi a me sembra nessuno, che dicano: diamo subito il diritto di voto, ovvero il primo dei diritti civili. Non ci sono neri nel nostro parlamento, tranne uno. Un nero italiano non riesce a entrare nella nazionale di calcio. Ogni parti-
to politico teme che sollevare questi temi significhi andare incontro a un tracollo elettorale.
Ho passato l’estate scorsa tra il Mississippi e la Louisiana, girando. Lì come sapete, il razzismo è nato, lì si è combattuta una guerra civile da mezzo milione di morti, lì sono nati il Ku Klux Klan e lì milioni di africani sono stati deportati e resi schiavi per raccogliere il cotone che serve in fondo a costruire le camicie che portiamo e le lenzuola in cui dormiamo. Poi, un secolo dopo la guerra, vennero le lotte per i diritti civili e adesso c’è Obama presidente. Volevo vedere che effetto
faceva, se si vedevano i segni della vittoria. Non ne ho visti. Anche l’andamento del voto da quelle parti è poco conosciuto: quegli stati, a stragrande maggioranza nera, hanno votato Mac Cain. Obama non ha neanche fatto un salto per un comizio, li aveva dati per persi. Non solo, ma non ha conquistato un solo voto nell’elettorato bianco indeciso. In quei posti ci sono persone che mettono un adesivo sulla macchina: «Se avessi saputo che sarebbe successo tutto questo casino, il cotone me lo sarei raccolto da solo», ma non c’è nessuno che scriva «alla Casa Bianca c’è uno dei nostri». Le minacce di morte al presidente, da quelle parti, sono cresciute del 400%; il cotone è raccolto con giganteschi macchinari che praticamente non necessitano manodopera, la disoccupazione è altissima e tra i neri il diabete è tra le prime cause di morte.
L’unico ritratto di Obama l’ho visto in un ufficietto, in un piccolo museo di lamiera che ricorda Emmett Till. Emmett Till era un ragazzo nero di Chicago, di 14 anni che passava l’estate del 1963 dallo zio in Mississippi. Dicono che abbia fatto un commento galante alla cassiera bianca di una stamberga, pagando un chewing gum. Il marito lo rapisce, l’ammazza e lo butta nel fiume legato a una grossa pietra. Ma il cadavere sfigurato viene ripescato e riconosciuto per un anello che porta al dito: uno dei pochi effetti personali del padre Louis Till, morto in guerra in Italia. La madre Mamie espone il cadavere a Chicago, il martirio di Emmett Till diventa noto in tutto il mondo ed è considerato l’inizio della lotta per i diritti civili. Ma c’è un dettaglio in questa storia, che riguarda la Toscana. Louis Till, soldato semplice dell’esercito americano era morto impiccato, accusato di omicidio e stupro. Il tutto era avvenuto nell’enorme campo di prigionia di Metato, vicino a Pisa. Ezra Pound, anche lui detenuto, lo cita in uno dei suoi Cantos. Gli avvocati degli assassini lo citarono al processo, come dire tale il padre tale il figlio.
E l’ultima cosa. Ero ospite nel piccolo paese di Tallulah, cotone e miseria dappertutto. Una signora nell’ufficio del turismo mi fece conoscere la storia di cinque italiani linciati nel 1899, si chiamavano Defatta, venivano da Cefalù, in Sicilia. Avevano avviato un buon mercato di frutti: pomodori, mandarini, arance e davano fastidio: invadenti, sporchi e mafiosi. Quando tornai a casa dai miei ospiti e raccontai la mia scoperta, li vidi veramente costernati. «Ah, te l’hanno detto!» e ho scoperto che le signore di Tallulah, in un circolo parlando dell’ospite italiano, si erano augurate che nessuno me lo dicesse. E forse avevano ragione loro.
Questo per dire che l’informazione serve, ma che non bisogna farsi troppe illusioni. E che alla fine vince chi ha la forza e la pazienza di raccontare il passato. ❖

l’Unità 19.2.10
Immigrazione su www.unita.it una nuova sezione
Uno spazio fisso dedicato a migranti e “nuovi” italiani non solo reportage, inchieste e approfondimenti anche vademecum, documenti e consulenze giuridiche
di Maristella Iervasi

Il sito dell’Unità da oggi si «occupa» di immigrazione. Di migranti e “nuovi” italiani ne abbiamo sempre raccontato le storie e le battaglie per i diritti, ma per «occuparcene» meglio da oggi trovate una nuova sezione su www.unita.it. Uno spazio di informazione e approfondimento ma, soprattutto, uno spazio di servizio per i migranti d’Italia. Ci saranno storie, racconti, dossier statistici, inchieste, ma anche vademecum e appro-
GAD LERNER
fondimenti giuridici sui diritti dovuti e negati grazie alla collaborazione con l’Asgi, l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione. Si comincia oggi con il presidente Asgi, Lorenzo Trucco, e il tema dell’art.18, previsto dal Testo Unico sull’immigrazione e riproposto dalla Bossi-Fini, che prevede il rilascio del permesso di soggiorno per protezione sociale. Una norma che andrebbe estesa anche alle vittime del caporalato e non solo a quelle della tratta delle prostitute straniere, come accade oggi. Tra i tanti temi l’aggravante di clandestinità e le sue conseguenze, il rapporto dello straniero con la pubblica amministrazione, fino all’ultima boutade del governo sui permessi di soggiorno. Basterà cliccare nella sezione Immigrazione e da qui si potrà accedere ai documenti, i racconti dei protagonisti, all’Osservatorio sul razzismo e ai blog dei nostri autori. A guidarci un logo che ci ricorda quando gli immigrati eravamo noi italiani. Un clic per approfondire e conoscere. Perché l’immigrazione è vero che va governata ma non con le ronde e i rastrellamenti. La parola chiave è integrazione.❖

Il Fatto 19.2.10
“80 suore e preti pedofili in Italia”
I dati dal Vaticano mentre la Chiesa affronta gli scandali internazionali
di Andrea Gagliarducci

A lmeno 80 sacerdoti italiani coinvolti nello scandalo pedofilia negli ultimi dieci anni. Sono cifre rivelate da don Fortunato Di Noto, fondatore dell’Associazione Meter contro la pedofilia. Meter ogni anno monitora i siti pedofili (che quest’anno, si legge nell’ultimo rapporto, sono più che raddoppiati), raccoglie segnalazioni, organizza convegni sul fenomeno, drammaticamente presente anche all’interno della Chiesa. Il caso più eclatante, quello della Chiesa statunitense. Ma ci sono stati anche i casi della Chiesa australiana e di quella irlandese. Benedetto XVI ha parlato di tolleranza zero nei confronti dei sacerdoti pedofili proprio in occasione del recente incontro con i vescovi di Irlanda, convocati a dare conto delle proprie omissioni davanti al Papa stesso e a dieci membri della Curia. Si è insomma cominciato a parlare in maniera chiara dello scandalo pedofilia anche all’interno del Vaticano, secondo un metodo persino più conciliare di quello di Giovanni Paolo II: il Papa ha partecipato a tutte le riunioni, ha ascoltato il parere di tutti, ha lasciato le decisioni
alla collegialità. È questa la strada da seguire? “Credo – dice don Di Noto che il Santo Padre abbia lanciato un appello, anche un impegno perché farà una Lettera agli irlandesi. Ma da questa lettera pastorale dovremmo attingere un po’ tutti affinché non ci sia più in silenzio e soprattutto per far sì che questa sia una azione pastorale quotidiana, dove i bambini devono essere accompagnati ed educati, ma dove gli adulti devono imparare a non offendere mai l'infanzia”. Nel frattempo, lo scandalo pedofilia dall’Irlanda arriva in Italia passando dalla Germania: lì il direttore del prestigioso collegio berlinese Canisius, Padre Klaus Merte, ha ammesso aggressioni “sistematiche e per anni”. Tre preti sono sospettati di aver abusato di almeno 30 minorenni tra il 1975 e il 1983. Quando le vittime hanno tentato di avvertire la direzione del collegio su queste pratiche, si sono “scontrate con persone che hanno guardato altrove”. Da quel momento, le testimonianze delle vittime affluiscono. Altri casi di abusi di questi tre religiosi sono stati segnalati nella diocesi di Hildesheim, in una scuola di Amburgo, e in una scuola della Foresta Nera. Per arrivare dalla Germania all’Italia, si passa dalla diocesi di Bressanone, di lingua tedesca, dove Benedetto XVI va in vacanza. E, a guardare il sito della diocesi (www.bz-bx.net), c’è una novità: nella pagina suggerimenti, si rimanda ad una pagina intitolata: “Presunte molestie da parte di sacerdoti”, nella quale c’è un’e-mail cui rivolgersi e si assicura la piena disponibilità del vicario a parlare di ciascuna situazione.
Un passo verso la trasparenza. Don Di Noto dice che il fenomeno in Italia “forse è più gestito e controllato, anche se ci sono stati dei casi affrontati con imprudenza”.
In Italia, due casi sono balzati agli onori delle cronache di recente: don Luciano Massaferro, 49 anni, parroco di Alassio (Savona) è stato arrestato con l’accusa di pedofilia il 29 dicembre scorso: la comunità prima lo ha difeso con moderazione, ma, dopo che il gip ha rifiutato la scarcerazione del sacerdote, la Curia è passata all’offensiva, con un duro atto d’accusa contro i magistrati dalle pagine diocesane di Avvenire. La vittima delle molestie, secondo la Procura, è una undicenne, chierichetta di don Luciano, che in un colloquio con gli psicologi dell’ospedale pediatrico Gaslini avrebbe raccontato delle molestie subite dal sacerdote.

il Fatto 19.2.10
Diktat bulgaro per Internet
di Loris Mazzetti

Silvio Berlusconi, dal giorno dell’editto bulgaro, 18 aprile 2002, che determinò la chiusura del Fatto di Enzo Biagi, di Sciuscià di Michele Santoro e la fine della carriera in Rai di Daniele Luttazzi, come gli ha suggerito l’amico Previti, non ha più fatto prigionieri, soprattutto quando qualcuno tenta di inserirsi tra le sue aziende e le risorse pubblicitarie e quando c’è chi si oppone al “pensiero unico”: cioè il suo. Ne sa qualcosa Sky (prima l’aumento dell’Iva dal 10 al 20%, poi la nascita di una seconda piattaforma satellitare), così come le oltre 50 testate che con il taglio del 20% del fondo
per l’editoria, previsto in Finanziaria, rischiano di chiudere. Per Winston Churchill: “La democrazia funziona quando a decidere sono in due e uno è malato”, per Berlusconi, invece, la democrazia esiste quando uno dei due non può parlare. A subìre il prossimo editto, vestito ufficialmente da decreto, quello del sottosegretario con delega alle Comunicazioni Paolo Romani, è il mondo del Web. Il governo in risposta ad una direttiva del Parlamento europeo sui media audiovisivi, mette mano a quello che oggi è il settore mediatico che gode di maggiore libertà. A lanciare l’allarme è stata la stessa Commissione europea che nutre serie perplessità sulle nuove responsabilità che il decreto Romani pone agli Internet service provider come Fastweb e Telecom Italia, in quanto la direttiva europea vieta obblighi preventivi sul commercio elettronico come, invece, obbligherebbe il decreto del governo, se approvato definitivamente. In sostanza Romani vorrebbe sottoporre la trasmissione delle immagini sui siti (dalle Web tv a YouTube), alle regole audiovisive tipiche della tv e a una preventiva autorizzazione ministeriale, ciò cambierebbe totalmente l’attuale funzionamento della Rete. Il sottosegretario Romani alle accuse risponde che si tratterebbe soltanto di una “comunicazione di inizio attività per i siti con prevalenza di trasmissione di immagini in movimento”. La realtà invece è quella che ha sottolineato il presidente dell’Autorità per le Comunicazioni, Corrado Calabrò: “Un filtro generalizzato su Internet da una parte è restrittivo, dall’altra è inefficace perché è un filtro burocratico a priori”. Il problema su Internet esiste”, ha poi aggiunto Calabrò, “però non è un caso che nessun paese occidentale abbia adottato la soluzione Romani”. L’Italia come la Cina.
A questo punto una domanda sorge legittima: “Perché il Web fa tanta paura a questo governo? La Rete è il luogo della comunicazione, tutto passa, nulla può essere nascosto. Durante la guerra del Kosovo, le informazioni da Belgrado arrivavano, nonostante la censura dei serbi di Milosevic, da Radio B92 che trasmetteva clandestinamente via Internet; grazie alla Rete, il regime di Teheran ha subìto un grosso colpo, i blog iraniani hanno informato il mondo, le televisioni straniere hanno fatto grande uso delle immagini prese dai siti aggirando così la censura. Le immagini della morte di Neda, sempre grazie al Web, hanno fatto il giro del mondo e sono diventate il simbolo della protesta al regime di Ahmadinejad. Se in Abruzzo non ci fossero stati i blogger con le loro telecamere digitali dai giorni successivi al terremoto, dall’informazione televisiva non avremmo mai saputo che il miracolo del duo Berlusconi-Bertolaso, oltre a tante altre cose non fatte, non ha mai contemplato la rimozione delle macerie dalle zone più colpite, ormai integrate nel territorio e ricoperte d’erba nel frattempo cresciuta abbondantemente. Credo che sia legittima una seconda domanda: “Obama sarebbe diventato presidente degli Stati Uniti senza Internet?”. Aldo Grasso scrive sul Corriere della Sera che “dopo anni in cui è prevalsa l’ideologia dell’informazione free (sul Web no copyright) si è scoperto che a beneficiare di ingenti guadagni non sono i giornali, ma altri soggetti”, aggiungendo poi, “con la crisi della pubblicità l’informazione non può più essere gratuita”. Se ciò accadesse la Rete rischierebbe di fare la fine della televisione, dove un imprenditore è padrone di tre reti e altre tre le controlla perché è anche presidente del Consiglio. Questo è il motivo per cui la Rete deve rimanere libera e chi lavora nell’informazione non deve temere la sua libertà, anzi, la deve garantire. Per questo il governo vuole imbavagliare il Web: lì ogni opinione ha un valore a prescindere dalla firma, e tutti possono ancora esprimere liberamente il proprio pensiero senza condizionamenti.

