venerdì 26 febbraio 2010

Repubblica 26.2.10
Bonino rassicura il Pd "Resto candidata ma continuo il digiuno"
E difende la par condicio anti-talk show
di Edoardo Buffoni

E il ministro Zaia chiede di bilanciare anche le presenze dei giornalisti nei talk show

ROMA - Emma Bonino non abbandona la campagna elettorale per il Lazio. Anzi: rivendica un rapporto mai così buono con il Pd, grazie a Bersani. Ma la leader radicale non ha alcuna intenzione di fermare lo sciopero della sete e della fame. Ieri ha risposto a più di 300 messaggi nel videoforum di Repubblica Tv, con la consueta determinazione nonostante non mangi e non beva da lunedì sera.
Il suo slogan elettorale è "Ti puoi fidare". Resta in corsa per il Lazio, o bisogna dar retta a Pannella quando ipotizza un suo ritiro?
«La battaglia per la raccolta delle firme per me è un problema di coscienza. Dopodiché so che entrano in gioco altre responsabilità, gli impegni che ho preso, il fatto di non correre da soli. Il mio sciopero non vuol essere una minaccia per nessuno».
Ma così lei si comporta più da leader di partito che da guida di una coalizione.
«Con tutto il rispetto, per me non c´è solo il Lazio. Noi Radicali siamo una formazione piccola, anomala, ma nazionale e antica. Da leader nazionale mi pongo il problema della presentazione delle liste del mio partito».
Comunque, non si sfila
«Ci tengo agli impegni. È vero, faccio difficoltà a dire di sì, ma poi quando li prendo, li onoro. Qualche prova l´abbiamo data, noi Radicali, o no? O a 60 anni devo ancora stare qui a fare giurin-giurello?».
Le è mancato un sostegno da parte del Pd?
«Di quale Pd parliamo? E´ vero, alcuni non hanno visto di buon occhio l´appoggio che è arrivato da Bersani. Con la nuova segreteria del Pd c´è finalmente un rapporto chiaro, di rispetto. È la prima volta che accade. Ed è una grande novità».
Non tutto il Pd però la pensa così
«Invece devo dire che in giro, dai mercati alla provincia, l´impegno e l´entusiasmo dei militanti democratici sono un patrimonio importante. Il Pd non è solo Rosy Bindi, ma anche le tante persone sconosciute che stanno in silenzio».
Proprio la Bindi le ha chiesto di concentrarsi di più sulla campagna elettorale.
«Ma io faccio campagna elettorale. Incontro tutti, dagli agricoltori ai disabili. Sono stata a Fondi, Viterbo, Rieti, Frosinone, ovunque. La faccio anche con lo sciopero della fame. Le due cose vanno insieme. Senza legalità anche il nostro magnifico programma rischia di essere travolto».
Ma comportandosi da Radicali non si consegna la vittoria alla Polverini?
«Molti cittadini perbene del centrodestra possono sentire questa battaglia come una cosa loro. Sono confusi dalle mille promesse non mantenute, dalla retorica del fare che si riduce a malaffare. La sete di legalità è di tutti».
Lo sciopero della fame non è un modo vecchio di fare politica?
«Se avete altre idee per contrastare l´arroganza del Governo, ditele».
Sul regolamento della par condicio, si sono sollevati tutti.
«Meglio le sfide tra candidati governatori che i soliti ospiti di Ballarò. E poi forse così eviteremo la solita scena in cui Berlusconi, a pochi giorni dal voto e a reti unificate, annuncia il programma per gli italiani».
Dario Franceschini ha detto che non l´avrebbe candidata. Lei rappresenta una minaccia per i moderati cattolici?
«Quello del voto cattolico è un evergreeen del politichese. I cattolici non sono un pacco di voti che si sposta. Chi ha una fede poi sceglie in base a programmi, persone e idee. Comunque Franceschini se aveva un candidato lo poteva anche dire».

Repubblica 26.2.10
"Meno sprechi e più assistenza per i giovani e le famiglie"
In quattro punti il programma del Pd per la Bonino
Ma i vari partiti della coalizione di centrosinistra chiedono maggiori quote per i candidati in lizza
di Laura Mari, Giovanna Vitale

le riunioni sono andate avanti fino a tarda sera. Ma per sapere con certezza i nomi del listino che accompagneranno la candidatura di Emma Bonino alle elezioni regionali bisognerà aspettare fino a questa mattina. Motivo del prolungarsi delle consultazioni, la "guerra delle quote" per decidere quanti nomi per ogni partito della coalizione avranno spazio nel listino. Tra le ipotesi più plausibili, la presenza nel listino di cinque nomi legati al Pd, tre all´Idv (anche se entrambi i partiti in realtà chiedono maggior peso), due ai Radicali e uno a testa per Sinistra Ecologia e Libertà, Federazione della Sinistra, Verdi e Psi.
Intanto ieri il Pd capitolino ha presentato i quattro punti del programma che sosterrà la candidatura della Bonino. Parole d´ordine, meno sprechi, più assistenza agli anziani e, soprattutto, maggiori aiuti alle famiglie piegate dalla crisi e ai giovani. «Un programma semplice, fatto di pochi punti ma concreti» ha spiegato il segretario della federazione romana del Pd, Marco Miccoli. Un documento che affronta quattro temi fondamentali: la sanità, lo sviluppo del territorio con particolare attenzione all´ambiente, il sostegno alle fasce deboli e la razionalizzazione amministrativa.
Quattro impegni, da parte del Pd, per dare un contributo al programma elettorale della Bonino. «Per quanto riguarda la sanità, crediamo sia fondamentale radicarla nel territorio ampliando i turni dei medici di famiglia e aprendo gli ambulatori anche il sabato e la domenica - ha spiegato il capolista del Pd alle elezioni regionali, Esterino Montino - e vogliamo inoltre creare, per i malati cronici e gli over 75, un canale di accesso prioritario ai servizi sanitari».
Sul versante dello sviluppo, l´impegno del Pd si basa principalmente sul potenziamento delle ferrovie regionali e sull´elaborazione di un piano straordinario per l´efficienza energetica, installando pannelli fotovoltaici sugli edifici pubblici. «Bisogna poi premiare le aziende che stabilizzano i precari - sottolinea Montino - ed è necessario sostenere le fasce deboli finanziando ulteriormente il reddito minimo garantito, sostenendo le giovani coppie per l´acquisto della prima casa e destinando una quota dei nuovi alloggi di edilizia pubblica in affitto calmierato agli under 25».
E poi assegni per l´infanzia e l´istituzione di taxi rosa. Sul fronte della razionalizzazione amministrativa, il Pd romano punta poi ad abbassare i vitalizi e i compensi dei consiglieri regionali e dei manager, nonché a ridurre le società regionali. «La trasparenza - ha detto Esterino Montino - è alla base della buona politica».

il Riformista 26.2.10
Bindi sbaglia. Io difendo la Bonino
di Goffredo Bettini

GOFFREDO BETTINI. Il dirigente del Pd difende nel merito lo sciopero della fame e della sete della candidata alla Pisana: «Pone la questione del funzionamento del- la democrazia». È «offensivo» dire - come ha detto il vicepresidente del partito, senza poi smentire le sue parole - che «ha tradito il mandato della coalizione».

In queste ore la salute di Emma Bonino, donna appassionata e fragile, si sta aggravando. Una vita di battaglie testimoniate anche con il proprio corpo, la rende particolarmente esposta alle conseguenze della mancanza di cibo e di una normale idratazione. Spero con tutto il cuore che la situazione si sblocchi. IlPartito democratico sta operando in questa direzione. Pier Luigi Bersani si è comportato in modo molto serio.
Tuttavia la decisone della Bonino, candidata di un'ampia coalizione per la presidenza della Regione Lazio, ha suscitato più di un commento politico. L'obiezione che, in modo civile, qualcuno ha sollevato riguarda il pericolo che così facendo Emma Bonino ritorni dentro un cliché minoritario, d'estremismo radicale, sottomesso alle logiche del suo partito; perdendo quel profilo espansivo di donna competente, di governo, ferma nei valori ma pacata, misurata, pragmatica. Non sono d'accordo.
Certo lo sciopero della fame e della sete è uno strumento tipico della lotta radicale, della storia e del vissuto di quel partito. E un metodo che può apparire solitario ed estremo. Ma anche ad esso dobbiamo tante conquiste civili e di libertà che hanno migliorato e arricchito la Repubblica.
Ma poi, la vera, questione riguarda il merito della battaglia, più che il metodo. Il merito non ha nulla di partitico, di fazioso; non si riferisce a interessi particolari, a poltrone, a posizioni di potere, o a crociate ideologiche unilaterali. Tutte cose che nutrono ampiamente la politica di cui ci cibiamo. Anzi: la Bonino pone la questione delle regole, del funzionamento della democrazia, della possibilità dei singoli cittadini di essere informati proprio in quanto cittadini e non animatori di lobby.
C'è nella denuncia qualche elemento eccessivo? Pazienza: se sono in gioco lo stato di diritto e quella "religione" della Repubblica, oggi così indifesa sotto i colpi dei più forti, dei più furbi, dei più ricchi, i quali spesso dimenticano che il rispetto delle minoranze, fa grande una democrazia.
Accanto, però, a obiezioni intelligenti e comunque politiche, sono apparse sulla stampa affermazioni polemiche francamente offensive: Emma Bonino avrebbe addirittura tradito il mandato della coalizione; a conferma di una candidatura sbagliata, stravagante, sleale. In particolare Rosy Bindi ha voluto esternare queste critiche, senza smentirle nelle ore successive.
Il mio sentimento va in una direzione completamente opposta: non mi sento affatto tradito da una battaglia che certamente ha lo scopo anche di aiutare il Partito radicale a presentarsi in tutte le regioni, ma che ha, vivaddio, al centro valori, passioni e idee alte e che aiuta un po` tutti a respirare l'aria di una buona politica.
Mi sento molto più tradito (e quanta indulgenza abbiamo invece in questi casi!) per un dilagare, in qualche situazione, al di là della decenza: di pratiche politiche particolaristiche, di lotte furibonde attorno alle liste, di campagne per le preferenze che hanno inondato le nostre città di facce con i simboli di partito, ben prima che si decidessero le liste nelle sedi collettive e democratiche.
Per questo, dico, teniamoci la Bovino ben stretta, e cerchiamo di far pulizia di certi comportamenti che talvolta ci fanno somigliare ai nostri avversari.

il Riformista 26.2.10
Bonino-Pd, lite sul Listino. E Berlusconi interviene in quello della Polverini
di Matteo Valerio

C'è un caso Bonino nel centrosinistra. Ma anche una caso Udc nel centrodestra. La definizione dei "listini" nel Lazio provoca fibrillazioni a tutto campo. Sia Renata Polverini che Emma Bonino sono alle prese con la difficile trattativa nelle rispettive coalizioni per compilare la lista dei 14 che, in caso di vittoria, avrebbero un posto assicurato sugli scranni della Pisana, senza doversi sottoporre alla prova delle preferenze. 
Ti caso più scottante si è consumato a destra. L'Udc, ancora ieri impegnato in una serie di tentativi di mediazione, avrebbe addirittura minacciato la sospensione della campagna elettorale al fianco dell'ex leader Ugl. Motivo del malcontento, l'assegnazione di tre nomi per i centristi nel listino, quando invece gli accordi sottoscritti nel Lazio ne avrebbero previsti quattro. Sul tutto pesa l'ombra del premier Silvio Berlusconi. Sarebbe stato lui in persona a dare uno stop all'accordo sottoscritto da Polverini. L'allarme Udc, però, pare rientrato in giornata, tanto che il coordinatore regionale Luciano Ciocchetti, afferma soddisfatto al Riformista: «Abbiamo rinunciato ad un nostro nome, in modo responsabile, per favorire la chiusura dell'accordo». Diversa la versione nel Pdl: «Sono ben contenti di avere ottenuto tre nomi». Riguardo invece l'intervento diretto di Berlusconi, Polverini ieri smentiva con poche parole: «Non mi risulta». La scarsa propensione a dare spiegazioni e/o rassicurazioni, però, non ha fatto che confermare la situazione ancora indefinita: «Siamo ancora in alto mare, e non sappiamo se arriveremo ad un accordo», ripetevano ieri nei corridoi. E chi ha partecipato attivamente alla trattativa smentisce le parole della candidata: «Negli ultimi giorni c`è stato un ctteto "sliding doors", c'era gente che entrava e gente che usciva in continuazione. Berlusconi ci ha messo le mani, la Polverini ha fatto ulteriori modifiche alla luce di quelle osservazioni». 
Scongiurata la minaccia dell`Udc, il problema ora resta tutto interno al Pdl: «Sono in mille per undici posti», sintetizzano i bene informati. Allo stato attuale, l'accordo dovrebbe chiudersi con un leggero favore per gli ex fornisti, e con gli ex Anche cedono un minimo di terreno, avendo una propria espressione nella candidata in persona. Detto in soldoni, degli undici posti rimanenti escludendo quelli riservati all`Udc, sette andranno agli ex Fi, tre agli ex An ed uno sarà indicazione diretta del presidente della Camera Gianfranco Fini. In tutto questo, però, si chiuderebbero gli spazi per La Destra, sebbene Storace sia tranquillo: «Io ho fatto un accordo con Berlusconi, abbiamo indicato il segretario generale Vittorio Messa». 
Non va meglio neanche alla candidata Bonino, che per la compilazione del listino sembra abbia posto due condizioni: le metà dei nomi, 7 su 14, dovrà sceglierli lei, pescando soprattutto nella società civile. Inoltre l'esponente radicale vuole che i candidati del listino siano il più possibile espressione omogenea dei territori.
Il problema è che anche il Pd chiede 7 posti. Una richiesta che fa sballare i conti, dato che così facendo non resterebbe niente agli altri alleati: Sinistra e Libertà, Federazione delle Sinistre e Idv. Questi ultimi, ad esempio, avevano già chiuso l`accordo su due nomi; la federazione delle Sinistre aveva espresso Silvia Garambois, mentre anche a Set spetterebbe la scelta di un suo esponente di riferimento. I radicali, comunque poco propensi a cedere rispetto alle posizioni di partenza, interpretano così la situazione: «Stiamo vivendo un vero e proprio arrembaggio al listino da parte dei partiti. Evidentemente si sono resi conto anche loro che Emma è assai meno soccombente di come tanti la dipingono». La stretegia del Pd, invece, per ora suona così: «Noi chiediamo sette posti, e pensiamo siano esattamente quelli che ci spettano. Abbiamo una serie di sensibilità diverse da rappresentare. Non è detto, d'altronde, che le sette personalità scelte da Bonino debbano provenire tutte dalla società civile: qualcuno potrebbe essere scelto tra le fila dei partiti». Per ora, comunque, i nomi quasi certi per il Pd sono quelli di Luisa Laurelli e Luigina Di Liegro. Si parla anche di Mirko Coratti e Fabrizio Scorzoni, mentre è in forse Patrizia Prestipino. L'unico punto di caduta possibile, comunque, «dovrebbe prevedere un piccolo passo indietro sia del Pd che della Bonino, onde evitare che si arrechino danni alla tenuta della coalizone», dice chi sta seguendo la trattativa.

l’Unità 26.2.10
Il Pd aderisce, così Idv, Sel, Fed e Verdi. Sul palco niente politici, parla anche Genchi
Tornano i Viola tre mesi dopo
Ora c’è anche l’opposizione
di Natalia Lombardo

A piazza del Popolo domani alle 14,30 il Popolo Viola contro la legge sul legittimo impedimento: «Basta, la legge è uguale per tutti». Stavolta il Pd sarà in piazza, anche Idv, Sel, Fed e Verdi. Non aderiscono Udc e Api.

