lunedì 1 marzo 2010

l’Unità 1.3.10
L’Italia e gli immigrati
Il Paese del Primo Marzo
di Jean-Léonard Touadi

C’era una volta un paese di emigrati. Gli italiani che lasciavano le loro terre alla ricerca di pane e dignità. A quegli italiani il paese deve molto perché hanno assicurato per decenni, per se stessi e per i familiari rimasti in patria, una vita dignitosa. La memoria di questi cittadini tra due mondi, spesso maltrattati e soggetti a continue discriminazioni, è un monito a non fare agli altri, agli immigrati di oggi, ciò che è stato fatto a noi quando “gli albanesi eravamo noi” secondo il bellissimo libro di Gian Antonio Stella dal titolo assai rivelatore, «L’Orda».
Ed eccola qui, l’orda: l’ “invasione” evocata strumentalmente pochi giorni fa dal presidente del Consiglio Berlusconi; l’ondata nera dei criminali stigmatizzati con un’equazione tra immigrazione e clandestinità che ha profondamente indignato, oltre a migliaia d’italiani, anche la Caritas e il quotidiano L’Avvenire; l’orda di coloro che rubano il lavoro agli italiani quando tutti sanno che il lavoro immigrato per ora è complementare e non competitivo rispetto a quello degli italiani; la marea dei bambini stranieri che andrebbero separati dai loro coetanei italiani. E la lista potrebbe continuare.
Ma l’Italia dovrà rendersi conto che l’immigrazione è un fenomeno strutturale. L’immigrazione rappresenta la cifra precipua delle profonde trasformazioni che il paese deve affrontare da qui ai prossimi decenni, dove la capacità di confrontarci con le sfide della contemporaneità si misurerà con il nostro modo di gestire con responsabilità e innovazione normativa e programmatica la questione dell’immigrazione. Attraverso l’irrompere dell’immigrazione nel nostro tessuto produttivo e socio-culturale, dentro i processi di mutamenti urbani e all’interno dei meccanismi formativi delle nuove generazioni, l’Italia dovrà dimostrare la sua propensione a traghettarsi dentro la globalizzazione con mappe concettuali e strategie operative all’altezza della complessità contemporanea. È la grande novità dell’innesto che “pro-voca”, chiama a sé, e che stimola con la promessa della ricchezza data dalla diversità.
Il 1 ̊ marzo assume così il valore di un passaggio simbolico importante. Possiamo dire che costituisce un evento-avvento per la società italiana. Essa è chiamata a interiorizzare ciò che viene quotidianamente rimosso. Il 1 ̊ marzo potrebbe assumere per la coscienza civile più intima di questo paese le caratteristiche di un momento iniziatico, di passaggio verso una definitiva consapevolezza di essere diventato altro grazie all’irrompere degli altri. È un invito alla responsabilità, nel senso letterale di misurare il peso (res/pondus) della presenza e dell’agire dei nuovi cittadini per, insieme, costruire un futuro comune.

l’Unità 1.3.10
Identità negate
di Luigi Manconi

Nel deserto della città terremotata scavalcando le transenne e invadendo le strade segnate dalle macerie, gli aquilani hanno “ripreso” le loro case. O meglio: ciò che ne resta. Come il fondale di un teatro o come le facciate di legno sul set di un film western, l’improvvisa animazione di una folla di abitanti ha dato vita a un’assenza e ha riempito i vuoti di un centro storico che ricorda un paesaggio post-bellico. Gli assenti, gli aquilani dispersi nelle “casette” e negli alberghi, o in alloggi di fortuna sono tornati sulla scena con la “manifestazione delle carriole”. Manifestazione, cioè l’atto del manifestare. Quando si manifesta, in gene’re, è una buona cosa. Significa, farsi vedere e far vedere, rendere pubblico, dare visibilità a ciò che è occultato o negato.
Oggi manifesteranno altri assenti: finora occultati o negati. Lo sciopero degli immigrati è propriamente questo: è la manifestazione – fatta di molte manifestazioni – di un popolo che semplicemente non si vede. O che, peggio, si vede (viene visto) solo come un fattore di allarme sociale, e di angoscia collettiva. E che richiama immagini di invasione o – in chi ha “un cuore grande così” – un sentimento di rimorso, che può avere effetti negativi non minori di quelli prodotti dalla paura sociale. Perciò è così importante, al di là del numero di quanti oggi vi parteciperanno, che il “primo marzo degli immigrati” abbia successo e dia vita ad altre giornate come questa. Ed è assai significativo che, a promuoverlo, siano state, tra gli altri, le comunità straniere: perché qui sta la sfida più ardua, che non si esaurisce certo in ventiquattro ore ma che, al contrario, da questo primo marzo può prendere le mosse.
In gioco c’è, infatti, ciò che chiamiamo soggettività: l’identità individuale e collettiva, le biografie e le memorie, le culture e i vissuti e le aspettative. Gli immigrati sono da tempo nella società italiana, profondamente inseriti nelle sue sfere di vita e nei suoi gangli economici: accudiscono i nostri bambini e i nostri vecchi e reggono settori come l’agroalimentare e l’allevamento, l’edilizia, la ristorazione, la siderurgia, la pesca e altri ancora. Sostengono in misura rilevante il nostro sistema di welfare, surrogandolo attraverso il “lavoro di cura” e incrementandolo attraverso la contribuzione previdenziale. Sono lì, nelle case e negli uffici, nei mezzi di trasporto e nelle pizzerie, ma semplicemente non li vediamo. Ovvero non li “pensiamo”. Non è questione di buoni sentimenti e nemmeno di buone intenzioni. Fino a quando gli immigrati rimarranno una folla anonima e indistinta, senza nome e senza volto, senza personalità e senza passato, ci appariranno molesti e minacciosi e la loro distanza da noi tenderà a crescere: e a renderci ancora più insicuri.
Sapete perché in Italia non si è mai sviluppato un movimento come SoS Racisme in Francia? Molti i motivi, ma uno in particolare va considerato oggi. Lo slogan del movimento francese era: non toccare il mio amico. Ma in Italia quanti possono dire di avere e non in senso ideologico o solidaristico un amico immigrato?

l’Unità 1.3.10
«24h sans nous»: sui diritti la Francia fa da apripista
In Francia è nata l’idea della mobilitazione. «24 ore senza di noi». Un giorno di astensione dal lavoro e dal consumo. Solidali i sindacati. Inviata una richiesta di adesione a Sarkozy, in quanto figlio di immigrati ungheresi.
di Luca sebastiani

Più che di uno sciopero vero e proprio, si tratta di un’azione simbolica. L’iniziativa «24 ore senza noi, una giornata senza immigrati», chiama infatti alla mobilitazione oggi tutti gli «immigrati, i figli di immigrati e i cittadini coscienti» attraverso un giorno d’astensione dal lavoro e/o dal consumo, per rendere manifesto da una parte che l’apporto dei nuovi «francesi» è determinante all’economia d’Oltralpe, e dall’altra che gli immigrati e i loro figli non ne possono più di essere utilizzati strumentalmente dalla politica.
L’idea dello «sciopero», che oggi dovrebbe vedere la partecipazione di diverse migliaia di persone in tutto il paese, è infatti nata su iniziativa di un collettivo che lo scorso autunno ha deciso di reagire alla politica dell’immigrazione del governo, che con il cosiddetto dibattito sull’identità nazionale ha spesso usato l’immigrato come capro espiatorio di tutti i mali francesi. Secondo Nadia Lamarkbi, presidente di 24 heures sans nous, l’idea di dimostrare quanto pesi nei fatti l’apporto economico dell’immigrazione (11% della forza lavoro), è nata quando lo scorso settembre il ministro dell’Interno Brice Hortefeux, braccio destro del presidente Sarkozy, mentre faceva una foto in compagnia di un giovane militante sarkozista di origine magrebina ha detto che «quando ce n’è uno va bene, il problema è quando ce ne sono tanti». Non è stata l’unica gaffe. Sono diversi i membri della maggioranza che hanno rilasciato dichiarazioni più o meno razziste, tanto che gli immigrati si sono sempre più sentiti stigmatizzati e Sarkozy è dovuto intervenire per calmare le acque. Ciò che non ha impedito al collettivo 24 heures sans nous di crescere e raccogliere sostegno e adesioni principalmente su internet.
Oggi gli organizzatori sperano di ripetere il successo di un’esperienza statunitense simile, quella del 2006, quando migliaia di immigrati ispanici bloccarono le città americane per protestare contro una legge sul lavoro clandestino voluta da George Bush. Allora gli immigrati riuscirono a far ritirare il testo, ma il problema della giornata senza immigrati à la française, che oggi si terrà anche in Italia e Grecia, e che non ha nessuna finalità rivendicativa e dunque faticherà a mobilitare i grandi numeri, soprattutto tenuto conto delle condizioni di debolezza lavorativa cui sono costretti i lavoratori immigrati.
SOLIDARIETÀ DEI SINDACATI
Gli organizzatori hanno incassato però la solidarietà delle sigle sindacali e delle forze della gauche d’opposizione, pur rifiutando qualsiasi strumentalizzazione. A questo fine hanno anche inviato una lettera al presidente Sarkozy invitandolo a partecipare in quanto figlio di immigrati ungheresi, ma non hanno contestato nessuna delle leggi sarkoziste e neanche chiesto la chiusura del ministero dell’Immigrazione e dell’Identità nazionale che i socialisti considerano una vergogna.
Oggi i partecipanti alla giornata senza immigrati si ritroveranno davanti ai municipi di Lione, Parigi, Bordeaux, Marsiglia e tante altre città, ma nessuna manifestazione unitaria è stata prevista per lasciare che il movimento si sviluppi orizzontalmente. Intanto a Parigi è arrivato al quarto mese lo sciopero coordinato dalla Cgt dei lavoratori sans papiers. Secondo il sindacato sono circa seimila i partecipanti che chiedono la regolarizzazione.

l’Unità 1.3.10
Palloncini gialli, ma anche musica e cucina etnica La protesta in mille piazze
Alle 18, 30 in punto il cielo di colorerà di giallo in sessanta città d’Italia: verranno lanciati in aria palloncini gialli (in lattice biodegradabile). Il giallo è infatti il colore scelto per la manifestazione di oggi.
di Marzio Cecioni

