lunedì 8 marzo 2010

Repubblica Roma 8.3.10
Montino e la giunta: illegittimo il decreto del governo, nostre le competenze. Dal centrosinistra pioggia di appelli ai giudici amministrativi
"Elezioni, decide la Regione"
Il Lazio ricorre alla Consulta contro il salva-liste. Oggi sentenza del Tar sul Pdl
di Rory Cappelli Chiara Righetti

Ci ha messo un quarto d´ora la giunta regionale al completo, convocata di domenica alle 19, per varare all´unanimità la delibera che dispone il ricorso alla Corte costituzionale contro il decreto salva-liste. L´appello, che sarà presentato stamattina, chiede che il dl sia dichiarato illegittimo perché, spiega il governatore reggente Montino, «invade le prerogative delle Regioni», che hanno competenza esclusiva sulle proprie norme elettorali, «principio ribadito dalla Consulta in almeno quattro sentenze». La Regione chiede poi alla Corte di sospendere subito l´efficacia del decreto.
Attenzione puntata anche sull´Ufficio elettorale del Tribunale. Dove, secondo un´interpretazione del decreto, il Pdl già alle 8 di stamattina potrebbe presentarsi con le liste. E, se riuscirà a consegnarle, precipitarsi al Tar in tempo per le 9.30, orario in cui è fissata l´udienza che dovrebbe dibattere la richiesta di sospensiva dell´esclusione della lista provinciale, che a quel punto si troverebbe in parte svuotata di senso. Sul tavolo i giudici del Tar troveranno, oltre al nuovo dl, una memoria in cui la Regione comunica di aver fatto ricorso alla Consulta. E le costituzioni in giudizio di Pd, Idv, dell´assessore Luigi Nieri di Sel, e del Movimento difesa del cittadino, tutte tese a bloccare la riammissione del Pdl. Perché, spiega il legale del Pd Luca Petrucci, «anche alla luce del decreto, per presentare le liste servono due requisiti»: aver fatto ingresso nel «rispetto dei termini orari», «muniti della documentazione». E mentre sul primo nodo viene in aiuto il decreto, sul secondo il Pdl potrebbe avere qualche difficoltà in più.
Starà ai giudici del Tar valutare se dichiarare decaduto il ricorso o entrare comunque nel merito, anche con un´istruttoria. Meno probabile che il Tribunale rimetta la questione alla Consulta, che però è chiamata in causa comunque dal ricorso della Regione. E se ieri il Pdl si mostrava ottimista, Storace lo era meno: «Se il Tar ricorre alla Consulta il caos diventa enorme. Spero che a danno non si aggiunga altro danno».

Repubblica Roma 8.3.10
Il sit-in a piazza Navona
Il popolo viola "Ci pensi la Corte Costituzionale"
"Regione, avanti così"
Dal sit-in a piazza Navona il sostegno al ricorso di Montino alla Consulta
di Laura Mari

Dal popolo viola arriva il sostegno all´iniziativa legale della Regione contro il decreto salva-lista. «Alla giunta del Lazio non possiamo che dire "avanti così" e dare il nostro pieno appoggio al loro appello alla Consulta» conferma Giuliano Girlando, uno dei portavoce del popolo viola, riferendosi alla delibera di giunta approvata ieri sera e voluta dal vicepresidente della Regione Esterino Montino per dare mandato ai legali della Pisana di sollevare presso la Corte Costituzionale il tema del conflitto del rapporto tra Stato e regione.
A sostenere la battaglia legale della giunta regionale contro il decreto ad-listam sono anche molte delle cinquemila persone del popolo viola che ieri pomeriggio si sono ritrovate a piazza Navona con bandiere tricolore listate a lutto o con cartelli con su scritto "Qui giace la democrazia" e "Far-west all´italiana". «Il Paese intero chiede il ritiro del decreto - ha ribadito Gianfranco Mascia, uno dei leader del movimento viola - e a chi dice ritiriamo le liste rispondiamo, al contrario, che questo è il momento di partecipare ed esercitare il proprio diritto di voto». Insomma, dal popolo viola arriva l´invito (palesato anche nello striscione appeso sul palco di piazza Navona "Quando il gioco si fa duro, i duri entrano in gioco) alla candidata del centrosinistra Emma Bonino a non ritirarsi dalla competizione elettorale. «Questo è il momento di partecipare ed esercitare il proprio diritto di voto - ha detto Gianfranco Mascia - e trovo giusto che la Regione Lazio si rivolga alla Corte costituzionale, perché è così che le istituzioni in democrazia dovrebbero procedere, ovvero secondo le regole e rispettando le leggi. Poi - ha concluso il leader del popolo viola - accetteremo qualsiasi decisione della Consulta».
Della stessa opinione sono anche Marinella Vali, 34 anni, e Antonello Garau, 28 anni, che in piazza Navona hanno portato, il testo della Costituzione italiana. «La speranza - hanno detto i due simpatizzanti del popolo viola - è che si ritorni al rispetto delle regole, perché in sostanza il decreto ad listam non fa altro che sanare la situazione del Pdl che a Roma era stato escluso dalla competizione elettorale». Oltre ai cinquemila manifestanti, in piazza con il popolo viola c´è anche le bandiere del Partito Democratico, dell´Italia dei Valori (tra la folla il senatore Stefano Pedica), di Sinistra ecologia e Libertà i Radicali (in piazza il candidato alle regionali Luca Sappino), la Federazione della Sinistra e i Verdi (con il leader Angelo Bonelli).
Prossimo appuntamento, la manifestazione nazionale di sabato prossimo, in piazza del Popolo, organizzata da tutti i partiti del centrosinistra per protestare contro il decreto salva-liste.

Repubblica Roma 8.3.10
Bonino: "Il ritiro? Deciderò domani E Alemanno pensi ai guai di Roma"

«Sono allibita. Non stizzita». Così Emma Bonino torna sul tema del decreto salva-liste. «Sono allibita dall´impudenza, dall´arroganza, dalla prepotenza di chi, pur essendo un grande partito, non riesce ad adempiere a una regola semplice, consegnare le liste entro il limite delle 12». E rivolta ai cittadini aggiunge: «A voi nessuno farà decreti interpretativi se per un concorso fate domanda con due ore di ritardo». Mentre al sindaco Alemanno (che nel pomeriggio aveva detto: «Sapeva perfettamente che avrebbe avuto di fronte il Pdl, non comprendo perché questo fatto la turbi tanto»), risponde: «Perché, invece di fare il sindaco di Roma, è così appassionato della campagna per le regionali? Manco avesse niente da fare come sindaco, visto che i problemi non mancano». Sull´ipotesi di ritirarsi per non «giocare coi bari», taglia corto: «Non decido da sola. Abbiamo convocato un´assemblea per domani».

Emma Bonino
Un motivo in più per manifestare lo ha dato ieri la candidata del centrosinistra Emma Bonino, lanciando l´allarme su nuovi possibili "trucchi" del Pdl: se non convertono il decreto prima del voto e poi perdono le elezioni - è il ragionamento della Bonino - gli sarà sufficiente lasciarlo cadere per poi ottenere l´annullamento delle regionali alle quali, al quel punto, avrebbero partecipato concorrenti non candidabili. Condivide Bersani: «Dal centrodestra ormai possiamo aspettarci ogni genere di trucco». Ma il leader del Pd è preoccupato dal richiamo dell´Aventino al quale la Bonino al momento non è immune. Ieri la candidata è tornata a dire di non essere sicura di voler «giocare con i bari» nel caso in cui oggi il Tar, applicando il salva-liste, dovesse rimettere in corsa il Pdl a Roma. Ma - ha spiegato - questa è una scelta che «non posso da prendere da sola, per questo ho convocato una grande assemblea per martedì». Bersani l´ha però spronata ad andare avanti ricordando che di fronte a chi cambia le regole in gioco l´unico rimedio è vincere le elezioni: «Un atteggiamento di Aventino lascia il campo libero agli avversari». (da Repubblica)

l'Unità 8.3.10
Per il terzo giorno consecutivo mobilitazione contro il decreto salva-liste voluto dal premier
Da Firenze a Napoli da Ferrara e Sassari, sit-in e manifestazioni in attesa della protesta del 13
«Il diritto è morto»
Piazza Navona è viola, proteste in tutta Italia
nelle edicole

l'Unità 8.3.10
Bruno Vespa
Tempesta tra premier e Quirinale. Vicini allo «sparo di Sarajevo»
«Scenari drammatici»: usa un linguaggio duro Bruno Vespa nel descrivere il confronto sul dl salvaliste: un vero scontro tra Berlusconi e Napolitano. In un commento per il Mattino, Vespa racconta: «La tempesta abbattutasi tra palazzo Chigi e Quirinale ha fatto intravedere scenari drammatici. Berlusconi ha pensato di far saltare il tavolo. L’indisponibilità di Napolitano a firmare un decreto... sarebbe stato lo sparo di Sarajevo» (il via alla prima guerra mondiale, ndr.). «Il colloquio di giovedì sera tra Berlusconi e Napolitano è stato il più concitato che si ricordi». Il premier «voleva far approvate la sera stessa un dl sulla falsariga del precedente delle europee del ’95: i radicali erano fuori tempo e ricorsero a Scalfaro, Dini premier riaprì i termini per 48 ore e tutto si aggiustò. Il capo dello Stato ha sostenuto che quella procedura non poteva essere ripetuta in questo caso e Berlusconi si è molto arrabbiato, minacciando il ricorso alla piazza». Poi «si è distinto tra decreto innovativo, che il Quirinale non avrebbe accettato, e decreto interpretativo.

Il Mattino 6.3.10
La Serajevo disinnescata
di Bruno Vespa

Tutto per bene, alla fine. Ma prima della quiete di ieri sera, la tempesta abbattutasi tra palazzo Chigi e Quirinale ha fatto intravedere scenari drammatici. Nelle ore che hanno preceduto e seguito il colloquio di mercoledì con il capo dello Stato, Berlusconi ha pensato di far saltare il tavolo. La indisponibilità manifestata da Napolitano a firmare un decreto che salvasse la lista del Pdl nel Lazio e la posizione di Formigoni in Lombardia sarebbe stato lo sparo di Sarajevo. Come l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria e di sua moglie il 28 giugno del 1914 fu il pretesto per scatenare la prima guerra mondiale, così l’eventuale sacrificio dei candidati alla conquista e alla conferma nelle due regioni più importanti d’Italia sarebbe stato l’innesco di una bomba ben più micidiale. Se Fini ha detto che così com’è il Pdl non gli piace, Berlusconi va oltre. Anche se l’incidente di Roma è avvenuto con modalità in parte controverse, i danni all’immagine del centrodestra sono stati più devastanti del previsto. Aggiunti alla decisione di oscurare per un mese i principali programmi politici della Rai, hanno fatto perdere in tre giorni al Pdl tre punti secchi nei sondaggi. A proposito della sospensione dei programmi, molti elettori di centrodestra si sentono offesi perché privati della capacità di scegliere («Sappiamo bene chi è fazioso e chi non lo è»).
Sul pasticcio elettorale, la gente - a sinistra, ma anche a destra - fa questo discorso: perché se io non rispetto i termini (un concorso, le tasse) vengo punito senza remissione e se il pasticcio lo combinano in politici il rimedio si trova? È vano rispondere che mettendo una pezza sul pasticcio delle liste più che favorire qualche persona si garantisce a milioni di elettori di non essere privati del diritto di scegliere. Si aggiunga che Berlusconi non si riconosce nel comportamento di molti dirigenti che in periferia bisticciano, ma pur sempre lo rappresentano. Quel che è accaduto al momento della presentazione delle liste romane lo ha indignato. Gli elettori di centrodestra sono furiosi: perché dovremmo fidarci di una classe politica che non conosce il proprio mestiere? Gli strascichi delle polemiche sulla corruzione che hanno colpito (Milano e Firenze) o sfiorato (Roma) amministratori e personalità del Pdl hanno inoltre contribuito ad alimentare una pericolosa disaffezione. Non c’è un travaso di voti a sinistra, ma un forte astensionismo, corretto a Roma da una valanga di voti potenziali alla destra dell’ex governatore Storace. Questo cocktail micidiale ha portato Berlusconi a fare due conti. Le dimissioni del governo avrebbero come conseguenza fatale le elezioni anticipate. È difficile infatti che Napolitano possa autorizzare una maggioranza diversa da quella che è uscita dalle urne. I ribaltoni sono storia del passato e frutto anche dell’odio personale di Scalfaro nei confronti del Cavaliere. Con le elezioni, Berlusconi metterebbe di nuovo in gioco tutto il piatto. Ma il rischio verrebbe compensato dal vantaggio - ai suoi occhi - di spiazzare completamente Fini e Casini e di cogliere il Partito democratico in mezzo al guado. Fantasie, certo. Ma il colloquio di giovedì sera tra Berlusconi e Napolitano è stato probabilmente il più concitato che si ricordi. Il presidente del Consiglio voleva far approvate la sera stessa un decreto legge sulla falsariga del precedente delle elezioni europee del ’95: i radicali erano fuori tempo e ricorsero a Scalfaro, Lamberto Dini presidente del Consiglio riaprì i termini per 48 ore e tutto si aggiustò. Il capo dello Stato ha sostenuto che quella procedura non poteva essere ripetuta in questo caso e Berlusconi si è molto arrabbiato, minacciando il ricorso alla piazza. La serata si è conclusa male, ma nella giornata di ieri Napolitano si è dimostrato favorevole a trovare una soluzione. Si è così distinto tra decreto «innovativo», che il Quirinale non avrebbe accettato, e decreto «interpretativo» che verrà invece considerato con benevolenza. Ieri sera il Consiglio dei ministri ha scelto ovviamente la seconda strada per ottenere il risultato che avrebbe ottenuto con la prima.

Repubblica 8.3.10
L'onda viola nelle piazze d'Italia "E ora bandiere alle finestre"
La protesta invade il web: anche il Colle ha dovuto risponderci
Manifestazioni a Roma, Napoli Firenze, Sassari Su Facebook l´organizzazione
di Antonello Caporale

ROMA - Le bandiere diventano drappi, le magliette stendardi, le sciarpe bandiere. Alle finestre o in auto, viola da passeggio o da salotto. Invito ufficiale: contiamoci nei condomini, stendete ai balconi e vediamo che succede nelle città. Il viola è per adesso l´unico colore in espansione della politica italiana. Si alimenta con poco e produce energia dalla sua stessa energia, come una fonte rinnovabile. «Fanno solo ammuina», ha detto, non senza una goccia di verità, il deputato Italo Bocchino. In effetti sì. Ieri a piazza Navona c´è stata ancora parecchia ammuina. È questo rumore di sottofondo, disordinato ma non disorganizzato, che però segna l´aria e rende all´opposizione la vita un poco più felice e le speranze meno tenui. Nel silenzio degli altri, loro ci sono. «Potremmo affittare la nostra piazza alla Polverini, se paga bene». La lucida provocazione di Marco segnala cinquemila persone in piazza, convocate all´ora delle tagliatelle e persino giunte puntuali al luogo voluto. Senza gerarchi e capi, senza onorevoli e segreterie particolari. Finanze zero e voglia tanta. Si può fare.
Napolitano ha dovuto rispondere online, «e questa è la nostra forza. Ci ha dovuti considerare, si è preso cura di noi, sa che siamo tanti» dice Stefano Mascia, leader dei viola. Il presidente si è dovuto connettere, e affidare le sue parole a un popolo che per tutta la giornata lo ha spesso mitragliato. «È incredibile ciò che ha fatto, e assai deludente». Gruppo di fuoco da Torino. Pescara invece: «Sappiamo che a Roma c´è tanta gente, ma anche da noi oggi piazza Salotto è bella». Era Tiziana, dall´Abruzzo. Napoli, Firenze, Ferrara, Campobasso, Sassari, Reggio Calabria. Raduni improvvisati, incursioni brevi ma ficcanti. Colorate. Ammuina, appunto. È Facebook la centrale di smistamento, il corridoio da dove si passa per informarsi e arrivare. Oggi i politici hanno fatto vacanza. A piazza Navona niente bandiere del Pd, qualcuna di Nichi Vendola (Sinistra e libertà), regredita a mero contorno la falange dipietresca.
I viola fanno da soli. Segnalati movimenti a Pescara, Pistoia e Reggio Emilia. Brevi accenni violacei, incursioni spesso deboli ma mai insignificanti. «Viola chi vìola». A pensarci, sì, il colore promuove anche forme più fisiche di antagonismo.
Twitter scatena mille fantasie, da youtube si dissotterrano videi antichi. Uno di questi, della televisione tedesca, mostra l´inseguimento all´aeroporto di Bruxelles di Giorgio Napolitano, al tempo in cui era eurodeputato. Un giornalista gli chiede conto dell´indennità. Il presidente risponde seccato: «Rendo conto ai contribuenti italiani, non a lei». Il pungiglione viola attacca e corre via. Berlusconi è caricato e scaricato in duemila versioni televisive, analizzato e commentato in ogni sua apparizione. Un grido da Bari: «È entrato dentro novantesimo minuto, adesso, correte e vedete!». Il premier dentro un campo di pallone? «E diamine, non esagerate», dice Clelia, da Parma. Intanto, e sono le 19.12 in dieci minuti 27 commenti, e già cinquanta contatti. Sessanta dopo 11. È successo che ieri alla Rai il registrato di un suo intervento napoletano si sia introdotto, per una disattenzione, nel registrato del commento alla partita di calcio del Napoli. C´era Hamsik che tirava la palla e Berlusconi commentava: «Noi siamo il partito del fare...».
La velocità e la metodicità del viola, condizione e sentimento comune, ha prodotto anche un innalzamento del livello verbale, fino a ieri piuttosto moderato, di Pierluigi Bersani. Sul suo profilo parole di fuoco e timore che al fondo non ci sia fondo: «Può succedere di tutto». Anche Casini ha scritto.
Emergenza democratica? Bandiere a lutto perciò. Sabrina, da Torino: ogni nostro profilo venga sostituito da una bandiera italiana a lutto. Vincenzo, da Marsala: «Povera patria di Battiato come nostro inno, cosa ne dite?». Franco: «Qui anche quelli del centrodestra sono stufi. Oggi in piazza Navona ce ne erano alcuni e hanno finalmente capito». Mascia, il leader più concretista: «Stiamo trainando il centrosinistra». Anonimo: «In effetti ci stanno facendo la campagna elettorale».
Tutto gratis, senza incomodi e senza telefonate. Senza riunioni, e soprattutto senza panini. «Anche la lista Lavoratori per il comunismo non è stata ammessa alle elezioni. I presentatori erano andati via, a mangiare due bambini». Risate.

