martedì 16 marzo 2010

Repubblica Roma 16.3.10
“Un nuovo rapporto con i cittadini e un welfare senza discriminazioni". E la Archibugi firma la regia dello spot
"Altro che stadio, io vado in periferia" La Bonino presenta il suo programma
di Chiara Righetti

"Online gli stipendi dei dirigenti Asl, le liste d´attesa per gli asili nido, i dati sull´inquinamento"
"È inaccettabile pensare di spostare in provincia quello che disturba Roma, dai rom ai rifiuti"

Andare allo stadio? «Francamente non l´ho previsto». Sorride, Emma Bonino, all´idea di farsi ritrarre, come l´avversaria, a cavalcioni sugli spalti dell´Olimpico. «Poi - aggiunge - ognuno fa campagna elettorale pensando a chi può convincere meglio, va dove ritiene che il suo messaggio possa passare meglio. Noi abbiamo fatto altre scelte: vedremo chi avrà più forza di persuasione». E nel giorno del lancio ufficiale del suo programma, in giacca fucsia come sui manifesti "Ti puoi fidare", spiega che da parte sua concentrerà i prossimi appuntamenti fra borgate e periferie, dove pensa alla «rottamazione» di interi quartieri per crearne di nuovi eco-compatibili.
Da ieri forte anche dello spot girato per lei da Francesca Archibugi (che la descrive come «una figura luminosa, di cui ho grande fiducia»), presentando il programma avverte che «nessuno ci troverà tutto. È uno strumento agile, non volevo 300 pagine, ma nulla toglie in futuro all´autonomia della politica». E come premessa ribadisce l´impegno a «un nuovo rapporto coi cittadini». Partendo dalla trasparenza, cui sarà intitolato un assessorato, e dall´accessibilità di tutti i dati: «Non solo le anagrafi di eletti e nominati, ma i rimborsi spese dei consiglieri, i dati sull´inquinamento, le liste d´attesa per gli asili, gli stipendi dei dirigenti».
Sulla sanità, spiega che il primo obiettivo è «uscire dal commissariamento». Come? «Negozieremo due punti col governo. Primo, chiederemo che i trasferimenti alla Regione avvengano sulla base di un conteggio corretto della popolazione, che anche secondo il commissario governativo oggi è sottostimata di circa 400mila persone. Secondo, chiediamo di separare la spesa dei Policlinici per didattica e ricerca (ricordo che il Lazio sforna il 25% dei medici d´Italia) da quella per la sanità». Su queste basi il resto: l´impegno a separare l´assistenza sociale dai ricoveri ospedalieri creando vie alternative, dal medico di turno sabato e domenica all´infermiere scolastico e di quartiere. E quello «che tutti chiedono: strumenti di monitoraggio e controllo». A partire dall´albo dei dirigenti Asl, che renderà pubblici i curricula e sarà gestito da un ente terzo.
Delle 54 pagine di programma cita solo i passaggi chiave, dall´edilizia sociale al manifesto per le piccole e medie imprese, al turismo, «fattore chiave per sviluppo e lavoro, che non può voler dire solo manifatturiero». Ma su alcuni punti sceglie di fare chiarezza, come la sicurezza («quella che fa leva sull´integrazione, non solo sulla paura») e i rifiuti: «dobbiamo uscire dalla cultura della discarica, con la differenziata ferma al 12%». Sul sito che prenderà il posto di Malagrotta, ricorda che «individuarlo tocca al Campidoglio. Ma mandare in provincia tutto ciò che disturba Roma capitale, dai rom ad altre criticità, non ci pare accettabile». Infine, «ultime solo per ragioni alfabetiche», le politiche di welfare: «Nei servizi dev´essere chiaro che il nostro riferimento sono le persone. Non sta alla Regione dare giudizi di valore su come organizzano la propria vita affettiva. Non solo lo dice la Costituzione, ma è inaccettabile per un´amministrazione discriminare sulla base dell´origine etnica, della religione, dell´orientamento sessuale».

Repubblica 16.3.10
Le regole nel paese di Alice
di Guido Crainz

Le due contrapposte manifestazioni indette a Roma, in successione, dal centrosinistra e dal centrodestra sanciscono definitivamente il carattere nazionale dell´imminente confronto elettorale.
Forse il più importante confronto prima della fine della legislatura. Segnalano anche la natura impropria che esso è venuto ad assumere, ma con questa natura occorre fare i conti. Essa ci fa comprendere meglio che non è sufficiente arrestare le derive ma è decisivo saper innescare nuove e opposte direzioni di marcia.
In primo luogo nella politica, che ha visto crescere tendenze già corposamente presenti. Ascoltando il premier è venuto spesso in mente nei giorni scorsi quel personaggio di Lewis Carroll che «in tono alquanto sprezzante» dice, in Alice nel Paese delle Meraviglie: «Quando io uso una parola, questa significa esattamente quello che decido io». Bisogna vedere se lo puoi fare, cerca di obiettare Alice: «Bisogna vedere chi comanda…è tutto qua», le risponde Humpty Dumpty. E´ difficile sintetizzare meglio l´idea di «democrazia sostanziale e non formale» cui si è richiamato nei giorni scorsi il capo del governo, negando e al tempo stesso quasi rivendicando imperizia e arroganza. E provocando anche qualche sussulto negativo in una parte del suo elettorato. Increspature di superficie, ove si pensi a quel che è venuto alla luce già prima della vicenda delle liste: la qualità nuova della corruzione, la logica sottesa alla trasformazione della Protezione civile –fermata appena in tempo- e naturalmente quel percorso di cui il «legittimo impedimento» è solo un ulteriore passaggio. E non si sottovalutino il significato e le conseguenze di «forzature» che hanno messo a durissima prova anche gli argini istituzionali più alti e più solidi.
Nel traballare del prestigio del leader molti osservatori hanno cominciato a chiedersi cosa potrebbe succedere se questo governo cadesse, ma c´è da domandarsi semmai quali scenari si aprirebbero se il governo superasse indenne la crisi. Se riuscisse cioè a trasformare in «normalità» e «norma» quell´insieme di violazioni del funzionamento della democrazia che ha imposto sin qui. Lo ha sottolineato bene anche domenica su questo giornale Eugenio Scalfari: il progetto esplicito di Silvio Berlusconi è la riscrittura e lo stravolgimento della Costituzione, e a questo compito porrebbe mano con molta più decisione ove questa fase fosse superata. E´ evidente dunque la necessità di fermare una deriva, ma appare al tempo stesso necessario invertire tendenze profonde, sempre più diffuse nella «società civile». Avviare, almeno, questo processo.
Nell´avvicinarsi del centocinquantesimo anniversario dell´Unità nazionale ci si è soffermati sin qui più sulle modalità delle celebrazioni che sul nodo vero che vi è sotteso, e cioè il percorso non lineare del paese, i ripiegamenti che esso ha talora conosciuto e sta conoscendo ora. Se su questo invece si riflettesse, risulterebbe ancor più chiara la necessità di dare risposte alte alla crisi attuale.
Può apparire impietoso il raffronto con il paese che celebrò il primo centenario, nel 1961, anche se le contraddizioni e i problemi di allora non vanno rimossi. Eravamo nel pieno del «miracolo italiano», e a coniare il termine era stato un quotidiano inglese (difficile trovare oggi apprezzamenti analoghi sulla stampa estera). Dal canto suo Italo Calvino parlò di una «inattesa belle époque», dopo un lungo e difficile dopoguerra, e le celebrazioni di una nazione in ascesa erano iniziate in realtà nell´agosto del 1960: le Olimpiadi di Roma avevano mostrato al mondo la nuova Italia del «boom» e sancito definitivamente il trionfo dell´era televisiva. Poco prima, a luglio, le tensioni innescate dal governo Tambroni e dal neofascismo missino erano sembrate riportare il paese all´indietro: una vasta mobilitazione popolare permise però di allontanare i fantasmi del passato e portò alla ribalta nuove generazioni e una rinnovata capacità di protagonismo collettivo. Chiusa la fase del «centrismo», iniziò l´incubazione del primo centrosinistra e si avviò in quel quadro un dibattito culturale ricco e intenso che attraversò tutto lo schieramento politico: dai convegni di studio della Dc a quelli promossi dalle forze laiche e socialiste, sino alla riflessione che si aprì all´interno stesso del Partito comunista. A dare ulteriore, straordinaria linfa a quella stagione contribuì poi il Concilio Vaticano II, destinato a mutare gli scenari mondiali, non solo italiani.
In quel quadro anche il rapporto con il nostro passato subiva mutamenti rilevanti. Uno storico come Rosario Romeo, ad esempio, criticava a fondo la storiografia marxista, volta a sottolineare i limiti del Risorgimento e della classe dirigente liberale, e vedeva invece nelle scelte allora compiute le premesse dello sviluppo successivo. Metteva cioè al centro della riflessione le ragioni dei nostri progressi, che apparivano allora straordinari, anzichè i nostri «ritardi».
Su ognuno di questi versanti il clima del miracolo appannava (e non di poco) limiti e contraddizioni, ma appunto quel clima va colto. Quella volontà diffusa di proiettarsi nel futuro, così lontana dalla temperie di oggi. Si scorrano alcuni penetranti interventi pubblicati di recente su riviste e quotidiani. Compare non fuggevolmente in essi l´idea che la nostra vicenda unitaria da un certo punto in poi abbia visto non un´opera di costruzione dello Stato ma «di distruzione, che si è fatta più intensa negli anni recenti. Sono ormai gravemente minacciati la democrazia e principi fondamentali dello Stato di diritto» (Tommaso Padoa Schioppa). Con accenti e toni diversi, inoltre, essi disegnano l´emergere «di immagini di noi, del nostro sentire collettivo, che cozzano contro un senso civico ideale, rispettoso dei beni pubblici e della legalità» (Piero Ignazi); tracciano i contorni un paese sfibrato, segnato dalla «rassegnazione al peggio» e da quella carenza di codici morali che rende sempre più rara persino l´indignazione (Giuseppe De Rita). Riflettono, anche, su nuove forme di «plebeismo» che sembrano essersi insinuate sin «nel cuore ansioso dei nuovi ceti medi», sempre meno attivi nel promuovere e attivare «processi di civilizzazione» (Carlo Donolo). Più voci, anche molto diverse fra loro, sembrano dunque dirci in modo convergente che il futuro è progressivamente scomparso non solo dalla agenda della politica ma anche dal nostro orizzonte. Senza rimetterlo al centro di riflessioni e progetti, però, non riusciremo davvero ad arginare le derive: e il centrosinistra, purtroppo, appare ben lontano dal comprenderlo.

Repubblica 16.3.10
"Bonino e Vendola subito nel Pd"

ROMA - «Nichi Vendola con Sinistra e libertà e Emma Bonino con i Radicali entrino subito nel Pd». È la proposta-provocazione che lancia il senatore democratico Walter Vitali. «Bonino e Vendola - scrive l´ex sindaco di Bologna nel suo blog - sono i candidati-simbolo di questa campagna elettorale. Non a caso sabato in piazza del Popolo sono stati acclamati con Bersani come i leader più credibili. Con loro e i loro movimenti il Pd può allargarsi per fare del centrosinistra italiano un unico partito».

Repubblica 16.3.10
Germania, la rivolta dei fedeli "Via il pedofilo dalla parrocchia"
La protesta in Baviera. I vescovi: "Ripensiamo al celibato"
È allarme anche in Olanda dove ben 137 religiosi sono coinvolti in casi di violenze in passato
di Andrea Tarquini

BERLINO - Contestazione aperta durante la Santa Messa contro il prete pedofilo in Baviera, crescente pressing dei politici cattolici tedeschi e dei media sulla Santa Sede, con una richiesta gridata: che il Santo Padre rompa il silenzio. Dai vescovi e dal mondo cattolico di Germania, un crescendo di appelli al Vaticano perché riveda l´obbligo del celibato. Poi la sospensione, annunciata ieri sera, dello stesso sacerdote, e le dimissioni del suo superiore, Josef Obermaier. Infine, dalla vicina Olanda, il grido di dolore di monsignor Jos Punt, vescovo di Amsterdam: «Non possiamo scusare i nostri torti, provo un forte shock e una profonda vergogna». Lo scandalo degli abusi pedofili in Germania, Austria, Olanda, e in altri paesi sta gettando la Chiesa guidata dal Pontefice tedesco «nella sua più grave crisi d´identità dal ‘45», ha detto il presidente della Gioventù cattolica germanica Dirk Taenzler.
La contestazione in chiesa è avvenuta a Bad Toelz, dove fino a poco fa l´abate H (cioè il prete pregiudicato per violenze pedofili a Essen, trasferito in Baviera col benestare della diocesi quando l´allora cardinale Ratzinger ne era vescovo, poi reo di nuovi abusi) officiava. Domenica, racconta la Sueddeutsche Zeitung, ha celebrato la Messa padre Rupert Frania. Nell´omelia ha parlato di atteggiamento "unilaterale" contro la Chiesa. Dalla nona fila della platea un giovane lo ha interrotto: «Basta, dovete parlare chiaro, non posso più ascoltare. Io sto per sposarmi, quel sacerdote doveva ufficiare il mio matrimonio, e solo dai media ho saputo del suo passato». Alcuni lo hanno applaudito, altri hanno gridato «chiudi il becco», molti fedeli hanno lasciato la funzione.
Questo è il clima sempre più difficile e pesante nella Chiesa tedesca. «Il Santo Padre deve parlare», afferma Taenzler. Aggiunge Wolfgang Thierse, un leader Spd dirigente dell´associazione dei cattolici laici: «La credibilità della Chiesa è stata intaccata, la Chiesa deve essere più onesta, ciò riguarda anche il Papa». L´associazione di base Ikvu chiede addirittura le dimissioni del Pontefice.
Sempre più vescovi - prima quello di Amburgo, Hans-Jochen Jaschke, poi quello di Salisburgo in Austria, Alois Kothgasser - chiedono di ripensare il celibato, di «riflettere se sia un´istituzione da cambiare» o se «accettare preti sposati e non più solo celibi», perché «l´essere umano deve avere esperienze anche nella sessualità, e il celibato può attirare persone dalla sessualità patologica».
Così parla, in rivolta, la Germania dei fedeli. In Olanda intanto si è appreso che ben 137 sacerdoti, frati e suore sono coinvolti in casi di abusi nel passato, e le denunce delle vittime sono almeno 350.