Nata in maniera spontanea sul web (grazie anche ad gruppo su Facebook) la protesta del Primo Marzo ha ricevuto in Italia una lunga serie di l’adesione, tra cui Emergency, Amnesty, i missionari del Pime e Legambiente, di partiti politici (Pd, Verdi, Sel e Rifondazione Comunista) e di sindacati Cgil, Cisl, Uil e Cobas, che pur dando il loro sostegno, non hanno proclamato lo sciopero generale a livello nazionale.
Ogni città si mobiliterà in modo diverso. A Roma alle 17, il corteo da da Porta Maggiore a piazza Vittorio, dove alle 18. Qui sono previsti concerti, con l’esibizione dell’Orchestra multietnica di Piazza Vittorio e una serie di interventi. A Milano, ritrovo alle 9,30 fuori da Palazzo Marino, il corteo farà giro attorno al municipio milanese. Alle 17,30 raduno in piazza Duomo. Qui, lezioni di lingue straniere; verranno offerte spremute d’arancio da bere per «Rosarno chiama Italia: l’unica cosa che vogliamo spremere sono le arance»; partenza del corteo in direzione di piazza Castello alle 19, poi interventi e musica dal vivo.
A Genova, alle 18 (commenda di Prè) la partenza del corteo, arrivo piazza Matteotti, qui festa e concerto. A Brescia, giornata di mobilitazione in piazza della Loggia, con presidio dalle 10 alle 14. Presidi in vari mercati della provincia (ad esempio a Rovato dove confluiranno le donne), davanti scuole e fabbriche. A Napoli, partenza del corteo alle 11 da piazza Garibaldi. Siracusa e Catania: alle sei del mattino pellegrinaggio in pulmino nei luoghi del caporalato nella campagna attorno a Cassibile. A Catania presidio nella zona in cui si concentrano i venditori senegalesi (piazza Stesicoro). Alle 18 cortei, festa, musica e cucina etnica. Perugia: in programma, a partire dalle 14.30, raduno in piazza Italia, da qui corteo in direzione di corso Vannucci che confluirà a piazza IV novembre. Poi, musica fino alle 18.30. A Bologna, appuntamento alle 16 in piazza del Nettuno: qui mostra fotografica con i volti dei nuovi cittadini italiani. A Bari, alle 18.30, in piazza del Ferrarese, lettura di testi sui temi della giornata, testimonianze e racconti delle comunità migranti di Bari. Forlì Cesena: alle 16,30 in piazza Saffi gazebo e tavoli: animazione per bambini e musica. Trieste: alle 15 ritrovo in piazza Sant’Antonio e partenza di una “squadra” che andrà a cancellare le scritte razziste dai muri delle città. Alel 17 da piazza Ponterosso, corteo.
Reggio Emilia: dalle ore 10 alle 18, in piazza Casotti e alla prefettura. Ancona: corteo da corso Carlo Alberto a piazza Roma, partenza alle 9.30. Firenze: presidio in piazza SS Anunziata, dalle 16. Rimini: alle 17, alla stazione la partenza del corteo che sfilerà per le vie del centro. Alle 19, alla Vecchia Pescheria “Sound meticcio” aperitivo tematico. A Torino, il mercato della Crocetta verrà «ricoperto» di giallo; palloncini saranno distribuiti nelle scuole con più del 30% di immigrati; corteo alle 17 dalla stazione di Porta Nuova.

l’Unità 1.3.10
5 risposte da Yael Dayan
I fanatici di Eretz Israel
di Umberto De Giovannangeli

Non dobbiamo sottovalutare la pericolosità dei coloni oltranzisti. Costoro sono tutt’altro che una «scheggia impazzita» della società israeliana. I fanatici del «Grande Israele» possono contare su coperture politiche ai massimi livelli del governo.
Guerra di religione
Dietro il piano del governo sulla protezione del patrimonio ebraico c’è una visione della storia fortemente ideologizzata, nella quale anche vittorie militari, come la Guerra dei Sei giorni, vengono concepite come «segno» divino.
Lode del compromesso
Si tratta di concepire le ragioni dell’altro non come un ostacolo all’affermazione delle proprie (ragioni) ma al contrario come base per raggiungere una pace che si pone a metà strada tra le rispettive aspirazioni e rivendicazioni.
Il «Nuovo inizio»
Continuo ad avere fiducia nelal volontà di Barack Obama di voler far uscire dallo stallo il processo di pace. Ma la sua è una corsa contro il tempo e il tempo in Medio Oriente non lavora per la pace.
Il «caso Dubai-Hamas»
Il diritto di difesa non giustifica gli squadroni della morte. E poi dobbiamo interrogarci sui risultati delle «eliminazioni mirate» come sull’assedio di Gaza. Il pugno di ferro non ha indebolito Hamas ma ha finito per alimentare l’odio dei giovani palestinesi verso Israele.

l’Unità 1.3.10
Bonino difende Mambro-Fioravanti Gelo a sinistra
Fino a un minuto prima la platea di Sinistra Ecologia e Libertà, riunita per lanciare con Vendola la campagna elettorale per Emma Bonino, applaudiva alla «non violenza», a quel chiamarsi «compagni anche se con accezioni diverse», alla necessità di prendere le distanze dal ’900. Poi il gelo, quando la candidata alla presidenza della Regione Lazio scandisce la sua condanna della «campagna ostile che sento in questi giorni nei confronti di Mambro e Fioravanti che hanno pagato il loro debito con la giustizia». La sua è una «provocazione da prendere sul serio», dice Vendola che non rifiuta il tema, anche se lo rubrica tra gli argomenti «rasposi», forse «da non affrontare in campagna elettorale». E comunque «bisogna prendere in massima considerazione il rispetto del dolore dei parenti e degli amici». Il principio, dice è condivisibile: «La pena ha una funzione di rieducazione e non è tortura». Il resto è un tema tutto da sviluppare: «come si costruiscono forme serie di riconciliazione». MA.GE.

Repubblica 1.3.10
Caravaggio da record così i maestri dell'arte mettono tutti in fila
di Francesca Giuliani

Roma: per la mostra 5000 visitatori al giorno
Negli ultimi anni Giotto a Firenze e Van Gogh a Treviso le esposizioni di maggior richiamo

ROMA - Sarà l´aura maledetta che ancora lo circonda o la fama che, a quattrocento anni dalla morte, fa di lui uno dei pittori più amati di tutti i tempi, ma a Roma è il trionfo di Caravaggio: la mostra alle Scuderie del Quirinale ha totalizzato 45mila visitatori in nove giorni stabilendo il record di cinquemila ingressi quotidiani. Un dato che va ad insidiare il primato assoluto della mostra fiorentina su Giotto nel 2000.
«Caravaggio è come Dante Alighieri letto da Benigni, da Carmelo Bene o da Gassman: esprime una grandezza che il pubblico avverte e che parla a diversi livelli di comprensione, dall´occhio del semplice amante dell´arte a quello dello studioso», spiega Claudio Strinati ideatore di questa mostra-record in cui, per la prima volta, si possono vedere le opere di attribuzione certa dell´artista, a cura di due studiosi come Rossella Vodret e Francesco Buranelli.
Sulla piazza del Quirinale per La Canestra di frutta dell´Ambrosiana o I Bari arrivati dal Texas, c´è coda anche al mattino o in settimana, nella città in cui pure tanti capolavori sono esposti sempre, dalle chiese ai musei e alle gallerie: «Caravaggio è una rockstar - commenta Mario De Simoni, direttore generale dell´azienda Palaexpò-Scuderie - Con un avvio simile ci aspettiamo un incremento di visitatori e persino un margine di utile». La mostra è costata 2 milioni 700 mila euro; i ricavi si hanno al di sopra dei 300/400mila visitatori: «Fatto rarissimo per un appuntamento di questa rilevanza scientifica», conclude De Simoni.
L´artista che si celebra alle Scuderie è stato protagonista di un´altra mostra recente di buon successo, curata da Anna Coliva alla Galleria Borghese, in cui lo si accostava a Francis Bacon. Spiega Coliva: «In Caravaggio c´è un maledettismo biografico che rende il visitatore protagonista; noi viviamo nell´epoca del più totale individualismo: credo che questo aspetto spieghi il successo di Caravaggio, parte di una triade di star dell´arte insieme a Van Gogh e a Leonardo. Per artisti pure sublimi come Poussin o Raffaello successi simili sono impensabili. Manca un riconoscimento personale, narcisistico».
Da Caravaggio a Van Gogh, da Picasso a Monet, che sia rito laico o moda, il boom delle mostre è qualcosa che Marco Goldin padroneggia, avendo curato di esposizioni come "L´impressionismo e l´età di Van Gogh" a Treviso che totalizzò 602mila visitatori. E allora qual è il segreto? «Non tentare bluff, mettendo in locandina artisti di cui poi non si presentano opere di qualità - dice Goldin - Fidelizzare il pubblico che, in linea generale, è richiamato da una volontà di approfondimento personale, da un bisogno di bellezza. Il fenomeno-mostre può poi scattare come con altri prodotti, come una borsa che compri perché ce l´hanno tutti».

Repubblica 1.3.10
Il fascino di un genio irregolare
Rissoso fino all´omicidio, sfrontato, dissoluto e irriverente Anche la sua morte è una specie di "giallo": morì a Port’Ercole di febbre e di stenti
di Corrado Augias

Il fascino di Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, sta nella qualità delle pitture, nella sregolatezza della vita, nell´alone di leggenda che ne circonda la morte. Non avendo responsabilità di storico né di critico posso tagliare grosso: Caravaggio è uno dei pittori più potenti della nostra storia. In che cosa risieda questa ‘potenza´ si può vedere in alcune delle opere esposte alle Scuderie ma anche, e lo consiglio, in alcune tele rimaste in situ e cioè in alcune chiese romane. A Santa Maria del Popolo ci sono la conversione di Paolo e il martirio di Pietro. Nel quadro di Paolo la luce piomba dritta sull´apostolo atterrato e sul fianco poderoso del cavallo. Nella chiesa di sant´Agostino si trova la celebre "Madonna dei pellegrini" per la quale posò un´amante del pittore. Il primo piano è occupato dell´ingombrante deretano e dai piedi sporchi dell´uomo inginocchiato davanti alla Vergine. A San Luigi dei Francesi si trova, tra le altre, la commovente "Vocazione di Matteo" tagliata trasversalmente dalla luce con la figura di Gesù quasi in ombra nel lato destro. In tutti questi quadri la connotazione realistica parve, nel clima della Controriforma, poco meno che ingiuriosa. In un´epoca in cui la chiesa cattolica, sgomenta per il dilagare del protestantesimo, cerca d´imporre un´arte edificante e ideologica, Caravaggio dipinge le crude verità della vita: i suoi santi non fissano rapiti il cielo, non congiungono le mani nella preghiera. Nella gloria o nel martirio restano esseri umani, i loro corpi mostrano la fatica, la vecchiaia, la miseria, il peso della carne. Anche la vita dell´artista è di pari fascino. Irregolare, geniale, rissoso fino all´omicidio, frequentatore di prostitute e di giovanetti, pronto a gesti sfrontati come quando getta un piatto di carciofi in faccia a un povero cameriere che lo ha contraddetto. Ma a dispetto di questo sulla sua figura resta sospesa un´ombra d´isolamento. Come ha scritto Giulio Mancini conoscitore d´arte: " Non si può negare che non fusse stravagantissimo". Quella ‘stravaganza´ possiamo decifrarla come un´inquietudine dovuta a chissà quale torsione dell´animo o forse alla consapevolezza orgogliosa di essere il più dotato tra quanti a Roma dipingevano tele e pale d´altare.
Con un termine abusato possiamo dire che i suoi ultimi giorni, e la morte, sono un giallo. Il poco che sappiamo lo dicono i suoi approssimativi biografi. Sappiamo che sbarca a Port´Ercole e che lì, secondo il medico senese Giulio Mancini, appassionato di pittura: «preso da febbre maligna, in colmo di sua gloria, che era d´età di 35 in 40 anni, morse di stento e senza cura et in un luogo ivi vicino fu seppellito». Altro su di lui non c´è. A parte la gloria.