Repubblica 19.2.10
Matrix cancella la Bonino Bersani: noi schiacciati in tv
Invito ritirato per il no della Polverini al confronto
di G. C.

ROMA - «Caro Alessio, ho saputo che a Matrix non se ne fa niente, me ne dispiace. È una tua decisione, ma per favore non tirare in ballo la par condicio... «. Emma Bonino viene cancellata dalla puntata di oggi di Matrix e protesta con il conduttore Alessio Vinci. Che risponde: «Carissima Emma, non esiste preclusione nei tuoi confronti o della lista Bonino-Pannella, il tema della puntata sarà legato a esigenze di cronaca e di attualità che mi richiede di rinviare le puntate elettorali alle settimane successive». Lo spauracchio della par condicio in tv viene agitato dal centrodestra.

Renata Polverini, sfidante della leader radicale Bonino nel Lazio, si sottrae al faccia a faccia sia diretto che indiretto; a Mediaset trovano che sia meglio soprassedere. Il regolamento sulla par condicio per la verità non c'entra nulla. L'Agcom deve ancora recepire quello della commissione di Vigilanza (che peraltro, dopo la preoccupazione anche del Quirinale, dovrebbe essere modificato), e comunque non è ancora la "fase due" della campagna elettorale, quando le norme della par condicio diventeranno categoriche. La Bonino cita un paio di casi in cui la pari presenza in tv è lettera morta, non vale per gli esponenti del centrodestra: per il ministro Renato Brunetta, candidato sindaco di Venezia, ad esempio. «L'ho invitato quando ancora non era candidato, né si era in par condicio», replica Vinci. I radicali ribattono: «Era il 19 gennaio e il giorno dopo Berlusconi l'ha designato, sembrava quasi un lancio... «.

Il caso-Brunetta irrita anche Pierluigi Bersani. Il segretario del Pd premette: «Non sto mai a preoccuparmi dei minutaggi in tv, ma da qui ad arrivare a spazi di Kim il Sung ne passa... Il ministro-candidato sindaco a Venezia risulta esposto in tv per 1600 minuti e il suo concorrente Giorgio Orsoni per 3 minuti.

Uno scandalo. L'uso dei media per valorizzare ministri in carica candidati alle amministrative è un atto di slealtà profonda.

Faremo di tutto di più, ogni iniziativa possibile». La Bonino parla di «uso pretestuoso della par condicio».

Del resto il Pdl ha già depositato due proposte per cambiare la legge sulla par condicio. Una al Senato è firmata da Alessio Butti, componente della commissione parlamentare di Vigilanza Rai: «Vogliamo una netta revisione della legge, questo è il nostro obiettivo». Anche se per ora, in Vigilanza, Pdl e Lega hanno votato un regolamento che ingessa la par condicio, facendo saltare - se le norme non saranno modificate - i talk show politici. Nella prossima settimana, sarà di nuovo convocata la Vigilanza per sbrogliare il nodo, probabilmente grazie a un parere tecnico delle Camere sulla norma contestata.

Anche Berlusconi è tornato all'attacco sulla par condicio, spiegando che va assolutamente cambiata, perché «garantendo a tutti lo stesso spazio avvantaggia le forze più piccole come Udc e Idv». Affermazioni che il premier ha fatto nella cena con i senatori mercoledì sera. I dipietristi replicano: «Il premier è eversivo nel chiedere la modifica della legge sulla par condicio, è allergico alle norme che tutelano la democrazia».

Repubblica 19.2.10
Più soldi dal governo alle scuole cattoliche
Incontro chiarificatore tra Berlusconi e il cardinal Bertone dopo il caso Boffo
di Marco Ansaldo

ROMA - «Tutto bene, non c'è stato alcun problema», diceva un porporato accompagnato dal segretario personale all'uscita di Palazzo Borromeo. «L'incontro è filato liscio», spiegava sorridendo un funzionario della Farnesina lasciando la sede dell'ambasciata italiana presso il Vaticano. Il caso Boffo aleggiava però come un'ombra, ieri, alla cerimonia per l'anniversario dei Patti Lateranensi. Una grande festa, celebrata con un vertice fra Silvio Berlusconie il cardinale Tarcisio Bertone, il primo dopo la lunga stagione dei "veleni" collegata allo scandalo scoppiato con le dimissioni del direttore dell'Avvenire, per un'informativa falsa pubblicata sul quotidiano della famiglia del premier.

La fitta agenda dei colloqui fra la delegazione guidata dal presidente del Consiglio e quella del segretario di Stato vaticano, non aveva al centro dei temi affrontati il caso che pure, all'epoca, fece saltare il pranzo proprio fra Berlusconi e Bertone, previsto all'Aquila per la Festa della Perdonanza. «Gli argomenti all'ordine del giorno erano quelli classici di un summit bilaterale», affermava una fonte diplomatica italiana. E dunque, lo Stato dei rapporti fra Santa Sede e Stato italiano, le persecuzioni nei confronti dei cristiani in Iraq e in India, la questione del crocifisso. Il governo ha poi però assicurato alla Chiesa anche la sua attenzione alla questione dei fondi per le scuole cattoliche private e alla fecondazione assistita. Particolare impegno hanno chiesto i vertici ecclesiastici soprattutto sulla questione dei migranti, che la Conferenza episcopale italiana (Cei) mostra di avere molto a cuore. Proprio ieri l'Osservatore Romano pubblicava una nota con cui i vescovi italiani entravano in uno dei temi cruciali della campagna per le regionali, quello dell'immigrazione, dando l'altolà contro ogni suo uso strumentalea fini elettoralie contro ogni «inappropriatae falsa criminalizzazione pregiudiziale degli immigrati».

«L'incontro è andato bene», ha infine detto Berlusconi lasciando l'ambasciata, apparendo durante i colloqui un po' scuro in volto e poco espansivo. «I colloqui - aggiungeva il capo dello Stato, Giorgio Napolitano - si sono svolti in una atmosfera come sempre di grande cordialità e di grande sintonia». Nessuno dei membri delle due delegazioni, Berlusconi accompagnato da Gianni Letta, con i presidenti del Senato Schifani e della Camera Fini, Bertone assieme al sostituto alla segreteria di Stato monsignor Filoni e al segretario per i rapporti con gli Stati esteri monsignor Mamberti, hanno rilasciato dichiarazioni.

Ma nelle splendide sale di Palazzo Borromeo, non pochi fra gli ospiti parlavano - e nemmeno a mezza voce - del caso Boffo. Presente, in un parterre di politici, alti prelatie intellettuali, anche il direttore dell'Osservatore Romano, Giovanni Maria Vian, che alcuni hanno descritto come un deciso avversario dell'ex direttore dell'Avvenire e addirittura suo siluratore. Ipotesi smentita di recente, con una durissima nota della Segreteria di Stato vaticana, che parlava anzi di una «campagna diffamatoria» diretta anche contro il Papa. «Come vedete sono in ottima forma», rispondeva anzi Vian a chi gli poneva domande sulla vicenda. Alcun accenno ha fatto alla questione né il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei, che è l'editore del giornale dei vescovi, né il cardinale Camillo Ruini, tra i primissimi a lasciare il ricevimento. Prima di rientrare in Vaticano, Ruini ha comunque incontrato brevemente la candidata del Pdl alla Regione Lazio, Renata Polverini. «Sono venuta qui per fare un giro di saluti - ha spiegato la sfidante di Emma Bonino - ho parlato con il cardinale Bertone e con Bagnasco. Sì, mi incoraggiano». All'uscita del Palazzo spiegava una personalità vicina al mondo ecclesiastico: «Oggi formalmente è andato tutto bene. Ma l'impressione è che ad avere problemi siano loro, il governo. Problemi di divisioni interne e di riuscire a fronteggiare l'ondata di critiche che sale dall'opinione pubblica. Ma i rapporti fra Stato e Chiesa, quelli, sono saldi».

Repubblica 19.2.10
L'intervista. Lo studioso racconta il suo ultimo libro sul padre dell'evoluzione
Richard Dawkins "Darwin, antidoto all'ignoranza"
di Piergiorgio Odifreddi

Il suo libro, "Il più grande spettacolo della terra.

Perché Darwin aveva ragione" in uscita per Mondadori, riporta sondaggi inquietanti, secondo cui il 20% degli italiani nega che l'uomo discenda in qualunque modo dagli animali, e il 32% pensa chei primi uomini siano vissuti all'epoca dei dinosauri! Come spiega, professor Dawkins, una tale ignoranza scientifica in un'epoca tecnologica e in un paese sviluppato? «Purtroppo non è un problema solo italiano, ma europeo e statunitense. E non riguarda solo l'evoluzione: una percentuale analoga, del 24% in Italia, pensa che la Terra impieghi un mese a girare attorno al Sole! Il che significa che c'è un'ignoranza scientifica generalizzata». Ma con l'evoluzionismo ci sono ovviamente ragioni particolari, non crede? «Certamente, soprattutto tra i fedeli della cosiddetta Chiesa Bassa dei paesi protestanti. Sarei sorpreso che fosse così in un paese a maggioranza cattolica. Mi sembra che la Chiesa accetti l'evoluzione, almeno ufficialmente, a parte l'origine dell'anima umana: se ho ben capito, secondo loro a un certo punto ci dev'essere stato qualcuno che aveva un'anima, mentre i suoi genitori non l'avevano».

A dire il vero, l'enciclica di Pio XII Humani generis dice esplicitamente che un cattolico deve credere all'esistenza reale, e non metaforica, di Adamo ed Eva.

«Questa non la sapevo! Mi faccia controllare in rete.

Ohibò, è vero! Molto interessante. Io sono stato criticato per aver attaccato i fondamentalisti, invece che i "veri" teologi, ma qui abbiamo addirittura un papa recente che dice queste cose! Affascinante, lo userò d'ora in poi».

Il papa attuale, Benedetto XVI, e il suo allievo Christian von Schönborn, cardinale di Vienna, si sono invece espressi apertamente a favore del Disegno Intelligente. Lei cosa ne pensa? «Molti aspetti del mondo vegetale e animale mostrano che, se ci fosse un Disegno, sarebbe non intelligente! E' più sensato pensare che non ci sia stato nessun Disegno, e che la Natura sia il prodotto di un'evoluzione storica».

E il Principio Antropico, secondo cui viviamo in universo fatto apposta in modo da permettere la nostra esistenza? «Oh, quella è un'altra faccenda, da tenere ben distinta dalla precedente, benché le due cose vengano spesso mescolate. Il Principio Antropicoè un argomento ateo, che isola scientificamente le condizioni necessarie alla vita».

Anche il Disegno Intelligente, però, nonè necessariamente teistico. «E' vero. Si può pensare che la pianificazione sia stata fatta da alieni, ad esempio, come nella teoria della panspermia difesa nientemeno che da Francis Crick nel suo libro La vita stessa. Ma naturalmente questo è solo un Disegno locale, che non spiega l'origine degli alieni che avrebbero dato origine alla vita terrestre».

Vogliamo ora passare alle prove dell'evoluzione? Per cominciare, inizierei da quelle che già Darwin aveva dato, a partire dall'analogia con la selezione artificiale.

«E' un esempio eccellente, che oggi viene usato meno di quanto si dovrebbe. In fondo, la selezione artificiale non è altro che la verifica sperimentale della selezione naturale: in parte effettuata coscientemente nei laboratori oggi, ma in parte effettuata inconsciamente nel corso dei secoli da coltivatori e allevatori. Darwin amava molto gli esperimenti sui piccioni, ma a me sembra che l'esempio più spettacolare di quanti cambiamenti si possano produrre in poco tempo sono i cani, dal chihuahua all'alano».

Darwin ha anche refutato fin da subito l'obiezione creazionista dei cosiddetti "organi complessi", come l'occhio.

«Sì, facendo notare che spesso non è vero che un organo complesso funziona soltanto come sistema integrato di tutte le sue parti: anche un quarto, o addirittura un centesimo, di occhio vedono meglio che nessun occhio! E nel regno animale si trovano esempi di vari stadi di evoluzione incompleta dell'occhio, che lo dimostrano». Darwin fece anche notare le tracce lasciate dall'evoluzione negli organi vestigiali, come le ali degli uccelli che hanno smesso di volare.

«Quegli organi non più funzionanti sono esempi meravigliosi ed eleganti di un avvenuto cambiamento, di cui forniscono una testimonianza storica. Oggi poi sappiamo che ci sono non solo organi, ma anche geni vestigiali: i cosiddetti pseudogeni, che hanno tutta l'apparenza dei geni normali, ma non sono più nemmeno trascritti. Sono un po' l'analogo dei frammenti di programmi e di file che rimangono sull'hard disk del nostro computer, benché non siano più accessibili».

Vorrei ora passare alle prove che ai tempi di Darwin non avevano sufficiente evidenza, tipo i fossili.

«Di fossili animali ce n'erano già allora, naturalmente, ma mancavano quelli umani: è a quelli che ci si riferiva, parlando di "anelli mancanti". In seguito ne sono stati trovati un'enormità: soprattutto in Africa, che era il luogo in cui già Darwin aveva capito si sarebbero dovuti cercare, a causa della grande somiglianza degli uomini con le scimmie africane quali gli scimpanzè e i gorilla, più che con le scimmie asiatiche quali gli oranghi e i gibboni». Ci sono poi argomenti che Darwin non poteva addurre, perché si basano su scoperte successive, come la genetica.