Repubblica 16.3.10
Le vittime accusano il cardinal Brady: non denunciò alla polizia le violenze dei religiosi
"Tacque sugli abusi dei preti si dimetta il primate d´Irlanda"
Ascoltò le confessioni nel tribunale canonico ma non ne parlò agli inquirenti
di Enrico Franceschini

LONDRA - Lo scandalo dei preti pedofili arriva al vertice della chiesa cattolica irlandese. La denuncia di una ex-vittima ha smascherato il ruolo avuto dal cardinale Sean Brady, massima autorità cattolica d´Irlanda, nelle sedute di un segreto tribunale canonico davanti al quale le vittime di abusi sessuali commessi da sacerdoti o suore venivano chiamate a testimoniare dalle alte gerarchie ecclesiastiche di Dublino, con l´obbligo di fare un "giuramento del silenzio" che li impegnasse a non rivelare mai a nessuno le violenze subite. Pur avendo redatto personalmente il contenuto di quelle sedute ed avendo condotto di persona parte degli interrogatori, il cardinale non riportò mai alla polizia, alla magistratura o ad altre autorità gli abusi subiti dalle due vittime, un bambino di 10 anni e una bambina di 14, né prese iniziative per rimuovere da incarichi religiosi l´autore degli abusi, padre Brendan Smyth, un prete notoriamente pedofilo, che continuò indisturbato a violentare e sconvolgere centinaia di bambini per anni. Il comportamento del cardinale non sarebbe venuto alla luce se non fosse che, a molti anni di distanza dai fatti, una delle due vittime ha deciso di denunciarlo alla magistratura.
La gravissima accusa segue lo shock provocato in Irlanda e in tutto il mondo cattolico dalla pubblicazione di due rapporti governativi lo scorso anno, che da un lato hanno rivelato migliaia di abusi sessuali compiuti da preti e suore irlandesi per decenni, e dall´altro sollevato un velo sul silenzio di governo, polizia e chiesa d´Irlanda davanti a quegli atti ignobili, silenzio talvolta diventato vera e propria complicità per coprire i misfatti e nascondere i colpevoli. Le rivelazioni hanno finora provocato le dimissioni o l´anticipato pensionamento di mezza dozzina di vescovi irlandesi. Ma adesso lo scandalo lambisce il cardinale, e la protesta diventa ancora più aspra. Amnesty International e le associazioni delle vittime degli abusi sessuali chiedono le dimissioni immediate di Brady. «La sua permanenza alla guida della chiesa cattolica di Irlanda è a questo punto diventata impossibile», dice Colm O´Gorman, direttore della sezione irlandese di Amnesty.
Ma il cardinale, che all´epoca dei fatti, avvenuti nel 1975, era un giovane sacerdote, per il momento rifiuta di dimettersi, sostenendo che si limitò ad "obbedire agli ordini" svolgendo un ruolo secondario nell´ambito del tribunale canonico; e che comunque il prete imputato dei fatti venne allontanato dall´incarico che svolgeva. In realtà padre Smyth fu semplicemente spostato da una parrocchia all´altra, e continuò ad abusare sessualmente giovani vittime fino al ‘93, quando venne finalmente arrestato.

l’Unità 16.3.10
Pedofilia
Cattolici tedeschi chiedono le dimissioni del Papa
Il movimento cattolico progressista tedesco, «Iniziativa Chiesa dal basso», chiede le dimissioni di Benedetto XVI per lo scandalo sugli abusi sessuali. «Sarebbe un gesto purificatore», ha detto il direttore Bernd Goehrig al Financial Times Deutschland. Goehrig ha ricordato anche il caso di Monaco di Baviera che ha visto coinvolto un prete nel periodo in cui il Papa era arcivescovo della capitale bavarese. L’allora Vicario generale, Gerhard Gruber, 81enne, si è assunto la responsabilità della vicenda, ma secondo Goehrig c’è una responsabilità morale.

l’Unità 16.3.10
Olanda, si scioglie il partito pedofilo Troppo poche firme per presentare la lista
Si chiamava il «partito dell’amore», o meglio il «partito di Amore del prossimo, della libertà e della diversità», in olandese e in sigla Pnvd. Ma aveva avuto un certo clamore come partito pro-poedofili. Si è sciolto a quattro anni dalla sua costituzione non essendo riuscito a raccogliere le 570 firme necessarie per potersi presentare alle elezioni politiche del 9 giugno prossimo nei Paesi Bassi. Nel programma-shock pubblicato sul suo sito web, il Pndv, proponeva la piena libertà sessuale dei bambini a partire dai 12 anni, l’inserimento dell’educazione sessuale a partire dalla scuola materna e la possibilità per i ragazzi e le ragazze a partire dai sedici anni di apparire in film e video porno. Non solo. Il partito voleva anche la legalizzazione delle droghe leggere e pesanti. Fumo, gioco d’azzardo e alcol liberi a partire dai dodici anni di età.
Ad van den Berg, 62 anni, nel 2006 presentando la sua lista alle elezioni aveva spiegato il suo programma iper antiproibizionista: «Educare i bambini significa anche abituarli al sesso. Proibire rende i bambini ancora più curiosi». Non ha convinto neanche i più liberal tra gli olandesi. Domenica scorsa, secondo quanto ha comunicato il presidente del partito Marthijn Uittenbogaard, «una assemblea generale degli aderenti ha deciso di sciogliere la formazione politica». Anche il sito web resterà attivo solo come archivio.

Avvenire 16.3.10
Br: il terrorista è gnostico
La lettura ideologica marxista-leninista non basta a spiegarle Le Brigate rosse erano una setta rivoluzionaria con molte analogie col fondamentalismo religioso e le comunità delle catacombe La tesi controcorrente del sociologo Orsini
di Roberto Beretta

Il muro tra monaci e terroristi è sottile, con gli eretici ancor me­no. Magari non farà piacere, la tesi di Alessandro Orsini – giovane sociologo che non ha vissuto gli an­ni di piombo ma ne ha studiato gli eventi con piglio innovativo –, e tut­tavia va apprezzata la profondità d’analisi sull’arduo nodo dei rap­porti tra terrorismo e religione.
Professor Orsini, secondo lei i ter­roristi sono gnostici. In che senso?
«La gnosi è una conoscenza supe­riore destinata a pochi eletti: la stes­sa caratteristica che si trova in tutti i documenti brigatisti, i cui autori pensavano di essere un manipolo di giusti, possessori della verità ultima sul significato della storia. Forse ne­gli anni Settanta questa tesi non fa­ceva impressione, ma le medesime convinzioni tornano nella rivendi­cazione del delitto D’Antona nel 1999 e in quello Biagi nel 2002, ben dopo la caduta del comunismo».
Beh, la dottrina delle minoranze che guidano la storia è sempre sta­ta un caposaldo marxista, senza bi­sogno di ricorrere alla gnosi…
«È vero, ma non basta a spiegare le Brigate rosse. Le Br sono una setta nella tradizione dello gnosticismo rivoluzionario, di cui possiedono le caratteristiche: l’ossessione per la purezza personale; un catastrofi­smo radicale, secondo cui il mondo sarebbe immerso nel dolore e nella sofferenza; di conseguenza la con­cezione salvifica della rivoluzione come un’apocalisse che squarcia le tenebre e instaura una 'società per­fetta'; l’identificazione del nemico come il maligno, un mostro respon­sabile dell’infelicità umana e dun­que da sterminare; infine la menta­lità 'a codice binario' che riduce tutti gli aspetti della realtà alla con­trapposizione tra forze del Bene e forze del Male».
Qui siamo nel manicheismo puro.
C’entra qualcosa il fatto che non pochi brigatisti venissero da un’e­sperienza cattolica?
«Questo è un punto trascurato ma importantissimo. In effetti, una cer­ta cultura cattolica ha procurato forze alla contestazione e poi al ter­rorismo. Un brigatista ha racconta­to che durante gli attentati si senti­va come Cristo che si lascia crocifig­gere per redimere l’umanità (si chiama 'sindrome dell’eroe mes­sianico'). Per un altro uccidere era come salire sulla pira accesa, sacri­ficarsi per il bene del mondo. In un documento bierre del settembre 1977 si legge che 'la rivoluzione si­gnifica continuità, solidarietà, amo­re'. Il brigatista Patrizio Peci è con­vinto che la violenza politica 'è an­che un problema di altruismo e ge­nerosità: si tratta di rischiare tutto per una causa che si crede giusta, dimenticando la convenienza per­sonale'… Non a caso nel mio libro parlo di 'rivoluzio­nari di vocazione'; non erano affatto pazzi: erano invece persone animate da un grandissimo a­more verso il prossi­mo, filantropi asse­tati di 'assoluto', purificatori del mondo, angeli sterminatori. Il ter­rorista prova un dolore lancinante di fronte all’ingiustizia nel mondo; solo che pensa che si può cambiare soltanto con la violenza».
Un monaco «giustiziere».
«Un monaco, come no? C’è una cer­ta analogia tra religiosi e brigatisti, nella setta rivoluzionaria del resto si viveva come in alcuni movimenti fondamentalisti. Ma era una vita mostruosa, non eroica: si doveva o­perare uno stacco totale con l’espe­rienza precedente, interrompendo tutte le relazioni, senza poter più vedere nemmeno i figli. Le donne non potevano avere relazioni fuori dalla setta e, se incinte, dovevano a­bortire. Insomma, un percorso che faceva regredire a livello primitivo; non per niente gli omicidi erano de­legati a chi era arrivato più a fondo in questo cammino. Mario Moretti ammoniva gli aspiranti brigatisti che entro 6 mesi sarebbero stati uc­cisi o arrestati, andando incontro al martirio. Ripeto: i terroristi sono persone altruistiche, iper-generose.
Le lettere di Mara Cagol (di origini cattolicissime) alla madre in questo senso sono impressionanti. Uccide­re per la rivoluzione è il più nobile dei gesti; una manifestazione d’a­more verso l’umanità in attesa di redenzione. L’approccio alle Br non può dunque essere solo ideologico o razionale, come calcolo di costi e benefici».
Ci sono radici «cattoliche» nel ter­rorismo?
«In effetti nella storia del cristiane­simo s’è verificata una profonda in­tolleranza verso gli eretici, l’unica categoria che non meritava com­passione e che era giusto persino uccidere. I brigatisti – pur ispirati da rigoroso ateismo – esprimono l’ani­ma anti-moderna della Chiesa. Di­fatti i Br hanno in orrore alcuni a­spetti della cultura occidentale: li­bero pensiero, individualismo, li­bertà di religione…».
Ma, se il suo ragionamento è vero, perché tale terrorismo «religioso» esplode proprio dopo il Vaticano II, ovvero nella fase più «dialogica» e «moderna» del cattolicesimo?
«Beh, non bastano le radici religiose a spiegare il terrorismo... C’è stato anche uno sconvolgimento sociolo­gico, economico, industriale, da cui è nato un terremoto di reazioni. E comunque, se la Chiesa nel Conci­lio ha preso le distanze dai fenome­ni di intolleranza verso le altre reli­gioni o il mondo, cambiare le men­talità è ben più complesso».
Il terrorismo è un fenomeno solo occidentale?
«No. C’è stata anche l’Armata rossa giapponese, per esempio. Io stesso ero convinto che le Br fossero un fe­nomeno tipicamente italiano, di contrapposizione tra capitalismo e comunismo, ma non è così. Il modo migliore per comprenderlo resta lo studio delle sette cristiane durante le persecuzioni dell’impero roma­no. Il brigatista si crede tanto più ri­voluzionario quanto più si sente immerso nelle catacombe. Inoltre una delle caratteristiche della reli­gione radicale come del terrorismo armato è l’indignazione permanen­te, attraverso cui si trova conferma della propria purezza interiore; un’altra è il desiderio di essere per­seguitati, in quanto la violenza dello Stato testimonia la diversità irridu­cibile dei brigatisti. Poi ci sono la purificazione dei mezzi attraverso il fine, il principio della segretezza, il terrorismo preventivo interno, l’au­to- distruzione sacrificale, e così via».
E la coloritura marxista-leninista?
«Indispensabile. Ogni setta costitui­sce la contestazione di una chiesa, che rappresenta invece la disposi­zione a scendere a compromessi con la storia. E le Brigate rosse na­scono come setta che si distacca da u­na chiesa: il Pci. I brigatisti avevano ragione nel sostene­re di essere i veri ri­voluzionari, i soli continuatori di Marx, perché le Bri­gate non sono una deviazione, bensì u­na pagina importante del marxi­smo- leninismo. La storia delle Br e­terodirette è una bugia clamorosa».
E oggi?
«Finora la lettura delle Br è stata monopolizzata da studiosi comuni­­sti, il che ha impedito di coglierne la dimensione 'religiosa'. Invece non dovremmo occuparci solo di teorie o ideologie, ma anche di un senti­mento che si sviluppa fuori dall’ac­cademia o dai partiti. In molti setto­ri della vita civile italiana, per esem­pio, esiste tuttora una sorta di am­mirazione dei brigatisti: 'Sbagliano – si dice – ma perché il momento non è ancora maturo'. Non si è preso davvero coscienza che, o­vunque i 'bonificatori del mondo' (dai puritani a Lenin, dai giacobini a Pol Pot) arrivano al potere, il ri­sultato sono fosse comuni, violen­za, gulag… La rivoluzione gnostica ha sempre portato a una diffusione del terrore. Anzi, la cultura rivolu­zionaria è essa stessa educazione alla violenza, perché ragiona con una mentalità a codice binario, manichea».
«In tutti i volantini si trova una concezione manichea: gli autori pensavano di essere un manipolo di giusti, possessori della verità ultima sul significato della storia E dovevano salvare l’umanità» «Non erano pazzi, al contrario si trattava di persone iper-altruiste convinte di agire per amore, pur se usavano la violenza. Anche un certo settarismo cattolico ha portato forze a chi usava la P38»

l’Unità 16.3.10
Sanatorie e quote
Le porte strette degli ingressi in Italia


Il Governo sta per approvare il nuovo decreto flussi che consentirà l’ingresso in Italia di 150mila lavoratori stranieri. 105mila posti sono riservati a collaboratori familiari. Ma perché limitare l’ingresso prevalentemente a colf e badanti quando la recente sanatoria del 2009 (che, per carità, non si deve chiamare sanatoria) ha consentito la regolarizzazione di 350mila lavoratori di quel settore? Perché non predisporre quote d’ingresso più ampie per gli addetti ad altri settori? Il recente 1 marzo degli immigrati ha messo in risalto il ruolo essenziale svolto dai lavoratori stranieri per lo più impiegati in occupazioni a bassa qualificazione. Perché quindi non agevolarne la regolarizzazione? Le critiche rivolte alla sanatoria del 2009 riguardavano il fatto che fosse indirizzata a una sola categoria di lavoratori. Con l’effetto di regolarizzare, si fa per dire, come collaboratori domestici persone impiegate in attività del tutto diverse. Un aspetto criticabile del decreto è quello che prevede una macchinosa procedura di presentazione e di vaglio delle domande. Infatti, a meno che non vi siano dei cambiamenti profondi, questo decreto sarà come quello del 2007, quando si prevedeva che il modulo, precedentemente compilato, venisse inserito nel portale informatico prima dell’apertura dei flussi così da poterlo inviare con un semplice «clic» alla scadenza fissata. Basterebbe consultare i giornali di quel periodo (dicembre 2007) per rendersi conto della disastrosa inefficienza di quel sistema. Il rischio è inoltre quello di intasare ulteriormente gli già oberati sportelli unici impegnati a esaminare le pratiche della recente sanatoria. Insomma anche su questo fronte c’è bisogno di uno scossone.