Repubblica 1.3.10
L'epica della bonifica
Pennacchi. l’Agro Pontino e il fascismo sentimentale
di Valerio Magrelli

"Canale Mussolini" è il nuovo romanzo dell´autore del "fasciocomunista" Che trasforma la provocazione politica in materia estetica
I protagonisti compiono anche fatti gravi come l´omicidio di un prete
Tra le pagine più riuscite il trasferimento dei "cispadani" nel Lazio
Si parte dagli anni Venti, tra storia e cronaca. Il libro verso la candidatura allo Strega

La Musa di Antonio Pennacchi è la provocazione. Con la sua foga, con la sua insistenza, questo scrittore batte da anni sullo stesso chiodo: mostrare come il fascismo possa essere una questione di "educazione sentimentale". A ciò alludeva il concetto di Fasciocomunista, autentico marchio di fabbrica dell´autore, dal titolo del fortunato romanzo del 2003 da cui venne tratto il film Mio fratello è figlio unico. A ciò allude adesso il suo ultimo romanzo, dal titolo altrettanto emblematico di Canale Mussolini (Mondadori, pagg. 464, euro 20). Come se non bastasse, a rincarare la dose sta una dichiarazione posta ad apertura di volume: "Bello o brutto che sia, questo è il libro per cui sono venuto al mondo". È dunque su presupposti così tambureggianti e ambiziosi, che il lettore si addentra nell´opera (che per altro la Mondadori sta pensando di candidare al Premio Strega e che affronta un periodo storico diventato di nuovo soggetto-oggetto di ispirazione e riflessione narrativa, dai film ai romanzi). Al centro della trama stanno i Peruzzi del paesino di Codigoro, una grande famiglia le cui peripezie vengono ricostruite dall´alba del Novecento fino alla Seconda Guerra Mondiale.
Ma il vero nome e nume tutelare, è un altro: infatti, oltre che campeggiare nel titolo (in riferimento all´impianto di bonifica realizzato nelle paludi pontine), Mussolini compare anche nel racconto, come capo carismatico e dongiovanni impenitente. Così, cronaca domestica e Storia nazionale si intrecciano, contribuendo a delineare l´immagine di un fascismo "naturale", presentato come un esito inevitabile e spontaneo nelle scelte di un gruppo sociale proveniente dai socialisti e dai sindacalisti rivoluzionari. Fasciocomunisti, per l´appunto: "Mica stavamo con classi diverse, almeno all´inizio. Vada a vedere il programma di San Sepolcro, noi eravamo semplicemente concorrenti nella stessa classe di popolo lavoratore e si trattava solo di vedere chi è che comandava. È per questo forse che ci siamo odiati tanto, perché eravamo fratelli che si erano divisi. La gente non si odia mai con un nemico storico come si odia poi con i fratelli".
Ai discorsi, però, seguono i fatti, e fatti tanto gravi che uno dei figli del patriarca giungerà all´omicidio di un prete. Tra spedizioni punitive e riflessioni politiche, assistiamo alla nascita dei primi fasci di combattimento, alla marcia su Roma, allo scoppio della guerra civile e all´assassinio di Matteotti, cui fa eco la vita quotidiana di una famiglia di mezzadri. La creazione di un fienile, la bruciatura delle stoppie, la costruzione delle strade, l´allevamento delle vacche o delle api ispirano a Pennacchi alcune fra le pagine più riuscite di un libro il cui culmine è però rappresentato dal trasferimento dei "cispadani" nel Lazio meridionale. A fare da spartiacque (è davvero il caso di dire) dell´intera narrazione, sta il grande esodo organizzato dal regime, che spinse trentamila veneti, friulani e romagnoli ad emigrare, intorno agli anni Trenta, nell´Agro Pontino. Il motivo di tale sommovimento è affidato alle prime righe del testo: "Per la fame. Siamo venuti giù per la fame. E perché se no? Se non era per la fame restavamo là. Quello era il paese nostro. Perché dovevamo venire qui?".
Con ciò arriviamo finalmente al cuore del romanzo. Perché se la Musa di Pennacchi può dirsi viva, ciò è appunto grazie alla sua personalissima ossessione agro-pontina. È proprio questo invasamento, questo rovello a trasformare la provocazione politica in materia estetica, agendo con un intervento di fissaggio su sostanze altrimenti volatili. Ecco cosa fa di Pennacchi uno scrittore. L´immagine del Canale Mussolini diventa allora veramente il perno su cui si trova a ruotare l´intera macchina narrativa. Da qui il tono apertamente epico di certe pagine sulla colonizzazione. Sradicati dai loro paesi, i nuovi arrivati entrano subito in conflitto con i locali (primi fra tutti gli abitanti di Sezze, dipinti come apaches), prendendo contatto con un universo ostile, sebbene assoggettato di recente al dominio dell´uomo. Davanti alle paludi bonificate, non mancano allora richiami biblici ("Il Mar Rosso prosciugato"), riferimenti ai Paesi Bassi ("Ma questa è un´Olanda sterminata!") e ai Pilgrim Fathers ("Ci hanno preso col Mayflower e ci hanno portato qui"), oppure accenni alla cronaca dei nostri giorni ("Eravamo gli extracomunitari dell´Agro Pontino"). Sia chiaro: questo slancio è compensato da un attento lavoro di calibratura. Tutto il racconto, infatti, viene svolto da un personaggio senza nome, che si indirizza a un altrettanto misterioso interlocutore. In questo modo, le vicende vengono filtrate da una figura la cui identità, con un felice colpo di scena, verrà svelata soltanto nel finale. Benché il registro dialogico si faccia spesso troppo colloquiale (quando ad esempio si tratta di riportare le voci dei grandi personaggi storici), la presenza di questo portaparola assicura all´insieme una buona tenuta, e consente di seguire una struttura fatta di frequenti andirivieni cronologici.
Gli orrori della guerra chiudono la vicenda. Ma accanto ad essi, l´ultimo capitolo conosce un improvviso mutamento, con una storia di amore e perdizione che unisce un nipote del vecchio Peruzzi alla zia, una misteriosa allevatrice di api. Nel segno di una nuova nascita, la Natura giungerà a reintegrarsi nella Storia, in una pacificazione conclusiva coronata dal sogno di una nazione "venetopontina". D´altronde dove mai avrebbero potuto trovare requie i "fasciocomunisti", se non in un regione dal nome altrettanto impossibile, doppio, contraddittorio?


Repubblica 1.3.10
Denis Mack Smith
“A 90 anni sono diventato ottimista"

Il grande storico: "Alla mia età non si possono avere toni apocalittici. L´Italia non è una nazione in pace con se stessa ma è più forte di un secolo e mezzo fa"
"Rosario Romeo era invidioso del mio libro: un giorno si rifiutò di stringermi la mano"
"Renzo De Felice? Non si capacitava che uno studioso straniero avesse tanto successo"

OXFORD. «Detesto i festeggiamenti, ma a novant´anni - li compio il 3 marzo - mi è difficile proibirli». Con passo sicuro Denis Mack Smith attraversa la residenza di White Lodge, un inglesissimo villino bianco con grandi vetrate affacciate su una distesa verde. È da questo paesaggio alla Jane Austen che per oltre mezzo secolo lo studioso ha esercitato il ruolo di coscienza critica della storia italiana. «Venni ad abitare qui grazie a Isaiah Berlin», racconta l´italianista di Oxford mentre si fa strada nel giardino, a Headington «Lui viveva nella villa accanto e mi parlò di questa casa costruita alla fine del XVIII secolo». Gli occhi si stringono in una fessura. «Il mio amico Berlin era davvero straordinario in tutto: quando parlava italiano era così veloce che neppure io riuscivo a stargli dietro».
Quella per l´Italia è una passione antica, maturata negli anni della scuola. «Ero molto incuriosito dalla penisola, dal suo clima latino. Da ragazzo provai a studiarne la lingua, ma feci tutto da solo, sostanzialmente un autodidatta». Figura elegante, lo sguardo perennemente tentato dall´ironia, Mack Smith sembrerebbe figlio del più esclusivo ceto intellettuale britannico. «In realtà mio padre faceva l´ispettore delle tasse a Bristol: io sono stato il primo della mia famiglia a prendere una laurea». La sua tesi fu dedicata al nostro Risorgimento. E alla fine della guerra, ventiseienne, Denis s´affrettò nel paese di Cavour e Garibaldi. «Era il 1946, ottenni dal mio college una borsa di studio di poche sterline. Così passai un anno tra gli archivi, divorando solo libri e poco altro. Ricordo ancora la fame e il silenzio. Ho vissuto interi mesi senza parlare. Mi muovevo in un´atmosfera strana, difficile da decifrare, il paese era ancora scosso dalla guerra. Ebbi poi la fortuna di incontrare a Napoli Benedetto Croce, che mi aprì biblioteche e amicizie. L´unico problema era il suo accento: non riuscivo a capire una parola!».
Per una sorta di congiunzione astrale, la sua vita è strettamente intrecciata al destino nazionale italiano. Il libro che fece più scalpore - La storia d´Italia - uscì da noi nel 1959, a due anni dal centesimo anniversario dell´Unità d´Italia. E il suo novantesimo genetliaco precede di poco il nostro nuovo disastrato compleanno. «Per me l´Italia rimane un groviglio complicato, difficile da sciogliere», dice soppesando le parole. Nessun altro ha narrato le nostre storie di famiglia con eguale scettica acutezza. Il suo disincanto è stato promosso a sana abitudine della mente. Però ora, a novant´anni, Mack Smith si sottrae al ruolo di fustigatore dell´italianità «Oggi sento l´urgenza di essere ottimista. Uno storico non può - non deve - accomiatarsi dal lettore con accenti apocalittici. Le celebrazioni per l´Unità d´Italia si misureranno con tutte le incompiutezze nazionali, ma non bisogna esagerare nel disfattismo. Il mio amico Christopher Duggan sostiene che l´Italia appare un´idea ancora troppo malcerta e contestata per poter fornire il nucleo emotivo di una nazione, almeno di una nazione in pace con se stessa. La definizione non mi dispiace, purché non ci si lasci prendere da un eccesso di sconforto. L´Italia di oggi è incommensurabilmente più robusta e ricca che un secolo e mezzo fa». Solo quando accenna al berlusconismo, l´ottimismo volontario lascia tradire qualche crepa: «Non mi sembra una novità nella storia italiana: il populismo, il sovversivismo, l´assenza di regole fanno parte della trama che lo precede». Si ferma e guarda oltre il giardino. L´argomento sembra annoiarlo, o forse non lo riguarda più.
Per lui la storia d´Italia è quella raffigurata sulle pareti di casa, il ritratto di Garibaldi acquistato con pochi pounds da un libraio di Cambridge («Non capiva granché di politica, tuttavia un valente e onesto cavaliere»), o la ceramica di Vittorio Emanuele II a cavallo («Neppure il re, a dire il vero, era molto intelligente...»). Dei nostri sovrani, eroi e governanti ha rivelato ottusità, cinismi e compromessi. Per questo è stato liquidato come «antitaliano» e demolitore dell´orgoglio patrio. Invece «la storia d´Italia nasceva dal bisogno inconscio di spiegare al pubblico anglosassone perché il vostro paese - un paese che io amavo molto - fosse stato capace di inventare il fascismo e muovere guerra alla democrazia». Così andò in ricerca delle nostre più antiche debolezze, trovandole tra le pieghe del processo risorgimentale. Quando la Storia d´Italia vide la luce, nel 1959, fu un vero scandalo. Gli storici più paludati gli rimproverarono un eccesso di semplificazione. «In realtà io non l´avevo scritta per un pubblico italiano. A convincermi fu la tenacia di Vito Laterza, consapevole della forza dirompente del lavoro. Sia Gaetano Salvemini che Federico Chabod mi avevano dissuaso dal pubblicarlo in Italia. Ma Laterza insistette, anche per suscitare discussione. Io non ero sicuro di tutti i miei giudizi, disponibile dunque a una correzione. L´editore, però, non volle modificare una riga». Oggi la sua Storia è tra le più vendute, assecondando il nostro sottile piacere di essere osservati da uno sguardo esterno con temperata severità. «Il libro rappresentò una novità anche per la scrittura. Uno studioso di formazione anglosassone deve trovare sempre il modo per farsi leggere fino in fondo, naturalmente nel rispetto della verità. A quell´epoca gli storici italiani non si ponevano minimamente il problema». Rosario Romeo definì la sua Storia «un libello», e per il ritratto di Cavour ricorse a una formula sprezzante: «Ogni riferimento a fatti realmente accaduti è puramente casuale». «Sì, era animato da invidia ma anche da risentimento», sorride con distacco Mack Smith. «Era così offeso che un giorno si rifiutò di stringermi la mano, very unpolite. Pensava che i miei saggi facessero male ai lettori italiani. Romeo era un purista, storico eccellente, tuttavia anche un po´ tiranno». Non fu facile la convivenza neppure con Renzo De Felice, assai critico verso il suo Mussolini. «Non si capacitava che uno storico non italiano avesse avuto così tanto successo. Io mi sentivo molto diverso da loro». Diversi erano anche i due Cavour ritratti da Romeo e da Mack Smith, più monumentale quello dello storico siciliano, più incline a spregiudicatezza e intrigo quello dello studioso inglese. «Ma probabilmente Romeo aveva ragione. Nel rintracciare le cause della fragilità italiana, forse sui difetti di Cavour ho esagerato. La semplificazione, per lo storico, è un rischio sempre in agguato».
Avrà pure ridotto la storia nazionale a un piano inclinato, in cui da Cavour a Mussolini e alla democrazia trasformista tutto scorre in modo fin troppo fluido. Ma l´Italia smarrita di oggi sembra dare ragione al vecchio maestro. «Sì, forse un po´ di ragione l´ho avuta anche io, ma in modo del tutto accidentale». Dieci anni fa ha ceduto alla biblioteca universitaria di Oxford i suoi diecimila volumi italiani. «Sono più utili là che sugli scaffali di casa», s´accomiata nella luminosa veranda, in compagnia della moglie Catharine. «Le confesso che per me è stata una sorta di liberazione, come un passaggio di testimone. Dopo mi sono sentito meglio, molto più leggero».

