mercoledì 3 marzo 2010

Repubblica 3.3.10
Il sondaggio: ora la Bonino è in testa
di Laura Mari

Il sorpasso arriva da sinistra e il pasticcio delle liste elettorali fa perdere alla candidata del centro-destra punti preziosi. A rilevarlo è il sondaggio Crespi per Omniroma, che in vista delle prossime elezioni regionali del 28 e 29 marzo attesta il vantaggio di un punto percentuale di Emma Bonino sulla sindacalista Renata Polverini.
Dalle intenzioni di voto, calcolate su un campione di mille interviste telefoniche fatte a livello regionale il l e il 2 marzo e prendendo in esame il Pdl nelle altre quattro province del Lazio ma non a Roma, emerge che il 39 per cento delle preferenze sarebbe ora a favore di Emma Bonino. Per Renata Polverini, invece, voterebbe il 38 per cento degli intervistati, ovvero il due per cento in meno rispetto all'ultimo sondaggio Crespi del 23 febbraio. Ma nonostante il lieve vantaggio della senatrice radicale, al momento nel Lazio gli elettori indecisi sarebbero ancora il 20,2 per cento.
«Mancano le ultime tre settimane di campagna elettorale ha detto la Bonino spronando i suoi supporter nel comitato del quartiere Tufello - la determinazione sta crescendo, ora ognuno diventi militanti della causa». E intanto, nella lista dei vip che hanno deciso di esprimere la propria preferenza per la candidata del centrosinistra, spicca anche l`attore Silvio Orlando, napoletano di nascita ma romano d'adozione.
Per quanto riguarda le intenzioni di voto per le liste, la situazione è più complicata. Al momento il Popolo delle Libertà è escluso, nel collegio della provincia di Roma, dalla competizione elettorale. Un duro colpo per il partito di Berlusconi, che stando ai dati del sondaggio Crespi al
momento prenderebbe il 16,5 percento delle preferenze, allontanandosi nettamente da quel 42 per cento registrato dal sondaggio del 23 febbraio. In totale, la coalizione del centrodestra (la lista Polverini è al 14,3 per cento, mentre La Destra sale dal 3 per cento al 4,9 per cento) più l'Udc (che dal 5,5 per cento è passata al 7,8 per cento) prenderebbe ora il 48,5 per cento, contro il 48,2 per cento del centrosinistra. Un lieve vantaggio, dunque, per la coalizione delle liste a sostegno del partito della Polverini, anche se il Partito Democratico accresce di un punto i suoi consensi, attestandosi al 28 per cento (mentre la lista dei radicali Pannella-Bonino è al 5,5 percento e l'Italia dei Valori sale al 6,5 per cento).
«Con le liste elettorali il Pdl ha commesso un pasticcio inenarrabile, è stata una prova di grande sciatteria e impunità - ha commentato la candidata del centrosinistra Emma Bonino ora chi ha il dovere di controllare lo faccia nel rispetto della legge. Ma di certo - ha concluso la senatrice radicale- chi non riesce nemmeno a presentare le liste è difficile che poi sappia essere un grande manager».

l’Unità 3.3.10
Amami Alfredo
di Concita De Gregorio

No, non ci crede nemmeno Renata Polverini che siano cretini. È andata a spiegarlo anche a Silvio Berlusconi, ieri. Alla notizia che un altro Alfredo l’altro ieri Milioni, ieri Pallone si è dimenticato di firmare e dunque neppure il suo listino ha i requisiti per essere ammesso alle elezioni è andata da Berlusconi e gli ha detto ok, ho capito il messaggio: chiaro e forte. Il mio è che faccio da sola, mi arrangio però poi se per caso vinco ho vinto io. Al premier non dev’essere sembrata una grande minaccia, del resto la sconfitta di Renata sarebbe una battuta d’arresto per Fini gradita e comunque i sondaggi le sono sfavorevoli. Fatto sta che anche se le irregolarità del listino dovessero essere giudicate sanabili, come sembra, e se dunque Polverini potesse correre nel Lazio con la sua sola lista civica e senza il Pdl la frattura fra Berlusconi e Fini con questa vicenda è consumata in modo definitivo. Con Fini che dice «il Pdl così com’è non mi piace», un eufemismo per indicare un partito di arsenico e nuovi complotti nel quale essersi sciolto deve avvelenargli i sonni e i giorni. Volano stracci e cadono uno alla volta i piccoli indiani di An. La storia di Pallone e Milioni, i due Alfredi che vanno al bagno e a farsi un panino quando scatta l’ora X, ci vorrebbe Totò a raccontarla. Non sono problemi di incontinenza o cali di zuccheri, no. La faccenda di chi deposita le
firme sta così. Vanno in due, come i carabinieri, di solito per controllarsi a vicenda. Portano i nomi dei candidati, devono depositarli con le carte. Sono scelti con criterio, sono persone di fiducia di chi li manda: i mandanti, letteralmente. I mandanti li mandano sapendo di poter contare su di loro per lo svolgimento del compito che segue. Dunque: Pallone e Milioni hanno i nomi. Sono concordati in estenuanti riunioni ma i depositanti gli Alfredi nell’ultimo metro di corsa hanno potere assoluto. Possono cambiarli, difatti vengono raggiunti da autorevolissime prevedibili telefonate che sulla soglia dicono loro metti questo, togli l’altro. Certo non posso farlo alla luce del sole dunque escono un attimo portandosi dietro l’intero incartamento, manifestano un’urgenza, fame sete bagno, anche un ascensore in cui chiudersi va bene. Un po’ come cambiare il nome del neonato davanti all’ufficiale dell’anagrafe: si era detto Filippo, è diventato Benito. È un vecchio giochetto, richiede abilità. Già al principio degli anni 80 un democristiano lombardo ci rimise la carriera. A volte non funziona, si sottovalutano le conseguenze si sbaglia coi tempi. A volte si gioca coi tempi per ottenere conseguenze calcolate: nessun errore. Sembra questo il caso. Pallone e Milioni. Milioni e Pallone. Le tre carte, il panino, il cellulare che squilla. Il “capo” che chiama. Il tempo che scade. La firma che manca. Accidenti, che peccato. Non si potrebbe fare una leggina ad hoc? No, meglio di no. Semmai un corso di formazione per depositanti firme. Un bando nazionale. Un prestito di personale da un altro partito. Ma alla fine poi vedete, le cose sono andate proprio come dovevano: gli Alfredi hanno fatto un buon lavoro, missione compiuta. La Casa dei Veleni è al lavoro: Polverini non piace al boss, se la veda da sola. Il metodo è questo.

il Fatto 3.3.10
Da Strasburgo
Accolto il ricorso italiano
sarà la “Coorte suprema” europea a decidere sul crocifisso

La Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha accolto la domanda di rinvio alla Grande Camera del caso Lautzi sull’affissione del crocifisso nelle aule scolastiche. La notizia è stata subito accolta con “vivo compiacimento” dal ministro degli Esteri Frattini, mentre il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, ha parlato di “riaffermazione dell’identità del paese”. Positivo anche il commento di don Domenico Pompili, portavoce della Cei, che parla di “un passo avanti nella giusta direzione”. Il presidente della Conferenza Episcopale, il cardinale Angelo Bagnasco ha commentato la decisione definendola “un atto di buon senso auspicato da tutti perché rispetta la tradizione viva del nostro Paese e riconosce un dato storico oggettivo secondo cui alla radice della cultura e della storia europea c'é il Vangelo”. Era stata proprio la Corte dei Diritti dell’Uomo a dare ragione a Soile Lautzi Albertin, cittadina finlandese, e al marito che otto anni fa avevano cominciato il lungo iter giudiziario chiedendo di togliere il crocifisso dalle aule in nome del principio di laicità dello Stato. Strasburgo aveva sovvertito la sentenza del Consiglio di Stato, condannando l’Italia anche ad un risarcimento di 5 mila euro per danni morali. Il ricorso dello Stato italiano era un atto dovuto, sia per sensibilità diplomatica, sia per la questione del risarcimento. Il rischio è che la Grande Camera (la cui composizione sarà comunicata nei prossimi giorni) si pronunci in linea con la Corte di Strasburgo. In quel caso, lo Stato italiano potrebbe essere costretto a pagare il risarcimento, ma non a rimuovere la causa. La sentenza non porterebbe insomma automaticamente alla rimozione dei crocifissi dalle scuole. Nei Sacri Palazzi sperano comunque che la Grande Camera si esprima in maniera “equilibrata”, come ha fatto in altri contesti ad esempio nel caso Turchia, o nel caso burqa. “In quei casi – dice un giurista vaticano – è stato fatto valere il principio del margine di apprezzamento, che è uno dei due principi su cui si fonda l’Europa. L’altro è la sussidiarietà”. Mentre in questo caso, sostiene, “non è stata considerata la storia del paese, al di là della statistica”. Ma, nelle stanze vaticane, preferiscono non predicare grande ottimismo: “Era un passo dovuto. Ma se la Grande Camera confermasse la condanna di Strasburgo, creerebbe un precedente importante per tutta l’Europa, e non solo per l’Italia”.

Comunicato Stampa
Carla Corsetti: Nella scuola di mio figlio non deve esserci il crocifisso

rosinone (Ceprano) – «La sottoscritta genitrice/difensore inoltrava al Dirigente Scolastico dell’Istituto Comprensivo di Ceprano l’invito alla immediata rimozione del crocifisso nell’aula frequentata dal proprio figlio, sostenendo che: la predetta affissione è in violazione dei principi di laicità sanciti dalla Costituzione ed inoltre che l’esposizione di un simbolo di morte non è compatibile con i principi di civiltà democratica cui intendo educare mio figlio». È quanto si legge nel ricorso che l’avvocato Carla Corsetti ha notificato a Mariastella Gelmini, Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, e al Dirigente scolastico dell’Istituto Comprensivo Statale di Ceprano. “Il TAR del Lazio, Sezione Distaccata di Latina” commenta Corsetti “dovrà decidere se l’Istituto Comprensivo di Ceprano ha posto in essere o meno un grave atto discriminatorio contro il minore in violazione dei principi costituzionali, in violazione dei principi della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali e infine in violazione della sentenza della Corte Europea del 3.11.2009. Stiamo anche valutando la responsabilità del Dirigente e dei componenti del Consiglio di Istituto per la violazione dell’art.3 della Legge 654/1975 che punisce con la reclusione sino a tre anni chi commette atti di discriminazione per motivi religiosi. Vorrei ricordare” aggiunge l’avv. Corsetti “che la Corte di Cassazione ha assolto il giudice Luigi Tosti in relazione all’accusa di omissione di atti d’ufficio per essersi rifiutato di tenere udienza nelle aule in cui il crocifisso era esposto, e in quella sentenza la Corte ha premesso che l’udienza si era svolta in un’aula priva del simbolo confessionale”. La battaglia di laicità intrapresa dall’avv. Carla Corsetti è rilevante sotto molteplici aspetti perché Corsetti, oltre ad essere avvocato e madre del minore discriminato, è il Segretario Nazionale del partito Democrazia Atea www.democrazia-atea.it . In attesa che la Grande Camera deliberi sul ricorso promosso dal Governo italiano contro la sentenza che dava ragione ai coniugi Albertin-Lautsi, l’avv. Corsetti aggiunge un altro tassello a questa importante battaglia di civiltà: “Se è vero che per i cattolici il crocifisso è simbolo di tolleranza, lo dimostrino e accettino di viverlo nel privato senza imporlo con prevaricazione a chi non condivide la stessa simbologia”. Il documento del ricorso di Carla Corsetti è pubblicato sul sito di Democrazia Atea ed è a disposizione di tutte quelle famiglie costrette a subire la stessa violazione.

il Fatto 3.3.10
L’Iran spegne lo sguardo di Panahi
Arrestato il registaanti-regime
Stava girando un documentario sulle manifestazioni
di Hamid Ziarati

Le notizie che giungono dall’Iran sono sempre più inquietanti e gli arresti che si susseguono non lasciano il tempo sufficiente per festeggiare le liberazioni con la condizionale appena avvenute dopo lunghissimi periodi di detenzione e di tortura, ed è così che nell’indifferenza generale dell’occidente e della maggior parte della sua classe politica e intellettuale si assiste impotenti a quanto viene prevalentemente denunciato sul web che è, e resta, l’unico mezzo d’informazione per far la fredda conta quotidiana dei morti ammazzati e degli imbavagliati in un paese in rivolta.
La notizia dell’arresto dell’amico e regista Jafar Panahi, di sua moglie e di sua figlia, e dei suoi quindici ospiti, tra cui alcuni noti registi e operatori, avvenuto in casa sua la notte tra lunedì e martedì da parte dei servizi segreti, è però una di quelle notizie che non può e non deve passare inosservata. Stiamo parlando di un artista che grazie alla sua bravura e al suo sguardo lucido e disilluso sulla società iraniana è riuscito a sorvolare i confini nazionali e a ottenere i più alti riconoscimenti internazionali, vincendo prestigiosi premi tra cui il Leone d’Oro a Venezia, il Premio della Giuria al Festival di Cannes, l’Orso d’Argento a Berlino e molti altri premi ancora. Inoltre Panahi è il regista che grazie alla sua attività di denuncia, scegliendo di vivere e realizzare tutti i suoi film in Iran malgrado il divieto di lavorare impostogli da parte del regime della Repubblica islamica e le proficue proposte dall’estero che gli giungono ormai dall’inizio della sua attività, è riuscito a realizzare le sue opere più o meno in clandestinità con una serie di stratagemmi geniali per aggirare il ministero della Cultura, ovvero il ministero della Censura, e già solo per questo merita tutta l’attenzione e la solidarietà del mondo culturale e democratico. E proprio il tentativo di girare un documentario sulle proteste contro il regime gli sarebbe costata la libertà. Panahi ha l’onore e la frustrazione di un artista che è costretto a vedere tutti i suoi film sul grande schermo solo fuori dai confini iraniani, ma questo non l’ha mai portato a piegarsi alla volontà del regime di fargli abbandonare l’attività oppure l’Iran per lavorare altrove, come lui stesso ha affermato in una lettera aperta al popolo iraniano scritta in ottobre assieme all’attrice Fatemeh Motamedarya e al documentarista Mojtaba Mir Tahmasb, in seguito al ritiro dei loro passaporti all’aeroporto di Teheran, mentre erano diretti all’estero per assistere a una rassegna cinematografica: “Noi siamo iraniani e ognuno di noi ha un solo passaporto. Un passaporto iraniano su cui è inciso lo stemma della Repubblica Islamica dell’Iran. I nostri passaporti sono stati requisiti all’aeroporto. In questi ultimi 30 anni abbiamo lavorato nel settore cinematografico e grazie alle nostre opere siamo stati i rappresentanti della cultura e dell’identità iraniana nel mondo. Nessun governo ci ha concesso quest’onorificenza e nessun governo può togliercela. Noi ci siamo ispirati alla cultura del nostro paese e l’abbiamo mostrata al mondo intero. Però, ora, non ci è concesso di superare i confini del nostro paese; non ci lamentiamo! Non conosciamo nemmeno le motivazioni e le accuse, ma non ci lamentiamo nemmeno per questo. Però, vorremmo continuare a rimanere dei cineasti iraniani indipendenti. Durante tutta la nostra vita artistica avremmo potuto ottenere passaporti di altre nazionalità, ma abbiamo sempre desiderato e voluto essere e rimanere iraniani. Il governo ha il potere di impedirci di oltrepassare i nostri confini nazionali; ma vorremmo ricordargli che le nostre identità non dipendono dai nostri passaporti, anche senza il passaporto noi siamo iraniani.” In una delle ultime telefonate Panahi mi ha confessato d’essere sull’orlo di una crisi di nervi, non solo perché è prigioniero in casa e quando è fuori casa ha sempre qualcuno alle spalle che lo insegue e lo controlla, non perché gli hanno ritirato il passaporto per impedirgli di far vedere all’estero ciò che in Iran non può far vedere, non perché è stato arrestato mentre assisteva alla veglia funebre di Neda al cimitero di Teheran (non era la prima volta, aveva già avuto seri problemi quando era corso all’aeroporto di Teheran nel 2003 per accogliere Shirin Ebadi di ritorno in Iran dopo avere ritirato il Nobel per la Pace), non per gli snervanti interrogatori ai quali è costretto a sottoporsi settimanalmente, ma per l’impossibilità di girare film e raccontare storie. Storie che servono prevalentemente a noi in occidente per comprendere quanta ferocia si compia in nome di un Dio che da tempo ha abbandonato l’Iran e gli iraniani e per continuare a rimanere insensibili di fronte alle sofferenze di una intera nazione. Speriamo che il suo arresto serva almeno a svegliare la coscienza di tutti coloro che in Italia si ritengono intellettuali, democratici e a favore della libertà d’espressione e che in questo momento decisivo per l’Iran invece di agire preferiscono sonnecchiare nel tepore dell’indifferenza e del menefreghismo in attesa di tempi migliori.