Repubblica 8.3.10
Luciani replica a Maroni: la mia riflessione faceva riferimento a una legge
"Norma incostituzionale, non l´ho ispirata io"
di Vladimiro Polchi

ROMA - «Il decreto del governo solleva serissimi dubbi di costituzionalità». Massimo Luciani, docente di diritto costituzionale a Roma, nega la "paternità" delle norme salva-liste.
Ma per Maroni il decreto è in linea con i suoi suggerimenti.
«La mia intervista su Repubblica esordiva con l´affermazione che, delle varie ipotesi in campo, "nessuna è indenne da dubbi di incostituzionalità"».
Lei prospettava una quarta ipotesi, con dubbi meno gravi.
«Quell´ipotesi, però, non faceva riferimento a un decreto legge. Infatti: primo, ritenevo necessaria una legge, anche perché solo in questo modo sarebbe stato aperto il doveroso confronto con le opposizioni, i cui diritti andavano salvaguardati; secondo, affermavo che anche una legge avrebbe dato adito a dubbi di costituzionalità, sia pure meno gravi di quelli suscitati da altre soluzioni; terzo, non pensavo a norme interpretative, che poi interpretative non sono affatto; quarto, immaginavo un´ipotesi semplicemente "meno peggiore" delle altre».
Le cose sono andate diversamente.
«È stato adottato un decreto legge invece di una legge; si sono qualificate le sue norme come interpretative; si è negato che esistano i dubbi di costituzionalità che, invece, avevo indicato. E il fatto che il capo dello Stato abbia firmato il decreto non sposta di un millimetro la frontiera dei serissimi dubbi di costituzionalità: il Presidente - chi lo attacca trascura questo dato - non è un tribunale costituzionale e non si può certo pretendere dalla sua valutazione che risolva questioni di diritto che spetta ad altri organi costituzionali definire».

Repubblica 8.3.10
La reazione al sopruso
di Aldo Schiavone

ROMA - Cresce la protesta nelle piazze contro il decreto salva-liste, mentre la Regione Lazio approva il ricorso alla Corte Costituzionale. Oggi il Tar decide sulla Polverini. Intanto Berlusconi attacca: «Da sinistra solo insulti». Ma il premier non ha gradito nemmeno le mosse di Fini: «Anche stavolta si è messo di traverso». E tra il Pd e Di Pietro è polemica sul Quirinale.
Basta guardarsi intorno per rendersene conto, anche senza badar troppo ai sondaggi, che vanno peraltro tutti nella stessa direzione.
Una trita immagine dell´Italia ci vorrebbe presentare come un Paese di azzeccagarbugli; e nell´evidente deformazione c´è forse un fondo di vero, nel senso che una lunga storia intellettuale e morale ci ha reso purtroppo per gran tempo familiari i cavilli e le trappole di una cultura giuridica troppo spesso malamente contigua ai voleri dei potentati politici o del dominio di classe. Ma questo ci ha anche come vaccinato: e il nostro senso comune ha imparato molto bene a distinguere una sottigliezza del diritto astrusa ma fondata, da un espediente che nasconde solo una sopraffazione.
La verità è che sono state violate da parte del Governo regole elementari di terzietà e di correttezza. Basta immaginarsi quel che sarebbe accaduto se l´errore fosse stato compiuto dal Pd invece che dal Pdl: nemmeno l´ultimo degli ingenui potrebbe credere che avremmo visto il presidente del Consiglio affaticarsi con lo stesso precipitoso zelo fra palazzo Chigi e il Quirinale. Per non parlare dell´affermazione, che vorrebbe essere di principio, con cui si apre il provvedimento, circa il generale prevalere della sostanza sulla forma: dichiarazione di una frettolosità rozza e incolta, che vorrebbe ammantare di duro realismo sostanzialista quel che è solo un artificio retorico per poter avere mano libera, e che non sarebbe dispiaciuta a qualche giurista nazista o (fate voi) a un Vysinskij.
Ma il problema, adesso, per l´opposizione – per tutta l´opposizione – non è più giuridico, ma politico. E riguarda la gestione della protesta e dell´insofferenza che stanno sempre di più crescendo ed espandendosi.
Diciamolo subito: ogni tentazione «aventiniana», ogni idea di testimoniare il disappunto e lo sconcerto chiamandosi in qualche modo fuori o in disparte, con la strategia di sottrarsi a un gioco truccato, finirebbe per favorire l´avversario, e va fermamente respinta. Bisogna accettare la sfida, e combattere sino in fondo, sino all´ultimo voto, la battaglia elettorale, qui e ora. In politica (e non solo), l´assente ha sempre torto. E´ un´altra la via da seguire: quella dell´impegno e dell´asprezza del confronto: la sola che possa allargare il fronte del dissenso, e farlo diventare maggioritario.
La crisi del berlusconismo, di cui parliamo da anni e di cui ormai tutti si stanno finalmente accorgendo, sta entrando in una fase nuova e imprevedibile, in cui ogni cosa è possibile. Il carisma personale non basta più a coprire il deficit di idee di una leadership che non ha più nulla da offrire al Paese. Ed è esattamente in questo vuoto che il partito si dissolve, e crea ogni giorno nuovi problemi con la propria inadeguatezza (come è accaduto clamorosamente in questi giorni), invece di impostare soluzioni, e di aprire prospettive. Le iniziative personali di alcuni ministri cercano di nascondere questo stallo. Ma fino a quando potrà bastare?
E´ emersa, in quest´ultima vicenda, un´arroganza del potere, una certezza di impunità, una sorda convinzione di poterla comunque fare franca, che inquieta molto, e dovrebbe ancor più inquietare chi sinora ha creduto in quello schieramento. Siamo passati da leggi ad personam giustificate (si pretendeva) dalla posizione peculiare del Principe, a provvedimenti di parte che hanno il sapore di autentici privilegi. Siamo di fronte a una deriva di autoreferenzialità normativa senza precedenti, come se il Paese non esistesse, come se ci fossero solo loro. L´opposizione deve fargli capire, con il voto, che non è così.

Repubblica 8.3.10
Germania, il governo sfida la Chiesa
"Serve una tavola rotonda nazionale che affronti gli abusi del clero sui minori"
I ministri democristiani promettono "tolleranza zero" contro la pedofilia
di Andrea Tarquini

BERLINO - Gli abusi sessuali nei collegi, scuole e conventi della Chiesa cattolica in Germania non solo si rivelano un problema sempre più grave e diffuso, con nuove rivelazioni agghiaccianti ogni giorno. Ora sono diventati un caso politico, un nodo di scontro tra Stato e Chiesa. Il governo della cancelliera democristiana Angela Merkel entra in campo, alza la voce, chiede ai vertici ecclesiastici di indire al più presto una tavola rotonda per fare luce insieme, subito e a fondo, sulle violenze contro i minori. E al tempo stesso promette "tolleranza zero" contro la pedofilia, anche nelle scuole e istituzioni religiose.
A pochi giorni dall´incontro del 12 marzo in Vaticano tra il Papa e il presidente della Conferenza episcopale tedesca, Robert Zollitsch, il clima tra establishment politico e vertici ecclesiastici si fa dunque più teso e pesante. «Sono in collera, l´abuso sessuale sui minori è la più grave violazione della fiducia, prometto che vareremo una politica di tolleranza zero», ha detto la democristiana Annette Schavan, ministro dell´Educazione.
Per la Chiesa è un attacco duro. Ancor più problematica è la richiesta della ministro della Giustizia, la liberale Sabine Leutheusser-Schnarrenberger. La quale ha detto alla Welt am Sonntag di ritenere necessaria l´organizzazione di una tavola rotonda che riunisca governo, forze politiche e sociali, rappresentanti delle Chiese, per affrontare il grave problema delle violenze e degli abusi sessuali contro bambini e adolescenti. È la seconda volta in pochi giorni che la ministro avanza la richiesta. Il presidente della Conferenza episcopale una prima volta l´aveva sdegnosamente respinta. Adesso le ultime rivelazioni sugli abusi nel coro dei Passeri del Duomo di Ratisbona e nell´abbazia-collegio di Ettal hanno cambiato il clima.
«I nuovi casi di abusi, resi noti ogni giorno, scuotono la gente», ha detto la ministro della Giustizia. «Una tavola rotonda non vuol dire mettere la Chiesa alla berlina, ma esigere un lavoro di chiarimento di tutta la società». Richieste non meno decise arrivano dal ministro della Giustizia bavarese Beate Merk, della iperconservatrice e cattolicissima Csu: «La Chiesa deve dare alla società un chiaro segnale di ritenere una priorità importante la difesa e il soccorso delle vittime degli abusi». Monsignor Zollitsch rischia di andare dal Papa lasciandosi alle spalle una Germania col governo a guida democristiana come controparte sempre più severa.

Repubblica 8.3.10
Decine di ex allievi raccontano le angherie subite nel monastero benedettino di Ettal. Tra le vittime anche un monaco
"Gli anni peggiori della mia vita" voci dal convento degli orrori
Percosse, stupri o "semplici" giochi sadici. L´inventario infinito delle violenze sui giovani
di A. T.

BERLINO - Molti portavano gli allievi minorenni nelle loro abitazioni, li costringevano a carezze e palpeggiamenti. Molti altri preferivano il piacere sadico delle percosse: amavano usare bastoni o stampelle di legno per picchiare i ragazzi sulle natiche e sulla schiena, fino a vedere le cicatrici sulle loro pelle. Uno studente si tolse la vita. Un religioso ebbe una relazione con una studentessa sedicenne. Ettal, l´abbazia dell´orrore: nel rapporto dell´avvocato Thomas Pfister, incaricato di indagare dagli attuali responsabili dell´abbazia stessa e della Chiesa, l´antico convento benedettino appare, nel suo passato recente, come un luogo di violenza e di tragedie.
«Le vittime mi chiamano giorno e notte», dice l´avvocato Pfister. Narra delle lettere degli ex studenti: «In tutti gli anni Sessanta, regnava un clima di terrore assoluto». Le vittime di allora scelgono l´anonimato, non vogliono compromettersi dicendo il loro nome. La vergogna per gli abusi subìti ha spezzato i loro animi, ma adesso hanno almeno trovato il coraggio di rompere il silenzio. Oltre cento casi di abusi e violenze sono documentati, e gli ultimi risalgono alla fine dell´anno scorso.
«C´era padre G. che andava con gusto mirato a scegliersi per vittima gli scolari che sembravano più deboli di carattere… Lui e altri preferivano accanirsi con percosse contro i bimbi più piccoli, magari tra gli otto e i dieci anni». Il confine tra violenza fine a se stessa, percosse inflitte per piacere sadico, e gusto della violenza mosso da una sessualità perversa, attraversa di continuo zone grigie nelle testimonianze delle vittime. Si parla di violenza sessuale anche contro i religiosi più giovani, come un macabro "nonnismo" tra frati o sacerdoti anziché tra soldati.
«Ricordo ancora», narra un´altra vittima, «che il mio insegnante, un prete, una volta mi picchiò talmente a lungo con un bastone di bambù che poi dovettero ricoverarmi all´infermeria del convento… Nessuno seppe mai nulla, dominavano omertà e silenzio. Furono gli anni peggiori della mia vita, da adulto divenni alcolizzato». Un altro "ex di Ettal" ricorda un sacerdote americano. Raccontava sempre di aver subìto traumi come cappellano nella guerra di Corea. Tra gli studenti era temutissimo per la brutalità delle sue percosse. Altri religiosi, continua il rapporto di Pfister, sfogarono le loro tendenze pedofile od omosessuali con i giovani. «Un padre, ora nel frattempo scomparso, amava tenere vicino a sé i giovani eccitati, e avere contatto corporale con loro». Un altro religioso ancora adesso è sotto inchiesta: in anni recentissimi, ha diffuso su siti pedofili in internet foto di suoi allievi seminudi.
«Confesso con vergogna di aver percosso e umiliato anch´io bambini e ragazzi, tra il 1985 e il 1987», ha detto in pubblico, piangendo alla conferenza stampa, l´ex amministratore di Ettal, padre Johannes Bauer. «Lo ammetto, picchiavo brutalmente i giovani sulle natiche nude, usando dure, pesanti stampelle di legno». Le tecniche della violenza erano raffinate, mostravano spesso una perversa, criminale fantasia. Arrivavano a strappare i capelli con forza a bambini e ragazzi, per il piacere di farli piangere dal dolore. «Ci tiravano via le basette con colpi brutali delle loro mani, era una sofferenza estrema», narra un altro ex studente. Le vittime parlano, a decine se non a centinaia. Si è rivolto all´avvocato Pfister anche un monaco, raccontandogli di quando superiori e confratelli anziani lo violentarono. La violenza in tono minore, ma non meno sottile e crudele, era quella dei preti che davanti ai bambini aprivano i pacchi dono inviati ai giovani dai genitori. Con le peggiori minacce, obbligavano i minorenni a regalare loro i migliori dolciumi o i doni più belli.

Repubblica 8.3.10
Nigeria, il massacro infinito tra cristiani e musulmani
Nella Nigeria dei massacri dove cristiani e musulmani si uccidono in nome di Dio
Ieri l´ultima strage, cinquecento morti
di Guido Rampoldi

Due boss politici locali dello stesso partito ispirano le gang giovanili che si danno la caccia armate fino ai denti

