martedì 9 marzo 2010

l’Unità 9.3.10
Bonino: resta la nostra sfida
Ma il ritiro si allontana
La candidata radicale soddisfatta ma cauta sulla decisione del Tar: «Aspetto le motivazioni»
Pannella: «Non parlate di Aventino, semmai troveremo una forza equivalente di protesta»
di Natalia Lombardo

Emma Bonino prende atto della scelta del Tar, «i giudici vadano avanti e decidano». Pannella esclude il ritiro della candidata, oggi l’assemblea radicale deciderà le forme di protesta: anche chiedere il rinvio del voto.

Oggi il compleanno. Emma scherza sui 62 anni: ci vorrebbe un decreto per averne 26...
Assemblea radicale. Oggi la decisione sul da farsi dopo il «salva-liste» Sabato in piazza col Pd

Non si avventura in considerazioni «imprudenti», Emma Bonino, appena è arrivata la notizia sul no del Tar alla lista romana del Pdl: «Prendo atto di questa decisione. Sarà utile vedere le motivazioni che sono lunghe, a quanto mi dicono, e che saranno rese pubbliche domani. I giudici vadano avanti, chi deve decidere decida». Sono le otto di sera, ma già da un paio d’ore nel quartier generale radicale le dichiarazioni del ministro Maroni fanno capire che la situazione si può ribaltare, fino all’ipotesi di un rinvio delle elezioni. Marco Pannella è cauto, alle sei, nell’anticipare le prossime mosse. E dall’assemblea nazionale dei radicali, convocata oggi a Roma per inventare iniziative in difesa della legalità, potrebbe uscire anche la proposta di un rinvio delle elezioni.
«L’ALTERNATIVA»
Suggerita da Bonino e Pannella (e ribadita anche in risposta a Napolitano) per uscire dal «caos liste» in maniera «pulita» senza che i risultati possano venire messi in discussione, dopo il voto, da ricorsi e controricorsi. Per fare questa proposta giovedì i due leader radicali chiesero un incontro a Berlusconi, senza ottenere risposta.
Da Civitavecchia, Emma Bonino, che oggi compie 62 anni, spiega che «la nostra è una sfida di metodo: trasparenza, legalità e stato di diritto. Le leggi ci sono e sono fatte per essere rispettate soprattutto dai potenti. Girare pagina è una necessità per il Paese, ma è anche la cosa più difficile da fare».
Prima dell’ultimora dal Tar era ancora in ballo il possibile ritiro di Emma Bonino dalla corsa nel Lazio. Lei stessa però sembrava escluderlo: «Non sono una che getta la spugna e credo che l’intero Paese si debba interrogare su come battere meglio questa arroganza». Il decreto salva-liste. «Ritirarsi? Non significa nulla di per sé un ritiro, e comunque non sarebbe mai un Aventino», spiegava alle sei Marco Pannella a l’Unità, «da sessant’anni non siamo abituati a compiere scelte perdenti, semmai troveremo una forma equivalente di protesta, ma vincente». I radicali saranno in piazza con il Pd e le opposizioni sabato prossimo, ma oggi, dalle 10 alle 19 al Teatro di piazza Santa Chiara, «ci spremeremo le meningi per farci venire un’idea» sul da farsi da qui a sabato, «perché non possiamo fare campagna elettorale nei mercatini come se niente fosse», spiegano dallo staff Bonino. L’obiettivo è recuperare quel 20 per cento di astensionisti nel Lazio, sfiduciati o indecisi, se non convertire il malumore nel centrodestra per il caos liste.
Dal dibattito non stop, in stile pannelliano, dovrebbe uscire l’idea con la quale coinvolgere tutto il centrosinistra: iniziative diffuse per denunciare lo stato di illegalità del Paese anche in sedi internazionali. E non solo ricorsi alla Corte Europea, già previsti. Ci saranno tutti, Pannella vecchio leone, Emma Bonino, i dirigenti, i parlamentari e i candidati delle liste a doppio nome, militanti dall’estero. La convocazione, ieri, lasciava aperte tutte le possibilità,
compreso il ritiro di Emma per non «giocare con i bari». Significativa la citazione di Benedetto Croce: «Esistono momenti nella storia in cui è necessario che vi sia pur qualcuno per il quale Parigi non valga una messa».
I radicali «sono riusciti a far saltare il tappo» della mancanza di democrazia e legalità, spiega il segretario Mario Staderini, che ricorda le mosse eclatanti per «affermare il diritto individuale alla democrazia»: dai certificati elettorali bruciati nel 1972, alla campagna di protesta astensionista nel 1983, alla stella gialla indossata alle ultime europee.

l’Unità 9.3.10
Dalla A alla Zeta
Emma si racconta in un dizionario
La qualità che la unisce a Pannella è la cocciutaggine, dalla famiglia piemontese ha ereditato pudore e rigore. Due soli grandi amori e il rimpianto di costumi troppo rigidi
di Jolanda Bufalini

Un piccolo dizionario per descrivere Emma Bonino è in libreria, per Bompiani, a cura di Cristina Sivieri Tagliabue.

Aung San SuuKyi. Le donne tendono alla pace perché nessuno come loro conosce l’oppressione e il silenzio della libertà. Ogni volta che non arrivo a toccare un obiettivo, ogni volta che mis fugge un progetto o un sogno, penso alla lettera che mi scrisse la mia amica Aung San Suu Kyi. Finiva con questa frase: «Per favore, usate la vostra libertà per trovare la nostra libertà».
Bovary. Sono il contrario di Emma Bovary, ho avuto due amori fondamentali più qualche intrattenimento di poco conto. I primi rapporti sessuali li ho avuti molto tardi, in un’età che nemmeno confesso.
Burqa. Secondo me non c’è bisogno di specificare. Basta fare una legge che dica: non si possono usare copricapo che rendono impossibile l’identificazione in luoghi pubblici. Il problema religioso non c’è. Lo Stato fa le leggi, poi si può aprire il dibattito sul dialogo religioso, sulle umiliazioni che le donne devono subire. Sui costumi che cambiano: mia nonna non usciva mai senza il fazzoletto nero in testa.
Cittadinanza. Credo che in questo paese ci sia un problema culturale gigantesco, in pochi decenni siamo passati da cittadini a popolo, da popolo a audience e da audience a plebe: non è una fotografia brillante.
Cocciutaggine. La cocciutaggine contraddistingue me e Marco Pannella. Sì, la cocciutaggine è una qualità
Donne. Il ricorso all’aborto clandestino provoca una ferita nella salute delle donne, oltre che all’anima: nei paesi dove l’aborto non è regolamentato per legge rappresenta uno dei principali problemi di salute pubblica.
Famiglia. Per me è stata essenziale anche se il rapporto con i miei genitori è stato a fasi alterne. La prima è stata quella dell’ansia, poi si è passati all’accettazione, fino ad arrivare all’orgoglio.
GianBurrasca alla Camera.
Sandro Pertini mi definiva così. Monello. Mi voleva bene.
Illegalità. Queste elezioni sono illegali. Nelle regioni dove gli altri partiti sono già in Consiglio regionale noi dobbiamo raccogliere 160mila firme. Ma gli autenticatori sono esponenti di altre forze politiche che, quando siamo siamo irritanti o pericolosi, non firmano.
Kabul. Vedete questa foto? Ero a Kabul prima che mi arrestassero i talebani. Poi mi hanno rilasciato. Vede? Non mi si prende nessuno.
LA PRIMA VOLTA. Nel senso di rapporto sessuale a 24 anni: tardi. Ma era una questione di tabù. Rimpiango molto, però, di non averlo fatto prima.
N come nucleare. Io non sono per il nucleare ma per la ricerca sul nucleare. Il treno nucleare è passato più di venti anni fa.Cercare di riagganciarlo ora rischia di essere velleitario, antieconomico, sostanzialmente inutile.
Z come zero. HO incontrato Giovanni Paolo II una sola volta, in occasione della campagna sulla fame nel mondo. Ma legami con l’establishment della Chiesa, zero.

Repubblica 9.3.10
La candidata del centrosinistra: "Oggi festeggio i miei 62 anni, ma con un decreto potrebbero darmene 26"
Bonino: "Una boccata di legalità i giudici hanno fatto il loro mestiere"
"Io non sono per l’Aventino”. Ma i Radicali insistono per il rinvio delle elezioni
di Giovanna Casadio

ROMA - «Una boccata di legalità. I giudici hanno fatto il loro mestiere». Cauta, più che prudente Emma Bonino. Non vuole entrare nel merito perché, dice, manca la motivazione completa con cui il Tar ha respinto il ricorso del Pdl, la cui lista per ora nel Lazio resta fuori. Renata Polverini correrà alla guida della Regione con altre liste del centrodestra.
«Ho cercato di capire. Appare chiaro che si tratta intanto di una decisione cautelare, ma bisogna capire bene», commenta Bonino che ha appena concluso una manifestazione elettorale a Civitavecchia. È la giornata della donna: «Non la festeggio, ma festeggio il mio compleanno». Ironizza sull´età (la sua) e i decreti interpretativi («Una scelta da bari», l´aveva definita). «Per diventare presidente della Repubblica in Italia bisogna avere 80 anni. Io ne ho 62, però si potrebbe fare un decreto interpretativo e assegnarmene 26... al Tar ci vado dopo, prima mi faccio il decreto e poi vado al Tar...». Sono le 14. Solo sei ore dopo, il Tribunale amministrativo blocca la strada tentata dal Pdl per rimettersi in gara. «Calma, lasciamo lavorare i magistrati e chi deve decidere decida». Non canta quindi vittoria? Non si esalta Bonino per lo stop? «No, non mi cimento in valutazioni perché non sappiamo ancora bene quale è il legame tra la decisione del Tar e il decreto del governo già operativo». C´è poi il ricorso annunciato dal Pdl: non si può insomma sapere - secondo la leader radicale - a cosa esattamente si va incontro in questo delirio di forzature. Non si può escludere che a un certo punto le elezioni del Lazio siano invalidate.
I Radicali ieri sera sono riuniti con Marco Pannella per preparare l´assemblea di oggi. Assemblea confermata. «Decideremo sull´impatto che questa decisione del Tar ha sulla campagna elettorale. Io non ho cambiato opinione». Sul decreto e sulla firma del presidente Napolitano: «Credo che non si debba tirare in ballo il Quirinale. Il presidente della Repubblica non aveva alternative a firmare, però io non avrei firmato. Mi sarei aspettata una sua parola nelle settimane precedenti quando siamo stati noi a sollevare dei problemi. Ci sono elettori che non potranno votare come vorrebbero in tutta Italia. Nella lettera che il presidente ha scritto si legge che non è stata fatta un´altra proposta. In realtà, la nostra c´era: chiedevamo di azzerare tutto».
E il rinvio delle elezioni resta sempre la proposta più sponsorizzata dai Radicali. Marco Pannella l´ha già detto e dovrebbe ribadirlo nell´assemblea di oggi. Se a bocce ferme, l´ipotesi del ritiro della Bonino dalla gara è improbabile («Non sono per l´Aventino», ha spiegato lei), tuttavia il Pr non è disposto a continuare in una campagna elettorale "ordinaria" dopo le violazioni del decreto salva-liste e «lo stato di illegalità del paese». Stamani la proposta sul tavolo sarà proprio quella di dare un taglio netto al rosario di ricorsi e controricorsi, di pezze peggiori della toppa.

il Fatto 9.3.10
Quell’ora al Quirinale che ha cambiato il corso del decreto
Così B. minacciò Napolitano
“Se ti metti di traverso sei finito” avrebbe urlato Berlusconi Il nuovo squilibrio
di Alessandro Ferrucci

Isolato, avvilito. Provato. Ma quelle che potrebbero essere (solo) suggestioni di chi gli sta attorno da anni, lo se-
gue, gli strappa le rare confidenze, hanno una base solida: gli ultimi quattro giorni, per Giorgio Napolitano, sono stati i più duri da quando è stato eletto, il 10 maggio del 2006. Telefonate, colloqui, confronti, consigli. E ancora mediazioni, rotture, fratture e ricomposizioni. Toni alti, aspri, addirittura minacciosi da parte di Silvio Berlusconi verso il capo dello Stato (“Tra noi due, sono io quello eletto dal popolo. E se ti metti di traverso, vado avanti anche senza di te. Sei finito”, sarebbe stato lo sfogo del premier, giovedì sera, ancora non smentito). Così assumono un sapore differente anche le parole pronunciate ieri durante i festeggiamenti dell’ “8 marzo”, al Quirinale: “Al di là di ogni differenza di modi di pensare e di posizioni politiche, profonda è tra le italiane e gli italiani la condivisione del patrimonio di valori e principi che si racchiude nella Costituzione repubblicana, a coronamento di una lunga e travagliata esperienza storica”. Travagliata. Come a dire: è stata dura, è dura, ma sono io il garante della Costituzione, gli italiani si rispecchiano in essa, quindi io li rappresento. Anche se non sono stato eletto direttamente.
Eppure, da quando è stata apposta la firma sul decreto legge, venerdì sera, in molti non capiscono il ruolo e la strategia del presidente. Cosa è realmente accaduto nelle stanze del Quirinale? Partiamo da giovedì. Napolitano è ancora in visita a Bruxelles, un appuntamento politico nato male, visti gli inevitabili diktat diplomatici posti dal Colle per evitare un incontro tra lo stesso presidente e l’ambasciatore Siggia, al centro delle intercettazioni sull’elezione dell’ex senatore Di Girolamo. Sono le 17:40, manca poco alla partenza, direzione Roma. Dalla Capitale giungono voci di un accordo imminente con il Colle per un decreto legge; Berlusconi ha già fissato il Consiglio dei ministri per le 22 della sera stessa. L’arrivo del volo è previsto alle 20. Una mezz’ora di tempo dall’aeroporto al centro di Roma e al capo dello Stato resta giusto il tempo di salutare gli esponenti del governo, scambiare due convenevoli. E firmare, tutto, comunque. È l’idea di Berlusconi. Eppure Napolitano, prima di salire sulla scaletta dell’aereo, dichiara: “'Ancora non c’è nulla di definito, in alcun modo. Quando arriverò a Roma stasera, vedrò”. E a chi gli chiede se è possibile una soluzione politica, replica: “Se qualcuno mi spiega cos’è, e da parte di chi e su che cosa, la esaminerò”. Atterra, si attacca al cellulare, scambia due impressioni con gli uomini più fidati. Lo descrivono come nervoso, il trattamento da passa carte non lo apprezza. Salgono al Quirinale il presidente del Consiglio, l’immancabile Gianni Letta, Ignazio La Russa, Roberto Maroni e Roberto Calderoli. La discussione non è facile. Lo stesso Letta indossa un “guanto sem-
pre più spesso l'artiglio di ferro”, come ha scritto Eugenio Scalfari su Repubblica. Anche lui è deciso a ottenere il bottino, tutto e subito. Si frena solo quando vede Berlusconi alzare troppo i toni, minacciare, come hanno rivelato Bruno Vespa su il Mattino e Marzio Breda su il Corriere della Sera. Per quest’ultimo, Napolitano sarebbe andato vicino a cacciare i suoi “ospiti”. Ma niente firma.
Venerdì. Libero titola: “Ponzio Napolitano” e parla di Don Abbondio. Ponzio Pilato, secondo i vangeli, ordinò la crecifissione di Gesù. La Russa conferma il “siamo pronti a tutto”; il Giornale parla di “clima da guerra civile” e descrive Palazzo Grazioli come “una sorta di gabinetto, di guerra”. Il capo dello Stato ribadisce l’esigenza di rispettare le regole. Mentre gli uffici del Quirinale mantengono i contatti con Palazzo Chigi e con il Viminale, perstudiare i precedenti. Si inizia a parlare di “decreto interpretativo”. I toni si abbassano, scatta l’apnea. Berlusconi fa sapere al Colle di essere pronto a parlare agli italiani al Tg1 delle venti, in zona Minzolini, nel caso di una mancata firma. Non serve, i segnali di ritorno sono positivi. A un patto: nessuna dichiarazione. Napolitano dà l’ok. A Palazzo Grazioli si esulta, le opposizioni si dividono su come reagire. Sabato. Il giorno delle domande, in parte, ancora irrisolte. Delle prime manifestazioni, delle prime analisi sulla costituzionalità, delle dichiarazioni politiche e delle valutazioni sulla decisione del presidente. Si parla ancora delle minacce del giovedì, di un clima inedito per le stanze del Quirinale. Il presidente convoca i suoi e fa selezionare due delle lettere giunte sul sito istituzionale. A queste risponde. “Erano in gioco due interessi o ‘beni’ entrambi meritevoli di tutela: il rispetto delle norme e delle procedure previste dalla legge e il diritto dei cittadini di scegliere col voto tra programmi e schieramenti alternativi”. Per poi ammettere: “La vicenda è stata molto spinosa, fonte di gravi contrasti e divisioni, e ha messo in evidenza l’acuirsi non solo di tensioni politiche, ma di serie tensioni istituzionali. È bene che tutti se ne rendano conto”. Quindi concludere: “Un effettivo senso di responsabilità dovrebbe consigliare a tutti i soggetti politici e istituzionali di non rivolgersi al capo dello Stato con aspettative e pretese improprie, e a chi governa di rispettarne costantemente le funzioni e i poteri”. Rispetto dei ruoli. Ci tiene a ribadirlo. Garante della Costituzione, lo sottolinea ieri. Restano in piedi tanti punti interrogativi, a partire da tutto ciò che ha detto Berlusconi nella sera di giovedì.