Repubblica 1.3.10
Un ciclo di cinque incontri a Torino
"Lezioni Bobbio" oggi si comincia con Fitoussi

TORINO - Il Comitato Nazionale per le Celebrazioni del Centenario della nascita di Norberto Bobbio e Biennale Democrazia promuovono le "Lezioni Bobbio 2010", un programma di 5 incontri sul tema "La democrazia tra opportunità e pericoli" che si terrà a Torino nel teatro Carignano ogni lunedì alle 18. Ecco il calendario: oggi, primo marzo, Jean-Paul Fitoussi parlerà di "Diseguaglianze e diritti"; l´8 marzo Luciana Castellina e Concita De Gregorio affronteranno il tema "Rivoluzione femminile"; il 15 marzo sarà il turno di Nadia Urbinati e Paul Ginsborg con "Potere politico e popolo". Il 22 marzo Gian Carlo Caselli, Umberto Ambrosoli e Andrea Casalegno parleranno di "Stato e antistato". Giovedì primo aprile le conclusioni spetteranno al direttore della Repubblica Ezio Mauro e a quello della Stampa Mario Calabresi nell´incontro intitolato "Informazione e formazione dell´opinione" presentato da Gustavo Zagrebelsky.

domenica 28 febbraio 2010

l’Unità 28.2.10
Piazza del Popolo
Facce pulite e oneste pungolo per la sinistra
Un solo colore nelle sciarpe e nelle bandiere. Giovani stanchi della poca concretezza della politica. Un successo, ma c’è ancora qualcosa che manca
di Francesca Piccolo

Entrando in Piazza del Popolo in effetti posso constatare che il popolo viola è davvero viola, anche in modo fantasioso – nel senso che il viola ognuno se lo è infilato con l’indumento che gli pareva, dal cappello alle scarpe agli occhiali. Molte sciarpe, bandiere e maglie.
È un colore un po’ sofisticato, sia nel significato sia nell’impatto, e come è noto da secoli, dopo un po’ stanca. Ma il colpo d’occhio all’inizio, vale la pena. Ai margini ci sono anche altre sigle, in mezzo c’è un gruppo di sventolanti bandiere dell’Italia dei Valori, che si tenta prima con le buone poi con modi più decisi di far allontanare. Con risultati scarsi.
A camminare tra la gente che riempie la piazza lentamente ma senza smettere, si vedono le facce che riconosci: è come una continuazione dei girotondi di qualche anno fa, persone che sono stanche della poca concretezza politica, cercano di far sentire una voce compatta e indignata. Infatti, questi movimenti finiscono per essere un pungolo continuo alla sinistra, più che alla destra di questo paese. Si prendono carico di innalzare l’impegno emotivo, il coinvolgimento appassionato verso la cosa politica che i partiti e i politici di professione non riescono in nessun modo a rianimare. Questa è il lato migliore della faccenda.
Però devo confessarlo: non sono un buon manifestante. Quando vado, come oggi in Piazza del Popolo, tendo a starmene da parte, a osservare piuttosto che a fare. Mi mette disagio la piazza, non per i motivi, quasi sempre buoni e giusti, ma per le modalità. In effetti, vedere uno col microfono che urla tendendo il braccio per scandire il tempo «legittimo – legittimo – legittimo un cazzo!», non mi spinge a partecipare. Anzi, mi fa abbassare la testa per non guardare.
Per non parlare di una questione che per me è motivo di imbarazzo atavico. Perché dico: ti giri intorno e vedi queste facce pulite, appassionate, oneste, da anni (e decenni) desiderose di vivere in un paese migliore, e di contribuire a questa spinta al miglioramento in modo concreto; ci si mette tre settimane per organizzare una manifestazione in modo spontaneo e senza l’aiuto di apparati di partito o roba del genere, alla quale aderiscono persone di ogni segmento di centro e sinistra – e alla fine quello che rende davvero felici tutti è urlare «chi non salta Berlusconi è», ed effettivamente saltare per un sacco di tempo, con le tempie luccicanti per il sudore e lo sforzo? Ecco, questo davvero non lo capisco. E la questione è che poiché non lo capisco, non salto; e in quel momento, in quella piazza, chi mi guarda fa una rapida equazione e pensa che Berlusconi sono, per quello che può significare nella sostanza questa conclusione visto che in effetti Berlusconi non sono.
Il lato meno buono è l’eccesso di sollievo che dà l’appartenenza. Mi spiego: ci si conosce, ci si riconosce. Si pensa tutti la stessa cosa, si vive tutti dalla stessa parte. Tutti sono d’accordo con tutti su tutto. Questo è più rassicurante che stimolante. Perché dà la sensazione, la sera quando si torna a casa, di essere stati concreti, per il semplice fatto di aver preso parte a un evento insieme a tanti simili. Almeno qualcosa è successo, si dice.
Poi accompagno un’amica a prendere un taxi a Piazza di Spagna. Quando arriviamo, vediamo una scena che sembra la scena spettacolare di un film: una gran quantità di ragazzi completamente immobili, hanno un libro in mano, ed è come se fossero stati fotografati mentre lo leggono. Poi c’è un fischio, e tutti si rimettono in moto, applaudono se stessi e chiudono il libro. È un flash mob: ognuno ha portato un libro, e l’ha tenuto aperto per cinque minuti, immobile. È un modo per pubblicizzare un gigantesco scambio di libri che avverrà tra qualche giorno.
Ho pensato al popolo viola a poche centinaia di metri, e a questi ragazzi che sono arrivati fin qui per aprire la pagina di un libro. A questi due mondi positivi vicini, contigui, e completamente indipendenti. Ho chiesto ad alcuni di loro: ma lo sapete che qui c’è una manifestazione eccetera? Non lo sapevano.
Ho visto uno con la maglia viola. Perché sei vestito di viola? E a te che te frega?, mi ha risposto. Mi sono accasciato su uno scalino e ho pensato, esausto, che c’è qualcosa, in Italia, che non funzionerà mai come dovrebbe.

l’Unità 28.2.10
Il colloquio con Bonino
La piazza con Emma: «Daje, e cerca de magnà» E lei ricomincia: «Un po’ d’acqua e limone...»
di Mariagrazia Gerina

La gente mentre attraversa la piazza tinta di viola glielo dice così: «Forza Emma, ma cerca de magnà?». Oppure: «Me raccomando bevi». «Guarda che ce vojono le forze pe’ vince».
La faccia è scavata da oltre cento ore di digiuno e di sete. Ma sorride, ringrazia. Rassicura. Sbuffa un po’, Emma Bonino, come una ragazzina, che a 61 anni si sente troppo grande per le raccomandazioni. Anche se in realtà le fanno piacere, sono un segno d’affetto, di partecipazione. Glielo ha spiegato anche Zingaretti, a nome del Pd. «Comunque guardate, ho già ripreso a bere, lo sciopero l’ho interrotto, la battaglia per la legalità continua e spero che la mia sete di giustizia adesso sia anche la vostra», tranquillizza e sprona i sostenitori, mentre taglia piazza del Popolo per raggiungere il bar Canova, uno dei più famosi della capitale, dove l’aspetta Marco Pannella. «Eh la bimba... credeva già di essere... con quell’azotemia che era alta davvero», la accoglie con abbracci e buffetti. Ne viene fuori un siparietto con tempi quasi comici. Emma e Marco al tavolino, sotto il sole del dopopranzo, la folla dei passanti che si ferma a guardarli. «Acqua, con una fetta di limone», ordine lei, leccandosi le labbra. Quella fetta di limone se la caccia tutta in bocca con un gusto da bambina. Mentre si apparecchia con due bustine di zucchero il bicchiere d’acqua più dolce che si sia mai visto.
I curiosi si affollano tutto intorno. «Il Pdl, quello della libertà, a Roma è arrivato tardi e quindi non c’è: poverini», ne approfitta per annunciare l’esclusione della lista del Pdl, Marco Pannella, che con Emma si gode il contrappasso. «Sono un imprenditore, fascista, ma Emma voto per te», si avvicina per fare outing un signore con fascio littorio sul bavero. Poi è la volta di un ragazzo disincantato: «Io nella politica non ci credo, lei è l’unica per cui posso votare, non si faccia contaminare». «Alla mia età?», si schermisce lei. «Ma in cuor tuo pensi di farcela?», le fa una signora. «Sì», la guarda senza esitazione la candidata. Digiuno e sete hanno rafforzato la sua candidatura, assicura passando con disinvoltura dai tavolini del Canova all’abbraccio per niente scontato della piazza. «L’indignazione è la base, ma si deve trasformare in impegno, in riscossa democratica per il paese», recita il suo augurio al popolo viola, pensato parola per parola per coniugare le differenze. E unire in un momento così drammatico. «Lo stato sfracellato del paese è sotto gli occhi di tutti». Le guance scavate di Emma Bonino, invece, sembrano già un po’ rifiorite.

l’Unità 28.2.10
Confessioni di una candidata
Le inflessibili regole del popolo viola
di Lidia Ravera