Kuru Karama (Nigeria centrale) Per ammazzare con quella frenesia dovevano avere nella testa molto koskovo, il gin locale, piuttosto che le incitazioni allo sterminio rivolte al suo popolo dal Dio dell´Antico Testamento: «Uccidi uomini e donne, bambini e neonati». Ma hanno macellato i musulmani del villaggio proprio in quel modo.
E quando adesso ascolti i ragazzini raccontarti come i cristiani adempivano con i machete al comandamento del Signore degli Eserciti - «Voi inseguirete i vostri nemici ed essi cadranno davanti a voi trafitti dalla spada» - , quando ti rendi conto che tra le rovine bruciate l´unico edificio intatto è il tempio dei pentecostali, devi domandarti se chi ha ordinato questa strage non legga la Bibbia esattamente come, nel campo avverso, alcuni islamisti leggono il Corano. E cioè come una teologia del terrorismo particolarmente utile per annientare gruppi umani rivali, depredare, sottomettere, e poi spacciare quei crimini per eroici atti di fede.
Lo scontro antico che dall´Africa alle Molucche sta ritrovando nelle religioni pretesti, ispirazioni e complici, in Nigeria centrale obbedisce ad una simmetria radicale: musulmani e cristiani fanno fuori interi villaggi. Grosse bande attaccano di sorpresa insediamenti isolati e non risparmiano nessuno, neppure i bambini. L´altra notte una masnada di musulmani ha massacrato i cristiani di Doko Nahawee, ammazzandone forse cinquecento. Cinque settimane prima, il 26 gennaio, era stata cancellata dalle mappe Kuru Karama. Dei tremila abitanti, i cristiani ne hanno sterminati almeno centocinquanta, quelli troppo vecchi o troppo giovani per scappare, e quelli decisi a difendere le loro cose. Tra le casette di terra rappresa, nessuna delle quali conserva la lamiera che fungeva da tetto, incontro quattro soldati depressi e tre scolari sedicenni venuti a cercare i quaderni che tenevano vicino al letto.
I soldati hanno tappato con la terra due pozzi in cui gli attaccanti avevano gettato gli uccisi: troppi cadaveri, spiegano, e non sapevano come tirarli fuori. I ragazzini appartenevano ad una classe che è stata decimata dai machete quando ha cercato di scappare attraverso il cerchio degli assedianti. Mentre ne raccontano non trovano le parole, e hanno gli occhi sgranati, non so se per paura, orrore o incredulità.
Nessuno di loro, dicono, si attendeva l´attacco. Non è difficile crederlo. Kuru Karama è uno dei tanti insediamenti dell´etnia Hausa nello Stato del Plateau, villaggi dove trovi una piccola moschea accanto ad un minuscolo tempio cristiano, e botteghe che espongono appaiati poster di Cristo dal cuore palpitante e ragazze in estasi coranica. Intorno, una terra che non può suscitare appetiti - campi riarsi, una boscaglia rada sparpagliata sopra una landa polverosa. Ma Kuru Karama ha una particolarità: è interamente circondata dai villaggi dell´etnia cristiana, i Birom, che nel Plateau esprime il potere. Questo gli è stato fatale.
Se invece risaliamo la concatenazione delle causalità, il destino si presenta nella forma insospettabile di una legge in teoria molto democratica. Per salvare dall´assimilazione le più piccole tra le 250 etnie nigeriane, ciascuno dei 36 governi che formano la federazione attribuisce lo status di «popolazione indigena» alle tribù considerate autoctone, e con lo status accessi privilegiati all´istruzione e all´amministrazione pubblica, cioè all´unica possibilità di trovare un impiego decente. Gli Hausa sono nel Plateau dalla metà dell´Ottocento, ma il governo locale, egemonizzato dai Birom, non li considera «indigeni». Dal 2001 questa discriminazione è la causa delle loro rivolte furiose, e della reazione altrettanto brutale dei Birom.
Ogni volta più violento, lo scontro comincia a sovrapporsi ad una linea di faglia che attraversa la Nigeria dalla sua origine coloniale. Il Paese fu inventato dai britannici nel 1914 assemblando incongruamente il nord musulmano e il sud cristiano. Dopo la fine della dittatura militare (1999) dodici Stati del nord, invogliati da donazione saudite, hanno deciso di applicare la sharia ai loro cittadini, sia pure su basa volontaria. Ma uno dei dodici ci ha ripensato e gli altri non applicano la legge coranica nella parte sostanziosa. Però i gruppi dominanti (musulmani) si sentono autorizzati a rinforzare i pretesti con i quali si spartiscono gli impieghi statali. Nelle università, docenti cristiani si vedono negare cattedre, nelle scuole diminuiscono gli insegnanti non islamici. A loro volta alcune oligarchie cristiane della Nigeria centrale hanno cominciato a praticare la discriminante religiosa per tenere a bada etnie «non indigene» a maggioranza musulmana, come gli Hausa, che rivendicano i propri diritti. E poiché questa divaricazione ora attraversa anche gli apparati di sicurezza, sta diventando pericolosa per un Paese che fatica a trovare una comune ragione sociale, se non nei colossali proventi del petrolio.
Questi conflitti non potrebbero ricorrere alla maschera della religione se i cleri si opponessero. In questa regione, un frangiflutti di etnie e credi, hanno formato un comitato inter-religioso che si riunisce nella città di Jos per prevenire tensioni. I partecipanti si conoscono dal tempo delle elementari ma, mi confida uno di loro, dubitano tutti nello stesso modo della sincerità di quel che viene detto. E con ragione: infatti gli uni e gli altri mantengono un omertoso riserbo sulle malefatte delle bande giovanili cristiane e musulmane. Queste gang sono ispirate da due politici rivali, eminenze dello stesso partito: il governatore cristiano, un ex generale dell´aviazione di etnia Birom; e un ex ministro musulmano, di etnia Hausa.
Quest´ultimo avrebbe organizzato le violente dimostrazioni di gennaio, inizio dei tumulti. Motivo o pretesto: i cristiani avrebbero impedito la ricostruzione di una casa di musulmani, distrutta a Jos negli scontri di due anni fa. I musulmani hanno reagito con roghi di case cristiane e attacchi alle chiese, il 24 gennaio, una domenica. In ogni caso, a sera la rivolta era finita, stroncata dall´esercito nel solito modo: sparando ad altezza d´uomo sui dimostranti. Però i cristiani avevano subito vittime, anche se in numero minore dei musulmani, e l´oligarchia dei Birom voleva dare una lezione agli Hausa. Nelle ore successive la tv di Stato, diretta da un pastore pentecostale, ha mandato in onda a ciclo continuo notiziari eccitati, culminati il 26 in un editoriale che secondo i musulmani suonava come un appello al massacro. «Era tutto pianificato, possiamo provarlo», mi dice Sani Mudi, il portavoce della comunità musulmana nel Plateau, mostrandomi la pila di carte alta due palmi che questa settimana consegnerà alla Corte penale internazionale, a L´Aja.
Di sicuro gli stermini del Plateau non sono spontanei. Non lo è stato il massacro di Kuru Karama, anche se tra gli esecutori c´erano giovani Birom dei villaggi limitrofi. «Ne ho riconosciuti diversi», racconta Samir Abubakar, un commerciante di frutta che trovo tra le rovine. Quando è cominciata la caccia al musulmano, tra le case e nella campagna, è scappato nel panico, abbandonando i suoi familiari. Ha ritrovato la moglie in ospedale (la foto che ha nel telefonino la mostra con le braccia ingessate, per le tre fratture prodotte da altrettanti colpi di machete). Invece non ha più notizie della madre, probabilmente bruciata dentro la moschea, viva o già morta, e poi gettata in fondo ad un pozzo.
Quando i Birom che avevano circondato il villaggio hanno cominciato ad avanzare, uno dei tre pastori cristiani presenti quel giorno nel villaggio ha cercato di fermarli. Ma è stato picchiato e legato ad un albero, mi confermano gli studenti. Gli altri due se la sono filata. Si può assolvere la loro fuga, non il silenzio dei religiosi musulmani e cristiani. Con l´unica eccezione di monsignor John Onayekam, l´arcivescovo cattolico, pastori evangelici e mullah tacciono oppure si nascondono dietro dichiarazioni vaghe. Fingono di non sapere. Kuru Karama è a mezz´ora di macchina ma il massacro non suscita curiosità nel reverendo Caleb Ahima, segretario generale della Chiese pentecostali. Quando gliene domando risponde così: «Le crisi mettono in luce i limiti della condizione umana». Ben detto, ma chi è stato? «Non sappiamo, c´è in giro molta maligna propaganda». Ma chi è stato? «Io non sostengo le uccisioni illegittime». Il massimo che gli si può cavare è un «non escludo che alcuni cristiani...».
Poi il reverendo Ahima mi rivela che all´origine di tutto c´è l´ossessione piantata nella testa dei musulmani: concludere la guerra santa che i loro avi fallirono oltre un secolo fa e «bagnare il Corano nell´oceano», cioè impossessari dell´intera Nigeria. E ora tutto è più chiaro. Ai suoi occhi gli Hausa di Kuru Karama erano un avamposto dell´avanzata islamica verso la costa. Comprensibile che il loro sterminio non lo colpisca più di quanto l´ammazzamento di cristiani (non) impressioni tanti mullah, a loro volta convinti che i cristiani cospirino contro l´islam.
Quando il gregge si trasforma in branco di lupi, spesso i pastori lo assecondano. Gli trovano giustificazioni. E si tappano le orecchie per non udire le grida degli scannati. C´è anche un clero che si oppone e reagisce, non di rado in solitudine. Ma la tendenza generale oggi non sembra quella. Lì dove musulmani e cristiani coabitano da secoli, lo spirito del tempo sembra semmai soffiare nelle vele della religiosità più aspra, più sanguigna, più militante. Come altrove in Asia e in Africa, anche in Nigeria ne profitta tanto l´estremismo islamico quanto il cristianesimo dei pentecostali, un credo che ha conosciuto un boom spettacolare nell´ultimo secolo, al punto che oggi rappresenterebbe, per numero di fedeli, la seconda fede cristiana dopo il cattolicesimo. Qui noti anche come formidabili guaritori di indemoniati, i pastori pentecostali hanno una predisposizione per la prima linea, non a caso la loro casa madre è nella tumultuosa città di Jos, e una venerazione per la Parola sacra, nella quale non è difficile imbattersi nel Dio degli Eserciti, quello che non fa sconti. L´estremismo islamico lo frequenta da tempo, e infatti neppure in Nigeria distingue tra adulti e bambini quando massacra.
Musulmani o cristiani, gli assassini e i mandanti delle stragi occorse a Jos nel 2001, 2004, 2008 e nel gennaio 2010, sono tutti liberi. La polizia non li cerca. I suoi posti di blocco all´ingresso di Jos, una dozzina, la settimana scorsa sembravano soprattutto un´occasione offerta agli ufficiali per depredare automobilisti. Non era difficile immaginare che gli sterminatori sarebbero presto tornati a sacrificare villaggi al loro dio.

Repubblica 8.3.10
I delicati fiori salvati dallo tsunami
di Mario Pirani

Nella mia lunghissima vita di lettore raramente ho provato il senso di scoramento che mi ha colpito sfogliando i quotidiani di giovedì scorso. Tutti riportavano, in genere in una pagina interna, la notizia che uno dei due "fidanzatini" di Novi Ligure, Omar, dopo aver scontato solo 9 anni di pena (una parte in semilibertà, coltivando fiori), era tornato in piena libertà, mentre la sua ispiratrice, Erika, lo avrebbe raggiunto fra due anni, grazie ad analoga indulgenza. Voglio chiarire che il mio disagio non nasce dalla efferatezza del crimine - ogni giorno siamo adusi a vedere cose anche peggiori - o dall´orrore di quelle 97 coltellate inflitte alla mamma e al fratellino, o dalla lunga premeditazione confessata e neppure dal tentativo, che nei primi giorni sembrò riuscito fra generale plauso e automatica indignazione, di addossare il delitto ai soliti due albanesi. No, tutto questo fa parte del vissuto normale di un cronista. Lo scoramento cui ho accennato nasce nel constatare come ormai un evento del genere sia considerato del tutto "normale" e scontato dai giornali di ogni tendenza, come provano anche i pochi commenti dedicati alla conclusione di una tragedia che solo pochissimi anni orsono sembrò scuotere nel profondo l´opinione pubblica. È vero che negli ultimi tempi ci si è sempre più abituati al peggio, ma abbiamo sbagliato pensando che il riferimento riguardasse solo la politica e non un mutamento più devastante del comune sentire. L´ha indovinato probabilmente De Rita quando in una intervista alla Stampa ha parlato di «un Italia rassegnata e furba, senza senso del peccato… in una sorta di rassegnazione al peggio... dove l´indignazione non scatta per l´assenza di codici ai quali obbedire, non scatta perché non c´è più un vincolo collettivo, tutto può essere fatto se io stesso ritengo giusto che sia fatto».
E la controprova la si ritrova nell´atarassia pubblica di fronte a scarcerazioni che per la brevità della restrizione subita annullano persino il dibattito sulla giusta correlazione tra la pena e il delitto, sulla opportunità di rendere, comunque, la prima meno gravosa possibile e anche meno lunga, una volta scontato un tempo ragionevole di espiazione. Di fronte alle sentenze di messa in libertà di Omar e presto di Erika, di fronte ai commenti che l´hanno salutata, quanti giovani, per contro, saranno indotti a pensare che non valga nulla il concetto di colpa e neppure quello di pena. E così il valore stesso del perdono. E cosa dire dei commenti, non per caso bipartisan? Sul Giornale Alessandro Meluzzi, noto per la rubrica di psicologia che tiene su un rotocalco, "Vip sul lettino", ed anche perché dirige l´Onlus evengelica Agape, se la prende col «giustizialismo dalla faccia feroce, che vorrebbe l´ergastolo per Erika e Omar e la decapitazione immediata per il senatore Di Girolamo». Accostamento non casuale. Chi, però, mi ha impressionato oltre ogni dire è Luigi Cancrini, lo psicoanalista ufficiale de l´Unità che invita a considerare i due giovani assassini «per quello che sono, fiori delicati sopravvissuti ad uno tsunami». E spiega da uomo del mestiere: «L´omicidio che hanno commesso ha avuto comunque origine nel buio di una infelicità di lunga durata, di una sofferenza che non ha trovato parole per raccontarsi…. prima che la passione cieca di un momento li spingesse a un gesto che si svolge nell´atmosfera sospesa del sogno». Un sogno, peraltro, da cui solo le vittime non si sono risvegliate. Alla fine, naturalmente, Cancrini se la prende con "i moralisti" che non riconoscono il lavacro riabilitativo di Omar ed Erika, mentre «accettano e riconoscono la possibilità di uccidere… sotto l´ombrello di una bandiera per cui si combatte» (con accenno d´obbligo ad Israele). PS: Avrei potuto soffermarmi sul "perdonismo" giudiziario ma mi sembra che questo sia ormai l´epifenomeno culturale di una degenerazione etica assai più profonda che sta insidiando la nostra società e minaccia la formazione morale di tanta gioventù.

Repubblica 8.3.10
Familismo
Ginsborg: "Perché l'Italia non ha un'etica pubblica"
intervista di Simonetta Fiori

Nel nostro Paese, segnato dagli scandali, i rapporti parentali sono un ostacolo alla crescita democratica
Parla lo storico inglese che ha curato una raccolta di saggi dedicata alle "Famiglie del Novecento"
Un fenomeno simile al clientelismo con un uso delle risorse dello Stato per interessi privati
L´istituto famigliare è un grande attore politico rimasto troppo a lungo nascosto dalla storia

Eravamo la patria del "familismo amorale", oggi siamo quella del "familismo immorale"? Cognati operosi, figli meritevoli, mogli dedite al business, soprattutto padri di famiglia soccorrevoli verso la progenie. Anche nel canovaccio degli ultimi scandali, le figure parentali rivendicano a pieno titolo ruolo da comprimari. In qualche caso è proprio la responsabilità genitoriale che viene invocata come causa e giustificazione di tanto penoso affannarsi («Ma io cosa ho fatto per mio figlio?», piange al telefono il servitore dello Stato). E uno straordinario family gathering allieta in Campania le liste elettorali del Pdl, i cui colonnelli candidano consorti e compagne, figlie e nipoti.
Questa del "tengo famiglia" è una filosofia antica e tipicamente italiana, «un tratto che scaturisce dalla mancata creazione di un´etica pubblica», sostiene Paul Ginsborg, lo storico che più s´è occupato dell´istituto famigliare in relazione con lo Stato e la società civile. A quest´ambito di ricerca è ora dedicata una raccolta di saggi, Famiglie del Novecento. Conflitti, culture e relazioni, curata dallo studioso inglese insieme a Enrica Asquer, Maria Casalini e Anna Di Biagio (Carocci, pagg. 276, euro 27). «Nella storia italiana», dice Ginsborg, «in alcuni passaggi critici, si sono create le possibilità per lo Stato di costruire una sfera pubblica forte, con le sue regole e i suoi codici di comportamento. È accaduto all´indomani del processo di unificazione, e anche nella stagione successiva alla fine della Seconda guerra mondiale. È accaduto dopo Tangentopoli. Ogni volta ha agito la speranza della cesura storica. Il salto weberiano, però, non c´è mai stato».
Non è un caso che il "familismo immorale" nasca nell´Italia del "familismo amorale", secondo la celebre definizione di Edward C. Banfield.
«Più che sull´aggettivo, mi concentrerei sulla parola familismo, che misura l´eccessivo potere della famiglia nella società e nella sfera pubblica italiane. Il paese di oggi non è certo il paese arretrato investigato da Banfield nel 1957 nel suo saggio In The Moral Basis of a Backward Society. Al centro della sua indagine era Chiaromonte, un borgo poverissimo della Basilicata. Quel che lo studioso rimarcò fu l´assenza di società civile. Le famiglie di Chiaromonte avevano un solo obiettivo: massimizzare i vantaggi materiali e immediati della propria famiglia nucleare, supponendo che anche tutti gli altri si comportassero allo stesso modo. Naturalmente non tutta la penisola era ed è assimilabile al modello di Chiaromonte. Però ancora oggi l´Italia si misura con una smisurata attenzione, spesso esclusiva, all´istituto famigliare».
I recenti scandali mostrano qualcosa di più rispetto alla mancanza di un ethos comunitario. Si è disposti a tradire la fedeltà allo Stato per sistemare o arricchire figli e consanguinei.
«In questo caso il familismo è assai contiguo al clientelismo, che implica l´uso delle risorse dello Stato per interessi privati. Può essere interessante rilevare come nell´Europa mediterranea questi fenomeni antichi non muoiano mai, ma si reinventino continuamente in forme nuove. Quel che fa impressione, nell´Italia di oggi, è il prevalere dell´organizzazione verticale tra patrono e cliente su quella orizzontale tra cittadini. Nella precarietà del mercato del lavoro, diventa fondamentale la relazione con il potente, che garantisce determinati accessi, per te e i tuoi figli: da qui un legame di gratitudine e asservimento. Tutto questo non ha niente a che vedere con cittadinanza, diritti e democrazia».
Ma la famiglia forte può essere considerata un ostacolo alla crescita democratica?
«Sì, se concentrata in modo sproporzionato sugli interessi materiali immediati. Al caso italiano s´attaglia la riflessione di Isaiah Berlin sulle due libertà. Secondo lo studioso esiste "la libertà da" - liberty from - ossia la libertà dall´interferenza di un altro soggetto rispetto alla tua azione individuale. È la libertà come viene intesa dal nostro premier: nessuno, neppure lo Stato, dovrebbe limitare la tua libertà. Esiste poi la "libertà di" - liberty to - ossia la libertà che scaturisce dalla ricerca di un´azione collettiva condivisa. Ancora prima dell´avvento del berlusconismo, l´Italia familista ha sempre praticato la prima di queste due libertà».
La relazione principale in Italia - lei lo rimarca nel suo ultimo saggio - è tuttora quella tra famiglia e individuo, mentre in altre parti d´Europa, in Gran Bretagna o in Svezia, prevale quella tra individuo e Stato.
«L´Italia è stata caratterizzata storicamente da un accentuato individualismo, da una società civile debole soprattutto nel Sud e da uno Stato democratico di tarda formazione. Norberto Bobbio sintetizzò tutto questo scrivendo che per le famiglie si sprecano impegno, energie e coraggio, ma ne rimane poco per la società e per lo Stato».
I demografi storici distinguono, nell´Europa occidentale, tra sistemi famigliari deboli e sistemi famigliari forti, ricavandone una proporzione scoraggiante: più forte è la famiglia, più debole è la società civile.
«Nel primo sistema - dove più conta l´individuo - rientrano com´è naturale la Scandinavia, la Gran Bretagna, l´Olanda e il Belgio, ed alcune regioni della Germania e dell´Austria. Il secondo - dove più conta famiglia - comprende l´Europa mediterranea. Sono essenzialmente due i fattori che determinano la differenza: la longevità delle famiglie d´appartenenza - ossia l´età in cui si lascia la casa paterna - e la rete di solidarietà famigliari in rapporto alla vecchia generazione. Attenzione però alle generalizzazioni, come raccomanda lo stesso David Reher, l´artefice di questi studi. Anche indagini recenti collocano la società civile italiana in un posto molto alto nella graduatoria mondiale. Ieri i girotondi, oggi il popolo viola: nonostante tutto, la società italiana è ancora capace di grande reattività».
Il rapporto tra famiglia e società civile non è stato mai indagato a fondo: né in ambito disciplinare né sul piano del pensiero politico.
«Sì, esiste un buco nero nel campo delle teorie politiche. In nessuna delle due tradizioni dominanti nel Novecento, quella liberale e quella marxista, le famiglie sono al centro di una seria analisi in quanto soggetti politici. Nel pensiero liberale la famiglia fu sistematicamente relegata alla sfera estranea alla politica, trovando collocazione nel privato piuttosto che nel pubblico. Nel suo saggio The Subjection of Women (1869) John Stuart Mill aveva dedicato un effimero riconoscimento all´importanza della famiglia: i posteri preferirono ignorarlo».
Nella tradizione comunista non ci fu maggiore attenzione.
«Il giovane Marx ebbe qualche intuizione nel riconoscere la famiglia e la società civile come presupposti dello Stato, ma egli stesso non ebbe interesse ad approfondire il tema. Anzi nella sua riflessione successiva la famiglia diventerà una delle tante espressioni dei rapporti economici. Più tardi i bolscevichi finiranno per liquidarla come entità destinata a essere superata dalla pianificazione socialista. Solo Trockij ebbe delle idee un po´ diverse, ma non le sviluppò fino in fondo».
In un quadro di generale distrazione, risalendo al XIX secolo lei riconosce un´eccezione in Hegel.
«Sì, in alcuni paragrafi dei Lineamenti della filosofia del diritto, il filosofo invita a esaminare gli individui in relazione alle tre sfere sociali: famiglia, società civile e Stato. In particolare, Hegel indagò il momento della "dissoluzione" della famiglia in rapporto alla società civile. A me pare tuttora una proposta stimolante sul piano del metodo».
Però pochi l´hanno raccolta.
«Anche più recentemente, dopo l´Ottantanove, la riflessione saggistica sulla grande rinascita della società civile nell´Europa dell´Est non ha mai incluso la famiglia. E John Rawls, il liberale che più ha meditato sulla società attuale, dedica pochissimo spazio all´istituto famigliare, che resta un soggetto passivo. Si potrebbe dire che la famiglia è un grande attore politico rimasto troppo a lungo nascosto dalla storia».