il Fatto 9.3.10
Smontata la nostra Carta per favorire il premier. È stato costretto? Allora lo dica
Tabucchi: il Colle? Garante ad personam
di Carlo Tecce

Il decreto-golpe visto da Parigi.
Dallo scrittore Antonio Tabucchi, intervistato da “MicroMega”: “È un’altra legge vergogna. Un obbrobrio che Berlusconi s’è fatto fare. Da quando col becco strappa pezzi di carne al corpo martoriato della Costituzione. E Napolitano firma, stavolta nottetempo, mi viene in mente la ‘ronda di notte’. Sembra una catena di montaggio, o meglio, di smontaggio della Costituzione”. Tabucchi mette in fila i colpevoli dell’obbrobrio: c’è Silvio Berlusconi con i suoi ‘azzeccagarbugli’ eletti in Parlamento e c’è, senza perifrasi, il presidente della Repubblica. Già a dicembre, nella diatriba politica lanciata da Enrico Letta (‘difendersi dal processo e nel processo’), Tabucchi aveva chiamato in causa Napolitano: “Ha convocato una conferenza stampa per un invito alle istituzioni espresso in un italiano di limpidità cristallina comprensibile anche al cittadino analfabeta. Cito: ‘Basta al crescendo di tensioni fra giudici e politici. Il capo dello Stato chiede che la magistratura svolga rigorosamente le sue funzioni e rispetti i ruoli’ Il giorno dopo la frase è stata sottoposta a esegesi dai più accreditati interpreti dei testi, rigorosamente di opposte tendenze politiche, e ovviamente con opposte conclusioni”.
Questa volta, tra sentenze del Tar che pendono e contestazioni che bollono, l’autore di ‘Sostiene Pereira’ indica Napolitano: “In questo momento, per me, Napolitano non è garante della mia Costituzione, ma è garante di Berlusconi o degli interessi di un partito politico italiano. Siccome il referente principale di Berlusconi riposa in Tunisia, dove è deceduto fuggiasco dalle leggi italiane, e Berlusconi ha una nostalgia di Craxi, vedrei molto bene Berlusconi in Tunisia. Ma se Napolitano non capisce che deve difendere la Costituzione, con le sue forme e le sue sostanze, nessuno lo obbliga a stare al Quirinale: non è un obbligo, è un dovere. E questo dovere richiede molta, molta attenzione. Perché ormai in Italia la Costituzione è stata divorata”. E poi che ne sarà di noi: “Cosa lasciano Napolitano, Berlusconi e gli ultimi governi alle generazioni future? Ce lo diranno i giovani. Io mi chiedo: cos’è che induce persone di età molto avanzata a diventare presidente della Repubblica? Non è un paesino in cui si fa una vacanza quando si diventa presidenti. In questo recente passato più scuro (scandali, mafia, servizi deviati), ci sono cose sulle quali Napolitano non ci ha detto niente pur essendo ex ministro dell’Interno. Lo fa per il nostro bene, per le nostre coscienze? Ci potrebbe prendere un colpo”. Tabucchi chiude con un paragone storicamente ingombrante: “Napolitano poteva non firmare, bastava non volesse. A meno che non avesse una pistola alla tempia. Le leggi razziali nel ‘38 non le firmò Mussolini, ma Vittorio Emanuele III. Questa è una legge illegale perché vanifica la legge dell’88 che vieta decreti in materia elettorale e si beffa dell’articolo 72 della Costituzione. Come tutte le leggi di natura totalitaria, ha valore retroattivo e dunque condona, ma si proietta anche nel futuro: d’ora in poi ogni irregolarità sarà tollerata a discrezione di Berlusconi o della P2 o di non so chi”.

Repubblica 9.3.10
Parla Ciampi "È la prova che quel testo è incostituzionale"
Aberrante torsione del sistema
di Massimo Giannini

Il mio rimpianto di novantenne
"È il massacro delle istituzioni elezioni a rischio annullamento ora proteggiamo il Quirinale"
Il governo doveva chiedere scusa

La maggioranza ha fatto ciò che la Costituzione vieta: intervenire su una materia di competenza regionale. È un altro aberrante episodio di torsione del sistema democratico
A 20 anni ogni giorno eravamo convinti di fare un passo avanti. Oggi, alla soglia dei 90 anni, quanta amarezza: ogni giorno un passo indietro. Ma chi è più giovane non deve perdersi d´animo

ROMA - Benvenuti nella Repubblica del Male Minore. Cos´altro si può dire di un Paese che ormai, per assecondare i disegni plebiscitari di chi lo governa, è costretto ogni giorno ad un nuovo strappo delle regole della civiltà politica e giuridica, nella falsa e autoassolutoria convinzione di aver evitato un Male Maggiore? Carlo Azeglio Ciampi non trova altre formule: «La strage delle illusioni, il massacro delle istituzioni...».
Ancora una volta, l´ex presidente della Repubblica parla con profonda amarezza di quello che accade nel Palazzo. Dopo il Lodo Alfano, il processo breve, lo scudo fiscale, il legittimo impedimento, il decreto salva-liste è solo l´ultimo, «aberrante episodio di torsione del nostro sistema democratico». Il "pasticciaccio di Palazzo Chigi" non è andato giù all´ex capo dello Stato, che considera il rimedio adottato (cioè il provvedimento urgente varato venerdì scorso) ad alto rischio di illegittimità costituzionale. E la clamorosa sentenza pronunciata ieri sera dal Tar del Lazio, che respinge il ricorso per la riammissione della lista del Pdl nel Lazio, non arriva a caso: «È la conferma che con quel decreto il governo fa ciò che la Costituzione gli vieta, cioè interviene su una materia di competenza delle Regioni. Speriamo solo che a questo punto non accadano ulteriori complicazioni...», dice. Dopo il ricorso già avanzato da diverse giunte regionali, potrebbe persino accadere che, ad elezioni già svolte, anche la Consulta giudichi quel decreto illegittimo, con un verdetto definitivo e a quel punto davvero insindacabile. Questo preoccupa Ciampi: «Il risultato, in teoria, sarebbe l´invalidazione dell´intero risultato elettorale. Il rischio c´è, purtroppo. C´è solo da augurarsi che il peggio non accada, perché a quel punto il Paese precipiterebbe in un caos che non oso immaginare...». Il presidente emerito non lo dice in esplicito, ma dal suo ragionamento si evince che qualche dubbio lui l´avrebbe avuto, sulla percorribilità giuridica e politica di un decreto solo apparentemente «interpretativo», ma in realtà effettivamente «innovativo» della legislazione elettorale.
Ora si pone un interrogativo inquietante: questo disastro si poteva evitare? E se sì, chi aveva il potere di evitarlo? Detto più brutalmente: Giorgio Napolitano poteva non autorizzare la presentazione del decreto legge del governo? Ciampi vuole evitare conflitti con il suo successore, al quale lo lega un rapporto di affetto e di stima: «Non mi piace mai giudicare per periodi ipotetici dell´irrealtà. Allo stesso tempo, trovo sbagliato dire adesso "io avrei fatto, io avrei detto...". Ognuno decide secondo le proprie sensibilità e secondo le necessità dettate dal momento. Napolitano ha deciso così. Ora, quel che è fatto è fatto. Lo ripeto: a questo punto è stata imboccata una strada, e speriamo solo che ci porti a un risultato positivo...». Ma in questa occasione non si può negare che il Quirinale sia dovuto passare per la cruna di un ago particolarmente stretta, e che secondo molti ne sia uscito non proprio al meglio. In rete e sui blog imperversano le critiche: Scalfaro e Ciampi, si legge, non avrebbero mai messo la firma su questo «scempio». Al predecessore di Napolitano questo gioco non piace: «Queste sono cose dette un po´ a sproposito». Come non gli piacciono le rischieste di impeachment che piovono sull´inquilino del Colle dall´Idv: «Ma che senso ha, adesso, sparare sul quartier generale? Al punto in cui siamo, è nell´interesse di tutti non alimentare la polemica sul Quirinale, e semmai adoperarsi per proteggere ancora di più la massima istituzione del Paese...».
Premesso questo, Ciampi non si nega una netta censura politica di quanto è accaduto: «Io credo che la soluzione migliore sarebbe stata quella di rinviare la data delle elezioni. Ma per fare questo sarebbe stata necessaria una volontà politica che, palesemente, nella maggioranza è mancata. Ma soprattutto io credo che sarebbe stato necessario, prima di tutto, che il governo riconoscesse pubblicamente, di fronte al Paese e al Parlamento, di aver commesso un grave errore. Sarebbe stato necessario che se ne assumesse la responsabilità, chiedendo scusa agli elettori e agli eletti. Da qui si doveva partire: a quel punto, ne sono sicuro, tutti avrebbero lavorato per risolvere il problema, e l´opposizione avrebbe dato la sua disponibilità a un accordo. Bisognava battersi a tutti i costi per questa soluzione della crisi, e inchiodare a questo percorso chi l´aveva causata. Ma purtroppo la maggioranza, ancora una volta, ha deciso di fuggire dalle sue responsabilità, e di forzare la mano». I risultati sono sotto gli occhi di tutti: «Di nuovo, assistiamo sgomenti al graduale svuotamento delle istituzioni, all´integrale oblio dei valori, al totale svilimento delle regole: questo è il male oscuro e profondo che sta corrodendo l´Italia».
Su questo piano inclinato, dove si fermeranno lo scivolamento civico e lo smottamento repubblicano? «Vede – osserva Ciampi – proprio poco fa stavo rileggendo il De senectute di Cicerone: ci sarebbe bisogno di quella saggezza, di quell´amore per la civiltà, di quell´attenzione al bene pubblico. E invece, se guardiamo alle azioni compiute e ai valori professati da chi ci governa vediamo prevalere l´esatto opposto». Aggressione agli organi istituzionali, difesa degli interessi personali: l´essenza del berlusconismo – secondo l´ex capo dello Stato - «è in re ipsa, cioè sta nelle cose che dice e che fa il presiedente del Consiglio: basta osservare e ascoltare, per rendersi conto di dove sta andando questo Paese». Già qualche mese fa Ciampi aveva rievocato, proprio su questo giornale, l´antico principio della Rivoluzione napoletana di Vincenzo Cuoco sulla felicità dei popoli «ai quali sono più necessari gli ordini che gli uomini», e poi il vecchio motto caro ai fratelli Rosselli, «non mollare», poi rideclinato da Francesco Saverio Borrelli nel celebre «resistere, resistere, resistere».
Oggi l´ex presidente torna su queste «urgenze morali», per ribadire che servono ancora tanti «atti di coraggio», se vogliamo difendere la nostra democrazia e la nostra Costituzione. «I miei sono lì, sono le firme che non ho voluto apporrre su alcune leggi che mi furono presentate durante il settennato, e che successivamente mi sono state rinfacciate in Parlamento, come se si fosse trattato di atti "sediziosi", o decisioni "di parte". E invece erano ispirati solo ai principi del vivere civile in cui ho sempre creduto, e che riposano sulla sintesi virtuosa dei valori e delle istituzioni». Tra i 2001 e il 2006 Ciampi non potè rinviare alle Camere tutte le leggi-vergogna del secondo governo Berlusconi, perché in alcune di esse mancava il vizio della «palese incostituzionalità» che solo può giustificare il diniego di firma da parte del capo dello Stato. Ma dalla riforma Gasparri sul sistema radiotelevisivo alla riforma Castelli sull´ordinamento giudiziario, Ciampi pronunciò alcuni «no» pesantissimi.
Nonostante questo, anche a lui tocca oggi constatare che quella forma di «pedagogia repubblicana», necessaria ma non sufficiente, è servita a poco o a nulla. «Cosa vuole che le dica? Purtroppo questo è il drammatico paesaggio italiano, né bello né facile. E questo è anche il mio più grande rimpianto di vecchio: sulla soglia dei 90 anni, mi accorgo con amarezza che questa non è l´Italia che vagheggiavo a 20 anni. Allora ci svegliavamo la mattina convinti che, comunque fossero andate le cose, avremmo fatto un passo avanti. Oggi ci alziamo la mattina, e ogni giorno ci accorgiamo di aver fatto un altro passo indietro. E´ molto triste, per me che sono un nonuagenario. Ma chi è più giovane di me non deve perdersi d´animo, e soprattutto non deve smettere di lottare». Sabato prossimo Ciampi non andrà in piazza, per sfilare in corteo contro il "pasticciaccio" di Berlusconi: «Non ho mai aderito a manifestazioni, e comunque le gambe non mi reggerebbero...», dice. Ma chissà: magari con vent´anni di meno ci sarebbe andato anche lui.
m.gianninirepubblica.it