l’Unità 16.3.10
Muscoli e famiglia
di Giancarlo De Cataldo

Solo gravi ed eccezionali motivi autorizzano il ricongiungimento fra genitori e figli in deroga alle leggi sull’immigrazione. Questo dice la legge. La Cassazione ha sfornato, da ultimo, una sentenza più restrittiva che in passato. Legittime entrambe, ma forse più aderente, quella che meno ci piace, alla volontà del legislatore. Il quale già dagli anni della prima Repubblica (il testo-base sull’immigrazione è del 1989) ha adottato una serie di politiche indirizzate al contenimento del fenomeno migratorio. Sino a delineare tipi di reato connessi, non a condotte criminali, ma allo status di straniero. Se i giudici, pur nell’ambito del loro compito di interpretare la legge, ne prendono atto, vuol dire che non sono, allora, quegli eversori che qualcuno paventa. Piuttosto che indignarsi con loro, meglio riflettere, sul paradosso culturale che la vicenda evoca. Siamo il Paese che più di ogni altro al mondo ha fatto della Famiglia un feticcio (e un tabù) da propinare in tutte le salse soprattutto a fini elettorali eppure consideriamo naturale e accettabile separare dai genitori figli che hanno l’unica colpa (difficile immaginare un termine diverso) di non appartenere all’area di Schengen. Di che cosa parliamo, allora, quando parliamo di famiglia? Di gente di pelle bianca con passaporto italiano, rigorosamente eterosessuale (almeno all’apparenza) unita dal vincolo del matrimonio. Tutti gli aggregati umani che non corrispondono a questo schema semplicemente li ignoriamo. Con una simile legislazione, la più famosa famiglia di tutti i tempi, quella della grotta di Betlemme, se la sarebbe vista davvero dura! Ma tant’è: da anni abbiamo abbandonato il cliché degli «italiani brava gente». Ci piace sfoderare i muscoli, soprattutto coi deboli: da destra con orgoglio, da sinistra col ciglio umido e un filo di vergogna. Ma sempre muscoli sono.

l’Unità 16.3.10
Consumi insostenibili
Il benessere non fa felicità
Per salvare noi e la Terra bisogna cambiare cultura
Siamo troppi sul nostro Pianeta e siamo troppo «famelici». Il nuovo rapporto del WorldWatch Institute propone un’altra strada per andare verso una società sostenibile: cambiare i modelli culturali. Alcuni Paesi hanno cominciato a farlo, seguiamone l’esempio
di Cristiana Pulcinelli

Èinutile fare finta di niente: così non possiamo andare avanti a lungo. Consumiamo troppo. Nel 2006 nel mondo si sono spesi 30,5 mila miliardi di dollari in beni e servizi, il 28% in più rispetto al 1996 e sei volte di più rispetto al 1960. Certo, c’è stata la crescita demografica. Ma la popolazione dal 1960 ad oggi è aumentata di poco più di due volte e non di sei volte. Molti beni sono stati acquistati per rispondere a bisogni primari: il cibo, la casa. Ma, più cresce il reddito, più aumenta la propensione al consumo: case più grandi, cibi più raffinati, automobili, televisori, viaggi aerei, computer, telefonini. Tutto sembra indispensabile. Un modello che si sta espandendo dai paesi ricchi ai paesi in via di sviluppo. Il problema è che all’aumento dei consumi corrispondono più estrazioni dal sottosuolo di combustibili fossili, minerali e metalli, più alberi tagliati, più terreni coltivati. Insomma, più pressione sui sistemi della Terra. L’indicatore dell’impronta ecologica, che mette in relazione il consumo umano di risorse naturali con la capacità del nostro pianeta di rigenerarle, ci dice che già oggi utilizziamo le risorse di 1,3 Terre. E secondo le previsioni dell’Onu nei prossimi trent’anni altri 2,5 miliardi di persone dovranno avere accesso all’energia.
Cosa fare? Rallentare la crescita demografica, adottare tecnologie sostenibili, non c’è dubbio. Ma non basta. Facciamo due conti. Se volessimo vivere tutti come vivono i cittadini degli Stati Uniti, il nostro pianeta potrebbe sostenere solo 1,4 miliardi di individui, mentre noi siamo già quasi 7 miliardi e si prevede che entro il 2050 saremo 2,3 miliardi in più. Con efficaci strategie, potremmo frenare la crescita a poco più di 1 miliardo. Comunque troppi. Pensiamo all’energia. Da una recente analisi si è visto che per produrre energia sufficiente a soppiantare gran parte di quanto fornito dai combustibili fossili, si dovrebbero costruire 200 metri quadri di pannelli solari fotovoltaici e 100 di solare termico al secondo più 24 turbine eoliche all’ora per i prossimi 25 anni.
Il Worldwatch Institute, l’autorevole osservatorio sull’ambiente, propone oggi un’altra strada, complementare e non sostitutiva delle due precedenti, per andare verso una società sostenibile: cambiare i modelli culturali. Il nuovo rapporto State of the World 2010 si intitola proprio: «Trasformare la cultura del consumo. Rapporto sul progresso verso una società sostenibile». Il consumismo che dovremmo abbandonare è quello definito dall’economista Paul Ekins un orientamento culturale in cui «il possesso e l’utilizzo di un numero e una varietà crescente di beni e servizi è l’aspirazione culturale principale e la strada percepita come più sicura verso la felicità individuale, lo status sociale e il successo nazionale». Il primo problema è riconoscere il consumismo come un orientamento culturale: la sua pervasività è tale che ormai viene sentito come qualcosa di naturale. Il secondo è mettere mano, praticamente, alle nostre abitudini. Come convincere i nostri figli che il pane nel latte è meglio dei cereali? Nostra madre che la carne è meglio mangiarla solo una volta ogni 15 giorni? Il nostro amico che non deve cambiare l’auto ogni due anni? L’imprenditore che è meglio far lavorare meno i suoi dipendenti?
La notizia cattiva, dunque, è che stiamo parlando di un’impresa titanica e quasi visionaria. Come dice l’inventore del microcredito e premio Nobel per la pace Muhammad Yinus nella prefazione al volume: «Nessuna generazione prima d’ora, nell’intera storia del mondo, è riuscita a realizzare una trasformazione culturale così profonda come quella invocata in queste pagine». La notizia buona è che questa trasformazione è possibile, anzi che il processo di cambiamento è già cominciato come dimostrano i molti esempi che il rapporto cita. I bambini. Oggi gli operatori del marke-
ting degli Stati Uniti investono circa 17 miliardi di dollari per bersagliare i bambini di pubblicità. E le aziende alimentari spendono 1,9 miliardi di dollari l’anno in campagne pubblicitarie mirate ai bambini di tutto il mondo. Ma qualcosa si sta muovendo: nella provincia canadese del Quebec è vietata la pubblicità televisiva rivolta i bambini sotto i 13 anni. In Norvegia e in Svezia il divieto è applicato al di sotto dei 12 anni. La Francia ha proibito programmi televisivi per bambini al di sotto dei tre anni d’età. E la scuola? Qualcosa si muove anche lì. A cominciare dalla mensa scolastica. La scelta di paesi come la Scozia e l’Italia di puntare sull’uso di prodotti biologici, locali e freschi è interessante, soprattutto se messa a confronto con quelle di altri paesi in cui i distributori automatici di merendine e bevande gasate forniscono una percentuale delle entrate all’amministrazione scolastica.
L’economia. Secondo gli estensori del rapporto dobbiamo partire da alcune consapevolezze: primo, la crescita del prodotto interno lordo non solo è impossibile, ma indesiderabile perché non vuol dire crescita del benessere. Secondo, una transizione ad una nuova società ci sarà comunque e sarà determinata dalle crisi economiche. Il problema è quindi come governare il cambiamento. Una trasformazione economica fondamentale riguarderà la migliore distribuzione dell’orario lavorativo. Oggi molte persone lavorano troppe ore, guadagnano di più e trasformano il reddito in consumi. D’altro lato, ci sono moltissimi disoccupati. Lavorare meno vuol dire far lavorare più persone, avere più tempo libero, far diminuire i consumi energetici. Un altro punto di forza della nuova economia sono le imprese sociali, quelle imprese in cui si pro-
ducono beni e servizi di utilità sociale e di interesse generale Anche qui gli esempi positivi sono molti. Storie come quella dell’impresa egiziana Sekem che, contro chi sosteneva che non era possibile rendere fertile la parte di deserto lontana dal Nilo, oggi produce derrate alimentari biologiche, cotone, erbe medicinali proprio nel mezzo del nulla.
I governi e le amministrazioni. Dalla messa al bando dei sacchetti di plastica in Irlanda al ritiro dal commercio delle lampade a incandescenza nel Canada, alle pesanti imposte sulle emissioni della Svezia, le iniziative per promuovere stili di vita sostenibili non mancano. Molte città stanno riducendo la loro impronta ecologica. Un esempio? Il quartiere BedZED di Londra, interamente costruito con materiale riciclato, consuma esattamente tanta energia quanta ne produce e ha al suo interno orti biologici.
Mass media e religioni. I mezzi di comunicazione di massa possono essere strumenti efficaci per plasmare le culture. Lo hanno fatto diffondendo un modello consumistico. Lo potrebbero fare diffondendo un modello di sostenibilità. Quindi, dicono gli autori del rapporto, si può pensare di usare il marketing sociale per trasformare la cultura del consumo. Ma ci si può spingere ancora più in là e pensare di usare anche le religioni a questo scopo: «Poiché l’86% della popolazione mondiale afferma di appartenere a una religione organizzata, sarà senza dubbio indispensabile coinvolgere le religioni nella diffusione delle culture della sostenibilità».

l’Unità 16.3.10
Sarkozy si appella ai delusi
La gauche sogna la svolta
Il Ps primo partito tesse alleanze a sinistra pensando alle prossime presidenziali del 2012
di Luca Sebastiani

Tenere duro fino al ballottaggio, cercare qualche voto tra gli astensionisti e tentare qualche «coup de theatre» nelle regioni in bilico. È la strategia della destra sconfitta. Dopo la vittoria la gauche punta all’Eliseo.

Il giorno dopo la sconfitta al primo turno delle regionali, la destra sarkozista sembra voler credere che non tutto sia perduto e che il sorpasso dei socialisti, primo partito nazionale col 29,5 dei consensi,
la rinascita inopinata del Fronte nazionale, 11,6, e il calo dell’Ump fino ad un 26,3 mai toccato nella V Repubblica, siano solo incidenti di percorso.
Domenica sera i colonnelli della destra sono saliti all’Eliseo per concordare con Nicolas Sarkozy la comunicazione del post sconfitta e mettere a punto una narrazione dei fatti che però non ha retto il confronto con la realtà. Ieri unanimemente la stampa e i commentatori hanno analizzato il primo scrutinio delle regionali come un’evidente sconfitta di Sarkozy, nonostante il primo ministro François Fillon, insieme a mini-
stri e colonnelli vari si siano sforzati di dimostrare che con un tasso di astensione del 53,6% la vittoria di dei socialisti sia solo una vittoria di Pirro. «La debole partecipazione non permette di tirare insegnamenti nazionali da questo scrutinio», ha dichiarato il primo ministro seguito a bacchetta dai sodali. «Con un eletto-
re su due che non ha votato, non c’è stato nessun referendum anti-Sarkozy» ha ribadito la sottosegretaria all’economia Kosciusko Morizet. E invece il vero perdente di questo primo turno è proprio il presidente della Repubblica che ha visto sbriciolarsi la costruzione politica che gli aveva conferito il successo del 2007. Se il sarkozismo era un mix di volontarismo e pragmatismo ritagliato sulla figura del leader carismatico in grado di tenere insieme voto popolare sottratto al Fronte nazionale e unità delle destre in un unico partito da guerra, ebbene, le regionali hanno sancito se non la fine, quantomeno la crisi del meccanismo. Disorientati da un riformismo gesticolante, delusi dalle promesse non mantenute e dall’incapacità del presidente di reagire alla crisi economica e sociale, la «Francia che soffre» si è rifugiata nell’astensione o è tornata a votare il partito xenofobo di Le Pen.
IL SECONDO TURNO
In un contesto del genere il partito unico non funziona più. Al secondo turno l’Ump non ha infatti riserve di voti. Ieri Xavier Bertrand, il coordinatore del partito presidenziale, ha dichiarato che l’Ump in questa settimana «andrà a cercare i voti» che gli mancano tra gli astensionisti, tra i centristi del Modem – il partito d’opposizione di François Bayrou che ha raccolto uno striminzito 4,3% e nientemeno che tra gli elettori ecologisti che non vedono di buon occhio l’alleanza tra Europe Ecologie e socialisti. Una mano tesa, quella di Bertrand, che sembra un ultimo e disperato tentativo, perché il problema dell’Ump, oltre all’astensione, è la fuga di voti verso il l’estrema destra. Il Fronte nazionale è riuscito a superare la soglia del 10 in ben 12 regioni, e quindi sarà presente in altrettanti ballottaggi, diminuendo la probabilità che i candidati dell’Ump la spuntino su quelli socialisti. In queste ore intanto i socialisti
preparano il ballottaggio che potrebbe «ricoprire di rosa la carta della Francia». Lo sgretolarsi del sarkozismo ha infatti aperto uno spazio di manovra alla gauche. Se il Ps è «ridiventato il primo partito francese», come ha ricordato la segretaria Martine Aubry, è la sinistra unita che può diventare politicamente maggioritaria. Oltre il 29,1 del Ps c’è anche il 12,5 di Europe Ecologie, il 6,1 del Fronte della sinistra e qualche punto dei trotzkisti. Entro stasera dovranno essere presentate le liste comuni, che saranno anche un esperimento di nuova gauche plurielle dell’alternativa per le presidenziali del 2012. Ma niente è scontato, perché il buon successo si Ségolène Royal nella regione Poitou Charentes e la vittoria generale ascrivibile all’Aubry potrebbero rilanciare la guerra interna per la candidatura con il corollario di divisioni.

