giovedì 4 marzo 2010

Agi 4.3.10
Lavoro: Vallauri, Statuto fondamentale opzione politico-sociale

Roma, 4 mar. - Lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori, la legge 300 del 1970, fortemente portato avanti dai giuristi socialisti, e' stato la fondamentale opzione politico-sociale, non a caso ancora oggi sotto la minaccia di un ribaltamento. Lo ricorda "a tanti smemorati" lo storico Carlo Vallauri, per il quale su quella legge, "si richiedeva un impegno, un appoggio maggiore dei comunisti, che non vollero darlo, tanto da non votare neppure a favore della legge Brodolini-Giugni, quasi fosse una pagina di arretramento". Legge di civilta', dunque, che con l'art. 18 sanciva e sancisce il divieto di licenziamento senza giusta causa. Scritto articolo per articolo - rammenta lo storico - dal giuslavorista socialista Gino Giugni che di fatto introdusse 'il diritto del lavoro' nell'ordinamento giuridico italiano e fatto diventare legge da un 'ministro socialista', azionista, Giacomo Brodolini, nella realta', il primo a porre l'urgenza dello Statuto fu Riccardo Lombardi. E Vallauri cosi' rimanda alla lettera che Lombardi scrisse il 27 settembre 1962 all'allora Presidente del Consiglio, Amintore Fanfani, che guidava con un monocolore Dc, il primo centro-sinistra, la 'creatura' di Lombardi, riportata nel libro 'Lombardi e il fenicottero', edizioni 'L'asino d'oro'. "Caro Presidente, mi permetto di insistere sull'opportunita' di non ritardare almeno l'annuncio delle conversazioni coi sindacati ai fini dello Statuto dei Lavoratori: siamo in presenza di una massiccia pressione sui salari - scriveva Lombardi - e occorre dare non solo l'impressione, ma la certezza che se non moltissimo si puo' fare in fare di retribuzioni, tuttavia il governo di centro-sinistra dara' un bene piu' prezioso e pregiudiziale: un nuovo clima nei luoghi di lavoro, maggiore liberta' sindacale e dunque politica, un maggiore potere ai lavoratori. Credo superfluo insistere sull'enorme valore dell'iniziativa e sulla opportunita' di dare corso alla circolare del Ministero delle Partecipazioni relativaa cio' che si puo' fare subito, sulla stessa materia, nelle imprese pubbliche. Credimi - concludeva Lombardi - cordialmente fiducioso". Il contenuto della lettera di Lombardi: nuovo clima nei luoghi di lavoro, maggior liberta' sindacale e politica, piu' potere ai lavoratori, "vale ancora oggi - conclude lo storico - in termini di maggiore dignita' umana". (AGI)

Repubblica 4.3.10
La cultura dell’illegalità
di Guido Crainz

Appena un mese fa si erano largamente imposti i peana alla modernizzazione degli anni Ottanta e ai suoi profeti ma alcuni nodi di fondo sono presto riemersi in tutta la loro profondità e gravità. La fragilità di una rimozione non è stata infranta solo da qualche scellerata esultanza mentre L´Aquila crollava o dalle mazzette nascoste in un pacchetto di sigarette: è stata infranta, molto di più, dalla "illegalità ordinaria" che intercettazioni e indagini hanno portato alla luce.
È stata infranta dall´evidenza di un "sistema", per dirla con Denis Verdini: un "sistema" che ha riproposto ad un Paese molto distratto e quasi immemore alcune domande di fondo. Più di un elemento aggiunge ragioni di riflessione, e il confronto con Tangentopoli è talora illuminante. In quegli anni, ad esempio, non pochi indagati sostennero che "rubare per il partito" era un male minore, e la tesi improntò di sé frettolose proposte di amnistia e teoremi assai discutibili. Era un vero e proprio rovesciamento della realtà – la corruzione politica è un attentato alle istituzioni, molto più devastante di un furto privato – ma segnalava talora un disagio profondo: senza di esso non capiremmo appieno neppure i terribili suicidi di quei mesi. Si intrecciarono (e in qualche modo si nascosero a vicenda) la lacerante sensazione di un trauma e quella forte volontà di autoassoluzione di cui Craxi fu l´alfiere più lucido.
È stata quest´ultima a prevalere e a improntare di sé larga parte della memoria pubblica: appena un mese fa, appunto, la "riabilitazione" del leader socialista ha segnalato che un lungo percorso è stato compiuto in un breve volger di anni. Era un approdo preparato da tempo: in una narrazione diffusa le responsabilità di quel tracollo si erano progressivamente e sensibilmente spostate da Tangentopoli a Mani Pulite, dai corrotti ai giudici.
Ora quella narrazione mostra tutte le sue crepe e tornano di stringente attualità alcune delle questioni emerse fra anni ottanta e anni novanta, segnalate dall´impetuoso ed "estremo" imporsi della Lega Nord ben prima che dalle indagini giudiziarie. Si scorrano libri e riviste di quel torno di tempo (Se cessiamo di essere una nazione; La grande slavina; A che serve l´Italia?, e così via): li attraversa un sofferto interrogarsi sul modo di essere del Paese, non solo sui processi di corruzione che attraversavano il ceto politico. Naturalmente questi ultimi apparivano in piena evidenza, e gli anni Ottanta avevano segnato un rilevante salto di qualità. Vi era stato compiutamente in essi quell´affermarsi della tangente come metodo che lo scandalo petrolifero del 1974 aveva fatto emergere: la cultura della tangente – per citare un titolo di Giorgio Bocca – aveva ormai invaso o stava invadendo in modo irreversibile l´industria di stato e un numero crescente di amministrazioni pubbliche. Ed appunto Bocca, seguendo un processo milanese di metà decennio, coglieva «un profondo convincimento del ceto politico: le tangenti sono necessarie all´amministrazione come il lievito alla panificazione». Dal canto suo il Censis segnalava ed elogiava le energie che si sprigionavano dalla società ma avvertiva anche al loro interno un «annerirsi nel profondo della dimensione collettiva». Avvertiva l´affermarsi di una «dislocazione selvaggia e particolaristica in cui tutto c´è tranne moralità collettiva, coscienza civile, senso delle istituzioni».
Queste e altre riflessioni furono rapidamente rimosse e accantonate da gran parte dell´opinione pubblica nell´euforia che accompagnò il crollo del vecchio sistema politico. Ci si illuse che potesse trovare voce e spazio una robusta società civile e avesse così avvio una salvifica "seconda Repubblica": si scoprì presto che non era così. Si scoprì presto quanto pesassero ormai le tendenze e i valori che si erano corposamente affermati nel decennio precedente: la rivincita privatistica, le varie forme di deregulation legislativa ed etica, lo sprezzo per le regole e i vincoli collettivi, il trionfo di un "individualismo protetto" che chiede allo Stato il minimo di interferenze e al tempo stesso il massimo di "protezione". Tendenze libere ormai di affermarsi senza gli anticorpi solidaristici, politici e morali che le avevano contrastate sin lì: anche per questo poté largamente prevalere la proposta che si era confusamente delineata attorno al composito polo del centrodestra. Si affermarono e trovarono espressione politica, in altri termini, tendenze che si erano consolidate in un lungo percorso, nel progressivo indebolirsi di altri e differenti modelli che pure erano stati presenti nella storia della Repubblica.
Che cosa è successo in questi anni? Perché quelle tendenze sono state così labilmente contrastate e appaiono oggi molto più solide e pervasive di allora? Quali sono state le responsabilità dirette e indirette della politica? Un´analisi sommaria di alcune leggi volute dal centrodestra, e della cultura sottesa ad esse, fa comprendere bene quanto i messaggi della politica abbiano consolidato in modo prepotente quei processi. Si aggiunga la visione del mondo variamente esposta in più occasioni dal premier o la molteplicità dei segnali che sono andati nella stessa direzione, ma non ci si fermi qui. Si ripensi ancora, su un altro versante, alla crisi dei primi anni Novanta. In quel trauma il centrosinistra non seppe contrapporre alla trionfante antipolitica di Berlusconi e di Bossi le modalità limpide di una "buona politica", radicalmente diversa da quella – pessima – che aveva segnato l´agonia della Repubblica. Mancò l´occasione, forse irripetibile, di proporre una riconoscibile e netta inversione di tendenza, caratterizzata in primo luogo dalla trasparenza delle scelte e degli orientamenti, dal privilegiamento del merito e delle competenze, e così via. Dalla capacità cioè di proporre un modo diverso di "essere italiani", su tutti i terreni. "L´Italia che noi vogliamo" o "rifare l´Italia" sono rimasti slogan vuoti e disattesi. Immediatamente dimenticati dopo le campagne elettorali, e incapaci persino di caratterizzarle in profondità. Si sono logorate e consumate così in larga misura anche le potenzialità che il centrosinistra è stato pur capace di mettere in campo, dall´esperienza dei sindaci a quella delle "primarie". Ed è doveroso ricordare, infine, che non poche indagini giudiziarie lo coinvolgono ora direttamente.
Per questo una reale inversione di tendenza appare oggi molto più difficile di prima, e collocata più di prima nel lungo periodo. Per questo essa esigerebbe una radicalità intellettuale e politica di cui non si scorgono le tracce. Per questo sarebbe così necessaria.


Repubblica Roma 4.3.10
Candidata a giudizio Emma s'infuria
di Giovanna Vitale

Il caso della candidata a giudizio Emma: "Dovevate avvertirmi"
Ma D´Innocenzo si difende: contro di me false accuse
Il rinvio a processo risale a quando era responsabile di una struttura sanitaria a Torino

NON ne sapeva niente, Emma Bonino. Perciò quando le hanno riferito che uno dei suoi candidati nel listino bloccato, Marinella D´Innocenzo, era sotto processo per concussione, è andata su tutte le furie. Forse, se l´avessero informata prima, la direttrice dell´Ares 118 non sarebbe stata inserita - per mancanza di un requisito fondamentale - nell´elenco dei 14 eletti automaticamente in caso di vittoria. Se l´è presa innanzitutto con i suoi: «Perché non me l´avete detto?», li ha rimproverati l´aspirante governatrice del centrosinistra.
«Non è possibile che questa cosa non risultasse da nessuna parte», ha insistito la Bonino, chiedendo un rapporto dettagliato sulla vicenda. Per capire meglio, decidere il da farsi. «Premesso che io sono garantista sempre e, per quanto mi riguarda, si è innocenti fino alla sentenza definitiva», s´è sfogata con Riccardo Milana, responsabile del suo comitato elettorale, «tuttavia dovevo essere informata. Magari avrei fatto una scelta diversa».
Era stato lo staff del Pd a suggerire il nome di Marinella D´Innocenzo, dal 2008 capo dell´Ares 118, rinviata a giudizio l´anno scorso per un episodio accaduto quando dirigeva il Sant´Anna-Regina Margherita di Torino. Il problema, adesso, è tecnico: a listino già presentato, nessuno può essere depennato.
Dottoressa D´Innocenzo, perché quando le hanno proposto di candidarsi lei non ha fatto presente che era stata rinviata a giudizio dal tribunale di Torino per concussione?
«Perché nessuno me l´ha chiesto. E poi non solo la mia vicenda giudiziaria era cosa nota, è stata su tutti i giornali per diverso tempo, ma attiene a un´accusa che non ha niente a che vedere con la gestione della cosa pubblica. Per intenderci non sono sotto processo perché ho amministrato male o perché ho rubato soldi pubblici».
Però l´accusa è pesante: concussione.
«È il prezzo che si paga quando si cerca di fare le cose per bene. Nel caso specifico, quand´ero direttore generale del Sant´Anna, ho avviato una maxi-riorganizzazione dell´ospedale che forse ha dato fastidio a qualcuno».
A chi? Ci spiega perché è stata rinviata a giudizio?
«Io intendevo assegnare l´incarico di responsabile del dipartimento di Oncoematologia pediatrica a una dottoressa che, alla luce del curriculum, era la più brava. Invece il direttore sanitario voleva un´altra persona, che però aveva un curriculum inferiore. A dirlo non sono io, risulta dagli atti».
Hanno deciso di processarla solo per questo? Sembra un po´ poco.
«Il giudice si è basato sulla denuncia del direttore sanitario, il quale ha sostenuto che io avrei fatto pressioni su di lui, minacciandolo addirittura di licenziamento, se non avesse firmato la delibera d´incarico per l´oncologa pediatrica da me indicata».
Magari era una sua amica...
«Vogliamo scherzare? Si tratta di una professionista di prim´ordine, all´altezza dell´incarico delicatissimo - stiamo parlando di bambini malati di tumore - che intendevo affidarle. Una specialista impegnata da anni a lavorare sul trapianto di midollo e sulle cellule staminali».
Evidentemente però il giudice ha creduto al suo accusatore...
«Ha ritenuto che la vicenda dovesse essere approfondita in dibattimento perché c´era la mia parola contro la sua. Peccato però che io quella delibera non l´ho mai adottata e non è stato dato corso all´incarico».
Lo rifarebbe?
«Tutto, dall´inizio alla fine. Io sono orgogliosa della mia vita professionale. Dovunque sono andata ho risanato i bilanci, riorganizzato le aziende, motivo per cui mi sarò fatta dei nemici».
Insisto: se le cose stanno così, perché non lo ha raccontato a chi le ha proposto la candidatura?
«Ma è una cosa che non c´entra nulla col mio profilo! Si tratta di un processo, tra l´altro rimandato più volte, che non formula accuse né di natura appropriativa né di mala gestione. Come direttore generale io rivendicavo, e rivendico tuttora, il diritto di nominare una persona che se lo merita, con il curriculum migliore. A giugno ci sarà la prossima udienza, spero di potermi liberare presto di questo incubo».
Dicono che la Bonino sia molto irritata: se glielo chiedesse farà un passo indietro?
«E perché dovrei? Dimettendomi per motivi elettorali come impone la legge, ho rinunciato a un anno da direttore generale dell´Ares e sono tornata a fare la semplice impiegata. Senza entrare nel merito delle accuse, non si può negare a una persona il diritto costituzionale all´elettorato passivo. Chi come me si è sempre battuta per la legalità e per il merito dovrebbe piuttosto essere premiata».