Repubblica 9.3.10
Una crisi di regime
di Stefano Rodotà

Che cosa indica la decisione del Tar del Lazio che, ritenendo inapplicabile l´assai controverso decreto del Governo, ha confermato l´esclusione della lista del Pdl dalle elezioni regionali in questa regione? In primo luogo rivela l´approssimazione giuridica del Governo e dei suoi consulenti, incapaci di mettere a punto un testo in grado di superare il controllo dei giudici amministrativi. Ma proprio questa superficialità è il segno della protervia politica, che considera le regole qualcosa di manipolabile a proprio piacimento senza farsi troppi scrupoli di legalità. E, poi, vi è una sorta di effetto boomerang, che mette a nudo le contraddizioni di uno schieramento politico che, da una parte, celebra in ogni momento le virtù del federalismo e, dall´altra, appena la convenienza politica lo consiglia, non esita a buttarlo a mare, tornando alla pretesa del centro di disporre anche delle materie affidate alla competenza delle regioni.
Proprio su quest´ultima constatazione è sostanzialmente fondata la sentenza del Tar del Lazio. La materia elettorale, hanno sottolineato i giudici, è tra le competenze delle regioni e, partendo appunto da questo dato normativo, la Regione Lazio ha approvato nel 2008 una legge che ha disciplinato questa materia.
Lo Stato non può ora invadere questo spazio, sostituendo con proprie norme quelle legittimamente approvate dal Consiglio regionale. Il decreto, in conclusione, non è applicabile nel Lazio.
I giudici amministrativi, inoltre, hanno messo in evidenza come non sia possibile dimostrare alcune circostanze che, in base al decreto del 5 marzo, rappresentano una condizione necessaria per ritenere ammissibile la lista del Pdl. In quel decreto, infatti, si dice che il termine per la presentazione delle liste si considera rispettato quando «i delegati incaricati della presentazione delle liste, muniti della prescritta documentazione, abbiano fatto ingresso nei locali del Tribunale». Il Tar mette in evidenza due fatti. Il primo riguarda l´assenza proprio del delegato della lista che ha chiesto la riammissione. E, seconda osservazione, non è possibile provare che lo stesso delegato, presentatosi in ritardo, avesse con sé il plico contenente la documentazione richiesta.
Se il primo rilievo sottolinea l´approssimazione di chi ha scritto il decreto, il secondo svela la volontà di usare il decreto per coprire il "pasticcio" combinato dai rappresentanti del Pdl. Che non è frutto, lo sappiamo, di insipienza. È stato causato da un conflitto interno a quel partito sulla composizione della lista, trascinatosi fino all´ultimo momento, anzi oltre l´ultimo momento fissato per la presentazione della lista.
È una morale politica, allora, che deve essere ancora una volta messa in evidenza. Per risolvere le difficoltà di un partito non si è esitato di fronte ad uno stravolgimento delle regole del gioco. La prepotenza ha impedito anche di avere un minimo di pazienza, visto che la riammissione da parte dei giudici dei listini di Formigoni e Polverini ha eliminato il rischio maggiore, quello di impedire in regioni come la Lombardia e il Lazio che il partito di maggioranza avesse un suo candidato.
Si dirà che, una volta di più, i giudici comunisti hanno intralciato l´azione di Berlusconi e dei suoi mal assortiti consorti? È possibile. Per il momento, però, dobbiamo riconoscere che proprio i deprecati giudici hanno arrestato, sia pure provvisoriamente (si attende la decisione del Consiglio di Stato), una deriva verso la sospensione di garanzie costituzionali.
Non possiamo dimenticare, infatti, che la democrazia è anche procedura: e il decreto del governo manipola proprio le regole del momento chiave della democrazia rappresentativa. La democrazia è tale solo se è assistita da alcune precondizioni: e le sciagurate decisioni della Commissione parlamentare di vigilanza e del Consiglio d´amministrazione della Rai hanno obbligato al silenzio una parte importante dell´informazione, rendendo così precaria proprio la precondizione che, nella società della comunicazione, ha un ruolo decisivo. Non dobbiamo aver paura delle parole, e quindi dobbiamo dire che proprio la congiunzione di questi due fatti, se dovesse permanere, altererebbe a tal punto le dinamiche istituzionali, politiche e sociali da rendere giustificata una descrizione della realtà italiana di oggi come un tempo in cui garanzie costituzionali essenziali sono state sospese.
Comunque si concluda questa vicenda, il confine dell´accettabilità democratica è stato comunque varcato. Una crisi di regime era già in atto ed oggi la viviamo in pieno. Nella storia della Repubblica non era mai avvenuto che una costante della vita politica e istituzionale fosse rappresentata dall´ansiosa domanda che accompagna fin dalle sue origini gli atti di questo Governo e della sua maggioranza parlamentare: firmerà il Presidente della Repubblica? Questo vuol dire che è stata deliberatamente scelta la strada della forzatura continua e che si è deciso di agire ai margini della legalità costituzionale (un tempo, quando si diceva che una persona viveva ai margini della legalità, il giudizio era già definitivo). Questa scelta è divenuta la vera componente di una politica della prevaricazione, che Berlusconi ha fatto diventare guerriglia continua, voglia di terra bruciata, pretesa di sottomettere ogni altra istituzione. Da questa storia ben nota è nata l´ultima vicenda, dalla quale nessuno può essere sorpreso e che, lo ripeto, rivela piuttosto quanto profondo sia l´abisso nel quale stiamo precipitando,
A questo punto, la scelta di Napolitano, ispirata com´è alla tutela di "beni" costituzionali fondamentali, deve assumere anche il valore di un "fin qui, e non oltre", dunque di un presidio dei confini costituzionali che arresti la crisi di regime. Ma non mi illudo che la maggioranza, dopo aver lodato in questi giorni l´essere super partes di Giorgio Napolitano, tenga domani lo stesso atteggiamento di fronte a decisioni sgradite in materie che già sono all´ordine del giorno.
Ora i cittadini hanno preso la parola, e bene ha fatto il Presidente della Repubblica a rispondere loro direttamente. Qualcosa si è mosso nella società e tutti sappiamo che la Costituzione vive proprio grazie al sostegno e alla capacità di identificazione dei cittadini. È una novità non da poco, soprattutto dopo anni di ossessivo martellamento contro la Costituzione. Oggi la politica dell´opposizione dev´essere tutta politica "costituzionale". Dopo tante ricerche di identità inventate o costruite per escludere, sarebbe un buon segno se la comune identità costituzionale venisse assunta come la leva per cercar di uscire da una crisi che, altrimenti, davvero ci porterebbe, in modo sempre meno strisciante, a un cambiamento di regime.

il Riformista 9.3.10
Bonino non si ritira più «Io avanti nei sondaggi»
Sorpresa. La candidata radicale incassa il Tar, smorza le voci di un Aventino elettorale e difende il Colle: «Non aveva alternative sulla firma».
di Edoardo Petti

Emma Bonino aspetta di leggere le motivazioni della decisione del Tar del Lazio che ha bocciato la richiesta di sospendere la bocciatura della lista provinciale del Pdl. E chiede che i giudici vadano avanti. Una vicenda, quella delle liste per le elezioni regionali, nella quale la leader radicale difende il Presidente della Repubblica. «Giorgio Napolitano avrebbe dovuto ascoltare la nostra proposta e azzerare tutto, ma date le circostanze non aveva alternative alla firma sul decreto», osserva la vicepresidente del Senato alla vigilia dell’assemblea dei Radicali, chiamati a decidere la forma più adatta di lotta contro quella che definiscono «una partita di bari del regime antidemocratico». Il partito non esclude alcuna ipotesi, anche quella, rilanciata da Marco Pannella, di coinvolgere la giustizia internazionale sull’intera questione. La candidata alla presidenza del Lazio mette in risalto la differenza di vedute rispetto ad Antonio Di Pietro sulle responsabilità della più alta carica dello Stato, e ne evidenzia la totale estraneità politica nell’approvazione del discusso provvedimento, un «atto di arroganza compiuto dall’esecutivo». La senatrice sottolinea come «il Presidente della Repubblica non entri nel merito politico, ma solo in quello istituzionale»; si dice sicura che «abbia tentato di correggere precedenti proposte e che la questione sia stata piuttosto tesa, ma davvero non si può tirare in ballo Napolitano», dal quale, ribadisce, «forse mi sarei aspettata una parola nelle settimane precedenti, quando noi abbiamo denunciato ripetute irregolarità e avevamo suggerito di sanare tutte le situazioni, tenendo conto dei diritti di ogni elettore, e non solo di quelli del Pdl di Lombardia e Lazio». Poi, chiedendosi «cosa succederà se il governo e la maggioranza dovessero decidere di non convertire questo decreto», afferma di «non volere nessun “Aventino” né di voler gettare la spugna», ma ribadisce che «non si può andare avanti come se niente fosse successo, in una condizione di assoluta incertezza sul processo elettorale». Un tema che, secondo l’ex commissaria europea, impone la necessità che «le forze politiche si interroghino e trovino il mezzo più efficace per risvegliare un paese il quale sembra non voler reagire». Bonino si dice però convinta che «la gente si senta abbastanza sconcertata», e rende pubblica una rilevazione che attesterebbe un suo vantaggio dello 0,6 per cento rispetto alla «corazzata Potemkin dell’altra parte». Quanto alla partecipazione dei Radicali alla manifestazione di sabato, la parlamentare si limita a dire che «è in corso una valutazione».
Nel frattempo, la campagna per la presidenza del Lazio sembra aver perduto del tutto il fair play iniziale. L’assenza della Polverini alla tribuna elettorale sulla Rai dove era previsto il primo faccia a faccia viene considerato da Bonino «un segno di mancanza di rispetto e una scorrettezza». La leader radicale, ironizzando sul fatto che i propri avversari «non abbiano bisogno delle tribune poiché l’occupazione totale della Rai è già avvenuta», evidenzia come «la Polverini avesse lasciato come indirizzo di casa Ballarò», di cui il segretario dell’Ugl è stato ospite assiduo negli ultimi anni. Rispondendo infine alla figlia di Bruno Zevi, lo storico dell’architettura esponente del Partito d’Azione e dello stesso Partito radicale, che sognava Emma Bonino al Quirinale, la candidata alla guida del Lazio risponde che «per diventare presidente in Italia è necessario avere almeno 80 anni, e io ne compio 62 proprio oggi, ma potrei chiedere un decreto interpretativo per diventarlo prima: tanto si tratterebbe solo di un cavillo». E allo stesso modo ironizza sul suo compleanno: «Ho 62 anni, ma con un provvedimento ad hoc si potrebbe fare in modo che ne abbia 26».

il Riformista 9.3.10
Cari radicali, non fate scherzi
di Peppino Caldarola

Cari radicali, non fate scherzi. Dopo il decreto con cui il governo ha messo al sicuro le sue liste, si torna a parlare con insistenza del ritiro della Bonino dalla gara per le regionali. Massimo Bordin, il bravissimo direttore di “Radio radicale”, immagina che ci sarà un colpo di teatro di Marco Pannella. Conoscendo l’uomo non abbiamo dubbi. Le proteste contro il decreto salva-liste sono indubbiamente fondate. La destra aveva a disposizioni altre strade. Il rinvio del voto per consentire di sanare la situazione era sicuramente la via che avrebbe procurato meno conflitti. Comunque è andata così. Grava sulla consultazione di fine marzo il rischio di un pronunciamento della Corte Costituzionale ostile al provvedimento del governo. C’e gnali all’opinione pubblica la prepotenza e l’arroganza della destra. Bisogna evitare due rischi. Il primo riguarda l’atteggiamento verso il presidente della Repubblica. Una opposizione seria non può trascinare il Quirinale in una contesa senza senso. Se l’obiettivo polemico diventa Napolitano, la sinistra perde la faccia. D’altro canto non è possibile immaginare elezioni in cui il centro-sinistra perda per strada la candidata alla presidenza della regione Lazio. Sarebbero state falsificate le elezioni senza la Polverini, sarebbero falsate le elezioni senza la Bonino. A questa brutta storia bisogna mettere un freno. C’è una campagna elettorale da fare, ci sono soddisfazioni che solo le urne possono dare.

Repubblica 9.3.10
Germania, sugli abusi accuse al Papa
Un ministro: "Fu la sua Congregazione a chiedere il silenzio". Ma la Merkel frena
"Una direttiva del 2001 stabilisce che i casi di violenza non siano divulgati fuori dalla Chiesa"
di Andrea Tarquini

BERLINO - Sale ancora, con un´escalation che segna un salto di qualità decisivo, il tono dello scontro tra il governo tedesco e la Chiesa cattolica sulle accuse di abusi sessuali, violenze e percosse nelle istituzioni religiose. Ieri, per la prima volta un´esponente del governo di centrodestra guidato da Angela Merkel, la ministro della Giustizia Sabine Leutheusser-Schnarrenberger, ha in sostanza chiamato in causa di persona papa Benedetto XVI. Da anni, ha detto, la Chiesa ha istituito un muro di silenzio; e la decisione risale a una direttiva emanata dalla Congregazione per la dottrina della fede nel 2001. Quando cioè a guidarla era il cardinale Joseph Ratzinger, l´attuale pontefice.
Il Vaticano, ha detto intervistata dalla radio pubblica tedesca la signora Leutheusser-Schnarrenberger (dirigente del partito liberale Fdp, partner di governo della Cdu-Csu della Cancelliera Angela Merkel), da anni ha fatto regnare un muro di silenzio e così di fatto ha ostacolato le inchieste sugli episodi avvenuti all´interno delle istituzioni ecclesiastiche. La decisione, ha aggiunto in sostanza la ministro, fu presa con una disposizione ad altissimo livello. Cioè una direttiva emanata appunto nel 2001 dalla Congregazione per la dottrina della fede. Il documento, ha accusato la guardasigilli, chiedeva di non divulgare all´esterno della chiesa le notizie sugli abusi.
Il clima è pesante, la Cancelliera Merkel in persona si è sforzata di smorzare i toni dicendosi «molto soddisfatta» dei segni che la Chiesa «prende estremamente sul serio il problema». Ma la titolare della Giustizia esprime una linea più dura. «Abusi così gravi - ha continuato - in base a quella direttiva sono dunque sottomessi alla confidenzialità del Papa, e non devono essere divulgati all´esterno della Chiesa… Vi vedo un segno che la Chiesa, in caso di abusi sessuali, esamina i casi presunti o reali come un affare interno, e suggerisce ai presunti colpevoli di autodenunciarsi».
L´accusa è gravissima, e pare lanciata contro l´operato in quegli anni dell´attuale pontefice. Monsignor Stephan Ackermann, vescovo di Treviri, incaricato dalla conferenza episcopale di condurre l´inchiesta sugli abusi, ha subito replicato: «Non è vero - ha detto - nella pratica la Chiesa chiede sempre l´intervento della magistratura». Dopo aver lanciato la sua accusa, Sabine Leutheusser-Schnarrenberger ha reiterato la sua proposta di una Tavola rotonda. L´incontro si terrà il 23 aprile. Sarà opportuno, ha suggerito la ministro, discutere in quell´occasione di adeguati risarcimenti alle vittime delle violenze. Richiesta finora respinta dalla Chiesa.
Ma ormai il Santo Padre è chiamato in causa. «Egli era vescovo di Monaco e Frisinga dal 1977 al 1982», sottolinea Christian Weisner, del movimento dei cattolici dissidenti "Wir sind Kirche" (Noi siamo la Chiesa), «e sarebbe giusto sapere se era al corrente dei fatti e come reagì». La visita in Vaticano del presidente della Conferenza episcopale tedesca, Robert Zollitsch, si prepara in un clima sempre più difficile e acceso.

l’Unità 9.3.10
Israele gela la missione di pace di Biden
Sì a nuove case, i palestinesi insorgono
di Umberto De Giovannangeli

John Biden sbarca in Israele, prova a rianimare il negoziato israelo-palestinese e a convincere Gerusalemme che gli Usa saranno a fianco dello Stato ebraico nel far fronte alla minaccia iraniana

«Un Iran con armi atomiche costituirebbe una minaccia non solo per Israele ma anche per gli Stati Uniti». È il biglietto da visita del vice presidente Usa Joe Biden arrivato ieri pomeriggio in Israele, per una visita di tre giorni nello Stato ebraico – oggi l'atteso faccia a faccia con il premier Netanyahu – e nei Territori (a Ramallah incontrerà domani il presidente dell'Autorità nazionale palestinese Mahmud Abbas (Abu Mazen). Biden anticipa il suo pensiero in una intervista a Yedioth Ahronoth, il più diffuso giornale israeliano.
IL NODO TEHERAN
Ad una domanda riguardo ad un possibile attacco israeliano contro gli impianti nucleari iraniani, Biden ha risposto che «sebbene non sia possibile rispondere ad una domanda ipotetica riguardo all'Iran, posso promettere al popolo israeliano che noi risponderemo, da alleati, ad ogni sfida alla sua sicurezza che si potrà trovare ad affrontare». Nella visita del più alto esponente dell'amministrazione americana dall'insediamento di Barack Obama, Biden ribadirà così l'impegno di Washington in difesa di Israele. «L'amministrazione invia ad Israele aiuti militari per tre miliardi di dollari ha ricordato il vice presidente abbiamo rilanciato le consultazioni sul fronte della Difesa tra i due Paesi, raddoppiando i nostri sforzi per assicurare che Israele preservi il vantaggio militare qualitativo nelle regione». Se i programmi nucleari iraniani fossero coronati da successo ha notato il numero due alla Casa Bianca ne risentirebbe la stabilità regionale.
Iran a parte, il focus principale della visita di Biden sarà sul processo di pace, dal momento che è atteso proprio da parte del vice presidente americano l'annuncio ufficiale dell' avvio dei negoziati indiretti, i cosiddetti «proximity talks», tra israeliani e palestinesi. In un clima già pesante la notizia che Israele ha approvato la costruzione di 112 nuove case nell'insediamento di Beitar Ilit, in deroga alla moratoria di dieci mesi sulle colonie israeliane in Cisgiordania, ha dato nuovi motivi di polemica, di sfiducia e pure di ira ai palestinesi. Una decisione che il ministero della Difesa ha giustificato sostenendo che si tratta di un piano che era stato approvato dal precedente governo Olmert e che era cominciato prima del congelamento di nuovi piani di edilizia ebraica nei Territori.
Le reazioni negative palestinesi sono state immediate. Il presidente dell'Anp Mahmud Abbas (Abu Mazen) ha chiesto chiarimenti all'inviato Usa George Mitchell, che sarà l'intermediario nei colloqui, mentre il negoziatore capo palestinese Saeb Erekat ha accusato Israele «di silurare i colloqui ancora prima che siano cominciati». Questi colloqui, avverte, sono «l'ultima chance» che i palestinesi sono disposti a concedere a Israele per arrivare a un accordo. Il governo israeliano, afferma l'esponente palestinese, «non crede in realtà alla soluzione dei due Stati». Erekat liquida poi come «una bufala» la moratoria parziale dei nuovi piani edilizi negli insediamenti ebraici, che per i palestinesi è comunque insufficiente non includendo Gerusalemme est. Il ministro della Difesa israeliano Ehud Barak, capofila dell'appendice laburista nel governo a maggioranza di destra del premier Benyamin Netanayhu, ha ammesso che i colloqui «non saranno facili». Netanyahu, a sua volta, ha ribadito che ogni eventuale accordo dovrà prima di tutto garantire la sicurezza di Israele. «La nostra sicurezza – afferma non è un pezzo di carta. Dovremo sventare la minaccia di missili, razzi e terrorismo». I colloqui indiretti dovranno prima di tutto, secondo i palestinesi, affrontare la questione dei confini del costituendo Stato palestinese e i connessi aspetti della sicurezza.
In questo scenario in movimento segnato dal pessimismo, un’apertura diplomatica giunge da Israele che ieri ha dato il via libera alle missioni a Gaza del segreario generale dell’Onu ban Ki-moon e di lady Pesc, Catherine Ashton.

l’Unità 9.3.10
Il confine? Non è una barriera ma solo un passaggio
di Marc Augé

Marc Augé e la mobilità «surmoderna»: l’antropologo ed etnologo francese ci spiega di cosa si tratta nel suo saggio, attraverso alcuni concetti, che vanno dalla frontiera alla migrazione.