«Effettivamente, se c'è un campo nel quale Darwin si sbagliò, fu certamente la genetica.

Dopo la scoperta della doppia elica da parte di Watsone Crick, direi che la genetica è diventata una branca dell'informatica: una sequenza di DNA è simile a un nastro di computer, benché in un alfabeto quaternario invece che binario, e si legge e si trascrive nello stesso modo».

Nonostante tutte queste prove, come mai i creazionisti insistono a non considerare l'evoluzione una teoria scientifica? «Forse perché la considerano una teoria storica, parte dell'umanesimo invece che della scienza (benché, ironicamente, quasi tutti i creazionisti siano umanisti). Ma sbagliano, perché invece è basata su evidenza sperimentale, predittiva, e verificabile o refutabile: ad esempio, l'evoluzionismo prevede che non si possano trovare fossili di mammiferi negli strati del devoniano, e un loro ritrovamento sarebbe una confutazione della teoria».

C'è un'ultima obiezione, proposta da un paio di fisici balzani, secondo cui l'evoluzionismo non sarebbe scientifico perché non descritto da formule matematiche.

«Questa, poi! Il neodarwinismo moderno è basato sull'idea che la frequenza dei geni nelle popolazioni cambia nel tempo, e le principali ipotesi necessarie al cambiamento, e dunque all'evoluzione, si derivano da una famosa formula dovuta a Hardy e Weinberg. La moderna genetica evolutiva è altamente matematica, piena di formule: ci sono addirittura riviste scientifiche interamente dedicate ai fondamenti matematici della teoria. Anche questa obiezione, come tutte le altre, è semplicemente disinformata».

Repubblica 19.2.10
Caravaggio, lo splendore di un artista in fuga
di Fabrizio Dentice

Di M i c h e l a n g e l o Merisi, il Caravaggio, s'è detto e scritto in più istanze che dopo di lui la pittura non è più stata la stessa, o altrimenti che con lui comincia «la modernità». Nel quarto centenario della morte, una mostra a Roma, ideata da Claudio Strinati e curata da Rossella Vodret e Francesco Buranelli, vuol dirci il senso e la portata di così radicali asserzioni:e lo fa nel modo più lucido e persuasivo, esponendo alle Scuderie del Quirinale un compendio esemplare della sua arte. Non più di ventiquattro opere, scelte fra le più emblematiche e certe, in guisa da illustrare i modi e lo spirito dell'intera sua vicenda. Che durò sì e no diciotto anni, di cui gli ultimi quattro in fuga dalla giustizia, e pur anche, in fatto di quantità.

Perché l'uomo, col suo caratteraccio, segue il suo estro e «quando ha lavorato due settimane» (sappiamo da chi ben lo conosce e l'apprezza come artista) lui si stufa; e lo si vede, fosco d'occhi, capelli, umore e colorito, «andare a spasso per un mese o due con la spada al fianco e un servo dietro, da un gioco di palla all'altro, sempre pronto ad attaccar briga ed azzuffarsi...». E pazienza! Ma così, di tutto il suo lavoro resta sì e no un centinaio di pezzi, che bisogna andare a cercare dove stanno, in custodia di chiese e musei impermeabili a richieste di prestiti. Della cinquantina di tele altrimenti collocate in tutto il mondo, la mostra si è procurata la metà, privilegiando quelle che con più evidenza delineano l'avventura intima dell'artista e il suo tradursi in un dipingere mai visto fino allora. Fresco dell'apprendistato a Milano, negli occhi ancora tanta pittura lombarda, il Caravaggio arriva a Roma non si sa quando fra il 1591 e il '92.

Ha vent'anni, non conosce nessuno, e deve arrangiarsi come può: aiuto mal pagato di pittori che hanno bottega, o qua e là dipingendo qualunque cosa gli vien chiesta: per modelli, la frutta che poi mangia, compagnucci di strada o di taverna, e se stesso nello specchio. Tutta roba che non costa... Finché non viene presentato a un cardinale che lo prende a benvolere e gli dà alloggio: dal che gli arriva un paio di clienti di riguardo e di gusto sveglio. È da allora che il suo dipingere prende piena autonomia, e con essa decolla.

Siamo ormai nel '93 o '94, come datano i primi esempi in mostra. C'è dall'Ermitage di San Pietroburgo il Suonatore di liuto, dal Metropolitan di New York il Concerto di giovani, da Fort-Worth, nel Texas, La partita a carte coi bari. Dagli Uffizi arriva il torpido e celebre Bacco, dalla Galleria Borghese il Ragazzo con canestra di frutta, da Milano lo straordinario Canestro di frutta, mai uscito finora dalla Galleria Ambrosiana.

Dall'insieme già s'intravede quel che il pittore ha in mente e può diventare. Col rifiuto d'ogni gerarchia di generi e canone di «decoro» e composizione; il sovvertimento della mitologia in attualità plebea; l'ieri come l'oggi, l'altrove come qui, l'Olimpo come l'osteria... E la vita, su sfondi neutri, sempre in presa diretta, dovunquee da vicino: si stia facendo musica, o frodando un pivello giocando a carte. E c'è ancora un dipinto, a chiudere questa fase: ed è il Riposo nella fuga in Egitto della Galleria Doria: un incanto che sta in bilico fra il passato, il presente, e il futuro del pittore, con ancora memoria del Lotto e del Savoldo, lievità e trasparenze che presto andranno perdute, e quell'efebo rosso, di carnale bellezza, piovuto dall'alto in un brano di campagna romana col suo violino,a cullarei sogni della moglie del falegname.

La Giuditta e Oloferne di Palazzo Barberini, la grande Conversione di Saulo di proprietà privata, e la Cena di Emmaus di Londra contrassegnano un ulteriore avvicinamento alla pienezza dello stile maturo, che sarà raggiunto con le grandi commesse per le chiese di San Luigi dei Francesi (1600) e Santa Maria del Popolo (1601).

Questa pienezza, che fa di ogni dipinto un dramma colto nell'attimo più significante, dove la luce e l'ombra sono protagonisti quantoe ancor più dei corpi che le tenebre interrompono, e in cui lo spettatore non resta «fuori», ma con accorgimenti è come risucchiato, ha nella mostra per grandiosa testimonianza la Deposizione (1601-4) dei Musei Vaticani.

Successo, soldi, contentezza di quel che fa... È il momento più roseo di una vita torbida e risentita: e ne sono espressione l'ilare e quasi pagano San Giovanni Battista della Pinacoteca Capitolina, l'Amor vincit omnia di Berlino: «Quasi un congedo ironico» (per Roberto Longhi) «dai simboli, allegorie e "Paraphernalia" del Rinascimento». Alla stessa fase appartengono il Sacrificio d'Isacco degli Uffizi, la Incoronazione di spine di Vienna, la Cattura di Cristo nell'orto di Dublino; ed ancora il Battista, in altre due versioni: un Santo, questo, ritratto in vari contesti tanto spesso da suggerire che il pittore, per più versi, lo senta affine come figura e destino.

Il bel tempo non dura. Tutti i quadri che seguono nel percorso espositivo sono quelli di un uomo in fuga: un uomo che in una rissa di strada, il 25 maggio del 1606, ha ucciso un tale che gli reclamava dieci scudi. La Cena di Emmaus di Brera, così diversa per gravità e costrutto dall'altra in mostra, è dipinta a Zagarolo, il rifugio di prima istanza, dove il Caravaggio si sente protetto dai Colonna. Di là, per sicurezza, scende poi a Napoli, dove comanda la Spagna e si ha riguardo per la sua fama. Qui il fuggiasco si rilassa, sentendosi apprezzato e in clima consono al suo teatro di realismo plebeo. Di un tal soggiorno, che dura più di un anno, son frutto tre capolavori, di cui il primo( Le sette opere di Misericordia) è proverbiale, ed un altro, la Flagellazione di Cristo, è presente in mostra.

L'Amore dormiente di Palazzo Pitti è invece dipinto a Malta, ulteriore rifugio; e rispecchia nella sua cupezza lo stato d'animo sempre più sconsolato e tetro dell'autore, che nella Decollazione del Battista, per la Cattedrale della Valletta, si esprime al massimo grado. Un tale umore porta anche a un litigio, per cui il pittore è imprigionato; ma, evaso, fugge in Sicilia, dove erra inseguendo commesse di città in città. L'Adorazione dei Pastori di Messina e l'Annunciazione di Nancy sono sussulti di uno stile ancora conforme alla Decollazione di Malta, appena ravvivato dal colore e calore del nuovo ambiente. Siamo agli sgoccioli di una vita tutta di luce e tenebra, come quella che lui dipinge: ancora pochi mesi, e sarà la fine, a Porto Ercole, dove, al confine con lo Stato pontificio, il Caravaggio si è consumato aspettando la grazia che gli è stata promessa ma non viene. Il Davide della Galleria Borghese (che chiude la rassegna), dove la testa recisa del Golia è un autoritratto, può esser letto come il manifesto di un dramma esemplare: quello dell'eroe che per cruccio e furori si distrugge.

giovedì 18 febbraio 2010

Repubblica 5.2.10
La sinistra e il pensiero reazionario
di Norberto Bobbio

Un testo inedito di Norberto Bobbio sul fascino esercitato da alcuni teorici della destra
La rivalutazione della violenza è caratteristica di queste tendenze
Il passaggio da una parte all´altra non è una novità: il caso di Georges Sorel

Anticipiamo una parte del testo, pubblicato da "Micromega", della Lezione tenuta da l´8 marzo 1985 presso il Centro Studi Piero Gobetti di Torino, nel corso della IV edizione del seminario su "Etica e politica"
In questi ultimi anni c´è stata una certa confusione tra la sinistra e la destra, nel senso che molti studiosi di sinistra, che appartengono alla sinistra, che si dichiarano di sinistra, hanno rivendicato, o, come si dice oggi, con un anglismo che io non uso mai, «rivisitato» (da noi si dice: riconsiderato), degli scrittori di destra, per esempio Nietzsche, il quale era sempre stato considerato un filosofo reazionario, la massima espressione di una filosofia antisocialista, antidemocratica, soprattutto antiegualitaria (non è un caso che Hitler quando volle fare un regalo a Mussolini, gli regalò le opere di Nietzsche). Poi, soprattutto, Carl Schmitt, che è stato ritirato fuori dal mio amico e collega Gianfranco Miglio; Schmitt, scrittore politico, giurista, grande scrittore di diritto, ma che certo un progressista non è. E poi altri ancora: si può citare Junger, per esempio, che abbiamo ricordato più volte; Cioran, c´è anche questo scrittore rumeno, che però scrive in Francia (in Italia le sue opere sono state tradotte da Adelphi ed è stato citato con grande onore da Vattimo in un articolo recente)…
D´altra parte, se è avvenuta questa rivisitazione di scrittori di destra da parte della sinistra, è avvenuto anche il contrario. Abbiamo già più volte parlato di un "gramscismo di destra" Probabilmente molti di voi non sanno che una corrente della destra estrema si considera gramsciana e ha accolto alcune tesi di Gramsci, soprattutto quella cosiddetta dell´egemonia, e le ha fatte proprie.
Questo passaggio dalla destra alla sinistra e viceversa non è nuovo. Il caso più clamoroso, che dovrebbe essere riesaminato nel corso del nostro seminario, è quello di Sorel, che certamente è uno scrittore di sinistra. Da Sorel ha origine l´ala della sinistra rivoluzionaria, del sindacalismo rivoluzionario. Ma poi, non lui personalmente, ma i suoi seguaci – i seguaci italiani – sono diventati notoriamente dei fascisti, sono stati dei teorici del fascismo. Dico non lui personalmente, perché se Sorel sia stato o non sia stato fascista è ancora sub iudice. Non so se voi sapete che da qualche tempo esce una rivista dedicata a Sorel, edita da una associazione di studi francese, i Cahiers Georges Sorel (ne sono già usciti due volumi). Ebbene, nel primo, che è dell´anno scorso, è apparso un articolo di un autore francese il quale sostiene che Sorel non è mai stato fascista; l´ articolo è scritto proprio per confutare quella che lui chiama «la tenace leggenda del fascismo di Sorel».
Io non voglio entrare in questa polemica. Però è un fatto che molti seguaci di Sorel diventarono dei teorici del fascismo. Voglio ricordare soprattutto un autore, su cui forse vale la pena di ritornare, Sergio Panunzio, che fra le altre opere (io le ricordo perché sono tanto vecchio da ricordare quando Panunzio era professore all´università ai miei tempi) ha scritto un libro nel 1920 dal titolo Diritto forza violenza. Lineamenti di una teoria della violenza. Panunzio era stato uno dei sindacalisti soreliani e diventò poi un teorico del fascismo. La sua opera Dottrina del fascismo andava di pari passo con quella di Costamagna, che abbiamo più volte ricordato. Forse il libro di Costamagna è più interessante e varrebbe la pena di esaminarlo. Comunque il libro di Panunzio, quando lui lo scrisse nel 1920, era già un libro fascista.
Per dimostrare la commistione, lo scontro-incontro tra le varie ideologie, si può ricordare che questo libro fu pubblicato dall´editore Cappelli nella biblioteca di cultura politica di Rodolfo Mondolfo, con prefazione dello stesso Mondolfo, che non era né socialista rivoluzionario, né fascista ma era un grande amico di Turati – come di Gobetti – e un teorico del marxismo interpretato riformisticamente. La tesi di Panunzio era che bisogna distinguere la violenza dalla forza: la violenza è positiva e la forza è negativa. La violenza rappresenta la rottura di una società e il momento di trapasso dal vecchio al nuovo, la forza è autoritaria. Questa distinzione tra forza e violenza è proprio l´opposto di quella che di solito si fa. Generalmente si attribuisce valore positivo alla forza e negativo alla violenza. Per "forza" si intende la forza al servizio del diritto, la forza dello Stato, la coazione; quando i giuristi parlano della coazione dicono forza, mentre la violenza viene considerata negativamente. Qui c´è una inversione: una inversione che deriva da Sorel. Su questo non c´è dubbio. Per Sorel la violenza è positiva, la forza negativa. La violenza è eversiva, è l´"ostetrica della storia", per usare l´espressione di Marx; la forza è autoritaria.
In questi giorni, essendomi occupato di Carlo Levi, mi sono andato a rileggere gli articoli che Carlo Levi ha pubblicato su La Rivoluzione Liberale di Gobetti. Devo dire che l´articolo più interessante di Levi, oltre a quello su Salandra, è una recensione del libro di Panunzio, apparsa sul numero del 17 aprile 1923. Levi, giovinetto (aveva vent´anni), coglie molto bene la caratteristica fascista di questo libro. Anche se Panunzio era un soreliano e quindi veniva da sinistra, egli aveva ormai compiuto il suo viaggio da sinistra a destra. C´è una frase che mi ha particolarmente colpito e che mi pare spieghi molto bene come sia facile il passaggio da un estremo all´altro. Dice Levi: «L´unico pregio del libro è che ci permette di capire perché i sindacalisti rivoluzionari sono passati al fascismo. Gli adoratori della violenza proletaria si sono trasformati in zelatori di una violenza del tutto generica e scolorita dove il passo è breve alla violenza antiproletaria, che è appunto la violenza fascista, la violenza dei disoccupati amatori della violenza».
Si sposta il fine della violenza (inizialmente considerata mezzo lecito solo in rapporto a determinati fini), e poi, a un certo punto, la violenza diventa fine a se stessa. La violenza fascista è ormai fine a se stessa, non è più un mezzo per raggiungere un fine rivoluzionario.
Volendo ricordare un caso clamoroso di questo passaggio, si può fare il nome di D´Annunzio. È un episodio molto noto. D´Annunzio, eletto deputato al principio del secolo dalla destra, quando entrò in parlamento, si sedette all´estrema sinistra, pronunciando la famosa frase: «Vado verso la vita». Badate che la parola vita è importante. Vita perché c´è (lo vedremo dopo) un elemento di vitalismo nell´estremismo sia di destra sia di sinistra.
Questo passaggio dalla destra alla sinistra e viceversa sta alla base della tesi – questo è il nostro punto – che la differenza tra destra e sinistra non esista più o perlomeno sia sfumata. Le formulazioni di questa tesi sono molte, sostenute per lo più – almeno sinora – da destra. Sarebbe interessante sapere perché. Non saprei dire quale sia la causa e quale l´effetto: se si ritenga che non esiste più la differenza tra destra e sinistra per il fatto che c´è questo scambio di autori o se ci sia questo scambio di autori perché non c´è più questa differenza. Questo è il punto che dovremmo in qualche modo esaminare. Si potrebbe dedurre che questo avvenga perché la sinistra ha perduto la sua identità. La sinistra ha tanto perduto la sua identità che, si dice, non c´è più nessuna differenza tra destra e sinistra. Ma c´è anche una variante di questa tesi sostenuta dalla destra, che forse non abbiamo mai esaminato: che non si può più fare la distinzione tra destra e sinistra perché ormai la destra non c´è più. È tutta sinistra. È una tesi di estrema destra. Si sostiene che la sinistra ormai ha occupato tutto il campo e che la famosa destra, la destra conservatrice, la destra storica, la destra illuminata, la destra che aveva rappresentato, diremo così, l´evoluzione dell´Europa e dell´Italia, non c´è più.