A tre mesi dal successo del NoB Day, il tam tam del Popolo Viola chiama domani in piazza del Popolo, dalle 14,30. Il logo è una Mafalda rosa che grida un «Basta! La legge è uguale per tutti», scritta che campeggerà sul palco lungo 14 metri. Una manifestazione nazionale «contro l’approvazione del legittimo impedimento» e le leggi ad personam «per chiedere il rispetto della Costituzione e affinché si risolva il conflitto di interessi». Sarà trasmessa in diretta su RaiNews24 (già messa in croce dalla destra il 5 dicembre) con «finestre» nel Tg3.
Promossa dal Popolo Viola di Roma, Bo.Bi Boicotta il Biscione, San Precario, Libera Cittadinanza, sarà una seconda prova di coesione in piazza per la rete del malessere civile che si dirama nei blog. Il Popolo Viola prende corpo però «non ci saranno liste Viola», chiarisce subito una delle promotrici. L’adesione di tutti i partiti del centrosinistra c’è, stavolta anche quella del Partito Democratico, che il 5 dicembre a San Giovanni si affidò solo alla partecipazione individuale. Orgogliosamente Gianfranco Mascia, pashmina viola al collo, spiega: «Abbiamo fatto tutto in un mese», dall’idea lanciata su Facebook, «finora abbiamo raccolto 26mila euro di sottoscrizione on line, arriveremo a 40mila». E, soddisfazione maggiore, «ai partiti non abbiamo chiesto niente», né al sindacato, neppure l’aiuto logistico avuto al NoB Day.
I PARTITI CI SONO
«Per la prima volta un'iniziativa di autoconvocati riscuote l’adesione delle forze dell'intero arco costituzionale», dice Mascia, che poi precisa ridendo, «volevo dire dell’intera opposizione, con l’unica defezione dell’Udc». Anzi, Casini, il cui partito si è astenuto sul legittimo impedimento, critica il Pd: «Si fa un regalo a Berlusconi». Diserta anche l’Api di Rutelli. Il segretario del Pd Bersani questa volta ha aderito senza riserve; non ci sarà perché è in campagna elettorale fuori Roma (così Franceschini); in piazza ci sarà ancora Rosy Bindi, poi Andrea Orlando, Giovanna Melandri, Paola Concia. Giorgio Merlo si distingue: «Va bene, ma dev’essere chiaro il nostro no al giustizialismo». Hanno aderito l’Italia dei Valori (richiamata sul blog di De Magistris), Sinistra e Libertà, la Federazione delle sinistre, i Verdi, la Cgil.
I promotori viola incrociano le dita e confidano in un altro «successo»; 200mila le adesioni: Articolo21, Micromega, Libertà e Giustizia, l’Anpi, Un’Altra Storia di Rita Borsellino; pronti a partire 200 pullman. Sul palco ci saranno i lavoratori di Termini Imerese, dell’Ispra, i precari, i presidi de L’Aquila, Nessun politico né candidato avrà il microfono. Dalla giustizia al lavoro, alla difesa degli articoli 1, 3 e 21 della Costituzione; interverranno, fra gli altri, Alberto Asor Rosa, Paolo Flores D’Arcais, Guido Scorza per la libertà del web, Norma Rangeri. E Gioacchino Genchi, dopo la puntata al congresso Idv. Proiettati video di Giorgio Bocca e Marco Travaglio.
L’entusiasmo non manca, e dal 3 febbraio, quando alla Camera è passato il legittimo impedimento, un camper presidia piazza Montecitorio. Qui hanno consegnato le «patenti» viola a chi non l’ha votato, ultimi a Massimo D’Alema e Beppe Fioroni; il 9 marzo il ddl è in aula, ai senatori un provvisorio «foglio rosa». Ma, spiegano alcune «viole»: «È tanta la gente che si ferma al presidio, segno del disagio e della voglia di difendere la Costituzione». ❖

il Fatto 26.2.10
Piazza del Popolo domani si tinge di viola
di Federico Mello

Tutto è pronto per sabato, a Piazza del Popolo, nel centro di Roma. “Le legge è uguale per tutti” ribadirà il Popolo Viola nella sua giornata di protesta contro le leggi ad personam. Al No B. Day del 5 dicembre fino alla vigilia risultava ancora imprevedibile il successo della piazza viola; questa volta i manifestanti sono sicuri: la piazza sarà bella, colorata, con tanta gente e non solo: “L’adesione migliore che abbiamo avuto è stata quella del sole, che ha assicurato la sua presenza” scherza Vittoria Pagliuca, una degli organizzatori, durante la conferenza stampa di presentazione. Sono pronti il palco, gli interventi, la scaletta. Manca solo il popolo, viola e no, sabato a partire dalle 14:30. Questa volta i viola hanno fatto tutto da soli: nessun sostegno dai partiti ma una sottoscrizione online che ha funzionato; sono stati raccolti finora 23.000 euro (“pubblicheremo tutti i rendiconti sul Web” assicurano) sui 26.000 necessari. Tutti soldi arrivati via donazioni Web (PayPal) su 27febbraio2010.org. “Ma ancora dobbiamo capire quanti sono i contributi arrivati con il conto corrente bancario” aggiunge Emanule Toscano, del Popolo viola Roma. Le donazioni sono varie “C’è chi dona due euro, e chi ne ha versati 600”. La media è intorno ai venti euro”.
In questi giorni, oltre alla pagina Facebook dove tutto è cominciato, anche il presidio permanente che staziona da 20 giorni a Montecitorio, si è trasformato in un’occasione per pubblicizzare l’iniziativa di domani. I militanti che si radunano intorno al camper viola, sono stati protagonisti anche di sapidi siparietti con gli onorevoli che passano davanti alla Camera. Hanno funzionato le “Patenti viola a punti” rilasciate ai deputati che hanno votato contro la legge sul legittimo impedimento. Mercoledì, in mattinata, è stato arpionato dai militanti anche Massimo D’Alema che, suo malgrado, si è avvicinato al banchetto e ha ricevuto l’attestato: “Non aveva molta voglia, un po’ se la tirava” dice irriverente Francesca, una militante presente. “Granata invece no, è stato gentile”. Parla proprio di Fabio Granata, il deputato finiano del Pdl, che anche in questa occasione non ha perso occasione per distinguersi dai suoi colleghi di partito: è stato il primo esponente della maggioranza ad avvicinarsi al presidio. “A lui però abbiamo dato una patente con cinque punti in meno, sulla fiducia: alla votazione era assente” dicono i viola. Ormai sono numerosi i politici che hanno preso la patente: Antonio Di Pietro, naturalmente, ma anche Ignazio Marino, Vincenzo Vita, Paola Concia e Paolo Ferrero tra gli altri.
“Le patenti viola sono una cosa seria – dice Gianfranco Mascia uno dei protagonisti del No B. Day – perché con queste gli onorevoli si impegnano anche a mettere all’ordine del giorno dei lavori del Parlamento, entro sei mesi, una proposta di legge contro il conflitto d’interessi. Di leggi depositate ce ne sono numerose ma non vengono mai messe in calendario. Faremo su questo un controllo democratico”.
Ma per ora si pensa a sabato. Hanno aderito le personalità più disparate della cultura e dello spettacolo: Mario Monicelli, Dario Vergassola, Francesco Guccini, Dario Fo e Franca Rame, Daniele Silvestri e decine di altri.
Sul palco due donne smisteranno gli interventi: l’autrice satirica Francesca Fornario e la giornalista di Rai Tg 24 Maria Laura Carcano (il canale all news seguirà anche l’evento in diretta).
Apriranno le danze Daniele e Valentina, del Popolo viola. Seguirà l’avvocato Guido Scorza, punto di riferimento italiano sulle libertà digitali; quindi Alberto Asor Rosa, Genchi, Norma Rangeri del Manifesto, Gianni Minà, Paolo Flores d’Arcais e Oliviero Beha. Giorgio Bocca e Marco Travaglio saranno presenti con un intervento video. Grande spazio anche alle testimonianze civiche e di lotta: i lavoratori Ispra, gli operai Fiat di Termini Imerese, i comitati di precari, i rappresentanti dei cittadini de L’Aquila.
Obiettivo non è solo quello di chiedere le dimissioni di Berlusconi: “Abbiamo deciso di rappresentare sul palco le
problematiche relative agli articoli 1, 3 e 21 della Costituzione” dicono gli organizzatori. “Art 1: forma della democrazia e la tutela del lavoro; Art. 3: l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge; art. 21: il diritto ad essere informati, il dovere di informare”.

Repubblica 26.2.10
Il Popolo Viola alla piazza-bis arriva anche il sì della Cgil
E il finiano Granata prende la "patente" del movimento
Riuscita la colletta online per coprire i costi della manife-stazione di domani a Roma
di Alessandra Longo

ROMA - Fanno tutto da soli, questa volta. Cercano e trovano i soldi, si procurano i gadget e le bandiere, discutono l´organizzazione del palco, la scaletta degli interventi, il sottofondo in musica. A poche ore dalla manifestazione a difesa della Costituzione, i viola vanno a pieno ritmo e senza appoggiarsi ai partiti che pure, nella prima loro uscita pubblica, quella del 5 dicembre scorso, li avevano supportati e parzialmente finanziati. «Ma due mesi fa - dice Gianfranco Mascia, uno dei protagonisti di questo mondo nato all´ombra della Rete - non eravamo nessuno. Ora siamo i viola!». Ora li conoscono, sanno che possono portare domani, a Roma, in piazza del Popolo, decine di migliaia di persone. Un clic e la gente, in carne ed ossa, arriva. Un clic e i tanti italiani «stanchi del marcio e del marciume», donano il loro contributo alla causa. Chi due euro, chi seicento. Tutto visibile online, massima trasparenza, nel Paese dell´opacità.
Guglielmo Epifani, segretario della Cgil, manda gli auguri per un evento «che sia bello e sereno», con la solennità che si usa quando si riconosce il ruolo dell´interlocutore: «I temi che vi portano a manifestare suscitano in noi la stessa vostra preoccupazione». Articoli 1, 3 e 21 della Carta. Lavoro, uguaglianza davanti alla legge, libertà di stampa... Anche il Pd ci sta con molto più calore della volta precedente. «La nostra spinta, la nostra energia - dice Mascia - servono anche a loro. E il fatto che non ci siamo presentati con una nostra lista viola alle elezioni, evitando così un errore a mio avviso mortale, ha sciolto pregiudizi e diffidenze». Non sono un pericolo, semmai un aiuto.
Si dichiarano fuori dai giochi, dalle "gelatine" della politica. Il loro "libretto rosso" è la Costituzione. Sempre Mascia, pashmina viola al collo: «Per la prima volta una iniziativa di autoconvocati riscuote l´adesione dell´intera opposizione, dal Pd all´Italia dei Valori, da Sel alle altre forze di sinistra, con l´unica defezione dell´Udc». Una certa simpatia per questi outsider la nutre anche Fabio Granata, deputato, uno degli uomini più vicini a Fini. Ieri si è presentato al camper che i viola hanno posteggiato davanti a Montecitorio. «Ho spiegato ai ragazzi che sono molto contrario al processo breve ma considero la legge sul legittimo impedimento il male minore». Gli hanno consegnato, previa firma, la «patente viola», ma con quattro punti di penalità. Lui sorride e dice: «Non condivido la loro ossessione per Berlusconi ma trovo che siano un´area dialogante». Prima di Granata, la patente viola se l´erano messa in tasca D´Alema e Fioroni. Assicura Mascia: «Siamo pronti a ritirargliela se voteranno una qualunque delle leggi ad personam».
A domani, dunque. Con lo striscione-guida che dice: «Basta! La legge è uguale per tutti». E a incorniciare il palco una frase di Alain Touraine (pronunciata in un´intervista al manifesto) che rende onore alla sfida dei viola: «Sono uomini e donne disposti a mettersi in cammino».


il Fatto 26.2.10
“Non toccare il mio amico” Sos contro il razzismo in Italia
Lo scrittore Khouma: “Primo pericolo l’indifferenza”
di Stefano Citati

Sì, l’Italia sta diventando più razzista grazie alle parole di alcuni e all’indifferenza degli altri.
Per questo l’associazione Sos racisme, storica organizzazione che da 25 anni combatte in Francia contro la xenofobia e l’associazione gemella Sos razzismo italiana ha lanciato una campagna e una sottoscrizione di firme di personalità e comuni cittadini per tenere alta la guardia.
Tra i firmatari Pap Khouma, scrittore senegalese diventato cittadino italiano che descrive l’effetto combinato dell’offensiva verbale (e non solo) e la sempre maggiore indifferenza con la quale la società civile sembra reagire.
“A forza di sentir ripetere parole come quelle degli esponenti della Lega sempre più persone si possono sentire autorizzate a pensare in modo razzista; è come se il linguaggio di alcuni politici avesse sdoganato delle idee che un tempo erano tabù. Con la scusa della libertà d’espressione si finiscono con dire cose gravissime alle quali sempre più persone mi pare reagiscano con rassegnazione. È come se l’indignazione fosse finita, contingentata e a furia di ripetere certi discorsi non ci fosse più la capacità, la volontà, di reagire. Spesso ormai chi non è d’accordo si rifugia nel ‘lasciamo perdere, intanto se lo dice Calderoli...’. Ma non stiamo parlando di comici che provocano, stiamo parlando di politici che hanno il potere di fare le leggi. Non è possibile non dare importanza a queste provocazioni, o smettere di dargli importanza perché ormai sono trite e ritrite.
Lo sciopero annunciato da parte degli immigrati che si terrà lunedì può esser e un modo per sottolineare la situazione e ridare peso e importanza alla questione?
Chi subisce gli attacchi razzisti quasi sempre non ha voce; quella di lunedì è almeno un modo per dare voce, per unire le voci, della parte più debole del Paese. Quando un immigrato viene attaccato non si può reagire con il silenzio, dobbiamo prendere per primi noi coscienza e condividere la nostra condizione: il 1° marzo lo sciopero produrrà danni solo simbolici ma sarà una prima volta e sottolineerà che noi immigrati non siamo solo un allarme sociale, una massa indistinta da usare e poi colpire, uno strumento solo per raccattare voti. È facile colpire noi, come sparare sulla Croce Rossa, ci vuole solo pelo sullo stomaco. Certo gli immigrati, i clandestini, sono esattamente come il resto della società civile: sono individui, buoni o cattivi, bravi o meno, come i politici che siedono in Parlamento ma truffano, hanno le stesse debolezze e la stessa dignità. Ma dobbiamo arrivare a far capire a tutti, italiani ed europei, che proprio la terra e i popoli che hanno creato il multiculturalismo, che sono partiti e sono andati a vivere nel resto del mondo, adesso non vogliono più quello che hanno creato, ora che il multiculturalismo l’anno in casa loro”.

l’Unità 26.2.10
Il caso Fisichella
Abortoomicidio la «pia frode» e il Vaticano
di Maurizio Mori

La richiesta di dimissioni di mons. Rino Fisichella dalla presidenza della Pontificia Accademia per la Vita avanzata da cinque membri della stessa Accademia difensori della stretta ortodossia attraverso uno Statement reso pubblico il 16 febbraio scorso è un fatto significativo.
Di solito i più ortodossi si sono sempre attenuti alla via gerarchica e riservata. Ora invece rompono gli argini con una carica di nomina papale e non elettiva, per cui scontata era la reazione vaticana: «stupisce e appare non corretto che a tale documento venga data una circolazione pubblica» prima di averlo trasmesso a chi di dovere. Prima era la “sinistra” che ricorreva all’azione pubblica, adesso anche la “destra” scrive a chiare lettere che «c’è una ragionevole speranza che il Santo Padre riconoscerà l’esigenza di assegnarge a Fisichella un’occupazione più adatta alle sue capacità» visto che «non capisce cosa comporta il rispetto assoluto per le vite umane innocenti». Questo scambio delle parti è di per sé interessante. Ma ci si deve chiedere: è un segno di forza o di debolezza per la dottrina più tradizionale?
Il problema è posto dal caso della bambina brasiliana di 9 anni incinta di due gemelli per i ripetuti stupri del patrigno, risolto lo scorso anno con l’aborto terapeutico legale in caso di stupro e/o di alto rischio di vita. È irrilevante discettare se il rischio fosse davvero alto: il caso è tanto estremo e tragico da far credere che almeno lì l’aborto terapeutico era giustificato. Invece il vescovo Sabrinho lanciava la scomunica dando grande pubblicità al caso e suscitando polemiche. Su L’Osservatore Romano del 15 marzo 2009 Fisichella suggeriva un comportamento più prudente e mite teso più alla comprensione che alla condanna: per i critici l’eccezione buonista che apre la classica crepa che fa crollare la diga.
Era dai tempi di Pio XII che non veniva più esplicitamente ripetuto che l’aborto non è mai lecito neanche quando necessario per salvare la madre da morte. Per Fisichella questa tesi doveva restare sottotono essendo incomprensibile ai più, mentre per gli altri va riaffermata e proclamata senza timori. Questa divergenza è un altro segno dei tempi. È la prima volta che un vescovo afferma sia meglio glissare sul divieto assoluto di aborto terapeutico, quasi riconoscendo l’impossibilità di risalire la china diffusa. Inoltre, così facendo emergerebbe che l’aborto è una violazione dell’“ordine creaturale” ma non una forma di omicidio, col rischio che diventi palese che l’attuale condanna dell’aborto come omicidio è una sorta di “pia frode” diffusa per tamponare la diga della sacralità della vita ormai in via di smantellamento. ❖

l’Unità 26.2.10
Intervista a Shirin Ebadi
«Il regime è violento ha paura dell’altro Iran»
La Nobel per la pace: «Il movimento di protesta è un moto popolare non ha ideologie ma chiede diritti. E le donne sono in prima fila»
di Gabriel Bertinetto