Per una antropologia della mobilità sarà in libreria da oggi. Anticipiamo un brano
Il saggio Ci parla di urbanizzazione, migrazione, viaggio e suggerisce di ripensare la frontiera

Se il concetto di frontiera è «buono da pensare» è perché è al centro dell’attività simbolica che sin dalla comparsa del linguaggio – riprendendo Lévi-Strauss – è stata impiegata per conferire un significato all’universo, per dare un senso al mondo e renderlo vivibile. Ebbene, questa attività è essenzialmente consistita nell’opporre categorie come maschile e femminile, caldo e freddo, terra e cielo, secco e umido, per simbolizza-
re lo spazio suddividendolo. Oggi stiamo incontestabilmente vivendo un periodo storico in cui la necessità di suddividere lo spazio, il mondo o il vivente per comprenderli sembra meno evidente. Il pensiero scientifico non si basa più su opposizioni binarie, ma si sforza di rivelare la continuità dietro le apparenti discontinuità, per esempio cercando di comprendere e forse ricreare il passaggio dalla materia alla vita. L’uguaglianza tra i sessi è un’esigenza del pensiero democratico, ma, al di là di questa uguaglianza, è un’identità di funzioni, di ruoli e di definizioni a essere postulata nel momento in cui si mette l’accento sulla preminenza del concetto stesso di essere umano. Infine, la storia politica del pianeta sembra mettere in discussione le frontiere tradizionali nel momento in cui il mercato libero mondiale prende forma e le tecnologie della comunicazione sembrano di giorno in giorno cancellare gli ostacoli legati allo spazio e al tempo.
Tuttavia, sappiamo bene che le apparenze della mondializzazione e della globalizzazione nascondono anche delle ineguaglianze: assistiamo infatti, a scale diverse, alla rinascita di frontiere la cui esistenza costituisce una smentita della tesi della fine della storia. L’opposizione Nord/Sud si è ormai sostituita a quella tra paesi colonizzatori e paesi colonizzati. Nelle grandi metropoli del mondo, i quartieri ricchi si contrappongono ai quartieri «difficili», dove tutta la disparità, tutte le ineguaglianze del mondo si coagulano. In vari continenti esistono addirittura quartieri privati e città private. Le migrazioni dai paesi poveri verso quelli ricchi assumono spesso forme tragiche e sono i paesi liberali a erigere muri per proteggersi dagli immigrati clandestini. Da un lato, si disegnano nuove frontiere, o meglio si innalzano nuove barriere, sia tra paesi poveri e paesi ricchi, sia all’interno degli stessi paesi sottosviluppati o emergenti, tra i settori ricchi connessi alla rete della globalizzazione ed economica e gli altri. Dall’altro lato, quanti sognano un’unica società umana e considerano quale patria il pianeta non possono ignorare né la forza dei ripiegamenti comunitari, nazionali, etnici o di altro genere, che si ripropongono di restaurare i confini, né l’espansionismo dei proselitismi religiosi, che aspirano a conquistare il pianeta annullandone tutte le frontiere. Nel mondo «surmoderno», sottoposto alla triplice accelerazione delle conoscenze, delle tecnologie e del mercato, il divario tra la rappresentazione di una globalità senza frontiere che permetterebbe a beni, esseri umani, immagini e messaggi di circolare senza limitazioni, e la realtà di una pianeta diviso, frammentato, in cui le divisioni negate dall’ideologia del sistema si ritrovano al cuore stesso del sistema, si fa sempre maggiore. Si potrebbe contrapporre l’immagine della città-mondo, quella «metacittà virtuale», secondo l’espressione coniata da Paul Virilio, costituita dalle vie di circolazione e dai mezzi di comunicazione che abbracciano il pianeta intero nella loro rete e diffondono l’immagine di un mondo sempre più omogeneo, alle dure realtà della città-mondo in cui si ritrovano e anche si scontrano differenze e ineguaglianze. L’urbanizzazione del mondo consiste al tempo stesso nell’estensione del tessuto urbano lungo le coste e i fiumi e nell’infinita crescita delle megalopoli, ancora più rilevante e cospicua nel terzo mondo. È questo fenomeno la verità sociologica e geografica di quella che chiamiamo mondializzazione o globalizzazione, ed è una verità infinitamente più complessa dell’immagine della globalità senza frontiere che funge da alibi per gli uni e da illusione per gli altri.
Oggi dobbiamo quindi ripensare la frontiera, questa realtà continuamente negata e continuamente riaffermata. Il fatto è che essa si riafferma spesso sotto forme indurite che fungono da divieto e comportano esclusioni. Occorre ripensare il concetto di frontiera per cercare di comprendere le contraddizioni che colpiscono la storia contemporanea.
Molte culture hanno simbolizzato il limite e il crocevia, luoghi particolari in cui si gioca una parte dell’avventura umana quando uno parte all’incontro dell’altro. Esistono frontiere naturali (montagne, fiumi, stretti), frontiere linguistiche, frontiere culturali o politiche. La frontiera segnala anzitutto la necessità di apprendere per comprendere. Naturalmente l’espansionismo ha trascinato alcuni gruppi a violare i confini per imporre ad altri la propria legge, ma è capitato che, anche in questo caso, il superamento della frontiera non sia stato privo di conseguenze per coloro che lo hanno compiuto. La Grecia vinta ha civilizzato Roma e contribuito al suo fulgore intellettuale. In Africa, i conquistatori adottavano tradizionalmente le divinità dei popoli sui quali avevano trionfato.
Le frontiere non si cancellano, si ritracciano. È ciò che ci insegna il meccanismo della conoscenza scientifica, che progressivamente sposta le frontiere dell’ignoto. Un sapere scientifico non è mai concepito come assoluto; è ciò che lo distingue dalle cosmologie e dalle ideologie: all’orizzonte ha sempre nuove frontiere. La frontiera, in questo senso, ha sempre una dimensione temporale: è la forma dell’avvenire e, forse, della speranza. Non dovrebbero dimenticarlo gli ideologi del mondo contemporaneo che, di volta in volta, soffrono di eccessivo ottimismo o di eccessivo pessimismo, in ogni caso di troppa arroganza. Non viviamo in un mondo compiuto, del quale non avremmo che da celebrare la perfezione. Non viviamo nemmeno in un mondo inesorabilmente abbandonato alla legge dei più forti o dei più folli. Viviamo innanzitutto in un mondo in cui la frontiera tra democrazia e totalitarismo esiste ancora. Ma l’idea stessa di democrazia è sempre incompiuta, sempre da conquistare. Come quella della politica scientifica, la grandezza della politica democratica risiede nel rifiuto delle totalità perfette e nel fatto di porsi delle frontiere per esplorarle e superarle.
Nel concetto di globalizzazione, e in coloro che si richiamano ad esso, c’è un’idea di compiutezza del mondo e di arresto del tempo che denota un’assenza d’immaginazione e un invischiamento nel presente profondamente contrari allo spirito scientifico e alla morale politica.

l’Unità 9.3.10
Quel realismo magico del giovane Caravaggio
di Renato Barilli

«Caravaggio», a cura di Claudio Strinati, è la mostra allestita nelle sale delle Scuderie del Quirinale. Resterà aperta al pubblico fino al 13 giugno (catalogo della mostra: Skira).

Scuderie del Quirinale A quattrocento anni dalla morte l’omaggio a Michelangelo Merisi
L’artista Quando lasciò Roma per la Lombardia abbandonò ogni traccia di magia

Le Scuderie del Quirinale acquisiscono un ulteriore merito organizzando esemplarmente la mostra concepita per celebrare i quattrocento anni dalla morte di Michelangelo Merisi (1571-2010), sull’onda di quanto di eccellente già avevano fatto nei casi di Antonello da Messina e di Giovanni Bellini. Forse con minore completezza, in quanto la rassegna è quasi totale per la prima fase del Caravaggio, interrotta dai drammatici fatti del 1606, cui seguono i travagliati anni dell’esilio, e proprio per questo periodo lo stesso Claudio Strinati, principale curatore dell’impresa, è costretto a deprecare qualche vuoto, da Napoli non sono giunti i Sette sacramenti, da Malta è mancata la Decapitazione del Battista. Ma, per gli anni giovanili, la rassegna è quasi a ranghi completi, e taluni capolavori mancanti, il pubblico può andarseli a vedere a poche centinaia di passi, in S. Luigi dei Francesi o in S. Maria del Popolo. Un pubblico che si stipa in troppo, a far da corona ai dipinti, affondati in una saggia oscurità da cui balzano fuori come le tappe di una incalzante via crucis, nell’allestimento di Michele De Lucchi. Intelligente, ancorché prudente e salomonica, è la formula assunta dalla regia globale della mostra, infatti risultava impossibile concentrare in un catalogo l’enorme messe di dibattiti nati attorno al Caravaggio, e dunque Strinati ha suggerito una specie di tregua delle armi, affidando il compito di introdurre ciascuno dei capolavori ad altrettanti studiosi, cosicché le varie linee critiche sono state tutte rappresentate, seppure a spizzichi, con l’aggiunta di un giusto rispetto dello ius loci, ovvero i responsabili dei musei detentori di dipinti del grande artista li hanno accompagnati con biglietti d’invio, scrivendone le schede relative.
Strinati, abile regista del tutto, è riuscito perfino ad attenuare la tesi longhiana di un Caravaggio figlio dei pittori lombardi, dei vari Savoldo e Romanino e Moretto, osservando tra le righe che la nascita del Merisi, ormai posta a Milano, nonostante il soprannome che lo accompagna, rendeva assai difficile che da giovane egli potesse andarsene in giro a vedere i frutti dei bergamaschi e bresciani. E in ogni caso, la tesi sostenuta con tanta passione dal Longhi, a favore di un Caravaggio «lombardo» lo ha portato scambiare, nel Savoldo e compagni, per umbratili e atmosferici umori padani, quanto invece in loro discendeva dall’ossequio a una modernità proveniente dal Dürer. Ovvero, essi senza dubbio sono stati maestri di realismo al Caravaggio, ma nell’accezione dura, soda, quasi metallizzata che avevano ricavato dal grande tedesco.
E dunque, quando il giovane Merisi giunge a Roma, allo scadere del secolo, si porta dietro un realismo, ma da connotarsi con l’appellativo della magia, o della surrealtà. E forse bisogna pure congetturare l’incontro con qualche componente fiamminga.
MILANO E DINTORNI
Riesce comunque difficile pensare che da Milano e dintorni egli si portasse dietro quelle carni sode, perfino grassottelle, e quei sorrisi di lieta accoglienza alla vita che connotano i suoi ragazzi di vita, i suoi garzoni d’osteria, dando loro la stessa levigatezza tersa, cristallina che va anche ai chicchi d’uva e ad ogni altro elemento delle nature morte. Il primo Caravaggio romano è dunque un mirabile maestro di realismo magico, di cui non sopravvive alcuna traccia in Lombardia, quasi che lui, andandosene, se ne fosse portata via l’aura per intero. Da lì, invece, si giunge ai suoi massimi eredi, a Georges de la Tour, a Velàzquez, forse a Vermeer. In mostra si incontra una chiara linea di discrimine, rappresentata dalla prima versione della Caduta di Saulo, che il Merisi aveva confezionato su tavola, assieme al tema coniugato della Crocefissione di Pietro, per la cappella Cerasi in S. Maria del Popolo. Ed è appunto una mirabile visione di corpi pieni, quasi cerei per troppa evidenza, animati da torsioni, investiti da fiotti di luce artificiale. Poi, avviene un fatto misterioso, il Caravaggio ritira quelle prime esecuzioni, passando alle due successive che oggi si ammirano in S. Maria del Popolo. Sulle ragioni di questa sostituzione medita, in catalogo, Francesco Buranelli, avanzando una tesi che si può condividere, non si è trattato di un rifiuto da parte della committenza, bensì di un ripensamento dello stesso artista, che accede, per così dire, a una visione della sua stessa arte più in linea con quanto ancor oggi intendiamo per caravaggismo, cioè un abbraccio naturalistico dei corpi che affondano in un’oscurità atmosferica, cosicché un effetto d’insieme ottunde le singole emergenze. Di ciò, del resto, la mostra attesta un’altra occasione, attorno alle due versioni della Cena in Emmaus, quella di Londra appartiene alla prima poetica, di un chiarore ambientale da cui scattano fuori volti e gesti dei personaggi, i quali invece, nella versione successiva di Brera, risultano offuscati da un tenebrismo che si sta diffondendo sempre più, e che nelle ultime tele dell’esilio travolgerà le sembianze umane facendole spuntar fuori come delle isole rarefatte.

Repubblica 9.3.10
Palliative
Non soffrire, l´ultimo diritto
di Anna Rita Cillis

Tutte le terapie che devono accompagnare il percorso di chi soffre
Sono 250mila le persone che ogni anno entrano in fase terminale Dopo mesi di polemiche e battaglie, finalmente in Parlamento il disegno di legge. Che comprende anche le terapie del dolore

Ha vita complicata il disegno di legge sulle "Cure palliative e terapia del dolore". Il testo è da oltre un anno accompagnato da non poche diatribe al Senato come alla Camera. L´ultima, ieri, in Parlamento dove non sono mancate le polemiche tra opposizione e maggioranza. Il progetto di legge era arrivato alla Camera per l´approvazione definitiva, prevista per oggi, peccato però che si sia arenato nuovamente.
Un vero peccato, perché gli articoli scandiscono in maniera completa quali cure dovranno accompagnare il percorso di chi soffre. Prevedendo la «realizzazione di una rete ospedaliera, territoriale, ambulatoriale e domiciliare che dovrà garantire cure adeguate, la creazione di nuovi hospice, la formazione degli operatori socio-sanitari, il riconoscimento delle professionalità acquisite sul campo e l´obbligo di introdurre nella cartella clinica la rilevazione del dolore e le sue caratteristiche», spiega Livia Turco, tra le parlamentari più attive in questo campo. In più il pdl prevede anche la nascita di una rete di "attenzioni" per i piccoli malati (progetto innovativo al quale molto ha contribuito la Fondazione Maruzza Lefebvre D´Ovidio).
L´approvazione definitiva della proposta di legge era prevista proprio oggi alla Camera: le nubi che hanno accompagnato il suo iter sembravano dissolte. Così, non è stato, però. Non è la prima volta che accade. Va ricordato infatti, che il cammino è stato lungo, tortuoso, pieno di ostacoli negli anni. Le cure palliative, ovvero quell´insieme di interventi terapeutici, diagnostici e assistenziali, rivolti sia alla persona malata che al suo nucleo familiare, hanno avuto grandi difficoltà a radicarsi sul nostro territorio. Nonostante alcune leggi come quella del 1999 dell´allora ministro alla Salute Rosy Bindi sulla creazione degli hospice (strutture sanitarie residenziali riservate a malati alla fine della vita) e nonostante alcune disposizioni regionali e la volontà personale di numerosi camici bianchi, i servizi sono stati sempre a macchia di leopardo.
E, anche se ogni anno 250mila persone entrano nella fase terminale, il 40,6 per cento degli italiani non ha mai sentito parlare di cure palliative, il 10 le conosce solo di nome, il 25,9 ne ha solo una conoscenza vaga e solo il 16 ha un´idea precisa di cosa siano (da un´indagine della Fondazione Maruzzi). Per la terapia del dolore le cose non sono molto diverse, anche se riguardano una persona su quattro. Dati che non stupiscono Livia Turco: «Seguo l´argomento da così tanti anni da sapere perfettamente quanto poco sia conosciuto. Per questo la legge prevede anche delle campagne d´informazione. Perché il punto fondamentale di questa disegno di legge è che riconosce il diritto alla non sofferenza. Noi speriamo che non vengano meno i fondi per realizzarle». Un punto, quello dei fondi, molto dibattuto nei mesi scorsi: ma ora il testo stanzia cento milioni di euro l´anno (soldi vincolati alla concreta realizzazione da parte delle Regioni, però) dopo che il Pd aveva chiesto più volte e in più occasioni «una copertura finanziaria definita», rimarca Turco.
In attesa che il testo si trasformi in legge, Giovanni Zaninetta, presidente della Società italiana delle cure palliative, spera «che al più presto le indicazioni vengano adottate da tutte le Regioni. Per noi sarà una "ricchezza" questa legge, peraltro attesissima. Molto di quello che è stato fatto negli anni passati si deve al settore no profit».