Il Foglio 23.7.08 prima pagina
Falce e macello
Secondo il filosofo bertinottiano Fagioli, "Vendola e Ferrero non valgono neppure mezzo Fausto"
"Vendola è cattolico, dunque non può fare il segretario. Ferrero è valdese, ma è un fatto privato"
intervista di Salvatore Merlo

Roma. Il "professor" Massimo Fagioli parla lungo e denso. Il suo fraseggio è così affollato di dottrine che è difficile individuare il soggetto, il verbo e il predicato. Ma poi a una domanda sulla successione al trono di Rifondazione (domani il congresso) risponde chiaro: "Né Paolo Ferrero né Nichi Vendola valgono mezzo Bertinotti. Vendola poi è un'aporia vivente. È all'unisono cattolico, comunista e omosessuale. È mai possibile conciliare queste tre identità?". Pasolini lo faceva. "Ma non era candidato alla segreteria - dice Fagioli - Ferrero è rimasto ai tempi della svolta occhettiana, è incartato nel passato marxista leninista. Ridicolo". Dice così il professore, il settantenne psichiatra che da quattro anni mantiene un sodalizio intellettuale con Fausto Bertinotti. Qualcuno ("i cretini", dice lui) lo definisce il guru del subcomandante Fausto. "Fu nel 2004 - racconta al Foglio - che con Bertinotti ci ritrovammo nell'avviare la svolta non violenta" del partito. Un passaggio storico. Da allora l'ex presidente della Camera ha preso le distanze dalle violenze dei noglobal e ha emarginato Nunzio D'Erme, celebre per avere sparso letame davanti all'abitazione romana del Cav. Un rapporto, quello tra Fagioli e Bertinotti, difficile da decifrare. Abbastanza intenso da aver fatto storcere il naso a molti nel Prc e nella sinistra in genere. Epica la lite con Giulietto Chiesa, che abbandonò la rivista Left all'arrivo del professore, capo - diceva Chiesa - "di una setta". "Io offro una nuova strada da percorrere spiega Fagioli - dopo il fallimento del comunismo perseguo 'la realtà umana'". Mica poco. Un orizzonte che pare abbia ispirato anche l'ultima - non riuscitissima per la verità - svolta bertinottiana, il lancio di quella sinistra Arcobaleno poi naufragata lontano dal Parlamento. L'ultimo incontro tra i due è avvenuto lunedì scorso, quando Bertinotti ha presentato il sesto numero della rivista "Alternative" a un pubblico di così detti "fagiolini", il gruppo di persone (qualche centinaio) che quattro volte alla settimana in piazza San Cosimato, nel rione Trastevere, partecipa a mastodontiche sedute di analisi collettiva che Fagioli chiama "psicoterapia di folla", Cosa ha detto a Bertinotti? "Che il cardine della nuova sinistra non è più la classe operaia, ma sono gli immigrati. Questo è il terreno del nuovo scontro. Anche gli italiani in America, prima di diventare operai, erano immigrati".
Ma Bertinotti ha lasciato, si ritira per "dedicarsi alla ricerca - ha spiegato lunedì - alla teoria politica più che alla prassi". Una perdita insostituibile per Fagioli, a cui i giovani duellanti di Rifondazione, Ferrero e Vendola, non piacciono affatto. Specie Vendola. "Come si fa ad accettare che il segretario di Rifondazione sia un cattolico praticante? Si rischia una sindrome bipolare, dissociativa. La religione cattolica non è un fatto personale. Come scriveva l'altro giorno Ritanna Armeni su Liberazione: la realtà umana conta in politica. Vendola è cattolico e in quanto tale non può fare il segretario". Ma anche Ferrero è uomo religioso, è valdese. "Sì - dice Fagioli - ma essere valdesi è un fatto privato. La chiesa valdese non ha mai avuto influenze sulla politica e lo stato. Come farà invece Vendola a proseguire nel solco del pensiero laico tracciato in Europa da Zapatero su aborto, divorzio, fecondazione assistita ed eutanasia? Si iscriva al partito di Casini". Eppure Vendola si è spesso smarcato dal Vaticano ed è un libertario omosessuale. "È lo stesso discorso. La sessualità è un fatto privato, che si può coltivare all'interno di associazioni di scopo, ma non si può proporlo come identità politica. E poi cattolico e omosessuale sono in contraddizione - continua Fagioli - Non bisogna confondersi le idee, tanto più che noi ci proponiamo di cercare la realtà umana. Insomma chi è Nichi Vendola? Non si capisce". Sarà. Ma è il favorito e gode della stima di Bertinotti (e non solo).

il Fatto 18.2.10
La Cei scomunica la Bonino: L’Avvenire si spaventa e attacca
“Incompatibile e ostile alla visione cristiana”
di Marco Politi

Bersani aveva scritto al quotidiano ricordando la presenza dei cattolici nel Pd
Lo scandalo Protezione civile sta allontanando molti credenti dal polo
Berlusconi
La Cei sperona il Partito democratico e scomunica la candidatura Bonino nel Lazio. Con parole durissime l’Avvenire prende di petto Bersani, bollandola come “incompatibile e ostile alla visione cristiana”.
L’attacco violento segnala l’intenzione della gerarchia ecclesiastica di scontrarsi direttamente con il Pd per impedire la vittoria della Bonino. Il linguaggio aggressivo, usato nei confronti dell’esponente radicale, riflette oltre all’irriducibile opposizione del Vaticano le pressioni sia del cardinal Ruini sia dell’Udc, per i quali il centro-sinistra va assolutamente sconfitto nella regione dove simbolicamente Berlusconi e Casini si sono ritrovati alleati (come l’ex presidente della Cei avrebbe tanto voluto nelle elezioni politiche del 2008).
Martedì Bersani aveva scritto all’Avvenire (dopo un editoriale critico sull’uscita dal Pd della Binetti e degli altri cattolici teodem) per negare una presunta “deriva zapaterista” nel Partito democratico e ricordare che al suo interno le varie culture (cattolica compresa) dovevano riconoscersi nelle caratteristiche fondamentali della “casa comune”. Di più – sosteneva Bersani – come lamentare una mancanza di pari dignità dei cattolici nel partito se “il presidente, il vicesegretario, il capogruppo alla Camera, i responsabili dei settori Scuola e Welfare” sono tutti credenti impegnati? “Di che cosa stiamo parlando?”. Contro il segretario del Pd scende in campo in prima persona il nuovo direttore dell’Avvenire Marco Tarquinio, manifestando un “crescente senso di allarme” dei lettori e denunciando la “pretesa incredibile della superabortista e iperliberista” Bonino di rappresentare anche valori cattolici. Poi l’affondo. La storia della Bonino, incalza Tarquinio rivolgendosi direttamente a Bersani, rappresenta una posizione incompatibile con il cattolicesimo, anzi un programma di “aperta e spesso aspra ostilità verso la visione cristiana della vita e della società”. Accettare la sua candidatura e la sua cultura come parte del Pd, è l’avvertimento, significa “fare una scelta pesante e precisa”.
Lo stile politicamente aggressivo, che travalica la linea critica, ma abbastanza moderata tenuta finora dall’Avvenire, viene direttamente dai massimi vertici ecclesiastici così come fu quando l’allora direttore Boffo minacciò che la legalizzazione delle coppie di fatto, cioè l’approvazione dei Dico, avrebbe rappresentato uno “spartiacque” della storia politica italiana. L’Avvenire torna pesantemente sull’argomento anche nella pagina delle lettere dei lettori con un titolone che grida: “Radicali, un’incompatibilità irriducibile”. Definendo l’intenzione della Bonino di rappresentare anche l’elettorato cattolico un’ “operazione insensata e truffaldina, un insulto all’intelligenza e alla memoria collettiva degli italiani”. La sua linea viene letteralmente smontata in quanto in campo etico e per ciò che riguarda solidarietà, mercato e lavoro “i radicali predicano sistematicamente l’opposto della dottrina sociale della Chiesa”.
Eppure l’attacco urlato rivela timori e debolezze della gerarchia ecclesiastica. La candidatura della Bonino, in realtà, non spaventa molti elettori cattolici, mentre la Polverini non li scalda. Inoltre lo scoppio dello scandalo sul malaffare intorno alla Protezione civile sta facendo perdere proprio tra i cattolici moderati l’attrattiva del polo di Berlusconi.
Il consenso scende, lo sanno i vertici del Pdl. Perché il “cattolico quotidiano”, il normale credente che vive la sua fede in parrocchia, nelle organizzazioni assistenziali, nei gruppi biblici, nel volontariato, nell’impegno catechistico, non è un baciapile. Non gli interessano tanto le storie dei massaggini brasiliani. Ma generalmente (a meno che non si lasci dominare dalla diffidenza verso la politica) è molto sensibile al concetto di “bene comune”, di legalità, di giustizia. Sapere che in un momento di crisi (quando quasi un quinto delle famiglie non riesce ad arrivare alla fine del mese) decine di milioni vengono buttati in appalti gonfiati lo irrita. Il padre di famiglia cattolico, che ha la figlia neolaureata disperatamente precaria, si infuria leggendo di “figli eccellenti” pagati tremila euro per un contratto di “apprendistato”. Afflitto perché la prole è impossibilitata a mettere su casa senza impiego, il genitore cattolico si disgusta apprendendo di rampolli la cui grande preoccupazione è di farsi prenotare alberghi a spese di soldi, che sarà la collettività a pagare. L’Avvenire stesso sta dedicando largo spazio allo scandalo e sin dal primo giorno ha sventato il tentativo di Berlusconi di aggredire i magistrati e di nascondere il bubbone. Alla strategia del premier il giornali dei vescovi ha inferto una pugnalata mortale con una scelta semplicissima. Pubblicando un grafico del “sistema gelatinoso”, con le freccette che indicano i vari appalti e i nomi dei miracolati dai vari regali. Un quadro devastante: esattamente quello che il lettore cattolico legge la sera tornando a casa.
Come ha scritto proprio sull’Avvenire di ieri il lettore Gianluigi Vergari: “Chiamare poveracci senza dignità gli sciacalli che ridevano sul terremoto dell’Aquila – pregustando il ricco banchetto della ricostruzione – è sbagliato”. Un’espressione riduttiva, quasi da indurre pietà per persone malvagie che non riescono a provare buoni sentimenti. “Invece è necessario chiamare questi esseri per quello che sono: avidi speculatori, anche molto pericolosi visto il loro modo di pensare, per cui è necessario renderli inoffensivi per il futuro”.
Anche queste reazioni peseranno nell’urna. E’ indubbio che la gerarchia ecclesiastica riesce a mobilitare nelle elezioni una pattuglia di voti che – a spanna – vengono calcolati intorno al 3-5 per cento al massimo. Voti preziosissimi in caso di corsa testa a testa. Ma, appunto, l’intervento massiccio dell’Avvenire dimostra che il Vaticano teme che la Bonino sia in testa, grazie all’appoggio silenzioso di molti credenti.