Al telefono da Ginevra, dove partecipa a un convegno della «Federazione internazionale per i diritti umani» (Fidh) Shirin Ebadi, premio Nobel per la pace, paladina dei diritti umani in Iran. Signora Ebadi, da tempo lei gira il mondo patrocinando la causa dei diritti umani e civili violati in Iran. Ha l’impressione che oggi i popoli ed i governi comprendano meglio quanto accade nel suo Paese? «Credo di sì. Precedentemente quando si parlava di Iran, l’immagine prevalente era quella di uomini dalla lunga barba e donne velate vestite di nero. Ma le proteste pacifiche seguite al voto ed ai brogli hanno aiutato la comunità internazionale a crearsi un’idea diversa degli iraniani, come di cittadini amanti della democrazia». La Repubblica islamica ha una lunga storia di violazioni dei diritti umani. La situazione attuale è, a suo giudizio, solo la continuazione di un male endemico, oppure presenta caratteri originali?
«Credo che stiamo assistendo ad un peggioramento. Ciò che pero mi rallegra è che oggi in Iran ci sono molti più difensori dei diritti umani rispetto a prima. In passato di fronte alle violazioni commesse dal governo erano pochi a reagire ed a manifestare. Pochi osavano anche solo sollevare l’argomento. Ma ora cresce il numero di coloro che protestano e reclamano il rispetto dei più elementari diritti che ci vengono negati».
Questo indurimento nella repressione deriva dal desiderio che il regime ha di mostrare che non teme la contestazione, oppure al contrario è figlia della paura che si diffonde tra i dirigenti di fronte alla protesta popolare?
«Un regime che goda di un solido appoggio popolare non perpetrerebbe mai atti di violenza contro i cittadini. Dunque ritengo che il comportamento del regime dipenda dalla paura. E da cosa altro potrebbe scaturire la decisione di vietare alla gente di manifestare e di reprimere la libertà di associazione? Temono che i cittadini si riuniscano e agiscano assieme».
Neda Soltan, è diventata il simbolo della pacifica lotta degli iraniani per la libertà. Come spiega che così spesso in Iran le donne siano in prima linea,
sia come vittime dell’oppressione che come protagoniste della resistenza? «Lo trovo piuttosto normale. È logico che coloro che sono le prime a patire per la negazione dei diritti, siano poi anche all’avanguardia nella battaglia per ottenerne il rispetto». Il giorno dell’Ashura alcuni militari si sono rifiutati di sparare sulla folla. Singoli episodi di pietà, o la punta emergente di una rivolta etica che scuote gli stessi apparati di sicurezza? «Potrei dire in generale che molti esponenti del regime non condividono l’oltranzismo di Ahmadinejad. C’è chi valuta che osando troppo sul cammino della violenza si possa danneggiare il regime e provocarne la caduta. Molti sanno che se ciò avvenisse, sarebbero i primi a rimetterci. Ecco perché si oppongono ad esagerazioni ed estremismi».
Cosa distingue l’onda verde da precedenti mobilitazioni per la libertà e la giustizia? La dimensione numerica, la maggiore determinazione, la chiarezza degli obiettivi? «Credo sia evidente una cosa. Coloro che partecipano alle dimostrazioni sono mossi dalla volontà di perseguire obiettivi molto chiari: democrazia politica e rispetto dei diritti umani. Ma c’è anche un’altra differenza tra questo movimento ed altri del passato, ed è che l’iniziativa appartiene alla società. Il movimento è diretto dal popolo, non da Mirhossein Mousavi o Mehdi Karroubi. I leader non sono alla testa dei cittadini, piuttosto ne accompagnano l’iniziativa. Questa è una importante novità».
La Repubblica islamica sta agonizzando? «Posso solo dire che è molto indebolita. Ma da qui a dire che sia in agonia, ne passa. Non voglio spingermi così lontano. Penso che sia un dibattito prematuro. È troppo presto per emettere un verdetto così drastico». Si vede però che molte figure preminenti del cosiddetto establishment prendono le distanze dal capo di Stato Ahmadinejad e dalla Guida suprema Khamanei. Non è il segno di un crescente isolamento dei vertici?
«Sì, è vero che il sistema sta perdendo l’appoggio popolare, e contemporaneamente pezzi sempre più grandi di società se ne distaccano. Le massime autorità hanno meno sostenitori, sono più sole».
Lo Shah fu rovesciato anche in nome dell’Islam. Che ruolo ha oggi il sentimento religioso nel contesto dello scontro sociale e politico in atto? Gioca a favore dell’onda libertaria o è strumento della repressione?
«Direi che il sentimento religioso oggi in Iran è un po’ attenuato anche a causa degli arbitri e delle violenze che sono stati commessi facendosi scudo della fede. Non voglio dire che la gente sia meno devota di prima, ed anzi le convinzioni musulmane rimangono salde. Ma credo che sempre di più si imponga la coscienza che lo Stato e la religione devono essere due sfere distinte e separate».
Prevale dunque nell’opposizione chi rifiuta le basi ideologiche stesse della Repubblica islamica rispetto a chi denuncia nell’autoritarismo dittatoriale il tradimento dei valori fondanti del khomeinismo?
«Posso solo dire che l’onda verde non è un movimento ideologizzato. È una grande iniziativa popolare a carattere democratico. Fra coloro che manifestano nelle strade, hanno spazio le opinioni più diverse». La comunità internazionale sta agendo bene nei confronti dell’Iran? «Sarebbe opportuna una maggiore diffusione di informazioni, anziché limitarsi al contenzioso sul programma nucleare. Occorrerebbe occuparsi di più dei diritti umani violati e delle speranze di cambiamento degli iraniani. Quello che chiedo poi alla comunità internazionale sono atti concreti per vietare certi tipi di transazioni commerciali. Bisognerebbe astenersi dal firmare contratti che consegnano ai dirigenti di Teheran gli strumenti per opprimere i loro concittadini. Mi riferisco in particolare agli accordi raggiunti con aziende come Nokia e Siemens che forniscono allo Stato iraniano la tecnologia per controllare, censurare, bloccare le comunicazioni via Internet e la telefonia mobile.
Dunque lei approva le sanzioni contro l’Iran? «Dico sì a sanzioni che impediscano la vendita di strumenti d’oppressione, come le armi o i gas lacrimogeni».
Da quasi un anno lei non torna in patria. Cosa teme? La prigione, violenze fisiche? «Non ho paura. Sono i miei colleghi a Teheran che mi suggeriscono di non tornare. Dicono che la situazione è terribile e sarebbe estremamente difficile per me svolgere qualunque attività a casa, mentre all’estero posso fare molto di più per trasmettere i messaggi di denuncia e di proposta dei connazionali. In Iran mi sarebbe impedito parlare e comunicare. Ma non appena mi diranno che hanno bisogno di me, e posso essere più utile là di quanto non lo sia all’estero, non esiterei un momento a rientrare».
I suoi familiari hanno subito ritorsioni per causa sua da parte del potere. Come stanno adesso? «Mio marito fu messo in prigione per alcuni giorni e poi rilasciato con il divieto però di espatriare. Mia sorella è stata arrestata e poi rimessa in libertà dopo tre settimane. Né l’uno né l’altra hanno mai svolto attività politiche o sociali di qualunque tipo. Il fermo fu loro motivato così: se non siete in grado di far cessare le sue attività a Shirin Ebadi, sarete voi a patirne gli effetti. Evidentemente si sono poi resi conto che quel ricatto non funzionava, ed io avrei continuato la mia attività. E li hanno lasciati andare».❖

l’Unità 26.2.10
Il destino crudele di Chopin
L’anniversario Duecento anni dopo la sua nascita il compositore ancora sconta la sua dannazione: essere considerato un romantico per forza, amato dalle signore dei salotti bene. E invece era un grande rivoluzionario
di Giordano Montecchi

Gran brutta storia per un musicista nascere nei giorni del Festival di Sanremo. Puoi diventare famoso o importante più del padreterno, ma se c’è il Festival di mezzo, in Italia il tuo compleanno non se lo fuma nessuno. Pare proprio che la stampa italiana, così pronta a festeggiare i più arzigogolati anniversari quando c’è qualche comitato d’affari che spinge o quando la tv non offre carnazza da mettere in pagina, si siano dimenticati di quella creaturina gracile nata il 22 febbraio del 1810 e che prese nome di Fryderyk Franciszek Chopin. A dire la verità non è proprio esatto che ci si sia scordati di questo compleanno, solo che la concomitanza di un evento canoro di portata addirittura principesca ha spinto tutti quanti a risolvere ipso facto quel dubbio che gli studiosi ciancicano da duecent’anni: se Chopin sia nato il 22 febbraio come dice il certificato di battesimo, oppure il 1 marzo come lui era solito dire. Dubbio caprino se si vuole, ma comunque risolto grazie alla tv: per l’Italia Chopin è nato il 1 marzo. Scommettiamo?
Duecent’anni, ma lui non arretra. Chopin rimane, tanto roccioso nella vita postuma, quanto cagionevole nella travagliatissima sua esistenza; presenza costante e salvifica nei programmi da concerto, nei cd che stazionano tanto nei negozi specializzati sopravvissuti, quanto nei gironi infernali degli ipermercati; e anche negli spartiti adagiati sulle miriadi di pianoforti che adornano le case del pianeta (ornamento così raro dalle nostre parti).
Eroe indiscusso Chopin, forse insuperato, di quella specialissima categoria che Paolo Castaldi definì i musicisti «amati dal pubblico». La sua è una longevità inattaccabile, superiore a chiunque altro, fors’anche a Mozart la cui enorme recente fama è in fin dei conti un fenomeno mediatico. Chopin, lui, c’era già prima di Amadeus e nessuno potrà mai fare ombra ai suoi Walzer e ai suoi Notturni, e neppure ai suoi Preludi, Polacche, Studi, Scherzi, Ballate... E visto che ci siamo lasciatemi spendere una parola per quelle Mazurke che restano a modesto avviso di chi scrive i suoi gioielli più luminosi.
IL SUO MODELLO? BACH
Destino curioso o crudele per questo musicista diventare l’icona stessa del romanticismo più esteriore e senza controllo, lui che ebbe come suo modello Bach, che scansò rigoroso tutte le romanticherie alla moda della sua epoca, e che inveiva quando un editore marchiava qualche sua pagina con quei titoli che rimanevano poi indelebili, come tatuaggi indesiderati, fra Cadute di Varsavia, Tristezze, Gocce d’acqua ecc. (fatevi un giro su wikipedia e rabbrividite!).
Troppo evocatrice, emozionante e insieme sperimentale era la sua poesia sonora: intuizioni folgoranti scaturite dal muoversi stesso delle dita sulla tastiera; melodie che il più sublime operista gli avrebbe invidiato senza mai riuscire a eguagliarle; costruzioni così anomale eppure miracolosamente in equilibrio.
Così come le rivoluzioni vere sono quelle che sfuggono ai più, Chopin fu autentico rivoluzionario e come tale avversato non dal pubblico, che ne sentiva la tremenda nuova e conturbante bellezza e verità, ma dai colleghi e dai critici che, infastiditi dal suo lessico, dipinsero la sua musica come il paradigma dello sfascio morale, della malinconia, del morboso, di tutto ciò con cui signorine e giovani per bene non avrebbero mai dovuto avere a che fare. Fu così che Chopin divenne l’eroe ante litteram della décadence, finì tra mani che senza ritegno vi pomparono lacrime e svenimenti, deliqui ed assenzi, kitsch e feticismi.
IN MEZZO I FURBETTI
La reazione fu inevitabile: ai cesellatori dello Chopin d’antan si oppose chi volle spazzare via tutto questo fradiciume basso-romantico e ripristinare la purezza adamantina della sua musica. E siamo a oggi. Ma Chopin non è né l’uno né l’altro. E non sta neppure in mezzo, che in mezzo ci stanno solo i furbetti.
Semmai Chopin sta sopra: colui per il quale l’arte del puro comporre e l’arte di toccare nel profondo sono esattamente, miracolosamente la stessa cosa. Maestro immenso Chopin, monito perenne sia per chi si crede artista sfrucugliando le note come fosse un sudoku, sia per i piazzisti di easy listening o per gli spacciatori di mélo basso corporeo.

Repubblica 26.2.10
Dubai, licenza d'uccidere per la vendetta del Mossad
di Vittorio Zucconi

Alle 21 del 19 gennaio, in un lussuoso hotel di Dubai, un alto esponente di Hamas è stato assassinato. A portare a termine l´omicidio è stato un commando dei servizi segreti israeliani Una missione perfetta, svelata dalle telecamere dell´albergo Ma forse i killer avevano previsto anche questo
La vittima è stata soffocata e tenuta immobile perché la morte sembrasse naturale

Le note languide e inevitabili di Casablanca avevano appena cominciato a diffondersi dal pianoforte a coda Kawai nella hall dell´albergo, quando il morto entrò nell´hotel Al Bustan, «il giardino», di Dubai, reggendo il sacchetto con le scarpe nuove appena acquistate.
Lo vediamo voltarsi all´indietro un paio di volte, nelle immagini registrate dalle telecamere di sorveglianza a circuito chiuso, il morto che ancora non sapeva di essere morto, per l´abitudine nervosa del cospiratore, del terrorista, del killer quale lui era, senza vedere che fra i turisti con le racchette da tennis, le coppie in viaggio di nozze, gli uomini d´affari che circolavano sotto le grandi volte del «Giardino», c´erano coloro che pochi minuti dopo l´avrebbero soffocato con un cuscino in faccia.
Erano le 20 e 24 di martedì 19 gennaio. Dieci anni di un´operazione «bagnata», come l´avrebbe classificata il vecchio Kgb sovietico, cominciata nel 2000, avrebbero eliminato quel giorno Mahmoud Al Mabhouh, palestinese, capo della sezione omicidi e rapimenti di Hamas e bersaglio designato per la vendetta senza confini e senza scadenza dei servizi israeliani.
Le note languide e inevitabili di Casablanca avevano appena cominciato a diffondersi dal pianoforte a coda Kawai nella hall dell´albergo, quando il morto entrò nell´hotel Al Bustan, "il giardino", di Dubai, reggendo il sacchetto con le scarpe nuove appena acquistate.
Lo vediamo voltarsi all´indietro un paio di volte, nelle immagini registrate dalla telecamere di sorveglianza a circuito chiuso, il morto che ancora non sapeva di essere morto, per l´abitudine nervosa del cospiratore, del terrorista, del killer quale lui era, senza vedere che fra i turisti con le racchette da tennis, le coppie in viaggio di nozze, gli uomini d´affari che circolavano sotto le grandi volte del "Giardino", c´erano coloro che pochi minuti dopo l´avrebbero soffocato con un cuscino in faccia.
Erano le 20 e 24 di martedì 19 gennaio. Dieci anni di un´operazione "bagnata", come l´avrebbe classificata il vecchio Kgb sovietico, cominciata nel 2000, avrebbero eliminato quel giorno Mahmud Al Mabhouh, palestinese, capo della sezione omicidi e rapimenti di Hamas e bersaglio designato per la vendetta senza confini e senza scadenza dei servizi israeliani. Aveva prenotato la cena in uno dei dieci ristoranti dell´albergo, il Benihana, una catena americana che offre finta cucina giapponese e asiatica con grande sfoggio di cuochi prestigiatori e acrobazie di coltelli, ma la vendetta del Mossad non gli avrebbe concesso neppure quell´ultimo pasto.
Alle 21, mentre i cuochi del Benihana si preparavano ad affettare e arrostire per lui scampi, capesante, melanzane e cipolle davanti alla sua sedia vuota, il morto era già morto.
La ragnatela che per dieci anni un ragno implacabile aveva cominciato a tessere attorno a lui, al palestinese che aveva osato non soltanto sfidare la collera di David, ma vantarsene pubblicamente sulle emittenti arabe come al Jazira, citando i soldati israeliani che aveva rapito e ucciso, aveva impigliato la mosca nella propria rete di inganni, di "false flags", di bandiere e documenti falsi, come si dice nel gergo delle spie. Un tessuto di informatori, di agenti con licenza di uccidere chiunque ovunque nel segno della legge del taglione, che tutti sanno, e nessuno ammette, fanno capo al Mossad, all´"Istituto", come banalmente e burocraticamente si chiama il braccio spionistico dello Stato d´Israele, e all´ancor più misteriosa sezione per gli "affari bagnati", gli assassini, leggendariamente conosciuta come la Kidon, "la baionetta".
Al Mabhouh, che pure doveva sapere di essere da tempo sul podio più alto dei candidati alla vendetta d´Israele, si comporta con straordinaria leggerezza, nelle ultime ore della sua vita, forse cullato dalla lussuosa illusione di quell´emirato arabo. Era partito il giorno prima da Damasco, sul volo EK 912 della compagnia aerea degli Emirati, naturalmente in business class, come si conveniva a un dirigente, politico o terroristico non importa, con un biglietto già pagato per proseguire - non sappiamo perché - verso Pechino. Dubai non era una scelta necessaria, ma una gradita sosta, una pausa per ristorarsi e fare ciò per cui milioni di persone sbarcano nei suoi alberghi: shopping. Al Bustan è l´oasi preferita per viaggiatori che vogliano evitare la pacchianeria di alberghi più vistosi, accogliente, moderato nei prezzi e nel décor, affidato a colori tenui, a toni di beige, di azzurri e di marrone, come le sabbie della Penisola araba e la acque del Golfo. Si era concesso, con i soldi di Hamas, una junior suite, una stanza grande con un ampio letto matrimoniale e una zona soggiorno, separata da un tramezzo con l´inevitabile televisore piatto. La stanza 230. L´ultima maglia della ragnatela.
Di fronte a lui, nella stanza 237, era scesa una coppia di turisti con passaporto inglese, in apparente viaggio di nozze, una giovane donna con lunghi capelli bruni, chiamata «Gill», e un uomo, entrambi assolutamente trascurabili nell´aspetto, come vuole la regola dello spionaggio ben diversa dalla favole degli 007: persone delle quali ti dimentichi nel momento stesso in cui le vedi. Gill, che indossa una parrucca, e il suo compagno, anche lui con passaporto inglese falso, non erano gli assassini, erano gli "spotters", le civette, i pali. Un´essenziale maglia della rete, che l´occhio delle telecamere ci mostra mentre vagano, apparentemente senza scopi precisi, nella hall e nel corridoio del piano, fra la stanza 237 e gli ascensori.
Quando il morto arriva, a sera, loro se ne vanno. Al loro posto, appaiono le due coppie di assassini con licenza di uccidere, quattro uomini vestiti da turisti trasandati, i soliti squallidi cappellucci da baseball in testa, t-shirt, felpe, scarpe da ginnatica ai piedi e borse in mano.
In totale, ma ancora la polizia del Dubai che ha riscostruito sequenza per sequenza l´assassino non ha definito un numero conclusivo, almeno 25 persone avevano tessuto la ragnatela. Uomini e donne con passaporti falsi intestati a persone vere, inglesi, francesi, tedeschi, australiani, innocenti cittadini israeliani con doppia cittadinanza che hanno scoperto, a cadavere ormai freddo, di essere stati usati, senza saperlo, per un´esecuzione. Con l´immediata collera diplomatica dei governi coinvolti, ormai a cose fatte. Venticinque fra uomini e donne che nelle ventiquattr´ore finali del piano avviato nel 2000, si muovono freneticamente. Atterrano tutti lo stesso giorno in cui sbarca il bersaglio, Al Mabhouh, e gli occhi delle telecamere li individuano mentre passano la frontiera. Sono stati informati della partenza e dell´arrivo della preda da informatori palestinesi di Al Fatah, l´organizzazione che Arafat creò e che odia Hamas, ricambiata. I reciproci tradimenti e odi fra arabi, che invariabilmente si giurano in pubblico solidarietà e fratellanza mentre affilano i coltelli in privato, sono una delle certezze del puzzle mediorientale.
Si muovono come palline da flipper, cambiando alberghi più volte per confondere le tracce, si disperdono negli immensi shopping center dove pedinare qualcuno è impossibile, prenotano stanze che non occupano. Al mattino del 19, il giorno del delitto, fissano per telefono la stanza 237. Vagolano con racchette da tennis. Salgono e scendono ai piani dell´hotel Al Bustan, giustificati dall´avere una stanza lì. E due di loro forzano le serratura elettronica della suite vuota di Al Mabhouh, ingannando il computer centrale che registra gli accessi, con una tessera magnetica e un apparecchio che registra la combinazione, come le truffe ai bancomat. Sono l´avanguardia dell´assassinio.
Nella suite dove il bersaglio entra poco prima della nove di sera, si nascondono dietro il tramezzo fra la zona soggiorno e il letto. Quando Al Mabhouh arriva con il suo sacchetto in mano, lo paralizzano con una scarica elettrica dei loro "taser", che scaricano centinaia di volt ma non lasciano tracce evidenti. Al Mabhouh collassa. Le seconda coppia di assassini entra e, secondo il nuovo esame autoptico all´ospedale Al Rashid, lo soffoca sul lettone con il cuscino, immobilizzandolo sopra le lenzuola di magnifico lino italiano perché non le scompigli troppo e la morte sembri una morte naturale. Se ne vanno tutti e quattro insieme, gli ultimi rimasti della grande squadra, e davanti all´ascensore che li accoglie accennano a qualche cerimonia per chi deve passare per primo, forse per grado e rango. Meno di ventiquattr´ore dopo, quando il cadavere viene scoperto, si sono tutti dissolti, decollati verso Hong Kong, Londra, Francoforte e molti verso il Sudafrica, la nazione africana che più di ogni altra ha una lunga storia di collaborazione e di complicità con Israele.
Un´operazione perfetta. Un ballo degli assassini magnificamente coreografato per eliminare un assassino, se non fosse stato condotto sotto quegli occhietti delle telecamere e se la polizia di Dubai non fosse riuscita a individuare, in ore e ore di registrazione, gli agenti.
Un errore da troppa sicurezza? Una scelta deliberata, per mostrare al mondo che i nuovi "maccabi", i guerrieri vendicatori che lavorano per l´"Istituto", possono colpire chi vogliono, quando vogliono e ignorare le proteste di governi anche amici? Nulla, in Medio Oriente, è mai quello sembra ed è difficile immaginare che il Mossad non sapesse che tutto viene visto e registrato. Un mistero: dove sono finite le scarpe nuove che il morto lasciò cadere sulla moquette color paglia della stanza 230?