Repubblica 3.3.10
Comportamenti e tecnologie modificano i geni e favoriscono la selezione naturale della specie
Perché chi impara ha più chance di sopravvivere
di Nicholas Wade

Decisivi la modifica della dieta e il passaggio dalla vita nomade a quella stanziale
A partire da cinquantamila anni fa il processo ha subito una forte accelerazione

Come qualsiasi altra specie, le popolazioni umane sono plasmate dalle forze della selezione naturale, come le carestie, le malattie, il clima. Una nuova forza desta però un crescente interesse, con implicazioni stimolanti: da circa 20.000 anni sarebbero stati gli stessi esseri umani ad avere inavvertitamente influito sulla loro evoluzione. Tale forza è la cultura umana, definibile in senso lato come qualsiasi comportamento acquisito, tecnologie incluse. La prova della sua influenza è tanto più sorprendente se si considera che la cultura per lungo tempo è parsa rivestire un ruolo esattamente opposto: i biologi l´hanno considerata alla stregua di una sorta di scudo che proteggeva gli uomini da altre pressioni selettive, in quanto gli abiti e un tetto sulla testa smorzano i morsi del freddo e l´agricoltura consente di mettere da parte le eccedenze per superare eventuali carestie.
A causa della sua azione-cuscinetto, si riteneva che la cultura avesse rallentato il ritmo evolutivo del genere umano, o addirittura che in un lontano passato l´avesse fermato. Molti biologi, invece, adesso considerano il ruolo della cultura in un´ottica completamente diversa. Le persone si adattano geneticamente a cambiamenti culturali incisivi, come i nuovi regimi alimentari. Questa interazione funziona più rapidamente di qualsiasi altra forza selettiva, "inducendo alcuni medici a sostenere che una co-evoluzione genetica e culturale possa essere il modello dominante dell´evoluzione umana", scrivono Kevin N. Laland e i suoi colleghi nel numero di febbraio di Nature Reviews Genetics. Laland è un biologo dell´evoluzione all´università di St. Andrews in Scozia. L´idea che geni e cultura co-evolvano circolava da svariati decenni, ma soltanto di recente ha iniziato a fare proseliti. Due sostenitori illustri di questa testi, Robert Boyd dell´Università della California a Los Angeles, e Peter J. Richerson dell´Università della California a Davis, teorizzavano da anni che geni e cultura fossero profondamente collegati tra loro e avessero un´azione sinergica nel plasmare l´evoluzione umana.
La prova più attendibile di cui disponevano Boyd e Richerson per poter affermare che la cultura è una forza selettiva era la tolleranza al lattosio riscontrabile in molti europei del Nord. La maggior parte degli esseri umani "disattiva" il gene che consente di digerire il lattosio presente nel latte subito dopo lo svezzamento, mentre tra i nord-europei – discendenti di un´antica cultura di allevatori di bestiame che comparve in quella regione circa 6.000 anni fa – il gene resta "attivo" anche nell´età adulta. La tolleranza al lattosio è ormai un caso esemplare in grado di dimostrare in che modo una pratica culturale – bere latte crudo – abbia provocato un cambiamento evolutivo nel genoma umano.
Presumibilmente, potersi nutrire in modo più ricco e abbondante ha consentito di dare un notevole vantaggio agli adulti, che sono stati pertanto in grado di digerire il latte, e hanno avuto figli sopravvissuti in maggior numero, così che il cambiamento genetico poco alla volta ha interessato tutta la popolazione. Questo esempio di interazione tra geni e cultura è tutt´altro che unico: negli ultimissimi anni, i biologi sono stati in grado di effettuare la mappatura del genoma umano alla ricerca delle impronte dei geni interessati a selezione. È risultato che il 10 per cento del genoma umano – corrispondente a circa 2.000 geni – evidenzia tracce di essere stato sottoposto a pressioni selettive. Queste pressioni sono tutte molto recenti, in termini evolutivi, e molto probabilmente risalgono a 10.000-20.000 anni fa.
I geni ai quali si deve la pelle più pallida degli europei o degli asiatici, per esempio, sono probabilmente una risposta alla geografia e al clima. Molti geni che rivestono funzioni specifiche nel gusto e nell´odorato manifestano segni analoghi di pressione selettiva, riflettendo forse il cambiamento intercorso nell´alimentazione, quando gli esseri umani passarono da una vita nomade a una sedentaria. Altro gruppo di geni che evidenzia di essere stato sottoposto a pressioni selettive è quello che interessa la crescita ossea, e che potrebbe essersi modificato quando lo scheletro umano divenne meno pesante, in coincidenza con il passaggio a una vita stanziale avvenuto circa 15.000 anni fa. Un terzo gruppo di geni selezionati è quello deputato al funzionamento del nostro cervello. Il loro ruolo geni è sconosciuto, ma possono essere cambiati in risposta alla transizione sociale avvenuta quando gli esseri umani, da piccoli gruppi di cacciatori e raccoglitori, diedero vita a villaggi e città abitati da migliaia di abitanti.
Tra gli esseri umani moderni dal punto di vista del comportamento – parliamo degli ultimi 50.000 anni – il ritmo del cambiamento culturale è stato molto serrato. Ciò aumenta le possibilità che l´evoluzione umana sia stata accelerata in un recente passato dall´impatto di rapidi cambiamenti occorsi nella cultura.
La cultura, insomma, è diventata una vera e propria forza di selezione naturale, e se dovesse rivelarsi una delle più importanti, allora l´evoluzione umana potrebbe accelerare ancora di più, a mano a mano che gli esseri umani si adattano alle pressioni delle loro stesse creazioni.
© 2010 The New York Times News Service
Traduzione di Anna Bissanti

Corriere della Sera 3.3.10
Le università alla «guerra» contro Israele
Tre atenei aderiscono al boicottaggio. Lo storico Teodori: assurdo
di Antonio Carioti
qui
http://www.scribd.com/doc/27753100/Corriere-Della-Sera-Le-universita-alla-%C2%ABguerra%C2%BB-contro-Israele-3-mar-2010-Page-19

martedì 2 marzo 2010

il Fatto 2.3.10
Le piazze unite:
“Nessun uomo è illegale”
Sessanta città e migliaia di persone per lo sciopero dei lavoratori stranieri
di Caterina Perniconi

L’Europa,ieri,è stata unita da un filo giallo. Dalla Spagna alla Grecia, passando per sessanta città italiane, migliaia di immigrati hanno proclamato il loro primo sciopero e manifestato contro il razzismo, sventolando lacci e palloncini gialli. L’iniziativa “Primo marzo, 24 ore senza di noi”, nata spontaneamente su Facebook e ispirata all’omonima “journée sans immigrés” francese, ha voluto rendere visibili gli stranieri che vivono e lavorano in Italia per dimostrare che, senza di loro, il paese si ferma.
“Protestiamo contro l’esecutivo e i provvedimenti razzisti che ha emanato – spiega Shukri Said, portavoce dell’associazione Migrare – perché il pacchetto sicurezza ha reso reato una condizione umana, quella della clandestinità. E questa cosa è inaccettabile, soprattutto se si decide di fare una regolarizzazione a metà, solo di colf e badanti. E tutti gli altri? Diventano automaticamente delinquenti? É davvero inammissibile”. La manifestazione è nata in maniera spontanea, “perché abbiamo deciso di organizzarci da soli – dice Shukri Said – quando abbiamo capito che opposizione e sindacati non avrebbero alzato le barricate in Parlamento”. In seguito la protesta “Primo Marzo” ha ricevuto l’adesione di una serie di organizzazioni, tra le quali Emergency e Legambiente, dei partiti politici dell’opposizione e dei sindacati confederali Cgil, Cisl e Uil, che pur dando il loro sostegno, non hanno proclamato lo sciopero generale a livello nazionale.
A Napoli hanno sfilato più di 20 mila persone in un corteo partito da piazza Garibaldi fino al Plebiscito, sotto lo striscione Nessun uomo è illegale. “Qui in Campania – spiega il presidente dell’associazione senegalesi, Pape Seck – noi stranieri non abbiamo diritti e non veniamo rispettati. In passato in questa città c’era rispetto e dignità per lo straniero ma le cose sono cambiate con la legge Bossi-Fini”. Una legge che il presidente della Camera si è detto pronto a “rifirmare domani”.
A Milano il presidio è partito da pizza della Scala fino a piazza Cordusio: “Ho raggiunto i miei genitori che lavorano qui – racconta Eder Herrera, studente peruviano dell’Università Statale – e non dimenticherò mai quel giorno che mi hanno fermato i controllori dell’Atm. Avevo dimenticato il portafoglio con l’abbonamento e mi hanno trattato come un criminale”. A Roma si sono svolte molte iniziative corredate da striscioni gialli. Ieri mattina, in collaborazione con Legambiente, centinaia di rifugiati e richiedenti asilo hanno pulito il parco di Colle Oppio. Un presidio si è svolto davanti alla sede dell’Inps di San Giovanni, dove gli immigrati hanno chiesto a gran voce il riconoscimento del proprio lavoro e dei propri contributi, e di riaverli indietro quando lasciano il paese. “Il beneficio dato dai lavoratori stranieri non si ferma al 10 per cento del Pil – spiega Shukri Said – ma va oltre. Perché non si considerano mai, per esempio, tutte le donne italiane che possono lavorare anche se a casa hanno un bambino o un anziano ammalato. E poi se gli egiziani hanno inventato la matematica, vuol dire che non sanno solo mungere le mucche: perché questo paese non se ne accorge e non accetta anche lavoratori stranieri ad alti livelli?
L’America è diventata grande perché ha messo insieme tutte le forze immigrate che hanno dato il meglio”. La giornata romana si è conclusa con una grande manifestazione a piazza Vittorio, cuore della città multietnica.
La Lega nord ha definito lo sciopero di ieri “senza senso”, per questo motivo ha indetto una contromanifestazione oggi, a Sesto Giovanni, nel milanese, a favore dei lavoratori italiani, perché “chi viene nei nostri paesi, prima di rivendicare diritti, dovrebbe avere e rispettare dei doveri”. Alla Lega sfugge che gli immigrati lo fanno, pagano i contributi e aumentano il nostro benessere.

l’Unità 2.3.10
Sciopero degli immigrati Lombardia, chiuse 40 aziende
di C.A.

Ibrahim Diallo della Cgil: «In 15 fabbriche tutto fermo». Alla Ducati di Bologna un’ora di stop
Cécile Kyenge Kashetu: «Per impedire ricatti sul lavoro estendere la cittadinanza a tutti»

A Bologna le mobilitazioni sul lavoro hanno interessato la Bonfiglioli di Lippo di Calderara, la Titan e la Euroricambi di Crespellano che hanno scioperato per otto ore e la Ducati motor.

Producono il 9,7% dell’intero pil nazionale e contribuiscono in maniera sempre più massiccia, attraverso il versamento dei contributi, alla tenuta del sistema pensionistico (di cui tra l’altro non godono quando escono dal Paese). Lavorano come schiavi nelle campagne del Mezzogiorno del Paese per poter permettere un qualche margine di guadagno ai proprietari di agrumeti, terre messe a pomodoro, mele, olive, patate.
Lavorano nel nord del Paese, nelle aziende metalmeccaniche. E ieri, la Lombardia, anche grazie all’adesione dei sindacati alla protesta, si è ritrovata scioperi in oltre 40 aziende, in decine di cooperative di servizi e in molti istituti professionali frequentati da studenti migranti e di seconda generazione. «In 15 fabbriche era tutto fermo. I lavoratori migranti hanno aderito allo sciopero e non si è potuto lavorare dice Ibrahim Diallo, del coordinamento migranti Cgil di Brescia ma anche in molte altre fabbriche tanti operai stranieri non hanno lavorato ed erano in piazza con noi». Ecco come anche uno sciopero nato dal basso, possa influenzare la percezione che il Paese ha dei propri immigrati.
LO SCIOPERO A BOLOGNA
A Bologna le mobilitazioni sul lavoro hanno interessato la Bonfiglioli di Lippo di Calderara, la Titan e la Euroricambi di Crespellano che hanno scioperato per otto ore e la Ducati motor dove i lavoratori hanno incrociato le braccia per un’ora, in uscita dall’azienda. Quasi al 100% in tutti i casi le adesioni dei lavoratori stranieri, appoggiati, alla Ducati ad esempio, «da oltre il 50% degli italiani», come riferisce Walter Garau, delegato Fiom della “rossa” di Borgo Panigale.
Piazza del Nettuno era gremita di gente, fin dalle 16, un’ora dopo l’inizio dello sciopero: almeno 4-5mila persone, che nel corteo sono diventate almeno 10mila, colorando la città di giallo, il colore scelto dagli organizzatori per questa manifestazione. Tesa ma molto soddisfatta la coordinatrice del movimento bolognese Cécile Kyenge Kashetu, medico oculista congolese e prima migrante a far parte del
direttivo regionale del Pd. «Per impedire i ricatti sul lavoro bisogna estendere la cittadinanza italiana a tutti i lavoratori», ha detto dal palco. Molti gli interventi che si sono susseguiti dal microfono aperto in piazza. Quelli dei delegati Fiom delle aziende che hanno ribadito il legame tra lavoratori stranieri e italiani: «Questo sciopero non è solo dei
migranti ma di tutti, perché è contro una legge la Bossi-Fini e un governo razzista e fascista che vuole indebolire la classe operaia», ha gridato il delegato della Bonfiglioli Gian Placido Ottaviano.
Molte le associazioni che hanno aderito allo sciopero, tra cui anche quella dei medici di Sokos che assistono e curano i migranti clandestini. Tanti anche i lavoratori precari e gli studenti medi che, ancora “caldi” di occupazioni contro la riforma Gelmini, hanno dato il loro sostengo ai migranti e organizzato nelle scuole in questi giorni momenti di riflessione sulla presenza degli stranieri in Italia.

l’Unità 2.3.10
Un giorno di marzo per capire cosa siamo diventati noi
Una occasione per riflettere sulle notti della Repubblica popolate da ominicchi, mafiosi, gente disposta a tutto Mentre dall’altra parte brillano come fari i palloncini gialli
di Giuseppe Provenzano