Repubblica 18.2.10
Il caso Democratici. La vicenda Bonino per il senso politico che assume si sta configurando sempre più come un caso Pd
Emma una fuoriclasse. Emma è una fuoriclasse, non trovo giusto negarle la capacità di interpretare un programma di coalizione
Cattolici, duello tra vescovi e Bersani "Bonino incompatibile". "È la migliore"
Ma l´esodo dal Pd adesso si fa sentire anche in periferia
di Giovanna Casadio

ROMA - Duello tra Bersani e Avvenire . A quaranta giorni dalle regionali, il quotidiano dei vescovi lancia l´affondo contro i radicali e la scelta del Pd di candidare la leader storica del Pr, Emma Bonino alla guida della Regione Lazio. Il segretario dei Democratici la difende: «Emma è una fuoriclasse, è la scelta migliore». Nega Bersani che il partito stia cambiando ragione sociale mettendo in mora i cattolici. Rivendica anzi, in una lettera scritta al quotidiano, il rispetto e l´attenzione per la cultura, la tradizione e i valori cattolici.
Ma Avvenire non molla e va all´offensiva per il secondo giorno consecutivo. Il direttore Marco Tarquinio parla di «crescente senso di allarme» e osserva: «Il caso Bonino...si sta configurando sempre più come un caso Pd. Le sottovalutazioni e le sufficienze si pagano. Tra radicali e cattolici c´è una incompatibilità irriducibile». Attacco pesante. Il quotidiano dei vescovi parla dell´operazione «insensata e truffaldina» in base alla quale «la superabortista, l´iperliberista» Bonino ha «l´incredibile pretesa di rappresentare i valori cattolici». Sono gli stessi argomenti con cui la teodem Paola Binetti, ultima in ordine di tempo, ha lasciato il Pd per l´Udc di Casini e da ieri è candidata "governatore" nella rossa Umbria per i centristi. «Non a caso - scrive sempre Avvenire - si stanno producendo contraccolpi, crepe e lacerazioni...» nel partito di Bersani.
Di crepe se ne scorgono alcune. I transfughi cattolici del Pd - dal co-fondatore e ultimo segretario della Margherita, Francesco Rutelli (che ha creato il movimento Api) a Renzo Lusetti, Enzo Carra, Dorina Bianchi (che sono approdati nell´Udc) - sostengono che i contraccolpi si vedono in periferia. Al netto dei fuoriusciti noti. A Finale Emilia, ad esempio, il sindaco Raimondo Soragni ha convocato un consiglio comunale straordinario per farsi confermare la fiducia dopo che il Pd, il partito da lui abbandonato, lo aveva sollecitato martedì sulla stampa locale a dimettersi. Soragni è candidato consigliere regionale dell´Udc e commenta: «Per i cattolici non c´è più spazio, Bonino è l´esempio eclatante». Marco Calgaro, che è stato il vice di Chiamparino a Torino, un democratico cattolico che ha deciso di andare nell´Api di Rutelli, elenca: «Marco Borgione, ex assessore all´Assistenza, dal Pd è passato all´Api; io e Gavino Olmeo facciamo gruppo in consiglio comunale. Non è che chi va via dal Pd si porta dietro truppe cammellate, però nel tempo si vedrà l´effetto: è evidente che la deriva zapaterista dei Democratici preoccupa». Nel Lazio l´Udc ha da tempo fatto una campagna acquisti a spese del Pd con Alessandro Onorato consigliere in Campidoglio, Antonio Zanon e, post candidatura Bonino, Matteo Costantini segretario della storica sezione romana di via dei Giubbonari. In Campania, la diaspora vera e propria si era già avuta con i demitiani e il loro leader transitati all´Udc.
L´intreccio tra i problemi con i cattolici e le regionali, agita i Democratici. Bersani tuttavia rassicura («Emma interpreta le anime della coalizione») e a Berlusconi che del voto di marzo vuole fare un test nazionale, risponde: «Noi dove ci cerca, ci trova. Se vuole un confronto alle regionali, abbiamo programmi e candidati. Se ritiene di fare un confronto politico da noi problemi zero, se ci cerca ci troverà». Affermazioni fatte durante una manifestazione elettorale con Bonino. Beppe Fioroni, ex popolare, rincara: «Il ceppo del Ppi e dei cattolici democratici che hanno scelto il Pd continua ad essere la spina dorsale del partito. Le defezioni appartengono all´area rutelliana». Di candidature, di cattolici, di un Pd "largo" parlerà anche "Area democratica", la corrente di Franceschini e Veltroni che si riunisce martedì prossimo, dopo un rinvio per tensioni interne.

Repubblica Roma 18.2.10
Rettori al tavolo della candidata la Bonino nel circolo di Malagò
L’incontro con la candidata e i lavoratori Acea. "Tagliare l´Irap? Promesse che non si possono mantenere"
"Dobbiamo aiutare Emma a vincere" Bersani in campo per la sfida del Lazio
"Con la sua personalità potrà portare questa Regione a un livello europeo"
di Anna Rita Cillis e Chiara Righetti

Nel cuore di Roma Nord, nel circolo Aniene per una cena ristrettissima e off-limits. Emma Bonino, la candidata Pd per la presidenza del Lazio, alle 21 in punto varca la soglia del quartier generale di Giovanni Malagò, uno dei più prestigiosi circoli della Capitale. Ad accompagnarla c´era il coordinatore della campagna elettorale, Riccardo Milana.

«Dobbiamo dire che nel Lazio ce la possiamo fare. Aiutare Emma a vincere, perché può vincere, e nel 2013 accompagnarla all´incontro col nuovo sindaco di Roma». Pierluigi Bersani scalda la platea nel Cral Acea a Marconi. Sembra un´assemblea sindacale più che un incontro elettorale per Emma Bonino, e davvero fra politici e simpatizzanti Pd ci sono tanti lavoratori venuti a consegnare storie e preoccupazioni per la privatizzazione avviata dal Campidoglio. Bersani promette «sostegno a questa battaglia», poi riprende: «Emma è una fuoriclasse; è sobria, modesta, ma questo non nasconde la forte personalità che le permetterà di portare il Lazio a livello europeo. Siamo in condizione di battere una destra che sta ammassando le sue forze più retrive».
La Bonino in giacca rosso fiammante sull´Acea entra nel merito: «Il Comune sbaglia a giocare la partita da solista. La competenza sull´acqua è della Provincia, quella sui rifiuti della Regione. Un´amministrazione oculata non può prescindere dall´accordo con le altre istituzioni, anche perché non parliamo di una salsiccia da affettare ma di una mega-utility». E contro una «privatizzazione senza liberalizzazione» propone «un´Authority, un elemento terzo di controllo». Poi attacca: «In questa campagna elettorale si cambia troppo spesso idea: qualche solidità in più sarebbe utile. Il governo ha fatto una scelta nucleare, poi Zaia dice "In Veneto no", Formigoni "In Lombardia no", e ora anche nel Lazio si dice "Abbiamo già dato". Ma dove dobbiamo metterlo questo nucleare?». E rilancia: «Dobbiamo essere coerenti. Io sto ascoltando le categorie, ma senza lisciare troppo. Se uno mi dice: "Abbassa l´Irap il primo aprile" gli rispondo: "Sì, il primo aprile, perché gli altri giorni non si può". Basta promesse che non si possono mantenere: forse portano voti, ma il ruolo della politica è un altro». Poi ribadisce alcuni punti fermi: «lo sviluppo del territorio, non può essere tutto concentrato su Roma»; tocca i temi del lavoro, dalla green economy («molto più di uno slogan») alla "cultura come impresa". «Credo possibile un nuovo inizio e so che i cittadini ci ascolteranno, perché, se ben informati, non sono allocchi. Dobbiamo smettere di guardare nello specchietto retrovisore. E non basta scrivere un libro dei sogni: bisogna dotarsi degli strumenti per realizzarli, premiare chi raggiunge gli obiettivi e tirare la giacchetta a chi non lo fa».
Ieri Bonino ha incontrato i cattolici democratici David Sassoli, Silvia Costa, Giuseppe Lobefaro e Giorgio Pasetto che le hanno consegnato un loro contributo per il programma. Sul fronte candidature, dopo Giulia Rodano, anche l´ex assessora Alessandra Tibaldi potrebbe passare da Sel all´Idv. Nello schieramento opposto non correrà nella lista Polverini Cristiano Sandri, fratello di Gabbo; scelta fatta per «rafforzare il carattere non di parte» della fondazione intitolata a Gabriele.

Repubblica Roma 18.2.10
Il logo Ecco il simbolo del Pd per la Bonino presidente

Partito Democratico per Bonino. È la scritta che compare sul simbolo del Pd del Lazio per le regionali. «Il nostro simbolo è accostato al nome della Bonino - spiega il segretario del Pd del Lazio, Alessandro Mazzoli - per ribadire l´importanza dell´incontro tra le idee del Pd e la competenza della Bonino».

il Fatto 18.2.10
Quando salta il tappo
Gli scoppi di rivolta esprimono una domanda di legge, di protezione. Di giustizia. Agli occhi dei clandestini non è ingiusto cercare di vivere meglio, ma essere sfruttati o uccisi come bestie
di Nando Dalla Chiesa

Castelvolturno, Rosarno, Milano. Tre spie. In contesti diversissimi il problema dell’immigrazione si è messo nuovi vestiti. Non i barconi, né le masse di disperati che arrivano. Ma le masse di disperati che già ci sono. Non lo stupro o l’atto di delinquenza. Ma la rivolta sociale. Di gente che la clandestinità o la precarietà obbliga all’anonimato silenzioso. Ogni esplosione ha le sue caratteristiche. Ma alla fine c’è un denominatore comune. La pentola scoppia davanti a una violenza subìta da una comunità immigrata, omogenea o frastagliata non importa. Chi è capace di dimenticare i volti disperati, increduli e rabbiosi degli africani sulla Domiziana, dopo la strage di Castelvolturno? La Camorra aveva voluto terrorizzare e punire – sparando nel mucchio, peggio che si trattasse di bestie – gli stranieri che si erano messi a spacciare in proprio. Fu la prima vera rivolta popolare spontanea contro la Camorra. E la denuncia che giunse da quella manifestazione fu una sferzata in piena faccia per le nostre istituzioni: questo è un paese senza legge, un far west dove chi ha le armi fa quel che vuole. Detto dagli immigrati.
Le armi sono riapparse a Rosarno. Per colpire come leprotti, secondo l’immagine del sindaco Gentilini, che evidentemente è in buona compagnia anche al sud, dei disgraziati ammassati in baracche fetide in cui nessun disoccupato italiano vivrebbe ma che chissà perché dovrebbero bastare e anzi educare alla nostre leggi uomini che si spaccano la schiena per pochi euro al giorno. Che tutti fanno finta di non vedere, che tutti (o quasi) vorrebbero usare approfittando del ricatto dei documenti, dei permessi, della paura. E che vengono scientificamente preparati (basta l’occasione) a quegli scoppi di collera nei quali nulla più si calcola, né il giusto e l’ingiusto, né l’utile e il dannoso. Le armi sono riapparse a Milano. Bianche ma sempre per uccidere. Brandite dai giovani di una delle bande latinoamericane che prosperano impunite nella promiscuità del quartiere ghetto. Che è tale anche grazie a una molteplicità di affittuari italiani fuorilegge. Di nuovo un orrido addensamento urbano, forse non fetido come quello di Rosarno ma che parla un analogo linguaggio di emarginazione e abbrutimento umano, a fare da teatro alla violenza. Violenza tra immigrati, stavolta. Insomma, sarà pure paradossale, duro da digerire. Suonerà blasfemo sentirselo dire parlando di un’umanità spesso borderline rispetto alle nostre leggi. Ma gli scoppi di rivolta esprimono una domanda di legge, di protezione. Di giustizia. Agli occhi dei clandestini non è ingiusto, moralmente illecito, cercare di vivere meglio, aggirare vincoli e normative sull’ingresso. E’ ingiusto, moralmente illecito, essere sfruttati o essere uccisi come animali o dovere adattarsi ai nostri codici in quartieri far west. E’ duro accettare che nei posti in cui vivono è comunque la violenza a farla da padrona. Il problema non è dunque la prima, la seconda o la terza generazione. Il problema è il grado di integrazione, il progetto che il paese è in grado di elaborare verso gli stranieri che chiedono di diventare italiani. Nel caso della Lombardia è la capacità della regione più ricca d’Italia di aprirsi a un popolo che, anche volendo attenersi al solo parametro economico, contribuisce per oltre il dieci per cento al suo prodotto lordo. La Lombardia, appunto. Da qui soprattutto è venuta la spinta ideologica alla Grande Rimozione. All’investimento politico sulla cancellazione del problema. Perché mai fare progetti, immaginare forme di integrazione più efficaci e giuste, se si hanno di fronte masse di delinquenti che, per ogni euro destinato a loro, rubano il pane ai milanesi perbene? Il gioco di presentare gli immigrati come la prova del peccato dell’avversario politico e di scaricare anche adesso sugli “altri” la responsabilità della rivolta esprime per intero un drammatico deficit di cultura di governo.
Milano è amministrata dalla Legada17anni.Edaunnumero di anni poco minore è governata ininterrottamente la Lombardia. Né è mancato in tanti anni di governo nazionale il tempo per regolare saggiamente (non con “buonismo”, si vuol dire, ma con realismo) una materia così complessa e cruciale. Il guaio è che nonostante i proclami e le ronde la Lega e i suoi alleati stanno dimostrando di essere in Lombardia, sulla sicurezza, un autentico colabrodo. Di fronte alle pressioni migratorie e alle tensioni etniche. E di fronte alla ‘Ndrangheta. Ma questo è un altro capitolo.