Repubblica 9.3.10
Sotto il segno dell'ambiguità è la generazione "bi-curious"
di Maria Novella De Luca

Sempre più adolescenti sperimentano l´omosessualità e esplorano orgogliosamente territori di confine. Lontani da scuola e famiglia, le loro confidenze viaggiano su Internet. E ora gli specialisti si chiedono: specchio dei tempi o semplice moda
"La bisessualità nell´adolescenza è sempre esistita, solo che ora non è più un tabù"

Mutano, si nascondono, giocano con l´ambiguità. Ragazzi nell´età incerta, che scoprono se stessi, la sessualità, il corpo che cambia, e sperimentano sempre più territori di confine. Non solo "etero" dunque, ma anche "omo" e soprattutto "bisex". Hanno tra i quattordici e i diciotto anni e fanno parte di un movimento young-adult che in tutto il mondo ha fatto dell´ambiguità il proprio modo di amare. Le ragazze camminano mano nella mano, provano baci e carezze, i maschi si fermano ad abbracci più virili ma più espliciti di un tempo: più che bisex molti si definiscono bi-curious, curiosi doppiamente, si vestono con stile androgino, si ispirano all´inquieto movimento "Emo", si incontrano e si confidano in una galassia di siti e blog dove raccontano la loro ambiguità.
Un fenomeno così vasto e dichiarato, un outing così collettivo, che ormai da diversi mesi psicologi, sociologi, medici (ma anche cacciatori di tendenze) hanno messo il fenomeno dei teenager bisex sotto la lente di ingrandimento. Per capire se qualcosa è davvero cambiato nella sessualità dei giovani. O se invece gli adolescenti non abbiano semplicemente smesso di nascondere la loro indefinitezza sessuale. In una recente ricerca dell´Istituto di ortofonologia di Roma, è stato calcolato che tra gli undici e i sedici anni il 35 per cento delle ragazze, e addirittura il 60 per cento dei ragazzi, si è avvicinato o ha provato l´esperienza omosessuale.
Ma, al di là dei numeri, per Francesca Sartori, docente di Sociologia del genere all´università di Trento, tutto questo è la spia di un «forte cambiamento culturale». «L´adolescenza è l´età dell´onnipotenza, del voler provare tutto. La novità è che questa generazione sembra voler fare della propria ambiguità un modo di essere, una bandiera. Del resto questi teenager sono i figli di una società dove i ruoli tradizionali sono caduti, dove la confusione è forte, dove la moda, proprio sfruttando queste tendenze giovanili, propone immagini efebiche di maschi glabri e femmine senza seno, quasi indistinguibili. A mio parere però - aggiunge Sartori - è un azzardo parlare di gioventù bisex, perché è soltanto un´avanguardia trasgressiva che gioca con questi ruoli. E tra qualche anno capiremo se si tratta di "effetto età" o di un vero cambiamento. È certo, però, che gli adolescenti sperimentano una nuova libertà, ma anche un nuovo modo di non definirsi».
L´ultimo rapporto della Sigo, la Società italiana di ginecologia e ostetricia, segnala che gli adolescenti hanno le loro prime esperienze sessuali tra i quattordici e i sedici anni. Ed è in quel momento che la sperimentazione sessuale abbraccia più strade e più forme. E dove la scuola funge da terreno di conoscenza. Un tema a cui Federico Batini, ricercatore di Pedagogia all´università di Perugia, ha dedicato L´identità sessuale a scuola. «La bisessualità nell´adolescenza è sempre esistita, ma adesso non è più un tabù. Però il vero problema è che ai ragazzi mancano gli strumenti per decodificare ciò che gli accade, della sessualità sanno ciò che scoprono su Internet, spesso in modo grossolano e non selezionato. In famiglia il discorso non viene affrontato e a scuola non se ne parla affatto. La verità - conclude - è che non esiste per i giovani una alfabetizzazione sessuale».
Legge invece il diffondersi della bisessualità tra gli adolescenti come un problema legato al riconoscimento di sé Simonetta Putti, psicologa e psicoterapeuta, curatrice di un saggio a più voci dal titolo: Chirone, dinamiche dell´identità di genere. «Il disagio esistenziale è oggi un dato diffuso anche tra adolescenti e ragazzi. E se la sessualità non costituisce più un´area di divieto da parte dei genitori, è l´area dell´affettività e del sentimento ad essere in difficoltà, e sempre più "tecnomediata" da Internet, mail, sms. E infatti, dietro questa crisi dell´identità di genere, c´è a mio parere la forte crisi di identità di questa generazione».

Repubblica 9.3.10
“Ma in realtà la confusione dei ragazzi dipende dalle sofferenze psicologiche"
di Arnaldo D’Amico

Adolescenti confusi, è colpa degli ormoni? La domanda spunta dalle ultime ricerche che stanno scoprendo anche nella specie umana le influenze sulla fertilità, sui caratteri sessuali ma anche sul comportamento, osservati da tempo nel mondo animale. Sono causati dalla diffusione nell´ambiente di una particolare categoria sostanze - su cui la Food and Drug Administration americana la scorsa settimana ha lanciato l´allarme - che interferiscono negli equilibri degli ormoni sessuali. Dai pesci di un fiume del Colorado in cui aumenta la percentuale di femmine passando dalle sorgenti alla foce, dove l´acqua è piena di scarichi industriali, alle rane di un lago africano in estinzione perché i maschi rimangono castrati chimicamente da un fitofarmaco diffuso nell´acqua. Sino alla ricerca di due settimane che ha scoperto una tendenza androgina su adolescenti maschi del nord Italia: riduzione delle dimensioni medie di pene e testicoli, aumento dei casi di "micropene", distribuzione del grasso tendente a quella di tipo femminile ed aumento di statura dovuto soprattutto ad allungamento delle gambe.
«Scoperta che non sorprende - dice il responsabile della Uo di Endocrinologia dell´Età evolutiva dell´ospedale Cervello di Palermo, Piernicola Garofalo, presidente dell´Associazione medici endrocrinologi, Ame - ci voleva solo più tempo perché gli effetti visti sugli animali si scoprissero anche nella specie umana: queste sostanze agiscono già in dosi minime, ma con tempi lunghi, di decenni. Si chiamano "interferenti endocrini" proprio perché, pur se nati con scopi diversi, come additivi delle plastiche, pesticidi, fitofarmaci, ecc, casualmente hanno la capacità di bloccare l´azione degli ormoni, in particolare gli androgeni, una volta nel corpo».
Quando agiscono e che effetto hanno?
«Agiscono durante lo sviluppo sessuale che inizia nel grembo materno e si conclude intorno ai venti anni, con fasi più o meno intense. In questo periodo gli organi riproduttivi si differenziano in maschili e femminili e poi maturano. Si acquisiscono i caratteri sessuali esterni corrispondenti, distribuzione dei peli, del grasso corporeo, tono della voce e dimensioni degli organi sessuali. Il tutto è scritto nei geni che plasmano il corpo in senso maschile o femminile attraverso gli ormoni sessuali. Ma gli interferenti endocrini, contrastando l´azione degli ormoni sessuali, frenano tutto il processo di sviluppo sessuale».
Influenzano anche il comportamento?
«Certo, il carattere maschile e femminile sono determinati dall´azione dei rispettivi ormoni sessuali sul cervello, soprattutto nelle prima fasi di sviluppo quando maggiore è la neuroplasticità».
Quindi le confusioni sulla identità sessuale degli adolescenti possono dipendere da squilibri ormonali?
«Il teoria si, perché in animali di laboratorio si può arrivare ad "invertire" l´aspetto sessuale con dosi massicce di ormoni del sesso opposto a quello dei geni. In pratica no, per due motivi. Primo, gli interferenti endocrini riducono i caratteri sessuali maschili e basta, non stimolano quelli femminili. E´ il fenomeno della androginia. Secondo, gli adolescenti che stanno a disagio nel proprio sesso hanno profili ormonali e tutto il resto perfetti 9 volte su 10. La causa sta in sofferenze psicologiche e esistenziali che si focalizzano sulla identità sessuale, che pertanto è solo un bersaglio. Parola di endocrinologo».

lunedì 8 marzo 2010

Repubblica Roma 8.3.10
Montino e la giunta: illegittimo il decreto del governo, nostre le competenze. Dal centrosinistra pioggia di appelli ai giudici amministrativi
"Elezioni, decide la Regione"
Il Lazio ricorre alla Consulta contro il salva-liste. Oggi sentenza del Tar sul Pdl
di Rory Cappelli Chiara Righetti

Ci ha messo un quarto d´ora la giunta regionale al completo, convocata di domenica alle 19, per varare all´unanimità la delibera che dispone il ricorso alla Corte costituzionale contro il decreto salva-liste. L´appello, che sarà presentato stamattina, chiede che il dl sia dichiarato illegittimo perché, spiega il governatore reggente Montino, «invade le prerogative delle Regioni», che hanno competenza esclusiva sulle proprie norme elettorali, «principio ribadito dalla Consulta in almeno quattro sentenze». La Regione chiede poi alla Corte di sospendere subito l´efficacia del decreto.
Attenzione puntata anche sull´Ufficio elettorale del Tribunale. Dove, secondo un´interpretazione del decreto, il Pdl già alle 8 di stamattina potrebbe presentarsi con le liste. E, se riuscirà a consegnarle, precipitarsi al Tar in tempo per le 9.30, orario in cui è fissata l´udienza che dovrebbe dibattere la richiesta di sospensiva dell´esclusione della lista provinciale, che a quel punto si troverebbe in parte svuotata di senso. Sul tavolo i giudici del Tar troveranno, oltre al nuovo dl, una memoria in cui la Regione comunica di aver fatto ricorso alla Consulta. E le costituzioni in giudizio di Pd, Idv, dell´assessore Luigi Nieri di Sel, e del Movimento difesa del cittadino, tutte tese a bloccare la riammissione del Pdl. Perché, spiega il legale del Pd Luca Petrucci, «anche alla luce del decreto, per presentare le liste servono due requisiti»: aver fatto ingresso nel «rispetto dei termini orari», «muniti della documentazione». E mentre sul primo nodo viene in aiuto il decreto, sul secondo il Pdl potrebbe avere qualche difficoltà in più.
Starà ai giudici del Tar valutare se dichiarare decaduto il ricorso o entrare comunque nel merito, anche con un´istruttoria. Meno probabile che il Tribunale rimetta la questione alla Consulta, che però è chiamata in causa comunque dal ricorso della Regione. E se ieri il Pdl si mostrava ottimista, Storace lo era meno: «Se il Tar ricorre alla Consulta il caos diventa enorme. Spero che a danno non si aggiunga altro danno».

Repubblica Roma 8.3.10
Il sit-in a piazza Navona
Il popolo viola "Ci pensi la Corte Costituzionale"
"Regione, avanti così"
Dal sit-in a piazza Navona il sostegno al ricorso di Montino alla Consulta
di Laura Mari

Dal popolo viola arriva il sostegno all´iniziativa legale della Regione contro il decreto salva-lista. «Alla giunta del Lazio non possiamo che dire "avanti così" e dare il nostro pieno appoggio al loro appello alla Consulta» conferma Giuliano Girlando, uno dei portavoce del popolo viola, riferendosi alla delibera di giunta approvata ieri sera e voluta dal vicepresidente della Regione Esterino Montino per dare mandato ai legali della Pisana di sollevare presso la Corte Costituzionale il tema del conflitto del rapporto tra Stato e regione.
A sostenere la battaglia legale della giunta regionale contro il decreto ad-listam sono anche molte delle cinquemila persone del popolo viola che ieri pomeriggio si sono ritrovate a piazza Navona con bandiere tricolore listate a lutto o con cartelli con su scritto "Qui giace la democrazia" e "Far-west all´italiana". «Il Paese intero chiede il ritiro del decreto - ha ribadito Gianfranco Mascia, uno dei leader del movimento viola - e a chi dice ritiriamo le liste rispondiamo, al contrario, che questo è il momento di partecipare ed esercitare il proprio diritto di voto». Insomma, dal popolo viola arriva l´invito (palesato anche nello striscione appeso sul palco di piazza Navona "Quando il gioco si fa duro, i duri entrano in gioco) alla candidata del centrosinistra Emma Bonino a non ritirarsi dalla competizione elettorale. «Questo è il momento di partecipare ed esercitare il proprio diritto di voto - ha detto Gianfranco Mascia - e trovo giusto che la Regione Lazio si rivolga alla Corte costituzionale, perché è così che le istituzioni in democrazia dovrebbero procedere, ovvero secondo le regole e rispettando le leggi. Poi - ha concluso il leader del popolo viola - accetteremo qualsiasi decisione della Consulta».
Della stessa opinione sono anche Marinella Vali, 34 anni, e Antonello Garau, 28 anni, che in piazza Navona hanno portato, il testo della Costituzione italiana. «La speranza - hanno detto i due simpatizzanti del popolo viola - è che si ritorni al rispetto delle regole, perché in sostanza il decreto ad listam non fa altro che sanare la situazione del Pdl che a Roma era stato escluso dalla competizione elettorale». Oltre ai cinquemila manifestanti, in piazza con il popolo viola c´è anche le bandiere del Partito Democratico, dell´Italia dei Valori (tra la folla il senatore Stefano Pedica), di Sinistra ecologia e Libertà i Radicali (in piazza il candidato alle regionali Luca Sappino), la Federazione della Sinistra e i Verdi (con il leader Angelo Bonelli).
Prossimo appuntamento, la manifestazione nazionale di sabato prossimo, in piazza del Popolo, organizzata da tutti i partiti del centrosinistra per protestare contro il decreto salva-liste.

Repubblica Roma 8.3.10
Bonino: "Il ritiro? Deciderò domani E Alemanno pensi ai guai di Roma"

«Sono allibita. Non stizzita». Così Emma Bonino torna sul tema del decreto salva-liste. «Sono allibita dall´impudenza, dall´arroganza, dalla prepotenza di chi, pur essendo un grande partito, non riesce ad adempiere a una regola semplice, consegnare le liste entro il limite delle 12». E rivolta ai cittadini aggiunge: «A voi nessuno farà decreti interpretativi se per un concorso fate domanda con due ore di ritardo». Mentre al sindaco Alemanno (che nel pomeriggio aveva detto: «Sapeva perfettamente che avrebbe avuto di fronte il Pdl, non comprendo perché questo fatto la turbi tanto»), risponde: «Perché, invece di fare il sindaco di Roma, è così appassionato della campagna per le regionali? Manco avesse niente da fare come sindaco, visto che i problemi non mancano». Sull´ipotesi di ritirarsi per non «giocare coi bari», taglia corto: «Non decido da sola. Abbiamo convocato un´assemblea per domani».