l’Unità 16.3.10
Intervista a Massimo L. Salvadori
«I partiti socialisti cuore della sinistra. In Italia l’opposizione superi i contrasti»
di Umberto De Giovannangeli

Credo che dalla vittoria dei socialisti francesi venga confermato che i Partiti socialisti restano comunque l’asse centrale della sinistra in Europa. E lo sono tanto più se ritrovano unità interna e capacità di rappresentanza di aspettative e bisogni sociali che la destra neoliberista ha coartato». A sostenerlo è uno dei più autorevoli scienziati della politica italiani: il professor Massimo L.Salvadori. «Il calo di prestigio di Sarkozy in Francia prevede Salvadori non può non ripercuotersi anche su Berlusconi».
Professor Salvadori, quali sono i segni politici più rilevanti che emergono dalle elezioni regionali francesi? «Il primo è che la leadership della segretaria del Psf, Martine Aubry si è evidentemente consolidata all’interno del partito e nell’elettorato di sinistra: il Psf ha ritrovato una nuova unità dopo le divisioni precedenti. I socialisti, che si sono rinnovati al loro interno, di conseguenza sono stati in grado di lanciare una sfida credibile a Sarkozy la cui linea politica, anche in relazione alle risposte da dare alla crisi economica che ha colpito la Francia e l’Europa, non è risultata credibile alla maggioranza dei francesi. A questo si collega l’elevatissimo tasso di astensionismo di coloro che evidentemente, pur non volendo votare per i socialisti o per i Verdi e neppure, all’opposto, per il partito di Le Pen, hanno voluto comunque manifestare la loro profonda insoddisfazione nei confronti di Sarkozy. Vi è poi un segno che varca i confini della Francia».
Di quale segno si tratta?
«È quello che riguarda il ruolo dei socialisti in Europa. Ricordiamo bene che in seguito alle ripetute sconfitte dei socialisti in Europa, era diventato quasi una moda affermare, da parte di molti, che il Partito socialista francese, in particolare, fosse pressoché morto e sepoltoun rudere storico e che in generale lo fosse pure il socialismo europeo».
Invece?
«In Grecia la vittoria di Papandreou aveva già invertito la rotta della sconfitta, anche se oggi i socialisti greci si trovano a dover affrontare, in campo economico, le drammatiche conseguenze prodotte dalla grande depressione di cui è responsabile la destra neoliberista. Credo dunque che dalla vittoria dei socialisti francesi venga confermato che i Partiti socialisti restano comunque l’asse centrale della sinistra in Europa. Con un’avvertenza...».
Quale, professor Salvadori?
«Non bisogna enfatizzare oltre un certo limite la vittoria dei socialisti francesi alle elezioni regionali. E ciò per due motivi: il primo è legato al fatto che queste elezioni restano pur sempre legate a scelte relative alle amministrazioni locali; l’altro motivo, è che in vista della prossima sfida presidenziale è ragionevole ipotizzare che i socialisti francesi – che con ogni probabilità saranno guidati da Martine Aubry – non potranno più beneficiare di quanti si sono astenuti nel voto di domenica scorsa ma che quasi certamente non lo faranno alle presidenziali. Si tratta di vedere, direi con speranza e prudenza insieme, se i socialisti francesi saranno in grado di mantenere e consolidare l’unità raggiunta e quindi portare il loro partito alla vittoria, dando così al socialismo europeo un successo che avrebbe un indubbio valore internazionale». A proposito di ricadute oltre confine. Vi potrebbe essere, a suo avviso, un effetto “francese” sul voto regionale in Italia?
«Indubbiamente il calo di prestigio di Sarkozy in Francia non può non ripercuotersi anche su Berlusconi, il quale, a sua volta, se la provvidenza non è maligna pagherà, almeno in una certa misura, lo scotto delle sue tante malefatte. Fatto è, però, che in Italia continua a mancare un grande partito di opposizione come è quello socialista in Francia. A questo proposito dobbiamo augurarci che le opposizioni in Italia siano in grado di mettere in maniera energica la sordina ai loro contrasti, dando vita a un solido fronte di difesa democratica, che è ciò di cui ha bisogno il nostro Paese di fronte all’attacco furioso che il Cavaliere e i suoi conducono contro la democrazia e la Costituzione. Per quanto riguarda la sinistra italiana, a mio parere occorrerebbe tener conto di due dati politici che si sono determinati ultimamente: il primo, è che il Pd nato sulla base di un amalgama troppo composito, è stato abbandonato da Rutelli, dalla Binetti e da altri del loro orientamento. Il secondo dato, è che il tentativo del gruppo dirigente di cui è attuale leader Nichi Vendola non ha raggiunto l’obiettivo di dar vita ad una propria, consistente forza autonoma. Credo perciò che dal momento che il Pd è destinato a costituire il nucleo portante dell’opposizione in vista di un’alternativa di governo, varrebbe la pena comporre una divisione che ha perduto la sua ragion d’essere».

l’Unità 16.3.10
Scontro su Gerusalemme Est
No di Netanyahu agli Usa
La Casa Bianca spinge per bloccare le 1600 nuove case nella parte orientale della città Santa
L’ambasciatore israeliano a Washington: «Crisi molto grave, ha dimensioni storiche»
Il premier israeliano tira dritto. Israele non fermerà il piano di nuove abitazioni a Gerusalemme Est condannato dagli Usa, dall’Onu e dalla Ue. Obama avrebbe chiesto l’alt. Da Netanyahu arriva un altro no
di Umberto De Giovannangeli

La crisi scoppiata nelle relazioni strategiche tra Israele e Stati Uniti in seguito all’annuncio di un nuovo e molto controverso piano di edilizia ebraica a Gerusalemme Est «è molto grave» e ha «dimensioni storiche». Parola di Michael Oren, ambasciatore dello Stato ebraico a Washington. Secondo quanto riportano i siti web israeliani, sabato sera Oren ha convocato
i consoli generali israeliani per una conference call di emergenza, dicendo loro che i rapporti tra Israele e Usa stanno attraversando il loro peggior momento dal 1975. In quell’anno l’allora segretario di Stato Henry Kissinger minacciò un totale «riesame» delle relazioni degli Usa con Israele e il congelamento degli aiuti militari in seguito al rifiuto di quest’ultimo di accettare un piano di ritiro delle sue forze armate nel Sinai.
La crisi attuale è invece deflagrata lo scorso martedì, quando, nel bel mezzo della visita del vice presidente americano Joe Biden a Gerusalemme il cui scopo era quello di promuovere il rilancio del processo di pace tra israeliani e palestinesi -, il ministero dell’Interno israeliano ha annunciato la costruzione di 1.600 nuove case a Gerusalemme
Est, scatenando l’ira dei palestinesi e mettendo in grande imbarazzo lo stesso Biden.
L’IRA DI HILLARY
Dopo la dura condanna della segretaria di Stato Hillary Clinton, l’altro ieri è stata la volta del consigliere del presidente Obama, David Axelrod, il quale ha affermato senza mezzi termini che la decisione israeliana di autorizzare la costruzione delle nuove case a Gerusalemme Est è stata un «affronto» e un «insulto». Washington non si accontenta delle «scuse» del primo ministro israeliano, Netanyahu. Gli Usa avrebbero chiesto a Israele di rinunciare del tutto al suo piano di costruzione di 1.600 nuove unità abitative a Gerusalemme Est., alla base della crisi diplomatica tra i due Paesi. La richie-
sta, confermano a l’Unità fonti diplomatiche a Tel Aviv, è perentoria: Washington chiede al premier Netanyahu la totale cancellazione del piano.
Lo scontro si allarga. La decisione di Israele di costruire nuovi alloggi a Gerusalemme Est «è illegale e mette in pericolo l’accordo provvisorio per i negoziati indiretti israelo-palestinesi», afferma dal Cairo la responsabile della diplomazia Ue, Catherine Ashton. «La posizione dell’Ue è chiara: gli insediamenti costituiscono un ostacolo per la pace e minano la possibilità di costituire due Stati», dice Ashton incontrando il segretario della Lega Araba, Amr Moussa. «Lady Pesc» ha poi definito «negativa» la decisione di Israele di inserire siti religiosi e culturali sul territorio palestinese nel patrimonio israeliano: «Porterà effetti contrari a quelli voluti». «Nell’ambito della soluzione dei due Stati, il nostro obiettivo è la creazione di quello palestinese in Cisgiordania, che includa Gerusalemme Est e la Striscia di Gaza, sulla base dei confini del 1967”, aggiunge Ashton. La responsabile della diplomazia europea ha sottolineato anche che il «blocco di Gaza è inaccettabile».
«Israele è e resterà un alleato strategico degli Stati Uniti, ma attendiamo una sua risposta formale» in merito ai nuovi insediamenti a Gerusalemme Est”, afferma in serata il portavoce del Dipartimento di Stato americano Philip Crowley. A tutti replica, sia pur indirettamente il premier Netanyahu. Il primo ministro israeliano ripete che i progetti di costruzione di alloggi a Gerusalemme Est «andranno avanti» anche per il futuro, sottolineando che questa è la politica di tutti i governi del Paese da 42 anni. «Le costruzioni a Gerusalemme, come in ogni altro luogo continueranno, secondo quella che è stata la consuetudine negli ultimi 42 anni», taglia corto Netanyahu.
Le sue parole non sorprendono la dirigenza palestinese. Netanyahu «non è interessato a raggiungere la pace e mira anzi a distruggere ogni sforzo», commenta Nemer Hammad, consigliere per i rapporti con i media del presidente dell’Anp, Mahmud Abbas (Abu Mazen). Secondo Hammad, la reazione di Washington «questa volta è stata seria», come «serio è stato l’imbarazzo causato dal governo israeliano».

l’Unità 16.3.10
Acqua pubblica, sabato 20 in piazza

È fissata per il prossimo sabato a Roma la manifestazione per la ripubblicizzazione dell’acqua. Il corteo partirà da piazza della Repubblica alle 14.00 e terminerà alle 19.00 a piazza Navona dove sono previsti gli interventi finali.
Sullo stop alle politiche di privatizzazione, che hanno avuto il loro apicecon l’approvazione del decreto Ronchi lo scorso novembre, e sulla necessità di una forte, radicata e diffusa
campagna nazionale, un vastissimo fronte in queste settimane si è aggregato al Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua: dalle associazioni dei consumatori alle associazioni ambientaliste, dal mondo cattolico e religioso al popolo viola, dai movimenti sociali al mondo sindacale, alle forze politiche. Con la manifestazione partirà anche la campagna referendaria. Tre quesiti per togliere l’acqua dalle mani dei privati.

l’Unità 16.3.10
Palma Bucarelli la diva dell’arte che attraversò tutte le tempeste
di Flavia Matitti

Anniversari Guidò la Galleria d’arte moderna di Roma dal ’39 al ’75. Oggi avrebbe compiuto 100 anni
Il personaggio Intelligente e anticonformista, segnò il ritorno del contemporaneo nel dopoguerra
La Galleria l’aveva chiusa per protestare contro i nazisti, e la riaprì nel ’44 «per mostrare agli alleati che l’Italia non è finita col Caravaggio». Oggi due libri celebrano una donna cui l’arte italiana del Novecento deve moltissimo.

«Le ragioni di questa esposizione sono due: primo, mostrare agli ospiti alleati che l’arte italiana non è finita col Caravaggio; secondo, permettere al pubblico di vedere una parte delle opere d’arte della Galleria». Così scriveva Palma Bucarelli nel dicembre 1944, mentre con una mostra dedicata all’arte contemporanea italiana riapriva a Roma alcune sale della Galleria nazionale d’arte moderna. E in queste poche righe appaiono già enunciate le idee che ispireranno l’attività futura della soprintendente, attenta a valorizzare gli artisti italiani contemporanei, specie le correnti dell’astrattismo e dell’informale, e a educare il gusto del pubblico all’arte del proprio tempo. Oggi ricorre il centenario della nascita della Bucarelli (1910-1998), donna affascinante, intelligente e anticonformista, che per oltre trent’anni, dal 1939 al 1975, ha guidato la Galleria nazionale d’arte moderna di Roma. Grazie a un’assoluta dedizione al lavoro ma anche alla sua non comune bellezza, al temperamento da diva e a un certo gusto dello scandalo fecero scalpore tra gli acquisti per la Galleria il Grande sacco di Burri e Merda d’artista di Manzoni la Bucarelli è divenuta una figura leggendaria dell’arte contemporanea.
CINQUANTA RECENSIONI
La Galleria nazionale d’arte moderna, cui ha lasciato un cospicuo nucleo di opere della propria collezione, le ha reso omaggio lo scorso anno con un’importante retrospettiva accompagnata da un catalogo (Electa) che, attraverso i saggi di quasi trenta autori, restituisce appieno il fascino e la complessità del personaggio. Ora, in occasione della ricorrenza del centenario Palma era nata a Roma il 16 marzo 1910 sono arrivati in libreria due nuovi volumi che permettono di scoprire ulteriori aspetti della vita e del lavoro della Bucarelli.
Una piacevole introduzione alla conoscenza di questa straordinaria protagonista dell’arte italiana del Novecento è offerta da Rachele Ferrario, docente all’Accademia di belle arti di Brera, che ha dato alle stampe un’ampia e documentata biografia intitolata Regina di quadri. Vita e passioni di Palma Bucarelli (Mondadori, pagine 344, euro 20,00).
L’altro libro appena uscito si deve invece a Lorenzo Cantatore, docente all’Università di Roma Tre e già autore di alcuni fondamentali studi dedicati alla Bucarelli, da lui conosciuta e frequentata assiduamente nel corso degli anni novanta. In quest’ultima pubblicazione, dal titolo Palma Bucarelli. Cronache indipendenti (De Luca, pagine 120, euro 18,00) Cantatore ha riunito gli articoli di critica d’arte militante apparsi fra il 1945 e il 1946 sul quotidiano romano L’Indipendente.
Scorrendo le oltre cinquanta recensioni sorprende innanzi tutto la vivacità del panorama artistico romano di quegli anni tanto difficili. Le mostre si susseguono con ritmo incalzante alla Galleria San Bernardo, al Secolo, allo Zodiaco, alla Finestra, alla San Marco e la penna di Palma Bucarelli ne registra puntualmente novità e battute d’arresto. Si rallegra ad esempio per la nascita dell’Art club, condanna il persistere di una certa aria di «novecento», ammira De Pisis, Morandi, Mafai, Savinio, mentre stronca con ironica perfidia il De Chirico barocco e il surrealismo di Leonor Fini.
DOCUMENTI INEDITI
Inoltre il volume contiene importanti documenti inediti, tra cui una lettera inviata al critico d’arte Lionello Venturi, appena rientrato dall’esilio statunitense. La Bucarelli vi traccia una rapida cronistoria dei fatti della Galleria e conclude con alcune considerazioni sullo stato dell’arte contemporanea, per molti versi tuttora attuali: «Chiusi la Galleria dopo l’8 settembre 1943 per
protesta contro i tedeschi che pretendevano di “normalizzare” la vita della città e la tenni chiusa fino alla liberazione. Ho riaperto la Galleria con undici sale dove ho esposto opere d’arte contemporanea, quelle che han fatto la storia di questi quarant’anni del secolo. La mostra ha suscitato infinite discussioni, nella stampa e negli ambienti artistici. Io credo d’aver fatto qualcosa di utile per chiarire una situazione dell’arte che oggi è confusa, come tutto, del resto, o meglio si cerca di confonderla mescolandovi questioni politiche e interessi personali».