Repubblica 26.2.10
Una "talpa" ha dato il via alla fase finale del blitz
Nel complotto anche palestinesi
di Fabio Scuto

Il Mossad, così come altri servizi di intelligence, finisce per attirare l´attenzione soltanto qualcosa va decisamente storto o quando si rende protagonista di uno spettacolare successo operativo e vuole mandare un segnale forte e chiaro ai suoi nemici. L´eliminazione del comandante di Hamas Mahmud Al Mabhouh ne è la dimostrazione più evidente.
È ai primi di gennaio che l´operazione Dubai entra nella sua fase operativa. Nella Ha-Midrasha ("l´accademia"), la sede del servizio segreto a nord di Tel Aviv - un complesso che tutti chiamano «Il dito di Dio» per via delle altissime antenne che svettano sui tetti - arriva il primo israeliano Benjamin Netanyahu per incontrare Meir Dagan, il capo del Mossad. È qui, secondo la stampa israeliana, che l´ex generale che da sette anni guida l´"Istituto" illustra al premier i termini dell´operazione: spetta a lui l´ultima parola, la decisione finale. Dagan spiega che l´operazione è già stata "provata" in un grande hotel del lungomare di Tel Aviv, senza avvertirne la direzione, e che tutto è andato come previsto. I due, dopo un colloquio a quattr´occhi, si trasferiscono in un´altra stanza dove il premier incontra alcuni degli agenti operativi che saranno coinvolti nel caso. «Il Paese conta su di voi. Buona fortuna!», è la frase di commiato che scioglie la riunione.
I ventisei agenti che dovranno andare a Dubai, ventuno uomini e sei donne, sono "in vacanza" nell´Unione europea. Il segnale arriva per loro il 18 gennaio: una "talpa" da Damasco avverte che l´"obiettivo" ha comprato su internet un biglietto aereo per Dubai per quel giorno e ha prenotato una stanza al Bustan. Da Zurigo, Roma, Parigi e Francoforte i 26 arrivano all´aeroporto dell´Emirato, tutti con voli a cavallo della mezzanotte. Scendono in sei diversi hotel. A operazione conclusa l´indomani, nell´arco di tre ore, tutto il team lascia il piccolo Emirato sciogliendosi in dieci rotte diverse, chi va a Hong Kong, chi a Amsterdam, chi a Zurigo.
Non si porta a termine un´operazione in grande stile come questa senza una solida fonte nel cuore del nemico, e nel gioco doppio e triplo il Mossad non è secondo a nessuno. Portano a Gaza le tracce della "Palestinian connection", a una casa anonima, quella della famiglia Massud. Tre fratelli, tutti miliziani di Hamas, dai nomi di battesimo singolari: Nehru, Tito e Nasser, dati in onore dei leader terzomondisti molto popolari fra i palestinesi negli anni Sessanta. A essere impelagato nell´affaire, che ha scatenato veleni e accuse reciproche di complicità fra gli eterni rivali Hamas e Fatah, è Nehru, fedelissimo del giro di Khaled Meshaal (il numero uno di Hamas, che vive a Damasco) finito in galera in Siria e sospettato di essere la "talpa" che ha passato le informazioni sugli ultimi decisivi spostamenti di Al Mabhouh.
Ma ci sono altri due palestinesi coinvolti, arrestati in Giordania e ora in cella a Dubai. Si chiamano Ahmad Hasnain e Anwar Shekhaiber. Entrambi sono ex funzionari degli apparati della sicurezza dell´Anp di Gaza. Due figure di medio rango che dopo il fallito contro-golpe del 2007 di Mohammed Dahlan, ex delfino di Arafat, per rovesciare Hamas nella Striscia di Gaza, sono fuggiti a Dubai, dove si sono rifatti una vita da businessmen. Nelle ore dell´omicidio di Al Mabhouh i due hanno lasciato in gran fretta Dubai. Uno di loro, secondo la polizia dell´Emirato, ha incontrato brevemente uno degli uomini del commando del Mossad. «È la prova del profondo coinvolgimento dell´Anp nell´assassinio di un nostro fratello», dice al telefono Fawzi Barhum, portavoce di Hamas nella Striscia. «Hamas farebbe bene a guardarsi dalle infiltrazioni nelle sue fila», ribatte secco da Ramallah Adnan Demeiri, capo dei servizi di sicurezza dell´Anp. «Le due versioni non sono contrastanti, anzi potrebbero essere complementari», spiega a Repubblica un esperto di un servizio di sicurezza arabo: «se il Mossad li avesse usati entrambi?».
L´armiere di Hamas ucciso, i due principali gruppi palestinesi che si accusano reciprocamente di tradimento, nessun uomo lasciato sul terreno, tracce che si perdono in dieci diversi aeroporti nel mondo. Sembra la realizzazione del motto del Mossad: «Per mezzo dell´inganno faremo la guerra».

Repubblica 26.2.10
Le grandi intuizioni arrivano in gioventù ma per l´accademia contano solo gli anziani
A quanti anni si diventa geni
Il Wall Street Journal: cresce l'età dei ricercatori, ora l'innovazione è a rischio
di Alessandra Retico

La meglio gioventù della scienza. Un tempo era roba da ragazzi, le scoperte migliori le facevano loro. Tra un appuntamento galante e giornate pazze con gli amici. Il 24enne James Watson andava parecchio dietro alle donne, poi con medesima passione tornava in laboratorio a Cambridge, lavorava allegro. Chissà se è stata quella spensieratezza a fargli individuare la struttura del Dna, su cui scrisse un anno dopo, nel ‘53, uno dei più importanti studi insieme ai compagni di felicità Crick e Wilkins. Il trio nel ‘62 vinse anche il Nobel per la scoperta sulla struttura molecolare degli acidi nucleici. Altro che bruciata, era una gioventù infuocata di intelligenza.
Isaac Newton di anni ne aveva 23 quando cominciò a studiare quello che diventerà il teorema binomiale (la formula per elevare a una qualsiasi potenza un binomio) e il calcolo infinitesimale; Albert Einstein pubblicò i suoi migliori scritti a 26 anni, e 24 compiuti erano quelli di Heisenberg quando formulò l´idea della meccanica matriciale, meccanica quantistica in nuce, che sette anni dopo gli valse il Nobel per la fisica. Il mondo era diverso, ma l´anagrafe no, tutti loro erano ragazzi e per molti versi immaturi.
La primavera della vita e la creatività sono state a lungo associate: lo sguardo senza esperienza come visione senza pregiudizi, più fresca e acuta sulle cose. Jonah Lehrer, neuroscienziato di successo ad appena 28 anni, autore del recente Come decidiamo (Codice Edizioni), affronta l´equivalenza giovane=creativo sul Wall Street Journal, mettendola alla prova dell´oggi: l´innovazione è a rischio perché il numero degli scienziati giovani è drammaticamente in calo. Nel 1980, spiega Lehrer, la maggior percentuale dei finanziamenti del National Institutes of Health americano è andato a ricercatori trentenni, nel 2006 ai 40enni. Un anno dopo, proporzionalmente, hanno preso più soldi i 70enni che non gli under 30. Una curva che segue solo in parte l´invecchiamento della popolazione mondiale e in particolare dei baby boomers, dall´altra tradisce il conservatorismo delle accademie. Anche se qualcosa sta cambiando in America, molte no-profit e fondazioni "rischiano" ma sanno di innovare finanziando solo i giovani. Una chimera in Italia.
Ma poi: è vero che esiste nella vita un picco di creatività che spesso si raggiunge molto presto? Lehrer cita molti studi sul tema, in particolare quelli ultra decennali dello psicologo Dean Simonton dell´Università della California, che ha dimostrato come i fisici facciano le scoperte più importanti entro i vent´anni, da cui il detto che se il Nobel non arriva prima del matrimonio allora non ci si speri più. Solo un´altra professione è altrettanto performativa della fisica, dice Simonton: la poesia. Entrambi ostili ai luoghi comuni, aperti alle sorprese, interessati a combattere lo status quo. Teorie sulla creatività per niente oziose, molti economisti le fanno proprie. Come Paul Romer, della Stanford, che studia il ruolo che hanno le idee nel generare crescita: «Gli anziani guidano, i giovani fanno fatica a fare qualcosa di veramente differente». La gerontocrazia come tappo al cambiamento. Certo, di per sé l´età non è un valore, e molti hanno prodotto capolavori da anziani (Tiziano, Goya, Beethoven). Ma che non sia un alibi. La meglio gioventù, aspettando, peggiora.

Repubblica 19.3.10
IL GAY DELLA FGCI
intervista di Stefano Malatesta

ROMA - Nichi Vendola ha 26 anni, è pugliese. Qualche giorno fa è stato eletto membro della segreteria nazionale della Fgci, la Federazione giovanile comunista. Ha un viso gradevole. In testa calza un berretto blu con visiera, da studente svedese. Intorno al collo è annodata una sciarpa di lana bianca. Porta al lobo sinistro un orecchino d' oro. Nichi Vendola è un gay, il primo attivista omosessuale entrato a far parte della dirigenza comunista. Dice senza asprezza polemica: "Sono sicuro che parlerai dell' orecchino d' oro. Ho già dato un' intervista in cui raccontavo un po' di cose, fatti personali e politici. Dopo ho avuto dei timori, credevo che ci fossero reazioni a Roma, nel partito. Invece i compagni sono stati benevoli. Mi hanno però avvertito: stai attento a non farti ingabbiare nel clichè, il gay alle Botteghe Oscure, eccetera. Prima c' erano i funzionari infagottati nei doppipetti grigi tagliati male, con le cravatte stonate in raso. Adesso l' omosessuale con l' orecchino. Al congresso giovanile avevo un magnifico, luminescente papillon sopra una camicia a righe. Dì, vuoi che ti stringa la mano sotto il tavolo?". Rispondo che il passaggio sotto le forche del commento becero è obbligato: cosa si vuole aspettare, finezze anglosassoni? L' umorismo in Italia, e anche altrove, è spesso di genere caserma, dovrebbe esserci abituato. Però mica posso far finta di essere venuto per le sue preclare virtù politiche di cui tutta l' Italia parla. Sono venuto perchè Vendola è il primo dirigente comunista gay dichiarato. Nel 1948 il Pci non ha espulso Pier Paolo Pasolini per indegnità morale? "Sono passati esattamente 37 anni. Sai cosa ho detto al congresso giovanile? Per noi comunisti non si tratta di difendere la grande dignità e i valori dell' omosessualità, ma di acquisire la diversità come elemento di ricchezza per chi vuole ancora trasformare il mondo. E' stato il passo più applaudito nel mio intervento". Mi ricordo di un altro intervento, più volte citato, fatto da Enrico Berlinguer quando era segretario della Fgci, su Maria Goretti: la additava ad esempio per le future generazioni dei comunisti. "Era il dopoguerra. I comunisti venivano descritti come bestie. L' accusa di essere intellettual-frocio-comunista, senza molta distinzione tra i termini, ugualmente vituperati, è stata merce corrente fino a non troppo tempo fa. Da parte del Pci si tentava di difendersi, di proporre dei modelli di moralità sotto quell' alluvione di vituperi. Il difetto stava nel prendere in prestito i modelli dalla cultura cattolico borghese". Ma c' era anche molta grettezza moralistica e bacchettona all' interno del partito. Chi conviveva con una ragazza veniva convocato e avvertito con l' usuale frase: "Compagno, è ora che regoli la tua posizione". E Togliatti ebbe dei problemi quando iniziò la sua relazione con Nilde Jotti. Secchia non scherzava. "Lo stesso Secchia, una volta caduto in disgrazia, fu accusato, non tanto larvatamente, di essere un finocchio, accusa infamante e degradante. Ma erano tempi diversi, il partito continuava a vivere in stato di allarme, non ci si potevano concedere lassismi personali con il nemico o con la sindrome del nemico alle porte. Però Pasolini, tra il ' 60 e il ' 70, già poteva scrivere liberamente anche di omosessualità su "Vie Nuove"". Pasolini era uno scrittore celebre, un poeta, "un' artista". Anche Visconti non venne mai attaccato: Togliatti ne ha fatto sempre grandi elogi. Ma era un' eccezione. L' aristocratico decadente se lo poteva permettere, proprio perchè aristocratico e decadente. L' operaio in fabbrica no. Diciamo la verità: i compagni lo avrebbero preso a calci nel sedere. "Su Visconti posso essere d' accordo. Ma lui non faceva professione di omosessualità, come non la fa Zeffirelli. In questo senso non sono "scandalosi". Invece Pasolini era provocatorio, almeno per quegli anni e il fatto che scrivesse su "Vie Nuove" è significativo. Però è vero che l' omosessuale in fabbrica, tra i compagni, non aveva vita allegra. Mio padre, comunista da sempre, un uomo magnifico, dolce, andava a fare le spedizioni per picchiare "i froci". Una volta mi ha detto: se ti ammazzassi, noi tutti potremmo riacquistare una dignità. Mi ha molto amato, ma per lui, come per tanti altri, gli omosessuali erano solo i turpi individui che adescavano i bambini nei giardinetti. Ma di queste cose non ne voglio più parlare". Non ho l' intenzione di continuare ad insistere su certi ritardi e manchevolezze del Pci. Ma qui, come in altre occasione, l' azione dei radicali mi sembra sia stata decisiva. Gli altri hanno seguito, anche con riluttanza: tutto questo non gli interessava, soprattutto non faceva parte della loro cultura. "I radicali hanno avuto dei meriti, creando movimenti, flussi, attraverso un' ottica garantista. Ma con qualche casella o piccolo spazio in più di libertà non cambi le regole del gioco, che sono rimaste quasi le stesse. Il "Fuori" voleva creare la cittadella gay, dove gli omosessuali si potessero sentir protetti. I comunisti sono sempre stati contro l' ideologia del ghetto: in ritardo, magari, però decisi a risolvere le questioni, non solo a presentarle, che è molto più facile. D' altronde basta andarsi a rileggere le centinaia di lettere che arrivavamo all' "Unità" e a "Rinascita"" durante gli anni 70: un dibattito libero". Mi dicono però che alti dirigenti del partito non siano stati particolarmente soddisfatti dell' elezione di un omosessuale nella segreteria della Fgci: Chiaromonte ad esempio. "Francamente nel Pci non ho mai avuto problemi, come li ho avuti in famiglia. Credo che oggi comunista significhi anche rispetto dell' altro, essere condannati ad una contaminazione attraverso il rapporto umano: un rischio che bisogna accettare. Lo sguardo inquietante di un altro uomo può farti crollare il tuo castello di certezze, ma è inutile e stupido fuggire. Sono i liberali che hanno sguardi paralleli, che non s' incrociano mai: l' idea del rapporto come due monologhi. Questa è mummificazione dell' esistente. Libertà comunista è dinamismo, è contaminazione, con le nostre coscienze e i nostri corpi, è buttarsi nella mischia. Io l' ho fatto, sono diventato coscientemente omosessuale, per poi recuperare l' eterosessualità, per poi trovar la sessualità, senza aggettivi. Vorrei che ci capissimo, non sto parlando di membri e di apparati genitali, altrimenti torniamo alla caserma". Io credo di capire, ma non so quanti siano in grado di farlo nel Pci, non parlo della Fgci... "Giovanni Berlinguer è uno che capisce: aperto, vivace. Anche Natta ci aiuta. Abbiamo avuto un dibattito con lui molto libero. Ripete sempre che bisogna andare fino in fondo, che bisogna parlare, confessarci di più - non dal prete con la cotta - togliersi di dosso tutti i residui di intolleranza. Gli altri non so, sono arrivato da pochi giorni a Roma. Certo l' età conta, ognuno forma la propria cultura in un momento storico preciso. Non è facile affrontare un tema come quello della pedofilia ad esempio, cioè del diritto dei bambini ad avere una loro sessualità, ad avere rapporti tra loro, o con gli adulti - tema ancora più scabroso - e trattarne con chi la sessualità l' ha vista sempre in funzione della famiglia e dalla procreazione. Le donne, da questo punto di vista, sono notevolmente più sensibili. Ma il Pci non è un organismo matriarcale". - di STEFANO MALATESTA

giovedì 25 febbraio 2010

Repubblica Roma 25.2.10
Società civile per la Bonino, Ravera capolista
Imprenditori, medici, intellettuali: ecco chi scende in campo per la candidata
di Chiara Righetti, Giovanna Vitale