Emma Bonino
Un motivo in più per manifestare lo ha dato ieri la candidata del centrosinistra Emma Bonino, lanciando l´allarme su nuovi possibili "trucchi" del Pdl: se non convertono il decreto prima del voto e poi perdono le elezioni - è il ragionamento della Bonino - gli sarà sufficiente lasciarlo cadere per poi ottenere l´annullamento delle regionali alle quali, al quel punto, avrebbero partecipato concorrenti non candidabili. Condivide Bersani: «Dal centrodestra ormai possiamo aspettarci ogni genere di trucco». Ma il leader del Pd è preoccupato dal richiamo dell´Aventino al quale la Bonino al momento non è immune. Ieri la candidata è tornata a dire di non essere sicura di voler «giocare con i bari» nel caso in cui oggi il Tar, applicando il salva-liste, dovesse rimettere in corsa il Pdl a Roma. Ma - ha spiegato - questa è una scelta che «non posso da prendere da sola, per questo ho convocato una grande assemblea per martedì». Bersani l´ha però spronata ad andare avanti ricordando che di fronte a chi cambia le regole in gioco l´unico rimedio è vincere le elezioni: «Un atteggiamento di Aventino lascia il campo libero agli avversari». (da Repubblica)

l'Unità 8.3.10
Per il terzo giorno consecutivo mobilitazione contro il decreto salva-liste voluto dal premier
Da Firenze a Napoli da Ferrara e Sassari, sit-in e manifestazioni in attesa della protesta del 13
«Il diritto è morto»
Piazza Navona è viola, proteste in tutta Italia
nelle edicole

l'Unità 8.3.10
Bruno Vespa
Tempesta tra premier e Quirinale. Vicini allo «sparo di Sarajevo»
«Scenari drammatici»: usa un linguaggio duro Bruno Vespa nel descrivere il confronto sul dl salvaliste: un vero scontro tra Berlusconi e Napolitano. In un commento per il Mattino, Vespa racconta: «La tempesta abbattutasi tra palazzo Chigi e Quirinale ha fatto intravedere scenari drammatici. Berlusconi ha pensato di far saltare il tavolo. L’indisponibilità di Napolitano a firmare un decreto... sarebbe stato lo sparo di Sarajevo» (il via alla prima guerra mondiale, ndr.). «Il colloquio di giovedì sera tra Berlusconi e Napolitano è stato il più concitato che si ricordi». Il premier «voleva far approvate la sera stessa un dl sulla falsariga del precedente delle europee del ’95: i radicali erano fuori tempo e ricorsero a Scalfaro, Dini premier riaprì i termini per 48 ore e tutto si aggiustò. Il capo dello Stato ha sostenuto che quella procedura non poteva essere ripetuta in questo caso e Berlusconi si è molto arrabbiato, minacciando il ricorso alla piazza». Poi «si è distinto tra decreto innovativo, che il Quirinale non avrebbe accettato, e decreto interpretativo.

Il Mattino 6.3.10
La Serajevo disinnescata
di Bruno Vespa

Tutto per bene, alla fine. Ma prima della quiete di ieri sera, la tempesta abbattutasi tra palazzo Chigi e Quirinale ha fatto intravedere scenari drammatici. Nelle ore che hanno preceduto e seguito il colloquio di mercoledì con il capo dello Stato, Berlusconi ha pensato di far saltare il tavolo. La indisponibilità manifestata da Napolitano a firmare un decreto che salvasse la lista del Pdl nel Lazio e la posizione di Formigoni in Lombardia sarebbe stato lo sparo di Sarajevo. Come l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria e di sua moglie il 28 giugno del 1914 fu il pretesto per scatenare la prima guerra mondiale, così l’eventuale sacrificio dei candidati alla conquista e alla conferma nelle due regioni più importanti d’Italia sarebbe stato l’innesco di una bomba ben più micidiale. Se Fini ha detto che così com’è il Pdl non gli piace, Berlusconi va oltre. Anche se l’incidente di Roma è avvenuto con modalità in parte controverse, i danni all’immagine del centrodestra sono stati più devastanti del previsto. Aggiunti alla decisione di oscurare per un mese i principali programmi politici della Rai, hanno fatto perdere in tre giorni al Pdl tre punti secchi nei sondaggi. A proposito della sospensione dei programmi, molti elettori di centrodestra si sentono offesi perché privati della capacità di scegliere («Sappiamo bene chi è fazioso e chi non lo è»).
Sul pasticcio elettorale, la gente - a sinistra, ma anche a destra - fa questo discorso: perché se io non rispetto i termini (un concorso, le tasse) vengo punito senza remissione e se il pasticcio lo combinano in politici il rimedio si trova? È vano rispondere che mettendo una pezza sul pasticcio delle liste più che favorire qualche persona si garantisce a milioni di elettori di non essere privati del diritto di scegliere. Si aggiunga che Berlusconi non si riconosce nel comportamento di molti dirigenti che in periferia bisticciano, ma pur sempre lo rappresentano. Quel che è accaduto al momento della presentazione delle liste romane lo ha indignato. Gli elettori di centrodestra sono furiosi: perché dovremmo fidarci di una classe politica che non conosce il proprio mestiere? Gli strascichi delle polemiche sulla corruzione che hanno colpito (Milano e Firenze) o sfiorato (Roma) amministratori e personalità del Pdl hanno inoltre contribuito ad alimentare una pericolosa disaffezione. Non c’è un travaso di voti a sinistra, ma un forte astensionismo, corretto a Roma da una valanga di voti potenziali alla destra dell’ex governatore Storace. Questo cocktail micidiale ha portato Berlusconi a fare due conti. Le dimissioni del governo avrebbero come conseguenza fatale le elezioni anticipate. È difficile infatti che Napolitano possa autorizzare una maggioranza diversa da quella che è uscita dalle urne. I ribaltoni sono storia del passato e frutto anche dell’odio personale di Scalfaro nei confronti del Cavaliere. Con le elezioni, Berlusconi metterebbe di nuovo in gioco tutto il piatto. Ma il rischio verrebbe compensato dal vantaggio - ai suoi occhi - di spiazzare completamente Fini e Casini e di cogliere il Partito democratico in mezzo al guado. Fantasie, certo. Ma il colloquio di giovedì sera tra Berlusconi e Napolitano è stato probabilmente il più concitato che si ricordi. Il presidente del Consiglio voleva far approvate la sera stessa un decreto legge sulla falsariga del precedente delle elezioni europee del ’95: i radicali erano fuori tempo e ricorsero a Scalfaro, Lamberto Dini presidente del Consiglio riaprì i termini per 48 ore e tutto si aggiustò. Il capo dello Stato ha sostenuto che quella procedura non poteva essere ripetuta in questo caso e Berlusconi si è molto arrabbiato, minacciando il ricorso alla piazza. La serata si è conclusa male, ma nella giornata di ieri Napolitano si è dimostrato favorevole a trovare una soluzione. Si è così distinto tra decreto «innovativo», che il Quirinale non avrebbe accettato, e decreto «interpretativo» che verrà invece considerato con benevolenza. Ieri sera il Consiglio dei ministri ha scelto ovviamente la seconda strada per ottenere il risultato che avrebbe ottenuto con la prima.

Repubblica 8.3.10
L'onda viola nelle piazze d'Italia "E ora bandiere alle finestre"
La protesta invade il web: anche il Colle ha dovuto risponderci
Manifestazioni a Roma, Napoli Firenze, Sassari Su Facebook l´organizzazione
di Antonello Caporale

ROMA - Le bandiere diventano drappi, le magliette stendardi, le sciarpe bandiere. Alle finestre o in auto, viola da passeggio o da salotto. Invito ufficiale: contiamoci nei condomini, stendete ai balconi e vediamo che succede nelle città. Il viola è per adesso l´unico colore in espansione della politica italiana. Si alimenta con poco e produce energia dalla sua stessa energia, come una fonte rinnovabile. «Fanno solo ammuina», ha detto, non senza una goccia di verità, il deputato Italo Bocchino. In effetti sì. Ieri a piazza Navona c´è stata ancora parecchia ammuina. È questo rumore di sottofondo, disordinato ma non disorganizzato, che però segna l´aria e rende all´opposizione la vita un poco più felice e le speranze meno tenui. Nel silenzio degli altri, loro ci sono. «Potremmo affittare la nostra piazza alla Polverini, se paga bene». La lucida provocazione di Marco segnala cinquemila persone in piazza, convocate all´ora delle tagliatelle e persino giunte puntuali al luogo voluto. Senza gerarchi e capi, senza onorevoli e segreterie particolari. Finanze zero e voglia tanta. Si può fare.
Napolitano ha dovuto rispondere online, «e questa è la nostra forza. Ci ha dovuti considerare, si è preso cura di noi, sa che siamo tanti» dice Stefano Mascia, leader dei viola. Il presidente si è dovuto connettere, e affidare le sue parole a un popolo che per tutta la giornata lo ha spesso mitragliato. «È incredibile ciò che ha fatto, e assai deludente». Gruppo di fuoco da Torino. Pescara invece: «Sappiamo che a Roma c´è tanta gente, ma anche da noi oggi piazza Salotto è bella». Era Tiziana, dall´Abruzzo. Napoli, Firenze, Ferrara, Campobasso, Sassari, Reggio Calabria. Raduni improvvisati, incursioni brevi ma ficcanti. Colorate. Ammuina, appunto. È Facebook la centrale di smistamento, il corridoio da dove si passa per informarsi e arrivare. Oggi i politici hanno fatto vacanza. A piazza Navona niente bandiere del Pd, qualcuna di Nichi Vendola (Sinistra e libertà), regredita a mero contorno la falange dipietresca.
I viola fanno da soli. Segnalati movimenti a Pescara, Pistoia e Reggio Emilia. Brevi accenni violacei, incursioni spesso deboli ma mai insignificanti. «Viola chi vìola». A pensarci, sì, il colore promuove anche forme più fisiche di antagonismo.
Twitter scatena mille fantasie, da youtube si dissotterrano videi antichi. Uno di questi, della televisione tedesca, mostra l´inseguimento all´aeroporto di Bruxelles di Giorgio Napolitano, al tempo in cui era eurodeputato. Un giornalista gli chiede conto dell´indennità. Il presidente risponde seccato: «Rendo conto ai contribuenti italiani, non a lei». Il pungiglione viola attacca e corre via. Berlusconi è caricato e scaricato in duemila versioni televisive, analizzato e commentato in ogni sua apparizione. Un grido da Bari: «È entrato dentro novantesimo minuto, adesso, correte e vedete!». Il premier dentro un campo di pallone? «E diamine, non esagerate», dice Clelia, da Parma. Intanto, e sono le 19.12 in dieci minuti 27 commenti, e già cinquanta contatti. Sessanta dopo 11. È successo che ieri alla Rai il registrato di un suo intervento napoletano si sia introdotto, per una disattenzione, nel registrato del commento alla partita di calcio del Napoli. C´era Hamsik che tirava la palla e Berlusconi commentava: «Noi siamo il partito del fare...».
La velocità e la metodicità del viola, condizione e sentimento comune, ha prodotto anche un innalzamento del livello verbale, fino a ieri piuttosto moderato, di Pierluigi Bersani. Sul suo profilo parole di fuoco e timore che al fondo non ci sia fondo: «Può succedere di tutto». Anche Casini ha scritto.
Emergenza democratica? Bandiere a lutto perciò. Sabrina, da Torino: ogni nostro profilo venga sostituito da una bandiera italiana a lutto. Vincenzo, da Marsala: «Povera patria di Battiato come nostro inno, cosa ne dite?». Franco: «Qui anche quelli del centrodestra sono stufi. Oggi in piazza Navona ce ne erano alcuni e hanno finalmente capito». Mascia, il leader più concretista: «Stiamo trainando il centrosinistra». Anonimo: «In effetti ci stanno facendo la campagna elettorale».
Tutto gratis, senza incomodi e senza telefonate. Senza riunioni, e soprattutto senza panini. «Anche la lista Lavoratori per il comunismo non è stata ammessa alle elezioni. I presentatori erano andati via, a mangiare due bambini». Risate.

Repubblica 8.3.10
Luciani replica a Maroni: la mia riflessione faceva riferimento a una legge
"Norma incostituzionale, non l´ho ispirata io"
di Vladimiro Polchi

ROMA - «Il decreto del governo solleva serissimi dubbi di costituzionalità». Massimo Luciani, docente di diritto costituzionale a Roma, nega la "paternità" delle norme salva-liste.
Ma per Maroni il decreto è in linea con i suoi suggerimenti.
«La mia intervista su Repubblica esordiva con l´affermazione che, delle varie ipotesi in campo, "nessuna è indenne da dubbi di incostituzionalità"».
Lei prospettava una quarta ipotesi, con dubbi meno gravi.
«Quell´ipotesi, però, non faceva riferimento a un decreto legge. Infatti: primo, ritenevo necessaria una legge, anche perché solo in questo modo sarebbe stato aperto il doveroso confronto con le opposizioni, i cui diritti andavano salvaguardati; secondo, affermavo che anche una legge avrebbe dato adito a dubbi di costituzionalità, sia pure meno gravi di quelli suscitati da altre soluzioni; terzo, non pensavo a norme interpretative, che poi interpretative non sono affatto; quarto, immaginavo un´ipotesi semplicemente "meno peggiore" delle altre».
Le cose sono andate diversamente.
«È stato adottato un decreto legge invece di una legge; si sono qualificate le sue norme come interpretative; si è negato che esistano i dubbi di costituzionalità che, invece, avevo indicato. E il fatto che il capo dello Stato abbia firmato il decreto non sposta di un millimetro la frontiera dei serissimi dubbi di costituzionalità: il Presidente - chi lo attacca trascura questo dato - non è un tribunale costituzionale e non si può certo pretendere dalla sua valutazione che risolva questioni di diritto che spetta ad altri organi costituzionali definire».

Repubblica 8.3.10
La reazione al sopruso
di Aldo Schiavone

ROMA - Cresce la protesta nelle piazze contro il decreto salva-liste, mentre la Regione Lazio approva il ricorso alla Corte Costituzionale. Oggi il Tar decide sulla Polverini. Intanto Berlusconi attacca: «Da sinistra solo insulti». Ma il premier non ha gradito nemmeno le mosse di Fini: «Anche stavolta si è messo di traverso». E tra il Pd e Di Pietro è polemica sul Quirinale.
Basta guardarsi intorno per rendersene conto, anche senza badar troppo ai sondaggi, che vanno peraltro tutti nella stessa direzione.
Una trita immagine dell´Italia ci vorrebbe presentare come un Paese di azzeccagarbugli; e nell´evidente deformazione c´è forse un fondo di vero, nel senso che una lunga storia intellettuale e morale ci ha reso purtroppo per gran tempo familiari i cavilli e le trappole di una cultura giuridica troppo spesso malamente contigua ai voleri dei potentati politici o del dominio di classe. Ma questo ci ha anche come vaccinato: e il nostro senso comune ha imparato molto bene a distinguere una sottigliezza del diritto astrusa ma fondata, da un espediente che nasconde solo una sopraffazione.
La verità è che sono state violate da parte del Governo regole elementari di terzietà e di correttezza. Basta immaginarsi quel che sarebbe accaduto se l´errore fosse stato compiuto dal Pd invece che dal Pdl: nemmeno l´ultimo degli ingenui potrebbe credere che avremmo visto il presidente del Consiglio affaticarsi con lo stesso precipitoso zelo fra palazzo Chigi e il Quirinale. Per non parlare dell´affermazione, che vorrebbe essere di principio, con cui si apre il provvedimento, circa il generale prevalere della sostanza sulla forma: dichiarazione di una frettolosità rozza e incolta, che vorrebbe ammantare di duro realismo sostanzialista quel che è solo un artificio retorico per poter avere mano libera, e che non sarebbe dispiaciuta a qualche giurista nazista o (fate voi) a un Vysinskij.
Ma il problema, adesso, per l´opposizione – per tutta l´opposizione – non è più giuridico, ma politico. E riguarda la gestione della protesta e dell´insofferenza che stanno sempre di più crescendo ed espandendosi.
Diciamolo subito: ogni tentazione «aventiniana», ogni idea di testimoniare il disappunto e lo sconcerto chiamandosi in qualche modo fuori o in disparte, con la strategia di sottrarsi a un gioco truccato, finirebbe per favorire l´avversario, e va fermamente respinta. Bisogna accettare la sfida, e combattere sino in fondo, sino all´ultimo voto, la battaglia elettorale, qui e ora. In politica (e non solo), l´assente ha sempre torto. E´ un´altra la via da seguire: quella dell´impegno e dell´asprezza del confronto: la sola che possa allargare il fronte del dissenso, e farlo diventare maggioritario.
La crisi del berlusconismo, di cui parliamo da anni e di cui ormai tutti si stanno finalmente accorgendo, sta entrando in una fase nuova e imprevedibile, in cui ogni cosa è possibile. Il carisma personale non basta più a coprire il deficit di idee di una leadership che non ha più nulla da offrire al Paese. Ed è esattamente in questo vuoto che il partito si dissolve, e crea ogni giorno nuovi problemi con la propria inadeguatezza (come è accaduto clamorosamente in questi giorni), invece di impostare soluzioni, e di aprire prospettive. Le iniziative personali di alcuni ministri cercano di nascondere questo stallo. Ma fino a quando potrà bastare?
E´ emersa, in quest´ultima vicenda, un´arroganza del potere, una certezza di impunità, una sorda convinzione di poterla comunque fare franca, che inquieta molto, e dovrebbe ancor più inquietare chi sinora ha creduto in quello schieramento. Siamo passati da leggi ad personam giustificate (si pretendeva) dalla posizione peculiare del Principe, a provvedimenti di parte che hanno il sapore di autentici privilegi. Siamo di fronte a una deriva di autoreferenzialità normativa senza precedenti, come se il Paese non esistesse, come se ci fossero solo loro. L´opposizione deve fargli capire, con il voto, che non è così.