domenica 14 marzo 2010

l’Unità 14.3.10
L’equilibrio e la forza
di Concita De Gregorio

Né troppo né poco, era difficile stare in equilibrio su un crinale così. Né troppa pancia troppe urla, rabbia, troppe accuse all’indirizzo sbagliato né troppa testa, che non diventi per la folla un incomprensibile sussurro di diffidenze reciproche. Esiste un posto così? Un luogo dove la piazza e la politica si incontrino? E che forma ha, che sapore ha, di cosa suona? Eccolo, chi arriva si guardano intorno come per riconoscerlo ma è nuovo, non somiglia a niente: è piazza del Popolo alle tre del pomeriggio. Vista dall’alto e da lontano un puzzle di tessere che combaciano, pezzi di bandiere che si incastrano, gialle viola rosse e coi gabbiani, bianche rosse e verdi con le scritte ma anche senza, bandiere italiane. Un vestito da arlecchino ben cucito: non stringe, calza elastico su una folla di persone che si somigliano ma non si conoscono, arrivate da storie diverse sotto insegne distinte, o con nessuna. A destra i viola, a sinistra il Pd, al centro Di Pietro. Palloncini Cgil, Sinistra e Libertà, cartelli scritti a pennarello: «Votate Alì Babà, almeno i ladroni saranno solo 40». Molti venuti da soli, in treno famiglie coi bambini, direttamente da scuola i ragazzi in viola con gli zaini. Sembra un’enorme piazza di paese dove si siano riuniti tutti dopo il maremoto. Una comunità di persone che si erano fino a ieri solo intraviste, oggi qui insieme per il bene comune. C’è qualcosa da difendere, è di tutti. C’è un paese in rovina. C’è un futuro da ricostruire. Ci siamo? Ci siamo.
Che sia un inizio lo sentono e con parole diverse lo dicono tutti, dal palco. «Il nuovo inizio», dice proprio Emma Bonino. «Il cantiere», dice Vendola. «L’inizio dell’alternativa, piazza di primavera», Bersani. Che sia una piazza dove la gente è venuta a portar via le macerie di un paese fatto a pezzi anche, lo sentono e lo dicono tutti. «Macerie», inizia Vendola. Poi Di Pietro, «macerie che lascia questo regime al crepuscolo», da ultimo Bersani.
Dunque questo. Come dopo un lutto comune: una folla appena un po’ guardinga, prudente ad alzare la voce, più acuta la speranza della rabbia. Al posto delle carriole hanno tra le mani la Costituzione, l’Agenda rossa di Borsellino, un giornale. Una piazza così devota alle regole da aver creato, spontaneamente, una zona fumatori: tutti davanti al bar Canova, nessuno tra la folla che ci si potrebbe bruciare. «No ai trucchi, sì alle regole» c’è scritto infatti sul palco. Gente onesta, che rispetta le regole e le vuole rispettare. La novità politica, si dirà poi a sera, è la moderazione di toni di Di Pietro che per tre volte, tre, si rivolge alla folla chiedendo «vi prego», «per favore, state uniti». «Per favore» a un comizio non si era ancora sentito. L’obiettivo è vincere, non sbagliamo bersaglio. «Questa piazza è qui per sapere cosa vogliamo fare noi». Applausi. «E cosa volete fare?», domanda una ragazza. «Ricostruire». Non una parola su Napolitano e campo aperto a Bersani che, subito dopo, può attaccare forte su Berlusconi-Carnera, quello delle bolle di sapone e dei miracoli, «il capopopolo e caporedattore Tg1». Risate, bandiere. Ma è Nichi Vendola, per primo, a scaldare i cuori.
Presto, appena all’inzio, subito dopo Emma Bonino che esile come una piuma dice parole di ferro: «Un regime da basso impero, prepotente perché moribondo. Evitate, evitiamo le trappole. Siamo la riscossa democratica e civile». Ovazione e donne in prima fila premurose: mangia, però, Emma. Poi Vendola. Immaginifico e fiorito come un prato, l’unico leader al mondo che possa parlare ad una piazza in latino ed essere salutato con la ola, «Berlusconi è legibus solutus», ovazione. Parla di «sponda del fiume» che non possiamo permetterci, dice cose come «la povertà è colpevole per definizione, la ricchezza innocente per ontologia». Invita: bisogna riflettere su quale sia stata la forza e il segreto del berlusconismo. Non parla mai di programma politico, lo chiama racconto perché sa che è di questo che c’è oggi bisogno: una narrazione nuova. «Il racconto del berluconismo non funziona più ma noi non abbiamo ancora trovato un racconto convincente, coerente». Ecco, appunto sventolano in piazza le bandiere. «Oggi, qua, si riapre il cantiere». (Dalla piazza: speriamo). «Il centrosinistra qui ritrova il suo popolo. Perché per troppo tempo abbiamo avuto un popolo senza politica e una politica senza popolo». (È vero, è vero: due anziani con la bandiera del Pd sulle spalle).
Movimenti a centro piazza. Strilloni che vendono Repubblica e il suo direttore Ezio Mauro tra la folla. Stand de L’Unità, Il Manifesto, davanti a quello Liberazione Adelmo Cervi, figlio di uno dei sette fratelli (Aldo). Rammenta quando Berlusconi voleva conoscere il nonno. Tenda, sulla destra, che dispensa «panini di Milioni». Con la porchetta, questi. Magliette a dieci euro: Sono incazzato nero. Resistere. Pertini non avrebbe firmato. Tana per Minzolini.
Sotto il palco Epifani e Susanna Camusso, Marino Franceschini e Veltroni, Cossutta padre e figlia, Castagnetti, Lannutti paladino dei consumatori che parla dell’inchiesta di Trani. Bobo Craxi ormai identico a suo padre, fisicamente. Sul palco Riccardo Iacona, coraggioso, parla del coraggio di tanti giornalisti Rai. De Magistris a una telecamera: vogliamo in poco tempo riportare la parte migliore della politica al governo del nostro paese. Dietro a lui una bandiera col volto di Berlinguer. Più in là Falcone e Borsellino nella foto in cui si parlano, il Che, No nuke, Democrazia atea che è un nuovo partito, spiega la fondatrice Carla Corsetti, «per un paese democratico e laico nel rispetto della Costituzione». Musica, giovani che intonano in coro la canzone di Frankie Hi Energy, cinquantenni che ignorano chi siano e vanno a ritmo con la testa.
Ora sul palco Di Pietro in sciarpa viola, la usa anche per reggere il braccio rotto. «Berlusconi è Nerone che ride mentre l’Italia brucia». Gli applausi più forti sono quando dice «le nostre mele marce buttiamole fuori da soli» e poi, a proposito dello sfacelo dell’informazione ad opera del Nerone, «sul conflitto di interessi con il padrone dei media c’è chi in passato ha pensato di scherzare col fuoco e si è bruciato le mani. Dovrebbe essere qui oggi a chiedere scusa». Molto fotografato l’unico striscione polemico col capo dello Stato: giallo come per gli annunci immobiliari dice «Vendesi Repubblica, rivolgersi Napolitano». Glielo indicano, Di Pietro risponde «non ne so niente». «Servono fiducia e umiltà», dice alla fine. «Servono lavoro, onestà, regole, civismo», riprende Bersani che parla subito dopo di lui, e conclude. «Cari amici e compagni»: su questo governo «che si fa solo vestiti su misura» vinceremo liste o non liste. Il lavoro al primo posto. La scuola pubblica. Un progetto per il futuro: «Berlusconi non può più parlare al futuro». Saluta col sorriso. «Guardate che le cose cambiano». Bisogna crederci. Cambiano? Chiede una giovane madre con in braccio la bambina Elisa. Accanto a lei tre ragazzi ripiegano lo striscione «Basta de-cretini»: cambiano, cambiano, fa uno. Cambiano, dice tornando lento verso via del Corso Denis, che ha ottant’anni scritti in faccia e viene da Ravenna. «Io magari non lo vedo ma lei indica la bimba lei di certo sì. Il fatto è, cara signora, che adesso tocca a voi».

l’Unità 14.3.10
Emma cita Politkovskaja «No a sentimenti tiepidi»
La leader radicale rilancia l’allarme per la democrazia «Ringrazio Bersani, ha avuto fiducia. Non abbiamo fatto finta di essere uguali, ma saprò rappresentare tutti voi...»
di Mariagrazia Gerina

Occhiali da sole, giacca gialla, il colore della sua campagna elettorale. Emma Bonino, l’outsider» della corsa nel Lazio diventata epicentro del conflitto politico-istituzionale scatenato da Berlusconi, sale sul palco di piazza del Popolo per prima. I radicali non ci sono: «Per noi è stato impossibile correggere le illegalità più gravi», spiega Emma a loro nome. «Io invece sono qui perché sono la candidata di tutti voi e sono grata per la fiducia e l’emozione che mi avete dato», si presenta, tra gli applausi. E scalda il popolo del centrosinistra, suonando la «riscossa democratica e civile» contro «un regime da basso impero», un «nuovo inizio» che par-
te dalla vittoria nel Lazio e nelle altre regioni, il cui senso ormai è «politico» e non solo amministrativo.
«Spero di rappresentare anche chi finora ha votato altro e si sente confuso, deluso, ha bisogno di recuperare il decoro istituzionale», dice dal palco. Perfino Castagnetti, in prima fila, sembra conquistato.
Lei ringrazia: la piazza, Bersani «che ha avuto fiducia in me». Difende la sincerità di questa unione «non abbiamo fatto finta di essere uguali» -, rivendica la capacità dei radicali di essere sempre stati dei «federatori». E a quanti si sono mobilitati in difesa delle regole consegna il motto gandhiano «siate voi il cambiamento che volete vedere nel mondo», l’invito ad essere «la piazza della speranza e della proposta non solo della protesta». E l’incitazione con Anna Politkovskaja a «non avere sentimenti tiepidi» perché «non servono a conquistare la fiducia»: «Io non ne ho», assicura, «non abbiatene voi».

Repubblica Roma 14.3.10
"Con lei possiamo farcela" in piazza l´abbraccio alla Bonino
"Dal Lazio la rinascita". E c´è chi vende il panino alla Milioni
"No alle leggi ad personam" "Siamo tanti serviva un luogo più grande"
di Carlo Picozza

Solo «Basta». Lo slogan più letto sui cartelli agitati in piazza del Popolo era di una parola. Perentoria e speranzosa: «Cresce la fiducia per il voto nel Lazio», secondo Antonio Farrugia, consulente immobiliare. I commenti più ascoltati, invece, invocavano «una piazza più grande» (anche se di giovani non ce n´erano molti). Perché, secondo Maurizio Grasso, insegnante, «il centrosinistra se è forte in piazza esce vincente dalle urne: la partita è tutta da giocare, ma quel che conta è che nella regione la fiducia stia crescendo». E mentre dal palco il segretario di Rifondazione, Paolo Ferrero, ringraziava il popolo Viola e la Cgil, che con la mobilitazione dei giorni scorsi hanno fatto da apripista anche alla manifestazione "Regole Day" che ha riempito ogni angolo della piazza, tra la gente è scattato l´entusiasmo: «Questo è il giorno della rinascita», per Katia Perilli, impiegata, «grazie alla ripresa di iniziative del centrosinistra e ai pasticci del centrodestra, nel Lazio possiamo vincere».
Aveva anticipato Emma Bonino che da palco ha scandito: «Vi chiedo aiuto: possiamo vincere se per qualche ora al giorno diventate, con me, candidati presidenti». «Spero», ha continuato, «di rappresentare anche chi in passato ha votato altri ma ora, come noi, sente il bisogno di legalità, pulizia, rispetto delle regole. Un mondo diverso è possibile ma occorre essere alternativi al vecchio e al regime da basso impero». Tra le donne e gli uomini dei partiti del centrosinistra, delle associazioni e dei movimenti di base, c´erano i Viola, con quel «Basta» scritto a caratteri cubitali; con una sciarpa, un maglione, con una gonna o i pantaloni di quel colore, mescolati tra le decine di migliaia di persone che, secondo Fausto Nuglio, impiegato in mobilità, «si aspettano una svolta dalle elezioni regionali».
Bandiere, palloncini, striscioni e tanti colori per una grande prova di unità «per le regole e contro i trucchi». Contro le leggi del governo. «Quelle ad personam e quelle liberticide», hanno ripetuto dal palco e dalla piazza gremita. E gli attacchi più duri nei cartelli scritti a mano hanno avuto come destinatario il premier: «Silvio Bokassa, basta attacchi alla Costituzione», «Non si gioca con i bari». «Berlusca in tribunale, è finito il carnevale». A firmarli sono stati soprattutto i Viola. Ma dal rosso di Rc, Sel e Cgil, al bianco azzurrato dell´Idv, passando per il verde degli ambientalisti, all´arancione dei giovani del Pd, nessuno ha risparmiato bordate alle «regole costruite sui bisogni del presidente del Consiglio». L´ha buttata in sarcasmo un venditore ambulante di bibite e snack che ha intitolato i suoi panini ad Alfredo Milioni, il presentatore delle liste del Pdl, ritardatario per colpa di uno spuntino.