Il Giornale 7.3.10
Gentile Sig. Cervi,
Il capo dello Stato ha ricordato il suo predecessore Pertini nel ventennale della morte con la solita retorica stantia, difendendone «l’integrità morale, la dirittura e la coerenza personale» e soprattutto «i valori che sono alla base della nostra Costituzione, i valori fondanti della Repubblica, i valori dell’antifascismo, della libertà, della democrazia». E ci mancherebbe altro. Mai si levasse una voce contraria all’incensamento col paraocchi. Possibile che in Italia non si possa alzare un velo sugli aspetti oscuri del santino di Pertini? Per quanti decenni dovremo ancora sorbirci i totem della «resistenza»? Possiamo citare Pietro Nenni e Riccardo Lombardi - suoi autorevoli compagni di partito - che lo definirono rispettivamente «un violento» e un «cervello di gallina»? Possiamo ricordare che corse a Belgrado affranto a baciare la bara del Maresciallo Tito e la bandiera jugoslava? Possiamo rammentare che appena eletto al Quirinale concesse la grazia a quel Toffanin, nome di battaglia «Giacca», capo partigiano condannato all’ergastolo per la strage di Porzus e per altri reati? Alla tv hanno mostrato un servizio sullo stato fatiscente della tomba dell’ex presidente. Pare che non la visiti nessuno. A Predappio, nella cripta Mussolini, si recano oltre centomila persone l’anno. Una ragione ci sarà.
Castiglione della Pescaia (Grosseto)

domenica 7 marzo 2010

Repubblica 7.3.10
La Bonino: con i bari non si gioca
Popolo viola e Pd insieme in piazza "Le regole devono valere per tutti"
La Bonino: "Non giocherei con i bari, ma niente Aventino"
Mobilitati da due giorni: prima al Quirinale, ieri al Pantheon, oggi a Piazza Navona
Il democratici hanno deciso: anche il movimento alla manifestazione di sabato prossimo
di Antonello Caporale

Il viola più che un colore è divenuto una condizione, un sentimento. Giovanna, contrita: «Ho solo questa spilletta e non si nota come vorrei. Devo pensare a qualcosa di più leggero ma che sia vistoso».

Di questo popolo si nota il movimento: ieri notte al Quirinale, stamane a Montecitorio, ora al Pantheon. «Siamo pronti per piazza Navona, domani», dice Franco. Cinetici e giovani. Mobili e piuttosto incavolati: «Hai visto Napolitano?». C´è più gente attaccata a facebook che in piazza però. Una connessione elettronica permanente, prima che politica. Quindici post al minuto, rabbia atomizzata e sparsa per l´Italia. Da mezzanotte in poi i contatti sono decuplicati: il Quirinale stretto in mezzo. Disincato e amarezza. Proteste: «No, zio Giorgio così non si fa». Non hanno dormito. E stamane alla Sapienza, per esempio, hanno fatto domande e non preso lezioni. Domande, sì. La prima: «Perché se deposito la mia tesi di laurea un´ora dopo la scadenza mi salta la seduta?». La seconda: «Perché se pago in ritardo le tasse mi addebitano la mora?». La terza, semplice e concludente: «Se al mattino stabilito per l´esame non mi presento, non posso chiedere di sostenere la prova nel pomeriggio. Mi obbligano ad aspettare l´appello successivo».
Perché allora? «Perché il Pd non si muove?», chiede Luigi 35 anni, architetto. Si muove, stanno venendo in piazza. Ma sono guardinghi e si sentono estranei. Ospiti in casa loro. Chi è viola chi vota? C´è Vincenzo Vita, ma lui è della minoranza Pd e non vale. Ha Dario Franceschini, però di lato. Gasbarra, ma con il figlioletto, sorridente e concentrato sul passeggino. David Sassoli, in gruppo. C´è anche Bobo Craxi: «Però i grillini sono insopportabili». Il potere parlamentare d´opposizione si costituisce e segue, non anticipa e avanza. Resta in un cantuccio, sbanda, si mimetizza, è intimorito. «E vorrei vedere io! Cosa dicevano fino a una settimana fa? Servono le riforme, un confronto pacato, apriamo qui e lì, la bozza Violante eccetera. Adesso Berlusconi li ripaga con questo putrido decreto. Ben gli sta!». Fabio Mussi misura la dose di veleno. Gli sembra accettabile quella appena concessa agli ex del Pd. Che in piazza porta due bandiere. La terza è dell´Italia dei valori, molto ruffiana: dunque viola.
Da via di Torre Argentina, due passi in giù verso il teatro, giunge Emma Bonino, piccoletta ma piena di forze, rigenerata dalla grave defaillance della sua competitrice. Renata Polverini è più debole e più prevedibile del temuto. Almeno così sembra ora. La piazza è piena, turisti e "comunisti" fanno tutt´uno, e si prova con due conti. Lui: «Secondo te quanto gli costa in termini di voti?». Lei: «Due tre punti di sicuro». Di sicuro c´è solo la seggiola sulla quale deve innalzarsi il corpo di Emma, accolta come una starlette, applaudita, cinta da mani. Ma con i radicali è sempre difficile navigare tranquilli. Infatti: «Fosse solo per me non giocherei per i bari». Vuol dire che è tentata dall´Aventino? Bella mossa, ma oddio... Niente palco, è una bella scena televisiva questa arringa improvvisata ed emozionante, densa. Perfetto per lei, abituata alla povertà dei mezzi. Pare atletica, è lieve e non è solo colpa del recente digiuno. Si vede che è a suo agio, gestisce la folla. Tira dalla tasca un foglietto. Non urla, legge. Non accusa, riflette. I limiti della Costituzione, il potere e il suo uso. E l´abuso. Il diritto affondato, la devianza come stimmate esibite di questa nuova Repubblica, l´illegalità come strumento di governo. Il colpo ad effetto: «Se perdono le elezioni interpreteranno il risultato elettorale?».
Applausi e baci. Baci e abbracci. Ma c´è poco da ridere e tanto da fare. «A Milano siamo in piazza, anche a Torino», è Pietro, studente di sociologia, col megafono. A Firenze e a Napoli. Linda: «Siamo dappertutto vero, ma troppi restano al computer, chiusi in casa a guardare e commentare». No, il Pd ha deciso che sabato prossimo ci sarà una grande manifestazione e tutto il centrosinistra sarà invitato. E anche il popolo viola.
Viola. Il pomeriggio è meraviglioso e se non piove s´annunciano catene sottili e perfide, mosche sul volto di Silvio Berlusconi. Non graffiano ma ronzano, non invadono ma segnano e ricordano. Gallette che saltellano e si confondono nello struscio dello shopping da sabato: sciarpe, cravatte, spillette. Un po´ ovunque. Viola e fastidiose.

Repubblica 7.3.10
Mobilitazione immediata. Su Repubblica.it 2000 commenti
Il tam tam della protesta da Facebook a Twitter in migliaia invadono il web
di Carmine Saviano

ROMA - Decine di gruppi Facebook, un flusso ininterrotto di post su Twitter. E oltre duemila commenti su Repubblica. it. Una protesta in tempo reale contro l´approvazione del decreto salva-liste, che per tutta la giornata di ieri ha coinvolto online migliaia di cittadini.
Una mobilitazione virtuale partita alle 22 di venerdì sera, quando la notizia si diffonde sui siti di informazione e su Twitter. Nelle stesse ore, e per tutta la notte di sabato, vengono aperti su Facebook più di venti gruppi. Che immediatamente diventano raccoglitori di dissenso e di proposte. Tra le più frequentate: "No al decreto salva Polverini e Formigoni" - 6mila adesioni - e "5 marzo 2010, oggi in Italia c´è stato un golpe", oltre 15mila utenti. Segno di riconoscimento un avatar con sfondo nero, un piccolo tricolore e il motto "In lutto per la democrazia italiana". Molto attivi anche i membri di "Il decreto interpretativo è un abuso di potere".
In tarda serata attivata anche la pagina ufficiale della manifestazione prevista per sabato 13 marzo. Le adesioni sono subito centinaia. E siti e profili ufficiali dei leader del centrosinistra vengono visitati, per tutta la giornata, da elettori che promettono di ribaltare con il voto la decisione del Governo. Aggiornati in tempo reale le homepage di Bersani, Bonino, Di Pietro e Casini.
Centro nevralgico della protesta la rete del Popolo Viola. Da cui arrivano e partono indicazioni e proposte per organizzare sit-in in tutto il Paese. Repubblica. it, che per tutta la giornata raccoglie i commenti dei lettori. "Abuso", "arroganza" e "vergogna" tra le parole più utilizzate. C´è chi si dice "sdegnato dalla condotta del Governo", e chi invita a "utilizzare l´unico strumento che ci è rimasto: il voto". E ovunque tanti inviti a continuare la protesta per "difendere i valori della carta costituzionale".

Repubblica 7.3.10
Il giudizio di Zagrebelsky
"Questo decreto non si poteva fare abbiamo perso il significato della Legge"
"Una corruzione della legge che viola uguaglianza e imparzialità"
Zagrebelsky: così si apre la strada a nuove intimidazioni
intervista di Liana Milella

ROMA - Non critica Napolitano, dissente da Di Pietro, benedice le proteste, boccia un decreto inconcepibile in uno Stato di diritto. Gustavo Zagrebelsky inizia citando un episodio che, «nel suo piccolo», indica lo stravolgimento dell´informazione. Al Tg1 di venerdì sera va in onda la foto di Hans Kelsen, uno dei massimi giuristi del secolo scorso. «Gli fanno dire che la sostanza deve prevalere sulla forma: a lui, che ha sempre sostenuto che, in democrazia, le forme sono sostanza. Una disonestà, tra tante. Gli uomini di cultura dovrebbero protestare per l´arroganza di chi crede di potersi permettere di tutto».
Professore, che succede?
«Apparentemente, un conflitto tra forma e sostanza».
Apparentemente?
«Se guardiamo più a fondo, è un abuso, una corruzione della forza della legge per violare insieme uguaglianza e imparzialità».
Perché? Non si trattava invece proprio di permettere a tutti di partecipare alle elezioni?
«Il diritto di tutti è perfettamente garantito dalla legge. Naturalmente, chi intende partecipare all´elezione deve sottostare ad alcuni ovvi adempimenti circa la presentazione delle candidature. Qualcuno non ha rispettato le regole. L´esclusione non è dovuta alla legge ma al suo mancato rispetto. È ovvio che la più ampia "offerta elettorale" è un bene per la democrazia. Ma se qualcuno, per colpa sua, non ne approfitta, con chi bisogna prendersela: con la legge o con chi ha sbagliato? Ora, il decreto del governo dice: dobbiamo prendercela con la legge e non con chi ha sbagliato».
E con ciò?
«Con ciò si violano l´uguaglianza e l´imparzialità, importanti sempre, importantissime in materia elettorale. L´uguaglianza. In passato, quante sono state le esclusioni dalle elezioni di candidati e liste, per gli stessi motivi di oggi? Chi ha protestato? Tantomeno: chi ha mai pensato che si dovessero rivedere le regole per ammetterle? La legge garantiva l´uguaglianza nella partecipazione. Si dice: ma qui è questione del "principale contendente". Il tarlo sta proprio in quel "principale". Nelle elezioni non ci sono "principali" a priori. Come devono sentirsi i "secondari"? L´argomento del principale contendente è preoccupante. Il fatto che sia stato preso per buono mostra il virus che è entrato nelle nostre coscienze: il numero, la forza del numero determina un plusvalore in tema di diritti».
E l´imparzialità?
«Il "principale contendente" è il beneficiario del decreto ch´esso stesso si è fatto. Le pare imparzialità? Forse, penseremmo diversamente se il beneficiario fosse una forza d´opposizione. Ma la politica non è il terreno dell´altruismo. Ci accontenteremmo allora dell´imparzialità».
Anche lei, come l´ex presidente Onida, considera il dl una legge ad personam?
«Questa vicenda è il degno risultato di un atteggiamento sbagliato che per anni è stato tollerato. Abbiamo perso il significato della legge. Vorrei dire: della Legge con la maiuscola. Le leggi sono state piegate a interessi partigiani perché chi dispone della forza dei numeri ritiene di poter piegare a fini propri, anche privati, il più pubblico di tutti gli atti: la legge, appunto. Si è troppo tollerato e la somma degli abusi ha quasi creato una mentalità: che la legge possa rendere lecito ciò che più ci piace».
Torniamo al decreto. Si poteva fare?
«La legge 400 dell´88 regola la decretazione d´urgenza. L´articolo 15, al comma 2, fa divieto di usare il decreto "in materia elettorale". C´è stata innanzitutto la violazione di questa norma, dettata non per capriccio, ma per ragioni sostanziali: la materia elettorale è delicatissima, è la più refrattaria agli interventi d´urgenza e, soprattutto, non è materia del governo in carica, cioè del primo potenziale interessato a modificarla a suo vantaggio. Mi pare ovvio».
Quindi, nel merito, il decreto viola la Costituzione?
«Se fosse stato adottato indipendentemente dalla tornata elettorale e non dal governo, le valutazioni sarebbero del tutto diverse. Dire che il termine utile è quello non della "presentazione" delle liste, ma quello della "presenza dei presentatori" nei locali a ciò adibiti, può essere addirittura ragionevole. Non è questo il punto. È che la modifica non è fatta nell´interesse di tutti, ma nell´interesse di alcuni, ben noti, e, per di più, a partita in corso. È un intervento fintamente generale, è una "norma fotografia"».
Siamo di fronte a una semplice norma interpretativa?
«Quando si sostituisce la presentazione delle liste con la presenza dei presentatori non possiamo parlare di interpretazione. È un´innovazione bella e buona».
E la soluzione trovata per Milano?
«Qui si trattava dell´autenticazione. Le formule usate per risolvere il problema milanese sono talmente generiche da permettere ai giudici, in caso di difetti nella certificazione, di fare quello che vogliono. Così, li si espone a tutte le possibili pressioni. Nell´attuale clima di tensione, questa pessima legislazione è un pericolo per tutti; è la via aperta alle intimidazioni».
Lei boccia del tutto il decreto?
«Primo: un decreto in questa materia non si poteva fare. Secondo: soggetti politici interessati modificano unilateralmente la legislazione elettorale a proprio favore. Terzo: si finge che sia un interpretazione, laddove è evidente l´innovazione. Quarto: l´innovazione avviene con formule del tutto generiche che espongono l´autorità giudiziaria, quale che sia la sua decisione, all´accusa di partigianeria».
Di Pietro e Napolitano. È giusta la critica dell´ex pm al Colle?
«Le reazioni di Di Pietro, quando accusa il Capo dello Stato di essere venuto meno ai suoi doveri, mi sembrano del tutto fuori luogo. Ciascuno di noi è libero di preferire un comportamento a un altro. Ma è facile, da fuori, pronunciare sentenze. La politica è l´arte di agire per i giusti principi nelle condizioni politiche date. Queste condizioni non sempre consentono ciò che ci aspetteremmo. Quali sono le condizioni cui alludo? Sono una sorta di violenza latente che talora viene anche minacciata. La violenza è la fine della democrazia. Il Capo dello Stato fa benissimo a operare affinché non abbia mai a scoppiare».
Ma Di Pietro, nella firma del Presidente, vede un attentato.
«La vita politica non si svolge nel vuoto delle tensioni, ma nel campo del possibile. Il presidente ha agito usando l´etica della responsabilità, mentre evocare iniziative come l´impeachment significa agire secondo l´etica dell´irresponsabilità».
Lei è preoccupato da tutto questo?
«Sì, è anche molto. Perché vedo il tentativo di far prevalere le ragioni della forza sul quelle del diritto. Bisogna dire basta alla prepotenza dei numeri e chiamare tutte le persone responsabili a riflettere sulla violenza che la mera logica dei numeri porta in sé».
L´opposizione è in rivolta. Le prossime manifestazioni e le centinaia di messaggi sul web non rischiano di produrre una spirale inarrestabile?
«Ogni forma di mobilitazione contro gli abusi del potere è da approvare. L´unica cautela è far sì che l´obiettivo sia difendere la Costituzione e non alimentare solo la rissa. C´è chi cerca di provocare lo scontro. Per evitarlo non si può rinunciare a difendere i principi fondamentali. Speriamo che ci si riesca. La mobilitazione dell´opposizione responsabile e di quella che si chiama la società civile può servire proprio a far aprire gli occhi ai molti che finora non vedono».

Repubblica 7.3.10
Anarchici, i ribelli della Belle Epoque
Storie dell´Ottocento
di Piero Ottone

In un libro gli scritti di Giovanni Ansaldo, giornalista e amico di Galeazzo Ciano ma affascinato dai libertari italiani che morivano per abbattere re e presidenti Perché quei terroristi erano figli di "un Paese ancora malfermo"
"Io vi disprezzo, voi, le vostre leggi, il vostro ordine e il vostro governo"
"Che mi si impicchi pure, per questo motivo! Che mi si impicchi pure!"