Repubblica Roma 4.3.10
Bonino incontra gli industriali "Patto per far ripartire il Lazio"
E annuncia: "Sosterrò la candidatura di Roma ai Giochi 2020"
di Chiara Righetti

«Tra un po´ ci fidanziamo, sono ore che siamo insieme», scherza Emma Bonino con Maurizio Stirpe, presidente di Confindustria Lazio, al termine dell´incontro con gli industriali che le hanno presentato la loro agenda per il futuro della Regione. Dalla semplificazione alle infrastrutture, dalla green economy alla sanità, gli stessi punti messi due settimane fa sul tavolo di Renata Polverini. Serena, a chi le chiede come abbia vissuto le ore d´attesa per la decisione sulla lista Pdl, risponde solo: «Intensissimamente, a discutere di sviluppo del Lazio. Una Regione che può ripartire, se metteremo le imprese in grado di lavorare, puntando su reti, internazionalizzazione, ricerca».
Il colloquio con le giunte degli industriali si chiude, spiega Stirpe, con alcuni punti fermi: «Abbiamo condiviso la necessità di un riequilibrio territoriale, di un riassetto istituzionale e di un cambio di metodo, per elaborare insieme un progetto che valorizzi le vocazioni dei territori». Bonino propone una ricetta fatta di «legalità e regole certe, perché anche i programmi più nuovi, se non applicati con nuovi metodi, rischiano di finire male». Sul riequilibrio tra Roma e i territori, ribadisce che vorrà in giunta rappresentanti di tutte le province. Mentre sulla sanità spiega: «Mi conforta aver trovato idee simili alle mie, sia sul metodo (gli Stati generali della salute) che sul merito, quello di coinvolgere il sociale e lasciare che gli ospedali si occupino dei malati». Annuncia che renderà permanente il comitato per il credito alle imprese, ma soprattutto parla di Europa: «Dobbiamo usare di più i fondi Ue, applicare tutte le iniziative per le piccole e medie imprese, internazionalizzare per aprirci a nuovi mercati». Infine cita l´impulso alla green economy e all´economia del benessere e del tempo libero, partendo da innovazione, ricerca, infrastrutture. Gli industriali rilanciano, indicando fra le priorità un´infrastruttura a provincia: la Roma-Latina, la Orte-Civitavecchia, la Salaria, la Latina-Frosinone. Poi salta fuori il nodo nucleare (ospite Polverini, tutto era finito con un «meglio parlarne dopo le elezioni»). «Mi pare che la politica istituzionale non sia favorevole, ma è un tema da approfondire», risponde Stirpe (a domanda) con qualche imbarazzo. Bonino però non si fa pregare, e ribadisce: «Sapete che su questo punto abbiamo una divergenza. E sapete che il mio non è un "No" al nucleare nel Lazio, ma in sé, sul piano costi-benefici».
«Un´occasione fondamentale per metterci in sinergia col mondo - dice invece della candidatura di Roma a ospitare le Olimpiadi 2020 - Non sarà semplice, c´è concorrenza, ma la sosterrò con forza, come ho fatto per l´Expo a Milano». «Un´opportunità straordinaria in una città in trasformazione - concorda Aurelio Regina, presidente della Uir Roma - E un fattore facilitante per completare infrastrutture necessarie e ridare impulso al turismo. Quasi più per il dopo che per i Giochi in sé, che pure sono una vetrina fondamentale. Stimiamo possano portare investimenti per 13,5 miliardi di euro: 3 per Fiumicino, 6 in infrastrutture, gli altri per impianti sportivi e turistici».
In serata Bonino incontra l´Aiop, che rappresenta 113 case di cura convenzionate. «Pubblico e privato - promette - devono essere in grado di operare in una situazione di pari opportunità, con le stesse regole e gli stessi standard». E oltre all´impegno per superare il commissariamento, si dice decisa, in caso di vittoria, a rinegoziare almeno su due aspetti il piano sanitario col governo: per ottenere più fondi dal sistema sanitario nazionale in base all´aumento della popolazione, e per escludere dai conti della sanità la spesa dei policlinici per insegnamento e ricerca.

il Fatto 4.3.10
La versione di Sabatinelli
Il radicale che ha bloccato Milioni. Deunciate altre illegalità in Italia
di Caterina Perniconi

Nella sede del partito radicale a Roma c’è un cartellone con una scritta rossa: “Viva Beltrandi”. Sotto, qualcuno ha scritto a penna “e perché Sabatinelli no???”. Marco Beltrandi è il relatore della delibera che ha stabilito le nuove regole della par condicio. Diego Sabatinelli è l’uomo che si trovava in tribunale quando i delegati del Popolo della libertà non sono riusciti a consegnare le liste in tempo. Entrambi elevati al ruolo di eroi dai radicali, potrebbero aver cambiato il corso degli eventi politici. Dopo la bocciatura da parte della Corte d’Appello di Roma del ricorso presentato dal Pdl, i radicali hanno voluto precisare le loro posizioni. E non solo quelle del Lazio. Perché anche in Lombardia il loro ricorso è stato accolto e in molte altre province si stanno svolgendo procedure legali. A Potenza, Bologna e Arezzo ai radicali è stato negato l’accesso agli atti, e sono scattati successivi ricorsi. “La fase della presentazione delle liste è strutturalmente irregolare – dice Mario Staderini, segretario dei Radicali italiani – le firme vengono fatte in bianco, i candidati inseriti all’ultimo minuto e falsificate le autenticazioni. Questa cosa succede dappertutto, sono dieci anni che lo denunciamo, anche con lo sciopero della fame di Emma Bonino, e finalmente i casi clamorosi di Roma e Milano ci hanno aiutato a dimostrarlo”.
Dopo la denuncia per violenza privata a carico dei militanti radicali presentata dal Pdl a Roma, è scattata subito una contro denucia per calunnia.
E nel corso di una lunga conferenza stampa, i testimoni Diego Sabatinelli e Atlantide Di Tommaso hanno raccontato, insieme all’avvocato Giuseppe Rossodivita, la loro versione dei fatti: “Sabato mattina – ricostruisce l’avvocato – Diego Sabatinelli si trovava in tribunale a Roma, all’interno dell’ufficio elettorale centrale, come delegato della lista Bonino-Pannella. Alle 11.45 tutte le liste erano già state presentate, tranne quella del Pdl. A mezzogiorno scadeva il termine e alle 12.30 i testimoni Atlantide Di Tommaso e Gerardo De Rosa, delegati della lista socialista, notano Alfredo Milioni, delegato del Pdl, avvicinarsi all’area delimitata dall’ufficio elettorale, proveniente dall’esterno del Tribunale, con della documentazione tra le mani”.
Di Tommaso ha tenuto a precisare di aver notato Milioni perché lo conosceva personalmente, in quanto ex militante socialista, e quindi di averlo riconosciuto.
“Di Tommaso e De Rosa – racconta ancora l’avvocato – avevano osservato lo strano atteggiamento dell’altro delegato del Pdl, che nonostante potesse entrare nella stanza libera per la consegna, aspettava fuori, rimaneggiando il materiale. De Rosa ha ripreso la scena del delegato chino sullo scatolone col telefo-
nino, suscitando la reazione di quest’ultimo che ha urlato la frase ‘e mò lo stai a fa apposta’. A questo punto De Rosa avverte i carabinieri dello strano comportamento e dell’ingresso tardivo di Milioni. Ma mentre i delegati discutono l’accaduto con le forze dell’ordine, i due funzionari del Pdl si allontanano spontaneamente e piuttosto furtivamente, uscendo dall’area delimitata. Si sono ripresentati alle 12.45 e hanno tentato di entrare con la documentazione mancante, ma era già intervenuto il magistrato e la zona era stata fatta presidiare dai carabinieri. A quel punto c’è stata una discussione tra il magistrato, i delegati delle varie liste e il senatore Pallone del Pdl, arrivato sul posto. Solo in quel momento Di Tommaso e Sabatinelli hanno protestato simbolicamente contro l’accaduto sdraiandosi a terra”.
Ma anche per un altro motivo: “Mi hanno insegnato che a pensar male si fa peccato – dice Sabatinelli – e dato che i carabinieri facevano entrare i dipendenti, ho temuto che qualche documento potesse sfuggire di mano in mano. Allora mi sono sdraiato, anche se ero praticamente seduto, perché il busto era eretto e non intralciavo i dipendenti, per vedere meglio. É evidente che questa non è violenza. E abbiamo anche le immagini, registrate dal videotelefono di De Rosa. Noi chiediamo da anni il rispetto della legalità durante queste procedure, Non sarà difficile individuare chi mente”.

il Fatto 4.3.10
L’Europa si vergogna dell’Italia
“Reporters sans Frontières” ci ha retrocessi al 49esimo postoper autonomia dell’informazione
di Alessandro Cisilin

Bruxelles. Ogni volta che il governo e la maggioranza zittiscono l’informazione sale il rumore non appena si varca il confine di Domodossola. La cornice più immediata è quella europea, dove l’Italia ha un passato – quello di uno dei sei paesi fondatori delle Comunità – nonché un presente demografico ed economico – sicché, nonostante la crisi, piaccia o meno rimane tra i paesi “principali” dell’Unione – e questo spiega le titubanze burocratiche rispetto a un’eventuale reazione concreta, ma al contempo non frena lo sconcerto e la correlata marginalizzazione politica del nostro Paese. Sul tavolo della Commissione si appesantisce il plico delle denunce di violazioni alla libertà di informazione, così come al Consiglio d’Europa a Strasburgo pende un esposto degli ex eurodeputati Lucio Manisco e Giuseppe Di Lello. L’esecutivo europeo fa trapelare insofferenza, e un mese di stop elettorale all’informazione televisiva viene percepito come l’ennesima offesa berlusconiana alla libertà di stampa, che col Trattato di Lisbona – che fa propria la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea – diventa giuridicamente vincolante. Di più, il caso italiano viene avvertito come un cavallo di Troia tanto nelle relazioni esterne – vedi le battaglie sulla libertà di informazione in Iran – quanto nelle convulse trattative per imporre un po’ di decenza democratica agli ultimi arrivati nell’Unione e ai paesi candidati. I vertici politici continentali per il momento evitano commenti espliciti per evitare le consuete reazioni rovinose dei media di Palazzo Chigi – tipo “l’’Europa è anti-italiana” lamentano che “i Trattati non consentono di muoverci in tema di libertà di informazione” – fatto contestato dalla maggioranza dei giuristi europei – e attendono quantomeno un’indicazione dell’europarlamento. Nei mesi scorsi l’assemblea, con soli tre voti di scarto – e tanto di scandalo per le presunte “pressioni indebite” sul voto
decisivo di alcuni deputati moderati aveva bocciato una risoluzione che impegnava la Commissione a legiferare in materia. Ora l’ennesima azione di censura sta mobilitando i parlamentari centristi (a cominciare dai liberali italiani) all’ennesima iniziativa parlamentare, da avviare già alla plenaria della prossima settimana. Una risoluzione parlamentare peraltro giace già, ed è quella votata quasi all’unanimità dall’Europarlamento nel 2004, che auspicava addirittura, contro il conflitto di interessi e le sue conseguenze istituzionali, la sospensione dell’Italia dalle riunioni del Consiglio Europeo, fatto del tutto inedito nella storia continentale. Bruxelles palesa
dunque il suo rinnovato allarme per la tenuta democratica italiana, a causa anzitutto dei bavagli all’informazione, ma non se la sente ancora di esautorare Palazzo Chigi in materia. Fuori dai protocolli diplomatici parlano le agenzie indipendenti. L’organizzazione americana “Freedom House” ha declassato l’Italia a paese solo “parzialmente libero”, onta concessa in Europa solo alla Turchia. La francese “Reporters Sans Frontières” nell’ultimo anno ha ugualmente retrocesso il nostro paese ai minimi europei, ovvero al quarantanovesimo posto in tema di libertà di informazione. Il suo vertice, Jean-François Julliard, commenta ora sdegnato: “il silenzio elettorale è una misura pericolosa, inverosimile e assurda”. E ci spiega l’ovvio: “E’ anzitutto missione dell’emittenza pubblica quella di dar voce e permettere il confronto pubblico a tutte le posizioni in campo”.

l’Unità 4.3.10
Se il soldato Omar torna dalla sua guerra
La scarcerazione del giovane di Novi: tornare alla vita dopo i più atroci crimini se si accetta che tutto sia scaturito dai vissuti. E con un codice intelligente
di Luigi Cancrini

Mi capita spesso di pensare ad Omar, ad Erika e a tanti altri giovanissimi autori di reati orrendi come a degli alberi colpiti da uno tsunami che li ha piegati e sbattuti a terra con un’assoluta mancanza di pietà. Travolti da qualcosa che è accaduto intorno a loro prima (molto prima) che dentro di loro rubando loro quelli che avrebbero dovuti essere gli anni più straordinari della loro vita. E in questo modo li penso, mi dico, perché conosco, lavorando, loro invece che quelli che da loro sono stati uccisi e perché so, conoscendoli quel poco che è possibile conoscere un altro essere umano quando così poco conosciamo noi stessi, che il loro reato, l’omicidio che hanno commesso ha avuto comunque origine nel buio di una infelicità di lunga durata, di una sofferenza che non ha trovato parole per raccontarsi, di un dolore cupo che, visto o non visto, consapevole o lontano dalla coscienza, li ha avvitati a lungo prima che la passione cieca di un momento li spingesse a un gesto che si svolge nell’atmosfera sospesa del sogno. Quando la mente se ne va per suo conto e perde, con una leggerezza folle, il contatto con la realtà.
Difficile non pensare, certo, che un atteggiamento di questo tipo sia basato su una pretesa, fantastica anch’essa e sogno in qualche modo anch’esso, di comprendere e giustificare tutto quello che accade nella mente di un essere umano. Il problema è, tuttavia, che questo modo di guardare alla storia della persona ed a come a questa storia il fatto terribile che (le) è accaduto si collega, è l’unico che permette di aiutarci a sentire e a far sentire a colui o a colei che lo ha commesso la responsabilità di averlo commesso. Sta nella visione laica di una psicologia che cerca le origini del reato nella serie complessa dei vissuti che l’hanno preceduto, penso, l’unica possibilità che abbiamo di aiutare la persona a riprendere possesso di ciò che ha fatto. Di sentirsene autore, infelice e parziale ma sostanzialmente responsabile. Di iniziare un percorso che la renda capace di donare alla sua coscienza e alla memoria dell’altro un pentimento autentico. Un pentimento da cui si rinasce ad una vita che è insieme nuova e vecchia perché segnata per sempre da quello che comunque è accaduto.
L’ultima riflessione da fare a proposito di Omar, di Erika e di tanti altri alla cui cura ed alla cui riabilitazione tanti moralisti hanno difficoltà ancora oggi a pensare prima che a credere, è quella che riguarda il modo curioso in cui con tanta facilità gli stessi moralisti accettano e riconoscono la possibilità di uccidere collegata all’uso delle armi da parte di persone che si impegnano o impegnano altri in una guerra sentita e proposta come «giusta» o «santa». C’è qualche cosa, in realtà, di mostruoso nell’idea per cui uccidere sotto l’ombrello di bandiera per cui si combatte facendo il lavoro del soldato sia un gesto normale, destinato a non incidere sui valori morali di noi tutti e sull’equilibrio psichico di chi le armi le usa. Lo dicono, inesorabilmente, i dati sul numero, altissimo e difficile da capire altrimenti, dei soldati che uccidono o che si uccidono a casa loro, quando tornano da un fronte di guerra in cui hanno ucciso o contribuito ad uccidere altri esseri umani, come dal fronte delle guerre fra Israele e i paesi arabi come ben raccontato in un film che andrebbe proiettato in tutti i licei del mondo, il titolo del film è «Il valzer del Bashir», dedicato ai rimorsi di chi coprì il massacro di Sabra e Shatila. Insegnando il male oscuro che resta nell’anima di chi a queste guerre ha partecipato senza sapere fino in fondo la gravità di quello che in esse, anche per sua mano, accadeva.
Omar che torna alla vita dopo un lungo periodo di reclusione e di cura è questo e molto altro. È il segno di come un codice penale intelligente (il nostro codice penale minorile) ed il lavoro appassionato di tanti operatori straordinari possono arrivare a salvare delle vite, considerandole per quello che sono, fiori delicati sopravvissuti ad uno tsunami.

il Fatto 4.3.10
Liberi pistoleri in libero Stato
La Corte suprema Usa dà il via a un’ulteriore diffusione delle ami personali
di Angela Vitaliano

Il giorno del giuramento di Barack Obama, un negozio di armi di Fort Knox fece registrare una vendita record di armi e, in tutti gli Usa l’incremento fu del 49%. Cifre che raccontano la realtà di un paese in cui la figura del cow boy armato fino ai denti, non è mai tramontata e il possesso delle armi è considerato ancora essenziale per la “legittima difesa”. Da oltre 30 anni molti Stati, attraverso leggi restrittive, hanno messo al bando le armi non autorizzate e, soprattutto, la possibilità di girare armati nei locali pubblici. Questo fino al giugno del 2008 quando la Corte Suprema è intervenuta nel caso “Heller versus DC”, in cui Dick Heller, residente a Washington chiedeva, in ottemperanza al Secondo Emendamento, che gli venisse concesso il possesso di una pistola. Il distretto di Columbia, di cui Washington fa parte aveva, sulle armi, la legislazione più rigida di tutti gli Usa. Fino a meno di due anni fa, la legge dello Stato non consentiva il possesso di armi in casa e, a coloro che avevano una licenza, faceva esplicito divieto di tenerla con il colpo in canna. Per comprendere la rigidità del provvedimento, bisogna tener presente la realtà di Washington in cui aree ad alto tasso di criminalità, dove il “grilletto facile” era diventato una norma, restano numerose. La Corte Suprema sostenne, con una spaccatura al suo interno, il punto di vista di Dick Heller, evidenziando come la messa al bando delle armi fosse in contrasto con il Secondo Emendamento. Una decisione che fece sussultare chi ha ancora negli occhi le immagini di stragi come quella della scuola di Columbine e altre scene di simile violenza. Inevitabilmente, da allora, in molte altre città, qualcuno s’è svegliato con spirito guerrigliero e ha deciso di seguir l’esempio di Heller. Così ieri la Corte Suprema ha ascoltato il caso di “McDonald versus Chicago” in cui, Otis McDonald, chiedeva il rispetto della sua libertà di possedere un’arma. Sebbene la decisione definitiva sia attesa per giugno, è sembrato chiaro che la Corte Suprema fosse di nuovo spaccata sulla decisione e, purtroppo, incline a dar torto all’avvocato della città dell’Illinois che “candidamente” ha ricordato come l’annullamento del bando potrebbe mettere in serio pericolo la vita di cittadini innocenti. Un punto rispetto al quale i giudici hanno obiettato che le conseguenze negative di un provvedimento non possono indurre a non esigerne il rispetto. Se il possesso delle armi, dunque, viene equiparato alla libertà di espressione, rientrando cioè fra i
diritti inalienabili della persona, il giudice non può autorizzare limiti o divieti in nome di possibili conseguenze negative. Ora, se è vero che la Corte ha mantenuto una coerenza di pensiero, mantenendo lo stesso principio per rigettare un tentativo di limitazione del diritto di aborto e per autorizzare la città di Washington a procedere con i matrimoni omosessuali, è pur vero che quella della liberalizzazione delle armi resta una spina nel fianco per l’amministrazione Obama che, finora, non ha lanciato nessuna campagna particolare come temuto dai “pistoleros”. La verità è che la preoccupazione di molti cittadini è cresciuta in maniera esponenziale soprattutto dopo che alcuni Stati, come la Virginia, hanno autorizzato il possesso delle armi in locali dove si vende l’alcol. Il limite che vieterebbe di servire alcolici al possessore di un’arma non sembra rassicurare coloro che non vedono di buon occhio l’accoppiata “alcol/armi”. È partita, inoltre, una campagna per chiedere agli Starbucks di vietare esplicitamente l’ingresso alle persone armate. La catena (a differenza di altre che hanno aderito immediatamente) non sembra disposta a cedere gettando una pesante ombra sul suo presentarsi come luogo di relax. Forse, da oggi, sarà il caso di chiamarli Saloonbucks e andarci con lo sceriffo.