Aveva detto: «L´ho sempre vista dov´ero anch´io, perché è sempre stata dalla parte delle donne». Anche per questo Lidia Ravera ha accettato la sfida: sarà lei a guidare i "Cittadini/e per Bonino". La lista civica di medici, imprenditori, avvocati in campo per Emma Bonino presidente. «Persone vere - spiega la coordinatrice, Anna Maria Malato (editrice Salerno), moglie del senatore Ranucci e già responsabile della civica di Veltroni – per una lista espressione del territorio, al motto: "Meno glamour, più sostanza"». E le iniziali resistenze della candidata a scrivere il suo nome su un´altra lista oltre alla Bonino-Pannella sono crollate quando la società civile ha bussato alla porta. Nomi celebri e non, con alle spalle storie d´impegno su temi cardine del programma, dal sociale alla sanità. Come il pediatra Mario Vela, noto per l´impegno sulle malattie rare; Massimiliano Ronco, presidente Associazione precari italiani; Lorena Guidi, responsabile nazionale precari Cri, attiva sul tema dai tempi della tenda a piazza Venezia,
Come esempio di questi "cittadini della porta accanto", Malato cita Cristiana Colombino, «imprenditrice, madre di due figli. Impegnata da sempre, a scuola, nel quartiere, è la prima volta che fa politica direttamente». O Ivo Mazzucchelli, ex della nazionale di rugby: di lui al comitato raccontano che abbia bussato chiedendo come poteva dare una mano. Ma ci sono anche assi nella manica come Massimo Marino (quello di «Bella fratè, a frappè»), noto per i film di Verdone e Vanzina ma soprattutto per ViviRoma Television, trasmissione giovanile cult sul mondo della notte. E con forte attenzione a categorie che difficilmente trovano cittadinanza politica. Spazio quindi alle donne, come Maria Giovanna Talia, avvocato e vicepresidente dell´associazione Corrente rosa; agli immigrati, con Balraj Singh, imprenditore indiano da vent´anni a Roma; alle comunità regionali, rappresentate da Antonio Turdò. Oltre all´esperienza dei consiglieri uscenti della civica Marrazzo: Roberto Alagna, Massimo Pineschi, Giuseppe Celli, Giuseppe Mariani, Luigi Canali. E potrebbe esserci anche Sandro Battisti dell´Api.
Intanto Bonino non si sottrae al tour de force elettorale e torna a parlare di legalità; un tema che, ha spiegato ai dipendenti dell´Enea, «soffre della stessa sindrome della ricerca: tutti ne parlano, nessuno fa nulla. Mi dicono di parlare di cose più concrete, ma la legalità è quanto di più concreto ci sia. Possiamo avere un programma migliore, e lo abbiamo, ma se non cambiamo il modo di fare politica finirà come i peggiori». E alle associazioni dei disabili: «Per me è fondamentale l´attenzione ai più fragili, non solo nell´assistenza. Un Paese è tanto più democratico quanto più è attento agli altri da noi, come carcerati, immigrati. Una parte di società che si tende a non vedere, ma è utile all´altra perché ne è lo specchio».

Repubblica 25.2.10
Bonino a digiuno "rallenta" la campagna
Incontro annullato per lo stress. Bersani: confermi la candidatura. E lei: sono in pista
L'esponente radicale senza cibo e acqua da lunedì. "Più concreta? La legalità lo è"
di Umberto Rosso

ROMA - Lascia, esausta, la sede del suo comitato elettorale a Trastevere, mentre si fa avanti un gruppo di emigrati in una giornata già fitta di incontri. Ma Emma Bonino, al terzo giorno di sciopero della fame e della sete, fisicamente non ce la fa e se ne torna a casa. Nei prossimi giorni, fanno sapere dal quartier generale del candidato governatore del centrosinistra, agenda elettorale alleggerita e «calibrata» sulle condizioni di salute condizionate dal digiuno. Ma dentro il Pd scoppiano subito altre polemiche. «Emma sospenda lo sciopero - torna alla carica Rosy Bindi, presidente del partito - e adesso faccia la candidata del Lazio. Per le battaglie dei radicali, anche giuste, passi il testimone ad altri suoi compagni». Pesano pure le minacce di Marco Pannella, che semina scompiglio annunciando che è ancora possibile la rinuncia alla corsa sotto le insegne del centrosinistra. Tanto che Bersani in mattinata, prima di partire per l´Aquila, sente il bisogno di una pubblica richiesta di chiarimenti alla Bonino. La sua è una battaglia di legalità che «merita ascolto», e che il Pd «appoggia» anche concretamente mettendo a disposizione amministratori locali per autenticare le firme delle liste radicali, ma «i cittadini chiedono di avere conferma della candidatura nel Lazio». E la vicepresidente del Senato, a stretto giro, rassicura: «Sono leale e quando prendo un impegno lo mantengo. Però vado avanti con il mio sciopero in nome delle regole e della legalità». Alla catena di solidarietà, con 24 ore di digiuno, si uniscono intellettuali e personaggi dello spettacolo, dal regista Paolo Virzì alla cantante Fiorella Mannoia.
Ad un clamoroso dietrofront di Emma, dentro il Pd, dunque non credono. Nemmeno nell´area cattolica, che in queste ore mastica amaro per una campagna tutta in chiave radicale che "subiscono". «La barra va raddrizzata - avverte Beppe Fioroni - ma ho troppo stima di Emma per pensare che possa confondere l´interesse generale con il proprio ombelico». Niente sospetti perciò, nessuna teoria del "tranello" - la Bonino che usa il Pd solo per tirare la volata ai radicali, e all´ultimo minuto scende dal treno in corsa - con quella sortita derubricata a "pannellata" e alla diversa strategia fra Marco e Emma. Con l´intenzione, soprattutto dell´ala bersaniana, di far quadrato attorno alla candidata radicale. «Con lei siamo in grande ripresa. I sondaggi - calcola l´uomo-organizzazione del Pd, Maurizio Migliavacca - danno la Bonino ad un punto dalla Polverini, e la coalizione ad un punto e mezzo». Al centrodestra risulterebbero ben altre cifre, come in Emila Romagna, dove secondo i sondaggisti del premier il centrosinistra non vincerebbe più rullo compressore (Errani sarebbe infatti al 53, la Bernini al 38).
Però Emma le liste radicali le vuole in pista. Aveva già avvisato, con una lettera nei giorni scorsi, Pier Luigi Bersani. «Rischiamo di sparire, dateci una mano per le firme». La prima reazione del partitone le è apparsa lenta, ma adesso perfino in Lombardia (dove i radicali si presentano in alternativa a Penati) il segretario ha chiesto ai militanti di accorrere in soccorso. Forse non basterà, i radicali potrebbero alla fine rinunciare in alcune regioni, ma di certo ci proveranno fino all´ultimo nel Lazio. Qui Emma fa da traino. E per sè ha chiesto metà listino, sette posti, da aprire poi all´esterno, alla società civile, come le hanno chiesto anche Goffredo Bettini e Nicola Zingaretti. Un po´ troppi, per il segretario del pd laziale Mazzoli che guida il tavolo delle trattative.

il Fatto 25.2.10
Offensiva papale sui preti pedofili
Dopo l’ultimo scandalo, in Germania, Ratzinger corre ai ripari
Per decenni la regola era l’insabbiamento
di Marco Politi

È il cancro nascosto nel corpo della Chiesa. Migliaia e migliaia di casi di pedofilia, un rosario di violenze dal Brasile agli Usa, dall’Australia, all’Irlanda. L’Italia, con 80 casi segnalati, non è immune. L’ultimo scandalo è scoppiato in Germania, dove si parla di circa 120 vittime abusate tra gli anni 70 e 80 in un prestigioso liceo di gesuiti a Berlino e poi in altri istituti di Amburgo, Hannover, Gottinga, Hildesheim e nel famoso collegio Aloisius di Bad Godesberg. Il presidente della conferenza episcopale tedesca, monsignor Robert Zoellitsch, si è detto “sconvolto” e ha rivolto le scuse della Chiesa ai giovani rimasti vittime di un “crimine ripugnante”. Ma, cosa più importante, il prelato ha preannunciato che la Chiesa denuncerà alla magistratura i colpevoli.
L’orrendo rituale è ovunque lo stesso: un lento gioco di seduzione da parte del religioso che finisce per soggiogare la vittima, quando non scatta l’aggressione improvvisa. Un abuso di fiducia – oltre che del corpo predato – compiuto da chi al riparo dell’abito sacro avrebbe dovuto proteggere e anzi “elevare spiritualmente” i minori affidatigli. A Bad Godesberg s’è ripetuto quanto accaduto altrove. Chi è stato violentato dal sacerdote-educatore e chi ne è diventato il giocattolo, chi è stato costretto a masturbarsi sotto gli occhi di un religioso e chi spinto ad accarezzarlo per dargli eccitazione. Con danni psicologici indelebili.
Il bubbone è veramente scoppiato, quando negli Usa sono state lanciate azioni collettive di risarcimento. La diocesi di Boston ha versato 85 milioni di dollari a oltre 500 vittime. Quella di Los Angeles ha pagato 660 milioni di dollari per un numero altrettanto elevato. Nei processi di Boston, chiusi con un patteggiamento nel 2003, era emersa l’altra dimensione della grande vergogna: la tendenza dei vescovi (a Boston il cardinale Law) a spostare di parrocchia in
parrocchia i preti colpevoli, sperando che si quietassero. Tipico il caso del reverendo John Geoghan, responsabile di un centinaio di abusi compiuti durante le sue trasferte e poi finito strangolato in carcere da un altro detenuto. Ancor oggi troppi vescovi, che non sono intervenuti con determinazione, restano al loro posto. Il cardinal Law ha lasciato Boston, ma ora presiede a Roma alla basilica di Santa Maria Maggiore: uno scandalo per molti cattolici Usa. La svolta ai vertici della Chiesa cattolica avviene sul volgere del millennio. I vescovi statunitensi scelgono la linea della tolleranza zero e papa Wojtyla leva la sua voce contro i preti “traditori”. È il momento in cui si incrina la metodologia di assoluta “segretezza” (durante i procedimenti ecclesiastici e persino dopo l’individuazione dei colpevoli) propugnata da un documento dell’ex Sant’Uffizio risalente al 1962. Il testo, Crimen Sollicitationis, esige il segreto totale – pena la scomunica – dalle autorità ecclesiastiche implicate nei procedimenti e, ancora peggio, il “perpetuo riserbo” anche dopo l’eventuale sentenza. È un sistema che penalizza le vittime, costrette a umilianti attese solo per farsi ascoltare.
Il vento cambia nel 2001 con un nuovo documento elaborato dall’allora cardinale Ratzinger. La Santa Sede sposta i tempi della prescrizione decennale, facendola scattare (in modo più garantista) non dal momento del crimine, ma dalla maggiore età della vittima. Ogni fatto va poi segnalato immediatamente alla Congregazione per la dottrina della fede, mentre l’indicazione che viene dal Vaticano è di allontanare subito i sospetti dal contatto con l’ambiente giovanile. Ratzinger è stato accusato in passato d’avere gestito burocraticamente la linea della “segretezza”, derivante dal documento Crimen Sollicitationis. Certo è che da pontefice Benedetto XVI ha iniziato sistematicamente un mutamento di strategia, tendendo a maggiore trasparenza, maggiore attenzione alle vittime, maggiore rigore e – ciò che rappresenta una rivoluzione rispetto al passato – esortando le autorità ecclesiastiche a deferire alla magistratura i colpevoli. Poco dopo la sua elezione ha dato l’esempio, decretando che il capo dei Legionari di Cristo, il padre Maciel (accusato di ripetuti abusi, ma il cui dossier era stato insabbiato per anni) fosse costretto a ritirarsi in una “vita di penitenza, rinunciando a ogni ministero pubblico”. Nei suoi viaggi negli Usa e in Australia nel 2008 s’è incontrato con rappresentanze di vittime e ha dettato il percorso da seguire. “Mi vergogno”, ha detto recandosi in America. E a più riprese ha chiarito che per i preti pedofili “non c’è posto nella Chiesa”.
Nei fatti si sono ancora verificate nel passato recente molte resistenze, in vari paesi, a intervenire immediatamente e senza remore contro i preti-predatori. In Irlanda il rapporto del giudice Yvonne Murphy ha accusato ben 4 vescovi di avere negletto la “protezione di bambini indifesi" anteponendo la “reputazione della Chiesa”. Con casi raccapriccianti: come quel prete che ha ammesso di avere abusato di cento bambini e un altro che approfittava di un minore diverso ogni due settimane. Ecco perché la Lettera che Benedetto XVI trasmetterà fra breve all’episcopato d’Irlanda avrà il carattere di un documento d’indirizzo per la Chiesa universale. Il primo testo solenne sulla pedofilia di un pontefice dell’era contemporanea.

l’Unità 25.2.10
Se la scuola è solo per cristiani
L’asilo di Goito e il razzismo istituzionale
di Giuseppe Civati, Ernesto Maria Ruffini

In provincia di Mantova, a Goito, il Consiglio comunale, a maggioranza di centrodestra e capeggiato da un sindaco di area Udc, ha approvato un regolamento che prevede l’accesso all’asilo pubblico comunale ai soli bambini che provengono da famiglie che accettano «l’ispirazione cristiana della vita». La giustificazione sarebbe quella per cui «pur essendo l’asilo pubblico, da sempre viene gestito secondo criteri che si ispirano al cristianesimo». A questo punto è il caso di fornire a quegli amministratori locali delle brevi istruzioni per l’uso della cosa pubblica.
Primo: la nostra Costituzione vieta ogni discriminazione fondata su motivi religiosi (art. 3) e garantisce a tutti, senza alcuna distinzione, l’accesso alla scuola pubblica (artt. 33 e 34). La scuola infatti, come ci rammentano gli stessi Costituenti, dovrebbe rappresentare una «aperta palestra di tutte le idee» (Preti), in cui si dovrebbe «entrare con animo tranquillo», perché dovrebbe rappresentare un «asilo di tutte le coscienze e... di tutti i cittadini» (Marchesi) e dovrebbe essere laica e «al di sopra d’ogni confessione» (Nenni).
Secondo: se non bastasse la Costituzione, rammentiamo ai consiglieri comunali di Goito che il Testo unico sull’immigrazione definisce discriminatorio ogni comportamento che comporti «una distinzione, esclusione o preferenza basata sulle... convinzioni e le pratiche religiose» (art. 43 D.lgs. n. 286/1998) e che il d.l. n. 122/1993 (legge Mancino) punisce con la reclusione fino a tre anni chi «commette atti di discriminazione per motivi... religiosi» (art. 1).
Terzo: la Convenzione europea sui diritti dell’uomo vieta qualsiasi forma di discriminazione fondata sula religione e impone agli Stati di rispettare la diversità culturale e religiosa delle persone (artt. 21 e 22).
Quarto: quali sarebbero i criteri cristiani cui sarebbe ispirata la gestione dell’asilo comunale di Goito? Ma il Vangelo non dovrebbe invitare tutti all’accoglienza e alla condivisione? Nel Vangelo, a proposito di bambini, perché di bambini che dovrebbero andare all’asilo stiamo parlando, non c’è forse scritto che «chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me»? (Mt. 18, 5).
Adesso un consiglio agli altri, esponenti politici (più o meno) democratici: smettiamola di credere che si tratti di uscite innocue e insignificanti. Per dirla con Bobbio, siamo di fronte a forme di razzismo istituzionale e non è il caso si sottovalutarle, ma di segnalarle e di pretendere il rispetto dei valori sui quali la nostra comunità si fonda. In nome del rispetto che dobbiamo nei confronti chi è diverso da noi e verso noi stessi.

l’Unità 25.2.10
«Impedimento legittimo?» Torna in piazza il Popolo viola
Sabato prossimo a Roma manifestazione nazionale in difesa della Costituzione
Gli organizzatori: «Ci saranno migliaia di persone. A rischio la democrazia». Il Pd aderisce
di Max Di Sante

Piazza del Popolo, sabato prossimo, si tingerà di viola per protestare contro il legittimo impedimento e difendere la Costituzione. «Sarà una proav di maturità», dicono gli organizzatori. Il Pd aderisce.