Brutto secolo, l´Ottocento, per capi di Stato e teste coronate: si apre con la congiura dei decabristi, che cospirano contro lo zar di Russia, si chiude con l´uccisione di Umberto Primo, re d´Italia. I decabristi erano aristocratici di sangue blu, poco portati alle congiure: finirono in Siberia. Ma i protagonisti del terrorismo ottocentesco furono gli anarchici, personaggi di umile origine e di grande fierezza, idealisti, temerari. «Io vi disprezzo, voi, le vostre leggi, il vostro ordine e il vostro governo di despoti - proclamò uno di loro qualche istante prima di essere giustiziato -. Che mi si impicchi pure, per questo! Che mi si impicchi pure!»
Giovanni Ansaldo, grande giornalista e saggista, era nell´animo un conservatore: diresse ai tempi del fascismo Il Telegrafo di Livorno, fu amico di Galeazzo Ciano. Ma per gli anarchici aveva una certa ammirazione, quasi un filo di simpatia. Su alcuni di loro fece qualche ricerca, scrisse articoli e saggi adesso ripubblicati dalla casa editrice Le Lettere, col titolo Gli anarchici della Belle Epoque. In copertina c´è una divertente illustrazione di Flavio Costantini. Ne emergono ritratti di grande umanità.
I fatti, innanzitutto. Il primo degli attentati qui presi in esame fu compiuto il 24 giugno 1894, quando Sadi Carnot, presidente della Repubblica di Francia, fu aggredito a Lione, e stecchito con una sola magistrale pugnalata, da un italiano: l´anarchico Sante Caserio. Ma l´evento per noi più importante è il regicidio di Monza. Umberto era già stato bersaglio di due aggressioni, a Napoli nel 1878, a Firenze nel 1897. L´aveva fatta franca. E con mirabile sprezzo del pericolo (quanto diverso dall´andazzo dei nostri tempi) rifiutava ogni eccesso di protezione. «Credeva nel proprio mestiere di re - scrive Ansaldo - e riteneva che esso imponesse certi doveri di coraggio e di eleganza anche di fronte alla minaccia ignota». Al suo aiutante di campo Umberto diceva: «Anche se davanti a me si perlustrassero a una a una tutte le porte, tutti i canti delle strade, tutti gli androni, non si potrebbe impedire di tirarmi un colpo di revolver». Con quattro colpi di revolver, infatti, Gaetano Bresci lo freddò a Monza, il 29 luglio 1900. Un terzo attentato raccontato da Ansaldo fu diretto contro Giuseppe Bandi, fondatore e direttore del Telegrafo di Livorno (lo stesso che Ansaldo andò poi a dirigere): assassinato il primo luglio 1894, con una pugnalata come Carnot. Ce n´era, come si vede, anche per i giornalisti.
Ma chi erano, dunque, questi anarchici, questi terroristi dell´Ottocento? L´anarchismo fu un fenomeno di carattere globale, si diffuse in Europa e in America, per tante ragioni. Ma in Italia fu particolarmente rigoglioso, e alla sua fioritura, se così possiamo chiamarla, possono avere contribuito le vicende dell´unificazione: un bel tema, specie nella vicinanza del centocinquantesimo anniversario. L´Italia era stata sognata e promessa (scrive Ansaldo) «come nazione sacra investita di una missione fra i popoli»: ma era in realtà «un Paese ancora molto malfermo nelle sue assise fondamentali». Gli italiani si accorsero di essere in Europa e nell´ambito della Triplice alleanza il parente povero. Era diffusa una grande miseria, fra contadini e operai. E circolavano tante idee, bellicose e confuse.
Gaetano Bresci condivise i sentimenti di delusione e amarezza. Era nato nel 1869 a Cojano, comune di Prato, figlio di mezzadri che avevano l´ambizione di salire nella società: un fratello diventò tenente di carriera, era in servizio a Caserta al momento dell´attentato (bel risveglio per il povero tenente, chiosa Ansaldo, la mattina del 30 luglio). L´ambiente in cui Gaetano crebbe era pervaso «da una certa acredine, più sprezzante in Toscana che altrove, verso lo Stato italiano e verso la monarchia dei Savoia». E poi c´era la predicazione anarchica, i volantini, gli articoli più o meno clandestini, le riunioni. Gaetano, ragazzo serio, si iscrisse a un´associazione, fece attiva propaganda. Fra il 1891 e il 1893 fu arrestato, e condannato a qualche mese. La sua strada, ormai, era segnata.
Nel 1897 emigrò negli Stati Uniti. C´erano anarchici anche lì, lui li conobbe e si rafforzò nelle sue convinzioni. Gli eventi di quegli anni, d´altra parte, erano destinati ad accendere un odio sempre più vivo verso chi governava l´Italia, verso il suo re. Crispi aveva suscitato speranze, con le avventure coloniali, con sogni di grandezza che perfino agli anarchici, forse, del tutto non dispiacevano. Poi venne Adua, l´umiliazione della sconfitta; vennero gli scontri di Milano, le cannonate di Bava Beccaris. E il re, al generale, aveva mandato un telegramma di approvazione. Tutto questo formò una miscela esplosiva. I numerosi anarchici che si riunivano ogni sera a Paterson, nel New Jersey, a poca distanza da New York, discutevano, si montavano la testa. Un brutto giorno, decisero di fare fuori il re.
L´attentato contro re Umberto fu dunque architettato e deciso da un gruppo di anarchici italiani negli Stati Uniti. Fu scelto l´esecutore: un certo Sperandio Carbone. Ma poi Sperandio non partì: e per salvare l´onore, per dimostrare che non era un vile, uccise in cambio un certo Pessina che lo aveva licenziato, quindi si tolse la vita. Ma chi sarebbe andato al posto suo? Fu scelto Gaetano. Il quale in tre anni, da quando era approdato nel Nuovo mondo, aveva trovato un lavoro ben retribuito in una filanda di seta; e si era unito con una donna, ne aveva avuto una bambina; sicché avrebbe avuto buone ragioni per starsene tranquillo dove era. «Ma nessun dovere gli parve più imperioso - scrive Ansaldo - di quello d´eseguire l´impegno», perché l´uomo era, «a suo modo, di grossa levatura». Alla donna disse ciò che andava a compiere, le diede suggerimenti pratici, di sloggiare subito dalla casa dove vivevano, per andare a starsene sola, tranquillamente. E partì.
Sbarcò in Francia, trascorse qualche tempo a Parigi, forse incontrò Maria Sofia, la regina spodestata a Napoli e insediata a Neuilly, una Wittelsbach, che si dava un gran daffare con gli anarchici. Poi rientrò in Italia. A Prato chiese addirittura il porto d´arme: non lo ottenne, ma si esercitò con la pistola in un cortile. Fu notata la sua presenza? Destò qualche preoccupazione il ritorno dagli Stati Uniti di un tale che già era stato schedato come anarchico? Il delegato di pubblica sicurezza di Prato avvertì la questura di Firenze che era arrivato dall´America un «dritto», e tutto finì lì. Poi venne la festa ginnica a Monza, si compì il destino. Il re non voleva vedere carabinieri intorno a sé, ed era stato accontentato. Quattro colpi di pistola lo liquidarono.
L´altro anarchico di cui leggiamo le gesta, meno famoso, ma pur sempre interessante, è Sante Caserio, che uccise il presidente della Repubblica francese. Sante apparteneva a una famiglia di Motta Visconti, fra Milano e Pavia: gente di campagna, alla buona. Lui, il futuro attentatore, era un ragazzino docile, affezionato alla madre, che il prete sceglieva per fare il San Giovannino nel deserto, con la pelle d´agnello, alla processione di San Giovanni. Per campare, Sante imparò il mestiere di fornaio. A quattordici anni trasmigrò a Milano. E le letture, i manifestini, i compagni fecero di lui un anarchico a tutto tondo. Abbastanza attivo per essere preso di mira dalla polizia: per il servizio di leva lo avrebbe atteso una compagnia di disciplina. Preferì emigrare, prima in Svizzera, poi in Francia. Finì a Cette, in Linguadoca.
Il lavoro era saltuario, la paga misera. Ma entrò a fare parte di un gruppo che si chiamava Coeurs de chêne, Cuori di quercia: e lì a Cette, «amareggiato dalla miseria, dal vagabondaggio, dalla lontananza dalla patria, dalla separazione dalla madre, alla quale scriveva come poteva e quando aveva i venticinque centesimi del francobollo», concepì il progetto di far fuori, alla prima occasione, il presidente della Repubblica. Il ricordo di Aigues-Mortes, l´uccisione di tanti italiani, contribuì ai suoi propositi di vendetta. Forse una poesia di Victor Hugo, scrive Ansaldo, completò l´opera, folgorandolo. Da Cette andò a Lione: un triste viaggio, un po´ in treno, un po´ a piedi. E lì pugnalò il presidente: una pugnalata bene assestata, che gli spezzò il cuore. Era il 24 giugno: lo stesso giorno della processione in cui, ragazzino docile, faceva il Giovannino.

venerdì 5 marzo 2010

Repubblica Roma 5.3.10
"Rispettare le regole, la nostra rivoluzione"
La Bonino attacca "i potenti prepotenti" e carica i suoi: riscossa democratica
Una giornata dedicata anche all´economia della regione e alle sue eccellenze
di Laura Mari

Non c´è appuntamento, incontro o conferenza stampa in cui non ripeta perentoriamente il suo no a qualsiasi «accordo o soluzione aumma aumma» che possa risolvere il pasticcio dell´esclusione della lista del Pdl a Roma. Quello che chiede Emma Bonino, la candidata del centrosinistra alle regionali, è semplicemente «il rispetto delle leggi e della Costituzione». Lo ribadisce più volte anche durante la presentazione dei candidati della sua lista civica Cittadini per Bonino, con capolista la scrittrice Lidia Ravera e, tra i nomi in corsa, anche Lorena Guidi, Anna Vinci e i consiglieri regionali uscenti Luigi Canali, Giuseppe Celli e Peppe Mariani.
«A volte in questo Paese ha detto la Bonino chiedere il rispetto delle leggi sembra un atto rivoluzionario e dai ministri in questi giorni ho sentito pronunciare parole che in un Paese normale non avrei mai voluto sentire e che altrove avrebbero portato a un loro allontanamento immediato dall´incarico che ricoprono». Una condanna chiara e decisa, dunque, rispetto agli appelli alla piazza fatti nei giorni scorsi da ministri ed esponenti del Pdl che invitavano alla mobilitazione di massa e a urlare la propria rabbia per la riammissione della lista provinciale del Pdl. «Ora mi auguro ha proseguito la candidata del centrosinistra alla presidenza del Lazio che tutte le istituzioni dimostrino senso di responsabilità, perché oggi siamo arrivati al punto che la cultura del malaffare diventa quella del fare male e le stesse istituzioni non rispettano più le leggi che hanno fatto. Ma è bene ricordare ha chiarito la Bonino che senza lo stato di diritto non ci sono diritti e i potenti in questi giorni si stanno comportando da prepotenti».
Guardando al futuro, la candidata del centrosinistra ha ribadito che «queste elezioni possono essere un momento di riscossa democratica, non solo per il Lazio ma per tutto il Paese, un occasione per dimostrare e trovare la forza di dire che "il così fan tutti" non riguarda il nostro modo di fare politica». E fare politica, per la senatrice Emma Bonino, significa anche pensare al domani e, in particolare, all´economia della regione e ai vari settori imprenditoriali del Lazio.
«Il settore dell´audiovisivo è uno dei più grandi e importanti di questa regione» ha precisato la candidata durante l´incontro nella sede dell´Anica con il presidente Paolo Ferrari e gli imprenditori del settore della produzione e della distribuzione cinematografica. «Serve ha annunciato la Bonino una legge quadro di riordino di programmazione del settore. Ma serve anche un fondo regionale di sviluppo che attiri investitori esteri del settore». Insomma, bisogna guardare al panorama internazionale. «Dobbiamo far conoscere le nostre produzioni nel mondo ha sottolineato la candidata del centrosinistra perché sono tra i prodotti migliori del made in Italy».
In serata, la candidata radicale ha incontrato gli studenti dell´Istituto nazionale per i sordomuti, lanciando la proposta di «realizzare una mappatura dei servizi per i diversamenti abili e rifare la legge regionale sulle famiglie con disabilità».

l’Unità 5.3.10
Lidia Ravera: «Con Emma E contro il disincanto»
di J. B.

Conferenza stampa all’ora di pranzo con buffet per la presentazione della lista civica per Emma Bonino, cittadini/e, nella sede del comitato elettorale. E così, finalmente, anche Emma può mangiare qualche cosa. Sul palchetto Lidia Ravera, capolista, Anna Maria Malato, che è da anni l’anima delle liste di centro sinistra a Roma, e la candidata governatore.
Due motivi serissimi, spiega la scrittrice, mi hanno spinto a questa avventura. Il primo è «la mia passione per Emma, una diversa della politica italiana», il secondo, lei che politica l’ha fatta da ragazzina e ora si trova benissimo a fare la romanziera, lo dice con un microslogan: «Contro il disincanto riprendiamoci la politica».
La letteratura aiuta in politica perché è esercizio a mettersi nei panni degli altri: nel dolore, nel disagio nella fatica dei giovani perché precarietà significa non entrare nella vita piena, o dei vecchi il cui tempo è vuoto perché la società non è organizzata per loro. O nei panni delle donne e della loro dignità ferita, quando passano dall’essere «considerate quarti di carne a mozzarelle scadute». E una delle prime iniziative di Lidia Ravera sarà proprio un Osservatorio per la dignità delle donne. J.B.

l’Unità 5.3.10
«Subito la legge cinema» Emma Bonino incontra gli operatori di settore

«Una legge quadro per il riordino del settore cinematografico». Anche per Emma Bonino, candidata del centro sinistra alla presidenza della Regione Lazio è evidente l’urgenza di varare al più presto la tanto attesa normativa di settore. Lo ha annunciato ieri nell’ambito di un incontro fiume, svoltosi nella sede dell’Anica di Roma, di fronte agli addetti del mondo del cinema. Il distretto dell’audiovisivo del Lazio, infatti, è uno dei comparti industriali più importanti e sofferenti della regione, con oltre 200mila posti di lavoro. Secondo Emma Bonino uno degli obiettivi fondamentali è l’internazionalizzazione dell’audiovisivo laziale: «Dobbiamo far conoscere le nostre produzioni nel mondo, attraendo investitori esteri ma anche portando fuori i nostri prodotti. Il cinema italiano e la fiction sono tra i migliori prodotti del made in Italy». GA.G.

Gli Altri 5.3.10
Intervista
Marco Pannella: “Cari comunisti, ci siamo tanto odiati
di Andrea Colombo

Con la chioma argentata raccolta in una lunghissima coda di cavallo, Marco Pannella fuma una sigaretta dopo l'altra e quando parla, del ricorso radicale contro la lista di Formigoni in. Lombardia, appena accolto, sorride malizioso che pare un ragazzino. Fra le mani stropiccia sornione un foglio. «Questa citazione - spiega - è un documento storico. E del '45: leggila attentamente e prova a indovinare di chi è». Trattasi di una mezza paginetta in cui, con notevole acume, l'autore spiega perché l'anima del fascismo, nonostante la Resistenza, non è affatto morta in Italia, ed è destinata a risorgere più prima che poi. «Allora - incalza Marco - chi l'ha scritto?». Tiro a indovinare: «Togliatti». «Ma no sbotta un po` scandalizzato - è di uno più intelligente di Togliatti. E di Bottai». 


Dunque pensi anche tu che l'anima del fascismo fosse sopravvissuta quasi indenne alla Resistenza e alla Costituzione?
È stato un regime che perdura da tre generazioni a distruggere la Costituzione repubblicana e alternativa rispetto al fascismo. Il pensiero di Giustizia e Libertà, quel pensiero che è antifascista perché anticomunista e viceversa e che è anticlericale perché antifascista e anticomunista, è stato battuto subito, ed è stata imposta la continuità, con l'amministrazione dello stato fascista. La grande sconfitta si è verificata già alla Costituente. Riccardo Lombardi, in fondo, è morto con la tristezza manifesta dell'azionista battuto. 


Ma se da allora persino i neofascisti sono diventati antifascisti...
È il senso comune che in Italia è sputtanato. Il Dna del paese era tale che gli ha fatto riconoscere la metamorfosi del male fascista, una, volta battuto, ma non quelli che si erano vestiti da antifascisti per continuare la stessa opera. Dopo 60 anni, la Resistenza è un luogo comune. Però, messi alla prova dopo sei decenni di occupazione partitocratica, si ritrovano costretti a non farci vedere. Alle europee, il presidente della repubblica ritenne suo minimo dovere esercitare una certa moral suasion perché il sottoscritto andasse dopo 7 anni da Floris e per la prima volta dal '96 da Santoro. Solo con quelle presenze abbiamo preso 760mila voti. 
Di conseguenza non sono stato più invitato da nessuna parte. Quando mi chiameranno di nuovo saprò di essere diventato arteriosclerotico, matto e di non fare più paura. 


Ma mica ci siete solo voi radicali a reclamare l'eredità dell'azionismo. Repubblica non fa altro da 35 anni...
Ma Repubblica è l'opposto del Partito radicale. Letteralmente l'opposto. Non dimenticare che Scalfari col Mondo di Pannunzio aveva ben poco a che fare. Sia chiaro, è un ottimo imprenditore editoriale. Però costrinse Arrigo Benedetti, creatore e fondatore dell'Espresso, ad andarsene. Repubblica è stato il giornale di uno di quegli ex radicali che, come capita spesso anche agli ex comunisti, quando erano nel partito consideravano traditore chiunque non fosse d'accordo con loro e una volta lasciato il partito mantengono la stessa metodologia. 