Repubblica 18.2.10
Gli immigrati senza voce
L’assenza di rappresentanza
di Pap Khouma

Quando nel 2007 fu organizzato un grande convegno sull´integrazione, arrivarono politici ed esperti da tutta Italia e da tutto il mondo per analizzare il problema: ma non furono invitati stranieri residenti qui
Non vengono mai coinvolti, nemmeno nei quartieri

Non c´è solo via Padova. Zone simili si trovano anche nel resto della Lombardia. In alcune la convivenza non pone delle difficoltà, in altre ritroviamo dei ghetti degradati e intenzionalmente trascurati dalle amministrazioni locali, dove sono concentrate le classi più povere della società. Ci scandalizziamo soltanto quando succede il peggio.
Non sembrano invece interessare quelle trasformazioni del Paese che vedono gli immigrati essere protagonisti silenziosi di soluzioni di spontanea integrazione.
A Milano, alla fine degli anni Novanta tanti negozi di quartieri periferici stavano chiudendo. La giunta comunale guidata dal Sindaco Albertini prometteva un incentivo ai negozianti che tornavano a investire in quei quartieri. L´iniziativa del sindaco era reclamizzata dai mezzi di comunicazione e da molti manifesti. All´epoca, la città di Milano stava cambiando e viveva una delle sue tante metamorfosi. Questa era collegata all´aumento di famiglie di residenti stranieri, che andavano ad abitare in periferia. Ebbene: gli immigrati, senza pretendere gli incentivi comunali, hanno progressivamente riaperto o ripreso dei punti vendita abbandonati o in difficoltà. Nella maggior parte dei casi li hanno convertiti in negozi di prodotti etnici. Nello stesso periodo tante scuole rischiavano di essere soppresse a causa del calo demografico. I ricongiungimenti famigliari e di conseguenza le nascite di figli d´immigrati hanno risolto parzialmente il problema. Ma la forte presenza di stranieri in alcuni quartieri e nelle scuole ha spinto tante famiglie di italiani a cambiare zona di residenza.
Tutte le grandi città del mondo, dove si sono verificati dei flussi migratori, hanno dovuto vivere e anche cercare di risolvere con equilibrio dei problemi ancora più difficili, dando voce - e in parecchi casi anche il diritto di voto - agli immigrati.
In Italia sono presenti milioni di immigrati: sono residenti legalmente e regolarmente pagano le tasse. Ma non hanno voce. Le loro strutture organizzative sono emarginate persino quando sono in ballo le tematiche legate al futuro delle loro famiglie. Gli immigrati devono almeno aver il diritto di decidere nei quartieri dove vivono e dove producono benessere e cultura.
Il 21 e 22 settembre 2007, il ministero dell´interno del governo di Romano Prodi e l´Associazione Nazionale dei Comuni d´Italia avevano organizzato a Firenze la prima conferenza sull´integrazione degli stranieri.
Erano intervenuti rappresentanti delle amministratori locali e regionali, ministri, sindacalisti, datori di lavoro, esponenti di organizzazioni nazionali e internazionali impegnate nel settore dell´immigrazione. C´erano tanti esperti stranieri arrivati da Francia, Germania, Olanda, Inghilterra. C´erano circa cinquanta relatori. Ma neanche un immigrato residente in Italia era stato invitato.
Questo si chiama "noncuranza" o "disprezzo". Ed è indice di una sfiducia assoluta e ben radicata nella possibilità di riconoscere l´immigrato come referente e non solo come eterno ospite. Le soluzioni non si trovano nella contrapposizione di posizioni politiche a livello nazionale e locale. L´immigrazione non solo è una realtà innegabile ma è una realtà che evolve e va innanzitutto conosciuta.
Il 1 marzo 2010 (per informazioni c´è il sito www. primomarzo2010. it) vari comitati di immigrati hanno organizzato a livello nazionale una giornata di protesta pacifica, per far sentire la propria voce, chiedere un po´ di rispetto. Sperando di essere ascoltati.

Repubblica 18.2.10
Diseguaglianza
La rabbia dei deboli
Intervista alla sociologa Saskia Sassen di Leonetta Bentivoglio

La diseguaglianza non consiste solamente nell´avere meno soldi. Ma anche nell´essere espulsi, cacciati, respinti proprio fisicamente dalle zone più ricche, più belle, più eleganti delle città

Per ripensare l´identità di Milano e districare quell´accumularsi di tensioni che ne stanno modificando il volto, può essere utile l´idea di «città globale» elaborata da Saskia Sassen? «Per molti versi sì», replica la sociologa statunitense, e sottolinea la peculiarità di un conflitto «sviluppatosi all´interno della popolazione di immigrati», aggiungendo che gli scontri «rappresentano la forma estrema di un vecchio fenomeno: quello per cui i gruppi più deboli, in una società, scatenano una forte aggressività reciproca essendo per loro inaccessibili i livelli del potere».
Esperta di processi transnazionali, Saskia Sassen è autrice di lavori che hanno stabilito nuovi quadri metodologici nelle definizione di città come elemento strategico dell´economia globale: da Le città globali (Utet) fino a Territorio, autorità, diritti (Bruno Mondadori), che nello stravolgimento dell´accezione tradizionale di quei tre concetti identifica il motore della trasformazione epocale.
Le sue analisi sull´ineguaglianza derivante dalla globalizzazione possono applicarsi ai fatti di Milano?
«Certo. L´ineguaglianza dilaga da tempo nelle città, ma quella emersa negli ultimi anni Ottanta, e che si sta mostrando in crescita continua, è di genere diverso. In passato gli abitanti più poveri delle città, pur se discriminati, potevano sentire che era quello il loro luogo. Invece oggi il quesito centrale degli emarginati è: a chi appartiene questa città? L´ineguaglianza non consiste solo nella miseria, ma nell´essere espulsi, cacciati, respinti fisicamente dalle zone più belle, ricche ed eleganti della città».
Quando definisce i conflitti tra immigrati un fenomeno "vecchio", a cosa si riferisce?
«A quanto è accaduto a New York negli anni Ottanta e Novanta: vi si sono insediate le nuove comunità latino-americane scontrandosi coi portoricani e altri gruppi ispanici radicati da tempo. Lo si è visto pure all´interno della comunità nera, quando sono arrivati gli haitiani e gli immigrati dei Caraibi. Ciò che si scatenerà in modo sempre più violento sarà una sorta di nazionalismo "sotterraneo" tra i vari gruppi di immigrati. Sto scrivendo un nuovo libro, Città e Nuove Guerre, dove espongo quelle che secondo me sono le cause di questo scenario di ineguaglianze ed espulsioni: la città perde la sua facoltà di trasformare la conflittualità in civiltà, che è stata una delle capacità sviluppate dalla città tanto nel tempo della storia quanto nello spazio del pianeta».
Quali sono i modi più opportuni e sperimentati per arginare le esplosioni di violenza nelle città globali?
«Difficile rispondere. Molte città globali, apparentemente, sono riuscite a controllare l´ineguaglianza e la violenza che ne risulta, ma il più delle volte è stato fatto tramite la repressione. Oggi a New York ci sono trecentomila immigrati in carcere in attesa di processo: li si imprigiona senza sapere neppure se sono colpevoli di qualcosa! E al di sotto delle immagini luccicanti di Dubai, c´è un intero mondo di immigrati che lavorano in condizioni di vergognoso sfruttamento. L´unica cosa che si può fare è adoperarsi intensamente per una vera integrazione».

Repubblica 18.2.10
Se l´Italia perde il sogno della convivenza
Gli scontri di Milano hanno mostrato le difficoltà d´integrazione nel nostro Paese. Ma altrove le cose funzionano diversamente
di Gad Lerner

Per la Costantinopoli ottomana come per la New York di oggi la presenza di popolazioni diverse è stata fonte di ricchezza e sviluppo

Per secoli Costantinopoli, l´odierna Istanbul, fu al tempo stesso la più grande città turca, greca, armena, curda, ebraica, romena del Mediterraneo. Era la New York del suo tempo, la capitale del mondo (ammesso che possiamo permetterci il lusso, allora come oggi, di escludere la Cina). Grazie a questa straordinaria peculiarità multietnica la metropoli plurale cresciuta sul Bosforo, al confine tra Europa e Asia, prosperava senza paragoni possibili con gli altri centri urbani europei: Parigi e Londra apparivano borghi trascurabili al suo cospetto.
Prima che sopraggiungesse l´epoca dei nazionalismi, contrassegnata da genocidi, trapianti di popolazione e pulizie etniche, la città-mosaico aveva rappresentato il più potente fattore di sviluppo economico e culturale lungo tutta la sponda sud del Mediterraneo: furono multietniche fino a non molto tempo fa Salonicco, Smirne, Antiochia, Aleppo, Haifa, Alessandria d´Egitto, Algeri, Orano, successivamente ridotte con la forza a innaturale omogeneità. È banale constatare come la brutale cancellazione dell´esperienza urbana levantina, nel giro di pochi decenni del secolo scorso, abbia contribuito decisivamente al declino delle regioni mediterranee interessate. La Istanbul monoetnica di oggi resta una grande città ma non è più una capitale. Un senso di vuoto, di mutilazione subita, infonde sentimenti di rimpianto e nostalgia nelle altre città che furono plurali e oggi sono ridotte al rango di province arretrate.
E prima ancora, l´equazione multietnicità uguale progresso era stata confermata dalla nuova potenza mondiale: gli Stati Uniti d´America, un nuovo impero generato dall´incontro fra comunità migranti. Tuttora, per fare un solo esempio, New York ha una popolazione ebraica numericamente superiore alla somma di Tel Aviv e Gerusalemme. Mentre l´estirpazione della presenza ebraica dall´est Europa può essere annoverata tra le cause del suo impoverimento.
Magari bastasse la consapevolezza storica per convincere i popoli. Le recenti contrapposizioni ideologiche su un concetto astratto come il multiculturalismo segnalano dunque come sia difficile per le leadership politiche e culturali misurarsi con il fallimento di un´illusione: far coincidere semplicemente, sulla carta geografica, gli Stati con le nazioni.
Quando un leader che è anche imprenditore globale come Berlusconi (con soci arabi e interessi sparsi oltreconfine) proclama di battersi "contro la società multietnica", denota l´urgenza opportunistica di assecondare una spinta difensiva anacronistica lontana dal suo linguaggio originario: il format televisivo commerciale, apolide per definizione. Quando protesta contro il fatto che a passeggio nel centro di Milano s´incontrano troppi africani, nega l´abc della nuova metropoli europea di cui anche lui è figlio. Quasi mai la città multietnica è il prodotto di una politica abitativa consapevole, pianificata. Perché i flussi migratori possono essere regolati da governi responsabili, ma ben difficilmente pianificati. Accade così, con il senno di poi, che le diverse visioni culturali e soprattutto le convenienze politiche diano luogo a teorie dell´integrazione o del rifiuto che solo a parole rivendicano la dignità di un progetto.
I due "modelli" alternativi di integrazione spesso contrapposti sono oggi in Europa il "modello repubblicano francese" e il "modello comunitarista britannico". La Francia, erede di una concezione rivoluzionaria della cittadinanza fondata sui diritti, e quindi disgiunta dal vincolo di sangue della nazionalità, ha perseguito una pedagogia delle regole che trasformi gli immigrati in concittadini su base laica. Ciò non ha impedito la formazione di agglomerati urbani separati, di problematica integrazione. Ma finora le rivolte delle banlieu, seppure violente, hanno visto prevalere la dimensione sociale e semmai criminale rispetto a quella religiosa integralista. Viceversa la storia coloniale dell´impero britannico ha favorito nel Regno Unito la crescita di vere e proprie comunità immigrate a sé stanti, dotate di leadership separate anche nell´elaborazione di codici morali e di cittadinanza, finendo per costituire entità in comunicanti. Perfino corpi estranei, talvolta "nemici interni".
In diverse città italiane (Torino e Genova al nord, Palermo e Catania al sud) l´occupazione di vaste porzioni di centro storico da parte delle comunità immigrate è stata parzialmente gestita nel tempo con un´affannosa rincorsa di integrazione spontanea, affidata soprattutto alla scuola e al volontariato sociale, oltre che all´azione preventiva e repressiva delle forze di polizia. Diverso è il caso di Milano, governata ormai da decenni da amministrazioni di destra che rifiutano ideologicamente la nuova dimensione multietnica. Ciò naturalmente non ha frenato la vitalità dei nuovi cittadini milanesi immigrati, le cui imprese registrate presso la Camera di Commercio ormai detengono una quota di ricchezza irrinunciabile per l´economia metropolitana; senza contare la quota dell´economia illegale e della malavita. Il risultato è che la nuova forza economica degli immigrati, rifiutata a parole e boicottata con normative anacronistiche, spontaneamente cerca luoghi di residenza e d´investimento che aggirino l´ostacolo.
Fu così per la prima "casbah" di Porta Venezia, oggi non solo bonificata ma arricchita grazie alla sua nuova dimensione multietnica. È toccato poi alla non distante arteria commerciale di via Padova di divenire il ricettacolo di subaffitti senza regole e di vendite d´appartamenti e negozi alla spicciolata, con prezzi in costante ribasso.
Il laissez faire di chi rifiutava ogni pianificazione perché elettoralmente gli conveniva proclamare "no allo straniero", di certo non era in grado di bloccare la metamorfosi in atto. Ma ha causato un´identificazione fra città multietnica e degrado che stride con la storia della civiltà.