Sì, «loro», gli immigrati... Ma ieri, Primo Marzo – scriviamolo così, d’ora in poi – è stata l’occasione buona per capire come siamo diventati «noi». Sì, gli italiani.
Ieri, a Palermo i funerali di un uomo, avvocato penalista e politico, che viene massacrato per strada. Non ucciso, finito a colpi di mazza. Ammazzato. Efferatezza ed etimologia. Della decina d’uomini che hanno visto, solo tre hanno parlato. Gli altri, sono andati via. Tre su dieci, ecco i numeri della nazione. La procura, ancor prima del colpevole, cerca i testimoni, e dice: dalla mafia alla vendetta personale, nessuna pista è esclusa. Ecco, tutte le piste, tutte le strade della notte della Repubblica. Sempre più buie, buone a massacrare o tacere. Tutte le strade che portano a Roma.
Siedevano in Parlamento, ancora ieri, sui banchi del Senato, un uomo condannato per aver favorito Cosa Nostra e un altro che risulta schiavo della ‘ndrangheta. Totò Cuffaro e Nicola Di Girolamo. Uno dei due, almeno, ha avuto la decenza (anche fosse semplice tempismo) di dimettersi. L’altro, rappresenta ancora la nazione. Sarà la suggestione, ma mi è sembrata di trovarla nei racconti sulla vita di Gennaro Mokbel l’autobiografia della nazione al tempo delle «cricche»: delle «logge», delle «cosche»... Gli «uomini soli al comando» non esistono, neanche quando fanno di tutto per darlo a vedere. C’è sempre una «cricca» da servire, nell’Italia dei cortigiani.
Il momento più temibile della fine di Berlusconi – e di ogni Berlusconi mascherato – sarà proprio la reazione e la sorte della corte di ominicchi che si raccoglie intorno al corpo del Potere: a raccogliere briciole sottobanco, poltrone di talkshow, affidamenti diretti.
C’è una frase memorabile, che salta fuori da queste settimane italiane di intercettazioni: «Quanti cognati»! Eccoli, gli italiani del 28 febbraio e del 2 marzo: quelli soliti di Flaiano, «un popolo di santi, di poeti, di navigatori, di nipoti, di cognati». L’Italia delle “Famiglie” mafiose, massoniche, affaristiche, politiche non «meridionalizzata» (come vorrebbe, con un filo insospettabile e forse inconsapevole di razzismo, l’ultimo libro di Aldo Cazzullo) ma fin troppo uguale a se stessa, immutata.
E ora, qualcuno vuole farci venire la paura dello straniero, delle etnie. Davvero, fanno paura i disperati che tornano a Rosarno, per un’altra stagione all’Inferno. Fa paura che a poche decine di chilometri, il boss di Isola di Capo Rizzuto organizzava la raccolta di voti per Di Girolamo in un quartiere turco di Stoccarda. C’è una prossimità inquietante nelle nostre infamie. Ci sono infamie che sconfinano: italiani all’estero. S’è annullata ogni distanza tra tutte le piste della notte d’Italia: Rosarno e Capo Rizzuto, il quartiere turco e il Parlamento.
Ieri, Primo Marzo 2010, guardandosi allo specchio, alcuni italiani sono scesi in piazza. Qualcuno a dire «grazie«. Qualcuno a chiedere «aiuto». Qualcuno semplicemente a liberare un palloncino giallo. Splendeva, in mezzo a tutto questo nero.

l’Unità 2.3.10
Da Milano a Napoli, le piazze degli «invisibili» sono gialle
di Giuseppe Vespo

La giornata di sciopero è nata quasi spontaneamente, in rete, su Facebook, sulla scia del tam-tam che dalla Francia è passato all’Italia, alla Spagna, alla Grecia. Obiettivo raggiunto, manifestazione riuscita.

Anà laistu ‘ansaria: «Io non sono razzista», ripete la signora Bruna Canova, una dei tanti italiani arrivati in piazza Duomo a Milano per partecipare alla manifestazione conclusiva della prima giornata di sciopero degli stranieri. Lei, che non è più
una ragazzina, si fa dare una mano da Rita, mantovana trasferita qui per studiare mediazione linguistica. Seguono insieme la lezione di arabo organizzata dai manifestanti con i ragazzi del centro sociale «Il Cantiere».
SENZA DI NOI
È una delle tante iniziative di questo «Primo marzo: un giorno senza di noi», lo sciopero degli stranieri che ha portato a sfilare in sessanta città migliaia di persone di tutte le nazionalità. Insieme contro il razzismo e la xenofobia, e per far pesare il valore, anche economico, del contributo dei migranti all’Italia. Alle 18,30 a Milano, come in tutte le piazze, centinaia
di palloncini gialli colore simbolo di questa giornata si levano al cielo. Davanti al Duomo un enorme striscione chiarisce: «Migrare non è un reato», mentre un gruppo di africani balla al ritmo di «Bouniou Mêro, Bouniou Djapanté, Lou Yale Toudoul, Doumana Amtèye», che più o meno vuol dire: «Non litighiamo, stiamo uniti insieme», traduce Joshep,
trent’anni, senegalese, metalmeccanico a Rozzano. Lui è uno dei tanti che oggi non sono andati al lavoro, uno dei 4 milioni di immigrati che contribuiscono al dieci per cento del pil italiano e a sostenere le pensioni, che pagano sei miliardi l’anno di tasse e sette di contributi.
Anche questo vuol dire Italia senza migranti: fonderie e cantieri svuotati della metà, campi privi di manodopera dice Coldiretti scuole e università private di intelligenze. Come quelle di Edith, Larissa e Raoul, tre fratelli del Burundi che studiano qui Biotecnologie industriali ed economia. Pagano la retta delle università private Cattolica e Bocconi con borse di studio e lavoretti.
OBIETTIVI
La giornata di sciopero è nata quasi spontaneamente, in rete, su Facebook, sulla scia del tam-tam che dalla Francia è passato all’Italia, alla Spagna, alla Grecia. Obiettivo raggiunto, manifestazione riuscita. Ora viene il tempo della politica, dice Stefania Ragusa, che insieme a Nelly Diop, imprenditrice senegalese a Milano e Dai-
marely Quintero, sindacalista Cisl cubana, ha organizzato l’evento. «È presto per i bilanci racconta la presidente del comitato Primo marzo Tuttavia l’iniziativa è riuscita. Siamo riusciti a creare un sacco di contatti. Adesso si apre la parte politica, si tratterà di scegliere dei contenuti e di lavorare su quelli».
Tante le associazioni che hanno partecipato. Da Amnesty all’Arci, da Legambiente alle Acli, a Emergency. E poi i partiti, il Pd, l’Idv, il Pdci, Prc. Uno sciopero «interessante», anche per il Pdl. Il corteo più nutrito a Napoli, ventimila i manifestanti. Qui c’è stata anche qualche tensione, dopo che un disoccupato ha dato uno schiaffo all’assessore alle Politiche sociali del Comune Giulio Riccio. Per il resto, manifestazioni pacifiche in tutte le piazze. A Brescia erano in diecimila, fuori dalle fabbriche per iniziativa della Fiom-Cgil. Mentre a Sesto San Giovanni la Lega ha organizzato una contromanifestazione. A Roma in cinquemila hanno sfilato fino a piazza dell’Esquilino, passando per la multietnica piazza Vittorio. Il corteo è stato aperto da una delegazione di stranieri di Rosarno, con lo striscione: «Troppa intolleranza, nessun diritto».
«Il successo della mobilitazione è una sfida alla politica perché faccia la sua parte per governare in modo lungimirante il cambiamento», ha commentato Rosi Bindi, presidente dell’assemblea nazionale del Partito democratico. «L’Italia ha aggiunto è un paese fatto di tanti colori e tante lingue. I limiti della Bossi-Fini sono del tutto evidenti e le norme del pacchetto sicurezza hanno aggravato la situazione».

l’Unità 2.3.10
Tutelati dall’art. 3 della Costituzione ma non dalle leggi

Dall’intervento di Ernesto Ruffini nel corso della manifestazione viola di sabato 27 febbraio, a Roma. «Siamo qui per ricordare la nostra Costituzione a tutti quelli che pensano di poterla cancellare senza che nessuno di noi se ne accorga, ma noi non faremo finta di non vedere. I nostri Costituenti ci hanno consegnato quelle che avrebbero dovuto essere le ragioni del nostro vivere insieme. I primi articoli della Carta rappresentano il nostro comune biglietto da visita e l’art. 3, quello che riconosce che le persone sono tutte uguali davanti alla legge, è certamente la più bella presentazione per un moderno Stato democratico. Uguali senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È un principio che è stato scritto per i più deboli, per le minoranze,
per tutelare i pochi e non i molti. Vuol dire che gli stranieri hanno i nostri stessi diritti fondamentali, mentre viviamo in un Paese in cui è stato introdotto il reato di immigrazione clandestina. Un Paese dove certi pifferai magici vorrebbero farci credere che i principi di uno stato occidentale si difendono regredendo pericolosamente verso forme primordiali di razzismo. (...) L’art. 3 della nostra Costituzione
vuol dire questo e molto altro ancora e noi abbiamo il preciso dovere di riappropriarci del nostro futuro e dei nostri sogni perché, come diceva Gramsci, «Quello che accade, accade non tanto perché una minoranza vuole che accada, quanto piuttosto perché la gran parte dei cittadini ha rinunciato alle sue responsabilità e ha lasciato che le cose accadessero». Non facciamolo noi e riappropriamoci finalmente della parte migliore del nostro passato.

Repubblica 2.3.10
Immigrati, il giorno dello sciopero "Senza di noi l´Italia si ferma"

Cortei in 60 città, 300 mila in piazza. Tensioni a Torino
di Vladimiro Polchi

ROMA - L´Onda Gialla parte dal centro di Milano, rimbalza a Roma, arriva fino a Palermo. «Non siamo criminali, non siamo clandestini, ecco a voi i nuovi cittadini». Lo slogan viaggia sul tam tam dei tamburi delle tante manifestazioni: è il "Primo marzo. Una giornata senza di noi", lo sciopero degli immigrati. Sessanta città italiane coinvolte, 50mila membri su Facebook, «trecentomila» cittadini italiani e stranieri in piazza, tutti col colore giallo. L´obiettivo? Dire stop al razzismo e reclamare più diritti per i 4,8 milioni di immigrati che lavorano in Italia.
Astensioni dal lavoro, sciopero dei consumi, cortei, sit-in si sono susseguiti in tutta Italia, in contemporanea con Spagna, Grecia e Francia, dove è nato il movimento "24 ore senza di noi" e dove al ritmo di «rispetto e dignità per gli immigrati» si è scesi in piazza da Parigi a Tolosa. In Italia, la giornata auto-organizzata su Internet (www.primomarzo2010.it) ha visto l´adesione del Partito democratico, Idv, Prc e Socialisti e di Amnesty, Arci, Acli, Legambiente, Emergency, Amref, Cobas, Fiom. I sindacati hanno partecipato in ordine sparso e non hanno proclamato uno sciopero nazionale. Solo la Cisl ha formalizzato la sua contrarietà alla manifestazione. Le astensioni dal lavoro sono state dunque a macchia di leopardo: a Brescia, secondo Fiom-Cgil 10mila persone sono scese in piazza e in 50 aziende hanno scioperato. «Il tam tam ha funzionato - sostiene Cristina Sebastiani, una delle organizzatrici italiane - in tutta Italia hanno manifestato in trecentomila». Non sono mancati momenti di tensione: a Torino un irregolare è stato arrestato dalla polizia mentre andava al corteo, scatenando la rabbia dei suoi compagni.
Il corteo più grande è stato a Napoli dove a sfilare sono scesi (secondo gli organizzatori) in 20mila. In piazza le maggiori comunità straniere, dal Bangladesh al Burkina Faso, dal Marocco al Senegal. A Bologna hanno sfilato in 10mila. Uno striscione giallo con la scritta "Migrare non è reato" ha aperto il corteo a Milano, con duemila partecipanti. Emanuel, 34 anni del Camerun, dipendente di un grande albergo, ha raccontato di essere a Milano da sei anni, ma «in metropolitana vengo ancora guardato con disprezzo: il punto è che non veniamo considerati cittadini». A Roma, centinaia di rifugiati e richiedenti asilo, insieme ai volontari di Legambiente, hanno ripulito il parco del Colle Oppio. Un gruppo di immigrati ha manifestato sotto la sede dell´Inps, chiedendo la restituzione dei contributi versati in Italia a quei lavoratori che decidono di tornare in patria. In testa al corteo del pomeriggio, per le via della Capitale hanno sfilato gli immigrati di Rosarno. A Trieste, i manifestanti hanno cancellato le scritte razziste dai muri della città.
Il vescovo di Terni, Vincenzo Paglia, parla di «una manifestazione significativa, perché mostra quella indispensabile integrazione e convivenza che semina il futuro della nostra società». Mentre la Lega Nord annuncia per oggi, a Sesto San Giovanni, una contro-manifestazione in risposta allo sciopero degli immigrati.

Repubblica 2.3.10
Nel quartiere teatro, due settimane fa, di scene di guerriglia: "Non è un ghetto"

Milano, l'altra faccia di via Padova "Siamo clandestini, ma lavoriamo"
In tanti sono andati al corteo di piazza Duomo: perché la tv dice che siamo tutti ladri?
Ma qualche vecchio residente dice: erano meglio i criminali italiani, si stava più tranquilli
di Piero Colaprico

MILANO - Via Padova «non è un ghetto, né una bomba a orologeria. Pochi giorni fa al Centro di cultura islamica c´è stata una riunione a cui hanno partecipato quasi cinquanta associazioni di quartiere», dice la signora Grazia, che ci abita da quarant´anni. Via Padova è la via dove anche ieri c´erano poliziotti, carabinieri ed esercito. Hanno controllato a tappeto una novantina di appartamenti: i morti e i feriti e gli inseguimenti e le auto rovesciate non passano invano.
Ma dalle stesse strade e piazze ieri, mentre i controlli di polizia proseguivano, sono partiti anche non pochi magrebini, peruviani, centroafricani, sudamericani. Sono andati in piazza Duomo per la manifestazione, lo "sciopero nazionale", questo primo passo: mosso non si può dire in quale direzione, ma comunque mosso. «Io lavoro in un ristorante, faccio i mestieri in un condominio, divido casa con due badanti, non mi va di essere dipinta come una criminale perché non ho il permesso di soggiorno», racconta Melinda, che sta per fare causa ai datori di lavoro che la tengono «in nero». E come lei, assicura, in via Padova sono moltissimi: clandestini, ma con un lavoro. «Non siamo criminali come dice la tv», aggiunge Khaled, piastrellista con dittarella.
Forse per comprendere via Padova bisogna partire da una delle sue strade laterali meno battute, via Termopili. Qua ancora ricordano che in una casa signorile abitava in affitto Lucio Battisti, «gentilissimo, pagava il caffè a tutto il bar, forse per farsi perdonare di quando suonava la batteria con le finestre aperte». E quelli «erano i negozi di Elio il carbonaio, là c´era il calzolaio, l´elettricista, il macellaio», ma ora i negozi non ci sono più. E non c´è più nemmeno l´entrata. Via Termopili è un posto da sociologia metropolitana.
Negli ultimi dieci anni sono stati alzati piccoli muri in cemento: la parte alta della ex vetrina si è trasformata in finestra, il banco vendite e il retro sono diventati case e letti, i soffitti alti hanno permesso i soppalchi. Sono diventati case, decine di case simili, molto densamente abitate. A volte da italiani, a volte da intere famiglie arrivare da ogni parte del mondo. «E che dobbiamo fare? Una casa popolare non l´abbiamo, con i disgraziati non ci vogliamo mischiare, o fai così o resti in mezzo alla strada», dice B., un egiziano in Italia da metà degli anni Ottanta.
Tu chiamale se vuoi ristrutturazioni. Ma sono uno stravolgimento, che la giunta di Milano, il centrodestra che pretende di risolvere ogni contrasto con la polizia e le dichiarazioni, ha lasciato passare senza nemmeno rendersene conto. Il vicino mercato comunale (ingresso principale da viale Monza 54) ne paga le spese: è stato abbandonato dalla metà dei commercianti e ha il tetto sfondato dalla pioggia. La clientela è andata assottigliandosi: «Gli stranieri - dice una banconista superstite - da noi non comprano, anzi dicono che se hanno dei soldi in più li mandano a casa loro, mentre gli italiani comprano nei negozi degli stranieri della zona...». Affollati, pieni di cose del mondo, colorati, vivi: «Vuoi mangiare il miglior Khebab di Milano?», chiedono.
In molti, anche stranieri, parlano male di due condomini di via Crespi, ai numeri 10 e 12. Sono abitati da immigrati al 90 per cento: hanno, stando a un vicino, quasi 230mila euro di debiti, e dalle finestre spuntano decine di antenne paraboliche. «Noi - spiega un negoziante italiano, pregando di restare anonimo - vorremmo dare un suggerimento ai politici. Invece di tartassare quelli che lavorano, dovrebbero fare qua un censimento in quelle case. Se non lavori, come mai hai questo telefonino superlusso? Non è che spacci? Sono domande retoriche, io vedo la gente per bene, è stanca, ha la calcina sui vestiti, ma guarda questo. Non vedi a occhio nudo che è un fetente? Rimpiango, sì, rimpiango quando c´erano i criminali italiani. Ti chiedevano il pizzo, ma stavi tranquillo».
Sentire frasi come questa, a Milano, dovrebbe preoccupare più che altrove. Ma in realtà, e questa è l´accusa corale, sembra non preoccuparsi nessuno delle periferie. E nessuno solleva polveroni, soprattutto sotto elezioni. Un esempio di questo silenzio? Basta andare in fondo a via Padova, a Cascina Gobba. Negli anni della cosiddetta «Milano da bere» qua c´era una grande bisca a cielo aperto, ora sta spuntando una moschea, con una sala forse da millecinquecento posti, costruita da fedeli islamici che si sono scocciati dei «non so» del Comune. Si tassano, costruiscono, pregano. E la Lega che non vuole moschee? Dispersa.
Via Padova è forse la metafora collettiva dell´arte d´arrangiarsi, della navigazione a vista. E, dicono molti papà italiani, del «si salvi chi può, i nostri figli da qua se ne stanno andando tutti». Ecco perché in piazza Duomo c´erano stranieri e italiani arrivati da via Padova: per dire «noi ci siamo». Per portare lo striscione: «Ma quali criminali, ma quali clandestini, ecco i nuovi cittadini».