il Fatto 4.3.10
Prima causa di morte non naturale
Se togliersi la vita diventa un record spagnolo
di Alessandro Oppes

I suicidi hanno superato gli incidenti stradali come prima causa di morte non naturale. Non è più un problema esclusivo dei paesi scandinavi o dell’Europa dell’est. È successo, per la prima volta nel corso dell’anno 2008, anche in Spagna. Un dato, quello diffuso dall’Istituto nazionale di statistica, che non ha mancato di provocare sconcerto, anche se c’è già chi tenta di spiegarlo semplicemente come una conseguenza della maggiore sicurezza stradale, dimostrata da un calo netto – meno 20% – degli incidenti. Ma non basta per spiegare un fenomeno che comincia ad apparire inquietante. Anche perché, se i suicidi sono stati quasi 3500, il numero di persone che hanno tentato di togliersi la vita è dieci volte superiore. Ci provano, molto più spesso, le donne, che in genere ricorrono all’intossicazione con medicinali, ma in realtà, nella maggior parte dei casi, i morti sono uomini, che fanno ricorso a metodi più violenti: le statistiche parlano di un tasso di suicidi, ogni 100 mila abitanti, di 11 per il sesso maschile e 3,5 per quello femminile.
Insomma, anche se si tratta di cifre che distano ancora molto da quelle di paesi come la Lituania (che occupa il primo posto al mondo secondo l’Oms, con 68 morti ogni 100mila abitanti), la Russia, il Kazakhstan, l’Ungheria o la Slovenia, ce n’è comunque abbastanza per far scattare il campanello d’allarme. Finisce il mito della Spagna come paese assimilabile all’America latina o a quelle regioni del mondo (in particolare i paesi musulmani e una parte di quelli asiatici) in cui la tendenza al suicidio è stata sempre considerata un fenomeno del tutto marginale.
È cambiato qualcosa negli ultimi anni? Probabilmente sì. Depressione, stress, consumo di alcol e droghe: l’aumento di tutti questi fattori di rischio ha contribuito ad avvicinare pericolosamente la Spagna agli standard dei paesi del nord Europa e dell’est. Gli esperti non mancano di rilevare un dato, forse il più preoccupante di tutti: ormai da anni le statistiche indicano che il paese si è consolidato in maniera stabile in vetta alle classifiche dei maggiori consumatori di cocaina del mondo. E anche altre droghe, come l’hascisc e l’ecstasy, hanno invaso il mercato con conseguenze che gli psichiatri ritengono devastanti sulla stabilità psicologica. Anche perché l’età media di chi fa ricorso a queste sostanze tende sempre di più ad abbassarsi, fino a comprendere persino un numero consistente di adolescenti. Un problema che, finora, le autorità sanitarie hanno invano tentato di affrontare con una serie di campagne di sensibilizzazione. La questione, infatti, è molto più complessa e ha a che fare con le difficoltà della lotta alla criminalità organizzata: la Spagna è stata individuata da tempo dai grandi cartelli del narcotraffico come la più facile porta d’accesso europea per la droga da distribuire in tutto il continente. Ma quello che doveva essere soprattutto un luogo di transito ha finito per trasformarsi in centro privilegiato di consumo, anche per la facilità di disporre di sostanze stupefacenti a prezzi inferiori rispetto a quelli degli altri paesi europei.
Secondo il presidente della Fondazione spagnola di psichiatria e salute mentale, José Giner, il settore sanitario si dovrebbe impegnare più a fondo “nella prevenzione dei fattori di rischio legati alla condotta suicida”. Oltre al consumo di droghe, indicato come uno dei più pericolosi, ai primi posti figurano anche l’alcolismo, la depressione e lo stress. L’importanza della prevenzione, sottolineata con forza nel corso dell’ultimo congresso nazionale di psichiatria, si spiega anche con un dato inquietante: più della metà delle persone che si sono suicidate nell’ultimo anno, appena un mese prima della morte si erano rivolte al loro medico di famiglia per confidargli, magari a volte in maniera confusa, un problema che poi le ha portate al gesto estremo. Saper interpretare un gesto, un segnale, una frase – gli psichiatri ne sono convinti – potrebbe aiutare a salvare diverse vite.

il Riformista Lettere 4.3.10
Un'altra voce rinchiusa in Iran
Caro direttore, a Teheran si può arrestare un regista, insieme alla moglie e alla figlia. Rinchiudere la sua voce. Jafar Panahi, che con Il palloncino bianco e Il cerchio ha saputo raccontarci l’Iran dopo lo scià e prima, durante e dopo la “rivoluzione” islamica di Kho- meyni, non deve parlare, non de- ve esprimersi. Non può dire al- l’Europa che cosa sta succedendo nell’antica, gloriosa Persia, culla di linguaggio e identità. Fu pro- prio Reza Pahlavi a voler ripristi- nare per il paese il nome “Iran”, da “ariano”: per distinguere quel- la terra dalle altre nazioni arabe. E forse è vero: la lingua persiana è dolce, i modi iraniani sono gen- tili. Ora l’Iran si distingue, inve- ce, per violenza e censura. E noi, nel nostro “ariano” Occidente, re- stiamo a guardare. Senza vedere.
Paolo Izzo

mercoledì 3 marzo 2010

Repubblica 3.3.10
Il sondaggio: ora la Bonino è in testa
di Laura Mari

Il sorpasso arriva da sinistra e il pasticcio delle liste elettorali fa perdere alla candidata del centro-destra punti preziosi. A rilevarlo è il sondaggio Crespi per Omniroma, che in vista delle prossime elezioni regionali del 28 e 29 marzo attesta il vantaggio di un punto percentuale di Emma Bonino sulla sindacalista Renata Polverini.
Dalle intenzioni di voto, calcolate su un campione di mille interviste telefoniche fatte a livello regionale il l e il 2 marzo e prendendo in esame il Pdl nelle altre quattro province del Lazio ma non a Roma, emerge che il 39 per cento delle preferenze sarebbe ora a favore di Emma Bonino. Per Renata Polverini, invece, voterebbe il 38 per cento degli intervistati, ovvero il due per cento in meno rispetto all'ultimo sondaggio Crespi del 23 febbraio. Ma nonostante il lieve vantaggio della senatrice radicale, al momento nel Lazio gli elettori indecisi sarebbero ancora il 20,2 per cento.
«Mancano le ultime tre settimane di campagna elettorale ha detto la Bonino spronando i suoi supporter nel comitato del quartiere Tufello - la determinazione sta crescendo, ora ognuno diventi militanti della causa». E intanto, nella lista dei vip che hanno deciso di esprimere la propria preferenza per la candidata del centrosinistra, spicca anche l`attore Silvio Orlando, napoletano di nascita ma romano d'adozione.
Per quanto riguarda le intenzioni di voto per le liste, la situazione è più complicata. Al momento il Popolo delle Libertà è escluso, nel collegio della provincia di Roma, dalla competizione elettorale. Un duro colpo per il partito di Berlusconi, che stando ai dati del sondaggio Crespi al
momento prenderebbe il 16,5 percento delle preferenze, allontanandosi nettamente da quel 42 per cento registrato dal sondaggio del 23 febbraio. In totale, la coalizione del centrodestra (la lista Polverini è al 14,3 per cento, mentre La Destra sale dal 3 per cento al 4,9 per cento) più l'Udc (che dal 5,5 per cento è passata al 7,8 per cento) prenderebbe ora il 48,5 per cento, contro il 48,2 per cento del centrosinistra. Un lieve vantaggio, dunque, per la coalizione delle liste a sostegno del partito della Polverini, anche se il Partito Democratico accresce di un punto i suoi consensi, attestandosi al 28 per cento (mentre la lista dei radicali Pannella-Bonino è al 5,5 percento e l'Italia dei Valori sale al 6,5 per cento).
«Con le liste elettorali il Pdl ha commesso un pasticcio inenarrabile, è stata una prova di grande sciatteria e impunità - ha commentato la candidata del centrosinistra Emma Bonino ora chi ha il dovere di controllare lo faccia nel rispetto della legge. Ma di certo - ha concluso la senatrice radicale- chi non riesce nemmeno a presentare le liste è difficile che poi sappia essere un grande manager».

l’Unità 3.3.10
Amami Alfredo
di Concita De Gregorio

No, non ci crede nemmeno Renata Polverini che siano cretini. È andata a spiegarlo anche a Silvio Berlusconi, ieri. Alla notizia che un altro Alfredo l’altro ieri Milioni, ieri Pallone si è dimenticato di firmare e dunque neppure il suo listino ha i requisiti per essere ammesso alle elezioni è andata da Berlusconi e gli ha detto ok, ho capito il messaggio: chiaro e forte. Il mio è che faccio da sola, mi arrangio però poi se per caso vinco ho vinto io. Al premier non dev’essere sembrata una grande minaccia, del resto la sconfitta di Renata sarebbe una battuta d’arresto per Fini gradita e comunque i sondaggi le sono sfavorevoli. Fatto sta che anche se le irregolarità del listino dovessero essere giudicate sanabili, come sembra, e se dunque Polverini potesse correre nel Lazio con la sua sola lista civica e senza il Pdl la frattura fra Berlusconi e Fini con questa vicenda è consumata in modo definitivo. Con Fini che dice «il Pdl così com’è non mi piace», un eufemismo per indicare un partito di arsenico e nuovi complotti nel quale essersi sciolto deve avvelenargli i sonni e i giorni. Volano stracci e cadono uno alla volta i piccoli indiani di An. La storia di Pallone e Milioni, i due Alfredi che vanno al bagno e a farsi un panino quando scatta l’ora X, ci vorrebbe Totò a raccontarla. Non sono problemi di incontinenza o cali di zuccheri, no. La faccenda di chi deposita le
firme sta così. Vanno in due, come i carabinieri, di solito per controllarsi a vicenda. Portano i nomi dei candidati, devono depositarli con le carte. Sono scelti con criterio, sono persone di fiducia di chi li manda: i mandanti, letteralmente. I mandanti li mandano sapendo di poter contare su di loro per lo svolgimento del compito che segue. Dunque: Pallone e Milioni hanno i nomi. Sono concordati in estenuanti riunioni ma i depositanti gli Alfredi nell’ultimo metro di corsa hanno potere assoluto. Possono cambiarli, difatti vengono raggiunti da autorevolissime prevedibili telefonate che sulla soglia dicono loro metti questo, togli l’altro. Certo non posso farlo alla luce del sole dunque escono un attimo portandosi dietro l’intero incartamento, manifestano un’urgenza, fame sete bagno, anche un ascensore in cui chiudersi va bene. Un po’ come cambiare il nome del neonato davanti all’ufficiale dell’anagrafe: si era detto Filippo, è diventato Benito. È un vecchio giochetto, richiede abilità. Già al principio degli anni 80 un democristiano lombardo ci rimise la carriera. A volte non funziona, si sottovalutano le conseguenze si sbaglia coi tempi. A volte si gioca coi tempi per ottenere conseguenze calcolate: nessun errore. Sembra questo il caso. Pallone e Milioni. Milioni e Pallone. Le tre carte, il panino, il cellulare che squilla. Il “capo” che chiama. Il tempo che scade. La firma che manca. Accidenti, che peccato. Non si potrebbe fare una leggina ad hoc? No, meglio di no. Semmai un corso di formazione per depositanti firme. Un bando nazionale. Un prestito di personale da un altro partito. Ma alla fine poi vedete, le cose sono andate proprio come dovevano: gli Alfredi hanno fatto un buon lavoro, missione compiuta. La Casa dei Veleni è al lavoro: Polverini non piace al boss, se la veda da sola. Il metodo è questo.

il Fatto 3.3.10
Da Strasburgo
Accolto il ricorso italiano
sarà la “Coorte suprema” europea a decidere sul crocifisso

La Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha accolto la domanda di rinvio alla Grande Camera del caso Lautzi sull’affissione del crocifisso nelle aule scolastiche. La notizia è stata subito accolta con “vivo compiacimento” dal ministro degli Esteri Frattini, mentre il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, ha parlato di “riaffermazione dell’identità del paese”. Positivo anche il commento di don Domenico Pompili, portavoce della Cei, che parla di “un passo avanti nella giusta direzione”. Il presidente della Conferenza Episcopale, il cardinale Angelo Bagnasco ha commentato la decisione definendola “un atto di buon senso auspicato da tutti perché rispetta la tradizione viva del nostro Paese e riconosce un dato storico oggettivo secondo cui alla radice della cultura e della storia europea c'é il Vangelo”. Era stata proprio la Corte dei Diritti dell’Uomo a dare ragione a Soile Lautzi Albertin, cittadina finlandese, e al marito che otto anni fa avevano cominciato il lungo iter giudiziario chiedendo di togliere il crocifisso dalle aule in nome del principio di laicità dello Stato. Strasburgo aveva sovvertito la sentenza del Consiglio di Stato, condannando l’Italia anche ad un risarcimento di 5 mila euro per danni morali. Il ricorso dello Stato italiano era un atto dovuto, sia per sensibilità diplomatica, sia per la questione del risarcimento. Il rischio è che la Grande Camera (la cui composizione sarà comunicata nei prossimi giorni) si pronunci in linea con la Corte di Strasburgo. In quel caso, lo Stato italiano potrebbe essere costretto a pagare il risarcimento, ma non a rimuovere la causa. La sentenza non porterebbe insomma automaticamente alla rimozione dei crocifissi dalle scuole. Nei Sacri Palazzi sperano comunque che la Grande Camera si esprima in maniera “equilibrata”, come ha fatto in altri contesti ad esempio nel caso Turchia, o nel caso burqa. “In quei casi – dice un giurista vaticano – è stato fatto valere il principio del margine di apprezzamento, che è uno dei due principi su cui si fonda l’Europa. L’altro è la sussidiarietà”. Mentre in questo caso, sostiene, “non è stata considerata la storia del paese, al di là della statistica”. Ma, nelle stanze vaticane, preferiscono non predicare grande ottimismo: “Era un passo dovuto. Ma se la Grande Camera confermasse la condanna di Strasburgo, creerebbe un precedente importante per tutta l’Europa, e non solo per l’Italia”.