La piazza non rigurgita popolo, lo contiene. Non si muore soffocati, ma il numero c’è. Rispetto al NoBday le facce giovani non sono più la maggioranza. C’è una persistenza del grigio che non sta male con il viola (cromaticamente), e che segnala gli irriducibili della democrazia: quelli che non mollano mai. Di personaggi politici ce n’è pochi, nonostante le adesioni. Ma appena ne arriva uno, te ne accorgi perché lì corrono i fotografi, le telecamere, i microfoni. «C’è la Bonino con Pannella!», la notizia provoca una vertigine mediatica. La strana coppia (lei emaciata, lui col codino, ancora più massiccio per il confronto) è circondata da una evidente simpatia. Quando lei beve un bicchiere d’acqua serpeggia il sollievo. La pratica non-violenta di non bere e non mangiare per chiedere legalità piace al Popolo Viola. Un popolo fluttuante, difficile da etichettare,eppure rigido nel suo rapporto con “i politici”, come è rigida, infatti, la gestione del palco. Perfino io, invitata a commentare l’articolo 3 della Costituzione, sono stata, due giorni dopo, cancellata. Motivo: avevo accettato, nel frattempo, una candidatura. Naturalmente nella Lista Civica «Cittadini/e per Emma Bonino», fuori, cioè, da qualsiasi partito o schieramento organizzato, insieme ad altri 35 esponenti della Società Civile. Però, per un mese, lavorerò a sostenere la candidata del centrosinistra . Lì per lì, lo confesso, ci sono rimasta male, ad essere infilata in una categoria cui non sono mai appartenuta e mai apparterrò (diventassi anche Consigliere, sarei una che lavora al governo regionale, non certo catapultata sul posto da qualche appartenenza politica). Poi ho pensato: è un buon segno, questa esclusione senza deroghe. È troppo vorace il ceto politico, soprattutto da quando perde consensi . Chi si mobilita per difendere la legalità in un Paese massacrato dai comportamenti criminosi della sua Classe Dirigente, deve conservare, a tutti i costi, la sua innocenza. Deve fare della generosità, dell’assenza di secondi fini e di rendite personali, forma e contenuto del suo discorso. Deve offrire ai cittadini stanchi di egoismo e di malaffare uno specchio in cui riflettere la propria tristezza, la propria paura, la propria voglia di reagire, la propria dignità. Resta il fatto che non è facile, far parte di quella nebulosa inafferrabile detta Società Civile. Decidi di dare una mano per salvare il Lazio dalla banda Storace-Polverini (“Frangetta Nera”) e ti ritrovi nella Casta. Non sei più Viola? Qual è il comportamento virtuoso? Stare sempre “fuori”? The answer, my friend, is blowing in the wind...

il Fatto 28.2.10
I ragazzi ci guardano
di Antonio Padellaro

P rendiamo un ventenne che provi a farsi un'idea della politica italiana. Negli ultimimesi ha visto di tutto. Il governatore di una importante regione ricattato da un gruppo di carabinieri per le sue frequentazioni trans. Il capo della protezione civile indagato per corruzione e che, nel migliore dei casi, non si è accorto che intorno a lui si mangiava a tutto spiano su grandi opere ed emergenze umanitarie, terremoto compreso. Un senatore della repubblica “schiavo” del crimine organizzato. Due imperi telefonici coinvolti nell'inchiesta sul riciclaggio di denaro sporco e colossale frode di fatture false. Il premier accusato di corruzione giudiziaria che evita la galera grazie alle leggi personali approvate da una maggioranza parlamentare al suo servizio. Il principale telegiornale che falsificando la realtà annuncia l’assoluzione, e dunque l’innocenza del suddetto premier (che intanto insulta a tutto spiano la magistratura). Ce ne sarebbe già abbastanza per indurre un qualunque giovane desideroso di un futuro normale (non circondato cioé da delinquenti e mascalzoni) a cambiare paese. Se poi sono an-
cora decine di migliaia quelli che, malgrado tutto, corrono a riempire piazza del Popolo a Roma per dire basta (in sintonia forse non casuale con il Capo dello Stato) significa che qualcosa da salvare ancora c'è. Qualcuno scriverà che l'altra volta il popolo viola si presentò molto più numeroso, ed è vero. L’importante che la parte più viva di una generazione maltrattata mostri di volere ancora scommettere su se stessa. E sull’Italia.

il Fatto 28.2.10
Torna l’onda viola
Gli organizzatori: siamo in tantissimi a dire no al legittimo impedimento
di Federico Mello

Anche ieri il viola ha conquistato la Capitale. Piazza del Popolo era piena. Duecentomila persone contro il legittimo impedimento. Questa la cifra che sarà data dagli organizzatori a fine giornata. L’appuntamento comportava qualche rischio: la giornata “La legge è uguale per tutti” era stata convocata all’inizio dei febbraio, creando anche del malumore nei gruppi locali che a centinaia erano nati per il 5 dicembre. Troppo ristretti sembravano i tempi. E infatti, i pullman arrivati sono stati 100 contro i 600 del No B. Day. “È stato un successo dice comunque Gianfranco Mascia, uno dei volti più riconosciuti dei viola abbiamo dimostrato che possiamo andare in piazza quando vogliamo, senza chiedere aiuto a nessuno”. Questa volta tutti i fondi necessari ad allestire il palco, sono stati raccolti online: oltre 30.000 euro. Soldi che si aggiungono a quelli ricavati con offerte spontanee in piazza: “Sorridono tutti, ognuno dà qualche euro”, dice Alessandra, che gira tra la folla con una cassetta viola.
Costituzione, legalità, libera informazione, lotta alla precarietà, i temi affrontati. Il palco è aperto dall’appello di Roberto Saviano: “Adesso Basta”, dice lo scrittore, denunciando le infiltrazioni delle organizzazioni mafiose fino agli scranni del Parlamento. Arriva in piazza l’ultranovantenne Mario Monicelli: è in jeans e bomber, avanza tra la gente, come un comune cittadino fino ad arrivare sotto le transenne. Da lì un moto di popolo lo spinge ad intervenire sul palco: “Sono qui per dirvi non mollate. Dovete tenere duro, spazzare via tutta la classe dirigente del Paese, chi dirige la sanità, l’istruzione e i politici che sono i peggiori”. L’autrice satirica Francesca Fornario strappa applausi e risate amare: “L’unica fabbrica che non è mai in crisi, in Italia, è quella che sforna a piè sospinto leggi ad personam: in casa di Ghedini sono stati trovati cinquanta avvocati cinesi che lavoravano in un retrobottega”.
È il momento di Marco Travaglio, che interviene in video con un messaggio registrato: “Le leggi ad personam non sono 20 com’è si è detto chiarisce ma oltre 37”. Poi cita Giorgio Bocca,
che proprio in un’intervista al Fatto Quotidiano ha detto che “L’unica bella notizia degli ultimi anni è il popolo viola, se si ribellano i ragazzi non tutto è perduto”. Per Travaglio, il popolo viola deve vigilare sul comportamento dei politici: “Dovete, dobbiamo essere chiarissimi: chiunque voti per una legge ad personam, non avrà mai più il nostro voto”. È il momento di Andrea Rivera, che fa esplodere la piazza citando prima Rino Gaetano e poi Pasolini, Saviano e tutti i giornalisti che si occupano di criminalità organizzata. “Berlusconi parla di stato di polizia, ma a me sembra che loro in galera non vanno mai, mentre le manganellate si abbattono su Carlo Giuliani, Stefano Cucchi, Aldo Bianzino”. Flores d’Arcais si rivolge al Presidente della Camera: “Non basta esprimere la propria visione democratica nei libri dice bisogna opporsi contro le leggi vergogna, a cominciare dal processo breve”. Oliviero Beha chiede alla piazza: “Non siete offesi quando vi chiamano anti-politici?”. Risponde un boato. Poi è il turno di Guido Scorza, che si occupa di libertà digitali. Raccontano la loro esperienza i precari dell’Ispra, gli operai della Merloni e i precari della scuola. Rispetto al No B. Day del 5 dicembre, dove gli oltre 300.000 erano tutti emozionati dell’incredibile e per certi versi inaspettato successo, le decine di migliaia con sciarpe e berretti viola, appaiono più seri, arrabbiati. Dal palco viene dato il numero di un telefono cellulare: “Mandateci con un sms i vostri ‘Basta a’ e i vostri ‘vogliamo ancora’”. Ne arrivano a migliaia, al ritmo di uno ogni cinque secondi’. Da questi Sms verrà elaborata una proposta. “Abbiamo fatto un passo avanti dice Mascia ora cominciamo a costruire”.

Repubblica 28.2.10
Il Popolo viola si appella al Quirinale
"Non firmi il legittimo impedimento". La gente in piazza: siamo 200mila
Poche presenze del Pd, ed è polemica Marino: bisogna essere di più, farsi riconoscere
di Giovanna Casadio

ROMA - «Non firmare, non firmare, non firmare...». La piazza del Viola-day s´infiamma e scandisce lo slogan contro il legittimo impedimento, la legge che esonera Berlusconi dai suoi processi. Al presidente Napolitano il popolo viola chiede di fermarla («Legittimo, legittimo un cazzo": è lo striscione ai piedi del palco) in nome del principio costituzionale che "la legge è uguale per tutti". Piazza del Popolo è un happening viola; un "va e vieni" di gente; la Costituzione agitata («È il nostro libretto rosso»); al premier il suggerimento è sempre lo stesso: «Dimettiti. Fatti processare» e «Difendiamo la legalità». Per la maggioranza di governo invece, il Viola-day è «istigazione alla violenza».
Non è la mega-manifestazione del 5 dicembre a piazza San Giovanni, quando il movimento di protesta civile fece la sua prova generale. Per le forze dell´ordine, manifestanti in piazza ieri non ce n´erano più di diecimila. Per gli organizzatori, duecentomila. Gianfranco Mascia, uno dei promotori, a chi gli chiede i numeri, risponde: «Ma chissenefrega! La piazza è completamente piena, piena quanto lo era per la manifestazione sulla libertà di stampa». Ma quello che più conta è la community viola, le adesioni online, l´ultimo dato rilevato le dava a 230 mila. E tanto per dare un termometro del consenso, in piazza sono stati raccolti 23 mila euro per sostenere il movimento (da sommare ai 30 mila euro della sottoscrizione sul web). «L´autofinanziamento cresce ancora - spiega Mascia - Decideremo se impiegarlo in un portale online per coordinare le iniziative che si vanno organizzando in ogni parte d´Italia». Una cosa comunque è certa: «Se il legittimo impedimento diventa legge, nuova manifestazione nazionale». Intanto un calendario di appuntamenti: dalla primavera antirazzista (1-21 marzo) al no-mafia day (13 marzo).
Nonostante questa volta ci sia l´adesione formale anche del Pd (oltre che dei dipietristi, della sinistra, dei Radicali di Bonino e Pannella), di leader democratici se ne vedono pochi. Lo fa osservare Ignazio Marino: «È importante avere aderito come Pd, ma sarei felice se ci fossero più parlamentari perché l´opposizione si fa in Parlamento e in piazza». Avvisaglia di una polemica interna che Andrea Orlando rilancia: «La volta scorsa c´erano molti più parlamentari della minoranza interna, perché si trattava di smarcarsi dal segretario Bersani». Le beghe del Pd però non solo non interessano, ma non piace al popolo viola l´opposizione («Fantasma»); fischi quando sono nominati D´Alema e Rutelli; applausi alla battuta del comico Andrea Rivera dal palco: «Ci siamo rotti i coglioni di questa sinistra, vogliamo una sinistra con i coglioni».
Bagno di folla per Rosy Bindi, la presidente del Pd che non ha mai mancato gli appuntamenti viola. Parla della questione morale: «Un paese addormentato, acquiescente è un paese che preoccupa, invece in questa piazza c´è gente che si indigna. Bisogna ascoltare il monito di Napolitano». E Di Pietro, il leader Idv ed ex pm: «Il talebano sta a Palazzo Chigi e fa strage di democrazia. C´è bisogno di una resistenza attiva prima che sia troppo tardi. A forza di pungolare, il Pd sta dando segni di risveglio, con loro vogliamo costruire l´alternativa al governo di Nerone».
C´è di tutto nel Viola-day. Volantini per raccogliere adesioni all´associazione "La questione morale" che invita in ogni città a dedicare una via a Giorgio Ambrosoli. Articolo 21 chiede siano letti in tv stralci della sentenza Mills, per capire la differenza tra assoluzione e prescrizione. Angelo Bonelli è in piazza mentre continua lo sciopero della fame contro l´oscuramento dei Verdi. «I have a dream», recita un cartello. Vale la frase di Martin Luther King: «Non ho paura delle parole dei violenti, ma del silenzio degli onesti».