A due mesi dal “No B Day”, denuncia il “Popolo viola”, «il rischio per la democrazia è ancora più grande» e per questo è convocata per sabato a Roma, in piazza del Popolo dalle 14,30, una manifestazione nazionale contro il legittimo impedimento, a fianco alla Costituzione e a sostegno degli organi di garanzia costituzionale. Questa volta le adesioni politiche, anche se i leader non potranno prendere la parola dal palco, non si sono fatte attendere e alla scontata adesione dell'Italia dei valori di Antonio Di Pietro, il quale sarà sicuramente in piazza, ha fatto seguito quella ufficiale del Pd, attraverso Bersani, dopo che i “democrat” avevano invece deciso di non dare l'adesione ufficiale all'iniziativa del 5 dicembre in piazza San Giovanni. Con il Popolo viola, ci saranno anche la Federazione della Sinistra, Sinistra ecologia e libertà (Sel) e i Verdi. Ma la parte del leone a piazza del Popolo la faranno ancora una volta gli autoconvocati sul web che questa volta hanno deciso deciso di organizzare la manifestazione «senza l'appoggio economico o logistico dei partiti» e per questo hanno lanciato una sottoscrizione per raccogliere almeno 20 mila euro per allestire il palco e pagare tutte le spese organizzative. A chi sottoscriverà la cifra maggiore andrà in premio una colazione con Dario Vergassola. «Speriamo che questa manifestazione dicono gli organizzatori venga più plurale possibile. Era questo anche lo spirito dell’altra volta, ci eravamo rivolti alla base e non ai partiti». «Questa volta spiega Gianfranco Mascia, uno degli organizzatori è una prova di maturità. Non ci confrontiamo con l’altra volta, ma con l’emergenza che c’è adesso. Siamo dal 4 febbraio davanti a Montecitorio».
TANTE ADESIONI
Chi sarà in piazza? «Sicuramente rispondono gli organizzatori delegazioni di lavoratori della ThyssenKrupp, dell’Alcoa, dei call center, rappresentanti di Articolo 21 e poi esponenti politici di tutta l’opposizione di centrosinistra tranne l’Udc, ma soprattutto tanta, tanta gente comune. Gli argomenti ruotano intorno alla difesa della Costituzione, in particolare agli articoli 1, 3 e 21, quelli relativi alla libertà individuale, d’espressione e dei diritti fondamentali». «Lo facciamo concludono per dire la nostra su quanto accade nel Paese: un Parlamento bloccato a risolvere i problemi personali del premier e che non si occupa dei problemi dei cittadini», tra i quali naturalmente in primo piano le questioni del lavoro e della libertà di informazione. Insomma, le motivazioni «sono simili a quelle che hanno spinto il 5 dicembre scorso tantissime persone a scendere nelle vie di Roma per il “No Berlusconi Day”» e la protesta di sabato prossimo a piazza del Popolo si trasferirà domenica all'Aquila per sostenere «con le carriole» la lotta dei cittadini per i necessari interventi nel centro storico.
IL PD: «È LA NOSTRA BATTAGLIA»
Infine è il Pd a parlare. Dice Maurizio Migliavacca, coordinatore della segreteria del Partito Democratico: «Il Pd sta facendo da settimane una battaglia decisa contro il legittimo impedimento e a salvaguardia degli organi di garanzia costituzionale. La manifestazione di sabato prossimo a Roma, indetta dal “popolo viola”, ha come obiettivo l'opposizione alla legge sul legittimo impedimento. Perciò alla manifestazione parteciperanno militanti e dirigenti del Pd, a partire da Rosy Bindi e Andrea Orlando».

l’Unità 25.2.10
«Si dia visibilità alla manifestazione su radio e tv»

«L'assurda decisione presa dalla commissione parlamentare di Vigilanza, che non cambierà il rigido regolamento sulla presenza degli uomini politici nei talk show televisivi durante la campagna elettorale, non può limitare il diritto dei cittadini ad essere informati». Lo affermano Giuseppe Giulietti, portavoce di Articolo 21, e Vincenzo Vita (Partito democratico).
«È preciso dovere di ogni giornalista, di ogni autore televisivo e, ancor di più, di ogni direttore illuminare quelle situazioni di protesta che partono dai cittadini», continuano Vincenzo Vita e Giuseppe Giulietti, che chiedono di «illuminare di più» la manifestazione organizzata a Roma dal Popolo Viola il 27 Febbraio, a difesa della Costituzione, e “Primo marzo 2010 Una giornata senza di noi”, ovvero lo sciopero dei migranti.
«L'entrata in vigore della par condicio ribadiscono Giuseppe Giulietti e Vincenzo Vita non può oscurare queste iniziative. Se in televisione e alla radio non possono parlare i politici è giusto dar voce agli invisibili, che in questo sono sempre di più. Perché le reti pubbliche e commerciali non decidono di trasmettere in diretta questi eventi facendo sentire le voci dei cittadini?».

l’Unità 25.2.10
«Devono avere la forza di diventare loro la politica»
di Eduardo Di Blasi

Giulio Cavalli, regista, attore e candidato «indipendente» dell’IdV in Lombardia: «È dal 500 che si va in piazza per le ingiustizie. La società civile non deve essere “ospite” in casa d’altri»

Giulio Cavalli, classe 1977, attore teatrale, autore e interprete di quel cosiddetto «teatro civile» che lo ha portato per vie scomode, affrontando nei propri spettacoli temi difficili, primi fra tutto quello della mafia. Ha subito ritorsioni. E per questo vive sotto scorta. A Milano, due settimane fa, hanno rinvenuto nei pressi del teatro dove andava in scena il suo spettacolo «A cento passi dal Duomo» (scritto con Gianni Barbacetto), una busta con 23 proiettili. Ennesima minaccia. Giulio, che è candidato per l’IdV al consiglio regionale della Lombardia, spiega così la sua «discesa in campo», sponsorizzata anche da Luigi De Magistris e Sonia Alfano: «Mi ero stancato di essere accusato di fare teatro troppo politico...». Lui, candidato indipendente, figlio della cosiddetta società civile, cosa pensa del Popolo viola che scende in piazza per la giustizia?
«La piazza è stata per me è stata una cassa di risonanza importante, soprattutto se contenuta nei modi civili. E il Popolo Viola ha anche aggiunto vette estetiche magnifiche come il manifesto sul “compagno Fini”. Quello che serve è che faccia lo scatto e diventi “politica”». Quella del No B-day è stata definita una piazza antipolitica. «No, era l’alternativa politica, che però deve “entrare” ancora nella politica. A me fa arrabbiare la distinzione tra società civile e politica. Io, ad esempio, sono un candidato indipendente, nuovo prodotto di marketing. Si dice: “La politica apre alla società civile”, come se fosse un piacere che le fa. Non è un danno enorme pensare che il professionismo politico può poi fare delle concessioni alla società civile? No, adesso bisogna reclamare il proprio posto. Siccome io mi incazzo sulle parole. E noi siamo riusciti a farcele fregare, credo che il candidato indipendente faccia il paio con il giusto processo, l’impedimento legitti-
mo. Un giorno mi aspetto la giraffa alta... Il candidato indipendente viene accolto in una casa ma lo arreda. io non voglio fare il coinquilino a sbafo».
Che speranza ha di essere eletto?
«Non ne ho la più pallida idea».
È una battaglia praticabile?
«Per me sì, ma sta parlando con uno che si è buttato dentro anche alla battaglia contro la ‘ndrangheta in Lombardia, che vedo praticabile...».
A Milano non c’è la mafia, dicono le istituzioni cittadine... «La mafia in Lombardia è così conclamata che basta mettere in fila cinque subappalti. E per questo che la società civile deve avere un proprio posto al Pirellone, dove le carte dei subappalti passano. Si tratta solo di rendere tutto trasparente. Io voglio essere quello che in siciliano si direbbe uno scassaminchia. Uno scassaminchia con una sua estetica. Non un urlatore da piazza, ma uno scassaminchia con poesia. Voglio essere il Ponte di Messina tra la società civile e il Pirellone».
Le ultime notizie di cronaca ci consegnano un quadro inquietante... «Che Di Girolamo fosse vicino agli Arena, basterebbe alzare il telefono e chiamare Pino Masciari. Si vedrebbe anche come in Italia vivono i testimoni di giustizia e come vivono corrotti e corruttori. La cosa che mi stupisce è che ogni volta ci debba essere questa fatica a dover convincere che la ‘ndrangheta è vicinissima alla politica. Quelle intercettazioni hanno alzato il tappeto e ci hanno fatto vedere i veri rapporti di forza in questo Paese».
Queste informazioni non sembrano muovere l’opinione pubblica... «È che c’è troppa poca gente che vota, ed è frutto dell’impermeabilizzazione che la televisione ha fatto». Il Popolo viola scende in piazza per la giustizia...
«Uno degli aspetti più sorprendenti del Popolo viola è stato quello di aver reso “la giustizia” un problema di pancia. La giustizia! Che di solito è vista come un problema tecnico delegato ai tecnici. E invece è dal Cinquecento che il popolo scende in piazza per le ingiustizie».
La mobilitazione è nata sulla rete. Pensa possa essere una nuova piattaforma di scambio di idee? «Non riusciranno a fermarlo. A differenza della televisione che l’hanno educata loro, che l’hanno male-educata come loro conveniva, la rete è difficile da educare. La rete è uno dei valori da difendere».

Repubblica 25.2.10
Sabato a Roma manifestazione a difesa della Costituzione: già 200 pullman e 210 mila adesioni online
Il Popolo Viola ritorna in piazza e il Pd annuncia: noi ci saremo
di Vladimiro Polchi

Distinguo tra i democratici. Follini: "La trincea radicale aiuta Berlusconi"

ROMA - A tre mesi dal "No B Day", il "Popolo viola" torna in piazza. Parole d´ordine? Stop al legittimo impedimento, difesa della Costituzione e «di tutti gli organi di garanzia». L´appuntamento è fissato per sabato 27 febbraio in piazza del Popolo a Roma, a partire dalle ore 14,30. La macchina organizzativa è in moto: 200 pullman, 210mila adesioni online, gruppi attivi su Facebook in tutte le province italiane. Sul palco, immigrati, precari, operai e giuristi. In piazza il popolo degli autoconvocati e i partiti politici che hanno aderito: il Pd, innanzitutto e poi Idv, Sinistra Ecologia e Libertà, Verdi, Radicali, Federazione della Sinistra.
Ad annunciare l´adesione del Partito democratico (che era invece mancata al No B Day del 5 dicembre 2009) è il coordinatore della segreteria, Maurizio Migliavacca: «La manifestazione di sabato a Roma ha come obiettivo l´opposizione alla legge sul legittimo impedimento e per questo motivo vi parteciperanno militanti e dirigenti del Pd, a partire dal presidente dell´Assemblea nazionale Rosy Bindi e dal responsabile Giustizia, Andrea Orlando». Ma la scelta non convince tutte le anime del partito. «In piazza non ci sarò - fa sapere infatti Marco Follini - perché indossare la sciarpa viola rischia solo di compattare l´edificio del consenso berlusconiano, proprio quando cominciava a scricchiolare. Spingersi in una trincea radicale, non ci aiuta certo a offrire un riferimento a quella parte dell´elettorato di Berlusconi, oggi meno convinta».
La parte del leone in piazza la faranno comunque gli autoconvocati sul web, che hanno deciso di organizzare la manifestazione «senza l´appoggio economico o logistico dei partiti». Per questo hanno lanciato una sottoscrizione (su www.27febbraio2010. org) per raccogliere almeno 26mila euro. A chi sottoscriverà la cifra maggiore andrà in premio una colazione con Dario Vergassola. Per ora è in testa un certo Andrea P., che ha versato 500 euro.
«Siamo già arrivata a quota 17mila - dichiara uno degli organizzatori, Gianfranco Mascia - soldi che serviranno per le spese e per il palco. Vi saliranno giuristi, dipendenti della Thyssen, di Termini Imerese, dei call center e un immigrato che annuncerà la sciopero del primo marzo. E poi: Oliviero Beha, Gianni Minà, Alberto Asor Rosa, Paolo Flores d´Arcais, Lidia Ravera, Gioacchino Genchi e in video Marco Travaglio e Giorgio Bocca. All´inizio - prosegue Mascia - ci eravamo dati appuntamento a piazza Navona. Poi le adesioni sono cresciute e abbiamo chiesto piazza del Popolo».
«L´agenda politica ci ha imposto di tornare in piazza - spiega un´altra delle organizzatrici, Sara De Sanctis - per dire la nostra su quanto accade nel Paese: un Parlamento bloccato a risolvere i problemi personali del premier, che non si occupa dei problemi dei cittadini, tra i quali il lavoro e la libertà di informazione». Sul palco infatti la difesa della Costituzione si concentrerà su tre articoli: 1, 3 e 21. «Lavoro, uguaglianza e libertà di stampa - conferma De Sanctis - saranno il cuore della manifestazione».
In piazza sarà presente anche l´Associazione nazionale partigiani, mentre Giuseppe Giulietti (Articolo 21) e Vincenzo Vita (Pd) chiedono che la par condicio non oscuri la manifestazione del 27 Febbraio e quella del "Primo marzo 2010-Una giornata senza di noi"(ovvero lo sciopero dei migranti).

l’Unità 25.2.10
Dopo la terra Israele occupa i luoghi sacri di Palestina
La guerra della memoria. Il governo Netanyahu si annette la Tomba dei Patriarchi a Hebron quella di Rachele a Betlemme. E a Gerusalemme...
L’imposizione del Muro. Confisca la terra e i campi, ma anche i luoghi di identità
Robert Serry, Onu: «Impediscono la pace Allarmanti le imposizioni istraeliane»
di Umberto De Giovannangeli

Questa è una triste storia. Una storia dove passato e presente s'intrecciano indissolubilmente, in cui ogni corda identitaria viene toccata e tesa all'estremo. Una storia nella quale politica e religione si fondono dando vita a una miscela esplosiva. Una storia che fa riemergere quella bramosia di possesso assoluto in nome della quale si è combattuto e sparso sangue in Terrasanta. «Dopo la terra ora vogliono toglierci anche i luoghi della memoria. Dopo l'annientamento politico, i falchi israeliani hanno deciso di espropriarci anche di qualcosa ancor più importante della terra: la memoria storica di ciò che è stato, di ciò che è la Palestina», dice a l'Unità Sari Nusseibeh, rettore dell'Università Al Quds di Gerusalemme Est, il più autorevole intellettuale palestinese.
A scatenare l'ira dei palestinesi è stata la decisione del governo di Benyamin Netanyahu di includere fra i luoghi della «memoria storica» del popolo ebraico che vanno preservati anche la Tomba di Rachele a Betlemme e la Tomba dei Patriarchi a Hebron. Luoghi santi che si trovano in zone autonome palestinesi e sono venerati sia da fedeli ebrei sia da fedeli islamici. La decisione israeliana «è una provocazione per i musulmani di tutto il mondo e soprattutto per i palestinesi», denuncia il capo dei negoziatori dell'Anp,
Saeb Erekat. «Siamo di fronte ad una ulteriore, gravissima escalation politica unilaterale, dei fatti compiuti, messa in pratica dai governi israeliani succedutisi negli ultimi quindici anni», gli fa eco Hanan Ashrawi, più volta ministra dell'Anp oggi paladina dei diritti umani nei Territori. «Il dialogo, per avere senso ci dice Ashrawi deve partire dal riconoscimento non solo delle ragioni dell'altro, ma ancor prima, riconoscerne l'esistenza in quanto nazione, con una sua storia, una sua identità culturale. Una sua memoria». «Ora aggiunge Ahrawi, prima donna portavoce della Lega Araba come si può pensare ad una pace fondata su due Stati se Israele rifiuta anche di condividere luoghi sacri a ambedue i popoli?».
Una considerazione che ci conduce al cuore di questa sottrazione in divenire. Ci porta a Hebron, alla grotta di Makpelah, dove la tradizione vuole siano inumati Abramo, Isacco, Giacobbe con le loro mogli. È la Tomba dei Patriarchi, luogo di culto sia per i musulmani che per gli ebrei. Luogo conteso, che venerdì 25 febbraio 1994 si trasformò in un campo di battaglia. Quella mattina, giorno di Purim per gli ebrei, ultimo venerdì di Ramadan per i musulmani, un colono di Kiryat Arba, il grande insediamento presso Hebron, roccaforte della destra ultranazionalista ebraica, superati controlli militari israeliani all'ingresso della Moschea di Abramo, dove sorge anche la sinagoga che gli ebrei chiamano Makpelah, si avvia verso una delle sale la sala Isacco dell'edificio. Baruch Goldstein, medico piuttosto noto tra i coloni, nasconde un fucile mitragliatore M16 in una borsa sportiva blu. Indossa la divisa da riservista. Senza pronunciar parola, spara diversi caricatori sui musulmani in preghiera, uccidendone trenta e ferendone decine prima di essere a sua volta linciato dai sopravvissuti. Negli incidenti che seguirono altri 20 palestinesi saranno uccisi dall'esercito israeliano.
Da quel giorno tragico, la tomba di Goldstein, a Kiryat Arba, è meta di continui pellegrinaggi dei militanti dell'estrema destra moltissimi i giovani che considerano «Baruch, eroe di Erez Israel». Tra i gli organizzatori delle visite alla tomba di «Goldstein, re d'Israele» c'era pure Yigal Amir, l'assassino di Yitzhak Rabin. «Israele non ha il solo il diritto ma anche il dovere di preservare i luoghi della memoria del popolo ebraico. E Makpelah è parte inalienabile di essi. A sancirlo è la Torah, guai a dimenticarlo...», dice a l'Unità David Wilder, leader degli ultraortodossi israeliani, in maggioranza originari degli Stati Uniti, che vivono 500, circondati da 170mila palestinesi in una enclave trasformata in fortino nel cuore di Hebron.
La tensione è tornata altissima. Un portavoce della Jihad islamica ha detto al sito web del quotidiano Yediot Ahronot che la iniziativa di Netanyahu è un tentativo israeliano di «annettere» luoghi islamici di preghiera, e dunque un atto «aggressivo» che provocherà la ripresa degli attacchi armati. In una Terrasanta che si «nutre» di simboli, è altamente simbolico anche il fatto che l'annuncio del governo israeliano di un piano nazionale per «riabilitare» circa 140 siti storico-religiosi dell’ebraismo, è stato dato dopo un Consiglio dei ministri straordinario, tenutosi a Tal Hai, nel nord di Israele, luogo in cui nel 1920 ebrei e arabi combatterono. «L’annessione della Tomba dei Patriarchi incalza l’ex ministro Mustafa Barghouti e di quella di Rachele a Betlemme, non è altro che una dichiarazione da parte di Israele del fatto che imporrà azioni concrete: annettendo terre e impedendo la pace». Preoccupazione condivisa dall'emissario Onu per il processo di pace israelo-palestinese, Robert Serry, che definisce allarmanti le rivendicazioni israeliane sul «territorio palestinese occupato». Per realizzare questa «sottrazione di memoria» è funzionale anche la Barriera di sicurezza (il muro dell'apartheid per i palestinesi) in Cisgiordania. Nel settembre 2002, le autorità israeliane approvarono l'inclusione della Tomba di Rachele (la seconda moglie di Giacobbe), alle porte di Betlemme, all'interno dei confini del Muro.
Da allora il progetto è marciato spedito. Quella barriera impedisce ai palestinesi di Betlemme di recarsi a pregare alla Tomba di Rachele. Il piano rientra a pieno titolo nel disegno della «Grande Gerusalemme» ebraica coltivato dalla destra oggi al governo in Israele. La Barriera-Muro spezza in mille frammenti la Cisgiordania e crea dei ghetti. Uno di essi, il ghetto-sud, una volta portato a compimento, comprenderebbe Betlemme e Hebron, e i loro luoghi sacri. La Tomba dei Patriarchi, la Spianata delle Moschee, la Tomba di Rachele... Ciò che un intero popolo, quello palestinese, vive è una doppia confisca: quella della terra, e quella, non meno dolorosa, dei luoghi di identità.
Legami che uniscono, è il titolo di prima pagina del Jerusalem Post che parla dell'inserimento della Tomba dei Patriarchi a Hebron e della Tomba di Rachele a Betlemme nella lista dei 150 siti dell'identità nazionale israeliana. Ma ciò che unisce Israele spezza i palestinesi, espropriandoli del passato e del futuro. «Vi chiediamo di impedire ad Israele di attuare il suo brutale, espansionistico progetto di annettere la zona della Tomba di Rachele e le terre circostanti e di chiudere l’entrata principale della nostra città che collega Betlemme con Gerusalemme, impedendo il flusso dei pellegrini e dei turisti in Betlemme». Era l'appello disperato rivolto dai palestinesi di Betlemme al mondo libero. Un appello rimasto senza risposta.