Comunicato Stampa
Carla Corsetti: Nella scuola di mio figlio non deve esserci il crocifisso

rosinone (Ceprano) – «La sottoscritta genitrice/difensore inoltrava al Dirigente Scolastico dell’Istituto Comprensivo di Ceprano l’invito alla immediata rimozione del crocifisso nell’aula frequentata dal proprio figlio, sostenendo che: la predetta affissione è in violazione dei principi di laicità sanciti dalla Costituzione ed inoltre che l’esposizione di un simbolo di morte non è compatibile con i principi di civiltà democratica cui intendo educare mio figlio». È quanto si legge nel ricorso che l’avvocato Carla Corsetti ha notificato a Mariastella Gelmini, Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, e al Dirigente scolastico dell’Istituto Comprensivo Statale di Ceprano. “Il TAR del Lazio, Sezione Distaccata di Latina” commenta Corsetti “dovrà decidere se l’Istituto Comprensivo di Ceprano ha posto in essere o meno un grave atto discriminatorio contro il minore in violazione dei principi costituzionali, in violazione dei principi della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali e infine in violazione della sentenza della Corte Europea del 3.11.2009. Stiamo anche valutando la responsabilità del Dirigente e dei componenti del Consiglio di Istituto per la violazione dell’art.3 della Legge 654/1975 che punisce con la reclusione sino a tre anni chi commette atti di discriminazione per motivi religiosi. Vorrei ricordare” aggiunge l’avv. Corsetti “che la Corte di Cassazione ha assolto il giudice Luigi Tosti in relazione all’accusa di omissione di atti d’ufficio per essersi rifiutato di tenere udienza nelle aule in cui il crocifisso era esposto, e in quella sentenza la Corte ha premesso che l’udienza si era svolta in un’aula priva del simbolo confessionale”. La battaglia di laicità intrapresa dall’avv. Carla Corsetti è rilevante sotto molteplici aspetti perché Corsetti, oltre ad essere avvocato e madre del minore discriminato, è il Segretario Nazionale del partito Democrazia Atea www.democrazia-atea.it . In attesa che la Grande Camera deliberi sul ricorso promosso dal Governo italiano contro la sentenza che dava ragione ai coniugi Albertin-Lautsi, l’avv. Corsetti aggiunge un altro tassello a questa importante battaglia di civiltà: “Se è vero che per i cattolici il crocifisso è simbolo di tolleranza, lo dimostrino e accettino di viverlo nel privato senza imporlo con prevaricazione a chi non condivide la stessa simbologia”. Il documento del ricorso di Carla Corsetti è pubblicato sul sito di Democrazia Atea ed è a disposizione di tutte quelle famiglie costrette a subire la stessa violazione.

il Fatto 3.3.10
L’Iran spegne lo sguardo di Panahi
Arrestato il registaanti-regime
Stava girando un documentario sulle manifestazioni
di Hamid Ziarati

Le notizie che giungono dall’Iran sono sempre più inquietanti e gli arresti che si susseguono non lasciano il tempo sufficiente per festeggiare le liberazioni con la condizionale appena avvenute dopo lunghissimi periodi di detenzione e di tortura, ed è così che nell’indifferenza generale dell’occidente e della maggior parte della sua classe politica e intellettuale si assiste impotenti a quanto viene prevalentemente denunciato sul web che è, e resta, l’unico mezzo d’informazione per far la fredda conta quotidiana dei morti ammazzati e degli imbavagliati in un paese in rivolta.
La notizia dell’arresto dell’amico e regista Jafar Panahi, di sua moglie e di sua figlia, e dei suoi quindici ospiti, tra cui alcuni noti registi e operatori, avvenuto in casa sua la notte tra lunedì e martedì da parte dei servizi segreti, è però una di quelle notizie che non può e non deve passare inosservata. Stiamo parlando di un artista che grazie alla sua bravura e al suo sguardo lucido e disilluso sulla società iraniana è riuscito a sorvolare i confini nazionali e a ottenere i più alti riconoscimenti internazionali, vincendo prestigiosi premi tra cui il Leone d’Oro a Venezia, il Premio della Giuria al Festival di Cannes, l’Orso d’Argento a Berlino e molti altri premi ancora. Inoltre Panahi è il regista che grazie alla sua attività di denuncia, scegliendo di vivere e realizzare tutti i suoi film in Iran malgrado il divieto di lavorare impostogli da parte del regime della Repubblica islamica e le proficue proposte dall’estero che gli giungono ormai dall’inizio della sua attività, è riuscito a realizzare le sue opere più o meno in clandestinità con una serie di stratagemmi geniali per aggirare il ministero della Cultura, ovvero il ministero della Censura, e già solo per questo merita tutta l’attenzione e la solidarietà del mondo culturale e democratico. E proprio il tentativo di girare un documentario sulle proteste contro il regime gli sarebbe costata la libertà. Panahi ha l’onore e la frustrazione di un artista che è costretto a vedere tutti i suoi film sul grande schermo solo fuori dai confini iraniani, ma questo non l’ha mai portato a piegarsi alla volontà del regime di fargli abbandonare l’attività oppure l’Iran per lavorare altrove, come lui stesso ha affermato in una lettera aperta al popolo iraniano scritta in ottobre assieme all’attrice Fatemeh Motamedarya e al documentarista Mojtaba Mir Tahmasb, in seguito al ritiro dei loro passaporti all’aeroporto di Teheran, mentre erano diretti all’estero per assistere a una rassegna cinematografica: “Noi siamo iraniani e ognuno di noi ha un solo passaporto. Un passaporto iraniano su cui è inciso lo stemma della Repubblica Islamica dell’Iran. I nostri passaporti sono stati requisiti all’aeroporto. In questi ultimi 30 anni abbiamo lavorato nel settore cinematografico e grazie alle nostre opere siamo stati i rappresentanti della cultura e dell’identità iraniana nel mondo. Nessun governo ci ha concesso quest’onorificenza e nessun governo può togliercela. Noi ci siamo ispirati alla cultura del nostro paese e l’abbiamo mostrata al mondo intero. Però, ora, non ci è concesso di superare i confini del nostro paese; non ci lamentiamo! Non conosciamo nemmeno le motivazioni e le accuse, ma non ci lamentiamo nemmeno per questo. Però, vorremmo continuare a rimanere dei cineasti iraniani indipendenti. Durante tutta la nostra vita artistica avremmo potuto ottenere passaporti di altre nazionalità, ma abbiamo sempre desiderato e voluto essere e rimanere iraniani. Il governo ha il potere di impedirci di oltrepassare i nostri confini nazionali; ma vorremmo ricordargli che le nostre identità non dipendono dai nostri passaporti, anche senza il passaporto noi siamo iraniani.” In una delle ultime telefonate Panahi mi ha confessato d’essere sull’orlo di una crisi di nervi, non solo perché è prigioniero in casa e quando è fuori casa ha sempre qualcuno alle spalle che lo insegue e lo controlla, non perché gli hanno ritirato il passaporto per impedirgli di far vedere all’estero ciò che in Iran non può far vedere, non perché è stato arrestato mentre assisteva alla veglia funebre di Neda al cimitero di Teheran (non era la prima volta, aveva già avuto seri problemi quando era corso all’aeroporto di Teheran nel 2003 per accogliere Shirin Ebadi di ritorno in Iran dopo avere ritirato il Nobel per la Pace), non per gli snervanti interrogatori ai quali è costretto a sottoporsi settimanalmente, ma per l’impossibilità di girare film e raccontare storie. Storie che servono prevalentemente a noi in occidente per comprendere quanta ferocia si compia in nome di un Dio che da tempo ha abbandonato l’Iran e gli iraniani e per continuare a rimanere insensibili di fronte alle sofferenze di una intera nazione. Speriamo che il suo arresto serva almeno a svegliare la coscienza di tutti coloro che in Italia si ritengono intellettuali, democratici e a favore della libertà d’espressione e che in questo momento decisivo per l’Iran invece di agire preferiscono sonnecchiare nel tepore dell’indifferenza e del menefreghismo in attesa di tempi migliori.

Repubblica 3.3.10
Comportamenti e tecnologie modificano i geni e favoriscono la selezione naturale della specie
Perché chi impara ha più chance di sopravvivere
di Nicholas Wade

Decisivi la modifica della dieta e il passaggio dalla vita nomade a quella stanziale
A partire da cinquantamila anni fa il processo ha subito una forte accelerazione

Come qualsiasi altra specie, le popolazioni umane sono plasmate dalle forze della selezione naturale, come le carestie, le malattie, il clima. Una nuova forza desta però un crescente interesse, con implicazioni stimolanti: da circa 20.000 anni sarebbero stati gli stessi esseri umani ad avere inavvertitamente influito sulla loro evoluzione. Tale forza è la cultura umana, definibile in senso lato come qualsiasi comportamento acquisito, tecnologie incluse. La prova della sua influenza è tanto più sorprendente se si considera che la cultura per lungo tempo è parsa rivestire un ruolo esattamente opposto: i biologi l´hanno considerata alla stregua di una sorta di scudo che proteggeva gli uomini da altre pressioni selettive, in quanto gli abiti e un tetto sulla testa smorzano i morsi del freddo e l´agricoltura consente di mettere da parte le eccedenze per superare eventuali carestie.
A causa della sua azione-cuscinetto, si riteneva che la cultura avesse rallentato il ritmo evolutivo del genere umano, o addirittura che in un lontano passato l´avesse fermato. Molti biologi, invece, adesso considerano il ruolo della cultura in un´ottica completamente diversa. Le persone si adattano geneticamente a cambiamenti culturali incisivi, come i nuovi regimi alimentari. Questa interazione funziona più rapidamente di qualsiasi altra forza selettiva, "inducendo alcuni medici a sostenere che una co-evoluzione genetica e culturale possa essere il modello dominante dell´evoluzione umana", scrivono Kevin N. Laland e i suoi colleghi nel numero di febbraio di Nature Reviews Genetics. Laland è un biologo dell´evoluzione all´università di St. Andrews in Scozia. L´idea che geni e cultura co-evolvano circolava da svariati decenni, ma soltanto di recente ha iniziato a fare proseliti. Due sostenitori illustri di questa testi, Robert Boyd dell´Università della California a Los Angeles, e Peter J. Richerson dell´Università della California a Davis, teorizzavano da anni che geni e cultura fossero profondamente collegati tra loro e avessero un´azione sinergica nel plasmare l´evoluzione umana.
La prova più attendibile di cui disponevano Boyd e Richerson per poter affermare che la cultura è una forza selettiva era la tolleranza al lattosio riscontrabile in molti europei del Nord. La maggior parte degli esseri umani "disattiva" il gene che consente di digerire il lattosio presente nel latte subito dopo lo svezzamento, mentre tra i nord-europei – discendenti di un´antica cultura di allevatori di bestiame che comparve in quella regione circa 6.000 anni fa – il gene resta "attivo" anche nell´età adulta. La tolleranza al lattosio è ormai un caso esemplare in grado di dimostrare in che modo una pratica culturale – bere latte crudo – abbia provocato un cambiamento evolutivo nel genoma umano.
Presumibilmente, potersi nutrire in modo più ricco e abbondante ha consentito di dare un notevole vantaggio agli adulti, che sono stati pertanto in grado di digerire il latte, e hanno avuto figli sopravvissuti in maggior numero, così che il cambiamento genetico poco alla volta ha interessato tutta la popolazione. Questo esempio di interazione tra geni e cultura è tutt´altro che unico: negli ultimissimi anni, i biologi sono stati in grado di effettuare la mappatura del genoma umano alla ricerca delle impronte dei geni interessati a selezione. È risultato che il 10 per cento del genoma umano – corrispondente a circa 2.000 geni – evidenzia tracce di essere stato sottoposto a pressioni selettive. Queste pressioni sono tutte molto recenti, in termini evolutivi, e molto probabilmente risalgono a 10.000-20.000 anni fa.
I geni ai quali si deve la pelle più pallida degli europei o degli asiatici, per esempio, sono probabilmente una risposta alla geografia e al clima. Molti geni che rivestono funzioni specifiche nel gusto e nell´odorato manifestano segni analoghi di pressione selettiva, riflettendo forse il cambiamento intercorso nell´alimentazione, quando gli esseri umani passarono da una vita nomade a una sedentaria. Altro gruppo di geni che evidenzia di essere stato sottoposto a pressioni selettive è quello che interessa la crescita ossea, e che potrebbe essersi modificato quando lo scheletro umano divenne meno pesante, in coincidenza con il passaggio a una vita stanziale avvenuto circa 15.000 anni fa. Un terzo gruppo di geni selezionati è quello deputato al funzionamento del nostro cervello. Il loro ruolo geni è sconosciuto, ma possono essere cambiati in risposta alla transizione sociale avvenuta quando gli esseri umani, da piccoli gruppi di cacciatori e raccoglitori, diedero vita a villaggi e città abitati da migliaia di abitanti.
Tra gli esseri umani moderni dal punto di vista del comportamento – parliamo degli ultimi 50.000 anni – il ritmo del cambiamento culturale è stato molto serrato. Ciò aumenta le possibilità che l´evoluzione umana sia stata accelerata in un recente passato dall´impatto di rapidi cambiamenti occorsi nella cultura.
La cultura, insomma, è diventata una vera e propria forza di selezione naturale, e se dovesse rivelarsi una delle più importanti, allora l´evoluzione umana potrebbe accelerare ancora di più, a mano a mano che gli esseri umani si adattano alle pressioni delle loro stesse creazioni.
© 2010 The New York Times News Service
Traduzione di Anna Bissanti

Corriere della Sera 3.3.10
Le università alla «guerra» contro Israele
Tre atenei aderiscono al boicottaggio. Lo storico Teodori: assurdo
di Antonio Carioti
qui
http://www.scribd.com/doc/27753100/Corriere-Della-Sera-Le-universita-alla-%C2%ABguerra%C2%BB-contro-Israele-3-mar-2010-Page-19

martedì 2 marzo 2010

il Fatto 2.3.10
Le piazze unite:
“Nessun uomo è illegale”
Sessanta città e migliaia di persone per lo sciopero dei lavoratori stranieri
di Caterina Perniconi

L’Europa,ieri,è stata unita da un filo giallo. Dalla Spagna alla Grecia, passando per sessanta città italiane, migliaia di immigrati hanno proclamato il loro primo sciopero e manifestato contro il razzismo, sventolando lacci e palloncini gialli. L’iniziativa “Primo marzo, 24 ore senza di noi”, nata spontaneamente su Facebook e ispirata all’omonima “journée sans immigrés” francese, ha voluto rendere visibili gli stranieri che vivono e lavorano in Italia per dimostrare che, senza di loro, il paese si ferma.
“Protestiamo contro l’esecutivo e i provvedimenti razzisti che ha emanato – spiega Shukri Said, portavoce dell’associazione Migrare – perché il pacchetto sicurezza ha reso reato una condizione umana, quella della clandestinità. E questa cosa è inaccettabile, soprattutto se si decide di fare una regolarizzazione a metà, solo di colf e badanti. E tutti gli altri? Diventano automaticamente delinquenti? É davvero inammissibile”. La manifestazione è nata in maniera spontanea, “perché abbiamo deciso di organizzarci da soli – dice Shukri Said – quando abbiamo capito che opposizione e sindacati non avrebbero alzato le barricate in Parlamento”. In seguito la protesta “Primo Marzo” ha ricevuto l’adesione di una serie di organizzazioni, tra le quali Emergency e Legambiente, dei partiti politici dell’opposizione e dei sindacati confederali Cgil, Cisl e Uil, che pur dando il loro sostegno, non hanno proclamato lo sciopero generale a livello nazionale.
A Napoli hanno sfilato più di 20 mila persone in un corteo partito da piazza Garibaldi fino al Plebiscito, sotto lo striscione Nessun uomo è illegale. “Qui in Campania – spiega il presidente dell’associazione senegalesi, Pape Seck – noi stranieri non abbiamo diritti e non veniamo rispettati. In passato in questa città c’era rispetto e dignità per lo straniero ma le cose sono cambiate con la legge Bossi-Fini”. Una legge che il presidente della Camera si è detto pronto a “rifirmare domani”.
A Milano il presidio è partito da pizza della Scala fino a piazza Cordusio: “Ho raggiunto i miei genitori che lavorano qui – racconta Eder Herrera, studente peruviano dell’Università Statale – e non dimenticherò mai quel giorno che mi hanno fermato i controllori dell’Atm. Avevo dimenticato il portafoglio con l’abbonamento e mi hanno trattato come un criminale”. A Roma si sono svolte molte iniziative corredate da striscioni gialli. Ieri mattina, in collaborazione con Legambiente, centinaia di rifugiati e richiedenti asilo hanno pulito il parco di Colle Oppio. Un presidio si è svolto davanti alla sede dell’Inps di San Giovanni, dove gli immigrati hanno chiesto a gran voce il riconoscimento del proprio lavoro e dei propri contributi, e di riaverli indietro quando lasciano il paese. “Il beneficio dato dai lavoratori stranieri non si ferma al 10 per cento del Pil – spiega Shukri Said – ma va oltre. Perché non si considerano mai, per esempio, tutte le donne italiane che possono lavorare anche se a casa hanno un bambino o un anziano ammalato. E poi se gli egiziani hanno inventato la matematica, vuol dire che non sanno solo mungere le mucche: perché questo paese non se ne accorge e non accetta anche lavoratori stranieri ad alti livelli?
L’America è diventata grande perché ha messo insieme tutte le forze immigrate che hanno dato il meglio”. La giornata romana si è conclusa con una grande manifestazione a piazza Vittorio, cuore della città multietnica.
La Lega nord ha definito lo sciopero di ieri “senza senso”, per questo motivo ha indetto una contromanifestazione oggi, a Sesto Giovanni, nel milanese, a favore dei lavoratori italiani, perché “chi viene nei nostri paesi, prima di rivendicare diritti, dovrebbe avere e rispettare dei doveri”. Alla Lega sfugge che gli immigrati lo fanno, pagano i contributi e aumentano il nostro benessere.

l’Unità 2.3.10
Sciopero degli immigrati Lombardia, chiuse 40 aziende
di C.A.