Repubblica 8.3.10
Germania, il governo sfida la Chiesa
"Serve una tavola rotonda nazionale che affronti gli abusi del clero sui minori"
I ministri democristiani promettono "tolleranza zero" contro la pedofilia
di Andrea Tarquini

BERLINO - Gli abusi sessuali nei collegi, scuole e conventi della Chiesa cattolica in Germania non solo si rivelano un problema sempre più grave e diffuso, con nuove rivelazioni agghiaccianti ogni giorno. Ora sono diventati un caso politico, un nodo di scontro tra Stato e Chiesa. Il governo della cancelliera democristiana Angela Merkel entra in campo, alza la voce, chiede ai vertici ecclesiastici di indire al più presto una tavola rotonda per fare luce insieme, subito e a fondo, sulle violenze contro i minori. E al tempo stesso promette "tolleranza zero" contro la pedofilia, anche nelle scuole e istituzioni religiose.
A pochi giorni dall´incontro del 12 marzo in Vaticano tra il Papa e il presidente della Conferenza episcopale tedesca, Robert Zollitsch, il clima tra establishment politico e vertici ecclesiastici si fa dunque più teso e pesante. «Sono in collera, l´abuso sessuale sui minori è la più grave violazione della fiducia, prometto che vareremo una politica di tolleranza zero», ha detto la democristiana Annette Schavan, ministro dell´Educazione.
Per la Chiesa è un attacco duro. Ancor più problematica è la richiesta della ministro della Giustizia, la liberale Sabine Leutheusser-Schnarrenberger. La quale ha detto alla Welt am Sonntag di ritenere necessaria l´organizzazione di una tavola rotonda che riunisca governo, forze politiche e sociali, rappresentanti delle Chiese, per affrontare il grave problema delle violenze e degli abusi sessuali contro bambini e adolescenti. È la seconda volta in pochi giorni che la ministro avanza la richiesta. Il presidente della Conferenza episcopale una prima volta l´aveva sdegnosamente respinta. Adesso le ultime rivelazioni sugli abusi nel coro dei Passeri del Duomo di Ratisbona e nell´abbazia-collegio di Ettal hanno cambiato il clima.
«I nuovi casi di abusi, resi noti ogni giorno, scuotono la gente», ha detto la ministro della Giustizia. «Una tavola rotonda non vuol dire mettere la Chiesa alla berlina, ma esigere un lavoro di chiarimento di tutta la società». Richieste non meno decise arrivano dal ministro della Giustizia bavarese Beate Merk, della iperconservatrice e cattolicissima Csu: «La Chiesa deve dare alla società un chiaro segnale di ritenere una priorità importante la difesa e il soccorso delle vittime degli abusi». Monsignor Zollitsch rischia di andare dal Papa lasciandosi alle spalle una Germania col governo a guida democristiana come controparte sempre più severa.

Repubblica 8.3.10
Decine di ex allievi raccontano le angherie subite nel monastero benedettino di Ettal. Tra le vittime anche un monaco
"Gli anni peggiori della mia vita" voci dal convento degli orrori
Percosse, stupri o "semplici" giochi sadici. L´inventario infinito delle violenze sui giovani
di A. T.

BERLINO - Molti portavano gli allievi minorenni nelle loro abitazioni, li costringevano a carezze e palpeggiamenti. Molti altri preferivano il piacere sadico delle percosse: amavano usare bastoni o stampelle di legno per picchiare i ragazzi sulle natiche e sulla schiena, fino a vedere le cicatrici sulle loro pelle. Uno studente si tolse la vita. Un religioso ebbe una relazione con una studentessa sedicenne. Ettal, l´abbazia dell´orrore: nel rapporto dell´avvocato Thomas Pfister, incaricato di indagare dagli attuali responsabili dell´abbazia stessa e della Chiesa, l´antico convento benedettino appare, nel suo passato recente, come un luogo di violenza e di tragedie.
«Le vittime mi chiamano giorno e notte», dice l´avvocato Pfister. Narra delle lettere degli ex studenti: «In tutti gli anni Sessanta, regnava un clima di terrore assoluto». Le vittime di allora scelgono l´anonimato, non vogliono compromettersi dicendo il loro nome. La vergogna per gli abusi subìti ha spezzato i loro animi, ma adesso hanno almeno trovato il coraggio di rompere il silenzio. Oltre cento casi di abusi e violenze sono documentati, e gli ultimi risalgono alla fine dell´anno scorso.
«C´era padre G. che andava con gusto mirato a scegliersi per vittima gli scolari che sembravano più deboli di carattere… Lui e altri preferivano accanirsi con percosse contro i bimbi più piccoli, magari tra gli otto e i dieci anni». Il confine tra violenza fine a se stessa, percosse inflitte per piacere sadico, e gusto della violenza mosso da una sessualità perversa, attraversa di continuo zone grigie nelle testimonianze delle vittime. Si parla di violenza sessuale anche contro i religiosi più giovani, come un macabro "nonnismo" tra frati o sacerdoti anziché tra soldati.
«Ricordo ancora», narra un´altra vittima, «che il mio insegnante, un prete, una volta mi picchiò talmente a lungo con un bastone di bambù che poi dovettero ricoverarmi all´infermeria del convento… Nessuno seppe mai nulla, dominavano omertà e silenzio. Furono gli anni peggiori della mia vita, da adulto divenni alcolizzato». Un altro "ex di Ettal" ricorda un sacerdote americano. Raccontava sempre di aver subìto traumi come cappellano nella guerra di Corea. Tra gli studenti era temutissimo per la brutalità delle sue percosse. Altri religiosi, continua il rapporto di Pfister, sfogarono le loro tendenze pedofile od omosessuali con i giovani. «Un padre, ora nel frattempo scomparso, amava tenere vicino a sé i giovani eccitati, e avere contatto corporale con loro». Un altro religioso ancora adesso è sotto inchiesta: in anni recentissimi, ha diffuso su siti pedofili in internet foto di suoi allievi seminudi.
«Confesso con vergogna di aver percosso e umiliato anch´io bambini e ragazzi, tra il 1985 e il 1987», ha detto in pubblico, piangendo alla conferenza stampa, l´ex amministratore di Ettal, padre Johannes Bauer. «Lo ammetto, picchiavo brutalmente i giovani sulle natiche nude, usando dure, pesanti stampelle di legno». Le tecniche della violenza erano raffinate, mostravano spesso una perversa, criminale fantasia. Arrivavano a strappare i capelli con forza a bambini e ragazzi, per il piacere di farli piangere dal dolore. «Ci tiravano via le basette con colpi brutali delle loro mani, era una sofferenza estrema», narra un altro ex studente. Le vittime parlano, a decine se non a centinaia. Si è rivolto all´avvocato Pfister anche un monaco, raccontandogli di quando superiori e confratelli anziani lo violentarono. La violenza in tono minore, ma non meno sottile e crudele, era quella dei preti che davanti ai bambini aprivano i pacchi dono inviati ai giovani dai genitori. Con le peggiori minacce, obbligavano i minorenni a regalare loro i migliori dolciumi o i doni più belli.

Repubblica 8.3.10
Nigeria, il massacro infinito tra cristiani e musulmani
Nella Nigeria dei massacri dove cristiani e musulmani si uccidono in nome di Dio
Ieri l´ultima strage, cinquecento morti
di Guido Rampoldi

Due boss politici locali dello stesso partito ispirano le gang giovanili che si danno la caccia armate fino ai denti

Kuru Karama (Nigeria centrale) Per ammazzare con quella frenesia dovevano avere nella testa molto koskovo, il gin locale, piuttosto che le incitazioni allo sterminio rivolte al suo popolo dal Dio dell´Antico Testamento: «Uccidi uomini e donne, bambini e neonati». Ma hanno macellato i musulmani del villaggio proprio in quel modo.
E quando adesso ascolti i ragazzini raccontarti come i cristiani adempivano con i machete al comandamento del Signore degli Eserciti - «Voi inseguirete i vostri nemici ed essi cadranno davanti a voi trafitti dalla spada» - , quando ti rendi conto che tra le rovine bruciate l´unico edificio intatto è il tempio dei pentecostali, devi domandarti se chi ha ordinato questa strage non legga la Bibbia esattamente come, nel campo avverso, alcuni islamisti leggono il Corano. E cioè come una teologia del terrorismo particolarmente utile per annientare gruppi umani rivali, depredare, sottomettere, e poi spacciare quei crimini per eroici atti di fede.
Lo scontro antico che dall´Africa alle Molucche sta ritrovando nelle religioni pretesti, ispirazioni e complici, in Nigeria centrale obbedisce ad una simmetria radicale: musulmani e cristiani fanno fuori interi villaggi. Grosse bande attaccano di sorpresa insediamenti isolati e non risparmiano nessuno, neppure i bambini. L´altra notte una masnada di musulmani ha massacrato i cristiani di Doko Nahawee, ammazzandone forse cinquecento. Cinque settimane prima, il 26 gennaio, era stata cancellata dalle mappe Kuru Karama. Dei tremila abitanti, i cristiani ne hanno sterminati almeno centocinquanta, quelli troppo vecchi o troppo giovani per scappare, e quelli decisi a difendere le loro cose. Tra le casette di terra rappresa, nessuna delle quali conserva la lamiera che fungeva da tetto, incontro quattro soldati depressi e tre scolari sedicenni venuti a cercare i quaderni che tenevano vicino al letto.
I soldati hanno tappato con la terra due pozzi in cui gli attaccanti avevano gettato gli uccisi: troppi cadaveri, spiegano, e non sapevano come tirarli fuori. I ragazzini appartenevano ad una classe che è stata decimata dai machete quando ha cercato di scappare attraverso il cerchio degli assedianti. Mentre ne raccontano non trovano le parole, e hanno gli occhi sgranati, non so se per paura, orrore o incredulità.
Nessuno di loro, dicono, si attendeva l´attacco. Non è difficile crederlo. Kuru Karama è uno dei tanti insediamenti dell´etnia Hausa nello Stato del Plateau, villaggi dove trovi una piccola moschea accanto ad un minuscolo tempio cristiano, e botteghe che espongono appaiati poster di Cristo dal cuore palpitante e ragazze in estasi coranica. Intorno, una terra che non può suscitare appetiti - campi riarsi, una boscaglia rada sparpagliata sopra una landa polverosa. Ma Kuru Karama ha una particolarità: è interamente circondata dai villaggi dell´etnia cristiana, i Birom, che nel Plateau esprime il potere. Questo gli è stato fatale.
Se invece risaliamo la concatenazione delle causalità, il destino si presenta nella forma insospettabile di una legge in teoria molto democratica. Per salvare dall´assimilazione le più piccole tra le 250 etnie nigeriane, ciascuno dei 36 governi che formano la federazione attribuisce lo status di «popolazione indigena» alle tribù considerate autoctone, e con lo status accessi privilegiati all´istruzione e all´amministrazione pubblica, cioè all´unica possibilità di trovare un impiego decente. Gli Hausa sono nel Plateau dalla metà dell´Ottocento, ma il governo locale, egemonizzato dai Birom, non li considera «indigeni». Dal 2001 questa discriminazione è la causa delle loro rivolte furiose, e della reazione altrettanto brutale dei Birom.
Ogni volta più violento, lo scontro comincia a sovrapporsi ad una linea di faglia che attraversa la Nigeria dalla sua origine coloniale. Il Paese fu inventato dai britannici nel 1914 assemblando incongruamente il nord musulmano e il sud cristiano. Dopo la fine della dittatura militare (1999) dodici Stati del nord, invogliati da donazione saudite, hanno deciso di applicare la sharia ai loro cittadini, sia pure su basa volontaria. Ma uno dei dodici ci ha ripensato e gli altri non applicano la legge coranica nella parte sostanziosa. Però i gruppi dominanti (musulmani) si sentono autorizzati a rinforzare i pretesti con i quali si spartiscono gli impieghi statali. Nelle università, docenti cristiani si vedono negare cattedre, nelle scuole diminuiscono gli insegnanti non islamici. A loro volta alcune oligarchie cristiane della Nigeria centrale hanno cominciato a praticare la discriminante religiosa per tenere a bada etnie «non indigene» a maggioranza musulmana, come gli Hausa, che rivendicano i propri diritti. E poiché questa divaricazione ora attraversa anche gli apparati di sicurezza, sta diventando pericolosa per un Paese che fatica a trovare una comune ragione sociale, se non nei colossali proventi del petrolio.
Questi conflitti non potrebbero ricorrere alla maschera della religione se i cleri si opponessero. In questa regione, un frangiflutti di etnie e credi, hanno formato un comitato inter-religioso che si riunisce nella città di Jos per prevenire tensioni. I partecipanti si conoscono dal tempo delle elementari ma, mi confida uno di loro, dubitano tutti nello stesso modo della sincerità di quel che viene detto. E con ragione: infatti gli uni e gli altri mantengono un omertoso riserbo sulle malefatte delle bande giovanili cristiane e musulmane. Queste gang sono ispirate da due politici rivali, eminenze dello stesso partito: il governatore cristiano, un ex generale dell´aviazione di etnia Birom; e un ex ministro musulmano, di etnia Hausa.
Quest´ultimo avrebbe organizzato le violente dimostrazioni di gennaio, inizio dei tumulti. Motivo o pretesto: i cristiani avrebbero impedito la ricostruzione di una casa di musulmani, distrutta a Jos negli scontri di due anni fa. I musulmani hanno reagito con roghi di case cristiane e attacchi alle chiese, il 24 gennaio, una domenica. In ogni caso, a sera la rivolta era finita, stroncata dall´esercito nel solito modo: sparando ad altezza d´uomo sui dimostranti. Però i cristiani avevano subito vittime, anche se in numero minore dei musulmani, e l´oligarchia dei Birom voleva dare una lezione agli Hausa. Nelle ore successive la tv di Stato, diretta da un pastore pentecostale, ha mandato in onda a ciclo continuo notiziari eccitati, culminati il 26 in un editoriale che secondo i musulmani suonava come un appello al massacro. «Era tutto pianificato, possiamo provarlo», mi dice Sani Mudi, il portavoce della comunità musulmana nel Plateau, mostrandomi la pila di carte alta due palmi che questa settimana consegnerà alla Corte penale internazionale, a L´Aja.
Di sicuro gli stermini del Plateau non sono spontanei. Non lo è stato il massacro di Kuru Karama, anche se tra gli esecutori c´erano giovani Birom dei villaggi limitrofi. «Ne ho riconosciuti diversi», racconta Samir Abubakar, un commerciante di frutta che trovo tra le rovine. Quando è cominciata la caccia al musulmano, tra le case e nella campagna, è scappato nel panico, abbandonando i suoi familiari. Ha ritrovato la moglie in ospedale (la foto che ha nel telefonino la mostra con le braccia ingessate, per le tre fratture prodotte da altrettanti colpi di machete). Invece non ha più notizie della madre, probabilmente bruciata dentro la moschea, viva o già morta, e poi gettata in fondo ad un pozzo.
Quando i Birom che avevano circondato il villaggio hanno cominciato ad avanzare, uno dei tre pastori cristiani presenti quel giorno nel villaggio ha cercato di fermarli. Ma è stato picchiato e legato ad un albero, mi confermano gli studenti. Gli altri due se la sono filata. Si può assolvere la loro fuga, non il silenzio dei religiosi musulmani e cristiani. Con l´unica eccezione di monsignor John Onayekam, l´arcivescovo cattolico, pastori evangelici e mullah tacciono oppure si nascondono dietro dichiarazioni vaghe. Fingono di non sapere. Kuru Karama è a mezz´ora di macchina ma il massacro non suscita curiosità nel reverendo Caleb Ahima, segretario generale della Chiese pentecostali. Quando gliene domando risponde così: «Le crisi mettono in luce i limiti della condizione umana». Ben detto, ma chi è stato? «Non sappiamo, c´è in giro molta maligna propaganda». Ma chi è stato? «Io non sostengo le uccisioni illegittime». Il massimo che gli si può cavare è un «non escludo che alcuni cristiani...».
Poi il reverendo Ahima mi rivela che all´origine di tutto c´è l´ossessione piantata nella testa dei musulmani: concludere la guerra santa che i loro avi fallirono oltre un secolo fa e «bagnare il Corano nell´oceano», cioè impossessari dell´intera Nigeria. E ora tutto è più chiaro. Ai suoi occhi gli Hausa di Kuru Karama erano un avamposto dell´avanzata islamica verso la costa. Comprensibile che il loro sterminio non lo colpisca più di quanto l´ammazzamento di cristiani (non) impressioni tanti mullah, a loro volta convinti che i cristiani cospirino contro l´islam.
Quando il gregge si trasforma in branco di lupi, spesso i pastori lo assecondano. Gli trovano giustificazioni. E si tappano le orecchie per non udire le grida degli scannati. C´è anche un clero che si oppone e reagisce, non di rado in solitudine. Ma la tendenza generale oggi non sembra quella. Lì dove musulmani e cristiani coabitano da secoli, lo spirito del tempo sembra semmai soffiare nelle vele della religiosità più aspra, più sanguigna, più militante. Come altrove in Asia e in Africa, anche in Nigeria ne profitta tanto l´estremismo islamico quanto il cristianesimo dei pentecostali, un credo che ha conosciuto un boom spettacolare nell´ultimo secolo, al punto che oggi rappresenterebbe, per numero di fedeli, la seconda fede cristiana dopo il cattolicesimo. Qui noti anche come formidabili guaritori di indemoniati, i pastori pentecostali hanno una predisposizione per la prima linea, non a caso la loro casa madre è nella tumultuosa città di Jos, e una venerazione per la Parola sacra, nella quale non è difficile imbattersi nel Dio degli Eserciti, quello che non fa sconti. L´estremismo islamico lo frequenta da tempo, e infatti neppure in Nigeria distingue tra adulti e bambini quando massacra.
Musulmani o cristiani, gli assassini e i mandanti delle stragi occorse a Jos nel 2001, 2004, 2008 e nel gennaio 2010, sono tutti liberi. La polizia non li cerca. I suoi posti di blocco all´ingresso di Jos, una dozzina, la settimana scorsa sembravano soprattutto un´occasione offerta agli ufficiali per depredare automobilisti. Non era difficile immaginare che gli sterminatori sarebbero presto tornati a sacrificare villaggi al loro dio.