Repubblica 28.2.10
Rap e goliardia per la legalità "Bandiere di partito, vade retro"
Berlusconi "ammanettato". Fischi a D´Alema e Rutelli
di Alessandra Longo

ROMA - Terribilmente seri e terribilmente goliardici, gioiosi, colorati, ironici, oppure, al contrario, affilati, netti, crudi, spietati. I viola alla seconda prova si confermano un fenomeno difficile da imbrigliare. Piazza indisciplinata, secondo i vetusti canoni del politically correct. Piazza che fischia e applaude come le pare. Che sia D´Alema o Berlusconi. Piazza che mescola musica punk e folk, la banda di Kusturica e «Il Corazziere» di Renato Rascel, con possibile riferimento alla statura del premier. Piazza che gradisce il simbolo delle "manette", sia pur di polistirolo. Piazza, ancora, che scandisce gli articoli della Costituzione e poi, con lo stesso impegno, canta il video rap sul legittimo impedimento («Legittimo, legittimo, un cazzo!»).
Sabato di sole romano, tiepido. I viola srotolano le loro bandiere senza insegna, tingono e marchiano il loro territorio con drappi, sciarpe, borse, cappelli. Autoconvocati, autofinanziati, autosufficienti, «indipendenti dai partiti»: ci tengono a mantenere le distanze, ancor più che il 5 dicembre. Transita Rosy Bindi, si intravvedono qua e là deputati (pochi) del Pd, gente di Sel, di Rifondazione, i dipietristi, i Verdi, si materializzano persino i radicali con un Emma Bonino, sciupata dall´astinenza, che al bar Canova si concede una gassosa zuccherata al limone assieme a Marco Pannella e sposa la causa della manifestazione: «Hanno la stessa nostra parola d´ordine: La legge è uguale per tutti». Epperò echeggiano cori "giustizialisti" che non sono propriamente nelle corde dei radicali: «Berlusconi corruttore devi andare a San Vittore». O troneggiano in prima fila, sotto il palco, mentre scorre il video di Marco Travaglio, quelle manette rosa esibite da una fanciulla sorridente che si contende i fotografi con i venti milanesi vestiti da carcerati, la palla al piede e in faccia la maschera-ghigno di Silvio.
Piazza dove c´è di tutto, soprattutto la pancia del Paese, la rabbia degli operai dell´ex Eutelia, l´indignazione dei vecchi partigiani e dei sindacalisti Cgil, la fantasia ironica di quella signora che gira con un cartello bilingue italiano-inglese. Una domanda di fondo: «Falso corruttore e puttaniere. Davvero ce lo meritiamo?». Chi vuole intestare in ogni città d´Italia una via ad Ambrosoli, «cittadino onesto»; chi distribuisce certificati di legittimo impedimento buoni per future udienze; chi urla «Fuori la mafia dallo Stato»; chi si traveste da giudice togato; chi gira con la testa del premier in cartapesta, la stessa del Carnevale di Viareggio, 500 euro in bocca; chi urla slogan contro Minzolini, direttore del Tg1, «house organ del regime». Non c´è un copione, non c´è un filo comune, tranne quello, resistentissimo, del sentimento di appartenenza ad un´altra Italia, quella delle regole, quella che rispetta le leggi. Anche qui, però, si può piangere o sorridere: «E´ meglio la Costituzione del lettone di Putin», sintetizza un volantino del popolo viola. Altri optano per la sintesi cupa: «Democrazia a rischio».
Lassù, sul palco, niente politici, «pur benvenuti». Ben due richiami: «Per favore, indietro le bandiere di partito, vogliamo che qua davanti si vedano le nostre, quelle viola!». Stefano Pedica, Italia dei Valori, si arrabbia con il servizio d´ordine del movimento. Spintoni, tensione, interviene la Digos. Di Pietro, disciplinato, rimane nel backstage. Al contrario, la signora Daniela Gaudenzi (Libera Cittadinanza), calze viola e voce acuta, va al microfono per dire che, insomma, il centrosinistra, così com´è, le fa un po´ senso, per raccontare ai presenti che D´Alema non si è battuto per risolvere il conflitto di interessi, trovando «controproducente» l´obiettivo. Risultato: partono i fischi per il presidente Copasir. E non è finita. Sale sul palco Carlo Infante, «giornalista esperto in new media». D´Alema, secondo lui, è addirittura «uno dei problemi di questo Paese». Tra il pubblico c´è chi sembra approvare. Lui si corregge: «Ho un sacco di amici Pd». Peggio ancora, altri buuh. Tenta l´ultima carta: «Ho fatto la campagna per Rutelli». Quasi una provocazione.
«Mica chiediamo a chi parla di leggerci prima gli interventi», si giustificano gli organizzatori. Gianfranco Mascia, un po´ il loro timoniere, è irritato: «Facile chiamare gli applausi. Così son bravi tutti». Forse è per questo che non c´è tutta questa folla di politici, è una piazza a rischio, senza complessi e prudenze, che molto si diverte quando il comico Andrea Rivera dice: «Ci siamo rotti i coglioni. Vogliamo una sinistra con le palle». Ferrero arriva tardi, trafelato, altri non si fanno vedere per niente oppure transitano come meteore. Il vecchio Mario Monicelli spara la sua rabbia, la stessa dei messaggi video di Giorgio Bocca, di Roberto Saviano: «Cacciateli tutti! Cacciate questa classe dirigente corrotta che mortifica la scuola, la sanità, che fa avanzare i parenti e gli amici». Paolo Flores d´Arcais, sciarpa viola, si incarica di ammonire Fini: «Non basta citare nei libri Tocqueville e la Arendt, bisogna opporsi al processo breve e allo stop alle intercettazioni». «Non firmare, non firmare!», grida la folla viola a Napolitano, mentre un gruppetto di nostalgici invoca Pertini. Quanti sono a piazza del Popolo? «Chissenefrega di quanti siamo – dice Mascia – siamo tanti e insieme gridiamo: "Onesti di tutta Italia unitevi"!». Cala la sera, i viola sciolgono l´adunata ma dentro la Rete continua il fermento. Mail di chi non c´era: «Ho un sogno: che solo gli onesti ci governino». Mail di chi sta guardando con emozione la piazza che smobilita: «Il cielo è viola sopra Roma».

l’Unità 28.2.10
Domani assieme nelle piazze per la nuova Italia della convivenza e dell’eguaglianza
Sosteniamo la legge popolare che afferma il diritto di essere elettori passivi ed attivi
Un milione di firme per il voto agli immigrati
di Livia Turco

Care amiche ed amici, grazie per aver avuto il coraggio di coinvolgere tanti italiani e cittadini stranieri nelle piazze dei loro paesi e delle loro città per dimostrare che insieme si può vivere bene e si può costruire un’Italia migliore. Insieme, e non l’uno contro l’altro, si può combattere la povertà, la disoccupazione e costruire la legalità e la sicurezza. Insieme, per raccontare le tante storie di chi nella sua vita quotidiana nelle fabbriche, nella scuole, nei quartieri ha sconfitto la paura e ha iniziato a costruire una convivenza civile. Insieme, per far vedere i volti e per raccontare le storie di un’Italia nuova e profonda, nascosta, che ostinatamente viene ignorata dai media e dalla politica. L’Italia nuova della convivenza civile. Dopo la giornata del primo marzo e quelle del 20 e 21 marzo la primavera antirazzista deve continuare per costruire la primavera della convivenza civile a partire dai problemi quotidiani, a volte drammatici, che vivono gli immigrati a causa di una legislazione odiosa e dannosa anche per l’Italia come la legge Bossi-Fini e la Maroni-Berlusconi.
DRAMMA
Penso al dramma di tanti che sono in Italia da anni con le loro famiglie, che hanno un corroborata professionalità e che, se perdono il lavoro, hanno solo 6 mesi di tempi per trovarne un altro altrimenti vengono espulsi, penso ai tempi lunghi per il rinnovo dei permessi di soggiorno, al blocco dell’ingresso regolare per lavoro, previsto nel recente decreto “mille proroghe”, nonostante i dati Istat dicano che nel 2009 sono stati assunti 200mila lavoratori stranieri in più perché, anche in tempi di crisi, gli italiani restano indisponibili. Le condizioni di sfruttamento del lavoro, le tante Rosarno che continuano ad esserci, il disagio abitativo, l’incertezza in cui vivono i minori stranieri non accompagnati. Dobbiamo dare voce a questi diritti negati. È molto importante che lo sciopero del 12 marzo della Cgil abbia tra i suoi tre punti quello della condizione dei migranti. È importante che si sia costruito un cartello di associazioni che rivendica insieme i diritti dei migranti e degli italiani. Il Pd ha dato un contributo per le manifestazioni e ha presentato una mozione per la legalità del lavoro e un piano nazionale per le politiche di integrazione che ci auguriamo venga presto messa in calendario alla Camera.
Mai come in questo momento è stato evidente che i diritti sono indivisibili perché il rispetto verso le persone è un valore indivisibile. Non puoi proteggere gli italiani a scapito degli immigrati. C’è anche una battaglia culturale che va fatta. C’è un sussulto di ottimismo che va fatto scattare, c’è uno spirito innovativo che va motivato nel profondo dell’animo degli italiani. È di questi sentimenti che abbiamo bisogno per costruire l’Italia della convivenza civile. C’è una battaglia culturale e simbolica che può aiutare a far scattare questi sentimenti. Quella che dice ai cittadini stranieri: vi riconosco persone, portatrici di eguale dignità, che esigono eguale rispetto. Persone che hanno diritti e doveri. Proprio per questo dovete dare un vostro contributo alla costruzione del bene comune. Dovete esercitare la vostra responsabilità verso questo paese. Dovete dare il vostro contributo per costruire un Paese più forte e più aperto. Questa battaglia culturale si traduce concretamente con il riconoscimento del diritti di voto e con la partecipazione alla vita pubblica. Sarebbe una scossa salutare alla nostra democrazia malata. Perché ripropone la democrazia come la promozione del bene comune da parte di tutti, come assunzione di responsabilità, promozione dell’inclusione sociale, del senso di appartenenza a una comunità. Dall’altra parte, come dimostrano i paesi in cui gli stranieri esercitano il diritto di voto, tale pratica è una straordinaria misura d’integrazione.
PROPOSTA
Ecco allora la proposta che avanzo, una proposta di legge di iniziativa popolare, composta di un solo articolo che ratifica il capitolo C della convenzione sulla partecipazione degli stranieri alla vita pubblica a livello locale, fatta a Strasburgo il 5 febbraio 1992 e che «garantisce l’elettorato attivo e passivo per le elezioni amministrative a favore degli stranieri titolari di permesso di soggiorno Ce per i soggiornanti di lungo periodo secondo le modalità di esercizio e le condizioni previste per i cittadini dell’Ue demandando a un decreto del ministero degli Interni la disciplina per l’iscrizione nelle liste elettorali degli stranieri».
Una proposta di legge di iniziative popolare con un obiettivo ambizioso: un milione di firme in Parlamento, per dimostrare che gli italiani hanno fiducia, per far vedere l’Italia della convivenza per far scendere in campo da protagonisti i cittadini stranieri, far vedere i loro volti e valorizzare i loro talenti. Anche così si costruiscono i nuovi italiani. Vogliamo discuterne e provarci insieme?