Ibrahim Diallo della Cgil: «In 15 fabbriche tutto fermo». Alla Ducati di Bologna un’ora di stop
Cécile Kyenge Kashetu: «Per impedire ricatti sul lavoro estendere la cittadinanza a tutti»

A Bologna le mobilitazioni sul lavoro hanno interessato la Bonfiglioli di Lippo di Calderara, la Titan e la Euroricambi di Crespellano che hanno scioperato per otto ore e la Ducati motor.

Producono il 9,7% dell’intero pil nazionale e contribuiscono in maniera sempre più massiccia, attraverso il versamento dei contributi, alla tenuta del sistema pensionistico (di cui tra l’altro non godono quando escono dal Paese). Lavorano come schiavi nelle campagne del Mezzogiorno del Paese per poter permettere un qualche margine di guadagno ai proprietari di agrumeti, terre messe a pomodoro, mele, olive, patate.
Lavorano nel nord del Paese, nelle aziende metalmeccaniche. E ieri, la Lombardia, anche grazie all’adesione dei sindacati alla protesta, si è ritrovata scioperi in oltre 40 aziende, in decine di cooperative di servizi e in molti istituti professionali frequentati da studenti migranti e di seconda generazione. «In 15 fabbriche era tutto fermo. I lavoratori migranti hanno aderito allo sciopero e non si è potuto lavorare dice Ibrahim Diallo, del coordinamento migranti Cgil di Brescia ma anche in molte altre fabbriche tanti operai stranieri non hanno lavorato ed erano in piazza con noi». Ecco come anche uno sciopero nato dal basso, possa influenzare la percezione che il Paese ha dei propri immigrati.
LO SCIOPERO A BOLOGNA
A Bologna le mobilitazioni sul lavoro hanno interessato la Bonfiglioli di Lippo di Calderara, la Titan e la Euroricambi di Crespellano che hanno scioperato per otto ore e la Ducati motor dove i lavoratori hanno incrociato le braccia per un’ora, in uscita dall’azienda. Quasi al 100% in tutti i casi le adesioni dei lavoratori stranieri, appoggiati, alla Ducati ad esempio, «da oltre il 50% degli italiani», come riferisce Walter Garau, delegato Fiom della “rossa” di Borgo Panigale.
Piazza del Nettuno era gremita di gente, fin dalle 16, un’ora dopo l’inizio dello sciopero: almeno 4-5mila persone, che nel corteo sono diventate almeno 10mila, colorando la città di giallo, il colore scelto dagli organizzatori per questa manifestazione. Tesa ma molto soddisfatta la coordinatrice del movimento bolognese Cécile Kyenge Kashetu, medico oculista congolese e prima migrante a far parte del
direttivo regionale del Pd. «Per impedire i ricatti sul lavoro bisogna estendere la cittadinanza italiana a tutti i lavoratori», ha detto dal palco. Molti gli interventi che si sono susseguiti dal microfono aperto in piazza. Quelli dei delegati Fiom delle aziende che hanno ribadito il legame tra lavoratori stranieri e italiani: «Questo sciopero non è solo dei
migranti ma di tutti, perché è contro una legge la Bossi-Fini e un governo razzista e fascista che vuole indebolire la classe operaia», ha gridato il delegato della Bonfiglioli Gian Placido Ottaviano.
Molte le associazioni che hanno aderito allo sciopero, tra cui anche quella dei medici di Sokos che assistono e curano i migranti clandestini. Tanti anche i lavoratori precari e gli studenti medi che, ancora “caldi” di occupazioni contro la riforma Gelmini, hanno dato il loro sostengo ai migranti e organizzato nelle scuole in questi giorni momenti di riflessione sulla presenza degli stranieri in Italia.

l’Unità 2.3.10
Un giorno di marzo per capire cosa siamo diventati noi
Una occasione per riflettere sulle notti della Repubblica popolate da ominicchi, mafiosi, gente disposta a tutto Mentre dall’altra parte brillano come fari i palloncini gialli
di Giuseppe Provenzano

Sì, «loro», gli immigrati... Ma ieri, Primo Marzo – scriviamolo così, d’ora in poi – è stata l’occasione buona per capire come siamo diventati «noi». Sì, gli italiani.
Ieri, a Palermo i funerali di un uomo, avvocato penalista e politico, che viene massacrato per strada. Non ucciso, finito a colpi di mazza. Ammazzato. Efferatezza ed etimologia. Della decina d’uomini che hanno visto, solo tre hanno parlato. Gli altri, sono andati via. Tre su dieci, ecco i numeri della nazione. La procura, ancor prima del colpevole, cerca i testimoni, e dice: dalla mafia alla vendetta personale, nessuna pista è esclusa. Ecco, tutte le piste, tutte le strade della notte della Repubblica. Sempre più buie, buone a massacrare o tacere. Tutte le strade che portano a Roma.
Siedevano in Parlamento, ancora ieri, sui banchi del Senato, un uomo condannato per aver favorito Cosa Nostra e un altro che risulta schiavo della ‘ndrangheta. Totò Cuffaro e Nicola Di Girolamo. Uno dei due, almeno, ha avuto la decenza (anche fosse semplice tempismo) di dimettersi. L’altro, rappresenta ancora la nazione. Sarà la suggestione, ma mi è sembrata di trovarla nei racconti sulla vita di Gennaro Mokbel l’autobiografia della nazione al tempo delle «cricche»: delle «logge», delle «cosche»... Gli «uomini soli al comando» non esistono, neanche quando fanno di tutto per darlo a vedere. C’è sempre una «cricca» da servire, nell’Italia dei cortigiani.
Il momento più temibile della fine di Berlusconi – e di ogni Berlusconi mascherato – sarà proprio la reazione e la sorte della corte di ominicchi che si raccoglie intorno al corpo del Potere: a raccogliere briciole sottobanco, poltrone di talkshow, affidamenti diretti.
C’è una frase memorabile, che salta fuori da queste settimane italiane di intercettazioni: «Quanti cognati»! Eccoli, gli italiani del 28 febbraio e del 2 marzo: quelli soliti di Flaiano, «un popolo di santi, di poeti, di navigatori, di nipoti, di cognati». L’Italia delle “Famiglie” mafiose, massoniche, affaristiche, politiche non «meridionalizzata» (come vorrebbe, con un filo insospettabile e forse inconsapevole di razzismo, l’ultimo libro di Aldo Cazzullo) ma fin troppo uguale a se stessa, immutata.
E ora, qualcuno vuole farci venire la paura dello straniero, delle etnie. Davvero, fanno paura i disperati che tornano a Rosarno, per un’altra stagione all’Inferno. Fa paura che a poche decine di chilometri, il boss di Isola di Capo Rizzuto organizzava la raccolta di voti per Di Girolamo in un quartiere turco di Stoccarda. C’è una prossimità inquietante nelle nostre infamie. Ci sono infamie che sconfinano: italiani all’estero. S’è annullata ogni distanza tra tutte le piste della notte d’Italia: Rosarno e Capo Rizzuto, il quartiere turco e il Parlamento.
Ieri, Primo Marzo 2010, guardandosi allo specchio, alcuni italiani sono scesi in piazza. Qualcuno a dire «grazie«. Qualcuno a chiedere «aiuto». Qualcuno semplicemente a liberare un palloncino giallo. Splendeva, in mezzo a tutto questo nero.

l’Unità 2.3.10
Da Milano a Napoli, le piazze degli «invisibili» sono gialle
di Giuseppe Vespo

La giornata di sciopero è nata quasi spontaneamente, in rete, su Facebook, sulla scia del tam-tam che dalla Francia è passato all’Italia, alla Spagna, alla Grecia. Obiettivo raggiunto, manifestazione riuscita.

Anà laistu ‘ansaria: «Io non sono razzista», ripete la signora Bruna Canova, una dei tanti italiani arrivati in piazza Duomo a Milano per partecipare alla manifestazione conclusiva della prima giornata di sciopero degli stranieri. Lei, che non è più
una ragazzina, si fa dare una mano da Rita, mantovana trasferita qui per studiare mediazione linguistica. Seguono insieme la lezione di arabo organizzata dai manifestanti con i ragazzi del centro sociale «Il Cantiere».
SENZA DI NOI
È una delle tante iniziative di questo «Primo marzo: un giorno senza di noi», lo sciopero degli stranieri che ha portato a sfilare in sessanta città migliaia di persone di tutte le nazionalità. Insieme contro il razzismo e la xenofobia, e per far pesare il valore, anche economico, del contributo dei migranti all’Italia. Alle 18,30 a Milano, come in tutte le piazze, centinaia
di palloncini gialli colore simbolo di questa giornata si levano al cielo. Davanti al Duomo un enorme striscione chiarisce: «Migrare non è un reato», mentre un gruppo di africani balla al ritmo di «Bouniou Mêro, Bouniou Djapanté, Lou Yale Toudoul, Doumana Amtèye», che più o meno vuol dire: «Non litighiamo, stiamo uniti insieme», traduce Joshep,
trent’anni, senegalese, metalmeccanico a Rozzano. Lui è uno dei tanti che oggi non sono andati al lavoro, uno dei 4 milioni di immigrati che contribuiscono al dieci per cento del pil italiano e a sostenere le pensioni, che pagano sei miliardi l’anno di tasse e sette di contributi.
Anche questo vuol dire Italia senza migranti: fonderie e cantieri svuotati della metà, campi privi di manodopera dice Coldiretti scuole e università private di intelligenze. Come quelle di Edith, Larissa e Raoul, tre fratelli del Burundi che studiano qui Biotecnologie industriali ed economia. Pagano la retta delle università private Cattolica e Bocconi con borse di studio e lavoretti.
OBIETTIVI
La giornata di sciopero è nata quasi spontaneamente, in rete, su Facebook, sulla scia del tam-tam che dalla Francia è passato all’Italia, alla Spagna, alla Grecia. Obiettivo raggiunto, manifestazione riuscita. Ora viene il tempo della politica, dice Stefania Ragusa, che insieme a Nelly Diop, imprenditrice senegalese a Milano e Dai-
marely Quintero, sindacalista Cisl cubana, ha organizzato l’evento. «È presto per i bilanci racconta la presidente del comitato Primo marzo Tuttavia l’iniziativa è riuscita. Siamo riusciti a creare un sacco di contatti. Adesso si apre la parte politica, si tratterà di scegliere dei contenuti e di lavorare su quelli».
Tante le associazioni che hanno partecipato. Da Amnesty all’Arci, da Legambiente alle Acli, a Emergency. E poi i partiti, il Pd, l’Idv, il Pdci, Prc. Uno sciopero «interessante», anche per il Pdl. Il corteo più nutrito a Napoli, ventimila i manifestanti. Qui c’è stata anche qualche tensione, dopo che un disoccupato ha dato uno schiaffo all’assessore alle Politiche sociali del Comune Giulio Riccio. Per il resto, manifestazioni pacifiche in tutte le piazze. A Brescia erano in diecimila, fuori dalle fabbriche per iniziativa della Fiom-Cgil. Mentre a Sesto San Giovanni la Lega ha organizzato una contromanifestazione. A Roma in cinquemila hanno sfilato fino a piazza dell’Esquilino, passando per la multietnica piazza Vittorio. Il corteo è stato aperto da una delegazione di stranieri di Rosarno, con lo striscione: «Troppa intolleranza, nessun diritto».
«Il successo della mobilitazione è una sfida alla politica perché faccia la sua parte per governare in modo lungimirante il cambiamento», ha commentato Rosi Bindi, presidente dell’assemblea nazionale del Partito democratico. «L’Italia ha aggiunto è un paese fatto di tanti colori e tante lingue. I limiti della Bossi-Fini sono del tutto evidenti e le norme del pacchetto sicurezza hanno aggravato la situazione».

l’Unità 2.3.10
Tutelati dall’art. 3 della Costituzione ma non dalle leggi

Dall’intervento di Ernesto Ruffini nel corso della manifestazione viola di sabato 27 febbraio, a Roma. «Siamo qui per ricordare la nostra Costituzione a tutti quelli che pensano di poterla cancellare senza che nessuno di noi se ne accorga, ma noi non faremo finta di non vedere. I nostri Costituenti ci hanno consegnato quelle che avrebbero dovuto essere le ragioni del nostro vivere insieme. I primi articoli della Carta rappresentano il nostro comune biglietto da visita e l’art. 3, quello che riconosce che le persone sono tutte uguali davanti alla legge, è certamente la più bella presentazione per un moderno Stato democratico. Uguali senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È un principio che è stato scritto per i più deboli, per le minoranze,
per tutelare i pochi e non i molti. Vuol dire che gli stranieri hanno i nostri stessi diritti fondamentali, mentre viviamo in un Paese in cui è stato introdotto il reato di immigrazione clandestina. Un Paese dove certi pifferai magici vorrebbero farci credere che i principi di uno stato occidentale si difendono regredendo pericolosamente verso forme primordiali di razzismo. (...) L’art. 3 della nostra Costituzione
vuol dire questo e molto altro ancora e noi abbiamo il preciso dovere di riappropriarci del nostro futuro e dei nostri sogni perché, come diceva Gramsci, «Quello che accade, accade non tanto perché una minoranza vuole che accada, quanto piuttosto perché la gran parte dei cittadini ha rinunciato alle sue responsabilità e ha lasciato che le cose accadessero». Non facciamolo noi e riappropriamoci finalmente della parte migliore del nostro passato.