il Fatto 2.3.10
Liste a perdere
Il Pdl fuori di testa denuncia i radicali
di Paola Zanca

Manca meno di un mese alle regionali. Ma più che per i programmi e i candidati queste elezioni le ricorderemo come quelle delle carte bollate. Ricorsi, denunce, memorie difensive e testimoni. Dal Lazio alla Lombardia, passando per la Puglia, ovunque si voti c’è di mezzo un avvocato.
A Roma si è perfino finiti nel penale. Il Pdl escluso dalla competizione per non aver presentato in tempo le liste prima ha provato ad appellarsi a Napolitano. E il Presidente ha risposto che “spetta solo alle competenti sedi giudiziarie la verifica del rispetto delle condizioni e procedure previste dalla legge”. Poi ha provato a fare ricorso all’Ufficio centrale regionale. Rigettato. Ora aspetta altre 48 ore per capire se il secondo ricorso (“più circostanziato”) avrà un esito migliore. Nel frattempo tenta la strada delle denunce: accusa di violenza privata alcuni “militanti del partito radicale” (ancora “da identificare”) perché si sarebbero “buttati per terra” per impedire ai delegati del Pdl di entrare nella zona di presentazione delle liste. E denuncia per abuso d'ufficio i componenti dell'ufficio centrale circoscrizionale – il luogo dove si presentavano le liste – per aver “impedito il legittimo esercizio del diritto politico di voto con vantaggio di una compagine politica e grave danno dell'altra”. Il verbale di consegna delle liste non c’è, ma gli avvocati del Pdl dicono di avere dalla loro “tre dati incontrovertibili”: “I nostri delegati erano in Tribunale già alle 11 e mezza, li hanno registrati all'ingresso”. “Il cartone con i documenti era appoggiato fuori dalla porta”. “Il cancelliere ha delimitato l'area successivamente, proprio mentre i nostri delegati erano fuori”. Grazia Volo, il legale che per il Pdl sta curando l'azione penale, sostiene che quando i delegati sono arrivati in Tribunale avrebbero dovuto ricevere un foglio con il loro numero nella lista d'attesa, e con specificata la chiusura dei termini alle ore 12. Invece no, dice l'avvocato Volo, i delegati sono stati abbandonati in quel “corridoio dei passi perduti”: “Si stava lì davanti a passeggiare senza meta – ricostruisce la Volo – quando a un certo punto, il presidente dell'Ufficio ha indicato quegli orribili marmi da obitorio intercalati da cordoni di ottone e ha detto 'Chi è fuori di lì non presenta la lista'. Una pratica mai vista”. “Io non ce l'ho con i Radicali – aggiunge la Volo Hanno fatto il loro lavoro: se gli riesce questo colpo hanno fatto bingo. Sono gli uffici che hanno abusato dei loro poteri, si sono fatti indurre in errore dalla protesta inscenata dai Radicali”.
La tesi su cui si regge il ricorso, invece, è che l'Ufficio avrebbe dovuto accogliere i documenti e casomai, poi, rigettarli perché presentati in ritardo. “Qui – dice Ignazio Abrignani, l'avvocato e senatore Pdl che sta seguendo il ricorso – si tratta di oltre un milione di cittadini che non troverebbero sulla scheda elettorale il simbolo che amano”. Se il ricorso non verrà accolto, andranno al Tar, e avanti, fino al Consiglio di Stato. Se a Roma “il processo” è cominciato, a Milano sono convinti che sia già finito. Alle14e39dioggi,perRoberto Formigoni – candidato (per la terza volta e dunque allo stato ineleggibile) alla presidenza della Lombardia – scade il tempo per presentare ricorso contro l'esclusione della lista che lo sostiene. La Corte di Appello di Milano ieri ha deciso di non ammettere alle elezioni la Lista per la Lombardia: su 3935 firme raccolte – ne servono minimo 3500 – 514 non sono valide. Formigoni, dunque, sarebbe fuori. Perché se è irregolare il suo “listino”, di conseguenza perderebbero di validità tutte le liste collegate. Secondo il responsabile della campagna elettorale di Formigoni, Mario Mauro, però, si tratta di un falso allarme: “Più sentenze del Consiglio di Stato – ha spiegato – rendono irrilevanti e non più necessarie alcune specifiche che la Corte di Appello di Milano ha ritenuto indispensabili. Stiamo perfezionando il ricorso e la Corte d'Appello non potrà che accettarlo”.
Anche Adriana Poli Bortone in Puglia ha le sue gatte da pelare. La lista che la sostiene – IoSud-Mpa – è stata esclusa dalle elezioni a Foggia e provincia. Anche qui ci sarebbero irregolarità nelle firme raccolte. La Poli Bortone ha già fatto ricorso, furibonda perché a lei hanno fatto le pulci, mentre "la legge elettorale Palese-Vendola approvata il 31 dicembre 2009 consente che un qualsiasi consigliere regionale, per il solo fatto di essere stato consigliere regionale possa presentare una lista con una qualsiasi denominazione”.
In Piemonte, invece, il candidato del Pdl e della Lega Roberto Cota se la prende con gli omonimi. A Torino ci sono “due false liste, una chiamata Cota. l’altra Pdl”, denuncia. “Le elezioni si combattono a viso aperto, non con i trucchetti”. E fa ricorso pure lui.
Tutto dovrà risolversi entro il 13 marzo. In quella data (che cade il quindicesimo giorno prima del voto) vanno affissi all'albo pretorio i manifesti con i nomi dei candidati alla carica di consigliere regionale, con i relativi simboli. A meno che il govern, con un decreto, non decida di far slittare tutto. Ma, nemmeno nel Pdl, nessuno ci crede.

La Repubblica Roma 2.3.10
"Radicali violenti? No, abbiamo le prove”
di Chiara Righetti

Mi pare che i dirigenti del Pd del Lazio abbiano fatto un gran pasticcio. Ora chi deve decidere decida. Ma nel rispetto della legge». Alla Casina Valadier per presentare la "lista del presidente", Emma Bonino torna quasi a malincuore sul tema caldo delle ultime ore, l'esclusione della lista Pdl. E prima di uscire in terrazza per la foto di gruppo sotto la pioggia aggiunge «solo una frase, sull'accusa di violenza addebitata ai radicali: la respingo con forza, non è vero. Ci sono prove fotografiche, testimonianze. Ma la nostra scelta di nonviolenza non voglio vederla sporcata o messa in dubbio: da qui la decisione della denuncia per calunnia». «Qui c'è una parte della storia e del futuro dell'Italia», aggiunge parlando del suo listino. Un elenco di 14 nomi per cui la legge «impone la parità fra sessi e la presenza delle province, ma entro questi paletti sono possibili molte opzioni. Noi abbiamo voluto aprire ad altri settori e professionalità, a persone che possano favorire la relazione fra società e istituzioni. Più facile a dirsi che a farsi, macredo sia una bella squadra, con un progetto, non un duplicato dei partiti». Una squadra che va «dai 27 anni di Vincenzo Iacovissi ai 68 del neuropsichiatra Pier Luigi Scapicchio. Da Latina, col presidente Acli Enzo De Amicis, a Viterbo con lo storico medievista Alfio Cortonesi. Dal giornalismo all'ambientalismo vissuto». E «la cui parte femminile mi soddisfa particolarmente: con Bia (Sarasini) siamo passate insieme lungo trent'anni di storia italiana; poi Marinella (D`Innocenzo), Luigina (Di Liegro). Nessun cambiamento avviene con facilità, ma da loro mi sento ulteriormente rafforzata». Il clima è di festa malgrado i mal di pancia che ancora agitano il Pd. «Non c'èstata volontà di escludere qualcuno a priori; mi auguro che la scelta della mozione Marino di uscire dagli organi del partito rientri, c'è bisogno di organizzare il lavoro», prova a mediare il segretario Mazzoli. E nel ribadire la scelta di aprire alla società civile, sottolinea che «il vero titolare dell'operazione è stata Emma Bonino». Ma l'amarezza trapela forte nella lettera di Luisa Laurelli ai suoi elettori: «Il mio partito mi ha messo fuori della porta! ». L`esclusa mariniana aggiunge: «In questi anni, alla scatola vuota che è il Pd e alla miseria cui è ridotta la politica, ho cercato di contrapporre etica, coraggio, spirito di servizio» ma «non è stato sufficiente: sono l'unico consigliere uscente non ricandidato».

Il Sole 24 Ore 2.3.10
Per ora il tema della campagne è il rispetto delle regoile
di Stefano Folli

C'è una differenza di fondo fra il caso di Roberto Formigoni in Lombardia e il pozzo nero in cui è precipitata la lista del Pdl nel Lazio. Là si tratta di firme solo in parte irregolari ed è assai plausibile che il ricorso del governatore della Lombardia potrà essere accolto, sulla scorta di passate sentenze del Consiglio di Stato. Qui invece il vicolo è davvero cieco e fino a ieri sera nessun giurista era riuscito a suggerire una via d`uscitaper restituire al partito di Berlusconi il suo posto sulla scheda. Tuttavia le due vicende hanno un punto in comune. Sono il prodotto di una battaglia politica che i radicali hanno avviato, facendo come al solito molto rumore, per affermare il rispetto delle regole. Ed è stato come infilare un bastone dentro un alveare. Si è visto subito che il sistema elettorale si regge quasi ovunque su di una legislazione tanto barocca quanto disattesa. Una lunga catena fatta di piccole e grandi violazioni, o se si vuole di piccoli e grandi soprusi rispetto ai quali chi dovrebbe controllare tende a chiudere un occhio. Finchè qualcuno - per pignoleria o piuttosto perchè ha deciso di creare il caso politico - decide di mettersi di traverso. E il sistema rischia di collassare proprio perchè non è abituato a tale, chiamiamolo così, controllo di legalità. Le conseguenze sono quelle che vediamo in queste ore. Nessuno sa come regolarsi e le reazioni sono talvolta grottesche. In Lombardia, per la verità, Formigoni ha saputo mantenere i nervi saldi e le pronunce del Consiglio di Stato gli permetteranno di raggiungere la riva. Del resto, sarebbe francamente assurdo se il governatore e l'intero centrodestra che lo sostiene da anni fossero esclusi dal voto. Sarebbe un insulto al buon senso. Tuttavia la grande paura di ieri, a parte le ironie di Bossi, a qualcosa servirà: a dimostrare che le leggi, finchè ci sono, vanno rispettate senza eccezioni. E questo riguarda la Lombardia come tutte le altre regioni: comprese quelle governate dalla sinistra, dove pure le regole elettorali vengono spesso osservate con una certa approssimazione. E con quel pizzico di arroganza con cui i partiti maggiori, a cominciare dal Pd, guardano alle forze minori. Il cuore della questione è comunque nel Lazio. Qui la reazione del Pdl è alquanto scomposta. Gridare alla «democrazia minacciata» non è molto credibile, visto che il centrodestra può solo prendersela con se stesso. Tanto meno lo è denunciare i radicali, accusandoli di avere usato violenza ai galoppini del Pdl. È chiaro che si tratta di una mossa disperata, alla ricerca di un appiglio purchessia per indurre la magistratura al compromesso. Sarebbe meglio invece che si riconoscessero gli errori commessi, senza l`inutile appello al Quirinale. Se c'è un problema di fondo che investe il rispetto delle regole, forse è da qui che si dovrebbe ripartire. Ma la stagione elettorale non è il momento migliore per questo genere di ammissioni. Ecco perchè l`alveare impazzito farà danni ancora a lungo. Una situazione al limite del paradosso, su cui Emma Bonino costruisce un pezzo importante della sua campagna. I radicali sono riusciti a mettersi al centro della scena, benchè Renata Polverini abbia i mezzi per conquistarsi il consenso anche senza il concorso della lista berlusconiana. Resta il fatto che la politica a tutti i livelli, al centro come nelle regioni e negli enti locali, ha bisogno di un bagno di legalità. Senza strillare ai «complotti». E fa, bene Maroni a dire che il governo non interverrà.

Il manifesto 2.3.10
il danzatore la femminista, la giornalista
il listino tutto polemiche e molta Emma

Si riuniscono tutti alla nobile e un po' decaduta Casina Valadier, sul Pincio, dalle cui vetrate si domina il più bel barocco romano, Cupolone in fondo. II caso vuole che i quattordici del listino del centrosinistra laziale vengano presentati nel giorno in cui le possibilità di vincere - causa le memorabili papere del Pdl nella presentazione delle liste - si fa un po` meno irraggiungibile. Visto così al netto dei morti e feriti lasciato per strada - il consiglio regionale avrebbe il fascino semplice ed elegante del danzatore Raffaele Paganini, étoile mondiale, «mi ha chiamato Emma, non la conoscevo, le ho detto sì». O l'impegno di Luigina Di Liegro, nipote di Don Luigi, già assessora alle politiche sociali della giunta uscente. C'è la femminista Bia Sarasini (sinistra ecologia e Libertà), la giornalista già segretaria di Stamparomana Silvia Garambois (Federazione della sinistra), il docente di storia Medievale Alfio Cortonesi, il neuropsichiatra della Cattolica Pier Luigi Scapicchio (Pd area molto cattolica), una giovane studente area Italia dei valori del comitato per lo scioglimento di Fondi. Emma Bonino è soddisfatta: «Qui c`è una parte della storia e del futuro del'`Italia». «Questo listino allarga per la prima volta i confini stretti della coalizione, e la verità è che in gran parte la responsabilità è di Emma», dice Riccardo Milana, il capo del comitato elettorale, Pd, che è anche un po` come scaricare la responsabilità politica finale sulla candidata, che in effetti ci ha tenuto ad assumersela tutta. Alla fine infatti i più `targati` nel listino sono proprio i radicali, come Michele De Lucia (il tesoriere di Radicali italiani) e Antonella Casu (l`ex segretaria), Non mancano infatti gli scontenti. Durante la presentazione arriva sui cellulari una lunga e amarissima lettera della consigliera uscente Luisa Laurelli, area Marino, che lascia la politica se la prende col suo partito, che prima le ha promesso un posto nel listino e poi le ha «chiuso la porta in faccia». Per questa ragione la mozione ha deciso di lasciare gli organismi di partito, nel Lazio. «Capisco l`amarezza», si difende il segretario regionale Alessandro Mazzoli, «è stata fatta una scelta che ha riguardato tutte le forze della coalizione: il titolare vero dell'intera operazione è Emma Bonino. E' stato fatto uno sforzo su figure che non fossero di stretta provenienza dei partiti. Una impostazione giusta e opportuna». Scontento dai Verdi, esclusi anche loro. Qualche malumore serpeggia anche per Emma Bonino "asso pigliatutto": a capo del listino e della lista Bonino-Pannella, un po' a scapito della lista civica per Bonino presidente, capitanata da Lidia Ravera.