E tuttavia, anche se isolati come dici tu, non si può dire che di successi non ne abbiate ottenuti in questi decenni di partitocrazia. Pensavo per esempio al referendum sulla responsabilità civile dei giudici che, se rispettato, avrebbe potuto evitare lo scontro fra poteri che dilania il paese da 15 anni.
Quel referendum lo avevamo stravinto, come quello sul finanziamento pubblico, sulla sanità, sul diritto di famiglia. Però è stato vanificato come tutte le nostre cose. Avevamo vinto grazie al popolo cattolico e a quello comunista, alla faccia dei vertici. Mi ricordo ancora quando nel cuore della notte mi telefonò Ingrao e mi chiese di rinunciare, tra i tanti referendum che proponevamo, almeno a quello contro la legge Reale. Io rifiutai e lui mi avvertì che avrebbe chiesto al suo partito di votare contro il nostro referendum. Ci rimasi un po' stupito dal momento che anni prima avevano linciato il povero De Martino proprio accusandolo di non essere stato abbastanza contrario a quella legge. Con quei referendum pareva davvero vicina una rivoluzione liberale. A favore dell'abolizione del Concordato, che noi proponevamo, era prevista una maggioranza del 70%, e sarebbe stata una vittoria anche del cattolicesimo liberale. Poi arrivarono i colonnelli, che in Italia si sono chiamati Corte costituzionale... 


Per te, insomma, c'è una divisione netta: da una parte il popolo comunista e cattolico, 
dall'altra i vertici di partito?

Il popolo comunista e cattolico è stato con noi nei momenti topici, quando ha dovuto scegliere. I vertici mai. Perfino Longo, che io adoravo, definì una iattura il referendum sul divorzio. Il vertice del Pci era tutto mobilitato per far fuori la legge Fortuna. Di me L'Unità diceva, chiamandomi leader del partito radicale tra virgolette, che cercavo di imporre il referendum per rompere l'unità fra cattolici e comunisti e anche per impedire l'unificazione sindacale che diceva, ma non era vero, essere fissata per l'inizio di luglio. E questo lo scriveva il 7 marzo del '74, a poche settimane dal referendum. Fu solo il 23 marzo, anche in virtù dei miei rapporti con Berlinguer, che quel giornale iniziò a parlare del referendum schierandosi a favore. 


Ma non era contrario al referendum anche Berlinguer?

Certo, era contrario. Ma aveva una posizione di ascolto nei confronti della nostra cultura liberale, azionista, siloniana. Era una persona non banale. Quando stavo facendo lo sciopero della fame per l'aborto, che durò novanta giorni, lo incontrai al bottegone. Fu sinceramente sorpreso quando capì che io non gli chiedevo di assumere la nostra stessa posizione ma di presentare una sua proposta in materia di legalizzazione dell'aborto. E a quel punto non è che riunì Direzione o 
Segreteria: mi accompagnò fuori dalla stanza in cui ci eravamo incontrati e in quel momento stesso annunciò che entro settembre sarebbe stato presentato un progetto del Pci sull'aborto. Poi mi invitò al congresso del Pci e ci fu un`accoglienza straordinaria. Lui stesso si alzò per stringermi la mano e i compagni, come se fossero finalmente stati liberati da un obbligo, applaudirono a lungo. 


Vuoi dire che con quel Pci degli anni '70 erano rose e fiori?
Ma figurati! Per esempio fui invitato a un altro congresso, nell`inverno 1978-'79. Ero di nuovo in sciopero della fame, fra l'altro per la legalità proprio come oggi. Avevo freddo e indossavo un maglione a girocollo blu, con loden sempre blu sulle spalle. Dissero che ero un provocatore e che mi ero presentato al loro congresso vestito da Nosferatu. Dal palco Amendola e Lama, due miglioristi, mi indicarono come il nemico assoluto annunciando che la mattina stessa mi avevano denunciato per offesa e vilipendio della Resistenza.



Cosa avevi fatto per meritare un'accusa così estrema?
Mi ero permesso di dire che a via Rasella prima di tutto non erano state ammazzate tutte SS ma che i morti, per la maggior parte, erano ragazzini di Bolzano che erano stati mandati a Roma senza averne alcuna voglia, e poi che si era trattato di un'operazione di guerra terroristica.


Col clima di emergenza antiterrorismo di quell'anno? Sfido che si sono incazzati!
Ma io quelle cose le dicevo già da quattro anni. Laico, capitiniano lo sono sempre stato, fin da ragazzo. Il 27 aprile del '45 lo lessi su Risorgimento liberale che piazzale Loreto era stata una barbarie. Avevo 15 anni e rubavo i soldi a mio padre per comprare quel giornale, se possibile in doppia copia.. E queste cose contano. Mi piacerebbe che mi seguisse qualche volta una candid camera per vedere come mi accoglie la gente per strada. Certe volte mi chiedo questi ragazzi di 16 o 17 anni come fanno a volermi bene e a conoscermi, visto che nei Tg mi si vede pochissimo, tra i politici italiani sono al centonovantesettesimo posto quanto a presenze in video, e quelle rare volte mi inquadrano per cinque secondi con la faccia più da cretino possibile e col parlato che mi fa dire cose senza senso.



Insomma, è un rapporto complesso quello fra te e la tradizione comunista italiana...

Guarda, io credo di aver fatto parte della storia del comunismo italiano dal '47-48 in poi, come credo di aver fatto parte della storia deì cattolici italiani. La. storia comunista la ho vissuta, certo in modo singolare, ma i miei rapporti con Terracini erano quelli che erano e anche con Fausto Gullo, che nella storia del Mezzogiorno italiano non significa poco. E nell'ultimo periodo della sua vita mi difese molto Vittorio Vidali. Quando a Trieste rischiavo di essere linciato dai profeti della falsa coscienza, lui, che era tornato a vivere lì, disse che non bisognava toccarmi perché ero un guaio, però ero anche un compagno. 


E con Togliatti?
Beh, Togliatti non è che adorasse i radicali. Nella redazione di Rinascita si divertiva a leggere citazioni chiedendo poi: «Allora, chi è? E' Goebbels? E' Goering?». E concludeva: «No. E' Mario Pannunzio». Con tutto ciò, nel '53 mi diede ragione. Mi mandò a chiamare e decise che il partito doveva entrare nella nostra Unione goliardica italiana.



Ti consideri interno alla vicenda sia dei comunisti che dei cattolici. Eppure per molti versi io ho l'impressione che il rapporto politico più stretto sia stato quello con Bettino Craxi...
Bettino mi considerava un po' un fratello maggiore. Sulla scala mobile avevo cercato di convincerlo, e c'ero riuscito. All'inizio degli anni '90 aveva iniziato a fare scelte che non c'entravano niente con quel che era stato sino a quel momento. Tornato da New York si era messo a fare il proibizionista. Aveva fatto quello che lo stesso Andreotti aveva avuto il pudore di evitare: patti con il Vaticano che erano molto peggio di quelli lateranensi. E con tutto questo alla fine, nel momento dello sfascio, mi chiamò e mi disse: «Adesso è il tuo turno». «Ma che sei scemo?», gli risposi. E tuttavia è chiaro anche da un punto di vista umano che, nel momento della sconfitta, abbia detto quella cosa proprio a me, che appunto ero un po' come un fratello maggiore. 


E Berlusconi? Un po', almeno all'inizio, hai sperato che incarnasse un qualche modello liberale?
Berlusconi, allora, era da dieci anni culo e camicia col Pci. Il rapporto col Psi era solo l'apparenza. Per me e per noi aveva sempre manifestato molto rispetto: tra, l'altro sua madre gli diceva sempre, e lui mi ripeteva, che come amico doveva fidarsi solo di me. Tutti dicono che 
allora stavamo con Berlusconi, ma la realtà è che io uscii dal Parlamento proprio perché mi presentai contro Berlusconi e Fini. La direzione del Pds disse che era meglio Fini di Pannella e mi schierarono contro un altro candidato.

Pensi che altrimenti avresti potuto sconfiggerlo?
L'avevo fatto battere da Rutelli l'anno precedente: perché non è che allora Francesco avesse tutta questa popolarità. Ma contro il segretario del Msi noi ci scatenammo ovunque e D'Alema commentò che era così che si dovevano fare le campagne elettorali.

Torniamo a Berlusconi...
Fu lui nel '94, unilateralmente, a decidere di non mettere in campo suoi candidati in 8 o 9 collegi del nord dove noi ci presentavamo. Fu una scelta intelligente ma non per questo noi rinunciammo a candidarci anche in un solo collegio dove ci fosse il Msi. Il bello è che oggi proprio Fini è il leader che forse più si avvicina a un impianto liberal-democratico... I ragazzi di Farefuturo hanno affermato di essere politicamente figli di Pannella. Del resto lo stesso Fini fu mandato, giovanissimo, da Almirante a un nostro congresso. Eravamo gli unici a invitarlo ma lui un po' aveva paura e si fece rappresentare da questo ragazzino allora sconosciuto. Ma era il Msi comunque: mica santi. Quando arrivammo in questa sede i neofascisti si vedevano tutti in un bar qui vicino: ci trattavano da froci e rotti in culo. Poi però, quando fu necessario, gli avvocati glieli fornimmo noi, dato che Almirante aveva dichiarato che erano traditori del partito.

A un certo punto, nel '94, dovevi addirittura diventare ministro con Berlusconi...
Dopo le elezioni del '94 scelse di mantenere un rapporto con noi e disse che io sarei stato un ottimo ministro degli Esteri. Poi, mentendo, affermò che non si poteva fare per via di Martino e mi propose invece di fare il ministro della Giustizia. Gli risposi che non avrebbe retto lo scontro per come lo avrei fatto io. Quel che dicevo e pensavo allora, di Berlusconi era che rappresentava sia un pericolo che una possibilità. Comunque, ripeto, la speranza riposta nella Costituzione è stata distrutta dalla prima, non dalla seconda repubblica, e Berlusconi è un prodotto di quel disastro. 


Il Partito radicale è oggi il più antico partito italiano. Cosa vedi nel suo futuro?
Pensando all'ultimo Leonardo Sciascia, quello di A futura memoria, mi è venuto in mente che la nostra direi "bergsoniana" durata è il frutto di una volontà e di una consapevolezza, e che il compito dei vivi è quello di assicurare un futuro nella memoria. Credo che tutti dovrebbero riflettere sul fatto che non può esservi alcuna alternativa futura al presente senza una alterità 
presente che abbia forti ed esplicite radici nel passato. Ecco la spiegazione del fatto che siamo sempre stati avvertiti come il più precario dei partiti e tuttavia. oggi continuiamo ad assicurare questa durata. Dimmi cosa sei stato e come sei stato, e ti dirò se posso darti fiducia nel presente e per il futuro.

Repubblica 5.3.10
Perché siamo un Paese sull’orlo del Baratro
di Nadia Urbinati

Il nostro paese è sul crinale di un baratro politico e criminale e non sarà questa maggioranza a ripristinare la fiducia nella politica e nei partiti. Come altre volte in passato, un´altra Italia sarà necessaria a rimediare al disastro di una violazione sistematica e proterva della legalità e del civismo, nella pubblica amministrazione come nella società civile (la quale non è per nulla innocente). Questa maggioranza non lo può fare per ragioni che sono politiche prima che giudiziarie, connaturate ad essa e al messaggio che ha in questi anni confezionato e propagandato per creare una sua solida base elettorale.
All´origine della difficoltà del premier e del suo governo di varare lo sbandierato provvedimento anti-corruzione c´è questa endogena incapacità (e impossibilità) di distinguere tra interesse e giustizia, di vedere la corruzione e soprattutto di rinunciare ai suoi sperimentati vantaggi elettorali. Questa incapacità e impossibilità è contenuta nel messaggio contraddittorio che viene da Palazzo Chigi. Infatti, se il sistema di malaffare che ci rende ancora una volta così vergognosamente popolari nel mondo è davvero opera dei proverbiali quattro gatti e di birbantelli, allora che bisogno c´è di un intervento urgente? Non ce n´è proprio. Ma allora, perché dar voce a questa nuova fanfara dell´emergenza quando nel frattempo si rappresenta lo stato delle cose in un modo che non giustifica alcuna impellenza?
Una spiegazione facile è che l´idea del fare pulizia è molto popolare; e quando si è a ridosso di elezioni e si vuole, si deve, incrementare la propria popolarità. La propaganda della pulizia può pagare, e soprattutto lo può per un tempo che si vuole limitato. Un anno e mezzo fa, per la precisione nell´autunno del 2008, il presidente del Consiglio aveva annunciato la creazione di una nuova unità speciale che avrebbe dovuto eliminare la corruzione nelle amministrazioni pubbliche e garantire più trasparenza. La task-force non doveva avere il compito di polizia, ma di "intelligence". Proponendo una politica dell´emergenza per fronteggiare l´emergenza corruzione, il capo del governo parlò allora della corruzione come di una antica patologia nel nostro paese.
Mai parole furono più vere, eppure chi si ricorda oggi di quella task-force? La propagandata fa rumore e passa, non si sedimenta nella memoria. E la nuova ondata propagandistica mira a fare proprio questo: mostrare che si vuol "fare"; usare una strategia moralizzante per creare una nebbia di malaffare nella previsione che, finita la campagna elettorale, l´oblio del circo mediatico che macina tutto così in fretta da non lasciare quasi traccia farà il suo corso. Proprio come la task-force di un anno e mezzo fa, tra qualche mese ci si ricorderà a mala pena di questo can can di nomi.
Ma c´è una ragione ancora più radicale che suggerisce di diffidare di questi propositi di mettere in piedi un´impresa di pulizia morale, una ragione sintetizzabile in una domanda: come può un´oligarchia che con tempo e fatica si è consolidata in questi anni di politica berlusconiana fare leggi contro se stessa e per auto-liquidarsi? Ecco allora che si comprende l´uso dell´espressione "birbantelli": pochi ed esemplari agnelli sacrificali serviranno a chiudere presto il caso e a rimettere in moto la macchina senza troppe perdite collaterali.
Entrambe queste ragioni – la propaganda della moralizzazione e l´esemplarità del fare – inducono a pensare che non siamo proprio a un ritorno al passato, ma semmai a una escalation e in effetti a un grande peggioramento rispetto a mani pulite atto primo. Poiché allora un´intera classe dirigente fu spazzata via, non solo alcuni birbanti (la tattica dei "mariuoli" di Bettino Craxi allora non funzionò); nessuno aveva il potere di creare salvagenti perché la fine della Guerra fredda aveva reso quella vecchia oligarchia arrugginita, vulnerabile e nuda. Ma questa nuova oligarchia ha costruito i suoi anti-corpi in un ambiente ben diverso, un ambiente non protetto da alleanze internazionali; essa è quindi più forte, più radicata e resistente di quella che vedemmo naufragare diciotto anni fa. Infatti, oggi esiste un´oligarchia che non è ancora sotto accusa da parte dell´opinione pubblica perché ha nel frattempo costruito una macchina per creare un´opinione pubblica addomesticata e recettiva ai disvalori pubblici, grazie in primo luogo all´uso monopolistico dei media e alla pratica sistematica di nascondimento del vero.
Propaganda ed esemplarità si alimentano a vicenda: dunque i proclami propagandistici sulle poche mele marce e la promessa di un decreto anti-corruzione affinché l´acqua torni presto nel proprio alveo e scorra come sempre. Ecco il paradosso: una politica che si presenta come moraleggiante e che è contemporaneamente sovvertitrice di ogni valore legale ed etico. Queste due dimensioni si sono per anni alimentate a vicenda generando quel mostruoso connubio di attenzione morbosa dei media e di altrettanto sconvolgente immutabilità delle cose, con la conseguenza di un peggioramento radicale della situazione legale e etica. È per queste ragioni che ci troviamo su un baratro dal quale questa maggioranza non può salvarci.

Repubblica 5.3.10
Il Paese diverso nel sogno liberale di Pannunzio
A cento anni dalla nascita, ritratto del fondatore del "Mondo", intellettuale rigoroso, protagonista di battaglie politiche, economiche e culturali che volevano modernizzare il paese
di Eugenio Scalfari