Repubblica 2.3.10
Immigrati, il giorno dello sciopero "Senza di noi l´Italia si ferma"

Cortei in 60 città, 300 mila in piazza. Tensioni a Torino
di Vladimiro Polchi

ROMA - L´Onda Gialla parte dal centro di Milano, rimbalza a Roma, arriva fino a Palermo. «Non siamo criminali, non siamo clandestini, ecco a voi i nuovi cittadini». Lo slogan viaggia sul tam tam dei tamburi delle tante manifestazioni: è il "Primo marzo. Una giornata senza di noi", lo sciopero degli immigrati. Sessanta città italiane coinvolte, 50mila membri su Facebook, «trecentomila» cittadini italiani e stranieri in piazza, tutti col colore giallo. L´obiettivo? Dire stop al razzismo e reclamare più diritti per i 4,8 milioni di immigrati che lavorano in Italia.
Astensioni dal lavoro, sciopero dei consumi, cortei, sit-in si sono susseguiti in tutta Italia, in contemporanea con Spagna, Grecia e Francia, dove è nato il movimento "24 ore senza di noi" e dove al ritmo di «rispetto e dignità per gli immigrati» si è scesi in piazza da Parigi a Tolosa. In Italia, la giornata auto-organizzata su Internet (www.primomarzo2010.it) ha visto l´adesione del Partito democratico, Idv, Prc e Socialisti e di Amnesty, Arci, Acli, Legambiente, Emergency, Amref, Cobas, Fiom. I sindacati hanno partecipato in ordine sparso e non hanno proclamato uno sciopero nazionale. Solo la Cisl ha formalizzato la sua contrarietà alla manifestazione. Le astensioni dal lavoro sono state dunque a macchia di leopardo: a Brescia, secondo Fiom-Cgil 10mila persone sono scese in piazza e in 50 aziende hanno scioperato. «Il tam tam ha funzionato - sostiene Cristina Sebastiani, una delle organizzatrici italiane - in tutta Italia hanno manifestato in trecentomila». Non sono mancati momenti di tensione: a Torino un irregolare è stato arrestato dalla polizia mentre andava al corteo, scatenando la rabbia dei suoi compagni.
Il corteo più grande è stato a Napoli dove a sfilare sono scesi (secondo gli organizzatori) in 20mila. In piazza le maggiori comunità straniere, dal Bangladesh al Burkina Faso, dal Marocco al Senegal. A Bologna hanno sfilato in 10mila. Uno striscione giallo con la scritta "Migrare non è reato" ha aperto il corteo a Milano, con duemila partecipanti. Emanuel, 34 anni del Camerun, dipendente di un grande albergo, ha raccontato di essere a Milano da sei anni, ma «in metropolitana vengo ancora guardato con disprezzo: il punto è che non veniamo considerati cittadini». A Roma, centinaia di rifugiati e richiedenti asilo, insieme ai volontari di Legambiente, hanno ripulito il parco del Colle Oppio. Un gruppo di immigrati ha manifestato sotto la sede dell´Inps, chiedendo la restituzione dei contributi versati in Italia a quei lavoratori che decidono di tornare in patria. In testa al corteo del pomeriggio, per le via della Capitale hanno sfilato gli immigrati di Rosarno. A Trieste, i manifestanti hanno cancellato le scritte razziste dai muri della città.
Il vescovo di Terni, Vincenzo Paglia, parla di «una manifestazione significativa, perché mostra quella indispensabile integrazione e convivenza che semina il futuro della nostra società». Mentre la Lega Nord annuncia per oggi, a Sesto San Giovanni, una contro-manifestazione in risposta allo sciopero degli immigrati.

Repubblica 2.3.10
Nel quartiere teatro, due settimane fa, di scene di guerriglia: "Non è un ghetto"

Milano, l'altra faccia di via Padova "Siamo clandestini, ma lavoriamo"
In tanti sono andati al corteo di piazza Duomo: perché la tv dice che siamo tutti ladri?
Ma qualche vecchio residente dice: erano meglio i criminali italiani, si stava più tranquilli
di Piero Colaprico

MILANO - Via Padova «non è un ghetto, né una bomba a orologeria. Pochi giorni fa al Centro di cultura islamica c´è stata una riunione a cui hanno partecipato quasi cinquanta associazioni di quartiere», dice la signora Grazia, che ci abita da quarant´anni. Via Padova è la via dove anche ieri c´erano poliziotti, carabinieri ed esercito. Hanno controllato a tappeto una novantina di appartamenti: i morti e i feriti e gli inseguimenti e le auto rovesciate non passano invano.
Ma dalle stesse strade e piazze ieri, mentre i controlli di polizia proseguivano, sono partiti anche non pochi magrebini, peruviani, centroafricani, sudamericani. Sono andati in piazza Duomo per la manifestazione, lo "sciopero nazionale", questo primo passo: mosso non si può dire in quale direzione, ma comunque mosso. «Io lavoro in un ristorante, faccio i mestieri in un condominio, divido casa con due badanti, non mi va di essere dipinta come una criminale perché non ho il permesso di soggiorno», racconta Melinda, che sta per fare causa ai datori di lavoro che la tengono «in nero». E come lei, assicura, in via Padova sono moltissimi: clandestini, ma con un lavoro. «Non siamo criminali come dice la tv», aggiunge Khaled, piastrellista con dittarella.
Forse per comprendere via Padova bisogna partire da una delle sue strade laterali meno battute, via Termopili. Qua ancora ricordano che in una casa signorile abitava in affitto Lucio Battisti, «gentilissimo, pagava il caffè a tutto il bar, forse per farsi perdonare di quando suonava la batteria con le finestre aperte». E quelli «erano i negozi di Elio il carbonaio, là c´era il calzolaio, l´elettricista, il macellaio», ma ora i negozi non ci sono più. E non c´è più nemmeno l´entrata. Via Termopili è un posto da sociologia metropolitana.
Negli ultimi dieci anni sono stati alzati piccoli muri in cemento: la parte alta della ex vetrina si è trasformata in finestra, il banco vendite e il retro sono diventati case e letti, i soffitti alti hanno permesso i soppalchi. Sono diventati case, decine di case simili, molto densamente abitate. A volte da italiani, a volte da intere famiglie arrivare da ogni parte del mondo. «E che dobbiamo fare? Una casa popolare non l´abbiamo, con i disgraziati non ci vogliamo mischiare, o fai così o resti in mezzo alla strada», dice B., un egiziano in Italia da metà degli anni Ottanta.
Tu chiamale se vuoi ristrutturazioni. Ma sono uno stravolgimento, che la giunta di Milano, il centrodestra che pretende di risolvere ogni contrasto con la polizia e le dichiarazioni, ha lasciato passare senza nemmeno rendersene conto. Il vicino mercato comunale (ingresso principale da viale Monza 54) ne paga le spese: è stato abbandonato dalla metà dei commercianti e ha il tetto sfondato dalla pioggia. La clientela è andata assottigliandosi: «Gli stranieri - dice una banconista superstite - da noi non comprano, anzi dicono che se hanno dei soldi in più li mandano a casa loro, mentre gli italiani comprano nei negozi degli stranieri della zona...». Affollati, pieni di cose del mondo, colorati, vivi: «Vuoi mangiare il miglior Khebab di Milano?», chiedono.
In molti, anche stranieri, parlano male di due condomini di via Crespi, ai numeri 10 e 12. Sono abitati da immigrati al 90 per cento: hanno, stando a un vicino, quasi 230mila euro di debiti, e dalle finestre spuntano decine di antenne paraboliche. «Noi - spiega un negoziante italiano, pregando di restare anonimo - vorremmo dare un suggerimento ai politici. Invece di tartassare quelli che lavorano, dovrebbero fare qua un censimento in quelle case. Se non lavori, come mai hai questo telefonino superlusso? Non è che spacci? Sono domande retoriche, io vedo la gente per bene, è stanca, ha la calcina sui vestiti, ma guarda questo. Non vedi a occhio nudo che è un fetente? Rimpiango, sì, rimpiango quando c´erano i criminali italiani. Ti chiedevano il pizzo, ma stavi tranquillo».
Sentire frasi come questa, a Milano, dovrebbe preoccupare più che altrove. Ma in realtà, e questa è l´accusa corale, sembra non preoccuparsi nessuno delle periferie. E nessuno solleva polveroni, soprattutto sotto elezioni. Un esempio di questo silenzio? Basta andare in fondo a via Padova, a Cascina Gobba. Negli anni della cosiddetta «Milano da bere» qua c´era una grande bisca a cielo aperto, ora sta spuntando una moschea, con una sala forse da millecinquecento posti, costruita da fedeli islamici che si sono scocciati dei «non so» del Comune. Si tassano, costruiscono, pregano. E la Lega che non vuole moschee? Dispersa.
Via Padova è forse la metafora collettiva dell´arte d´arrangiarsi, della navigazione a vista. E, dicono molti papà italiani, del «si salvi chi può, i nostri figli da qua se ne stanno andando tutti». Ecco perché in piazza Duomo c´erano stranieri e italiani arrivati da via Padova: per dire «noi ci siamo». Per portare lo striscione: «Ma quali criminali, ma quali clandestini, ecco i nuovi cittadini».

il Fatto 2.3.10
Liste a perdere
Il Pdl fuori di testa denuncia i radicali
di Paola Zanca

Manca meno di un mese alle regionali. Ma più che per i programmi e i candidati queste elezioni le ricorderemo come quelle delle carte bollate. Ricorsi, denunce, memorie difensive e testimoni. Dal Lazio alla Lombardia, passando per la Puglia, ovunque si voti c’è di mezzo un avvocato.
A Roma si è perfino finiti nel penale. Il Pdl escluso dalla competizione per non aver presentato in tempo le liste prima ha provato ad appellarsi a Napolitano. E il Presidente ha risposto che “spetta solo alle competenti sedi giudiziarie la verifica del rispetto delle condizioni e procedure previste dalla legge”. Poi ha provato a fare ricorso all’Ufficio centrale regionale. Rigettato. Ora aspetta altre 48 ore per capire se il secondo ricorso (“più circostanziato”) avrà un esito migliore. Nel frattempo tenta la strada delle denunce: accusa di violenza privata alcuni “militanti del partito radicale” (ancora “da identificare”) perché si sarebbero “buttati per terra” per impedire ai delegati del Pdl di entrare nella zona di presentazione delle liste. E denuncia per abuso d'ufficio i componenti dell'ufficio centrale circoscrizionale – il luogo dove si presentavano le liste – per aver “impedito il legittimo esercizio del diritto politico di voto con vantaggio di una compagine politica e grave danno dell'altra”. Il verbale di consegna delle liste non c’è, ma gli avvocati del Pdl dicono di avere dalla loro “tre dati incontrovertibili”: “I nostri delegati erano in Tribunale già alle 11 e mezza, li hanno registrati all'ingresso”. “Il cartone con i documenti era appoggiato fuori dalla porta”. “Il cancelliere ha delimitato l'area successivamente, proprio mentre i nostri delegati erano fuori”. Grazia Volo, il legale che per il Pdl sta curando l'azione penale, sostiene che quando i delegati sono arrivati in Tribunale avrebbero dovuto ricevere un foglio con il loro numero nella lista d'attesa, e con specificata la chiusura dei termini alle ore 12. Invece no, dice l'avvocato Volo, i delegati sono stati abbandonati in quel “corridoio dei passi perduti”: “Si stava lì davanti a passeggiare senza meta – ricostruisce la Volo – quando a un certo punto, il presidente dell'Ufficio ha indicato quegli orribili marmi da obitorio intercalati da cordoni di ottone e ha detto 'Chi è fuori di lì non presenta la lista'. Una pratica mai vista”. “Io non ce l'ho con i Radicali – aggiunge la Volo Hanno fatto il loro lavoro: se gli riesce questo colpo hanno fatto bingo. Sono gli uffici che hanno abusato dei loro poteri, si sono fatti indurre in errore dalla protesta inscenata dai Radicali”.
La tesi su cui si regge il ricorso, invece, è che l'Ufficio avrebbe dovuto accogliere i documenti e casomai, poi, rigettarli perché presentati in ritardo. “Qui – dice Ignazio Abrignani, l'avvocato e senatore Pdl che sta seguendo il ricorso – si tratta di oltre un milione di cittadini che non troverebbero sulla scheda elettorale il simbolo che amano”. Se il ricorso non verrà accolto, andranno al Tar, e avanti, fino al Consiglio di Stato. Se a Roma “il processo” è cominciato, a Milano sono convinti che sia già finito. Alle14e39dioggi,perRoberto Formigoni – candidato (per la terza volta e dunque allo stato ineleggibile) alla presidenza della Lombardia – scade il tempo per presentare ricorso contro l'esclusione della lista che lo sostiene. La Corte di Appello di Milano ieri ha deciso di non ammettere alle elezioni la Lista per la Lombardia: su 3935 firme raccolte – ne servono minimo 3500 – 514 non sono valide. Formigoni, dunque, sarebbe fuori. Perché se è irregolare il suo “listino”, di conseguenza perderebbero di validità tutte le liste collegate. Secondo il responsabile della campagna elettorale di Formigoni, Mario Mauro, però, si tratta di un falso allarme: “Più sentenze del Consiglio di Stato – ha spiegato – rendono irrilevanti e non più necessarie alcune specifiche che la Corte di Appello di Milano ha ritenuto indispensabili. Stiamo perfezionando il ricorso e la Corte d'Appello non potrà che accettarlo”.
Anche Adriana Poli Bortone in Puglia ha le sue gatte da pelare. La lista che la sostiene – IoSud-Mpa – è stata esclusa dalle elezioni a Foggia e provincia. Anche qui ci sarebbero irregolarità nelle firme raccolte. La Poli Bortone ha già fatto ricorso, furibonda perché a lei hanno fatto le pulci, mentre "la legge elettorale Palese-Vendola approvata il 31 dicembre 2009 consente che un qualsiasi consigliere regionale, per il solo fatto di essere stato consigliere regionale possa presentare una lista con una qualsiasi denominazione”.
In Piemonte, invece, il candidato del Pdl e della Lega Roberto Cota se la prende con gli omonimi. A Torino ci sono “due false liste, una chiamata Cota. l’altra Pdl”, denuncia. “Le elezioni si combattono a viso aperto, non con i trucchetti”. E fa ricorso pure lui.
Tutto dovrà risolversi entro il 13 marzo. In quella data (che cade il quindicesimo giorno prima del voto) vanno affissi all'albo pretorio i manifesti con i nomi dei candidati alla carica di consigliere regionale, con i relativi simboli. A meno che il govern, con un decreto, non decida di far slittare tutto. Ma, nemmeno nel Pdl, nessuno ci crede.

La Repubblica Roma 2.3.10
"Radicali violenti? No, abbiamo le prove”
di Chiara Righetti

Mi pare che i dirigenti del Pd del Lazio abbiano fatto un gran pasticcio. Ora chi deve decidere decida. Ma nel rispetto della legge». Alla Casina Valadier per presentare la "lista del presidente", Emma Bonino torna quasi a malincuore sul tema caldo delle ultime ore, l'esclusione della lista Pdl. E prima di uscire in terrazza per la foto di gruppo sotto la pioggia aggiunge «solo una frase, sull'accusa di violenza addebitata ai radicali: la respingo con forza, non è vero. Ci sono prove fotografiche, testimonianze. Ma la nostra scelta di nonviolenza non voglio vederla sporcata o messa in dubbio: da qui la decisione della denuncia per calunnia». «Qui c'è una parte della storia e del futuro dell'Italia», aggiunge parlando del suo listino. Un elenco di 14 nomi per cui la legge «impone la parità fra sessi e la presenza delle province, ma entro questi paletti sono possibili molte opzioni. Noi abbiamo voluto aprire ad altri settori e professionalità, a persone che possano favorire la relazione fra società e istituzioni. Più facile a dirsi che a farsi, macredo sia una bella squadra, con un progetto, non un duplicato dei partiti». Una squadra che va «dai 27 anni di Vincenzo Iacovissi ai 68 del neuropsichiatra Pier Luigi Scapicchio. Da Latina, col presidente Acli Enzo De Amicis, a Viterbo con lo storico medievista Alfio Cortonesi. Dal giornalismo all'ambientalismo vissuto». E «la cui parte femminile mi soddisfa particolarmente: con Bia (Sarasini) siamo passate insieme lungo trent'anni di storia italiana; poi Marinella (D`Innocenzo), Luigina (Di Liegro). Nessun cambiamento avviene con facilità, ma da loro mi sento ulteriormente rafforzata». Il clima è di festa malgrado i mal di pancia che ancora agitano il Pd. «Non c'èstata volontà di escludere qualcuno a priori; mi auguro che la scelta della mozione Marino di uscire dagli organi del partito rientri, c'è bisogno di organizzare il lavoro», prova a mediare il segretario Mazzoli. E nel ribadire la scelta di aprire alla società civile, sottolinea che «il vero titolare dell'operazione è stata Emma Bonino». Ma l'amarezza trapela forte nella lettera di Luisa Laurelli ai suoi elettori: «Il mio partito mi ha messo fuori della porta! ». L`esclusa mariniana aggiunge: «In questi anni, alla scatola vuota che è il Pd e alla miseria cui è ridotta la politica, ho cercato di contrapporre etica, coraggio, spirito di servizio» ma «non è stato sufficiente: sono l'unico consigliere uscente non ricandidato».