Repubblica 8.3.10
I delicati fiori salvati dallo tsunami
di Mario Pirani

Nella mia lunghissima vita di lettore raramente ho provato il senso di scoramento che mi ha colpito sfogliando i quotidiani di giovedì scorso. Tutti riportavano, in genere in una pagina interna, la notizia che uno dei due "fidanzatini" di Novi Ligure, Omar, dopo aver scontato solo 9 anni di pena (una parte in semilibertà, coltivando fiori), era tornato in piena libertà, mentre la sua ispiratrice, Erika, lo avrebbe raggiunto fra due anni, grazie ad analoga indulgenza. Voglio chiarire che il mio disagio non nasce dalla efferatezza del crimine - ogni giorno siamo adusi a vedere cose anche peggiori - o dall´orrore di quelle 97 coltellate inflitte alla mamma e al fratellino, o dalla lunga premeditazione confessata e neppure dal tentativo, che nei primi giorni sembrò riuscito fra generale plauso e automatica indignazione, di addossare il delitto ai soliti due albanesi. No, tutto questo fa parte del vissuto normale di un cronista. Lo scoramento cui ho accennato nasce nel constatare come ormai un evento del genere sia considerato del tutto "normale" e scontato dai giornali di ogni tendenza, come provano anche i pochi commenti dedicati alla conclusione di una tragedia che solo pochissimi anni orsono sembrò scuotere nel profondo l´opinione pubblica. È vero che negli ultimi tempi ci si è sempre più abituati al peggio, ma abbiamo sbagliato pensando che il riferimento riguardasse solo la politica e non un mutamento più devastante del comune sentire. L´ha indovinato probabilmente De Rita quando in una intervista alla Stampa ha parlato di «un Italia rassegnata e furba, senza senso del peccato… in una sorta di rassegnazione al peggio... dove l´indignazione non scatta per l´assenza di codici ai quali obbedire, non scatta perché non c´è più un vincolo collettivo, tutto può essere fatto se io stesso ritengo giusto che sia fatto».
E la controprova la si ritrova nell´atarassia pubblica di fronte a scarcerazioni che per la brevità della restrizione subita annullano persino il dibattito sulla giusta correlazione tra la pena e il delitto, sulla opportunità di rendere, comunque, la prima meno gravosa possibile e anche meno lunga, una volta scontato un tempo ragionevole di espiazione. Di fronte alle sentenze di messa in libertà di Omar e presto di Erika, di fronte ai commenti che l´hanno salutata, quanti giovani, per contro, saranno indotti a pensare che non valga nulla il concetto di colpa e neppure quello di pena. E così il valore stesso del perdono. E cosa dire dei commenti, non per caso bipartisan? Sul Giornale Alessandro Meluzzi, noto per la rubrica di psicologia che tiene su un rotocalco, "Vip sul lettino", ed anche perché dirige l´Onlus evengelica Agape, se la prende col «giustizialismo dalla faccia feroce, che vorrebbe l´ergastolo per Erika e Omar e la decapitazione immediata per il senatore Di Girolamo». Accostamento non casuale. Chi, però, mi ha impressionato oltre ogni dire è Luigi Cancrini, lo psicoanalista ufficiale de l´Unità che invita a considerare i due giovani assassini «per quello che sono, fiori delicati sopravvissuti ad uno tsunami». E spiega da uomo del mestiere: «L´omicidio che hanno commesso ha avuto comunque origine nel buio di una infelicità di lunga durata, di una sofferenza che non ha trovato parole per raccontarsi…. prima che la passione cieca di un momento li spingesse a un gesto che si svolge nell´atmosfera sospesa del sogno». Un sogno, peraltro, da cui solo le vittime non si sono risvegliate. Alla fine, naturalmente, Cancrini se la prende con "i moralisti" che non riconoscono il lavacro riabilitativo di Omar ed Erika, mentre «accettano e riconoscono la possibilità di uccidere… sotto l´ombrello di una bandiera per cui si combatte» (con accenno d´obbligo ad Israele). PS: Avrei potuto soffermarmi sul "perdonismo" giudiziario ma mi sembra che questo sia ormai l´epifenomeno culturale di una degenerazione etica assai più profonda che sta insidiando la nostra società e minaccia la formazione morale di tanta gioventù.

Repubblica 8.3.10
Familismo
Ginsborg: "Perché l'Italia non ha un'etica pubblica"
intervista di Simonetta Fiori

Nel nostro Paese, segnato dagli scandali, i rapporti parentali sono un ostacolo alla crescita democratica
Parla lo storico inglese che ha curato una raccolta di saggi dedicata alle "Famiglie del Novecento"
Un fenomeno simile al clientelismo con un uso delle risorse dello Stato per interessi privati
L´istituto famigliare è un grande attore politico rimasto troppo a lungo nascosto dalla storia

Eravamo la patria del "familismo amorale", oggi siamo quella del "familismo immorale"? Cognati operosi, figli meritevoli, mogli dedite al business, soprattutto padri di famiglia soccorrevoli verso la progenie. Anche nel canovaccio degli ultimi scandali, le figure parentali rivendicano a pieno titolo ruolo da comprimari. In qualche caso è proprio la responsabilità genitoriale che viene invocata come causa e giustificazione di tanto penoso affannarsi («Ma io cosa ho fatto per mio figlio?», piange al telefono il servitore dello Stato). E uno straordinario family gathering allieta in Campania le liste elettorali del Pdl, i cui colonnelli candidano consorti e compagne, figlie e nipoti.
Questa del "tengo famiglia" è una filosofia antica e tipicamente italiana, «un tratto che scaturisce dalla mancata creazione di un´etica pubblica», sostiene Paul Ginsborg, lo storico che più s´è occupato dell´istituto famigliare in relazione con lo Stato e la società civile. A quest´ambito di ricerca è ora dedicata una raccolta di saggi, Famiglie del Novecento. Conflitti, culture e relazioni, curata dallo studioso inglese insieme a Enrica Asquer, Maria Casalini e Anna Di Biagio (Carocci, pagg. 276, euro 27). «Nella storia italiana», dice Ginsborg, «in alcuni passaggi critici, si sono create le possibilità per lo Stato di costruire una sfera pubblica forte, con le sue regole e i suoi codici di comportamento. È accaduto all´indomani del processo di unificazione, e anche nella stagione successiva alla fine della Seconda guerra mondiale. È accaduto dopo Tangentopoli. Ogni volta ha agito la speranza della cesura storica. Il salto weberiano, però, non c´è mai stato».
Non è un caso che il "familismo immorale" nasca nell´Italia del "familismo amorale", secondo la celebre definizione di Edward C. Banfield.
«Più che sull´aggettivo, mi concentrerei sulla parola familismo, che misura l´eccessivo potere della famiglia nella società e nella sfera pubblica italiane. Il paese di oggi non è certo il paese arretrato investigato da Banfield nel 1957 nel suo saggio In The Moral Basis of a Backward Society. Al centro della sua indagine era Chiaromonte, un borgo poverissimo della Basilicata. Quel che lo studioso rimarcò fu l´assenza di società civile. Le famiglie di Chiaromonte avevano un solo obiettivo: massimizzare i vantaggi materiali e immediati della propria famiglia nucleare, supponendo che anche tutti gli altri si comportassero allo stesso modo. Naturalmente non tutta la penisola era ed è assimilabile al modello di Chiaromonte. Però ancora oggi l´Italia si misura con una smisurata attenzione, spesso esclusiva, all´istituto famigliare».
I recenti scandali mostrano qualcosa di più rispetto alla mancanza di un ethos comunitario. Si è disposti a tradire la fedeltà allo Stato per sistemare o arricchire figli e consanguinei.
«In questo caso il familismo è assai contiguo al clientelismo, che implica l´uso delle risorse dello Stato per interessi privati. Può essere interessante rilevare come nell´Europa mediterranea questi fenomeni antichi non muoiano mai, ma si reinventino continuamente in forme nuove. Quel che fa impressione, nell´Italia di oggi, è il prevalere dell´organizzazione verticale tra patrono e cliente su quella orizzontale tra cittadini. Nella precarietà del mercato del lavoro, diventa fondamentale la relazione con il potente, che garantisce determinati accessi, per te e i tuoi figli: da qui un legame di gratitudine e asservimento. Tutto questo non ha niente a che vedere con cittadinanza, diritti e democrazia».
Ma la famiglia forte può essere considerata un ostacolo alla crescita democratica?
«Sì, se concentrata in modo sproporzionato sugli interessi materiali immediati. Al caso italiano s´attaglia la riflessione di Isaiah Berlin sulle due libertà. Secondo lo studioso esiste "la libertà da" - liberty from - ossia la libertà dall´interferenza di un altro soggetto rispetto alla tua azione individuale. È la libertà come viene intesa dal nostro premier: nessuno, neppure lo Stato, dovrebbe limitare la tua libertà. Esiste poi la "libertà di" - liberty to - ossia la libertà che scaturisce dalla ricerca di un´azione collettiva condivisa. Ancora prima dell´avvento del berlusconismo, l´Italia familista ha sempre praticato la prima di queste due libertà».
La relazione principale in Italia - lei lo rimarca nel suo ultimo saggio - è tuttora quella tra famiglia e individuo, mentre in altre parti d´Europa, in Gran Bretagna o in Svezia, prevale quella tra individuo e Stato.
«L´Italia è stata caratterizzata storicamente da un accentuato individualismo, da una società civile debole soprattutto nel Sud e da uno Stato democratico di tarda formazione. Norberto Bobbio sintetizzò tutto questo scrivendo che per le famiglie si sprecano impegno, energie e coraggio, ma ne rimane poco per la società e per lo Stato».
I demografi storici distinguono, nell´Europa occidentale, tra sistemi famigliari deboli e sistemi famigliari forti, ricavandone una proporzione scoraggiante: più forte è la famiglia, più debole è la società civile.
«Nel primo sistema - dove più conta l´individuo - rientrano com´è naturale la Scandinavia, la Gran Bretagna, l´Olanda e il Belgio, ed alcune regioni della Germania e dell´Austria. Il secondo - dove più conta famiglia - comprende l´Europa mediterranea. Sono essenzialmente due i fattori che determinano la differenza: la longevità delle famiglie d´appartenenza - ossia l´età in cui si lascia la casa paterna - e la rete di solidarietà famigliari in rapporto alla vecchia generazione. Attenzione però alle generalizzazioni, come raccomanda lo stesso David Reher, l´artefice di questi studi. Anche indagini recenti collocano la società civile italiana in un posto molto alto nella graduatoria mondiale. Ieri i girotondi, oggi il popolo viola: nonostante tutto, la società italiana è ancora capace di grande reattività».
Il rapporto tra famiglia e società civile non è stato mai indagato a fondo: né in ambito disciplinare né sul piano del pensiero politico.
«Sì, esiste un buco nero nel campo delle teorie politiche. In nessuna delle due tradizioni dominanti nel Novecento, quella liberale e quella marxista, le famiglie sono al centro di una seria analisi in quanto soggetti politici. Nel pensiero liberale la famiglia fu sistematicamente relegata alla sfera estranea alla politica, trovando collocazione nel privato piuttosto che nel pubblico. Nel suo saggio The Subjection of Women (1869) John Stuart Mill aveva dedicato un effimero riconoscimento all´importanza della famiglia: i posteri preferirono ignorarlo».
Nella tradizione comunista non ci fu maggiore attenzione.
«Il giovane Marx ebbe qualche intuizione nel riconoscere la famiglia e la società civile come presupposti dello Stato, ma egli stesso non ebbe interesse ad approfondire il tema. Anzi nella sua riflessione successiva la famiglia diventerà una delle tante espressioni dei rapporti economici. Più tardi i bolscevichi finiranno per liquidarla come entità destinata a essere superata dalla pianificazione socialista. Solo Trockij ebbe delle idee un po´ diverse, ma non le sviluppò fino in fondo».
In un quadro di generale distrazione, risalendo al XIX secolo lei riconosce un´eccezione in Hegel.
«Sì, in alcuni paragrafi dei Lineamenti della filosofia del diritto, il filosofo invita a esaminare gli individui in relazione alle tre sfere sociali: famiglia, società civile e Stato. In particolare, Hegel indagò il momento della "dissoluzione" della famiglia in rapporto alla società civile. A me pare tuttora una proposta stimolante sul piano del metodo».
Però pochi l´hanno raccolta.
«Anche più recentemente, dopo l´Ottantanove, la riflessione saggistica sulla grande rinascita della società civile nell´Europa dell´Est non ha mai incluso la famiglia. E John Rawls, il liberale che più ha meditato sulla società attuale, dedica pochissimo spazio all´istituto famigliare, che resta un soggetto passivo. Si potrebbe dire che la famiglia è un grande attore politico rimasto troppo a lungo nascosto dalla storia».

Il Giornale 7.3.10
Gentile Sig. Cervi,
Il capo dello Stato ha ricordato il suo predecessore Pertini nel ventennale della morte con la solita retorica stantia, difendendone «l’integrità morale, la dirittura e la coerenza personale» e soprattutto «i valori che sono alla base della nostra Costituzione, i valori fondanti della Repubblica, i valori dell’antifascismo, della libertà, della democrazia». E ci mancherebbe altro. Mai si levasse una voce contraria all’incensamento col paraocchi. Possibile che in Italia non si possa alzare un velo sugli aspetti oscuri del santino di Pertini? Per quanti decenni dovremo ancora sorbirci i totem della «resistenza»? Possiamo citare Pietro Nenni e Riccardo Lombardi - suoi autorevoli compagni di partito - che lo definirono rispettivamente «un violento» e un «cervello di gallina»? Possiamo ricordare che corse a Belgrado affranto a baciare la bara del Maresciallo Tito e la bandiera jugoslava? Possiamo rammentare che appena eletto al Quirinale concesse la grazia a quel Toffanin, nome di battaglia «Giacca», capo partigiano condannato all’ergastolo per la strage di Porzus e per altri reati? Alla tv hanno mostrato un servizio sullo stato fatiscente della tomba dell’ex presidente. Pare che non la visiti nessuno. A Predappio, nella cripta Mussolini, si recano oltre centomila persone l’anno. Una ragione ci sarà.
Castiglione della Pescaia (Grosseto)