Mario Pannunzio oggi avrebbe cent´anni insieme al suo amico Ennio Flaiano che abbiamo ricordato due giorni fa e all´altro suo amico Arrigo Benedetti il cui centenario ricorrerà tra pochi mesi. Ma io un Pannunzio e un Benedetti centenari non posso immaginarmeli e in un´Italia come quella di oggi meno che mai.
Mario è morto 42 anni fa, il suo Mondo aveva chiuso un paio d´anni prima, il mitico Sessantotto stava cambiando i pensieri e i costumi in tutta Europa, ma lui, se anche fosse stato nel pieno delle sue forze, non l´avrebbe capito e neppure degnato d´uno sguardo d´attenzione. Il giovanilismo non lo riguardava, arrivava puntuale ad ogni generazione, contestava i padri, reclamava diritti, dimenticava doveri e poi sfumava come nebbia al sole in attesa di ripresentarsi con le generazioni successive.
Il giovanilismo della sua generazione si era affacciato sulla scena negli anni Trenta in pieno fascismo; gare sportive, littoriali della cultura (fascista), un po´ di Fronda al seguito di Bottai e di Ciano. Insomma niente che lo riguardasse. Mario era figlio d´un avvocato che era stato comunista e di una mamma di buona famiglia lucchese; era nato in un bel palazzo settecentesco del Fil Lungo, la via aristocratica della città. Aveva una sorella che amava molto. Ma la sua vera passione era il cinema, la letteratura e Alexis de Tocqueville, sul quale fece la sua tesi di laurea. Quella tesi, arricchita da riflessioni e ricerche successive, fu il suo unico libro.
Mario apparteneva infatti ad una specie molto rara tra gli intellettuali: quella dominata da una sorta di pudore culturale. Le persone colte non debbono esibire la loro cultura che sarà sempre e comunque un ennesimo del patrimonio culturale disponibile. E poi le persone colte non possono cimentarsi col mercato per misurare il loro valore in pubblico come si trattasse d´una gara di corsa o di salto. Perciò si scrive soprattutto per sé e per i pochi amici. Con essi si discute e con essi ci si misura, ma anche questi cenacoli siano improntati a discrezione e a molta ironia. L´ironia, lo "humour", la sprezzatura, niente retorica, niente eloquenza. In fondo c´era parecchio snobismo, ma di quello buono.
Con queste premesse era evidente che con i ragazzi del Sessantotto non ci sarebbe potuta essere alcuna congenialità, ma la sorte comunque gli risparmiò quel confronto che lo avrebbe parecchio infastidito.
Si è detto che Pannunzio sia stato essenzialmente un frondista, un oppositore del potere qualunque ne fossero i colori. Ma dall´interno stesso del potere, come appunto fu la storica Fronda che nacque nel Parlamento di Parigi per sbalzare di seggio il cardinal Mazzarino.
Il frondismo di Pannunzio sarebbe quello imparato nell´Omnibus fondato e diretto da Longanesi nella seconda metà degli anni Trenta, in cui Mario lavorò; e poi proseguito in proprio quando insieme a Benedetti fondò il settimanale Oggi che vide la luce nel ´39 e fu definitivamente soppresso dal Minculpop nel ´42 dopo aver subìto molte sospensioni e sequestri.
Il frondismo è una definizione esatta per Longanesi: fece la Fronda al fascismo mentre ne era un importante collaboratore propagandistico. Poi, dopo il 1945, fece la Fronda rispetto alla democrazia, in nome d´un conservatorismo borghese e aristocratico che Il Borghese da lui fondato si propose di evocare. Solo che un conservatorismo di quel tipo in Italia non era mai esistito, perciò Il Borghese longanesiano non evocò nessuno, e dopo la morte del suo fondatore, diventò un settimanale decisamente fascista perché non esisteva alcuno spazio disponibile: la Fronda può infatti aver senso sotto una dittatura ma non in un regime democratico.
Pannunzio infatti fece la sua brava Fronda sotto il fascismo. Quando il regime soppresse Oggi Mario Missiroli lo andò a trovare per manifestargli (molto riservatamente) la sua solidarietà e gli disse una frase che coglieva perfettamente quella situazione: «Vi hanno soppresso – gli disse come ha spesso raccontato – non per quello che scrivevate, ma per quello che non scrivevate». La Fronda si fa esattamente così. Ma dopo l´8 settembre non era più tempo di quel dissenso e quella sottile ironia: era tempo di guerra e Pannunzio e Benedetti parteciparono a quella guerra, Arrigo sull´Appennino tosco-emiliano, Mario a Roma in clandestinità con gli amici del Partito liberale da poco rifondato da Carandini, Cattani, Libonati, stampando e distribuendo alla macchia il Risorgimento liberale che poi ebbe la sua bella stagione dopo l´arrivo a Roma della quinta Armata nel giugno del ´44 e fu uno dei giornali di partito più interessanti fino al ´47, quando la guida del Partito liberale passò in altre mani.
La vicenda di Mario Pannunzio e dei suoi amici con il Partito liberale merita qualche approfondimento perché è illuminante sulla natura che il pensiero e la cultura liberale hanno avuto nel nostro Paese.
Quanto al pensiero fu sostanzioso, limpido e in linea con il liberalismo europeo ereditato dall´Ottocento. Guizot, Tocqueville, Benjamin Constant in Francia, i liberali inglesi di Gladstone, la Lega antiprotezionista di Cobden e tutta la grande tradizione riformista anglosassone.
Qui da noi a capo del filo c´era il conte di Cavour e poi la Destra storica con Marco Minghetti e Silvio Spaventa in particolare: libero commercio, libero mercato, ma anche regole che combattessero i monopoli, ripartissero equanimemente il reddito, impedissero privilegi, garantissero eguaglianza delle condizioni di partenza e tenessero aperto l´accesso al mercato.
In quei primi anni subito dopo il disastro della guerra e la ritrovata democrazia, le più alte voci della cultura liberale in Italia furono quelle di Benedetto Croce e Luigi Einaudi. Ai loro fianchi emergevano i Calogero, gli Omodeo, i De Ruggiero, i Salvatorelli, gli Jemolo, i Ruffini, i Romeo, un gruppo di storici e di intellettuali di sentimenti profondamente liberali ma anche assai sensibili ai temi della eguaglianza sociale. Insomma "Giustizia e libertà", il Partito d´Azione come costola moderna del pensiero liberale. Ipotesi che Croce ed Einaudi non accettarono mai perché per loro il liberalismo era una filosofia politica più che un partito e la filosofia non ammetteva contaminazioni.
Pannunzio e i suoi amici si sentivano e si trovarono con un piede nel liberalismo classico e con un altro nel Partito d´Azione. In realtà il Partito liberale dal ´47 in poi ebbe una torsione conservatrice e confindustriale che l´ala carandiniana non accettò. Il Partito d´Azione nel frattempo si polverizzò in mille pezzi e cessò di esistere. Vennero insomma a mancare i fondamenti politici del loro pensiero.
Il vuoto poteva essere riempito in un solo modo: fondando un giornale al servizio di una cultura politica che fu chiamata di sinistra liberale. Così nel 1949 nacque Il Mondo. I numi tutelari erano Croce, Einaudi, Salvemini.
Il sodalizio giornalistico-politico fu caratterizzato dal tandem Pannunzio-Ernesto Rossi. Ma attorno a Pannunzio si formò uno stuolo di collaboratori che rappresentava il meglio della cultura "liberal" di quegli anni, più a sinistra dello stesso fondatore e direttore del giornale.
L´elenco è già stato fatto infinite volte ed è inutile ripeterlo qui se non per ricordare alcuni nomi particolarmente significativi: Vittorio De Caprariis, Francesco Compagna, Vittorio Gorresio, Enzo Forcella, Alberto Moravia, Vitaliano Brancati, Sandro De Feo. Di Flaiano si è già detto. Più tardi arrivarono Arbasino, Siciliano, Ronchey, ma a nominarli tutti ci vorrebbe una pagina intera.
Gli avversari erano chiaramente individuati: i comunisti da un lato, i clericali dall´altro. L´antifascismo era il sentimento fondante e la lotta contro i "padroni del vapore" altrettanto. Dunque i confini politici erano netti, ma con la Dc di De Gasperi, il colloquio c´era ed anche con Giolitti e Riccardo Lombardi. Con Togliatti no, ma con Giorgio Amendola sì.
Non c´erano in questo gruppo né Longanesi né Indro Montanelli. Loro continuarono a fare Fronda. Quella di Indro era una Fronda popolare, senza lo snobismo longanesiano. Talvolta il popolare ebbe qualche venatura populista, sempre sorretta da un formidabile mestiere che però con Mario Pannunzio non ebbe nulla a che vedere.
***
Anch´io ho collaborato al Mondo, dal 1949. Ne accenno qui poiché per me quella collaborazione, le amicizie che ebbi, l´aria che in quelle stanze respirai furono l´inizio d´un lungo percorso che dette vita prima all´Espresso e poi alla Repubblica e ha avuto e ha qualche significato nel giornalismo e nella for-mazione di tre generazioni di italiani.
Vi collaborai in vario modo. Con articoli di contenuto economico e politico, con i convegni degli amici del Mondo che si svolsero tra il 1955 e il 1963 ed elaborarono una vera e propria piattaforma programmatica che costituì la struttura culturale del centrosinistra inaugurato col governo Fanfani del ´62 e con il governo Moro del ´63. Infine ebbi con Pannunzio una lunga frequentazione privata quasi quotidiana insieme alla cerchia più intima che si raccoglieva intorno a lui la sera in alcune trattorie e caffè, da Nino in via Rasella e in via Borgognona, da Giovanni in via Marche, al Caffè Rosati, al Golden Gate e allo Strega in via Veneto, da Rosati e Canova a Piazza del Popolo.
Si faceva notte fonda e ci si divertiva a discutere, ma quasi mai di politica e ben poco di letteratura. Si scherzava. Si motteggiava, e se volete, si cazzeggiava. La letteratura in realtà era alla base di questi nostri conversari, ma una base implicita, fatta di «gusci di noce e frammenti di vetro colorati» come scrisse poi Italo Calvino per descrivere la sua «leggerezza profonda». Ecco, i discorsi erano apparentemente frivoli ma in realtà intessuti di leggerezza pensosa e questo rendeva quelle serate preziose per ciascuno di noi che vi partecipavamo.
Quando Mario è morto ho passato una giornata di grande commozione. Come per la morte d´un padre. Ma i nostri rapporti si erano raffreddati e poi interrotti già da tempo. La linea dell´Espresso, che all´inizio era stata parallela a quella del Mondo, col passar degli anni si era divaricata: noi eravamo aperti verso i socialisti, Il Mondo reagì attestandosi su una posizione liberal- repubblicana. Sfumature senza molto significato. La crisi dei nostri rapporti in realtà era avvenuta nel momento della dissoluzione del Partito radicale che avevamo fondato nel ´55 e si spense nel ´63, ereditato da Marco Pannella che ne fece tutt´altra cosa.
Per quanto mi riguarda, dico personalmente e non politi-camente, fu la rottura d´un figlio che si voleva affrancare dalla tutela paterna, con il dolore che rotture del genere comportano.
Ricordare oggi questi fatti significa cercare il senso d´una vicenda privata che ebbe an-che qualche risvolto pubblico e che è così remota da esser diventata la preistoria d´un´anima ormai molto lontana da quella di allora.

il Fatto 5.3.10
Il più grande licenziamento della storia
Riduzioni agghiaccianti: quasi 130 mila posti di lavoro, 82 mila docenti e 45 mila tecnici.
di Marina Boscaino

I precari sono 200 mila persone in carne e ossa, docenti e personale tecnico. Hanno 39 anni in media: troppo vecchi per rifondare la propria identità professionale, troppo giovani per arrendersi.
Si tratta del maggior licenziamento di massa della storia, enormemente superiore all’affare Alitalia, in prima pagina per settimane. Riduzioni agghiaccianti: quasi 130 mila posti di lavoro, 82 mila docenti e 45 mila tecnici. C’è chi rileva con pedanteria che il totale non corrisponde a chi non lavorerà, perché una parte verrà assorbita dai pensionamenti. Dobbiamo rallegrarci? La categoria precariato è così fluttuante che non merita nemmeno un inquadramento specifico nei “meno” del saccheggio di diritti costituiti dall’operazione Gelmini-Tremonti. Duecento mila sono solo i supplenti con incarico annuale fino al 30 giugno, cui vanno aggiunti i circa cinquantamila reclutati per periodi brevi. Abile creazione del sistema per mantenere la propria immobile esistenza, prodotto da politica e amministrazione, mercificando vite e consentendo alla scuola costi bassi ma senza garanzie, il precariato ha visto il suo boom con la scolarizzazione di massa. Tra il 1960 e ’75 il concorso non riuscì soddisfare la domanda di insegnanti e così politiche economiche e amministrative stabili e condivise fecero del precariato un metodo di reclutamento ispirato dall’incapacità di concepire la scuola come luogo di cittadinanza. Non si attuò un’attenta programmazione e non si selezionò il personale in modo adeguato ai compiti richiesti dalla Costituzione: perfino per le materie in sofferenza di organico furono attuati concorsi a distanza di decenni.
Le cause: indisponibilità ad affrontare i problemi di gestione del personale; mutato atteggiamento verso la spesa pubblica in istruzione. In mezzo una giungla di provvedimenti, frutto di consociativismo spinto e di dissennato e traversale disinvestimento su un modello di scuola funzionale a un mondo in continuo cambiamento.
Risposte occasionali, provvisorie, “toppe” su situazioni sempre prossime a conflagrare; estemporanee decisioni condizionate da tornate elettorali o da fasi di maggiore rivendicazione da parte di chi – intanto – in una condizione di precarietà economica, lavorativa, esistenziale, mandava avanti parte della scuola italiana. Uno dei molti possibili esempi di schizofrenia politico-amministrativa è quello dell’istituzione nel 1998 delle Siss – Scuole di Specializzazione per l’Insegnamento Secondario; nel 2000 è bandito un megaconcorso per accesso a cattedra e conseguimento di abilitazione; in parallelo, si dà vita a corsi riservati, rivolti a insegnanti (detti “precari storici”) con almeno 360 giorni di supplenza, ancora per l’abilitazione. Fu così abilitato un numero di insegnanti sproporzionato, che generò peraltro un’incresciosa quanto ovvia tensione tra “storici” e “sissini”. Il consociativismo ha prodotto sanatorie, stabilizzazioni ope legis, aggiustamenti di graduatorie, corsi abilitanti. In mezzo, donne e uomini per cui, anno dopo anno, la cabala si compiva nei corridoi di qualche provveditorato, in attesa di una chiamata tardiva per chissà dove, ad anno scolastico già iniziato. E non dimentichiamo gli studenti, di tutte le età, che negli anni, ogni anno, hanno visto sfilare anche 3 o 4 supplenti e per i quali la continuità didattica è stata formula suggestiva, mai praticata.
“Non pagheremo noi la vostra crisi” era uno degli efficaci slogan dell’Onda. Invece quella crisi la stiamo pagando tutti. Ma loro più di tutti: studenti precari e precari precarizzati.

l’Unità 5.3.10
Superiori senza legge Ma il 27 scade l’iscrizione
Scuole nel caos Il testo Gelmini non è ancora stato pubblicato sulla Gazzetta ufficiale
Termini strettissimi. Ma per quale progetto stanno optando le famiglie? Ci sarà una proroga?
di Fabio Luppino

Una situazione surreale. Sono in corso le iscrizioni alle superiori, ma la cosiddetta riforma epocale Gelmini non è ancora legge. Il modo dozzinale di procedere del governo che stavolta pagano le famiglie.

Il pasticcio delle liste è la conseguenza di cosa sia il diritto e l’iter legis per il centrodestra. La pura formalità trattata con arroganza toglie il diritto alla contesa politica. Ma in un campo che riguarda milioni di ragazzi il governo sta procedendo con il meccanismo che oggi gli è scappato di mano come se niente fosse. Sono in corso le iscrizioni alle scuole superiori. La scadenza è il 27 di questo mese. La cosiddetta riforma Gelmini non è ancora legge, però. I regolamenti varati dal governo non hanno avuto la firma del capo dello Stato, né, tanto meno, la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale, atto, l’ultimo, che perfeziona e mette in vigore una legge.
COSA È IN VIGORE?
Un pasticcio vero che riguarda centinaia di migliaia di ragazzi e le loro famiglie. A quale tipo di scuola si stanno iscrivendo? In punta di diritto non a quella riformata e anzi si stanno ponendo in essere le condizioni per dei ricorsi amministrativi capaci di bloccarne gli effetti. In quale caso si sceglie in forza di una legge che non c’è? «La riorganizzazione della scuola superiore imposta dal ministro Gelmini si sta sempre più rivelando come un'iniziativa improvvisata dicono Francesca Puglisi e Davide Zoggia, della segreteria pd, responsabili scuola ed enti localiMancano ormai venti giorni al termine ultimo per le iscrizioni e il governo non ha ancora pubblicato sulla Gazzetta ufficiale i regolamenti di riordino. Forse Gelmini pensa che le leggi si possano render tali pubblicandole sul sito internet del ministero, ma le cose non stanno così». «Lo stesso governoaggiungonoha portato via agli enti locali la facoltà di organizzare l'offerta formativa territoriale: dopo tanto parlare di federalismo, la destra si comporta nella maniera più centralista. Molti enti locali rivendicano il loro diritto ad essere protagonisti su formazione e scuola e cercano di dare una risposta alle famiglie, che rischiano di non avere tempo per scegliere consapevolmente gli indirizzi di studio, e alle scuole per potersi organizzare».
TUTTO VERO SOLO SUL WEB
In questo momento la legge non c’è, è indubbio. Cosa devono fare le famiglie? E, soprattutto, cosa devono rispondere le scuole alla richiesta di chiarimenti? Il ministero continua, appunto ad inondare di comunicazioni online sulle scuole e sulla riforma, ma di effettivo non c’è nulla. Una repubblica delle banane. Così come la deroga che è sta-
ta data ai presidi per fare i bilanci. Un mese in più per redigere un documento il cui valore è del tutto virtuale. Sì, perché i capi d’istituto (a cui è stata inviata settimane fa una circolare con l’invito ad usare i fondi propri per l’offerta formativa per pagare i supplenti) avranno segnato a credito centinaia di migliaia di euro che non avranno mai. Sono i soldi che lo Stato gli deve dare per anticipi impropri che le scuole sono state costrette a fare. Nel complesso si tratta di cifre che toccano il miliardo di euro. Soldi virtuali, come, al momento, la riforma della scuola secondaria superiore.❖

l’Unità 5.3.10
Fine vita e voto segreto
Marino «strappa» un mezzo sì a Fini
di Susanna Turco

Al dibattito sul libro del senatore-chirurgo va in scena un duetto sull’imminente passaggio alla Camera del testamento biologico Il presidente della Camera: «Prerogativa citata dal regolamento»

Fuori impazza il delirio delle liste del Pdl bocciate e della relativa eventuale legge per uscirne. Dentro, per restare in tema ma anche no, si discute di fine vita e biotestamento. Una questione di quelle che, nel gergo spiccio di Palazzo, vanno a «dopo le Regionali». Vale a dire tra mille miglia di parole. E che invece sarà discussa solo tra qualche settimana, alla Camera.
Per ora se ne parla nella sala del Mappamondo, alla presentazione del libro di Ignazio Marino, Nelle tue mani. Medicina, fede, etica e diritti. C’è il senatore del Pd, ovviamente, e c’è anche il presidente della Camera Gianfranco Fini. Fa uno strano effetto vederli accanto: esteticamente compatibili, spesso ammiccanti l’un con l’altro, perfettamente concordi sulla legge che si dovrebbe fare, e sull’atteggiamento che si dovrebbe avere. Una legge non prescrittiva. Un dibattito non ideologico. Non questa e non così, dunque.
Per questa via, parte il siparietto che anticipa gran parte delle discussioni che ci saranno tra qualche settimana. L’ex leader di An chiede a Marino: «Siamo alla vigilia del dibattito in aula: auspici speranze, o timori?», E poi insinua: «Sapendo che c’è il voto segreto...». Il senatore del Pd coglie la palla al balzo: «Beh, sapendo che il voto segreto è una prerogativa del presidente della Camera...». «Non mi metta nei guai», lo blocca Fini, «è una prerogativa citata esplicitamente dal regolamento, e quindi almeno da questo punto di vista non avremo problemi applicativi». Marino: «Già capisco che il voto segreto verrà usato, quindi». Fini alza le mani. Il regolamento della Camera, del resto, è chiaro. Prevede il segreto per le votazioni che incidono sui diritti della persona umana: e aggiunge che «in caso di dubbio, decide il presidente della Camera».
Ignazio Marino, che tutto questo lo sa e lo auspica, fa un passo oltre: «Io la penso come quel presidente della Corte Suprema degli Usa, un repubblicano, che nell’88, in pieno dibattito sul biotestamento disse: “Nel tema del fine della vita, lo Stato è straniero per il paziente: deve decidere chi è legato a lui da vincolo d’amore”. Qui da noi invece la legge indica quali sono le terapie cui una persona deve essere sottoposta. Allora facciamo un gesto di ragionevolezza: una legge leggera,un articolo solo, che dice che c’è l’ obbligo di somministrare tutti i trattamenti sanitari necessari, in assenzadi biotestamento: arriverei anche ad ammettere l’obbligo di idratazione e alimentazione, eccetto per chi abbia indicato di non volerle». Fini ringrazia, ma non si sbilancia, dice «vediamo che sorte avrà il suo invito». Eppure, sostiene la stessa cosa quando predica di «non applicare gli schemi della polemica politica, ma piuttosto tentare di immedesimarsi in chi vive realmente il dramma». Del resto, ilsuo fedelissimo Benedetto Della Vedova è pronto da tempo, a presentare in Aula la proposta di una soft law: la legge leggera di cui parla Marino. ❖

l’Unità 5.3.10
Da Mosca agli Usa l’orchestra low cost 40 dollari a concerto
La Moscow State Radio Symphony Orchestra viaggia in bus e dorme in alberghi dimessi. Per mangiare ci si ferma da Wall-Mart. La protesta al New York Times: «È degradante»