Il Sole 24 Ore 2.3.10
Per ora il tema della campagne è il rispetto delle regoile
di Stefano Folli

C'è una differenza di fondo fra il caso di Roberto Formigoni in Lombardia e il pozzo nero in cui è precipitata la lista del Pdl nel Lazio. Là si tratta di firme solo in parte irregolari ed è assai plausibile che il ricorso del governatore della Lombardia potrà essere accolto, sulla scorta di passate sentenze del Consiglio di Stato. Qui invece il vicolo è davvero cieco e fino a ieri sera nessun giurista era riuscito a suggerire una via d`uscitaper restituire al partito di Berlusconi il suo posto sulla scheda. Tuttavia le due vicende hanno un punto in comune. Sono il prodotto di una battaglia politica che i radicali hanno avviato, facendo come al solito molto rumore, per affermare il rispetto delle regole. Ed è stato come infilare un bastone dentro un alveare. Si è visto subito che il sistema elettorale si regge quasi ovunque su di una legislazione tanto barocca quanto disattesa. Una lunga catena fatta di piccole e grandi violazioni, o se si vuole di piccoli e grandi soprusi rispetto ai quali chi dovrebbe controllare tende a chiudere un occhio. Finchè qualcuno - per pignoleria o piuttosto perchè ha deciso di creare il caso politico - decide di mettersi di traverso. E il sistema rischia di collassare proprio perchè non è abituato a tale, chiamiamolo così, controllo di legalità. Le conseguenze sono quelle che vediamo in queste ore. Nessuno sa come regolarsi e le reazioni sono talvolta grottesche. In Lombardia, per la verità, Formigoni ha saputo mantenere i nervi saldi e le pronunce del Consiglio di Stato gli permetteranno di raggiungere la riva. Del resto, sarebbe francamente assurdo se il governatore e l'intero centrodestra che lo sostiene da anni fossero esclusi dal voto. Sarebbe un insulto al buon senso. Tuttavia la grande paura di ieri, a parte le ironie di Bossi, a qualcosa servirà: a dimostrare che le leggi, finchè ci sono, vanno rispettate senza eccezioni. E questo riguarda la Lombardia come tutte le altre regioni: comprese quelle governate dalla sinistra, dove pure le regole elettorali vengono spesso osservate con una certa approssimazione. E con quel pizzico di arroganza con cui i partiti maggiori, a cominciare dal Pd, guardano alle forze minori. Il cuore della questione è comunque nel Lazio. Qui la reazione del Pdl è alquanto scomposta. Gridare alla «democrazia minacciata» non è molto credibile, visto che il centrodestra può solo prendersela con se stesso. Tanto meno lo è denunciare i radicali, accusandoli di avere usato violenza ai galoppini del Pdl. È chiaro che si tratta di una mossa disperata, alla ricerca di un appiglio purchessia per indurre la magistratura al compromesso. Sarebbe meglio invece che si riconoscessero gli errori commessi, senza l`inutile appello al Quirinale. Se c'è un problema di fondo che investe il rispetto delle regole, forse è da qui che si dovrebbe ripartire. Ma la stagione elettorale non è il momento migliore per questo genere di ammissioni. Ecco perchè l`alveare impazzito farà danni ancora a lungo. Una situazione al limite del paradosso, su cui Emma Bonino costruisce un pezzo importante della sua campagna. I radicali sono riusciti a mettersi al centro della scena, benchè Renata Polverini abbia i mezzi per conquistarsi il consenso anche senza il concorso della lista berlusconiana. Resta il fatto che la politica a tutti i livelli, al centro come nelle regioni e negli enti locali, ha bisogno di un bagno di legalità. Senza strillare ai «complotti». E fa, bene Maroni a dire che il governo non interverrà.

Il manifesto 2.3.10
il danzatore la femminista, la giornalista
il listino tutto polemiche e molta Emma

Si riuniscono tutti alla nobile e un po' decaduta Casina Valadier, sul Pincio, dalle cui vetrate si domina il più bel barocco romano, Cupolone in fondo. II caso vuole che i quattordici del listino del centrosinistra laziale vengano presentati nel giorno in cui le possibilità di vincere - causa le memorabili papere del Pdl nella presentazione delle liste - si fa un po` meno irraggiungibile. Visto così al netto dei morti e feriti lasciato per strada - il consiglio regionale avrebbe il fascino semplice ed elegante del danzatore Raffaele Paganini, étoile mondiale, «mi ha chiamato Emma, non la conoscevo, le ho detto sì». O l'impegno di Luigina Di Liegro, nipote di Don Luigi, già assessora alle politiche sociali della giunta uscente. C'è la femminista Bia Sarasini (sinistra ecologia e Libertà), la giornalista già segretaria di Stamparomana Silvia Garambois (Federazione della sinistra), il docente di storia Medievale Alfio Cortonesi, il neuropsichiatra della Cattolica Pier Luigi Scapicchio (Pd area molto cattolica), una giovane studente area Italia dei valori del comitato per lo scioglimento di Fondi. Emma Bonino è soddisfatta: «Qui c`è una parte della storia e del futuro del'`Italia». «Questo listino allarga per la prima volta i confini stretti della coalizione, e la verità è che in gran parte la responsabilità è di Emma», dice Riccardo Milana, il capo del comitato elettorale, Pd, che è anche un po` come scaricare la responsabilità politica finale sulla candidata, che in effetti ci ha tenuto ad assumersela tutta. Alla fine infatti i più `targati` nel listino sono proprio i radicali, come Michele De Lucia (il tesoriere di Radicali italiani) e Antonella Casu (l`ex segretaria), Non mancano infatti gli scontenti. Durante la presentazione arriva sui cellulari una lunga e amarissima lettera della consigliera uscente Luisa Laurelli, area Marino, che lascia la politica se la prende col suo partito, che prima le ha promesso un posto nel listino e poi le ha «chiuso la porta in faccia». Per questa ragione la mozione ha deciso di lasciare gli organismi di partito, nel Lazio. «Capisco l`amarezza», si difende il segretario regionale Alessandro Mazzoli, «è stata fatta una scelta che ha riguardato tutte le forze della coalizione: il titolare vero dell'intera operazione è Emma Bonino. E' stato fatto uno sforzo su figure che non fossero di stretta provenienza dei partiti. Una impostazione giusta e opportuna». Scontento dai Verdi, esclusi anche loro. Qualche malumore serpeggia anche per Emma Bonino "asso pigliatutto": a capo del listino e della lista Bonino-Pannella, un po' a scapito della lista civica per Bonino presidente, capitanata da Lidia Ravera.

«il tentativo di lanciare un’opa sull’elettorato a sinistra del Pd, in una competizione con Bertinotti prima e con Vendola poi che lascia alle ragioni e agli obiettivi liberali un unico posto: l’archivio»
Il Velino.it 2.3.10
Radicali manettari? Peggio, assorbiti

Roma, 1 mar (Velino) - Lasciamo per un istante da parte la querelle sulle liste nel Lazio, e concentriamoci su una questione di contenuti politici.
In particolare, ha destato stupore in alcuni osservatori la presenza di Emma Bonino e Marco Pannella, sabato scorso, alla cosiddetta manifestazione-viola, animata da inni manettari e sguaiate urla giustizialiste. Per la verità, a ben vedere, non si tratta di un passo falso isolato, ma di una conseguenza naturale della linea politica sempre meno liberale scelta da Via di Torre Argentina da un paio d’anni, e su cui si determinò - tra l’altro - l’insanabile rottura con chi scrive. (segue)
Il tradizionale atlantismo in politica estera, l’eredità più profonda e lungimirante del Mondo di Pannunzio, è stato improvvisamente (e improvvidamente) rovesciato dalle campagnette recentemente scatenate da Pannella contro Blair e Bush: attacchi, quelli di Pannella, che non hanno trovato sponde neppure nei settori più marginali ed estremisti delle sinistre inglesi e americane. Il liberismo in economia è stato di fatto dimenticato: e del resto, dopo il sostegno acritico alle finanziarie tassa-e-spendi di Prodi e Visco, non c’era da aspettarsi altro. Peraltro, in quei mesi, era proprio la Bonino a subire la vera e propria controriforma delle pensioni, che - caso più unico che raro nell’Occidente avanzato - ha anticipato l’età pensionabile, mettendo buona parte dei costi a carico delle generazioni più giovani. Resterebbe - almeno - un dna garantista: ma, tra piazzate in viola ed elogi a Genchi (è successo anche questo negli ultimi mesi), si è giunti alle contraddizioni che sono oggi sotto gli occhi di tutti. E in fondo, la stessa sbandierata battaglia per la legalità appare ora scarsamente credibile: per un verso si grida contro il “regime”, e per altro verso si sono accettati i seggi alla Camera e al Senato concessi, sovranamente “ottriati”, dal Partito democratico, con relativa intesa - così raccontano le cronache di quei giorni - sulla corrispondente quota di rimborso elettorale.
Come si spiega tutto questo? Sul lato-Bonino, con il desiderio, per lei naturale, di agire come una accomodata e accomodante “indipendente di sinistra”. Sul lato-Pannella, con il tentativo scombiccherato di lanciare un’opa sull’elettorato a sinistra del Pd, in una competizione con Bertinotti prima e con Vendola poi che lascia alle ragioni e agli obiettivi liberali un unico posto: l’archivio.

il Fatto 2.3.10
“No alle coppie di fatto”: i vescovi emiliani danno i voti
Stabiliti i valori non negoziabili: aborto, procreazione assistita, testamento biologico
di Chiara Paolin

Dopo l'affaire Delbono e le polemiche sulla legittimità della candidatura ter per Vasco Errani, adesso il Pd se la deve vedere anche con i vescovi dell’Emilia Romagna. I quali hanno preso carta e penna per far sapere agli elettori qual è il dovere dei bravi cattolici. Un comunicato ufficiale della Diocesi di Bologna, pubblicato sulle pagine locali dell'Avvenire, spiega che la Chiesa non fa politica, ma il fedele deve votare con grande prudenza, affidandosi al consiglio di un esperto. Dice infatti la nota: "Ogni elettore che voglia prendere una decisione prudente, deve discernere nell’attuale situazione quali valori umani fondamentali sono in questione, e giudicare quale parte politica dia maggiore affidamento per la loro difesa e promozione. L’aiuto che i sacerdoti devono dare quindi consiste nell’illuminare il fedele perché individui quei valori umani fondamentali che oggi in Regione meritano di essere preferibilmente e maggiormente difesi e promossi, perché maggiormente misconosciuti o calpestati. Il Magistero della Chiesa è riferimento obbligante in questo aiuto al discernimento del fedele". Ma come, e il Concordato del 1984 che vieta espressamente ai sacerdoti di influenzare l'elettorato? Ha la sua giusta menzione: "Il sacerdote deve astenersi completamente dall’indicare quale parte politica ritenga a suo giudizio che dia maggior sicurezza in ordine alla difesa e promozione dei valori umani in questione. Questa indicazione infatti sarebbe in realtà un’indicazione di voto". A questo punto l'elettore cattolico ha davvero bisogno di un'illuminazione divina per intendere il consiglio del prete indovinando per proprio conto il simbolino giusto da sbarrare sulla scheda. Franco Grillini, candidato governatore per l'Idv, non ha dubbi: "Nel documento si parla di valori non negoziabili come se i partiti fossero del tutto privi di valori e ideali. E non avessero essi stessi valori non negoziabili. Si tratta di un'ingerenza inaccettabile". I punti cardine del decalogo vescovile si legano alla stretta attualità. Le unioni di fatto, specie omosessuali, non possono trovare posto nella civile convivenza: il primo firmatario, l'arcivescovo di Bologna, Cardinale Carlo Caffarra, ha già avuto modo di chiarire il concetto dichiarando inaccettabile la norma regionale che dallo scorso 1 gennaio prevede consistenti diritti a favore delle coppie non sposate. Segue la condanna dell’aborto e delle tecniche per la procreazione, il no al testamento biologico e al diritto sul fine vita, l’importanza di investire su scuola e cultura cattolica per arrivare alla promozione della pace e al rispetto del creato. Insomma, soddisfare le alte sfere ecclesiastiche sarà davvero un bell’impegno per chi si candida a governare. Giancarlo Mazzuca, scelto inizialmente dal Pdl per sfidare Errani e poi spostato sulla competizione per il Comune di Bologna, ne sa qualcosa: “Nei mesi scorsi avevo confrontato le mie idee con Caffarra. Ormai alcuni diritti sono socialmente acquisiti, ma bisogna fare attenzione a non creare disuguaglianze. Le coppie di fatto, per esempio. Se due studenti vanno a convivere, con questa legge possono chiedere una casa popolare dopo due anni, e magari sorpassare in graduatoria una famiglia. Certo stavolta i vescovi si sono spinti molto avanti. Forse perché, dopo le polemiche pubbliche, ci fu un incontro tra Errani e Caffarra. Il governatore aveva promesso di smussare alcuni aspetti della norma, invece il provvedimento è rimasto identico. E ormai è legge”. Sua eminenza ha reagito così.

l’Unità 2.3.10
«L’Intifada dei luoghi sacri è battaglia per il futuro»
Il rettore dell’Università Al Quds: la rivolta contro il piano israeliano non è fondamentalismo I palestinesi senza Stato difendono l’identità
di Umberto De Giovannangeli

Per una nazione senza Stato, la difesa della propria identità e dei luoghi che l’incarnano acquista una duplice valenza: po-
litica e simbolica. Non si tiri in ballo il fondamentalismo islamico per spiegare le proteste che si stanno propagando da Hebron a Gerusalemme. Alla base vi è un misto di rabbia e dignità di coloro che si aggrappano al passato per difendere il loro futuro». Ad affermarlo è una colomba palestinese: Sari Nusseibeh, rettore dell’Università Al Quds di Gerusalemme Est, considerato, a ragione, il più autorevole intellettuale palestinese.
Professor Nusseibeh, nel suo libro “C’era una volta un Paese. Una vita in Palestina” (Il Saggiatore, 2009), lei chiede: «Al cuore del conflitto israelo-palestinese non c’è forse proprio l’incapacità di immaginare la vita dell’”altro”»?
«Credo fortemente in questo assunto. E mi ritrovo molto in una riflessione che i più grandi scrittori israeliani consegnarono ad un appello all’opinione pubblica e ai governanti d’Israele: c’era scritto che per Israele sarebbe stato meno doloroso cedere delle terre che riconoscere che la creazione del loro Stato nasceva da una ferita inferta al popolo palestinese. È profondamente vero. Per questo considero la colonizzazione culturale non meno grave dell’espropriazione di terre. La pace è innanzitutto riconoscere l’esistenza dell’altro, della sua storia, della sua identità. Riconoscere quanto fosse sbagliata l’affermazione che la «Palestina è una terra senza popolo per un popolo senza terra». Questo, naturalmente, vale anche per noi palestinesi verso Israele. Nel libro riflettevo sul fatto che io ero cresciuto a non più di 30 metri dal luogo in cui Amos Oz aveva trascorso l’infanzia. Quando pensavo all’assenza di arabi nelle esperienze giovanili di Oz, ero costretto a riflettere anche sul modo in cui ero stato cresciuto. Cosa sapevano i miei genitori del suo mondo? Sapevano dei campi di sterminio? Le due parti, ciascuna immersa nella propria tragedia, non erano indifferenti, se non addirittura ostili, alle esperienze dell’altro»? Queste domande a quali conclusioni l’hanno portato?
«A insistere sull’importanza del dialogo dal basso, capace di coinvolgere le università, le scuole, insegnanti e studenti palestinesi e israeliani. La conoscenza dell’”altro” è il miglior antidoto contro il “virus” della demonizzazione».
Questo virus è rintracciabile nella decisione del governo di Benyamin Netanyahu di includere fra i luoghi del patrimonio storico ebraico da tutelare anche due santuari che si trovano in Cisgiordania (la Tomba di Rachele di Betlemme e la Tomba dei Patriarchi di Hebron) considerati Luoghi santi anche per l’Islam?
«Direi proprio di sì. Ed è un virus che nulla ha a che vedere con ragioni di sicurezza, e molto, invece, con una visione messianica che la destra nazionalista israeliana ha d’Israele. Una visione totalizzante che non ammette che un altro popolo rivendichi in Palestina diritti inalienabili, che sono propri di una nazione in cerca di Stato. Una nazione che non rinuncia alla sua storia».
La Tomba dei Patriarchi; la Tomba di Rachele; il Muro del pianto; la Spianata delle Moschee... Cos’è la religione nella tormentata Terrasanta?
«Da entrambi i lati del Muro, la religione è strumento di politica: ma che sia l’Isacco della Torah o l’Ismaele del Corano, Dio impedisce a Abramo di sacrificare suo figlio. È questo il comandamento più vero, quello più disatteso...».
Cosa la spaventa di più dei fondamentalismi che scuotano la sua terra? «È l’assolutizzazione del loro pensiero; l’assenza nel loro vocabolario, etico e politico, di parole come dialogo, compromesso, rispetto. È la bramosia di possesso assoluto. È concepire chi dissente come un traditore».
Nel suo libro “Contro il fanatismo”, Amos Oz fa l’elogio della parola compromesso come “sinonimo di vita”. E afferma che il contrario di compromesso “è fanatismo, morte”. «Condivido, con un’aggiunta:se la pace è un incontro a metà strada, oggi è Israele a dover compiere il tratto maggiore. Perché è il più forte a doversi liberare di un’illusione».
Quale, professor Nusseibeh?
«Quella di poter imboccare una scorciatoia militare – intesa non solo come pratica ma anche come cultura militarista – per risolvere d’imperio la questione palestinese. E lo dice uno che si è battuto a viso aperto contro la deriva armata della seconda Intifada. Fare i conti con la storia significa anche riconoscere da parte israeliana che la ragione principale del sangue versato in questi anni è nell’occupazione dei Territori. Perciò ai miei amici israeliani ripeto sempre che una pace giusta con noi palestinesi non è una gentile concessione che ci fanno ma il più serio investimento che possano fare sul loro futuro».
C’è ancora spazio per una pace fondata su due Stati? «Questo spazio si riduce man mano che si riduce lo spazio territoriale su cui l’ipotetico Stato di Palestina dovrebbe sorgere. In fondo, il disegno perseguito da Netanyahu è lo stesso di molti suoi predecessori: trascinare il negoziato alle calende greche e nel frattempo svuotarlo di ogni significato concreto. Come? Trasformando gli insediamenti in vere e proprie città. E poi dire: come posso cancellarle? Alla fine vorrebbero che i palestinesi si accontentassero di uno Stato-francobollo. E se dovessimo rifiutare, ecco pronta l’accusa: vedete, sono incontentabili».
A proposito di compromessi: tra i nodi da sciogliere c’è quello del diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi... «Israele riconosca che questo è un problema politico e non “umanitario”. Risarcisca innanzitutto la loro storia, ammetta che c’è un fondamento alla Nakba (Catastrofe, così i palestinesi ricordano l’inizio della cacciata dai loro villaggi il 15 maggio 1948, ndr) invece di cancellarla dai libri di scuola degli studenti arabi israeliani. È questa la premessa per trovare un compromesso».