«il tentativo di lanciare un’opa sull’elettorato a sinistra del Pd, in una competizione con Bertinotti prima e con Vendola poi che lascia alle ragioni e agli obiettivi liberali un unico posto: l’archivio»
Il Velino.it 2.3.10
Radicali manettari? Peggio, assorbiti

Roma, 1 mar (Velino) - Lasciamo per un istante da parte la querelle sulle liste nel Lazio, e concentriamoci su una questione di contenuti politici.
In particolare, ha destato stupore in alcuni osservatori la presenza di Emma Bonino e Marco Pannella, sabato scorso, alla cosiddetta manifestazione-viola, animata da inni manettari e sguaiate urla giustizialiste. Per la verità, a ben vedere, non si tratta di un passo falso isolato, ma di una conseguenza naturale della linea politica sempre meno liberale scelta da Via di Torre Argentina da un paio d’anni, e su cui si determinò - tra l’altro - l’insanabile rottura con chi scrive. (segue)
Il tradizionale atlantismo in politica estera, l’eredità più profonda e lungimirante del Mondo di Pannunzio, è stato improvvisamente (e improvvidamente) rovesciato dalle campagnette recentemente scatenate da Pannella contro Blair e Bush: attacchi, quelli di Pannella, che non hanno trovato sponde neppure nei settori più marginali ed estremisti delle sinistre inglesi e americane. Il liberismo in economia è stato di fatto dimenticato: e del resto, dopo il sostegno acritico alle finanziarie tassa-e-spendi di Prodi e Visco, non c’era da aspettarsi altro. Peraltro, in quei mesi, era proprio la Bonino a subire la vera e propria controriforma delle pensioni, che - caso più unico che raro nell’Occidente avanzato - ha anticipato l’età pensionabile, mettendo buona parte dei costi a carico delle generazioni più giovani. Resterebbe - almeno - un dna garantista: ma, tra piazzate in viola ed elogi a Genchi (è successo anche questo negli ultimi mesi), si è giunti alle contraddizioni che sono oggi sotto gli occhi di tutti. E in fondo, la stessa sbandierata battaglia per la legalità appare ora scarsamente credibile: per un verso si grida contro il “regime”, e per altro verso si sono accettati i seggi alla Camera e al Senato concessi, sovranamente “ottriati”, dal Partito democratico, con relativa intesa - così raccontano le cronache di quei giorni - sulla corrispondente quota di rimborso elettorale.
Come si spiega tutto questo? Sul lato-Bonino, con il desiderio, per lei naturale, di agire come una accomodata e accomodante “indipendente di sinistra”. Sul lato-Pannella, con il tentativo scombiccherato di lanciare un’opa sull’elettorato a sinistra del Pd, in una competizione con Bertinotti prima e con Vendola poi che lascia alle ragioni e agli obiettivi liberali un unico posto: l’archivio.

il Fatto 2.3.10
“No alle coppie di fatto”: i vescovi emiliani danno i voti
Stabiliti i valori non negoziabili: aborto, procreazione assistita, testamento biologico
di Chiara Paolin

Dopo l'affaire Delbono e le polemiche sulla legittimità della candidatura ter per Vasco Errani, adesso il Pd se la deve vedere anche con i vescovi dell’Emilia Romagna. I quali hanno preso carta e penna per far sapere agli elettori qual è il dovere dei bravi cattolici. Un comunicato ufficiale della Diocesi di Bologna, pubblicato sulle pagine locali dell'Avvenire, spiega che la Chiesa non fa politica, ma il fedele deve votare con grande prudenza, affidandosi al consiglio di un esperto. Dice infatti la nota: "Ogni elettore che voglia prendere una decisione prudente, deve discernere nell’attuale situazione quali valori umani fondamentali sono in questione, e giudicare quale parte politica dia maggiore affidamento per la loro difesa e promozione. L’aiuto che i sacerdoti devono dare quindi consiste nell’illuminare il fedele perché individui quei valori umani fondamentali che oggi in Regione meritano di essere preferibilmente e maggiormente difesi e promossi, perché maggiormente misconosciuti o calpestati. Il Magistero della Chiesa è riferimento obbligante in questo aiuto al discernimento del fedele". Ma come, e il Concordato del 1984 che vieta espressamente ai sacerdoti di influenzare l'elettorato? Ha la sua giusta menzione: "Il sacerdote deve astenersi completamente dall’indicare quale parte politica ritenga a suo giudizio che dia maggior sicurezza in ordine alla difesa e promozione dei valori umani in questione. Questa indicazione infatti sarebbe in realtà un’indicazione di voto". A questo punto l'elettore cattolico ha davvero bisogno di un'illuminazione divina per intendere il consiglio del prete indovinando per proprio conto il simbolino giusto da sbarrare sulla scheda. Franco Grillini, candidato governatore per l'Idv, non ha dubbi: "Nel documento si parla di valori non negoziabili come se i partiti fossero del tutto privi di valori e ideali. E non avessero essi stessi valori non negoziabili. Si tratta di un'ingerenza inaccettabile". I punti cardine del decalogo vescovile si legano alla stretta attualità. Le unioni di fatto, specie omosessuali, non possono trovare posto nella civile convivenza: il primo firmatario, l'arcivescovo di Bologna, Cardinale Carlo Caffarra, ha già avuto modo di chiarire il concetto dichiarando inaccettabile la norma regionale che dallo scorso 1 gennaio prevede consistenti diritti a favore delle coppie non sposate. Segue la condanna dell’aborto e delle tecniche per la procreazione, il no al testamento biologico e al diritto sul fine vita, l’importanza di investire su scuola e cultura cattolica per arrivare alla promozione della pace e al rispetto del creato. Insomma, soddisfare le alte sfere ecclesiastiche sarà davvero un bell’impegno per chi si candida a governare. Giancarlo Mazzuca, scelto inizialmente dal Pdl per sfidare Errani e poi spostato sulla competizione per il Comune di Bologna, ne sa qualcosa: “Nei mesi scorsi avevo confrontato le mie idee con Caffarra. Ormai alcuni diritti sono socialmente acquisiti, ma bisogna fare attenzione a non creare disuguaglianze. Le coppie di fatto, per esempio. Se due studenti vanno a convivere, con questa legge possono chiedere una casa popolare dopo due anni, e magari sorpassare in graduatoria una famiglia. Certo stavolta i vescovi si sono spinti molto avanti. Forse perché, dopo le polemiche pubbliche, ci fu un incontro tra Errani e Caffarra. Il governatore aveva promesso di smussare alcuni aspetti della norma, invece il provvedimento è rimasto identico. E ormai è legge”. Sua eminenza ha reagito così.

l’Unità 2.3.10
«L’Intifada dei luoghi sacri è battaglia per il futuro»
Il rettore dell’Università Al Quds: la rivolta contro il piano israeliano non è fondamentalismo I palestinesi senza Stato difendono l’identità
di Umberto De Giovannangeli

Per una nazione senza Stato, la difesa della propria identità e dei luoghi che l’incarnano acquista una duplice valenza: po-
litica e simbolica. Non si tiri in ballo il fondamentalismo islamico per spiegare le proteste che si stanno propagando da Hebron a Gerusalemme. Alla base vi è un misto di rabbia e dignità di coloro che si aggrappano al passato per difendere il loro futuro». Ad affermarlo è una colomba palestinese: Sari Nusseibeh, rettore dell’Università Al Quds di Gerusalemme Est, considerato, a ragione, il più autorevole intellettuale palestinese.
Professor Nusseibeh, nel suo libro “C’era una volta un Paese. Una vita in Palestina” (Il Saggiatore, 2009), lei chiede: «Al cuore del conflitto israelo-palestinese non c’è forse proprio l’incapacità di immaginare la vita dell’”altro”»?
«Credo fortemente in questo assunto. E mi ritrovo molto in una riflessione che i più grandi scrittori israeliani consegnarono ad un appello all’opinione pubblica e ai governanti d’Israele: c’era scritto che per Israele sarebbe stato meno doloroso cedere delle terre che riconoscere che la creazione del loro Stato nasceva da una ferita inferta al popolo palestinese. È profondamente vero. Per questo considero la colonizzazione culturale non meno grave dell’espropriazione di terre. La pace è innanzitutto riconoscere l’esistenza dell’altro, della sua storia, della sua identità. Riconoscere quanto fosse sbagliata l’affermazione che la «Palestina è una terra senza popolo per un popolo senza terra». Questo, naturalmente, vale anche per noi palestinesi verso Israele. Nel libro riflettevo sul fatto che io ero cresciuto a non più di 30 metri dal luogo in cui Amos Oz aveva trascorso l’infanzia. Quando pensavo all’assenza di arabi nelle esperienze giovanili di Oz, ero costretto a riflettere anche sul modo in cui ero stato cresciuto. Cosa sapevano i miei genitori del suo mondo? Sapevano dei campi di sterminio? Le due parti, ciascuna immersa nella propria tragedia, non erano indifferenti, se non addirittura ostili, alle esperienze dell’altro»? Queste domande a quali conclusioni l’hanno portato?
«A insistere sull’importanza del dialogo dal basso, capace di coinvolgere le università, le scuole, insegnanti e studenti palestinesi e israeliani. La conoscenza dell’”altro” è il miglior antidoto contro il “virus” della demonizzazione».
Questo virus è rintracciabile nella decisione del governo di Benyamin Netanyahu di includere fra i luoghi del patrimonio storico ebraico da tutelare anche due santuari che si trovano in Cisgiordania (la Tomba di Rachele di Betlemme e la Tomba dei Patriarchi di Hebron) considerati Luoghi santi anche per l’Islam?
«Direi proprio di sì. Ed è un virus che nulla ha a che vedere con ragioni di sicurezza, e molto, invece, con una visione messianica che la destra nazionalista israeliana ha d’Israele. Una visione totalizzante che non ammette che un altro popolo rivendichi in Palestina diritti inalienabili, che sono propri di una nazione in cerca di Stato. Una nazione che non rinuncia alla sua storia».
La Tomba dei Patriarchi; la Tomba di Rachele; il Muro del pianto; la Spianata delle Moschee... Cos’è la religione nella tormentata Terrasanta?
«Da entrambi i lati del Muro, la religione è strumento di politica: ma che sia l’Isacco della Torah o l’Ismaele del Corano, Dio impedisce a Abramo di sacrificare suo figlio. È questo il comandamento più vero, quello più disatteso...».
Cosa la spaventa di più dei fondamentalismi che scuotano la sua terra? «È l’assolutizzazione del loro pensiero; l’assenza nel loro vocabolario, etico e politico, di parole come dialogo, compromesso, rispetto. È la bramosia di possesso assoluto. È concepire chi dissente come un traditore».
Nel suo libro “Contro il fanatismo”, Amos Oz fa l’elogio della parola compromesso come “sinonimo di vita”. E afferma che il contrario di compromesso “è fanatismo, morte”. «Condivido, con un’aggiunta:se la pace è un incontro a metà strada, oggi è Israele a dover compiere il tratto maggiore. Perché è il più forte a doversi liberare di un’illusione».
Quale, professor Nusseibeh?
«Quella di poter imboccare una scorciatoia militare – intesa non solo come pratica ma anche come cultura militarista – per risolvere d’imperio la questione palestinese. E lo dice uno che si è battuto a viso aperto contro la deriva armata della seconda Intifada. Fare i conti con la storia significa anche riconoscere da parte israeliana che la ragione principale del sangue versato in questi anni è nell’occupazione dei Territori. Perciò ai miei amici israeliani ripeto sempre che una pace giusta con noi palestinesi non è una gentile concessione che ci fanno ma il più serio investimento che possano fare sul loro futuro».
C’è ancora spazio per una pace fondata su due Stati? «Questo spazio si riduce man mano che si riduce lo spazio territoriale su cui l’ipotetico Stato di Palestina dovrebbe sorgere. In fondo, il disegno perseguito da Netanyahu è lo stesso di molti suoi predecessori: trascinare il negoziato alle calende greche e nel frattempo svuotarlo di ogni significato concreto. Come? Trasformando gli insediamenti in vere e proprie città. E poi dire: come posso cancellarle? Alla fine vorrebbero che i palestinesi si accontentassero di uno Stato-francobollo. E se dovessimo rifiutare, ecco pronta l’accusa: vedete, sono incontentabili».
A proposito di compromessi: tra i nodi da sciogliere c’è quello del diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi... «Israele riconosca che questo è un problema politico e non “umanitario”. Risarcisca innanzitutto la loro storia, ammetta che c’è un fondamento alla Nakba (Catastrofe, così i palestinesi ricordano l’inizio della cacciata dai loro villaggi il 15 maggio 1948, ndr) invece di cancellarla dai libri di scuola degli studenti arabi israeliani. È questa la premessa per trovare un compromesso».

Repubblica 2.3.10
Lo scienziato che non vuole annoiare

di Piergiorgio Odifreddi

"Avoid boring people" è l´ultimo provocatorio libro di James Watson che con Francis Crick scoprì la struttura del Dna. Storie pubbliche e private, incontri e competizioni fra ricercatori E il coraggio del politicamente scorretto
L´incontro con Salvador Dalí che in quadro rese omaggio alla loro scoperta
Arrivarono per primi al traguardo grazie agli errori commessi dagli altri studiosi
A 25 anni era uno dei biologi più noti al mondo. A 34 gli assegnarono il premio Nobel
Quella volta che annunciarono: "Oggi abbiamo scoperto il segreto della vita"