Repubblica Roma 14.3.10
Bonino: "Alla fine ce la faremo ma temo ancora molte trappole"
"C´è bisogno di legalità, pulizia, rispetto delle regole, decenza e decoro istituzionale"

«Possiamo vincere, qui e in altre regioni». Una convinzione e una consapevolezza che la candidata del centrosinistra Emma Bonino aveva già prima della sentenza del Consiglio di Stato, che in serata ha sancito l´esclusione della lista del Pdl, a Roma e provincia, dalla competizione elettorale. Una decisione giuridica che la candidata non ha voluto commentare, limitandosi a recepire, come sempre fatto in questi giorni, quanto stabilito dai giudici rispetto alla lista del Pdl.
«A fine mese non c´è solo un´elezione amministrativa, ma un appuntamento importante per la riscossa democratica» aveva detto ieri pomeriggio la Bonino intervenendo alla manifestazione del centrosinistra in piazza del Popolo. Quindi, la chiamata a tutti coloro che credono nelle regole. «Temo giorni con ancora molte trappole ha ammesso la Bonino serve un nuovo inizio a partire dalla concezione della politica. E spero allora di rappresentare anche chi in passato ha votato altro ma ora sente come noi il bisogno di legalità, pulizia, rispetto delle regole, decenza e decoro istituzionale. Un mondo e una vita più dignitosa sono possibili».
Un´alternativa c´è, dunque, rispetto a un vecchio modo di fare politica. «Noi ha sottolineato al candidata del centrosinistra dobbiamo essere la speranza, la proposta e non solo la sterile protesta. Questo è il momento della scossa democratica e possiamo vincere sia qui nel Lazio che in altre regioni». Ma per farlo, la Bonino ha chiesto aiuto ai cittadini «Io sono con voi, non voi con me ed è questo che fa la differenza ha precisato la candidata chiedo a voi però di essere, per qualche ora al giorno, candidati-presidenti».

il Fatto 14.3.10
Paul Ginsborg
Potere e politica, muro di gomma
italiano Nell’ambito delle celebrazioni per il centenario della nascita di Norberto Bobbio, un ciclo di lezioni torinesi aperte dall’intervento di uno storico rigoroso
di Paul Ginsborg

“Far scendere la democrazia dal cielo dei principi alla terra dove si scontrano corposi interessi. Ho sempre pensato che questo sia l’unico modo per rendersi conto delle contraddizioni in cui versa la società democratica e delle vie tortuose che deve seguire per uscire senza smarrirvisi, per riconoscere i suoi vizi congeniti senza scoraggiarsi e senza perdere ogni illusione nella possibilità di migliorarla.” Così parlava Norberto Bobbio nel 1994, dieci anni prima della sua scomparsa. A suo nome, la Biennale democrazia, sostenuta da un’altra decina di sigle, ha organizzato un ciclo di incontri. Le lezioni Bobbio 2010 affrontano temi cruciali della attualità politica come la diseguaglianza crescente nella distribuzione delle risorse. Tra gli oratori, Fitoussi, Ambrosoli, Caselli. Il testo che segue è l’intervento che il professor Paul Ginsborg terrà domani alle 18 al Teatro Carignano di Torino.

Sono due gli elementi principali che caratterizzano la cultura politica italiana degli ultimi quarant’anni. Uno è il potere sproporzionato dei partiti politici, che si distinguono per arroganza e arbitrio perfino in un contesto internazionale di degrado della rappresentanza politica. Solo in Italia, tra tutte le democrazie europee, la letteratura scientifica fa ampio uso del termine “partitocrazia” e il livello di fiducia nei partiti è inabissato all’8,6% (dicembre 2009). Anche il Parlamento, la più preziosa delle istituzioni democratiche, ma anche un luogo lontanissimo dalla vita quotidiana dei cittadini, gode di scarsa fiducia, solo il 18,3%. L’altro elemento è una società civile che mostra senza dubbio molteplici difetti e insufficienze ma cresce, quasi come risposta obbligata alle inadempienze della società politica. La sua caparbietà, i forti valori e la capacità di rinnovarsi hanno avuto riconoscimento anche a livello internazionale. Il Civicus Global Survey of the State of Civil Society, pubblicato in due volumi nel 2007-8, ha collocato la società civile italiana al quarto posto tra i quarantacinque paesi presi in considerazione.
Nella storia di questa società civile si possono distinguere in era repubblicana tre fasi principali, assai diverse tra loro. La prima è quella delle subculture forti, sia cattolica sia comunista, degli anni ’40 e ’50, solo parzialmente autonome da poteri fortemente centralizzati. La seconda è quella massiccia degli anni ’70, marcata da grandi innovazioni come i consigli di fabbrica, ma venata da una forte tensione ideologizzante, mai molto lontana dalla violenza. L’ultima fase, nata con il 1989 in Europa dell’Est, fiorisce pienamente in Italia solo nel primo decennio di questo secolo. Essa pone un forte accento sui temi della pace, della difesa della Costituzione, dell’ambiente, cerca di costruire solidarietà orizzontali tra cittadini, invece che solidarietà verticali, tra patrono e cliente, così tipiche della società italiana.
Naturalmente sarebbe un errore grossolano presentare un quadro manicheo, in cui la società politica sia luogo di tutti i peccati e la società civile scrigno di etica e virtù. Mi auguro di non essere così superficiale. Resta il dato di fatto della sostanziale incomprensione tra le due società: la prima vede la seconda come ausiliare alle sue funzioni e la seconda vede la prima come usurpatore di tutto il potere decisionale.
A questo punto vorrei complicare il quadro. Finora ho parlato di due modalità di associazione – quella politica e quella civile. Ora vorrei aggiungere due forme di democrazia – quella rappresentativa e quella partecipata. Come si configurano questi quattro elementi nella storia della Repubblica italiana e soprattutto come potrebbero configurarsi in futuro? In altre parole, che forma assume il quadrilatero che ha come vertici le due forme di democrazia e i due modi di associarsi? Non è una questione di poco conto per il futuro della democrazia italiana. In questa sede posso concentrarmi solo su un momento particolare, ripetutosi però più volte negli ultimi anni, il momento in cui una parte significativa della società civile si mette in movimento e incontra sulla sua strada la società politica, rappresentata dai partiti del centrosinistra. È un incontro-scontro senza procedure prestabilite. La retorica utilizzata dai partiti in queste occasioni è sempre la stessa – di inclusione, valorizzazione, partecipazione.
La realtà delle loro azioni parla invece di un grande rifiuto, quasi di un’insofferenza, dietro la quale si cela la riluttanza o l’incapacità di teorizzare e di praticare nuove forme di democrazia.
Di fronte a questo muro di gomma il dinamismo della società civile si fiacca e si scoraggia. Migliaia di cittadini si allontanano sia dalla società politica (‘non vale la pena neanche votare’) sia da quella civile (‘tanto il nostro impegno non serve a nulla’). Come si può evitare una sindrome tanto autolesionista? Bisogna interrogarsi su come riavvicinare la società politica a quella civile, e allo stesso tempo combinare le due forme di democrazia, quella rappresentativa e quella partecipativa.
Delle tante sperimentazioni internazionali di questi ultimi anni, scelgo due che possono esserci d’aiuto. La prima è americana d’origine, la seconda brasiliana; la prima ha a che fare con la forma della deliberazione e la seconda con l’esercizio del potere.
assemblee nella culla della trasparenza
The Electronic Town Meeting, come viene chiamato, è un’assemblea pubblica che a giudizio della quasi totalità dei partecipanti si distingue in positivo da un’assemblea tradizionale. Nel Town Meeting i partecipanti sono riuniti in piccoli gruppi attorno a tavoli rotondi. Ad ogni tavolo siede un facilitatore che ha il compito di garantire che la discussione si svolga in maniera f luida e democratica. Si inizia ascoltando le comunicazioni degli esperti, mirate ad informare il Meeting sulle tematiche oggetto di dibattito, presentando visioni diverse del problema considerato. Segue la discussione ai tavoli, una forma di dibattito che agevola l’ascolto reciproco e il confronto con opinioni divergenti dalla propria. Le decisioni dei tavoli sono comunicate elettronicamente ai coordinatori del Meeting che hanno il compito di presentarne una sintesi all’attenzione di tutta l’assemblea, chiamata quindi ad approvare un documento finale.
I partecipanti a questo tipo di assemblea parlano spesso, conclusi i lavori, della ‘magia’ della formula, di ‘gioia pubblica’, della sensazione forte che ‘la politica dovrebbe essere questo’. Bisogna notare che gli Electronic Town Meeting hanno costi elevati e non sono facilmente riconvocabili. Ma va anche osservato che esistono sperimentazioni recenti, come quella dell’associazione fiorentina ‘Sinistra unita e plurale’, mirate a sviluppare forme di Town Meeting quasi a costo zero.
le basi della democrazia
Tornando al momento politico che ho isolato, quello dell’incontro-scontro tra società civile e partiti politici, sarebbe tutt’altro che impossibile proporre un Town Meeting per portare avanti la discussione in modo proficuo. Il tema in oggetto potrebbe essere: ‘Quale è la strategia migliore per rafforzare la democrazia italiana in questo momento storico?’ L’assemblea potrebbe essere composta per un terzo dai rappresentanti dei partiti, per un terzo dalla società civile e il restante terzo (importantissimo) selezionato per sorteggio. Le discussioni ai tavoli sarebbero davvero interessanti.
Attenzione, però. Per quanto la formula sia affascinante il Town Meeting elude la questione principale: chi, alla fine, decide? A questo punto ci viene in aiuto il secondo esempio, quello di Porto Alegre in Brasile. Il Bilancio Partecipativo è un processo a cadenza annuale che coinvolge a vari livelli migliaia di cittadini. Con l’ausilio di esperti vengono individuate le priorità da sottoporre ai consigli municipali locali. Questo processo deliberativo esteso – che non si limita alla discussione ma include l’elezione di delegati al Consiglio di bilancio – ha impatto sui politici. Benché il processo partecipativo non rivesta alcun potere formale, non si è a conoscenza di casi in cui il consiglio municipale abbia bocciato le priorità segnalategli. L’esperimento di Porto Alegre ormai ha superato il momento d’oro ma il suo esempio si è esteso ad altre 170 città brasiliane.
Unire la forma del Town Meeting con la sostanza e l’impatto del processo di bilancio partecipativo rappresenta una valida base su cui poter fondare una democrazia combinata. Il potere e la responsabilità dei rappresentanti non ne escono negati e neppure sminuiti. Sono piuttosto modificati e arricchiti dalle attività deliberative che hanno luogo intorno a loro. E sotto il profilo teoretico il punto cruciale del rapporto tra democrazia rappresentativa e partecipativa è che l’attività della seconda garantisce la qualità della prima. Al contempo i cittadini membri della società civile non tornano a casa con una sensazione di impotenza personale e di separatezza dalla sfera politica, ma si sentono coinvolti in un processo democratico che ha forma e sostanza.

Repubblica Roma 15.3.10
Nuovo sondaggio Bonino in testa per cinque punti
Una rilevazione della Key Research. Polverini: "Renata contro tutti"
di Giovanna Vitale

Pesa eccome l´esclusione della lista provinciale del Pdl. Secondo il sondaggio riservato effettuato dalla Key Research per il Pd Lazio, se si votasse oggi Emma Bonino staccherebbe Renata Polverini di ben cinque punti: la candidata del centrosinistra otterrebbe il 43,7%, quella del centrodestra si fermerebbe al 38,5. Un divario colmabile neppure se entrambe le sfidanti riuscissero infine a convincere quel 15,9% di elettori che ancora non sa se andrà alle urne né quale simbolo sbarrerà: gli indecisi per la leader radicale sono infatti il 5,2%, il doppio quelli per la segretaria Ugl (10,7%). Mancando appena due settimane all´apertura dei seggi, la rimonta del centrodestra assume i contorni dell´impresa.
Sarà per questo, per dare la sensazione di una coalizione compatta nonostante la disfatta sulla lista, che ieri il Pdl ha schierato i suoi pezzi da 90 per dare precise indicazioni di voto. «Renata c´è, sta sulla scheda, per vincere basterà mettere una croce sul suo nome», spiega con involontaria ironia il capogruppo al Senato Maurizio Gasparri. «Dobbiamo sconfiggere questi ladri di voti, perché non c´è dubbio che rimane un vulnus alle regole», gli fa eco il capogruppo alla Camera Fabrizio Cicchitto: «I nostri avvocati proseguiranno i ricorsi ma per adesso la lista del Pdl non si presenta. Perciò dobbiamo far convergere i voti sulla civica della Polverini». Una chiamata alle armi improvvisata nel gazebo Pdl di piazza del Popolo, dove in favor di telecamere i dioscuri della candidata governatrice ribadiscono la tesi del complotto e negano qualsivoglia errore dei delegati di partito nella presentazione della lista. Peccato che a ricordarglielo ci penserà più tardi un alleato come Casini: «Diciamocelo pure, sappiamo tutti che le lotte continue dentro il Pdl hanno fatto cambiare i nomi della lista fino all´ultimo momento», attaccherà il leader udc.
Intanto, una e trina, la segretaria Ugl non demorde, costretta all´ubiquità per conquistare voti: eccola al mattino tagliare il traguardo della maratonina per Haiti e dopo pranzo in curva Nord all´Olimpico, accolta dai laziali al grido di «Polverini caccia Lotito!», poi nel pomeriggio a Magliano Sabina. «Lasciamo perdere tutti ‘sti ricorsi, ora l´unico modo per dare prova di democrazia è andare a votare», si sfoga in piazza del Popolo. «Dobbiamo dire chiaro a tutti che a Roma c´è una coalizione di centrodestra, una candidata, un Pdl che mi sostiene e si impegna sulla civica, candidati nel mio listino che rappresentano il Pdl e che, votando me saranno eletti consiglieri». Perciò: «Polverini contro tutti!», urla alla fine, facendo sorridere Isabella Rauti, ormai diventata la sua ombra. «Ora noi del listino dovremo moltiplicarci per tre, per quattro, coprire gli spazi lasciati vuoti dai 41 candidati del Pdl esclusi», sussurra la moglie del sindaco Alemanno. Il manifesto dell´ultimo scampolo di campagna elettorale.