l’Unità 18.2.10
Cgil e professori preparano lo sciopero del 12 marzo. Non sarà l’unica protesta
«Una riforma ingiusta, che discrimina i non liceali. La impugneremo alla Corte Costituzionale»
«Contro la deforma-Gelmini andremo alla Consulta»
«Vanno costituiti gli stati generali della conoscenza entro l’estate».È il messaggio lanciato dal segretario confederale della Cgil, Fulvio Fammoni, all’assemblea nazionale sulla scuola secondaria superiore.
di Maria Grazia Gerina

Gli insegnanti: «Abbiamo scritto una lettera al ministro: ci sono già 1.200 firme»

La cosa, per ora, funziona così. Accompagni tuo figlio ad iscriversi alla scuola superiore, ma che cosa studierà, cosa gli insegneranno, non lo sai. Sai però che le ore di lezione, a meno che non sia un liceale in erba, gli saranno ridotte. È la nuova scuola superiore disegnata da Tremonti e Gelmini. «E non chiamatela riforma, per piacere», avvertono gli insegnanti. Qualcuno suggerisce di chiamarla «deforma». Qualcuno burocraticamente «riordino».
Rossella Zamparini, insegnante di matematica, dal suo osservatorio di frontiera, l’Iiss Von Neumann, «la scuola più complessa di Roma» (due sedi nella periferia di San Basilio, una terza nel carcere di Rebibbia), la vede così: «La distruzione della scuola pubblica è iniziata, i nostri ragazzi sono stati stati premiati in Cina per i progetti sulla robotica, ma l’insegnante che li ha seguiti con questa riforma rischia di perdere il lavoro, come molti insegnanti tecnico-pratici, dicono “più matematica” e poi scopro che il prossimo anno la mia materia verrà tagliata del 30 per cento». E ragiona: «Noi a San Basilio i ragazzi li andiamo a prendere casa per casa, saremo in contatto con almeno 800 famiglie, dobbiamo coinvolgere anche loro».
Assemblea pubblica della Cgil Flc, ieri mattina, nella Sala delle Carte geografiche, a Roma. Si prepara lo sciopero della scuola del 12 marzo. Gli insegnanti arrivano da tutta Italia, da Bari, da Venezia, da Napoli. Mettono insieme un cahier de doléances, che dovrebbe chiamare in piazza tutti, non solo chi nella scuola lavora. O almeno convincere il governo a rinviare di un anno l’attuazione della riforma piovuta sulle scuole superiori, senza nemmeno i regolamenti attuativi. «Dobbiamo fermarli», dicono il segretario generale della Cgil Flc, Domenico Pantaleo, e la segretaria nazionale Maria Brigida. «Gli esuberi saranno 26mila, solo per gli insegnanti» (il 23 è fissato l’incontro sugli organici al ministero). «Le scuole non ha i soldi nemmeno per i corsi di recupero: vantano credi di 1miliardi e 600mila euro». Quanto alla riforma: «Arriveremo anche alla Corte Costituzionale se serve, perché c’è un problema di uguaglianza tra gli studenti dei licei e gli altri che si vedranno ridurre le ore di lezione da 36 a 32». In prima fila, a sentire, Giovanni Bachelet, Francesca Puglisi, del Pd, Loredana Fraleone, Prc, Bergonzi, Pdci, Simonetta Salacone, SeL. Danilo Prosdoci insegna in provincia di Venezia, nelle scuole professionali e, per paradosso, è uno di quegli insegnanti tecnico-pratici di cui la scuola secondo la riforma Tremonti-Gelmini potrà fare a meno. «Ho uno scatolone di titoli, la mia professionalità è stata riconosciuta dalla Microsoft, ma per la scuola sono un lavoratore ad esaurimento e a 52 anni non voglio nemmeno sapere cosa significa». Eppure: «Quando escono dalle nostre scuole ai ragazzi chiedono: cosa sai fare? Io invece adesso di fronte ai tagli della riforma mi chiedo: con tre ore a settimana cosa gli insegnerò?».
Il tam tam in molte scuole è già partito. «Noi abbiamo scritto una lettera al ministro e abbiamo chiesto alle famiglie di firmarla: 1200 firme e molti nel nostro territorio hanno votato questa maggioranza che ci governa», racconta Mirella Alcamone, del liceo Anco Marzio di Ostia.
«Abbiamo bisogno di un sistema di istruzione che sappia promuovere i più deboli e che non separi i forti dai deboli a quattordici anni», è il grido di aiuto di Pina Bonaiuto, preside di istituto professionale a Nola: «L’istituto alberghiero della nostra zona vanta 700mila euro di credito dallo Stato e non sa nemmeno se li avrà restituiti».

Repubblica 18.2.10
Solo qui si è costretti a scegliere tra scuola e musica, tra tv e teatro. E si è dimenticato Keynes
Cultura, cronache dall’asteroide Italia
di Salvatore Settis

L´asteroide Italia si è perso nello spazio. Dimentichi del pianeta in cui fino a ieri abbiamo vissuto, sempre meno ci confrontiamo con gli altri, sempre più serriamo le finestre, chiudiamo a chiave non le porte, ma i nostri occhi.

Attardato in un thatcherismo-reaganismo di maniera, chi ci governa sbandiera le superiori ragioni della crisi per giustificare i tagli a ogni investimento in cultura, dai musei alla scuola elementare, dalla musica alla ricerca. Senza sospettare, a quel che sembra, che quella retorica aziendalistica è obsoleta (a cominciare dall´America di Obama) perché si è infranta contro i problemi che ha creato, inclusa la crisi finanziaria in cui navighiamo a vista. Senza nemmeno immaginare che i Paesi più avvertiti (come gli Usa) investono in cultura precisamente per reagire alla crisi, per preparare una stagione più favorevole giocando d´anticipo, puntando sulla cultura perché crea innovazione, favorisce lo sviluppo, promuove democrazia e responsabilità. La "sinistra", troppo occupata a rincorrere la Lega e Berlusconi sul loro stesso terreno in un cupio dissolvi per definizione perdente, non muove un dito per correggere il tiro, anzi lietamente contribuisce a spingere l´asteroide ulteriormente fuori orbita. Allegria di naufraghi.
Vincenzo Cerami sull´Unità e Gioacchino Lanza Tomasi sul Sole hanno lapidariamente osservato che alla sinistra (come del resto alla destra) «manca la cultura della cultura». Non è un gioco di parole. Cultura della cultura vuol dire (sul pianeta Terra) riflettere, anzi sapere che le attività artistiche, la creazione letteraria, la ricerca scientifica, i progetti museografici, la scuola hanno una funzione alta e insostituibile nella società. Sono, anzi in Italia furono, luoghi di consapevolezza e di educazione alla creatività, alla democrazia e ai valori civici e identitari: il cuore di quella capacità di crescita endogena che i migliori economisti individuano come uno stimolo potente all´innovazione e all´occupazione non di quei settori specifici, ma di una società nel suo insieme. Eppure destra e "sinistra" troppo facilmente concordano nel genuflettersi davanti alle Superiori Esigenze dell´Economia di Crisi e all´Inevitabile Federalismo (del quale ultimo, peraltro, nessuno indugia a calcolare i costi devastanti). Allargando le braccia, e magari fingendo di vergognarsi, si tagliano le spese in cultura, dando per scontato che beni culturali, teatro, ricerca siano optional a cui dedicare solo il superfluo (che non c´è mai).
Quasi un anno è passato da quando Baricco ha aperto su Repubblica (24 febbraio 2009) un´ampia discussione sugli investimenti in cultura. In tempi di crisi, questa la sua tesi, non si può pensare che la cultura sia finanziata con fondi pubblici. È arrivato il momento di scegliere. Basta soldi di Stato al teatro, puntiamo sulla scuola e la televisione, le sole cose che contino «nel paesaggio che ci circonda» (per la loro dimensione di massa). Quanto al teatro, all´opera lirica e così via, «meglio lasciar fare al mercato e non disturbare», tanto più che «se non sono stagnanti, poco ci manca». Ergo: non tagliare fondi a musica e teatro, ma spostarli integralmente sulla scuola e la televisione, «il Paese reale è lì». Proposta volutamente provocatoria, che a destra come a sinistra fu presa troppo spesso alla lettera, suscitando qualche esultanza di troppo (per esempio, dei ministri Brunetta e Bondi). Proviamo dunque, prendendola alla lettera, a farci a voce alta due domande.
Prima domanda: oltre a scuola, televisione e teatro, quale è il posto di altre "voci", come ricerca, università, musei e monumenti? Anch´essi non fanno più parte del Paese reale? Dobbiamo (a "sinistra" come a destra) vestire il cilicio e chiedere al governo, flagellandoci, di indirizzare anche quelle già scarse risorse su televisione e scuola? «Spostate quei soldi», scriveva Baricco, e intendeva quelli del teatro: ma siamo sicuri che per una delle "voci" della cultura si possano usare sempre e solo i soldi di altre "voci" della stessa natura? Perché non possiamo dire: "spostate soldi" sulla cultura, ma prendendoli da opere costose e dannose come il minacciato Ponte sullo Stretto, dal cosiddetto salvataggio Alitalia che ha borseggiato il contribuente, o riducendo i costi della Tav (il quadruplo, per chilometro, che in Francia)? Lista, inutile dirlo, che può allungarsi a piacimento. E perché non proviamo a recuperare anche solo in parte la gigantesca evasione fiscale, in cui l´Italia detiene il record mondiale (300 miliardi l´anno di imponibile non dichiarato secondo il Corriere della Sera). A meno che l´evasione non sia «in sintonia con l´intimo sentimento di moralità», come dichiarò Berlusconi in un discorso alla Guardia di Finanza (11 novembre 2004).
Seconda domanda: ma in quale Paese al mondo si è mai dovuto scegliere fra scuola e musica, fra televisione e teatro? Perché non è possibile promuovere tutte le attività culturali? Negli Stati Uniti, persino i biglietti per andare all´opera sono deducibili dal reddito (e in tal modo indirettamente finanziano il teatro). Ha mille volte ragione Baricco di chiedere più soldi per la scuola e una decente Tv pubblica che recuperi (se mai è possibile) il degrado culturale che proprio la televisione, privata e pubblica, va consolidando. Ma i tagli degli ultimi anni (con governi d´ogni segno) a beni culturali e teatro non si sono tradotti in vantaggi né per la Tv né per la scuola. Incrementare le risorse della scuola è essenziale; ma perché farlo strappando risorse ad altre "voci" del già magrissimo paniere della cultura? Se nell´asteroide Italia queste domande trovano così poche voci convinte, a destra esattamente come a "sinistra", è perché vi manca la cultura della cultura. Celebrando i funebri rituali della crisi, tappandoci gli occhi davanti all´evasione fiscale e agli sprechi in spese pubbliche non necessarie anzi dannose, dovremo veder morire l´opera lirica o il museo che in Italia sono nati, e intanto prosperano sul pianeta Terra, da Berlino a New York a Melbourne? Dovremo assistere impotenti alla devastazione del paesaggio culturale italiano (e, non dimentichiamolo, alla cementificazione del paesaggio reale)?
A quel che pare, anche la "sinistra" ha innalzato a principio supremo quello che Keynes chiamava «l´incubo del contabile», e cioè il pregiudizio secondo cui nulla si può fare, se non comporta immediati frutti economici. «Invece di utilizzare l´immenso incremento delle risorse materiali e tecniche per costruire la città delle meraviglie, abbiamo creato ghetti e bassifondi; e si ritiene che sia giusto così perché "fruttano", mentre - nell´imbecille linguaggio economicistico - la città delle meraviglie potrebbe "ipotecare il futuro"». E Keynes continua: questa «regola autodistruttiva di calcolo finanziario governa ogni aspetto della vita. Distruggiamo le campagne perché le bellezze naturali non hanno valore economico. Saremmo capaci di fermare il sole e le stelle perché non ci danno alcun dividendo». Sorgerà mai, nell´asteroide Italia, una sinistra capace di capire che chiudere teatri e musei sarebbe come fermare il sole e le stelle?