Il 28 febbraio 1953 James Watson e Francis Crick andarono a pranzo al The Eagle, nella Cambridge inglese, e il secondo annunciò ai commensali: «Oggi abbiamo scoperto il segreto della vita». O almeno, questo racconta il primo, che della loro scoperta è diventato lo storico ufficiale, con il suo best seller La doppia elica (Garzanti, 2004): un libro che fece scalpore quando uscì nel 1968, per il modo diretto e franco con cui racconta la corsa alla determinazione della struttura del Dna, ed espone gli stimoli «umani, troppo umani» che la guidarono.
Watson poteva permettersi di parlar chiaro, essendo divenuto a soli venticinque anni uno dei due più famosi biologi del mondo, e avendo vinto a soli trentaquattro il premio Nobel per la medicina. In seguito lui e Crick, così come la struttura a doppia elica associata ai loro nomi, sarebbero stati elevati a icone della scienza del secondo Novecento, e avrebbero goduto di una fama rivaleggiata soltanto da quella di Albert Einstein e della formula E = mc2 nel primo Novecento.
Oltre al suo primo volume autobiografico, Watson ne scrisse altri due: I geni del genio (Garzanti, 2003), e il conclusivo e provocatorio Avoid boring people, non ancora tradotto in italiano, il cui titolo è un bel gioco di parole che significa, allo stesso tempo, sia «Evita la gente noiosa» che «Evita di annoiare la gente». L´intera trilogia combina scienza pubblica e vita privata in una mistura spesso anticonvenzionale, che puntualmente ha irritato gli accademici e scandalizzato i benpensanti.
La doppia elica si snoda fra due frasi a effetto, in apertura e chiusura: «In vita mia non ho mai visto Francis Crick in vena di modestia», e «Avevo venticinque anni ed ero troppo vecchio, ormai, per permettermi di fare l´eccentrico». Ciò che sta in mezzo è un racconto quasi poliziesco della corsa alla doppia elica, attraverso la competizione tra Watson e Crick a Cambridge, Rosalind Franklin e Maurice Wilkins a Londra, e Linus Pauling a Pasadena.
Quest´ultimo, in seguito vincitore di ben due premi Nobel (nel 1954 per la chimica, e nel 1962 per la pace), era il massimo chimico vivente e il naturale favorito: quando scese in campo, propose però un modello a tripla elica, che non teneva nel debito conto i dati sperimentali a disposizione. I migliori di questi dati, nella forma di foto a raggi X ad alta risoluzione, li aveva ottenuti la Franklin, che a sua volta si era intestardita a credere che fosse prematuro costruire modelli a elica del Dna. Gli errori dell´uno e le esitazioni dell´altra permisero a Watson e Crick di battere entrambi, e arrivare per primi al traguardo.
Come, lo racconta appunto il libro di Watson, che nella versione ampliata pubblicata nel trentennale della scoperta contiene anche molti altri punti di vista. Quello di Crick, ad esempio, che confessa di aver pensato di rispondere a La doppia elica, che l´aveva innervosito, con L´elica svitata, che poteva iniziare così: «Jim è sempre stato maldestro con le mani, bastava guardarlo mentre sbucciava un´arancia». O quello di Pauling, che spiega col senno di poi perché avrebbe dovuto fare ciò che purtroppo non fece. Non c´è invece il resoconto della Franklin, che morì di cancro alle ovaie nel 1958, a soli trentasette anni, senza poter condividere il premio Nobel che andò invece a Wilkins, per le sue precedenti foto a raggi X.
È chiaro che, dopo aver ottenuto un risultato così fondamentale a soli venticinque anni, dopo la primavera del 1953 Watson dovette capire che cosa fare della propria vita, scientifica e non: i tre anni seguenti non poterono che essere un anticlimax, e tali sono anche I geni del genio che li raccontano. Il titolo originale, Geni, ragazze e Gamow sottolinea che uno dei suoi problemi fu trovare la compagna della vita, dopo una lunga serie di avventure sentimentali che fa da basso continuo alla simultanea ricerca di un nuovo obiettivo scientifico su cui convogliare le sue energie da iperattivo: energie ancor oggi evidenti a chi ha l´avventura di passare anche una sola giornata con l´ottantaduenne scienziato, allietandosi nel suo ufficio per una conversazione attenta all´interlocutore, o preoccupandosi sulla sua Jaguar per una guida disattenta ai semafori.
Nel 1968, lo stesso anno che vide l´uscita del suo primo libro, Watson trovò l´anima gemella in una diciannovenne che aveva meno della metà dei suoi anni, con la quale rimane tuttora felicemente sposato. E trovò anche una nuova missione scientifica nella ricerca sul cancro al laboratorio di Cold Spring Harbour, che nei successivi quarant´anni diresse e presiedette. Come trovò l´una e l´altra, è l´argomento di Avoid boring people: il suo ultimo libro, che racconta mezzo secolo di percorso dell´uomo e dello scienziato, e distilla in un centinaio di massime le lezioni che egli ha imparato strada facendo.
Prima fra tutte quella duplice del titolo, che egli ha accuratamente messo in pratica tutta la vita, frequentando gli esponenti più stimolanti e avvincenti della comunità intellettuale, ed elargendo a profusione idee brillanti e provocazioni intelligenti. Scorrono così fra le pagine le figure più importanti della biologia dell´ultimo mezzo secolo, tutte doverosamente insignite prima o poi del premio Nobel: Max Delbrück e Salvador Luria nel 1969 per lo studio dei batteriofagi, François Jacob e Jacques Monod nel 1965 per il meccanismo di regolazione genetica, Renato Dulbecco nel 1975 per la ricerca sui virus tumorali, Wally Gilbert nel 1980 per l´invenzione di un metodo di sequenziazione del Dna, e tanti altri compagni di strada in biologia.
Ma anche tanti scienziati di altri campi, compresi due veri miti: il logico Alan Turing, inventore del computer, e il fisico Richard Feynman, genio mattacchione, entrambi catturati in fasi diverse della loro vita dalla ricerca biologica, rispettivamente sulla morfogenesi e i fagi. E addirittura artisti come Salvador Dalí, che Watson seppe ammaliare con una richiesta appropriata («La seconda persona più intelligente del mondo desidera incontrare la prima»), dopo aver visto il grande quadro intitolato Galacidalacidesoxiribunucleicacid - Omaggio a Crick e Watson: quello non lo ottenne, ovviamente, ma nel suo ufficio oggi può esibire con orgoglio uno studio per lo stesso quadro, con due piccole foto degli scienziati ritagliate da un giornale e una grande firma dell´artista, nelle dovute proporzioni.
Quanto alle provocazioni, Watson le ha lanciate nel corso di tutta la sua carriera, senza temere di essere politicamente scorretto: il mancato appoggio all´uso del virus dell´encefalite equina venezuelana come arma chimica gli costò il posto fra i consiglieri scientifici della Casa Bianca nel 1964, e l´opposizione alla brevettazione dei geni la direzione del Progetto Genoma nel 1992.
Puntualmente, il libro finisce con una difesa di Larry Summers, il rettore di Harvard costretto a dimettersi nel 2006 per la dichiarazione, «impopolare ma non infondata», che le donne sono meno atte alla matematica e alla scienza degli uomini. La giustificazione di Watson, forse falsa ma certo non banale, è che la varianza delle donne sembra essere minore di quella degli uomini: ad esempio, avere più autistici e schizofrenici a un estremo sarebbe un prezzo che i maschi pagano per avere più geni all´altro (e il genio Watson sa di cosa parla, avendo appunto un figlio schizofrenico).
Naturalmente, non c´è bisogno di accettare tutto ciò che lui dice, per essere stimolati dai suoi libri o dalla sua compagnia. Basta condividere alcuni dei suoi motti: «anche i più intelligenti possono dire stupidaggini», «mai essere la persona più furba della brigata», «meglio gli amici brillanti di quelli popolari». E, soprattutto, «evitare di annoiarsi e di annoiare»!

Repubblica 2.3.10
Intervista al filosofo e teologo egiziano Nasr Abu Zayd

"Io perseguitato per il mio Corano"
"Le autorità religiose combattono la mia interpretazione. Perché incoraggia il pensiero autonomo e mette in discussione il loro potere
di Giancarlo Bosetti

Nasr Abu Zayd terrà oggi una relazione alla scuola Superiore Sant´Anna di Pisa nella manifestazione "Il dialogo tra le culture" organizzata da Reset-Dialogues on Civilizations
arlare con Nasr Abu Zayd, filosofo e teologo egiziano, significa affrontare al cuore il problema del fondamentalismo e del dogmatismo nella religione musulmana. Il suo nome è diventato una bandiera della interpretazione umanistica, o semplicemente umana, del Corano, cosa che costituisce un problema per coloro che difendono la natura divina della lettera del testo sacro. La cosa gli è costata cara perché una sentenza lo ha dichiarato apostata nel 1994 modificando il corso della sua vita. Anche se l´Università del Cairo lo ha poi riammesso all´insegnamento, la giustizia egiziana ha annullato il suo matrimonio, pronunziando un divorzio di ufficio, che lo ha costretto a trasferirsi con la moglie in Europa, dove ha preso a insegnare, dagli anni Novanta, prima a Leiden poi a Utrecht.
Lo intervistiamo mentre sta lavorando a una nuova esegesi integrale del Corano ininglese e in arabo e alla traduzione in arabo dell´Enciclopedia del Corano in 6 volumi.
Qual è il nucleo della sua tesi interpretativa?
«Io aspiro a investigare e analizzare la struttura interna e le interrelazioni tra le parti del Corano non solo come testo ma anche ed essenzialmente come "discorso", come "discorsi" al plurale. E per struttura intendo il fenomeno del Corano come "recitazione", come testo parlato prima che fosse raccolto, sistemato e codificato nella mushaf, la raccolta degli scritti. La mia analisi cerca di indicare i molteplici destinatari così come le molteplici voci che parlano nel Corano per fare un passo avanti nella comprensione dei molti modi di discorso che vi sono presenti: dialogico, polemico, esclusivo, inclusivo e altri ancora».
Questo è il punto che le viene rimproverato dai sostenitori della interpretazione letterale.
«La superenfatizzazione dell´elemento divino ha portato al trionfo dell´interpretazione letterale. E questo ha condotto alla situazione in cui certe decisioni di natura storica hanno finito per essere registrate nel discorso coranico come un´ingiunzione divina che vincola tutti i musulmani a prescindere dal tempo e dallo spazio. Scoprendo la dimensione umana incorporata nella struttura del Corano, un´ermeneutica umanistica diventerebbe possibile».
Che rapporto c´è tra il fatto che prevalga l´una o l´altra interpretazione e la relazione tra islam e modernità? E con la democrazia?
«Collocare il Corano e la tradizione profetica nel loro contesto storico dimostrerà ai musulmani che i temi della modernità e della democrazia devono essere discussi in modo indipendente da qualunque limite teologico o giuridico».
In che modo il suo punto di vista può essere sostenuto e incoraggiato tra gli studiosi musulmani? Crede nella possibilità di creare una rete di persone che condividono la stessa visione?
«Sì, ciò è possibile e plausibile. Lavorando alla Fondazione "Liberty for all", quella rete si sta creando. Uno dei principali programmi della Fondazione sarà dedicato ad insegnare e diffondere sia in rete che mediante i mezzi di comunicazione video e audio, l´approccio e la metodologia della moderna visione e dell´interpretazione del Corano e della tradizione profetica».
Qual è il suo rapporto con le autorità religiose dei Paesi musulmani? E con i musulmani che vivono in Europa da immigrati o da nuovi cittadini?
«Le autorità religiose sono quelle che sostengono il tradizionalismo; disprezzano qualsiasi iniziativa di cambiamento. A volte sono obbligate ad affrontare le situazioni in evoluzione, ma lo fanno controvoglia. Perciò, non posso rivendicare un rapporto positivo con nessuna autorità religiosa».
È ancora considerato un apostata? Cosa dobbiamo pensare del fatto che una persona come lei possa essere considerata un pericolo? Un pericolo per chi?
«Per alcune persone, sì, sono un apostata. Ma si tratta di una minoranza la cui autorità è contestata e minacciata dalla mia impostazione. Si tratta di una minaccia pericolosa, perché demolisce il loro monopolio e incoraggia il pensiero autonomo».

l'Unità Lettere 2.3.10
Chi non salta, Berlusconi è!
di Paolo Izzo

Concordo pienamente con Francesco Piccolo: non serve che una massa di persone vestite di viola salti come in uno stadio al grido «chi non salta, Berlu- sconi è». Non saremo mai sfacciata- mente ricchi, impunemente autoritari, corrotti e corruttori, misogini e viagri- sti come il presidente del “nostro” Con- siglio. Nemmeno se non saltiamo. Ma Piccolo viene superato, noi tutti venia- mo superati, dalle parole di Emma Boni- no a piazza del Popolo: «L’indignazio- ne è la base, ma si deve trasformare in impegno, in riscossa democratica per il paese... Il cui stato sfracellato è sotto gli occhi di tutti». È da quella piccola gran- de Radicale, immagine e identità, politi- ca e umanità, che arriva la speranza, il movimento, la trasformazione: i salti li fanno le rane, i Radicali saltano soltanto i pasti. Ma si nutrono di democrazia. Come noi. Che non saltiamo, ma non siamo Berlusconi.

lunedì 1 marzo 2010

l’Unità 1.3.10
L’Italia e gli immigrati
Il Paese del Primo Marzo
di Jean-Léonard Touadi

C’era una volta un paese di emigrati. Gli italiani che lasciavano le loro terre alla ricerca di pane e dignità. A quegli italiani il paese deve molto perché hanno assicurato per decenni, per se stessi e per i familiari rimasti in patria, una vita dignitosa. La memoria di questi cittadini tra due mondi, spesso maltrattati e soggetti a continue discriminazioni, è un monito a non fare agli altri, agli immigrati di oggi, ciò che è stato fatto a noi quando “gli albanesi eravamo noi” secondo il bellissimo libro di Gian Antonio Stella dal titolo assai rivelatore, «L’Orda».
Ed eccola qui, l’orda: l’ “invasione” evocata strumentalmente pochi giorni fa dal presidente del Consiglio Berlusconi; l’ondata nera dei criminali stigmatizzati con un’equazione tra immigrazione e clandestinità che ha profondamente indignato, oltre a migliaia d’italiani, anche la Caritas e il quotidiano L’Avvenire; l’orda di coloro che rubano il lavoro agli italiani quando tutti sanno che il lavoro immigrato per ora è complementare e non competitivo rispetto a quello degli italiani; la marea dei bambini stranieri che andrebbero separati dai loro coetanei italiani. E la lista potrebbe continuare.
Ma l’Italia dovrà rendersi conto che l’immigrazione è un fenomeno strutturale. L’immigrazione rappresenta la cifra precipua delle profonde trasformazioni che il paese deve affrontare da qui ai prossimi decenni, dove la capacità di confrontarci con le sfide della contemporaneità si misurerà con il nostro modo di gestire con responsabilità e innovazione normativa e programmatica la questione dell’immigrazione. Attraverso l’irrompere dell’immigrazione nel nostro tessuto produttivo e socio-culturale, dentro i processi di mutamenti urbani e all’interno dei meccanismi formativi delle nuove generazioni, l’Italia dovrà dimostrare la sua propensione a traghettarsi dentro la globalizzazione con mappe concettuali e strategie operative all’altezza della complessità contemporanea. È la grande novità dell’innesto che “pro-voca”, chiama a sé, e che stimola con la promessa della ricchezza data dalla diversità.
Il 1 ̊ marzo assume così il valore di un passaggio simbolico importante. Possiamo dire che costituisce un evento-avvento per la società italiana. Essa è chiamata a interiorizzare ciò che viene quotidianamente rimosso. Il 1 ̊ marzo potrebbe assumere per la coscienza civile più intima di questo paese le caratteristiche di un momento iniziatico, di passaggio verso una definitiva consapevolezza di essere diventato altro grazie all’irrompere degli altri. È un invito alla responsabilità, nel senso letterale di misurare il peso (res/pondus) della presenza e dell’agire dei nuovi cittadini per, insieme, costruire un futuro comune.

l’Unità 1.3.10
Identità negate
di Luigi Manconi

Nel deserto della città terremotata scavalcando le transenne e invadendo le strade segnate dalle macerie, gli aquilani hanno “ripreso” le loro case. O meglio: ciò che ne resta. Come il fondale di un teatro o come le facciate di legno sul set di un film western, l’improvvisa animazione di una folla di abitanti ha dato vita a un’assenza e ha riempito i vuoti di un centro storico che ricorda un paesaggio post-bellico. Gli assenti, gli aquilani dispersi nelle “casette” e negli alberghi, o in alloggi di fortuna sono tornati sulla scena con la “manifestazione delle carriole”. Manifestazione, cioè l’atto del manifestare. Quando si manifesta, in gene’re, è una buona cosa. Significa, farsi vedere e far vedere, rendere pubblico, dare visibilità a ciò che è occultato o negato.
Oggi manifesteranno altri assenti: finora occultati o negati. Lo sciopero degli immigrati è propriamente questo: è la manifestazione – fatta di molte manifestazioni – di un popolo che semplicemente non si vede. O che, peggio, si vede (viene visto) solo come un fattore di allarme sociale, e di angoscia collettiva. E che richiama immagini di invasione o – in chi ha “un cuore grande così” – un sentimento di rimorso, che può avere effetti negativi non minori di quelli prodotti dalla paura sociale. Perciò è così importante, al di là del numero di quanti oggi vi parteciperanno, che il “primo marzo degli immigrati” abbia successo e dia vita ad altre giornate come questa. Ed è assai significativo che, a promuoverlo, siano state, tra gli altri, le comunità straniere: perché qui sta la sfida più ardua, che non si esaurisce certo in ventiquattro ore ma che, al contrario, da questo primo marzo può prendere le mosse.
In gioco c’è, infatti, ciò che chiamiamo soggettività: l’identità individuale e collettiva, le biografie e le memorie, le culture e i vissuti e le aspettative. Gli immigrati sono da tempo nella società italiana, profondamente inseriti nelle sue sfere di vita e nei suoi gangli economici: accudiscono i nostri bambini e i nostri vecchi e reggono settori come l’agroalimentare e l’allevamento, l’edilizia, la ristorazione, la siderurgia, la pesca e altri ancora. Sostengono in misura rilevante il nostro sistema di welfare, surrogandolo attraverso il “lavoro di cura” e incrementandolo attraverso la contribuzione previdenziale. Sono lì, nelle case e negli uffici, nei mezzi di trasporto e nelle pizzerie, ma semplicemente non li vediamo. Ovvero non li “pensiamo”. Non è questione di buoni sentimenti e nemmeno di buone intenzioni. Fino a quando gli immigrati rimarranno una folla anonima e indistinta, senza nome e senza volto, senza personalità e senza passato, ci appariranno molesti e minacciosi e la loro distanza da noi tenderà a crescere: e a renderci ancora più insicuri.
Sapete perché in Italia non si è mai sviluppato un movimento come SoS Racisme in Francia? Molti i motivi, ma uno in particolare va considerato oggi. Lo slogan del movimento francese era: non toccare il mio amico. Ma in Italia quanti possono dire di avere e non in senso ideologico o solidaristico un amico immigrato?