Quaranta dollari a serata. Certo non sarà l’orchestra del Bolshoi, o la sarabanda di musicisti avventurosamente
contrabbandati come tali nel film di Mihaileanu, «Il Concerto». Ma trapela un’aria un po’ tzigana dalle sconcertanti traversie americane della Moscow State Radio Symphony Orchestra. Una novantina di elementi catapultati da una parte all’altra degli States, su e giù sulla cartina geografica a bordo di autobus, un ricamo a zig zag tra cittadine di provincia che impazziscono per la musica classica ma hanno budget ridotti all’osso. E tirano sul prezzo. Per tirare hanno tirato parecchio, in effetti, tanto che qualcuno se ne è lamentato telefonando al New York Times. Se per le grandi orchestre europee ci sono alberghi a cinque stelle e una diaria di 100 dollari oltre all’ingaggio, l’orchestra moscovita ha dovuto accontentarsi del «lusso sfrenato» di hotel low cost, camere doppie, lunghe trasferte in autobus e neanche un centesimo di diaria. Va già bene se nel pernottamento è inclusa la colazione. Per il resto ci si arrangia, l’autista del torpedone è sempre disposto a fermarsi da Wall-Mart per comprare qualcosa da mangiare. E per ogni concerto si portano a casa 4 biglietti da 10 dollari. «È degradante. Sono sconvolto», ha protestato con il New York Times Sergei Levitan, ingegnere meccanico che vive a Manhattan, ma è russo e conta amici tra gli orchestrali.
Cinquantatré concerti in 67 giorni, un giorno di riposo ogni due settimane. Quincy, Urbana, Modesto, Savannah, ma anche San Diego, Las Vegas, Atlanta, Saint Louis. Tirando la cinghia. Gli organizzatori quotano l’ingaggio della Moscow State Radio Symphony Orchestra tra i 50 e i 75.000 dollari, quasi la metà di quello che prenderebbe un’orchestra più nota, un quarto dei Berliner Philharmoniker, senza contare hotel e diaria. E magari i musicisti di Mosca non saranno altrettanto prestigiosi «i fiati sono un po’ deboli» ma hanno alle spalle molti concerti e numerose incisioni per la Naxos, la più famosa etichetta di musica classica.
E infatti li chiamano per questo. A Worcester, Massachusetts, li hanno voluti per una serata dedicata a Tchaikovsky. Perché e sembra una battuta rubata al film di Mihaileanu «assolutamente nessuno suona Tchaikovsky come lo suonano i russi». E a un costo più basso di quanto farebbe qualunque orchestra made in Usa: i musicisti sono più dispendiosi e i sindacati si avventerebbero sull’incauto impresario che volesse tirare sul prezzo. «Le orchestre americane sono difficili da vendere», conferma il presidente dello State Theater di New Brunswick, che ha ospitato i musicisti moscoviti.
In fondo per la musica valgono le stesse regole globalizzate di qualsiasi altra merce. E la tounée americana è una sorta di delocalizzazione itinerante, azzeramento dei diritti sindacali incluso. È andata male a chi è partito dalla Russia sognando di vedere un po’ d’America e l’ha vista dal finestrino di un bus, salvo un pomeriggio di straforo a New York. Quanto alla paga, beh, non tutti gli orchestrali se ne lamentano molti in effetti sono studenti o free-lancer assoldati per l’occasione e a casa non guagnano di più. Ma c’è un ma. «C’è una diretta relazione tra come suoniamo e come siamo pagati». La qualità ha ancora un prezzo.❖

Repubblica
Quel celibato da abolire
di Hans Küng

Abusi sessuali in massa ai danni di bambini e giovani ad opera di preti cattolici, dagli Usa alla Germania, passando per l´Irlanda: un enorme danno di immagine per la chiesa cattolica, ma anche segno palese della sua crisi.

Abusi sessuali in massa ai danni di bambini e giovani ad opera di preti cattolici, dagli Usa alla Germania, passando per l´Irlanda: un enorme danno di immagine per la chiesa cattolica, ma anche segno palese della sua profonda crisi.
Il primo a prendere pubblicamente posizione a nome della Conferenza episcopale tedesca è stato il suo presidente, l´arcivescovo Robert Zollitsch (di Friburgo). La sua condanna degli abusi, definiti «orrendi crimini», e la richiesta di perdono sono primi passi nel processo di assunzione di responsabilità per fare i conti col passato, ma altri devono seguire. La presa di posizione di Zollitsch mostra indubbiamente gravi errori di valutazione, che vanno contestati.
Prima affermazione: Gli abusi sessuali compiuti dai sacerdoti non hanno nulla a che fare con il celibato.
Obiezione! È indiscutibile che tali abusi si verifichino anche in seno alle famiglie, nelle scuole, nelle associazioni e anche nelle chiese in cui non vige la regola del celibato.
Ma come mai si registrano in massa proprio nella chiesa cattolica, guidata da celibatari? Chiaramente queste colpe non sono attribuibili esclusivamente al celibato. Ma quest´ultimo è la più importante espressione strutturale dell´approccio teso che i vertici ecclesiastici cattolici hanno rispetto alla sessualità. Diamo uno sguardo al Nuovo Testamento: Gesù e Paolo sono stati sì esempio di celibato a servizio degli uomini, ma lasciando ai singoli la piena libertà a riguardo. Pietro e gli altri apostoli erano sposati nell´esercizio del loro ufficio. Questa rimase per molti secoli una condizione ovvia per i vescovi e i presbiteri ed è mantenuta fino ad oggi in oriente anche nelle chiese unite a Roma, come in tutta l´Ortodossia, quanto meno per i preti. La regola romana del celibato è in contraddizione con il Vangelo e l´antica tradizione cattolica. Deve essere abolita.
Seconda affermazione: E´ «totalmente errato» ricondurre i casi di abuso a difetti del sistema ecclesiastico.
Obiezione! La regola del celibato non esisteva ancora nel primo millennio. In occidente fu imposta nell´undicesimo secolo sotto l´influsso dei monaci (volontariamente celibi) soprattutto del Papa di Canossa, Gregorio VII, a fronte della decisa opposizione del clero in Italia e ancor più in Germania, ove solo tre vescovi si arrischiarono a proclamare il decreto di Roma. I preti protestarono a migliaia contro la nuova regola. Il clero tedesco così si espresse in una petizione: «Forse il papa ignora la parola del Signore: "chi può capire, capisca"? (Mt 19,12)? In questa affermazione, l´unica sul celibato, Gesù sostiene la libera scelta di questo modo di vivere». La regola del celibato diventa così assieme all´assolutismo papale e al clericalismo forzato uno dei pilastri essenziali del «sistema romano».
Diversamente da quanto avviene nelle chiese orientali, si ha l´impressione che il clero celibatario occidentale, soprattutto attraverso il celibato, si differenzi totalmente dal popolo cristiano: un ceto sociale a sè stante, dominante, che fondamentalmente si erge al di sopra del laicato, ma è del tutto sottomesso al Papa di Roma. L´obbligo di celibato è il motivo principale della catastrofica carenza di sacerdoti, della mancata celebrazione dell´eucarestia, carica di conseguenze, e, in molti luoghi, della rovina della cura personale delle anime. Tutto questo viene dissimulato attraverso la fusione delle parrocchie in «unità di cura delle anime», con parroci costretti a operare sopra le forze. Ma quale sarebbe il miglior incoraggiamento alla nuova generazione di sacerdoti? L´abolizione della regola del celibato, radice di ogni male, e permettere l´ordinazione delle donne. I vescovi lo sanno, ma dovrebbero anche avere il coraggio di dirlo. Avrebbero il consenso della gran maggioranza della popolazione e anche dei cattolici i quali, stando a tutti i più recenti sondaggi, auspicano che ai preti sia consentito sposarsi.
Terza affermazione: I vescovi si sono assunti responsabilità sufficiente.
È ovviamente positivo che vengano ora intraprese serie misure mirate all´indagine e alla prevenzione. Ma non sono forse i vescovi stessi responsabili della prassi decennale di insabbiamento dei casi di abuso, che spesso ha condotto solo al trasferimento dei colpevoli all´insegna della massima riservatezza? Chi in precedenza ha insabbiato è credibile oggi nel ruolo di indagine? Non dovrebbero essere istituite commissioni indipendenti? Finora nessun vescovo ha ammesso la propria corresponsabilità. Ma potrebbe far rimando alle istruzioni ricevute da Roma. Al fine di garantire il più assoluto riserbo la Congregazione vaticana per la fede dichiarò di propria esclusiva competenza tutti i casi importanti di reati sessuali ad opera di religiosi, così i casi relativi agli anni 1981-2005 finirono sulla scrivania dell´allora Prefetto, il Cardinal Ratzinger. Quest´ultimo inviò non più tardi del 18 maggio 2001 una missiva solenne sui gravi reati («Epistula de delictis gravioribus») a tutti i vescovi del mondo, ponendo i casi di abuso sotto segreto pontificio («secretum Pontificium»), la cui violazione è passibile di punizione ecclesiastica.
La Chiesa non dovrebbe quindi attendersi un «mea culpa» anche da parte del Papa, in collegialità con i vescovi? E, come ulteriore riparazione, che la regola del celibato, che non fu permesso mettere in discussione durante il concilio vaticano secondo, possa essere ora finalmente presa in esame liberamente e apertamente in seno alla chiesa. Con la stessa apertura con cui oggi finalmente si fanno i conti con i casi di abuso sessuale dovrebbe essere discussa anche quella che è una delle loro cause strutturali fondamentali, la regola del celibato. È questa la proposta che i vescovi dovrebbero avanzare senza timore e con forza a Papa Benedetto XVI.
(traduzione di Emilia Benghi)

Repubblica 5.3.10
Intervista a Jeremy Rifkin
Ci salverà la terza rivoluzione industriale

L´INTERVISTA Parla l´economista americano. Esce oggi il suo nuovo libro: "La civiltà dell´empatia"
Troppi segnali indicano che siamo davvero a un punto di svolta della specie umana
Per le generazioni giovani è scontato che il mondo è fatto di condivisione e cooperazione

NEW YORK. Nel nuovo saggio di Jeremy Rifkin che esce ora in Italia, La civiltà dell´empatìa (Mondadori, pagg. 648, euro 22), c´è un primo messaggio che in apparenza è rassicurante. Sulla scorta di una robusta evidenza scientifica, l´autore spiega che noi siamo una specie animale "empatica", allenata a provare compassione, partecipazione, solidarietà. Il secondo messaggio è decisamente allarmante. La nostra empatìa per millenni si è esercitata entro cerchie ristrette, dalla famiglia alla comunità agricola fino allo Stato-nazione, non è commisurata all´estensione globale della nuova comunità umana. Riprogrammare la nostra coscienza, applicare l´empatìa su scala planetaria, è urgente se vogliamo evitare la distruzione della nostra specie (e di molte altre). Una terza componente interessante del libro è un piano ambizioso per risolvere l´equazione energetica. Si tratta di applicare all´energia il modello Internet, nel senso di una rivoluzione dal basso, un sistema di produzione e di consumo diffuso, capillare, decentrato e flessibile. Presidente della Foundation on Economic Trends di Bethesda, docente alla Wharton School, autore già popolarissimo nel mondo intero con saggi come La fine del lavoro (1995) o Economia all´idrogeno (2002), Rifkin in questa intervista discute le tesi della sua ultima opera, la più ambiziosa e impegnativa di tutte.
L´avvertimento che lei lancia non può essere preso alla leggera: siamo vicini a una sorta di implosione globale, lo stadio finale e autodistruttivo delle varie rivoluzioni industriali.
«Non voglio suonare come l´ennesimo profeta dell´apocalisse, ma troppi segnali indicano che siamo davvero a un punto di svolta nella storia delle specie umana, il nostro destino può giocarsi in modo fatale entro pochi decenni. Due segnali recenti lo confermano. Uno è stato la grande crisi alimentare del 2008, che precedette (e in realtà provocò) il collasso della finanza globale: sotto la pressione della crescita cinese e indiana il petrolio toccò 147 dollari al barile, i rialzi delle derrate agroalimentari provocarono tumulti del riso e del pane in tante nazioni emergenti. Il secondo segnale è stato il fiasco del vertice di Copenaghen sull´ambiente: gli stessi leader che non avevano saputo prevedere il disastro del 2008, sono stati incapaci di affrontare il cambiamento climatico».
Lei mette sotto accusa la cultura attraverso cui noi, e le nostre classi dirigenti, interpretiamo il mondo.
«Siamo ancora prigionieri della tradizione illuminista, del pensiero di Locke e Adam Smith: quello che ci rappresenta l´uomo come un essere razionale, materialista, individualista, utilitarista. Se continuiamo a usare questi strumenti intellettuali del XVIII secolo, siamo davvero condannati. Entro quella cornice culturale è impossibile per 6 miliardi di persone affrontare la scarsità delle risorse naturali. Copenaghen è fallito perché dei leader come Obama e Hu Jintao hanno continuato a pensare in termini geopolitici tradizionali, secondo gli interessi degli Stati-nazione anziché quelli della biosfera».
L´empatìa può avere effetti perversi, aumentando l´entropìa: questo è un concetto che lei ha già usato in passato, nel senso di un degrado che distrugge l´energia disponibile. Un esempio storico?
«L´impero romano fu capace di espandere l´empatìa dei suoi cittadini creando una comunità molto vasta unita dallo stesso destino. Ma al tempo stesso spinse lo sfruttamento della sua base agricola fino all´estremo, fino a provocare un esaurimento che fu la vera causa del declino, prima delle invasioni barbariche. La storia si ripete. Oggi su scala ben più ampia. Più le civiltà diventano complesse, più si moltiplicano le connessioni fra gli esseri umani; ma al tempo stesso vengono richiesti maggiori flussi di energia e questi aumentano l´entropìa. La Terza Rivoluzione industriale che io disegno, nascerà dalla necessità di mitigare l´impatto entropico delle prime due. Come le altre rivoluzioni industriali, sarà trainata da una convergenza tra le nuove tecnologie della comunicazione e dell´energia. Le prime civiltà idraulico-industriali si fondarono sull´invenzione dell´alfabeto; la seconda rivoluzione industriale dall´Ottocento al Novecento fu l´incontro fra corrente elettrica, telegrafo, radio, tv».
Per questo oggi lei vede in Internet una benefica opportunità, e ha fiducia nei giovani che sono cresciuti dentro questo nuovo universo della comunicazione?
«La generazione che si è affacciata alla conoscenza nel terzo millennio dà per scontato che il mondo è fatto di condivisione e cooperazione. Le vecchie generazioni hanno ancora un´idea del cambiamento dettato dall´alto verso il basso, i giovani vivono in una dimensione decentrata, sono interconnessi orizzontalmente, senza gerarchie. La mia generazione ammirò le foto della terra prese dall´Apollo nella spedizione sulla luna, fu la nostra prima esperienza di empatìa verso l´intero pianeta visto da fuori. I nostri figli ogni giorno attraverso GoogleMap si percepiscono come cittadini del pianeta terra. Disastri come i terremoti ad Haiti e in Cile, con Twitter si trasformano nell´occasione di un´immediata solidarietà umana su scala globale. Questi ragazzi abituati a usare Skype per parlarsi col compagno di Tokyo intuiscono che siamo un´unica famiglia planetaria, per loro è più facile comprendere che ogni gesto quotidiano in ogni angolo del mondo ha un impatto in tempo reale sulla biosfera e colpisce la specie umana ovunque essa si trovi. Lì si è già avviata la transizione verso una nuova forma di coscienza».
In questa Terza Rivoluzione industriale che è alle porte, il modello Internet può salvarci anche dalla crisi energetica? In che modo?
«Le nuove tecnologie della comunicazione convergono con le energie rinnovabili. È quello che io chiamo l´energia distribuita, o diffusa. Perché le fonti rinnovabili – sole, vento, energia biotermica, biomasse da rifiuti – si trovano in mezzo a noi, equamente ripartite su ogni metro quadro della superficie terrestre. A differenza delle energie fossili come il petrolio e il carbone, la cui concentrazione territoriale è stata fonte di enormi problemi geopolitici».
In pratica che cosa significa abbracciare il modello dell´energia diffusa?
«Significa convertire ogni singola casa, ogni palazzo, in una piccola centrale energetica che usa il sole, il vento, i rifiuti, li immagazzina e li redistribuisce. Significa che l´energia non consumata per i propri bisogni va ripartita secondo una logica di cooperazione e di solidarietà. Non è socialismo bensì un´economia di mercato ibrida. Proprio come Internet, con fenomeni come i software "open source", ha prefigurato un superamento del capitalismo puro ibridandolo con elementi di socialismo. Tutto questo sta già cominciando ad accadere, ed è più vicino a voi di quanto crediate».