Repubblica 18.2.10
L´uomo presente sull'isola prima di quanto ipotizzato finora. Lo provano alcuni reperti Una scoperta che riscrive la teoria delle migrazioni: l´arrivo in Europa non avvenne solo via terra
Marinai. L'Homo sapiens navigatore esperto l'arrivo a Creta già 130 mila anni fa
di Luigi Bignami

Duemila utensili e alcune punte di lance ritrovati da una spedizione archeologica
E spunta un´ipotesi affascinante: che a conquistare il Mediterraneo sia stato l´Erectus

Duemila oggetti di pietra trovati sull´isola di Creta potrebbero rivoluzionare la nostra storia più antica. I reperti, infatti, raccontano che i primi esseri umani e forse addirittura chi li precedette navigarono per i mari del Mediterraneo conquistando varie isole più di 100.000 anni prima di quanto ipotizzato finora. Secondo un gruppo internazionale di archeologi gli utensili venuti alla luce vicino al villaggio di Plakias hanno un´età di 130.000 anni: l´isola, dunque, era abitata già a quel tempo.
Poiché Creta è isolata dal resto delle terre che circondano il Mediterraneo da oltre 5 milioni di anni, significa che chi costruì quegli attrezzi deve averceli portati fin lì per mezzo di imbarcazioni e quindi devono aver sfidato le acque del mare. Fino a oggi gli oggetti costruiti dall´uomo trovati su isole del Mediterraneo non sono più vecchi di 10-12 mila anni. E per questo motivo si era sempre ipotizzato che le capacità nautiche dell´Homo sapiens si fossero sviluppate in quel periodo. Testimonianze di viaggi importanti per mare ci raccontano che l´Homo sapiens aveva raggiunto l´Australia 60.000 anni fa. Sull´isola indonesiana di Flores, poi, vi sono reperti e scheletri ancora più antichi, che dimostrano l´intraprendenza che il sapiens ebbe in tempi così lontani. Ma mai si era ipotizzato che anche nel Mediterraneo fossero stati intrapresi viaggi per mare oltre 100.000 anni fa.
Le ipotesi che si aprono con questa scoperta sono state avanzate da un gruppo di archeologi guidati da Thomas F. Strasser e Eleni Panagopoulou, del Providence College nel Rhode Island. I ritrovamenti sono stati descritti durante un simposio all´Archeological Institute of America e pubblicato sulla rivista Hesperia, dell´American School of Classical Studies di Atene.
«Le prove di tutto ciò sono scritte nei livelli di suolo dove sono stati trovati i reperti, e che abbiamo analizzato. Il terreno è stato studiato a fondo dai geologi per ricostruire la nascita dell´isola di Creta e le vicissitudini geologiche dei periodi glaciali e interglaciali», spiega Curtis Runnels, della Boston University, che ha partecipato alle ricerche. La datazione degli strumenti, infatti, è resa possibile proprio grazie a quanto si conosce dello strato di suolo in cui essi sono venuti alla luce.
Ma c´è qualcosa di ancor più affascinante. Secondo gli archeologi che hanno scoperto i reperti lo stile con cui sono state intagliate le punte farebbe pensare che esse siano vecchie addirittura di 700.000 anni. Potrebbero avere, dunque, un´età doppia rispetto ai livelli di suolo in cui sono stati trovati. Se così fosse, anche se i dubbi sono molti, chi attraversò il Mediterraneo per primo fu l´Homo erectus (e non il Sapiens), che produsse oggetti riconducibili alla cultura Acheulana. Essa produceva manufatti litici lavorati su due lati in modo simmetrico e a forma di mandorla. In Italia si hanno esempi di utensili simili a Monte Poggiolo, ai piedi dell´Appennino romagnolo.
Sia in un caso sia nell´altro l´arrivo in Europa da parte dei nostri avi è sempre stato ipotizzato attraverso il Medio Oriente e la Turchia, mai per mare. Ma senza arrivare all´ipotesi più estrema (l´Erectus alla conquista del Mediterraneo), cosa cambia sul passato dell´Homo sapiens di fronte a questi ritrovamenti? «Innanzitutto dobbiamo riconoscere che le capacità di navigare dell´Homo sapiens erano più elevate di quel che abbiamo sempre pensato e questo ci fa ipotizzare l´arrivo in Europa non solo dall´Oriente, di cui si hanno testimonianze certe, ma anche da Occidente, forse attraverso lo Stretto di Gibilterra», afferma Strasser. In tal caso l´Europa potrebbe essere stata raggiunta molto tempo prima di 50-60.000 anni fa e dunque si apre una nuova sfida: trovare un Sapiens europeo vecchio di almeno 100.000 anni.

Repubblica 18.2.10
I princìpi non sono merce
Colloquio tra Claudio Magris e Gustavo Zagrebelsky

Dalla difesa della Costituzione alla diffidenza verso i valori, lo scrittore e il giurista si sono confrontati sull´Italia di oggi e su quel che dovrebbe costituire un´identità comune
"In questi tempi certe parole vengono usate in un modo che non è proprio"
"La ragione è stata anche alla base di molte tragedie Rivalutiamo il sentire universale"

TORINO. Legge. Diritto. Giustizia. Tre parole che a un orecchio distratto potrebbero parere analoghe, intercambiabili quasi, e che invece racchiudono modi anche assai lontani di concepire quel sistema di principi e di regole che rende possibile la convivenza tra le persone e tra i popoli. Tre parole che, ieri, hanno aperto con il primo dialogo il ciclo "ItAlieni. Come siamo diventati extraterrestri", un´iniziativa promossa dal Circolo dei Lettori di Torino per riflettere e ritrovare vecchie e nuove parole comuni. Gustavo Zagrebelsky, costituzionalista, autore di numerose riflessioni sul tema delle norme e dei valori fondanti, giuridici e non solo, e Claudio Magris, scrittore e germanista ritrovatosi negli ultimi anni tra le voci italiane più critiche proprio sui temi della giustizia, dei diritti e del loro stravolgimento, hanno dato vita in un sala gremita a un dialogo appassionato, a partire dall´ultimo lavoro di Zagrebelsky, Intorno alla legge. Il diritto come dimensione del vivere comune (Einaudi). Senza potere né volere evitare i riferimenti all´attualità, come quando si è affrontato il tema della riforma della Costituzione o del valore del lavoro, in trasparente polemica con il "liberismo" del ministro Renato Brunetta. Ecco il resoconto del loro scambio.
MAGRIS In un celebre dialogo tra Pericle e Alcibiade quest´ultimo interroga: che cos´è la legge? E Pericle risponde: la legge è la traduzione scritta di ciò che l´assemblea ha deciso. È davvero così? È soltanto la maggioranza a determinare le leggi?
ZAGREBELSKY No. La legge non può non basarsi su un tessuto comune, su idee condivise prima della formazione stessa del diritto. Se il diritto viene imposto con la forza, anch´esso diventa sopraffazione.
MAGRIS Occorrono dunque dei principi fondanti. Ma intorno a questi, che in un certo momento storico appaiono intoccabili, possono cadere i tabù. Qualcuno comincia a dire che la Costituzione italiana deve essere cambiata perché è cambiato il contesto storico che l´aveva determinata. Ma devono essere cancellati anche i suoi principi di base?
ZAGREBELSKY Il tema è attuale e ben noto. Qual è oggi il senso di ispirarsi a norme volute da forze politiche che non esistono più, in un contesto assai diverso dal nostro? La risposta è che esistono principi base che non possono essere toccati, e altri attuativi sui quali si può discutere. Non si può cambiare la Costituzione a ogni cambio di generazione perché questo genererebbe un´instabilità politica non desiderabile.
MAGRIS Non tutti sono d´accordo, però… E proprio sulla Costituzione è ormai battaglia aperta…
ZAGREBELSKY È così. Di recente qualcuno ha detto che il lavoro è una merce e che la Repubblica dovrebbe quindi fondarsi sul mercato del lavoro. Ma si può fondare la Costituzione su una merce? Il lavoro è, innanzi tutto, un elemento della dignità umana, che dovrebbe essere più importante di qualunque merce
MAGRIS Dunque è indispensabile difendere la Costituzione italiana, almeno nella sua parte fondativa?
ZAGREBELSKY Io credo di sì. Non è un caso che essa sia stata così spesso ripresa in altri testi fondamentali, a cominciare dalla Dichiarazione dei Diritti dell´Uomo delle Nazioni Unite, che è di dieci mesi più giovane. Essa si inserisce in un grande movimento politico e culturale che è ancora vivo e attuale. Intorno, di lato, a fianco, deve stare il dibattito politico e culturale, i temi che i Padri costituenti non poterono affrontare per la buona ragione che non si ponevano ancora, come ad esempio molte delle questioni di bioetica di cui si discute oggi.
MAGRIS In questo libro, tu rivaluti il sentimento, l´esistenza di sentimenti comuni su ciò che è giusto e soprattutto su ciò che è ingiusto e non può essere tollerato. Non si tratta di un´illusione? Non può accadere che ci siano persone che non condividono l´intollerabilità di certi atti, compresi i più efferati, come i crimini nazisti, l´uccisione di innocenti?
ZAGREBELSKY Rivalutare il "sentimento comune" in contrapposizione alla ragione ha il senso di riproporre un "universale umano". La ragione è stata alla base di molte tragedie del secolo scorso: ad esempio all´origine del razzismo ci sono alcune idee apparentemente razionali. Perché un sentire universale umano possa esistere, e non rappresentare una mera illusione occorre un lavorio continuo, quel lavoro che fa della legge e del diritto qualcosa di vivo e di vero.
MAGRIS Non sono convinto della radicale distinzione tra sentimento e ragione. Il razzismo non è stato soltanto una teoria basata su fondamenti razionali, ancorché non condivisibili o distorti, ma un modo di sentire. Quando negli Stati Uniti caddero le norme che impedivano agli afroamericani di studiare nelle Università una parte della popolazione lo considerò illegittimo e dovette intervenire l´esercito. Condivido di più la distinzione tra principi e valori. Perché i principi sono da preferire?
ZAGREBELSKY Entrambi diffidiamo della parola "valori", specie per come viene usata di questi tempi. Se io scrivo sul muro davanti a me che la pace è un valore, significa che è un obiettivo da perseguire con ogni mezzo. Se invece la pongo alle mie spalle come principio non potrò che perseguirla con strumenti pacifici.
MAGRIS Occorre che tutti siano persuasi che la legge è giusta? È davvero credibile che le regole che una società si dà possano essere condivise da tutti? E se non è così, come si tutela la minoranza, chi non è d´accordo con quella legge o quelle leggi?
ZAGREBELSKY Esiste un "diritto verticale", imposto dall´alto verso il basso, che è tipico delle monarchie, del comando di uno solo, ed esiste un "diritto orizzontale", che si forma poco alla volta, persuadendo un numero crescente di persone. Pensiamo all´eutanasia: se io parto dall´affermazione che la vita non può in nessun caso essere toccata perché "appartiene a Dio", è chiaro che solo chi la pensa come me fin dall´inizio condividerà la legge che ne deriva, e lo stesso accadrà se affermo che "la vita è mia", e dunque posso disporne come mi pare. Occorre trovare una terza strada, sulla quale i cittadini andranno persuadendosi nel tempo e per far questo i giuristi da soli non bastano.

Repubblica Roma 18.2.10
Fino al 13 giugno
Alle Scuderie del Qurinale in mostra da sabato 20 venticinque opere in occasione del quarto centenario della morte
Tutti i capolavori del genio che vide il buio e dipinse la luce
di Francesca Giuliani

Tutto Caravaggio. Caravaggio puro, assoluto. Quello sicuro, oltre le discussioni che hanno dilaniato la critica. Caravaggio dei capolavori, citato dai contemporanei e riconosciuto, Caravaggio di luce e ombra, senza disegni e col tratto libero che taglia le tele. Il genio assassino, l´uomo appassionato e sempre in fuga, l´artista amato per la commistione tra rivoluzione artistica ed esistenza tormentata. Caravaggio oltre i miti e le mitologie, tutto dentro la città che forse più di ogni altra - nel vagare di un´intera, sia pur breve esistenza - fu la sua. Apre sabato alle Scuderie del Quirinale la mostra "Caravaggio", a cura di Francesco Buranelli e Rossella Vodret, da un´idea di Claudio Strinati nell´occasione del quarto centenario della morte (che lo prese il 18 luglio 1610 a Porto Ercole, solo, malato), e che di tutte le celebrazioni nazionali è probabilmente l´evento più importante e di richiamo.
Delle quaranta opere dipinte da Caravaggio, alle Scuderie se ne possono vedere venticinque, secondo un filo conduttore soprattutto tematico-iconografico. Come nelle due versioni della Cena in Emmaus della National Gallery di Londra e della Pinacoteca di Brera oppure nel Suonatore di liuto dell´Ermitage e i Musici del Metropolitan di New York, capolavori che si trovano eccezionalmente affiancati e insieme ad altri più difficilmente visibili come l´Annunciazione di Nancy (dopo il restauro) o l´Incoronazione di spine dal Kunsthistorisches Museum di Vienna.
La mostra è l´occasione per tornare a riflettere sulle modalità esecutive, sul processo creativo e anche per riguardare la rivoluzione caravaggesca nella rappresentazione del naturale realizzata secondo una modalità che porta chi guarda al centro dell´azione, sotto una luce che è sempre decisiva perché, spiega Strinati «il pittore può pensare il buio ed essere nel contempo uno che vede meglio di ogni altro». È quel che si vede in quadri giovanili celebri come il Giovane con il canestro di frutta, la Buona Ventura o i Bari oppure poi, nella Decollazione del Battista, in cui «Caravaggio fa coincidere la misure della tela con quelle della parete di fondo e il buio oratorio si trasforma in un suggestivo teatro», spiegano Buranelli e Vodret.
Fuori dalle sale delle Scuderie, l´album caravaggesco romano può esser completato con le tre tele della cappella Contarelli a San Luigi dei Francesi, la Conversione di Saulo e la Crocefissione di San Pietro a Santa Maria del Popolo, la Madonna dei Pellegrini a Sant´Agostino e il Giove del Casino Boncompagni Ludovisi. Accanto a queste, la mostra suggerisce la valorizzazione di quelle dei musei romani (quattro alla Borghese, la Maddalena alla Galleria Doria Pamphilj, il San Francesco di Carpineto in deposito a Palazzo Barberini) portando così a circa quaranta le opere di Caravaggio visibili a Roma. Accompagnano la mostra i laboratori per bambini dai 3 agli 11 anni e un ciclo di lezioni d´autore nella sala cinema del Palazzo delle Esposizioni.