Repubblica 25.2.10
Caso Dubai, i killer del Mossad erano 26
Partiti da Roma e Milano alcuni degli agenti che uccisero l’uomo di Hamas
di Alberto Stabile

Individuati altri quindici passaporti europei falsi usati dai membri del commando
Resta da chiarire perché il gruppo di fuoco fosse composto da così tante persone

Gerusalemme - La polizia di Dubai ha identificato altre 15 persone sospettate di aver preso parte all´omicidio di Mahmud al Mabhuh, il dirigente di Hamas ucciso il 19 gennaio in un albergo di lusso del piccolo emirato, portando a 26 il numero complessivo delle persone coinvolte nel delitto. Al centro delle indagini su mandati ed esecutori resta il Mossad, ma alla luce delle nuove rivelazioni, ammesso che i sospetti degli inquirenti siano fondati, resta da capire come mai il potente servizio segreto israeliano abbia deciso di mobilitare un così alto numero di agenti per uccidere una persona sola e disarmata.
Il precedente capitolo di questo giallo che non sembra ancora concluso ci aveva consegnato le foto e i passaporti manipolati di undici persone: sei inglesi, tre irlandesi un francese e un tedesco. Secondo le autorità di Polizia di Dubai, avevano fatto parte della squadra incaricata di assassinare al Mabhuh, un capo militare del Movimento islamico cui da anni i servizi israeliani davano la caccia, responsabile del traffico d´armi che dall´Iran arrivano a Gaza.
La pubblicazione delle foto e dei nomi degli undici sospettati aveva portato alla scoperta più sensazionale. E cioè che l´identità di alcuni di loro corrispondeva a quella di altrettanti cittadini israeliani emigrati in Israele in epoche diverse e per questo muniti di doppio passaporto. Persone la cui identità era stata rubata e clonata sui passaporti di alcuni degli assassini.
Ora la polizia di Dubai, «grazie all´aiuto amichevole» di alcuni paesi ha aggiunto altri 15 nomi alla lista dei killer: sei con passaporti britannici, tre irlandesi, tre francesi e tre australiani. Le modalità seguite per confezionare queste 15 nuove identità sembrano analoghe alle precedenti. Infatti, c´è già un cittadino israeliano, Adam Marcus Korman, nato in Australia nel ‘75 ma emigrato in Israele sin da bambino, che ha visto il suo nome sulla lista dei nuovi ricercati diffusa da un sito ma non si è riconosciuto nella foto corrispondente. Ed ha subito protestato.
Assieme ai nomi dei 15 la polizia di Dubai ha reso noti altri dettagli. Il gruppo sarebbe giunto a Dubai proveniente da diverse città, tra cui Roma e Milano. Compiuto il delitto la «squadra» si sarebbe dispersa in molte direzioni. In particolare, una coppia di finti australiani sarebbe partita in nave con destinazione l´Iran. Proprio il temutissimo Iran.
Ma per quanto accuratamente addestrati, anche a far fronte agli inevitabili errori e contrattempi, gli uomini e le donne del commando, si sono lasciati dietro una «traccia elettronica» che oggi ha permesso la loro «esposizione» anche se non si può parlare di una vera identificazione. Nel caso di Michael Bodenheimer, poi, la traccia era ben visibile da tempo. Nell´estate del 2009, infatti, un uomo in possesso di passaporto israeliano si è presentato al consolato tedesco di Colonia chiedendo un passaporto tedesco che, a suo dire, gli spettava essendo figlio di una coppia di ebrei tedeschi sfuggiti ai nazisti. Alle autorità tedesche l´uomo presenta tutti i documenti necessari, compreso il certificato di matrimonio dei genitori. Solo che il vero Michael Bodenheimer è un rabbino che vive nella cittadina ultraortodossa di Bnei Barak.

Repubblica 25.2.10
Gli 007 israeliani e il nostro paese. Un libro di Eric Salerno
Il Mossad, l’Italia e la decima Mas
di Fabio Scuto

Dopo la fine della Seconda Guerra mondiale l´Italia era diventata la base operativa dell´organizzazione responsabile dell´immigrazione ebraica clandestina post bellica, la "madre" di uno dei più potenti e abili servizi segreti del mondo: il Mossad. Erano anni confusi, anni curiosi – scrive Eric Salerno in Mossad, Base Italia (Il Saggiatore, pagg. 255, euro 19) – fatti di alleanze strane e lealtà confuse. Ebrei e inglesi contro la Germania nazista, altri ebrei che guardavano con simpatia i tedeschi perché nemici dei colonizzatori britannici in Palestina. Tutti fedeli al vecchio adagio mediorientale: il nemico del mio nemico è mio amico.
Per la sua posizione geografica l´Italia fu il luogo scelto dai fondatori del Mossad – il leggendario Yehuda Arazi, impersonato nel film Exodus da Paul Newman, e Mike Harari, lo 007 più famoso di Israele che da spia ormai in pensione ha accettato di rivelare a Salerno alcune delle sue verità sulle origini del servizio segreto – per impiantare la loro rete per il transito degli ebrei verso la Palestina: ventiseimila in meno di tre anni. Il Mossad poté contare all´epoca e negli anni a venire su un altro fattore determinante: il beneplacito delle autorità politiche italiane – dalla Dc di De Gasperi, al Pci di Togliatti, al Msi di Romualdi.
Alla fine della guerra l´Italia era nel caos, il contrabbando infuriava e i depositi d´armi degli Alleati venivano svuotati per rifornire ex–partigiani e gruppi di destra, arabi e ebrei: bastava avere soldi in contanti. Il giro di spie doppie e anche triple era vasto, un complesso gioco di specchi che solo menti raffinate potevano gestire. Come il colonnello delle SS Walter Rauff – l´inventore dei terribili "furgoni a gas" – arrestato in Italia, salvato dagli americani a Norimberga e agganciato poi dal Mossad. Diventato consigliere militare in Siria, il doppiogiochista venne poi "esfiltrato" e munito di documenti falsi dal Mossad per fuggire in Sudamerica dove poi offrì i suoi servigi al dittatore cileno Pinochet. O come il "capo di terza" Fiorenzo Capriotti della Xª Mas di Junio Valerio Borghese che dopo un internamento di cinque anni venne segnalato dai nostri servizi come istruttore per gli incursori della nascente marina di Israele dalla quale poi fu congedato con tutti gli onori.
Basi importanti del Mossad erano a Milano, Genova, Foggia, Formia, Bari. Ma era Roma il cuore delle attività. L´atmosfera cospiratoria che esce dal libro di Salerno – nel quadrilatero definito dagli alberghi di lusso attorno a Via Veneto – era palpabile ma forse offuscata dai fasti della Dolce Vita che si consumava in quegli stessi luoghi. Roma assomigliava alla Casablanca del film con Bogart e la Bergman. Spie con licenza di uccidere, diplomatici veri e falsi, mercanti d´armi, finanzieri e grandi sognatori si intrecciavano in una strana danza. Personaggi reali che escono dal libro attraverso i ricordi di Mike Harari. Sabotaggi, uccisioni, rapimenti. In una lunga corsa che attraverso gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta arriva fino ai nostri giorni. Roma, allora come adesso, è sempre rimasta "città aperta".

Repubblica 25.2.10
Circe
Quella maga che continua a sedurci
di Maurizio Bettini e Cristiana Franco

L´anticipazione Un saggio di Bettini e Franco ripercorre le tappe del mito Dalla Grecia a oggi, tra interpretazioni e iconografie diverse, l´eterno fascino della figura usata anche da Joyce
Anticipiamo un brano da Il mito di Circe di Maurizio Bettini e Cristiana Franco (Einaudi, pagg. 402, euro 28), in uscita in questi giorni.

La reazione eroica di Odisseo instaura sull´isola di Circe una dinamica che ai Greci dell´età arcaica e classica doveva apparire come giusto ordine delle cose. Prima dell´arrivo dell´eroe sull´isola, Aiaie è una terra di sole femmine – Circe e le sue ninfe ancelle – in cui il potere virile viene neutralizzato ogni volta che si affaccia all´orizzonte. Ogni uomo che passa di lì perde la propria identità di essere umano maschio libero indipendente, trasformandosi in belva sottomessa o in bestia da cortile, in ogni caso al servizio della dea. Doveva giungere il guerriero di Itaca perché l´incantesimo si rompesse – così aveva preannunciato Hermes – e Circe, almeno una volta, fosse sottomessa a una volontà maschile. Ecco perché a Odisseo non capita quello che accadrà all´"Ulisse" di Joyce, umiliato e trasformato in donna dalla sua virilissima "Circe". Né quello che succede agli hetáiroi, ridotti a un branco di suini all´ingrasso, ammassati nel porcile e nutriti dalle mani della dea, che possono essere salvati soltanto dal «cinghiale» eroico, il loro capo, capace di affrontare e vincere Circe a spada tratta. Come Penelope, anche Circe non cede a un pretendente qualunque; come Penelope, anche Circe accetta solo Odisseo nel proprio letto. (...)
Se nel racconto omerico Odisseo finisce per rimanere da Circe un anno intero, senza mai desiderare di andarsene (sono i suoi compagni a protestare per la lunga permanenza) è proprio perché ha scelto di essere temuto, anziché disprezzato. Benché nel riassumere le proprie traversie Odisseo equipari le due esperienze presso Calipso e presso Circe, dicendo che entrambe lo avevano trattenuto volendolo come sposo, egli non è schiavo di Circe come invece poi lo sarà della ninfa a Ogigia. Ad Aiaie nessuno cerca di fermarlo: appena chiede di ripartire, Circe gli fornisce i mezzi e lo aiuta a raggiungere il suo scopo. In questo senso, l´episodio omerico di Circe è qualcosa di più che un racconto fantastico: è insieme una scena di riconoscimento e una narrativa esemplare. La dea riconosce in Odisseo l´uomo della profezia, l´eroe destinato a sottometterla e il maschio degno del letto divino. Il lieto fine del racconto indica che l´intervento di Odisseo ha normalizzato una situazione anomala e pericolosa; per una volta, per quell´anno trascorso dall´eroe ad Aiaie, nella casa di Circe maschi e femmine, umani e animali sono stati messi al loro posto.
L´affermazione che l´Odissea sia stata composta da una donna è una provocazione che ricorre nella storia della ricezione del poema almeno fin dall´epoca di Tolomeo Chenno. Questo singolare autore dell´età imperiale (...) raccontava di come Omero avesse rubato il materiale dei suoi poemi plagiando l´opera di una sacerdotessa egiziana dal nome piuttosto significativo: Phantasia. Pochi oggigiorno sono disposti a prendere sul serio ipotesi di questo tipo, e tuttavia, a tenerla in considerazione almeno per un istante, ci si guadagna in consapevolezza di quanto varia possa essere la risposta dei lettori a un medesimo testo. Con ciò si avverte anche la necessità di abbandonare il tono impersonale del resoconto per denunciare il carattere parziale e relativo della propria lettura e i presupposti impliciti su cui essa poggia.
Nella lettura dell´episodio di Circe che ho proposto, l´assunzione di fondo è che il mondo di valori espresso dal racconto omerico possegga una sua coerenza interna e sia eminentemente androcentrico. Per lo scrittore inglese Samuel Butler, uno dei convinti assertori dell´authorship femminile del poema, proprio la lettura del passaggio su Circe era stata invece rivelatrice dello sguardo femminile nascosto sotto la finzione autoriale: quale uomo avrebbe potuto concepire una regina che regna sulla sua isola da sola, senza l´aiuto dei maschi? In forma meno ingenua, il dubbio sul tipo di sguardo presupposto dalle figure femminili dell´Odissea è stato espresso più recentemente da altri lettori e lettrici. Si è notato, per esempio, che la celebrata fedeltà del marito di Penelope non è affatto rappresentata nel poema come supina passività, ma è piuttosto espressione di volontà, ingegnosità e capacità d´azione (e non solo per il trucco della tela con cui tiene a bada i pretendenti arroganti). Insomma le figure femminili del poema, con la loro dignità, forza e determinazione sono sembrate incompatibili con una visione del mondo oppressivamente maschile e maschilista, in cui non ci sarebbe alcuno spazio di riconoscimento per i saperi e le competenze delle donne. Fino a qualche anno fa gli studiosi pensavano di spiegare la presenza di questi elementi come sopravvivenze di un mondo antecedente alla composizione dei poemi, ricordi fossili, ormai privi di riferimento reale, di una società in cui le donne avrebbero goduto di uno status decisamente superiore a quello loro riservato dalle più recenti culture maschiliste. Circe, in questo quadro, sarebbe stata un´ipostasi della grande dea mediterranea «Signora delle erbe», accompagnata dal paredro Helios, e venerata come potente prima dell´arrivo degli Indoeuropei. Miraggi di società matriarcali e di ordini simbolici dominati dalla Dea Madre.
Apparirà evidente che non condivido il carattere semplificatorio e autoconsolatorio di molte fra queste posizioni. Non c´è dubbio che ogni lettrice dell´Odissea sia libera di scegliere fra differenti opzioni. (...) La mia proposta presuppone che il mito di Circe, per come è raccontato, abbia un precisa funzione narrativa all´interno di quella sezione del poema e che questa funzione si illumini a partire dalla fine: la grandezza di Circe nella prima parte del racconto sta soprattutto in funzione dell´importanza e del valore del gesto dell´eroe che, al contrario dei suoi compagni, risulta oggettivamente capace di scampare l´insidia e conquistarsi l´amore e l´appoggio di una dea. Se davvero a comporre il poema fosse stata un aedo donna, credo dovremmo meravigliarci di quanto abile sia stata costei ad assumere su Circe – e sugli altri caratteri femminili delle avventure narrate dall´eroe – lo sguardo virile del narratore interno, nonché a prestargli una certa vanità di maschio, corteggiato e conteso da mortali e dee del pari, che tutte a suo dire lo vorrebbero «fare sposo». L´Odissea è una narrativa complessa e raffinata, non dimentichiamolo: quel che sappiamo di Circe è quello che Odisseo racconta per compiacere i suoi ospiti, convincerli del proprio prestigio e guadagnarsi così la via del ritorno. I Feaci lo prendono sul serio. E così, io credo, il poema invita a fare anche con noi.