l’Unità 28.2.10
Stranieri perché estranei al clima di razzismo

Alle 18.30 di lunedì «il cielo si colorerà di giallo», così i promotori di primomarzo 2010, la giornata di sciopero degli stranieri. «Stranieri» – precisa il documento del comitato organizzatore – «non tanto dal punto di vista anagrafico, ma perché estranei al clima di razzismo che avvelena l'Italia del presente. Autoctoni e immigrati, uniti nella stessa battaglia di civiltà». Da nord a sud, numerose le città che hanno deciso di aderire, organizzando comizi manifestazioni iniziative di vario segno e con diverse connotati, ma tutte destinate a evidenziare «quanto sia determinante l'apporto dei migranti alla tenuta e al funzionamento della nostra società».
Qui di seguito, in estrema sintesi, alcune iniziative: Roma, ore 18, piazza Vittorio, comizio e concerto dell’Orchestra multietnica di Piazza Vittorio. Milano, ore 9.30 corteo intorno a palazzo Marino; ore 17.30, piazza Duomo lezioni di lingue straniere per gli italiani. Napoli, ore 11, partenza del corteo da piazza Garibaldi. Catania, ore 18, festa etnica. Bologna, ore 16, piazza del Nettuno, mostra fotografica con i volti dei nuovi cittadini italiani. Trento, in serata, festa con la partecipazione dell’Orchestra terrestre. Bari, ore 18.30, piazza del Ferrarese, lettura di testi, racconti e testimonianze delle comunità migranti. Mestre-Venezia, ore 17, appuntamento in piazza Ferretto. Reggio Calabria, ore 15, piazza Duomo, «Villaggio dell'accoglienza e dell'integrazione». Perugia, ore 14.30, corteo da piazza Italia. E poi, Taranto, Reggio Emilia, Lucca, Ancona, Rimini, Lecco, Varese, Oristano, Bolzano, Palermo, Bergamo e ancora altre località. Alle 18.30, da tutte le piazze dove si tengono iniziative lancio dei palloncini gialli.

Liberazione 28.2.10
Il Primo Marzo è già un successo
di Stefania Ragusa

A distanza di pochi giorni o, addirittura, poche ore dal primo marzo, tante persone - giornalisti, ma non solo - mi chiedono se sono preoccupata o in ansia per la riuscita dell'iniziativa. Forse dovrei esserlo, la verità è che non lo sono: non solo perché dai comitati territoriali arrivano segnali più che incoraggianti ma anche perché, indipendentemente da quanta gente scenderà in piazza o si asterrà dal lavoro lunedì prossimo, indipendentemente dal numero di palloncini gialli che saliranno in cielo e dai metri di nastro giallo che "vestiranno" le città, l'obiettivo fondamentale di questa fase è stato già raggiunto: siamo riusciti a mobilitare migliaia di persone, a mettere in rete i movimenti antirazzisti, le associazioni di stranieri e la gente comune, a dare centralità alla questione dei dirtitti dei migranti e a legarla a quella dei diritti collettivi. 
A preoccuparmi, invece, è il dopo primo marzo. Da martedì prossimo, infatti, comincia la fase due, quella della strutturazione del movimento e della proposta politica. Primo Marzo2010 nasce dal basso, come espressione della società civile e, è stato ribadito molte volte, a qualsiasi costo deve mantenere questo tratto distintivo. Rimanere espressione della società civile non vuol dire solo evitare partnership istituzionali. In altre parole: non permettere a partiti e sindacati di metterci il cappello, ferma restando l'opportunità di interloquire attivamente con quei soggetti politici - come il Pd e Rifondazione Comunista - che stanno sostenendo il movimento senza pretendere di orientarlo o manipolarlo. Vuol dire anche attrezzarsi rispetto a tentativi di - mi si passi il termine - cappellizzazione silenziosa. 
Ci sono diversi modi per neutralizzare un movimento che non si capisce e che non si riesce a digerire. Uno, abbastanza scontato, è il discredito. Nei nostri confronti è stato molto usato: in particolare quando, in palese contraddizione con i fatti e le premesse del nostro manifesto programmatico, ci è stata ostinatamente attribuita la volontà di organizzare uno sciopero etnico e quella di volere strumentalizzare gli immigrati. Un altro, più insidioso, è il giochino del cavallo di Troia: ossia, inserirsi all'interno del movimento e puntare alla sua normalizzazione, ridurre i gruppi territoriali al ruolo di comitati organizzatori di eventi ed elargitori di nastrini gialli e, contestualmente, trasformare in tabù le richieste più forti venute dal basso: quella di sciopero, per esempio, che è stata strenuamente difesa da molti comitati ma anche pervicacemente osteggiata dall'esterno. Questo è un rischio concreto rispetto al quale dobbiamo aprire gli occhi e attrezzarci.

l’Unità Firenze 28.2.10
In piazza con i migranti
di Simone Siliani

Chi sono veramente i lavoratori immigrati in Toscana che sciopereranno domani? Una lettura seria del rapporto 2009 dell'Irpet, Il lavoro degli immigrati in Toscana: scenari oltre la crisi, ce ne restituisce un’immagine più realistica delle fobie con le quali si disegnano inesistenti scenari da invasioni barbariche. Emergono due elementi apparentemente contraddittori che devono far riflettere: i lavoratori immigrati "salvano" la Toscana da uno stato di tensione nella demografia delle forze di lavoro determinata dal fatto che la mano d'opera italiana non sarebbe sufficiente a soddisfare le richieste delle aziende che vengono soddisfatte dagli stranieri; dall'altro lato si registra una segregazione degli occupati stranieri in pochi comparti e figure professionali e a prescindere dai titoli di studio. Questo costituisce un vero e proprio rovesciamento dell'immagine che si ha dell'immigrazione: non ci rubano il lavoro ma lo salvano e contribuiscono allo sviluppo della regione; sono discriminati da noi che imponiamo condizioni di scarsa mobilità ascendente a fronte di buone qualificazione, discriminiamo la carriera di donne immigrate, paghiamo meno il lavoro degli immigrati. Discriminazione tanto più grave se consideriamo che il 20% dei 310 mila immigrati residenti in Toscana sono minori (6 su 10 nati in Italia) e il 52% donne. Essere donne, madri e immigrate anche in Toscana costituisce un handicap se hai bisogno di lavorare: il tasso di occupazione è molto più basso, sia in senso assoluto sia in relazione alle italiane. Se sei giovane, madre, immigrata spesso rinunci a cercare lavoro. La crisi fa il resto colpendo soprattutto i gruppi sociali più deboli. Nel primo semestre del 2009 il tasso di disoccupazione degli stranieri è arrivato al 10%. Davanti a questo quadro, è chiaro che la questione immigrazione ha limitati significati relativi alla sicurezza, mentre riguarda molto il rapporto fra sviluppo economico e coesione sociale della comunità toscana. Per questo mi pare poco comprensibile che nel programma della coalizione che sostiene Enrico Rossi non si faccia cenno alle tematiche del lavoro degli immigrati.

l’Unità 28.2.10
I 26 assassini del leader di Hamas ora sono tutti in Israele. Avevano passaporti falsi
C’è anche il dna di uno dei killer. L’Australia convoca l’ambasciatore israeliano
La polizia di Dubai accusa «Il Mossad ha ucciso Mabhouh»
Nella spy story sull’assassinio del dirigente di Hamas gli indizi puntano sul Mossad. «Quel che è sicuro è che oggi la maggior parte dei killer i cui nomi sono stati resi noti è in Israele», dice il capo della polizia di Dubai.
di Umberto De Giovannangeli

Il capo del Mossad, Meir Dagan, dovrebbe assumersi la responsabilità dell’omicidio del dirigente di Hamas Mahmoud al-Mabhouh, ucciso il 20 gennaio scorso in un albergo del Dubai. A sostenerlo è il capo della polizia dell’emirato, Dhahi Khalfan, che ha affermato di avere «la prova irrefutabile del Dna di uno degli assassini», così come le impronte digitali di numerosi altri sospetti. «Dagan deve ammettere il crimine o fornire una smentita categorica al coinvolgimento dei suoi servizi, ma il suo atteggiamento è quello di una persona che ha paura», rimarca Khalfan, intervistato dal quotidiano governativo Emarat Al-Youm: «Oggi la maggior parte dei killer i cui nomi sono stati resi noti si trova in Israele».
PROVE E SOSPETTI
Fino ad ora il Mossad ha sottolineato come non vi siano prove di un suo coinvolgimento nell’operazione, sebbene la stampa israeliana mostri pochi dubbi riguardo alle responsabilità dell’omicidio; la vicenda ha sollevato molte polemiche perché almeno 26 killer avevano con sé dei passaporti falsi di Paesi dell’Ue i cui nominativi corrispondevano tuttavia a persone realmente esistenti, vittime quindi di un furto d’identità: 12 britannici, sei irlandesi, quattro francesi e un tedesco, oltre a tre australiani. I nomi di almeno otto dei 26 sospetti che la polizia di Dubai collega all’omicidio del comandante di Hamas Mahmoud al-Mabhouh, corrispondono a quelli di altrettante persone che risiedono in Israele, avvalorando ulteriormente la tesi di un diretto coinvolgimento dello Stato ebraico nell’assassinio che si ritiene sia opera degli agenti del Mossad. Cinque degli otto nomi sono negli elenchi telefonici israeliani: Philip Carr, Adam Korman, Gabriella Barney, Mark Sklar e Daniel Schnur. Il ministero degli Esteri australiano, da parte sua, ha comunicato che altri due nomi, Nicole Sandra McCabe e Joshua Daniel Bruce, sono di australiani che vivono in Israele. L’ottavo, Roy Cannon, corrisponde a quello di un uomo emigrato in Israele dalla Gran Bretagna nel 1979. Il figlio di Cannon, Raphael Cannon, ha dichiarato all’Associated Press che il vero passaporto del padre è in suo possesso e che quello usato a Dubai ha la foto di uno sconosciuto. L’intrigo coinvolge anche l’Italia. Secondo la polizia di Dubai, 8 membri del commando omicida sono partiti da qui, 6 da Fiumicino e 2 da Malpensa.
L’affaire Dubai-Hamas deflagra in crisi diplomatica. Che dagli Emirati raggiunge l’Australia: l’ambasciatore israeliano è stato convocato per l’uso di passaporti australiani da parte dei membri della squadra assassina. «Uno Stato che si rende complice nell’uso o nell’abuso del sistema di passaporti australiano, per non parlare del fatto che stia per compiere un omicidio, tratta l’Australia con disprezzo, e ci sarà perciò un’azione di riposta del governo australiano», dichiara il premier australiano Kevin Rudd.
«GLI SQUADRONI DELLA MORTE»
Sul Times un «ex agente del Mossad» assicura che Israele ha già usato «in un certo numero di occasioni» i passaporti europei di israeliani con doppia cittadinanza. «Nella mia esperienza ha detto abbiamo utilizzato passaporti di cittadini britannici». In Israele si levano voci critiche, tra cui il columnist di Haaretz Gideon Levy . A chi difende le operazioni condotte dal capo del Mossad, Meir Degan, e al il ministro degli Esteri Avigdor Lieberam che ripete «Non c’è un solo elemento, una sola informazione che indichi un coinvolgimento di Israele», Levy ricorda sull’ultimo numero di Internazionale che «il Mossad dovrebbe raccogliere informazioni, non uccidere, e che uno Stato di diritto non usa gli squadroni della morte...». Una riflessione coraggiosa. Impietosa. «Possiamo anche capire il desiderio di vendetta scrive ancora Levy e la necessità di fermare il contrabbando di armi a Gaza. Possiamo addirittura continuare a ignorare che la vera causa del terrorismo è l’occupazione israeliana. Ma dopo l’eliminazione di Mahbouh con un cuscino, ci ritroviamo in un Paese che manda in giro i killer senza che nessuno faccia domande».