l’Unità 1.3.10
«24h sans nous»: sui diritti la Francia fa da apripista
In Francia è nata l’idea della mobilitazione. «24 ore senza di noi». Un giorno di astensione dal lavoro e dal consumo. Solidali i sindacati. Inviata una richiesta di adesione a Sarkozy, in quanto figlio di immigrati ungheresi.
di Luca sebastiani

Più che di uno sciopero vero e proprio, si tratta di un’azione simbolica. L’iniziativa «24 ore senza noi, una giornata senza immigrati», chiama infatti alla mobilitazione oggi tutti gli «immigrati, i figli di immigrati e i cittadini coscienti» attraverso un giorno d’astensione dal lavoro e/o dal consumo, per rendere manifesto da una parte che l’apporto dei nuovi «francesi» è determinante all’economia d’Oltralpe, e dall’altra che gli immigrati e i loro figli non ne possono più di essere utilizzati strumentalmente dalla politica.
L’idea dello «sciopero», che oggi dovrebbe vedere la partecipazione di diverse migliaia di persone in tutto il paese, è infatti nata su iniziativa di un collettivo che lo scorso autunno ha deciso di reagire alla politica dell’immigrazione del governo, che con il cosiddetto dibattito sull’identità nazionale ha spesso usato l’immigrato come capro espiatorio di tutti i mali francesi. Secondo Nadia Lamarkbi, presidente di 24 heures sans nous, l’idea di dimostrare quanto pesi nei fatti l’apporto economico dell’immigrazione (11% della forza lavoro), è nata quando lo scorso settembre il ministro dell’Interno Brice Hortefeux, braccio destro del presidente Sarkozy, mentre faceva una foto in compagnia di un giovane militante sarkozista di origine magrebina ha detto che «quando ce n’è uno va bene, il problema è quando ce ne sono tanti». Non è stata l’unica gaffe. Sono diversi i membri della maggioranza che hanno rilasciato dichiarazioni più o meno razziste, tanto che gli immigrati si sono sempre più sentiti stigmatizzati e Sarkozy è dovuto intervenire per calmare le acque. Ciò che non ha impedito al collettivo 24 heures sans nous di crescere e raccogliere sostegno e adesioni principalmente su internet.
Oggi gli organizzatori sperano di ripetere il successo di un’esperienza statunitense simile, quella del 2006, quando migliaia di immigrati ispanici bloccarono le città americane per protestare contro una legge sul lavoro clandestino voluta da George Bush. Allora gli immigrati riuscirono a far ritirare il testo, ma il problema della giornata senza immigrati à la française, che oggi si terrà anche in Italia e Grecia, e che non ha nessuna finalità rivendicativa e dunque faticherà a mobilitare i grandi numeri, soprattutto tenuto conto delle condizioni di debolezza lavorativa cui sono costretti i lavoratori immigrati.
SOLIDARIETÀ DEI SINDACATI
Gli organizzatori hanno incassato però la solidarietà delle sigle sindacali e delle forze della gauche d’opposizione, pur rifiutando qualsiasi strumentalizzazione. A questo fine hanno anche inviato una lettera al presidente Sarkozy invitandolo a partecipare in quanto figlio di immigrati ungheresi, ma non hanno contestato nessuna delle leggi sarkoziste e neanche chiesto la chiusura del ministero dell’Immigrazione e dell’Identità nazionale che i socialisti considerano una vergogna.
Oggi i partecipanti alla giornata senza immigrati si ritroveranno davanti ai municipi di Lione, Parigi, Bordeaux, Marsiglia e tante altre città, ma nessuna manifestazione unitaria è stata prevista per lasciare che il movimento si sviluppi orizzontalmente. Intanto a Parigi è arrivato al quarto mese lo sciopero coordinato dalla Cgt dei lavoratori sans papiers. Secondo il sindacato sono circa seimila i partecipanti che chiedono la regolarizzazione.

l’Unità 1.3.10
Palloncini gialli, ma anche musica e cucina etnica La protesta in mille piazze
Alle 18, 30 in punto il cielo di colorerà di giallo in sessanta città d’Italia: verranno lanciati in aria palloncini gialli (in lattice biodegradabile). Il giallo è infatti il colore scelto per la manifestazione di oggi.
di Marzio Cecioni

Nata in maniera spontanea sul web (grazie anche ad gruppo su Facebook) la protesta del Primo Marzo ha ricevuto in Italia una lunga serie di l’adesione, tra cui Emergency, Amnesty, i missionari del Pime e Legambiente, di partiti politici (Pd, Verdi, Sel e Rifondazione Comunista) e di sindacati Cgil, Cisl, Uil e Cobas, che pur dando il loro sostegno, non hanno proclamato lo sciopero generale a livello nazionale.
Ogni città si mobiliterà in modo diverso. A Roma alle 17, il corteo da da Porta Maggiore a piazza Vittorio, dove alle 18. Qui sono previsti concerti, con l’esibizione dell’Orchestra multietnica di Piazza Vittorio e una serie di interventi. A Milano, ritrovo alle 9,30 fuori da Palazzo Marino, il corteo farà giro attorno al municipio milanese. Alle 17,30 raduno in piazza Duomo. Qui, lezioni di lingue straniere; verranno offerte spremute d’arancio da bere per «Rosarno chiama Italia: l’unica cosa che vogliamo spremere sono le arance»; partenza del corteo in direzione di piazza Castello alle 19, poi interventi e musica dal vivo.
A Genova, alle 18 (commenda di Prè) la partenza del corteo, arrivo piazza Matteotti, qui festa e concerto. A Brescia, giornata di mobilitazione in piazza della Loggia, con presidio dalle 10 alle 14. Presidi in vari mercati della provincia (ad esempio a Rovato dove confluiranno le donne), davanti scuole e fabbriche. A Napoli, partenza del corteo alle 11 da piazza Garibaldi. Siracusa e Catania: alle sei del mattino pellegrinaggio in pulmino nei luoghi del caporalato nella campagna attorno a Cassibile. A Catania presidio nella zona in cui si concentrano i venditori senegalesi (piazza Stesicoro). Alle 18 cortei, festa, musica e cucina etnica. Perugia: in programma, a partire dalle 14.30, raduno in piazza Italia, da qui corteo in direzione di corso Vannucci che confluirà a piazza IV novembre. Poi, musica fino alle 18.30. A Bologna, appuntamento alle 16 in piazza del Nettuno: qui mostra fotografica con i volti dei nuovi cittadini italiani. A Bari, alle 18.30, in piazza del Ferrarese, lettura di testi sui temi della giornata, testimonianze e racconti delle comunità migranti di Bari. Forlì Cesena: alle 16,30 in piazza Saffi gazebo e tavoli: animazione per bambini e musica. Trieste: alle 15 ritrovo in piazza Sant’Antonio e partenza di una “squadra” che andrà a cancellare le scritte razziste dai muri delle città. Alel 17 da piazza Ponterosso, corteo.
Reggio Emilia: dalle ore 10 alle 18, in piazza Casotti e alla prefettura. Ancona: corteo da corso Carlo Alberto a piazza Roma, partenza alle 9.30. Firenze: presidio in piazza SS Anunziata, dalle 16. Rimini: alle 17, alla stazione la partenza del corteo che sfilerà per le vie del centro. Alle 19, alla Vecchia Pescheria “Sound meticcio” aperitivo tematico. A Torino, il mercato della Crocetta verrà «ricoperto» di giallo; palloncini saranno distribuiti nelle scuole con più del 30% di immigrati; corteo alle 17 dalla stazione di Porta Nuova.

l’Unità 1.3.10
5 risposte da Yael Dayan
I fanatici di Eretz Israel
di Umberto De Giovannangeli

Non dobbiamo sottovalutare la pericolosità dei coloni oltranzisti. Costoro sono tutt’altro che una «scheggia impazzita» della società israeliana. I fanatici del «Grande Israele» possono contare su coperture politiche ai massimi livelli del governo.
Guerra di religione
Dietro il piano del governo sulla protezione del patrimonio ebraico c’è una visione della storia fortemente ideologizzata, nella quale anche vittorie militari, come la Guerra dei Sei giorni, vengono concepite come «segno» divino.
Lode del compromesso
Si tratta di concepire le ragioni dell’altro non come un ostacolo all’affermazione delle proprie (ragioni) ma al contrario come base per raggiungere una pace che si pone a metà strada tra le rispettive aspirazioni e rivendicazioni.
Il «Nuovo inizio»
Continuo ad avere fiducia nelal volontà di Barack Obama di voler far uscire dallo stallo il processo di pace. Ma la sua è una corsa contro il tempo e il tempo in Medio Oriente non lavora per la pace.
Il «caso Dubai-Hamas»
Il diritto di difesa non giustifica gli squadroni della morte. E poi dobbiamo interrogarci sui risultati delle «eliminazioni mirate» come sull’assedio di Gaza. Il pugno di ferro non ha indebolito Hamas ma ha finito per alimentare l’odio dei giovani palestinesi verso Israele.

l’Unità 1.3.10
Bonino difende Mambro-Fioravanti Gelo a sinistra
Fino a un minuto prima la platea di Sinistra Ecologia e Libertà, riunita per lanciare con Vendola la campagna elettorale per Emma Bonino, applaudiva alla «non violenza», a quel chiamarsi «compagni anche se con accezioni diverse», alla necessità di prendere le distanze dal ’900. Poi il gelo, quando la candidata alla presidenza della Regione Lazio scandisce la sua condanna della «campagna ostile che sento in questi giorni nei confronti di Mambro e Fioravanti che hanno pagato il loro debito con la giustizia». La sua è una «provocazione da prendere sul serio», dice Vendola che non rifiuta il tema, anche se lo rubrica tra gli argomenti «rasposi», forse «da non affrontare in campagna elettorale». E comunque «bisogna prendere in massima considerazione il rispetto del dolore dei parenti e degli amici». Il principio, dice è condivisibile: «La pena ha una funzione di rieducazione e non è tortura». Il resto è un tema tutto da sviluppare: «come si costruiscono forme serie di riconciliazione». MA.GE.

Repubblica 1.3.10
Caravaggio da record così i maestri dell'arte mettono tutti in fila
di Francesca Giuliani

Roma: per la mostra 5000 visitatori al giorno
Negli ultimi anni Giotto a Firenze e Van Gogh a Treviso le esposizioni di maggior richiamo

ROMA - Sarà l´aura maledetta che ancora lo circonda o la fama che, a quattrocento anni dalla morte, fa di lui uno dei pittori più amati di tutti i tempi, ma a Roma è il trionfo di Caravaggio: la mostra alle Scuderie del Quirinale ha totalizzato 45mila visitatori in nove giorni stabilendo il record di cinquemila ingressi quotidiani. Un dato che va ad insidiare il primato assoluto della mostra fiorentina su Giotto nel 2000.
«Caravaggio è come Dante Alighieri letto da Benigni, da Carmelo Bene o da Gassman: esprime una grandezza che il pubblico avverte e che parla a diversi livelli di comprensione, dall´occhio del semplice amante dell´arte a quello dello studioso», spiega Claudio Strinati ideatore di questa mostra-record in cui, per la prima volta, si possono vedere le opere di attribuzione certa dell´artista, a cura di due studiosi come Rossella Vodret e Francesco Buranelli.
Sulla piazza del Quirinale per La Canestra di frutta dell´Ambrosiana o I Bari arrivati dal Texas, c´è coda anche al mattino o in settimana, nella città in cui pure tanti capolavori sono esposti sempre, dalle chiese ai musei e alle gallerie: «Caravaggio è una rockstar - commenta Mario De Simoni, direttore generale dell´azienda Palaexpò-Scuderie - Con un avvio simile ci aspettiamo un incremento di visitatori e persino un margine di utile». La mostra è costata 2 milioni 700 mila euro; i ricavi si hanno al di sopra dei 300/400mila visitatori: «Fatto rarissimo per un appuntamento di questa rilevanza scientifica», conclude De Simoni.
L´artista che si celebra alle Scuderie è stato protagonista di un´altra mostra recente di buon successo, curata da Anna Coliva alla Galleria Borghese, in cui lo si accostava a Francis Bacon. Spiega Coliva: «In Caravaggio c´è un maledettismo biografico che rende il visitatore protagonista; noi viviamo nell´epoca del più totale individualismo: credo che questo aspetto spieghi il successo di Caravaggio, parte di una triade di star dell´arte insieme a Van Gogh e a Leonardo. Per artisti pure sublimi come Poussin o Raffaello successi simili sono impensabili. Manca un riconoscimento personale, narcisistico».
Da Caravaggio a Van Gogh, da Picasso a Monet, che sia rito laico o moda, il boom delle mostre è qualcosa che Marco Goldin padroneggia, avendo curato di esposizioni come "L´impressionismo e l´età di Van Gogh" a Treviso che totalizzò 602mila visitatori. E allora qual è il segreto? «Non tentare bluff, mettendo in locandina artisti di cui poi non si presentano opere di qualità - dice Goldin - Fidelizzare il pubblico che, in linea generale, è richiamato da una volontà di approfondimento personale, da un bisogno di bellezza. Il fenomeno-mostre può poi scattare come con altri prodotti, come una borsa che compri perché ce l´hanno tutti».

Repubblica 1.3.10
Il fascino di un genio irregolare
Rissoso fino all´omicidio, sfrontato, dissoluto e irriverente Anche la sua morte è una specie di "giallo": morì a Port’Ercole di febbre e di stenti
di Corrado Augias

Il fascino di Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio, sta nella qualità delle pitture, nella sregolatezza della vita, nell´alone di leggenda che ne circonda la morte. Non avendo responsabilità di storico né di critico posso tagliare grosso: Caravaggio è uno dei pittori più potenti della nostra storia. In che cosa risieda questa ‘potenza´ si può vedere in alcune delle opere esposte alle Scuderie ma anche, e lo consiglio, in alcune tele rimaste in situ e cioè in alcune chiese romane. A Santa Maria del Popolo ci sono la conversione di Paolo e il martirio di Pietro. Nel quadro di Paolo la luce piomba dritta sull´apostolo atterrato e sul fianco poderoso del cavallo. Nella chiesa di sant´Agostino si trova la celebre "Madonna dei pellegrini" per la quale posò un´amante del pittore. Il primo piano è occupato dell´ingombrante deretano e dai piedi sporchi dell´uomo inginocchiato davanti alla Vergine. A San Luigi dei Francesi si trova, tra le altre, la commovente "Vocazione di Matteo" tagliata trasversalmente dalla luce con la figura di Gesù quasi in ombra nel lato destro. In tutti questi quadri la connotazione realistica parve, nel clima della Controriforma, poco meno che ingiuriosa. In un´epoca in cui la chiesa cattolica, sgomenta per il dilagare del protestantesimo, cerca d´imporre un´arte edificante e ideologica, Caravaggio dipinge le crude verità della vita: i suoi santi non fissano rapiti il cielo, non congiungono le mani nella preghiera. Nella gloria o nel martirio restano esseri umani, i loro corpi mostrano la fatica, la vecchiaia, la miseria, il peso della carne. Anche la vita dell´artista è di pari fascino. Irregolare, geniale, rissoso fino all´omicidio, frequentatore di prostitute e di giovanetti, pronto a gesti sfrontati come quando getta un piatto di carciofi in faccia a un povero cameriere che lo ha contraddetto. Ma a dispetto di questo sulla sua figura resta sospesa un´ombra d´isolamento. Come ha scritto Giulio Mancini conoscitore d´arte: " Non si può negare che non fusse stravagantissimo". Quella ‘stravaganza´ possiamo decifrarla come un´inquietudine dovuta a chissà quale torsione dell´animo o forse alla consapevolezza orgogliosa di essere il più dotato tra quanti a Roma dipingevano tele e pale d´altare.
Con un termine abusato possiamo dire che i suoi ultimi giorni, e la morte, sono un giallo. Il poco che sappiamo lo dicono i suoi approssimativi biografi. Sappiamo che sbarca a Port´Ercole e che lì, secondo il medico senese Giulio Mancini, appassionato di pittura: «preso da febbre maligna, in colmo di sua gloria, che era d´età di 35 in 40 anni, morse di stento e senza cura et in un luogo ivi vicino fu seppellito». Altro su di lui non c´è. A parte la gloria.