Repubblica 25.2.10
Lascia la leader dei luterani trovata ubriaca al volante
I suoi 14 vescovi l'hanno difesa ma la Kaessmann ha deciso di dare le dimissioni
di Andrea Tarquini

BERLINO - Crolla per un affaire minuscolo, l´eroina della Chiesa luterana e di molte donne tedesche, quella che quasi sembrava la seconda donna più potente di Germania dopo Angela Merkel. La vescovo Margot Kaessmann, presidente del sinodo della Chiesa evangelica e titolare della diocesi di Hannover, si è dimessa ieri sera da ogni incarico dopo che era stata fermata dalla polizia e sorpresa in guida in stato d´ebbrezza. Il suo probabile successore sarà di nuovo un uomo, Nikolaus Schneider, dal 2003 numero uno della chiesa protestante in Renania.
Ancora giovane (51 anni), iperattiva, coraggiosa - ha retto uno dopo l´altro i colpi del divorzio e della lotta contro il cancro - Margot Kaessmann ha preso l´iniziativa contro il parere del vertice della Chiesa protestante. Il quale, poche ore prima, le aveva confermato piena fiducia. Non le è bastato. Ha preferito assumersi ogni responsabilità fino in fondo, e ha convocato di corsa una conferenza stampa. «Ho commesso un grave errore, che deploro nel modo più profondo. Ma non sono in condizione di restare in carica con la necessaria autorità. Mi spiace di deludere molti, ma ne va della mia coerenza. mi sono detta "va dove il cuore ti dice di andare"».
Da oggi, quindi, la popolarissima "Demi Moore dei luterani" è soltanto pastore protestante, e non si sa ancora in quale chiesetta di provincia andrà a curare i fedeli e a predicare. «Almeno so per esperienza che per quanto tu possa cadere in basso, non cadrai mai troppo in basso perché le mani di Dio ti colgano e ti sorreggano», ha detto.
Margot Kaessmann, alla guida della Chiesa evangelica da fine anno, si era subito distinta per la popolarità estrema (quando diceva messa riempiva le chiese, in un paese sempre più secolarizzato) e per il coraggio quasi sfacciato con cui sfidava il governo: sull´Afghanistan, da cui chiedeva il ritiro, o sui tagli al welfare, che condannava. Ma l´altra sera a Hannover, al volante della Phaeton di servizio, è passata col rosso. Fermata, è risultata positiva all´etilometro. In commissariato è stata sottoposta a un prelievo di sangue. Aveva una percentuale di alcol dello 0,154, tripla rispetto a quella concessa. Rischia ora un procedimento penale.
Le sue dimissioni sono state uno shock per tutto il paese. «Per lei la scelta è giusta, per noi fedeli, per il protestantesimo, è sbagliata», ha detto il teologo critico Friedrich Schorlemmer. E da parte cattolica il presidente della Conferenza episcopale tedesca, vescovo Robert Zollitsch è stato il primo a rammaricarsi per l´uscita di scena della "papessa luterana".

Repubblica 25.2.10
Salvate il soldato bambino
Viaggio tra i guerrieri-ragazzini del Congo. Che ora combattono la battaglia più importante: quella per conquistare un futuro normale
di Pietro Del Re

Sono stati presi con la forza, costretti a imparare a combattere, spinti ad ammazzare e torturare I "kadogo", i bambini-soldato del Congo, sono il volto più feroce delle guerre che insanguinano il continente. Ma ora c´è qualcuno che cerca di riportarli alla normalità
Il Centro Madre Misericordia di Kamituga ospita una decina di reduci teenager
Aiutarli è difficile: quando lasciano le armi non hanno un lavoro, né una casa né una famiglia
Se ne contano anche nell´esercito regolare, che dovrebbe vietarne l´arruolamento
Si calcola che più della metà degli effettivi delle bande ribelli sia composta da minori

KAMITUGA (CONGO) Bienvenu Kakulé sa come torturare un uomo con il coltello. Sa come farlo soffrire a lungo, pizzicandolo al ventre e in testa senza mai affondare la lama, prima di finirlo con un fendente alla gola. Ma Bienvenu non sa leggere. Non ha un lavoro, né una casa. Non ha più neanche una famiglia. A 17 anni questo ex bambino-soldato, o ex kadogo, neologismo locale che indica "una piccola cosa, senza importanza", vorrebbe tornare sui banchi di scuola. «Sono stato arruolato quando avevo 9 anni, e a 10 avevo già ucciso il mio primo prigioniero: il nostro comandante ce li lasciava a noi, gli ostaggi, perché sosteneva che i bimbi non provano pietà», racconta Bienvenu.
Lo incontriamo nel centro Madre Misericordia di Kamituga, duecento chilometri a Sud del lago Kivu, nel cuore di quella che una volta era un´ampia giungla di montagna, e che il disboscamento e l´erosione hanno reso un´interminabile sequela di colline calve. Il centro è appena stato ristrutturato dalla Cooperazione italiana, che adesso gli fornisce farmaci, lettini ginecologici, zanzariere, libri scolastici e soldi per acquistare cibo. Qui, infatti, oltre agli ex kadogo, sono promiscuamente ascoltati, auscultati, consigliati, ospitati e nutriti malati di Aids, donne violentate, vedove di guerra e un centinaio di orfanelli. «Ma sono proprio gli ex bambino-soldato i più difficili da aiutare perché la gente ha ancora paura di loro e nessuno vuole assumerli», dice Fabrizio Falcone dell´ufficio della Cooperazione di Goma.
Bienvenu è stato smobilitato pochi mesi fa grazie all´operato dell´Unicef. «Cerchiamo di recuperare i ragazzi negoziando direttamente con i ribelli: dal 2005 ne abbiamo liberati 34.000, e 2.953 solo dall´inizio del 2009», spiega la newyorchese Tasha Gill, specialista della protezione dei bambini nel conflitto congolese. «Nel paese abbiamo creato 17 centri per accogliergli e paghiamo 250 famiglie per un loro primo reinserimento». Già, perché smobilitarli non basta. Per scongiurare il rischio di riarruolamenti è necessario seguire da vicino i loro primi passi verso la normalità. «Molti recuperano, ma per altri è più difficile. Mi riferisco a coloro che hanno sofferto di più, che hanno assistito allo stupro di persone care, o ai quali è stato chiesto di uccidere un genitore o una sorellina». Per loro sono necessarie cure psichiatriche o psicologiche, che spesso però non possono seguire, sia per mancanza di farmaci sia di personale specializzato.
Bienvenu ci aspetta assieme a una decina di suoi compagni di sventura. Tutti loro sono stati carne da macello per le milizie implicate nella guerra infinita che dal 1996 nel Congo orientale ha già prodotto 4 milioni di morti. Quando combattevano assieme ai ribelli hanno tutti patito la fame, la fatica, le malattie. Hanno tutti violentato, saccheggiato, ucciso. Quell´infanzia trascorsa tra marce forzate nella giungla, digiuni e imboscate ha lasciato cicatrici difficilmente sanabili: due dei dieci ex kadogo del centro di Kamituga tartagliano, tre hanno deturpanti tic nervosi.
Le loro storie si somigliano tutte. Racconta Mukulutombo Kisimbi: «Quando avevo 12 anni il mio villaggio è stato circondato dai ribelli Mai Mai, i quali hanno prima ucciso mio padre, poi dato fuoco alle case. Sono stato costretto a seguirli nella giungla. Mi hanno picchiato fino a quando non ho imparato a combattere». Dice Christian Nyangi: «Avevo 8 anni quando sono stato preso. Vista l´età, pensavo che non mi avrebbero fatto combattere. Mi sbagliavo. Mi hanno messo in prima linea. Facevo finta di mendicare per le strade. Appena i nemici mi davano le spalle io li attaccavo». Riferisce Kilongo Lipanda: «Un giorno mi sono rifiutato di andare a saccheggiare un villaggio e mi hanno bastonato. Alla fine sono stato costretto a unirmi agli altri. In quel villaggio viveva la mia famiglia».
Ma quanti sono i kadogo nel Congo orientale? Nessuno lo sa. E nessuno osa ipotizzare cifre. «Sappiamo però che le milizie continuano ad arruolarli o riarruolarli con violenza», spiega la Gill. «Ci sono anche coloro che si arruolano volontariamente, abbagliati dall´illusione di facili guadagni, ma non superano il 20 per cento». Si sa anche che più della metà degli effettivi delle venti milizie ribelli del Congo orientale è composta da kadogo. Ci sono bambini-soldato perfino nelle Forces armées de la République Démocratique du Congo, le regolari Fard, che dovrebbe invece impedire l´arruolamento dei bimbi tra i ribelli, e che sono accusate di compiere nei villaggi le stesse scorrerie della guerriglia, con la medesima ferocia. Dice ancora Falcone: «Il problema è che il governo non ha soldi per pagare neanche i propri soldati: compiono tutti atrocità contro i civili, poi si scaricano l´un l´altro la colpa».
Dei quasi tremila kadogo liberati lo scorso anno, solo 387 sono bambine (le più giovani hanno 12 anni). Per i soldati, regolari o ribelli che siano, più che "combattenti" queste sono considerate donne a tutto tondo, e perciò destinate a fare il bucato, cucinare, soddisfare i loro appetiti sessuali. Perciò, quando un´organizzazione internazionale riesce a identificarne la presenza in una milizia, è molto difficile che vengono liberate. Ora, secondo Felix Ackebo, capo sezione dell´Unicef a Goma, la maggior parte delle volte sono le bambine stesse che rifiutano di abbandonare la guarnigione di chi le ha schiavizzate. Hanno paura della libertà, perché una volta diventate "serve" della truppa, il loro villaggio e la loro famiglia si rifiuteranno di accoglierle nuovamente, poiché nessuno vorrà sposarle. «Che i kadogo vengano arruolati per combattere, per soddisfare le voglie sessuali dei capi, che siano destinati ai lavori forzati nelle miniere o al trasporto delle armi, a noi poco importa: in ogni caso si tratta di violazione dei diritti dell´infanzia», spiega Ackebo.
Come spiega Paolo Urbano della nostra Cooperazione a Kinshasa, nel Congo orientale c´è una mescolanza di problematiche etniche e di enormi interessi commerciali. È come se il paese fosse vittima della propria ricchezza. «Il governo non ha i mezzi per proteggere quel territorio ambito da tutti perché pieno di legni pregiati e di minerali costosissimi. Qualsiasi ditta che voglia sfruttare queste risorse deve pagare una sorta di pizzo a chi controlla militarmente la regione. Perciò le alleanze tra ribelli si creano e si disfano di continuo, e ogni fazione ha sempre bisogno di nuovi uomini, di staffette, cecchini, sentinelle e così via». Ha bisogno, cioè, di manovalanza armata. Anzi di bassa manovalanza, perché non pagata. O di kadogo, che sono appunto "una piccola cosa", e che non costano nulla. Basta arruolarli, o meglio, rapirli dopo aver depredato un villaggio.
Le testimonianze dei dieci ex kadogo del centro Madre Misericordia non sono storie di bambini-soldati, ma piuttosto di martiri-soldato. Racconta ancora Bienvenu: «Quando nella giungla non trovavamo scimmie o serpenti a cui sparare, eravamo costretti a rubare il bestiame nei villaggi. Un giorno mi hanno costretto a mangiare carne di un militare ucciso. Se avessi rifiutato, mi avrebbero ammazzato come avevano fatto con altri bimbi».
Adesso Bienvenu sta imparando a leggere. Vorrebbe prendere la licenza elementare, e un giorno diventare agronomo. Il suo è solo un sogno, perché è disoccupato, e non ha neanche i pochi franchi necessari per iscriversi a scuola. Ma lui ci crede ugualmente. Dopotutto, nel corso della sua breve vita, ha affrontato situazioni ben più difficili.

Repubblica 25.2.10
In molte aree del mondo anche possedere un mitra è un privilegio
Uccidere per sopravvivere così nascono i baby-killer
di Guido Rampoldi

Chi più di ogni altro capì le potenzialità militari della prima adolescenza fu Pol Pot. Il cambogiano aveva studiato presso l´università parigina della Sorbona, ma probabilmente ignorava quella scuola di pensiero che da Sant´Agostino a Freud intuisce una certo grado di malvagità dietro l´apparenza innocente dei bambini. Però intendeva costruire l´Uomo nuovo, ed era convinto che quel nemico irriducibile del mondo decadente potesse nascere soltanto dalle menti incorrotte dei Khmer giovanissimi, se opportunamente addottrinati. Quando, conquistata Phnom Penh, ebbe modo di sperimentare la sua teoria, i risultati furono rimarchevoli. Migliaia di ragazzi analfabeti furono trasformati nei più spaventosi aguzzini che l´Asia ricordi. «Ammazzavano con una naturalezza sconvolgente», mi raccontò molti anni dopo una cambogiana espatriata in Francia, spiegandomi perché non sarebbe mai più rimpatriata: se quella generazione era il futuro, il Paese era spacciato.
"Naturalezza" in questo caso è parola problematica, in natura sono rarissimi i mammiferi che pratichino l´overkilling, l´uccidere in eccesso e senza scopo, per frenesia omicida priva di ragione pratica. Ma neppure si può dire che a quell´età i guerrieri di Pol Pot ammazzassero per odio di classe: cosa poteva saperne della borghesia cambogiana la Khmer di cui lessi in una lettera pubblicata dal Phnom Penh Post? Nella Cambogia di Pol Pot dirigeva un "campo di rieducazione". Un mostro, scriveva il sopravvissuto. L´aveva vista uccidere per un´inezia e giurava che, se ne avesse avuta l´opportunità, l´avrebbe volentieri strangolata. La Khmer - concludeva la lettera, quasi si trattasse di un dettaglio - all´epoca dei fatti aveva dodici anni.
Quel che rendeva quella ragazzina così proclive ad uccidere probabilmente non era l´ideologia, ma, almeno in origine, la paura di essere a sua volta uccisa. Chi esita è un traditore, la regola che trasformò una generazione di piccoli montanari Khmer in uno sciame di sistematici assassini, potrebbe spiegare la facilità all´omicidio dei bambini-soldato congolesi di cui ci parla Pietro Del Re nel suo reportage. Anche quelli sono cresciuti nella pancia di una guerra caotica nella quale i più deboli, non più protetti dalle remore morali di una società ordinata, possono facilmente convincersi che la loro unica difesa risiede nell´ammazzare per non essere ammazzati. Del resto, chi presta attenzione alla loro sorte? Il Protocollo delle Nazioni Unite che solennemente vieta l´impiego in guerra di bambini-soldato resta una di quelle proibizioni prive di qualsiasi efficacia che riempiono gli scaffali del Palazzo di Vetro. Quella parte d´Africa continua a richiamare eserciti e trafficanti di armi con le sue straordinarie ricchezze. E il Congo di fatto è uno Stato collassato, decomposto a tal punto che il bambino con il kalashnikov è comunque un fortunato rispetto alle migliaia di coetanei che villaggi e famiglie scacciano considerandoli indemoniati, o peggio, consegnano ad esorcisti cristiani che li tortureranno a lungo, perché il diavolo abbandoni i loro corpi.
Nella sola Kinshasa, la capitale del Congo, quei "bambini stregati" sarebbero diciottomila, stima l´associazione italiana Amici dei Bambini (Ai. Bi.) che si prenderà cura di 500 di loro attraverso un programma finanziato con sms solidale (48542). Secondo le credenze locali i sintomi di stregoneria in un bambino sono la sua presenza in concomitanza di piccole o grandi disgrazie, e comportamenti tra i più comuni, come fare la pipì a letto o essere iperattivi e distratti. Tanto basta perché famiglie poverissime si liberino da una bocca da sfamare, e un prete-esorcista trovi una cavia su cui esercitarsi.

l'Unità Firenze 25.2.10
Da oggi al 18 luglio 31 opere in mostra a Palazzo Strozzi a Firenze
Presenti anche splendidi lavori di Ernst, Magritte, Carrà e Morandi
Lo «sguardo dell’invisibile» esalta l’opera di De Chirico
di Gianni Caverni

Articolata in 7 sezioni la mostra offre l’occasione per godere di opere straordinarie come “L’enigma dell’arrivo e del pomeriggio”, “La torre”, Paesaggio romano”, “Il trovatore”, “Tempio nella stanza”.

C’è una parola per definire “De Chirico, Max Ernst, Magritte, Balthus – Uno sguardo nell’invisibile”, la mostra che da oggi e fino al 18 luglio occuperà il piano nobile di Palazzo Strozzi, a Firenze. Questa parola è “bellissima”. Di tutte le mostre che, in questi tre anni di Fondazione Palazzo Strozzi, si sono succedute siamo convinti che questa sia la più bella. Un vecchio manichino da sartoria ci accoglie come una delle “Muse inquietanti” del maestro nato in Tessaglia, a Volo (toponimo quanto mai azzeccato perché il caso, arguto e creativo, ci mette spesso lo zampino). «Le cose e le persone – spiega Paolo Baldacci che con Gerd Roos e Guido Magnaguagno ha curato la mostra – insieme sono e non sono le stesse cose e persone». Questa intuizione il ventunenne De Chirico l’ebbe proprio a Firenze, in piazza Santa Croce, nel 1909: nell’autoritratto dell’11 l’iscrizione in latino recita «cosa potevo amare se non l’enigma?». Nasce la Metafisica che va oltre le ricerche formali dei cubisti e che, come dice ancora Baldacci, «influenzò contemporaneamente movimenti d’avanguardia come il Dadaismo ed il Surrealismo, e movimenti conservatori». Insomma De Chirico è al centro della trasformazione di molta dell’arte del secolo scorso e non è un’eresia dire che anche nella Transavanguardia di Chia e Paladino se ne sente l’eco. Se il rapporto intimo fra realtà e sogno viene solo segnalato dalla pittura metafisica il surrealismo approfondirà l’argomento dando ormai come punto di non ritorno la consapevolezza che l’immagine come la parola non rappresentano più la natura. Articolata in 7 sezioni la mostra offre l’occasione per godere di opere straordinarie come “L’enigma dell’arrivo e del pomeriggio”, “La torre”, Paesaggio romano”, “Il trovatore”, “Tempio nella stanza” per citare solo alcune delle 31 opere di De Chirico esposte. Ma anche i quadri del Carrà e del Morandi metafisici, “L’isola degli incanti” e “La siesta” di Alberto Savinio, fratello di De Chirico. La IV sezione, “Spostamenti di senso”, propone Max Ernst e di René Magritte fra gli altri uno spiazzante “La chiave dei sogni”. Poi Balthus (con il gigantesco “Le passage du Commerce-Saint-André”), Stecklin, Roy e l’ingiustamente meno conosciuto Arturo Nathan, triestino.
Come è ormai consuetudine delle mostre della Fondazione Strozzi molte le opportunità offerte alle famiglie e le iniziative collaterali. ❖
PER SAPERNE DI PIÙ: www.palazzostrozzi.org