Repubblica 2.3.10
Lo scienziato che non vuole annoiare

di Piergiorgio Odifreddi

"Avoid boring people" è l´ultimo provocatorio libro di James Watson che con Francis Crick scoprì la struttura del Dna. Storie pubbliche e private, incontri e competizioni fra ricercatori E il coraggio del politicamente scorretto
L´incontro con Salvador Dalí che in quadro rese omaggio alla loro scoperta
Arrivarono per primi al traguardo grazie agli errori commessi dagli altri studiosi
A 25 anni era uno dei biologi più noti al mondo. A 34 gli assegnarono il premio Nobel
Quella volta che annunciarono: "Oggi abbiamo scoperto il segreto della vita"

Il 28 febbraio 1953 James Watson e Francis Crick andarono a pranzo al The Eagle, nella Cambridge inglese, e il secondo annunciò ai commensali: «Oggi abbiamo scoperto il segreto della vita». O almeno, questo racconta il primo, che della loro scoperta è diventato lo storico ufficiale, con il suo best seller La doppia elica (Garzanti, 2004): un libro che fece scalpore quando uscì nel 1968, per il modo diretto e franco con cui racconta la corsa alla determinazione della struttura del Dna, ed espone gli stimoli «umani, troppo umani» che la guidarono.
Watson poteva permettersi di parlar chiaro, essendo divenuto a soli venticinque anni uno dei due più famosi biologi del mondo, e avendo vinto a soli trentaquattro il premio Nobel per la medicina. In seguito lui e Crick, così come la struttura a doppia elica associata ai loro nomi, sarebbero stati elevati a icone della scienza del secondo Novecento, e avrebbero goduto di una fama rivaleggiata soltanto da quella di Albert Einstein e della formula E = mc2 nel primo Novecento.
Oltre al suo primo volume autobiografico, Watson ne scrisse altri due: I geni del genio (Garzanti, 2003), e il conclusivo e provocatorio Avoid boring people, non ancora tradotto in italiano, il cui titolo è un bel gioco di parole che significa, allo stesso tempo, sia «Evita la gente noiosa» che «Evita di annoiare la gente». L´intera trilogia combina scienza pubblica e vita privata in una mistura spesso anticonvenzionale, che puntualmente ha irritato gli accademici e scandalizzato i benpensanti.
La doppia elica si snoda fra due frasi a effetto, in apertura e chiusura: «In vita mia non ho mai visto Francis Crick in vena di modestia», e «Avevo venticinque anni ed ero troppo vecchio, ormai, per permettermi di fare l´eccentrico». Ciò che sta in mezzo è un racconto quasi poliziesco della corsa alla doppia elica, attraverso la competizione tra Watson e Crick a Cambridge, Rosalind Franklin e Maurice Wilkins a Londra, e Linus Pauling a Pasadena.
Quest´ultimo, in seguito vincitore di ben due premi Nobel (nel 1954 per la chimica, e nel 1962 per la pace), era il massimo chimico vivente e il naturale favorito: quando scese in campo, propose però un modello a tripla elica, che non teneva nel debito conto i dati sperimentali a disposizione. I migliori di questi dati, nella forma di foto a raggi X ad alta risoluzione, li aveva ottenuti la Franklin, che a sua volta si era intestardita a credere che fosse prematuro costruire modelli a elica del Dna. Gli errori dell´uno e le esitazioni dell´altra permisero a Watson e Crick di battere entrambi, e arrivare per primi al traguardo.
Come, lo racconta appunto il libro di Watson, che nella versione ampliata pubblicata nel trentennale della scoperta contiene anche molti altri punti di vista. Quello di Crick, ad esempio, che confessa di aver pensato di rispondere a La doppia elica, che l´aveva innervosito, con L´elica svitata, che poteva iniziare così: «Jim è sempre stato maldestro con le mani, bastava guardarlo mentre sbucciava un´arancia». O quello di Pauling, che spiega col senno di poi perché avrebbe dovuto fare ciò che purtroppo non fece. Non c´è invece il resoconto della Franklin, che morì di cancro alle ovaie nel 1958, a soli trentasette anni, senza poter condividere il premio Nobel che andò invece a Wilkins, per le sue precedenti foto a raggi X.
È chiaro che, dopo aver ottenuto un risultato così fondamentale a soli venticinque anni, dopo la primavera del 1953 Watson dovette capire che cosa fare della propria vita, scientifica e non: i tre anni seguenti non poterono che essere un anticlimax, e tali sono anche I geni del genio che li raccontano. Il titolo originale, Geni, ragazze e Gamow sottolinea che uno dei suoi problemi fu trovare la compagna della vita, dopo una lunga serie di avventure sentimentali che fa da basso continuo alla simultanea ricerca di un nuovo obiettivo scientifico su cui convogliare le sue energie da iperattivo: energie ancor oggi evidenti a chi ha l´avventura di passare anche una sola giornata con l´ottantaduenne scienziato, allietandosi nel suo ufficio per una conversazione attenta all´interlocutore, o preoccupandosi sulla sua Jaguar per una guida disattenta ai semafori.
Nel 1968, lo stesso anno che vide l´uscita del suo primo libro, Watson trovò l´anima gemella in una diciannovenne che aveva meno della metà dei suoi anni, con la quale rimane tuttora felicemente sposato. E trovò anche una nuova missione scientifica nella ricerca sul cancro al laboratorio di Cold Spring Harbour, che nei successivi quarant´anni diresse e presiedette. Come trovò l´una e l´altra, è l´argomento di Avoid boring people: il suo ultimo libro, che racconta mezzo secolo di percorso dell´uomo e dello scienziato, e distilla in un centinaio di massime le lezioni che egli ha imparato strada facendo.
Prima fra tutte quella duplice del titolo, che egli ha accuratamente messo in pratica tutta la vita, frequentando gli esponenti più stimolanti e avvincenti della comunità intellettuale, ed elargendo a profusione idee brillanti e provocazioni intelligenti. Scorrono così fra le pagine le figure più importanti della biologia dell´ultimo mezzo secolo, tutte doverosamente insignite prima o poi del premio Nobel: Max Delbrück e Salvador Luria nel 1969 per lo studio dei batteriofagi, François Jacob e Jacques Monod nel 1965 per il meccanismo di regolazione genetica, Renato Dulbecco nel 1975 per la ricerca sui virus tumorali, Wally Gilbert nel 1980 per l´invenzione di un metodo di sequenziazione del Dna, e tanti altri compagni di strada in biologia.
Ma anche tanti scienziati di altri campi, compresi due veri miti: il logico Alan Turing, inventore del computer, e il fisico Richard Feynman, genio mattacchione, entrambi catturati in fasi diverse della loro vita dalla ricerca biologica, rispettivamente sulla morfogenesi e i fagi. E addirittura artisti come Salvador Dalí, che Watson seppe ammaliare con una richiesta appropriata («La seconda persona più intelligente del mondo desidera incontrare la prima»), dopo aver visto il grande quadro intitolato Galacidalacidesoxiribunucleicacid - Omaggio a Crick e Watson: quello non lo ottenne, ovviamente, ma nel suo ufficio oggi può esibire con orgoglio uno studio per lo stesso quadro, con due piccole foto degli scienziati ritagliate da un giornale e una grande firma dell´artista, nelle dovute proporzioni.
Quanto alle provocazioni, Watson le ha lanciate nel corso di tutta la sua carriera, senza temere di essere politicamente scorretto: il mancato appoggio all´uso del virus dell´encefalite equina venezuelana come arma chimica gli costò il posto fra i consiglieri scientifici della Casa Bianca nel 1964, e l´opposizione alla brevettazione dei geni la direzione del Progetto Genoma nel 1992.
Puntualmente, il libro finisce con una difesa di Larry Summers, il rettore di Harvard costretto a dimettersi nel 2006 per la dichiarazione, «impopolare ma non infondata», che le donne sono meno atte alla matematica e alla scienza degli uomini. La giustificazione di Watson, forse falsa ma certo non banale, è che la varianza delle donne sembra essere minore di quella degli uomini: ad esempio, avere più autistici e schizofrenici a un estremo sarebbe un prezzo che i maschi pagano per avere più geni all´altro (e il genio Watson sa di cosa parla, avendo appunto un figlio schizofrenico).
Naturalmente, non c´è bisogno di accettare tutto ciò che lui dice, per essere stimolati dai suoi libri o dalla sua compagnia. Basta condividere alcuni dei suoi motti: «anche i più intelligenti possono dire stupidaggini», «mai essere la persona più furba della brigata», «meglio gli amici brillanti di quelli popolari». E, soprattutto, «evitare di annoiarsi e di annoiare»!

Repubblica 2.3.10
Intervista al filosofo e teologo egiziano Nasr Abu Zayd

"Io perseguitato per il mio Corano"
"Le autorità religiose combattono la mia interpretazione. Perché incoraggia il pensiero autonomo e mette in discussione il loro potere
di Giancarlo Bosetti

Nasr Abu Zayd terrà oggi una relazione alla scuola Superiore Sant´Anna di Pisa nella manifestazione "Il dialogo tra le culture" organizzata da Reset-Dialogues on Civilizations
arlare con Nasr Abu Zayd, filosofo e teologo egiziano, significa affrontare al cuore il problema del fondamentalismo e del dogmatismo nella religione musulmana. Il suo nome è diventato una bandiera della interpretazione umanistica, o semplicemente umana, del Corano, cosa che costituisce un problema per coloro che difendono la natura divina della lettera del testo sacro. La cosa gli è costata cara perché una sentenza lo ha dichiarato apostata nel 1994 modificando il corso della sua vita. Anche se l´Università del Cairo lo ha poi riammesso all´insegnamento, la giustizia egiziana ha annullato il suo matrimonio, pronunziando un divorzio di ufficio, che lo ha costretto a trasferirsi con la moglie in Europa, dove ha preso a insegnare, dagli anni Novanta, prima a Leiden poi a Utrecht.
Lo intervistiamo mentre sta lavorando a una nuova esegesi integrale del Corano ininglese e in arabo e alla traduzione in arabo dell´Enciclopedia del Corano in 6 volumi.
Qual è il nucleo della sua tesi interpretativa?
«Io aspiro a investigare e analizzare la struttura interna e le interrelazioni tra le parti del Corano non solo come testo ma anche ed essenzialmente come "discorso", come "discorsi" al plurale. E per struttura intendo il fenomeno del Corano come "recitazione", come testo parlato prima che fosse raccolto, sistemato e codificato nella mushaf, la raccolta degli scritti. La mia analisi cerca di indicare i molteplici destinatari così come le molteplici voci che parlano nel Corano per fare un passo avanti nella comprensione dei molti modi di discorso che vi sono presenti: dialogico, polemico, esclusivo, inclusivo e altri ancora».
Questo è il punto che le viene rimproverato dai sostenitori della interpretazione letterale.
«La superenfatizzazione dell´elemento divino ha portato al trionfo dell´interpretazione letterale. E questo ha condotto alla situazione in cui certe decisioni di natura storica hanno finito per essere registrate nel discorso coranico come un´ingiunzione divina che vincola tutti i musulmani a prescindere dal tempo e dallo spazio. Scoprendo la dimensione umana incorporata nella struttura del Corano, un´ermeneutica umanistica diventerebbe possibile».
Che rapporto c´è tra il fatto che prevalga l´una o l´altra interpretazione e la relazione tra islam e modernità? E con la democrazia?
«Collocare il Corano e la tradizione profetica nel loro contesto storico dimostrerà ai musulmani che i temi della modernità e della democrazia devono essere discussi in modo indipendente da qualunque limite teologico o giuridico».
In che modo il suo punto di vista può essere sostenuto e incoraggiato tra gli studiosi musulmani? Crede nella possibilità di creare una rete di persone che condividono la stessa visione?
«Sì, ciò è possibile e plausibile. Lavorando alla Fondazione "Liberty for all", quella rete si sta creando. Uno dei principali programmi della Fondazione sarà dedicato ad insegnare e diffondere sia in rete che mediante i mezzi di comunicazione video e audio, l´approccio e la metodologia della moderna visione e dell´interpretazione del Corano e della tradizione profetica».
Qual è il suo rapporto con le autorità religiose dei Paesi musulmani? E con i musulmani che vivono in Europa da immigrati o da nuovi cittadini?
«Le autorità religiose sono quelle che sostengono il tradizionalismo; disprezzano qualsiasi iniziativa di cambiamento. A volte sono obbligate ad affrontare le situazioni in evoluzione, ma lo fanno controvoglia. Perciò, non posso rivendicare un rapporto positivo con nessuna autorità religiosa».
È ancora considerato un apostata? Cosa dobbiamo pensare del fatto che una persona come lei possa essere considerata un pericolo? Un pericolo per chi?
«Per alcune persone, sì, sono un apostata. Ma si tratta di una minoranza la cui autorità è contestata e minacciata dalla mia impostazione. Si tratta di una minaccia pericolosa, perché demolisce il loro monopolio e incoraggia il pensiero autonomo».

l'Unità Lettere 2.3.10
Chi non salta, Berlusconi è!
di Paolo Izzo

Concordo pienamente con Francesco Piccolo: non serve che una massa di persone vestite di viola salti come in uno stadio al grido «chi non salta, Berlu- sconi è». Non saremo mai sfacciata- mente ricchi, impunemente autoritari, corrotti e corruttori, misogini e viagri- sti come il presidente del “nostro” Con- siglio. Nemmeno se non saltiamo. Ma Piccolo viene superato, noi tutti venia- mo superati, dalle parole di Emma Boni- no a piazza del Popolo: «L’indignazio- ne è la base, ma si deve trasformare in impegno, in riscossa democratica per il paese... Il cui stato sfracellato è sotto gli occhi di tutti». È da quella piccola gran- de Radicale, immagine e identità, politi- ca e umanità, che arriva la speranza, il movimento, la trasformazione: i salti li fanno le rane, i Radicali saltano soltanto i pasti. Ma si nutrono di democrazia. Come noi. Che non saltiamo, ma non siamo Berlusconi.