Repubblica 26.2.10
Istruzioni per salvare una lingua viva
di Pietro Citati

L’anticipazione. Il testo che verrà letto al convegno organizzato dal Fai
Dal gergo della Dc e del Pci, all´era di chi parla come "uno di noi"
La nostra è una superlingua che contiene isole diverse

Una lingua non è soltanto un fenomeno storico: cioè l´insieme delle cose che sono state scritte e dette, nel corso di decine di secoli. È anche un´idea, una possibilità, una forma, che sta nascosta (talvolta per tempi lunghissimi) nelle profondità della lingua reale. Prima o dopo, questa lingua possibile viene alla luce, incarnata nelle pagine di un grande poeta o di un grande prosatore. È il momento in cui essa si rivela: come Cristo, Budda o Maometto si annunciarono ai loro fedeli. Questa rivelazione lascia stupiti, commossi, entusiasti, sconvolti: da principio, raggiunge pochi scrittori; e poi, lentamente, con incertezze, ritardi, contaminazioni, si diffonde nelle comunità dei parlanti. Così la Grecia diventò omerica, e l´Inghilterra shakespeariana.
Se vogliamo conoscere quale sia la vera forma dell´italiano, dobbiamo leggere lo Zibaldone, dove Leopardi studia la nostra lingua con una passione e una precisione, che nessuno ha mai eguagliato. Ne parla sempre, nel corso di dodici anni. Ne parla con l´intimità con cui un uomo può discorrere di sé stesso, perché Leopardi è l´italiano. I sostantivi, gli aggettivi, i verbi sono una parte del suo corpo e della sua anima. Niente gli resta celato: né le parole né le strutture. Gioca, scopre, si avventura in luoghi dove nessuno era mai giunto. Presto si convince che l´italiano, sebbene derivi storicamente dal latino, non ne condivide la forma. Il modello simbolico della nostra lingua è il greco: il greco di Saffo, di Platone, o Senofonte.
Come il greco, l´italiano non è una lingua, ma una vastissima superlingua, che contiene in sé stessa decine di lingue e di stili parziali. Racchiude molte isole, spesso diversissime tra loro: eppure tutte queste isole fanno parte della stessa superlingua. Affacciato alla finestra della biblioteca di Recanati, Leopardi guarda verso ogni direzione; e vede dappertutto una lingua infinitamente molteplice e multiforme, che cambia, si sposta, si capovolge, muta strutture, forme, sintassi, significati. Ne riceve una specie di ebbrezza. Qualsiasi isola coltivi, si accorge che è difficilissimo imporre modelli o regole: perché la superlingua crea sempre nuovi modelli e regole, e persino le ribellioni contro i modelli e le regole che essa stessa aveva creato.
Per molti anni, Leopardi contempla i movimenti e le metamorfosi della lingua che gli appartiene e a cui appartiene. Ora gli sembra dignitosa, grave, nobile, autorevole: simile al latino da cui era nata; e subito dopo osserva che è la più flessibile e pieghevole delle lingue. Ora gli pare lentissima: la vede camminare con un passo cauto e circospetto; poi la scorge procedere con una velocità demoniaca, inseguendo una meta irraggiungibile. Ora ostenta periodi immensi, pesanti e ramificati: ora si beffa di sé stessa, incantando il lettore con una specie di polverio luminoso. Qualche volta, gli sembra una lingua scritta: aforismi e apoftegmi e massime, incise nel marmo o nel bronzo. Qualche volta lo osserva imitare il linguaggio parlato - incertezze, irregolarità, andirivieni, ripetizioni, pause, confusioni, ubriachezze verbali: facendo risuonare in ogni pagina il vasto brulichio della voce umana.
***
Circa ottant´anni fa, la lingua o la superlingua italiana conobbero una nuova rivelazione. Fu un momento felicissimo, di cui, forse, ci rendiamo conto solo oggi, in un periodo di pausa o di attesa. Ungaretti e Montale e Caproni e Bassani e Bertolucci e Gadda e la Morante e Zanzotto e la Ortese e Calvino e Fenoglio compresero che l´italiano aveva smesso di nascondersi, come accadeva ai tempi di Manzoni e di Leopardi. Il suo grande corpo era straordinariamente vivo, immobile, agile, giocoso, e splendeva liberamente alla luce.
I nostri scrittori potevano fare tutto ciò che volevano, perché l´italiano non offriva resistenza. Molti scrivevano quasi in sogno, senza incontrare l´attrito della carta, dell´inchiostro, del vocabolario, del tempo. Tutto era a portata di mano. Se volevano comporre un dialogo elegante e quotidiano - lo scoglio contro il quale la nostra narrativa aveva urtato per decenni - le domande e le risposte si disponevano sulla carta come un disegno musicale. Se volevano recuperare la lingua della tradizione, la prosa lieve di Voltaire e di Stevenson, le tenebre e le arguzie di Tacito, le lente tarsie della prosa del Cinquecento, gli enjambement di Della Casa, le cabalette dell´opera lirica, i versi dei provenzali e dello Stil Novo riemergevano nelle loro mani, come se fossero appena nati. I limiti dell´italiano si ampliarono. Gadda discese nelle sue profondità, recuperando la forza del latino e dei dialetti; Bertolucci riecheggiava i gerundi e i partecipi inglesi, e i periodi più onniavvolgenti della Recherche.
***
Col 1945 e la fine del fascismo, si diffuse in Italia una lingua parlata diversissima da quella fascista. Sorsero due lingue contrapposte. La prima, quella democristiana, non possedeva una massiccia ideologia politica: affondava soprattutto nel linguaggio ecclesiastico, avvocatesco e giuridico: era ramificata, aggrovigliata, spesso (come nel caso di Aldo Moro) incomprensibile. La seconda (quella comunista) soffocava sotto il peso delle formule marxiste o paramarxiste, ricalcate sulla prosa sovietica. Non aveva né vivacità né movimento. I discorsi dei dirigenti comunisti sembravano immense divisioni di carri armati, che avanzavano lentamente verso la meta. Lo scontro fu violento. Ma ci furono casi (come quello di Franco Rodano), in cui gergo democristiano e gergo comunista si attrassero, si contaminarono, si fusero, producendo raccapriccianti mostri linguistici.
L´influenza dell´inglese fu più vasta e capillare, e riguardò tutto il vocabolario, non solo termini scientifici e tecnici. Molti immaginarono che era molto più elegante usare una parola inglese anche se una parola italiana significava esattamente la stessa cosa. Ma questa influenza viene, di solito, sopravalutata. Il francese e il tedesco furono toccati molto più profondamente dall´inglese: circa trent´anni fa, in Francia venne pubblicato un libro divertentissimo, intitolato Franglais, che documentava la straordinaria ampiezza del fenomeno di contaminazione; mentre, in Italia, l´influenza riguardò soprattutto il lessico e non la forma della lingua. Anche in questa occasione, l´italiano dimostrò di essere una lingua intimamente conservativa.
In questi anni, i dialetti, specie quelli del Nord e del Centro, diminuirono il loro significato e la loro importanza. Parlare in dialetto torinese o milanese veniva avvertito come un segno di inferiorità sociale. Il cinema del dopoguerra e le prime trasmissioni televisive diffusero una forma di romanesco edulcorato, senza la minima traccia della forza espressiva del Belli. Questo falso-romanesco arrotondava o troncava o spezzava o modificava il lessico italiano. Era una specie di italiano inumidito nel Tevere. Esso si diffuse enormemente: specie nella conversazione scherzosa o finto-amichevole; e persino in regioni remote, che avevano sempre detestato il dialetto della capitale.
Mezzo secolo più tardi gli italiani parlano una lingua molto diversa da quella del 1950 o del 1960. Il primo segno è la scomparsa quasi completa delle lingue politiche: il democristiano e il sovietico. Quasi all´improvviso comparve quel fenomeno ripugnante chiamato talk-show. Gli uomini politici di oggi cercano di parlare come i loro ascoltatori. In televisione, chi strizza l´occhio, chi ride fragorosamente, chi polemizza, chi accarezza il viso, chi posa la mano sulla spalla e sulla schiena, chi insulta, chi offende, chi dottoreggia, mentre un immenso boato di ubriachi impedisce di comprendere qualsiasi parola. Con questi sistemi, gli uomini politici cercano di essere simpatici e confidenziali, semplici e alla mano: proprio come uno di noi. La cosa paradossale è che non ci riescono mai. Tutti gli uomini politici italiani vengono disprezzati e detestati, con un rancore che, alle volte, suscita spavento. Nessuno si salva dal disprezzo: nemmeno Silvio Berlusconi, con la sua religione dell´amore.
Intanto si è formata rapidamente una nuova sotto-lingua, della quale ho una scarsa esperienza diretta. Per conoscerla, bisogna vivere nelle aule: leggere i compiti di italiano, imparare la storia; parlare con i sedicenni e i diciottenni, sedere tra i banchi, insegnare nelle scuole di periferia. Mi limito a ripetere quello che scrivono Marco Lodoli e Paola Mastrocola. Questa sotto-lingua non ha sintassi, né punteggiatura: detesta la precisione e l´esattezza: sostituisce i segni alle parole: pullula di formule gergali: non riesce a esprimere i concetti e i sentimenti più semplici: non possiede colore: balza da un errore di ortografia a un altro errore di ortografia. Contamina la lingua parlata e scritta nelle università, dalla quale viene a sua volta contaminata. Non ha freni, né contrappesi, né modelli: perché i professori vengono travolti dalle abitudini dei loro scolari, e gli studenti universitari hanno rinunciato quasi completamente a leggere libri.
La costruzione di Un Istituto per la Salvezza della Lingua Italiana, che qualcuno ha proposto, mi sembra ridicola: anche perché di solito i rappresentanti delle Istituzioni scrivono malissimo. Credo che esista un solo rimedio: la lettura. Non è affatto vero che un bambino di sei, o di otto anni, sia inesorabilmente schiavo della televisione e dei giochi elettronici. Un bambino è una creatura plastica, trasformabile, cangiante: vuole divertirsi, muoversi, spostarsi, viaggiare nella fantasia; ed è perfettamente possibile persuaderlo che leggere Pinocchio, L´isola del Tesoro, Il libro della Jungla, I ragazzi della via Paal, è molto più divertente che stare seduti, cogli occhi sbarrati, davanti a uno schermo televisivo o a un computer. Solo che qualcuno deve persuaderlo: il padre, la madre, il nonno, il maestro, il professore, l´amico. Se vogliamo difendere l´italiano, l´unica strada è quella di educare gli adulti: compito quasi impossibile.

sabato 27 febbraio 2010

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