Repubblica 1.3.10
L'epica della bonifica
Pennacchi. l’Agro Pontino e il fascismo sentimentale
di Valerio Magrelli

"Canale Mussolini" è il nuovo romanzo dell´autore del "fasciocomunista" Che trasforma la provocazione politica in materia estetica
I protagonisti compiono anche fatti gravi come l´omicidio di un prete
Tra le pagine più riuscite il trasferimento dei "cispadani" nel Lazio
Si parte dagli anni Venti, tra storia e cronaca. Il libro verso la candidatura allo Strega

La Musa di Antonio Pennacchi è la provocazione. Con la sua foga, con la sua insistenza, questo scrittore batte da anni sullo stesso chiodo: mostrare come il fascismo possa essere una questione di "educazione sentimentale". A ciò alludeva il concetto di Fasciocomunista, autentico marchio di fabbrica dell´autore, dal titolo del fortunato romanzo del 2003 da cui venne tratto il film Mio fratello è figlio unico. A ciò allude adesso il suo ultimo romanzo, dal titolo altrettanto emblematico di Canale Mussolini (Mondadori, pagg. 464, euro 20). Come se non bastasse, a rincarare la dose sta una dichiarazione posta ad apertura di volume: "Bello o brutto che sia, questo è il libro per cui sono venuto al mondo". È dunque su presupposti così tambureggianti e ambiziosi, che il lettore si addentra nell´opera (che per altro la Mondadori sta pensando di candidare al Premio Strega e che affronta un periodo storico diventato di nuovo soggetto-oggetto di ispirazione e riflessione narrativa, dai film ai romanzi). Al centro della trama stanno i Peruzzi del paesino di Codigoro, una grande famiglia le cui peripezie vengono ricostruite dall´alba del Novecento fino alla Seconda Guerra Mondiale.
Ma il vero nome e nume tutelare, è un altro: infatti, oltre che campeggiare nel titolo (in riferimento all´impianto di bonifica realizzato nelle paludi pontine), Mussolini compare anche nel racconto, come capo carismatico e dongiovanni impenitente. Così, cronaca domestica e Storia nazionale si intrecciano, contribuendo a delineare l´immagine di un fascismo "naturale", presentato come un esito inevitabile e spontaneo nelle scelte di un gruppo sociale proveniente dai socialisti e dai sindacalisti rivoluzionari. Fasciocomunisti, per l´appunto: "Mica stavamo con classi diverse, almeno all´inizio. Vada a vedere il programma di San Sepolcro, noi eravamo semplicemente concorrenti nella stessa classe di popolo lavoratore e si trattava solo di vedere chi è che comandava. È per questo forse che ci siamo odiati tanto, perché eravamo fratelli che si erano divisi. La gente non si odia mai con un nemico storico come si odia poi con i fratelli".
Ai discorsi, però, seguono i fatti, e fatti tanto gravi che uno dei figli del patriarca giungerà all´omicidio di un prete. Tra spedizioni punitive e riflessioni politiche, assistiamo alla nascita dei primi fasci di combattimento, alla marcia su Roma, allo scoppio della guerra civile e all´assassinio di Matteotti, cui fa eco la vita quotidiana di una famiglia di mezzadri. La creazione di un fienile, la bruciatura delle stoppie, la costruzione delle strade, l´allevamento delle vacche o delle api ispirano a Pennacchi alcune fra le pagine più riuscite di un libro il cui culmine è però rappresentato dal trasferimento dei "cispadani" nel Lazio meridionale. A fare da spartiacque (è davvero il caso di dire) dell´intera narrazione, sta il grande esodo organizzato dal regime, che spinse trentamila veneti, friulani e romagnoli ad emigrare, intorno agli anni Trenta, nell´Agro Pontino. Il motivo di tale sommovimento è affidato alle prime righe del testo: "Per la fame. Siamo venuti giù per la fame. E perché se no? Se non era per la fame restavamo là. Quello era il paese nostro. Perché dovevamo venire qui?".
Con ciò arriviamo finalmente al cuore del romanzo. Perché se la Musa di Pennacchi può dirsi viva, ciò è appunto grazie alla sua personalissima ossessione agro-pontina. È proprio questo invasamento, questo rovello a trasformare la provocazione politica in materia estetica, agendo con un intervento di fissaggio su sostanze altrimenti volatili. Ecco cosa fa di Pennacchi uno scrittore. L´immagine del Canale Mussolini diventa allora veramente il perno su cui si trova a ruotare l´intera macchina narrativa. Da qui il tono apertamente epico di certe pagine sulla colonizzazione. Sradicati dai loro paesi, i nuovi arrivati entrano subito in conflitto con i locali (primi fra tutti gli abitanti di Sezze, dipinti come apaches), prendendo contatto con un universo ostile, sebbene assoggettato di recente al dominio dell´uomo. Davanti alle paludi bonificate, non mancano allora richiami biblici ("Il Mar Rosso prosciugato"), riferimenti ai Paesi Bassi ("Ma questa è un´Olanda sterminata!") e ai Pilgrim Fathers ("Ci hanno preso col Mayflower e ci hanno portato qui"), oppure accenni alla cronaca dei nostri giorni ("Eravamo gli extracomunitari dell´Agro Pontino"). Sia chiaro: questo slancio è compensato da un attento lavoro di calibratura. Tutto il racconto, infatti, viene svolto da un personaggio senza nome, che si indirizza a un altrettanto misterioso interlocutore. In questo modo, le vicende vengono filtrate da una figura la cui identità, con un felice colpo di scena, verrà svelata soltanto nel finale. Benché il registro dialogico si faccia spesso troppo colloquiale (quando ad esempio si tratta di riportare le voci dei grandi personaggi storici), la presenza di questo portaparola assicura all´insieme una buona tenuta, e consente di seguire una struttura fatta di frequenti andirivieni cronologici.
Gli orrori della guerra chiudono la vicenda. Ma accanto ad essi, l´ultimo capitolo conosce un improvviso mutamento, con una storia di amore e perdizione che unisce un nipote del vecchio Peruzzi alla zia, una misteriosa allevatrice di api. Nel segno di una nuova nascita, la Natura giungerà a reintegrarsi nella Storia, in una pacificazione conclusiva coronata dal sogno di una nazione "venetopontina". D´altronde dove mai avrebbero potuto trovare requie i "fasciocomunisti", se non in un regione dal nome altrettanto impossibile, doppio, contraddittorio?


Repubblica 1.3.10
Denis Mack Smith
“A 90 anni sono diventato ottimista"

Il grande storico: "Alla mia età non si possono avere toni apocalittici. L´Italia non è una nazione in pace con se stessa ma è più forte di un secolo e mezzo fa"
"Rosario Romeo era invidioso del mio libro: un giorno si rifiutò di stringermi la mano"
"Renzo De Felice? Non si capacitava che uno studioso straniero avesse tanto successo"

OXFORD. «Detesto i festeggiamenti, ma a novant´anni - li compio il 3 marzo - mi è difficile proibirli». Con passo sicuro Denis Mack Smith attraversa la residenza di White Lodge, un inglesissimo villino bianco con grandi vetrate affacciate su una distesa verde. È da questo paesaggio alla Jane Austen che per oltre mezzo secolo lo studioso ha esercitato il ruolo di coscienza critica della storia italiana. «Venni ad abitare qui grazie a Isaiah Berlin», racconta l´italianista di Oxford mentre si fa strada nel giardino, a Headington «Lui viveva nella villa accanto e mi parlò di questa casa costruita alla fine del XVIII secolo». Gli occhi si stringono in una fessura. «Il mio amico Berlin era davvero straordinario in tutto: quando parlava italiano era così veloce che neppure io riuscivo a stargli dietro».
Quella per l´Italia è una passione antica, maturata negli anni della scuola. «Ero molto incuriosito dalla penisola, dal suo clima latino. Da ragazzo provai a studiarne la lingua, ma feci tutto da solo, sostanzialmente un autodidatta». Figura elegante, lo sguardo perennemente tentato dall´ironia, Mack Smith sembrerebbe figlio del più esclusivo ceto intellettuale britannico. «In realtà mio padre faceva l´ispettore delle tasse a Bristol: io sono stato il primo della mia famiglia a prendere una laurea». La sua tesi fu dedicata al nostro Risorgimento. E alla fine della guerra, ventiseienne, Denis s´affrettò nel paese di Cavour e Garibaldi. «Era il 1946, ottenni dal mio college una borsa di studio di poche sterline. Così passai un anno tra gli archivi, divorando solo libri e poco altro. Ricordo ancora la fame e il silenzio. Ho vissuto interi mesi senza parlare. Mi muovevo in un´atmosfera strana, difficile da decifrare, il paese era ancora scosso dalla guerra. Ebbi poi la fortuna di incontrare a Napoli Benedetto Croce, che mi aprì biblioteche e amicizie. L´unico problema era il suo accento: non riuscivo a capire una parola!».
Per una sorta di congiunzione astrale, la sua vita è strettamente intrecciata al destino nazionale italiano. Il libro che fece più scalpore - La storia d´Italia - uscì da noi nel 1959, a due anni dal centesimo anniversario dell´Unità d´Italia. E il suo novantesimo genetliaco precede di poco il nostro nuovo disastrato compleanno. «Per me l´Italia rimane un groviglio complicato, difficile da sciogliere», dice soppesando le parole. Nessun altro ha narrato le nostre storie di famiglia con eguale scettica acutezza. Il suo disincanto è stato promosso a sana abitudine della mente. Però ora, a novant´anni, Mack Smith si sottrae al ruolo di fustigatore dell´italianità «Oggi sento l´urgenza di essere ottimista. Uno storico non può - non deve - accomiatarsi dal lettore con accenti apocalittici. Le celebrazioni per l´Unità d´Italia si misureranno con tutte le incompiutezze nazionali, ma non bisogna esagerare nel disfattismo. Il mio amico Christopher Duggan sostiene che l´Italia appare un´idea ancora troppo malcerta e contestata per poter fornire il nucleo emotivo di una nazione, almeno di una nazione in pace con se stessa. La definizione non mi dispiace, purché non ci si lasci prendere da un eccesso di sconforto. L´Italia di oggi è incommensurabilmente più robusta e ricca che un secolo e mezzo fa». Solo quando accenna al berlusconismo, l´ottimismo volontario lascia tradire qualche crepa: «Non mi sembra una novità nella storia italiana: il populismo, il sovversivismo, l´assenza di regole fanno parte della trama che lo precede». Si ferma e guarda oltre il giardino. L´argomento sembra annoiarlo, o forse non lo riguarda più.
Per lui la storia d´Italia è quella raffigurata sulle pareti di casa, il ritratto di Garibaldi acquistato con pochi pounds da un libraio di Cambridge («Non capiva granché di politica, tuttavia un valente e onesto cavaliere»), o la ceramica di Vittorio Emanuele II a cavallo («Neppure il re, a dire il vero, era molto intelligente...»). Dei nostri sovrani, eroi e governanti ha rivelato ottusità, cinismi e compromessi. Per questo è stato liquidato come «antitaliano» e demolitore dell´orgoglio patrio. Invece «la storia d´Italia nasceva dal bisogno inconscio di spiegare al pubblico anglosassone perché il vostro paese - un paese che io amavo molto - fosse stato capace di inventare il fascismo e muovere guerra alla democrazia». Così andò in ricerca delle nostre più antiche debolezze, trovandole tra le pieghe del processo risorgimentale. Quando la Storia d´Italia vide la luce, nel 1959, fu un vero scandalo. Gli storici più paludati gli rimproverarono un eccesso di semplificazione. «In realtà io non l´avevo scritta per un pubblico italiano. A convincermi fu la tenacia di Vito Laterza, consapevole della forza dirompente del lavoro. Sia Gaetano Salvemini che Federico Chabod mi avevano dissuaso dal pubblicarlo in Italia. Ma Laterza insistette, anche per suscitare discussione. Io non ero sicuro di tutti i miei giudizi, disponibile dunque a una correzione. L´editore, però, non volle modificare una riga». Oggi la sua Storia è tra le più vendute, assecondando il nostro sottile piacere di essere osservati da uno sguardo esterno con temperata severità. «Il libro rappresentò una novità anche per la scrittura. Uno studioso di formazione anglosassone deve trovare sempre il modo per farsi leggere fino in fondo, naturalmente nel rispetto della verità. A quell´epoca gli storici italiani non si ponevano minimamente il problema». Rosario Romeo definì la sua Storia «un libello», e per il ritratto di Cavour ricorse a una formula sprezzante: «Ogni riferimento a fatti realmente accaduti è puramente casuale». «Sì, era animato da invidia ma anche da risentimento», sorride con distacco Mack Smith. «Era così offeso che un giorno si rifiutò di stringermi la mano, very unpolite. Pensava che i miei saggi facessero male ai lettori italiani. Romeo era un purista, storico eccellente, tuttavia anche un po´ tiranno». Non fu facile la convivenza neppure con Renzo De Felice, assai critico verso il suo Mussolini. «Non si capacitava che uno storico non italiano avesse avuto così tanto successo. Io mi sentivo molto diverso da loro». Diversi erano anche i due Cavour ritratti da Romeo e da Mack Smith, più monumentale quello dello storico siciliano, più incline a spregiudicatezza e intrigo quello dello studioso inglese. «Ma probabilmente Romeo aveva ragione. Nel rintracciare le cause della fragilità italiana, forse sui difetti di Cavour ho esagerato. La semplificazione, per lo storico, è un rischio sempre in agguato».
Avrà pure ridotto la storia nazionale a un piano inclinato, in cui da Cavour a Mussolini e alla democrazia trasformista tutto scorre in modo fin troppo fluido. Ma l´Italia smarrita di oggi sembra dare ragione al vecchio maestro. «Sì, forse un po´ di ragione l´ho avuta anche io, ma in modo del tutto accidentale». Dieci anni fa ha ceduto alla biblioteca universitaria di Oxford i suoi diecimila volumi italiani. «Sono più utili là che sugli scaffali di casa», s´accomiata nella luminosa veranda, in compagnia della moglie Catharine. «Le confesso che per me è stata una sorta di liberazione, come un passaggio di testimone. Dopo mi sono sentito meglio, molto più leggero».

Repubblica 1.3.10
Un ciclo di cinque incontri a Torino
"Lezioni Bobbio" oggi si comincia con Fitoussi

TORINO - Il Comitato Nazionale per le Celebrazioni del Centenario della nascita di Norberto Bobbio e Biennale Democrazia promuovono le "Lezioni Bobbio 2010", un programma di 5 incontri sul tema "La democrazia tra opportunità e pericoli" che si terrà a Torino nel teatro Carignano ogni lunedì alle 18. Ecco il calendario: oggi, primo marzo, Jean-Paul Fitoussi parlerà di "Diseguaglianze e diritti"; l´8 marzo Luciana Castellina e Concita De Gregorio affronteranno il tema "Rivoluzione femminile"; il 15 marzo sarà il turno di Nadia Urbinati e Paul Ginsborg con "Potere politico e popolo". Il 22 marzo Gian Carlo Caselli, Umberto Ambrosoli e Andrea Casalegno parleranno di "Stato e antistato". Giovedì primo aprile le conclusioni spetteranno al direttore della Repubblica Ezio Mauro e a quello della Stampa Mario Calabresi nell´incontro intitolato "Informazione e formazione dell´opinione" presentato da Gustavo Zagrebelsky.