Repubblica Roma 15.3.10
Presentati i candidati radicali. "Chi vuole può votarmi anche due volte"
Emma sulle liste del Pdl escluse "Le regole non si aggiustano in corsa"
di Carlo Picozza

«CHI vuole potrà votarmi due volte, come candidata-presidente e come prima della lista Bonino-Pannella nelle province di Roma, Frosinone, Latina». Emma Bonino, con il segretario dei Radicali italiani, Mario Staderini, ha presentato le donne e gli uomini di sua fiducia per il governo del Lazio, la sua «lista di riferimento». Lo ha fatto con l´occhio rivolto ai ripetuti no, ultimo quello della Corte d´appello, due giorni fa, alla richiesta del Pdl di veder riammessa la lista per le elezioni regionali di fine mese: «Non me ne rallegro» ha ripetuto «ma le leggi non possono essere sovvertite, le regole non si aggiustano in corsa in base a esigenze particolari».
I candidati della "Bonino-Pannella" indossavano quasi tutti una sciarpa gialla, colore simbolo della campagna elettorale: «Per me», ha detto la donna scelta dal centrosinistra per la presidenza della Regione, «rappresentano il punto fermo di tante battaglie». «Sono grata a partiti e liste che mi sostengono», ha precisato, «ma è indubbio che questa è la mia lista di riferimento: mi sentirei rassicurata se al mio fianco avessi un gruppo di radicali cocciuti e preparati». Perché, ha spiegato, «dietro a ogni nome c´è un patrimonio di resistenza e di idee che ha segnato il nostro Paese». Staderini aveva già indicato qualcuno dei 41 della lista provinciale di Roma che, dalle associazioni dell´universo radicale, si calano ora nell´agone elettorale: da Edda Billi a Mina Welbi, da Rocco Berardo a Diego Sabatinelli.
Sono stati tratteggiate anche le priorità del programma: la riforma del sistema elettorale sul modello americano, con collegi uninominali; un´authority per il trasporto pubblico e «l´opportunità di ricorrere ai referendum senza il vincolo del quorum». «Sui 19 miliardi del bilancio regionale, 12 vanno alla Sanità», ha detto Bonino. «Guai a fare promesse, occorrono idee chiare e impegno per far quadrare i conti senza penalizzare l´assistenza ai cittadini, soprattutto ai più deboli. E ogni azione sarà animata dal metodo della legalità e della trasparenza».

l’Unità 14.3.10
Nuove rivelazioni del settimanale Spiegel sullo scandalo pedofilia
La difesa del Vaticano «Cercano invano di coinvolgere il Papa»
Ex-corista stuprato: Georg Ratzinger era collerico. Ci tirò sedie addosso
Nuove rivelazioni su violenze sessuali nel convitto di Ratisbona sino al 1992, quando il coro era diretto dal fratello di papa Ratzinger. Il Vaticano: cercano invano di coinvolgere il pontefice.
di Gabriel Bertinetto

Si erano tenuti tutto dentro per anni e anni. Finalmente trovano il coraggio di parlare. La confessione dell’uno comunica all’altro la forza di raccontare ciò che, forse per vergogna, aveva cercato di occultare in fondo alla memoria. Tra gli ultimi a denunciare gli abusi sessuali in istituti religiosi è un ex-corista di Ratisbona, Thomas Mayer. Il settimanale tedesco Spiegel pubblicherà domani i particolari di una vicenda destinata a suscitare ulteriore imbarazzo in casa Ratzinger. Perché le rivelazioni riguardano violenze subite dai cosiddetti «Passeri del duomo di Ratisbona» nel periodo in cui il fratello di Benedetto XVI, Georg, dirigeva il coro. Sostiene Mayer che nel convitto dei «Passeri» abusi e violenze si sono protratti almeno fino al 1992, anno in cui lui se ne andò. All’epoca, e ancora sino al 1994, il coro era diretto da Georg Ratzinger, che sinora si è sempre difeso dicendo di non avere saputo nulla dei quegli episodi. Mayer lo ricorda come persona «estremamente collerica e irascibile», capace di scagliare sedie contro i cantori rei di stonature o errori di tempo. Una volta si imbestialì a tal punto, che gli cadde di bocca la dentiera.
SISTEMA TOTALITARIO
Ma accadeva ben di peggio in quello che avrebbe dovuto essere un luogo di preghiera e di educazione. Mayer afferma di essere stato violentato da colleghi più grandi. Lui come tanti altri. C’era un prefetto, uno dei presunti istruttori, che prestava la sua casa agli stupratori. Secondo Mayer ci sono dirette responsabilità di coloro che gestivano la struttura, perché i più grandi avrebbero esteso ai minori «la pressione di un sistema totalitario».
E mentre altri casi di pedofilia vengono scoperti anche in Austria (al convitto di Fuegen tra il 1970 ed il 1976, e nella sede dei Piccoli cantori di Vienna durante gli anni sessanta), il Vaticano in questi giorni è particolarmente impegnato a fare muro attorno alla figura del Papa, come se fosse in atto un tentativo di infangarne la dignità religiosa. Padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa della Santa Sede, parla di «un certo accanimento» alla ricerca di «elementi per coinvolgere personalmente il Santo Padre nelle questioni degli abusi». Sforzi «falliti» secondo Lombardi. L’Osservatore Romano rivendica alla Chiesa, «a dispetto dell'immagine deformata con cui la si vuole rappresentare», di essere «l'istituzione che ha deciso di condurre la battaglia più chiara contro gli abusi sessuali a danno dei minori partendo dal suo interno». Monsignor Scicluna in un’intervista informa che la Congregazione per la dottrina della fede, di cui fa parte, ha indagato dal 2001 su tremila casi di presunti abusi, accertando che 300 erano «atti di vera e propria pedofilia». Troppi, dice Scicluna, «ma il fenomeno non è così esteso come si vorrebbe far credere».

Repubblica 14.3.10
Pedofilia, altri casi in Svizzera "A Ratisbona abusi fino al ´92"
Il Vaticano: volevano coinvolgere il Papa ma hanno fallito
Nelle diocesi elvetiche si indaga su sessanta presunte vittime di sacerdoti
di Orazio La Rocca

CITTÀ DEL VATICANO Lo scandalo dei preti pedofili continua a scuotere la Chiesa cattolica. Dopo gli Usa, l´Irlanda, l´Olanda e la Germania, notizie di nuovi casi di violenze sessuali su minori ora arrivano anche dalla Svizzera, dove i giornali di ieri hanno rivelato che nelle diocesi elvetiche si sta indagando su una sessantina di presunte vittime di preti pedofili, sui quali le autorità ecclesiali assicurano che «faranno chiarezza». Mentre nella stessa Germania oltre a nuovi presunti casi di abusi denunziati ancora ieri dalla stampa nella Bassa Sassonia risalenti agli anni ‘50 e ‘60 tornano ad accendersi i riflettori sullo storico coro di Ratisbona diretto dal 1964 al 1994 da monsignor Georg Ratzinger, fratello maggiore di Benedetto XVI. Secondo il settimanale Der Spiegel nel coro gli abusi sarebbero durati fin al 1992 e, secondo un ex allievo, il maestro Ratzinger era solito usare «maniere forti» durante le lezioni. Altra notizia-shock che va a lambire la figura dell´attuale pontefice già tirato indirettamente in ballo dalla rivelazione di un caso di omesso controllo su un sacerdote pedofilo accolto nel 1980 nella diocesi di Monaco retta dall´allora arcivescovo Joseph Ratzinger. Una vicenda emersa lo stesso giorno in cui in Vaticano il Papa ha ricevuto il presidente della Conferenza episcopale tedesca, l´arcivescovo Robert Zollitsch, per pianificare gli interventi per sradicare la pedofilia nelle chiese locali.
Sul caso di Monaco, però, in Vaticano non sembrano preoccupati. «È stato tutto chiarito ha detto il portavoce papale, padre Federico Lombardi la curia di Monaco ha ammesso che la responsabilità di non aver controllato adeguatamente un sacerdote accolto in diocesi per essere curato fu tutta dell´ex vicario episcopale, non del vescovo». «È piuttosto evidente ha poi commentato padre Lombardi alla Radio Vaticana che negli ultimi giorni vi è chi ha cercato, con un certo accanimento, a Regensburg e a Monaco, elementi per coinvolgere il Santo Padre nelle questioni degli abusi». Ma «per ogni osservatore obiettivo è chiaro che questi sforzi sono falliti», assicura il portavoce pontificio, secondo il quale «nonostante la tempesta, la Chiesa vede bene il cammino da seguire, sotto la guida sicura del Santo Padre». Su questo aspetto interviene anche l´Osservatore Romano, che pubblica un commento sullo «scandalo degli abusi sessuali sui minori» intitolato "Il rigore di Benedetto XVI contro la sporcizia nella Chiesa", evocando significativamente l´analoga severa espressione con cui nel commento alla Via Crucis della Pasqua 2005 scritta dall´allora cardinale Ratzinger per condannare gli scandali consumati da sacerdoti, preti e religiosi.

Repubblica 14.3.10
Clima pesante di sfiducia nella cattolica Baviera dopo la denuncia di casi di abusi. "Noi fedeli aspettiamo una parola chiara dal Papa"
Nella Monaco di Ratzinger sotto shock "Chi porterà più i nostri figli in chiesa?"
È qui l´epicentro della crisi e la gente ora ha paura "Le vittime non vengono difese"
di Andrea Tarquini

MONACO Sulla Maximilianstrasse delle boutiques di Vuitton e Versace i bavaresi bene passeggiano eleganti come ogni sabato. Famiglie e coppiette, catenine d´oro col crocifisso o la Madonna al collo delle signore e dei bambini ancora abbronzato dalle ferie invernali. Alla messa di domenica mattina mancano poche ore. Tutto sembra come prima, finché non ascolti confidenze e mormorii: cosa dirà il nostro parroco domani? Perché alla Frauenkirche non officerà monsignor Reinhard Marx, il nostro arcivescovo? Monaco, il giorno dopo: la ricca Baviera, il bastione bianco tedesco, la cattolica, conservatrice patria di papa Benedetto, è raggelata dallo shock, sente come una pugnalata lacerante la perdita delle certezze. È qui, nella Monaco opulenta e cristiana, l´epicentro della crisi della Chiesa, e quasi come nella povera, caotica Mosca della perestrojka e dell´autunno dell´Urss, nessuno sa più di sicuro cosa porterà il domani.
«Un prete pedofilo nella nostra Chiesa bavarese, che cosa sapeva allora l´attuale Papa?». Sparata a caratteri cubitali in ogni edicola e sul sito, la domanda del quotidiano popolare Abendzeitung fa male, pesa come un macigno. Nelle parrocchie non si parla d´altro, mi dice Christian Weisner, leader di "Wir sind Kirche", cioè "La Chiesa siamo noi", i cattolici del dissenso. Le giovani, eleganti mamme di Schwabing, che portano la prole a messa con i giganteschi Suv Bmw, e le timide contadine nei villaggi della Baviera profonda, sono unite come mai prima. Unite dalla paura per i figli: la tradizione, la dolce certezza della parrocchia o della scuola religiosa, fino a ieri certezza d´un secondo calore umano familiare per i bimbi, diventa paura, angoscia, incubo. L´incubo di consegnare i bambini al maligno, «di vederli finire come Cappuccetto rosso in bocca al lupo», mi confida una passante.
Qui i nervi sono al calor bianco, e le parole di padre Lombardi non bastano a calmare gli animi dei fedeli. «Stiamo vivendo un incubo», dice Alois Glueck, e sa di cosa parla. Lui, cavallo di razza della Csu, il partito-Stato cattolico che governa la Baviera da mezzo secolo, è su tutte le furie. «Continuano a pensare a difendere prima di tutto la reputazione della Chiesa anziché preoccuparsi di difendere le vittime. Se si continua così la crisi della Chiesa come istituzione diverrà davvero grave». E aggiunge: «È ora di preoccuparsi di come il personale ecclesiastico viene selezionato e scelto».
Clima pesante, tra sussurri e grida dei fedeli e silenzi della Chiesa ufficiale, qui nella cattolica Baviera. Per il bastione bianco del Mitteleuropa è un´atmosfera di crisi interiore senza precedenti, la prima nella Storia: vacilla un sistema di valori e di potere. «Noi fedeli ci aspettiamo una parola chiara del Papa, non bastano le scuse della Conferenza episcopale», protesta Wesiner, il leader dei cattolici del dissenso. Mathias Drobinski, il prudente, preciso commentatore della Sueddeutsche Zeitung, rinuncia alle mezze parole: «Restano domande aperte, le risposte sono urgenti, e può fornirle solo Papa Benedetto, dovrebbe rispondere, in nome della chiarezza e della verità, non per farsi mettere alla berlina». Ma girando tra le parrocchie, chiacchierando coi fedeli, ascolti testimonianze agghiaccianti. «Io ho conosciuto, per caso, quel prete pedofilo, che fu riaccolto nella Chiesa in Baviera, e ricominciò ad abusare di minori», mi dice un laico impegnatissimo in una comunità di base, che vuole restare anonimo. «Le sembrerà strano, ma era un sacerdote amatissimo, popolare, simpatico, adorato da bambini, ragazzi e famiglie. Spesso, spessissimo, i sacerdoti con tendenze pedofile sanno come farsi amare».
"L´abate H", come viene chiamato il prete pedofilo a lungo protetto dai silenzi, esercita ancora il sacerdozio. Soprattutto per i turisti, «ma gli capita ancora di organizzare messe per i giovani». La gente qui si chiede atterrita se sia un caso isolato o una punta dell´Iceberg. Certo è che fu difeso. Anche contro la sua prima vittima, Wilfried F., di Essen, che a 11 anni fu costretto da lui a praticargli sesso orale. Wilfried, adulto, saputo che il suo torturatore era ancora prete, gli scrisse due anni fa una e-mail anonima. Ricordò la violenza subita e chiese scuse e un risarcimento, magari morale. Gli rispose l´arcivescovado di Monaco. Poi lo denunciò per ricatti. Non dal prete violentatore, bensì a casa di Wilfried la vittima bussò la polizia. «Volevano costringermi a tacere, poi l´inchiesta su di me passò agli atti per mancanza di prove, ma quel prete dice ancora messa».

Repubblica 14.3.10
Sono gli stessi sacerdoti a raccontare vecchie storie di abusi, chiedendo che riaffiori la verità
Denunce e richieste di risarcimento ora la Santa Sede teme il fronte italiano
di Marco Ansaldo

Un libro scritto da un sacerdote anonimo raccoglie gli ultimi esposti alle procure
Papa Ratzinger ha esortato la Chiesa alla trasparenza, ma il Vaticano è preoccupato

CITTÀ DEL VATICANO Forse era inevitabile. Di certo se l´aspettavano tutti, anche in Vaticano. Ma che lo scandalo dei preti pedofili arrivasse prima o poi anche in Italia sembrava più che un´ipotesi. Era una preoccupazione latente. Ora, una certezza, visto che le prime denunce sono già partite. Dopo i casi scoppiati negli Stati Uniti nel 2002, quelli in Brasile del 2005, le condanne in Australia nel 2008, il rapporto Murphy sugli abusi in Irlanda nel 2009, e le recentissime inchieste avviate nel 2010 in Germania, Austria e Olanda, la Santa Sede dovrà prepararsi per un nuovo fronte.
Non è stato infatti un caso se, solo pochi giorni fa, la diocesi di Bolzano e Bressanone, colpita dall´eco dello sconcerto provocato nella vicina area di lingua tedesca, ha indicato sul proprio sito un indirizzo e-mail al quale le vittime possono fare segnalazioni. Un´azione preventiva, avviata dal vescovo Karl Golser, nel segno della trasparenza totale raccomandata da Papa Ratzinger. Già l´altro ieri un altoatesino si è fatto avanti, raccontando al giornale Tageszeitung gli abusi subiti da ragazzo, negli Anni sessanta, da cinque frati durante un soggiorno estivo in un convento di Bolzano. Violenze avvenute «nei vigneti, in cantina e in stanza». Subito dopo è stata la volta di un ex studente di un collegio di Novacella, nei pressi di Bressanone, che ha denunciato anche frustate.
A Firenze è poi tornata alla ribalta ieri la vicenda di don Lelio Cantini, il prete colpevole di abusi sessuali contro minori compiuti fra il 1973 e l´87, da parroco della Chiesa "Regina della pace". Dopo lunghe vicende processuali, nel 2008 Cantini fu ridotto da Benedetto XVI allo stato laicale. Ora le sue vittime imputano alle autorità ecclesiastiche la «mancata consapevolezza delle loro responsabilità». Dice Francesco Aspettati, a nome di tutti: «Troppo facile offrire la testa del pedofilo di turno senza affrontare il vero problema: perché, quando abbiamo chiesto di essere ascoltati, la Chiesa ci ha prima intimato il silenzio, accusato di accanimento, e poi minacciato e invitato a dimenticare?».
Altre storie riemergono, descritte in dettaglio nel libro "Il peccato nascosto" (editore Nutrimenti, curato da Luigi Irdi) in uscita mercoledì. L´autore, che si firma come Anonimo sigla che comprende il contributo di più mani fra cui quella di un sacerdote che ha preferito non comparire in prima persona raccoglie le tante denunce arrivate di recente in varie Procure d´Italia. C´è la vicenda di un gruppo di bambine di un paese vicino a Cento, diocesi di Ferrara, abusate da don Andrea Agostini, condannato nel 2008 a 6 anni e 10 mesi di reclusione, e al risarcimento di 28mila euro. Il loro avvocato, Claudia Colombo, aveva anche scritto al cardinale di Bologna, Carlo Caffarra, chiedendo una presa di responsabilità della curia locale. Nel dispositivo della sentenza i giudici di primo grado hanno denunciato «il silenzio dei vertici ecclesiastici e la loro ritrosia a mettere sul tappeto le notizie sulle accuse che già da tempo circolavano».
Un altro caso descritto è quello di una parrocchia alla periferia nord di Roma, dove don Ruggero Conti, parroco della Natività di Maria Santissima, è stato processato nel febbraio 2008 al palazzo di giustizia di Roma per abusi sessuali nei confronti di sette ragazzi che hanno testimoniato le violenze al pubblico ministero Francesco Scavo.
Ma, fra i tanti, il caso forse più atroce è quello di Alice, una bambina di 8 anni di Bolzano, per un lungo periodo violentata, filmata, abusata con il messale in mano dall´educatore al quale i genitori l´avevano affidata per insegnarle il catechismo. L´accusato, don Giorgio Carli, affrontati tutti i gradi di giudizio per accuse che risalgono agli anni Ottanta e sempre condannato il 19 marzo 2009 viene «assolto» dalla terza sessione penale della Cassazione che dichiara quei reati prescritti per effetto della legge ex Cirielli. La sentenza, pur confermando l´autenticità dei fatti, può contemplare solo la condanna al risarcimento. Peraltro mai giunto.
Il Vaticano, che conosce molti dei casi, appare preoccupato. Non solo per una questione di immagine. Ma anche perché l´apertura del fronte italiano significherebbe l´avvio di cause di risarcimento di cui difficilmente le sole diocesi potrebbero farsi carico. La Curia teme questo rischio. In alcuni casi sono addirittura i sacerdoti a denunciare storie ormai sepolte, con documentazioni e dossier. Chiedono loro stessi trasparenza, perché la verità, dopo tanti anni, finalmente riaffiori.

Repubblica 14.3.10
La chiesa e l´educazione
di Chiara Saraceno

L´entità della diffusione dell´abuso sessuale su bambini da parte di sacerdoti mina la stessa legittimazione della Chiesa cattolica come garante della educazione dei più piccoli. Proprio la diffusione del fenomeno, unita al fatto che ne sono stati protagonisti religiosi ad ogni livello gerarchico e che, quando non vi è stata copertura colpevole, vi è stata mancanza di vigilanza, cecità rispetto a tutti gli indizi, mancato ascolto dei segnali mandati dalle vittime, non consente di nascondersi dietro l´abusata affermazione che poche mele marce non possono inficiare la missione educativa della Chiesa. Ne sa qualche cosa la Chiesa cattolica irlandese, che ha subito un crollo verticale di fiducia dopo che è stato rivelato il mondo di violenza, abusi, sopraffazioni che si nascondevano dietro molte delle sue istituzioni per bambini e ragazzi/e. Piuttosto vale il contrario: non bastano molti bravissimi e generosi educatori a legittimare la superiorità educativa sul piano morale attribuita alla Chiesa.
Non può valere per gli uomini (e le donne) di chiesa, il principio della doppia morale, in base al quale è il ruolo, non il comportamento individuale, che conta. Lo ha dichiarato con nettezza la (ex) vescova luterana Kauffman, che, con un gesto di grande responsabilità e rispetto per l´istituzione che rappresentava, si è dimessa dalla propria carica dopo aver commesso una infrazione infinitamente meno grave (guida in stato di ubriachezza) e dannosa di quella imputata a centinaia di sacerdoti (e qualche vescovo) cattolici. A chi, dentro e fuori la sua Chiesa, le chiedeva di restare ha risposto che, per la sua coscienza, rimanere avrebbe significato indebolire non solo la carica che deteneva e la chiesa che guidava, ma lo stesso messaggio etico-religioso.
L´impossibilità della doppia morale è tanto più evidente quando coinvolge – e stravolge – il rapporto educativo. Nei casi di violenza, e ancor più di abuso sessuale, è tradito proprio il rapporto fiduciario che è alla base di ogni rapporto educativo. Il soggetto principe di questo rapporto, il bambino, è violato nel corpo, nei sentimenti, nella sua percezione di sé e del proprio posto nel mondo. A questi bambini e ragazzi è stata sottratta la possibilità di sviluppare rapporti di fiducia negli adulti – negli educatori, ma anche nei genitori, che a quegli educatori li avevano affidati. Ne portano l´incancellabile, gravissima responsabilità non solo coloro che hanno compiuto gli abusi, ma anche coloro che li hanno nascosti o sottovalutati, o non sono stati capaci di vederli e di difenderne le vittime. Giustamente, ancorché troppo tardivamente e in alcuni casi obtorto collo, la Chiesa ha chiesto pubblicamente scusa.
Ma chiedere scusa non basta. Non solo perché non c´è riparazione possibile per il danno gravissimo subito dalle vittime. Ma perché non sembra che si sia ancora neppure iniziato a mettere a fuoco le ragioni delle troppe «mele marce» o «persone disturbate» (per usare le parole del vescovo di Ratisbona) tra i religiosi nelle istituzioni educative cattoliche. Non credo che la causa vada cercata solo nell´obbligo del celibato, o nella posizione esclusivamente ancillare delle donne nella Chiesa cattolica. Pedofili e maltrattatori di bambini si trovano anche tra le persone sposate. E, come ha testimoniato la vicenda irlandese, anche gli istituti retti da religiose possono diventare luoghi di abuso. Piuttosto la causa va cercata nelle concezioni della sessualità, del ruolo della donna, della famiglia, che motivano sia il celibato sia l´esclusione delle donne dal sacerdozio. Il matrimonio è sempre visto come remedium concupiscientiae, un male minore rispetto ad una sessualità cui non si riconosce senso e valore umano, salvo che a scopi procreativi. Il corpo della donna è sempre potenzialmente impuro, rischioso e da sottoporre a controllo, sia come luogo del desiderio (maschile) che come strumento della procreazione. La famiglia è insieme necessaria (sempre a scopi riproduttivi). Ma avere una famiglia e generare figli è visto come un vincolo alla disponibilità all´altruismo. Non a caso, papa Wojtyla nel suo documento sull´amore umano, con una torsione concettuale tanto suggestiva quanto rivelatrice della tensione tutta irrisolta della Chiesa nei confronti della sessualità, scrisse che la verginità è il culmine della sessualità, perché consente una generatività che va oltre quella biologica.
Fino a che la Chiesa cattolica non avrà affrontato la questione del posto della sessualità nel suo concetto di persona umana, difficilmente riuscirà a contenere il ripresentarsi non occasionale dei fenomeni di abusi sessuali. Nel frattempo, sarebbe opportuna maggiore cautela e autocritica nel presentarsi come magistra vitae e nel dare lezioni sulla «buona sessualità», la «buona famiglia» e la «giusta identità di genere».

L’Osservatore Romano 14.3.10
Lo scandalo degli abusi sessuali sui minori
Il rigore di Benedetto XVI contro la sporcizia nella Chiesa
di Giuseppe Versaldi
Vescovo di Alessandria, Ordinario emerito di diritto canonico e psicologia alla Pontificia Università Gregoriana

Qualche precisazione è opportuna a proposito degli abusi sessuali sui minori che in passato sono stati compiuti da appartenenti al clero cattolico e che ora, specialmente in alcuni Paesi, stanno venendo alla luce con grande evidenza su molti media. Innanzitutto, va ribadita la condanna senza riserve di questi gravissimi delitti che ripugnano alla coscienza di chiunque. Se poi questi crimini vengono compiuti da persone che rivestono un ruolo nella Chiesa - persone nelle quali viene riposta una speciale fiducia da parte dei fedeli e particolarmente dei bambini - allora lo scandalo diventa ancora più grave ed esecrabile. Giustamente la Chiesa non intende tollerare alcuna incertezza circa la condanna del delitto e l'allontanamento dal ministero di chi risulta essersi macchiato di tanta infamia, insieme alla giusta riparazione verso le vittime. 
Ribadita questa posizione, va però sottolineato un accanimento nei confronti della Chiesa cattolica, quasi fosse l'istituzione dove con più frequenza si compiono tali abusi. Per amore della verità bisogna dire che il numero dei preti colpevoli di questi abusi è in America del nord, dove si è registrato il maggior numero di casi, molto ridotto ed è ancora minore in Europa. Se questo ridimensiona quantitativamente il fenomeno, non attenua in alcun modo la sua condanna né la lotta per estirparlo, in quanto il sacerdozio esige che vi accedano soltanto persone umanamente e spiritualmente mature. Anche un solo caso di abuso da parte di un prete sarebbe inaccettabile. 
Tuttavia, non si può non rilevare che l'immagine negativa attribuita alla Chiesa cattolica a causa di questi delitti appare esagerata. C'è poi chi imputa al celibato dei sacerdoti cattolici la causa dei comportamenti devianti, mentre è accertato che non esiste alcun nesso di causalità: innanzitutto, perché è noto che gli abusi sessuali su minori sono più diffusi tra i laici e gli sposati che non tra il clero celibatario; in secondo luogo, i dati delle ricerche evidenziano che i preti colpevoli di abusi già non osservavano il celibato. 
Ma è ancora più rilevante sottolineare che la Chiesa cattolica - a dispetto dell'immagine deformata con cui la si vuole rappresentare - è l'istituzione che ha deciso di condurre la battaglia più chiara contro gli abusi sessuali a danno dei minori partendo dal suo interno. E qui bisogna dare atto a Benedetto XVI di avere impresso un impulso decisivo a questa lotta, grazie anche alla sua ultraventennale esperienza come prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Non va infatti dimenticato che proprio da quell'osservatorio il cardinale Ratzinger ha avuto la possibilità di seguire i casi di abusi sessuali che venivano denunciati e ha favorito una riforma anche legislativa più rigorosa in materia. 
Ora, come supremo pastore della Chiesa, il Papa mantiene anche in questo campo - ma non solo - uno stile di governo che mira alla purificazione della Chiesa, eliminando la "sporcizia" che vi si annida. Benedetto XVI si dimostra, dunque, un pastore vigilante sul suo gregge, a dispetto dell'immagine falsata di uno studioso dedito soltanto a scrivere libri il quale delegherebbe ad altri il governo della Chiesa, secondo uno stereotipo che qualcuno, purtroppo anche all'interno della gerarchia cattolica, vorrebbe accreditare. È grazie al maggiore rigore del Papa che diverse conferenze episcopali stanno facendo luce sui casi di abusi sessuali, collaborando anche con le autorità civili per rendere giustizia alle vittime. 
Appare dunque paradossale rappresentare la Chiesa quasi fosse la responsabile degli abusi sui minori ed è ingeneroso non riconoscere a essa, e specialmente a Benedetto XVI, il merito di una battaglia aperta e decisa ai delitti commessi da suoi preti. Con l'aggiunta di un altro paradosso: quando la Chiesa saggiamente stabilisce norme più severe per prevenire l'accesso al sacerdozio di persone immature in campo sessuale, in genere viene attaccata e criticata da quella stessa parte che la vorrebbe principale responsabile degli abusi sui minori. La linea rigorosa e chiara assunta dalla Santa Sede deve invece essere recepita nella Chiesa - e non solo - per garantire la verità, la giustizia e la carità verso tutti.

Repubblica 15.3.10
"Io, vittima di un prete a 12 anni ora il Papa esca dall’ambiguità”
Germania, parla Benedikt: segnato dalla pedofilia
di Andrea Tarquini

"L´uomo mi toccò e mi strinse a sé Fu un incubo ma la Chiesa mi disse di tacere"

MONACO - «Avevo 12 anni, quando padre Peter Kramer mi fece tirar giù i pantaloni. Dalla Chiesa, dal Papa soprattutto, aspetto solo parole chiare, non ambiguità e silenzi». Benedikt T. oggi ha 23 anni. A Monaco, la capitale bavarese che è epicentro della crisi scatenata nella Chiesa cattolica tedesca dagli scandali degli abusi su minorenni nelle istituzioni cattoliche, ascoltiamo il suo racconto. Mentre l´autodifesa della Santa Sede con le dichiarazioni di Padre Lombardi non sono servite ad attenuare il trauma della società tedesca per le rivelazioni sempre più numerose, né a restituire credibilità al cattolicesimo.
Signor Benedikt, cosa le accadde?
«La mia famiglia era molto credente, io ero chierichetto, per me la Chiesa era fiducia e calore umano. Accadde in una festa di Pasqua in parrocchia a Viechtach, vicino Ratisbona, in Baviera, dove vivevamo. Festa gioiosa, noi bambini andammo poi a giocare al piano di sopra. Poi restammo io, mio fratello, mia sorella, i miei genitori. Chiedemmo che un adulto giocasse con noi. Venne padre Peter Kramer. Ci disse "giochiamo ad acchiapparella". Aggiunse: "Chi acchiappo sarà mio". Lui acchiappò mia sorella ma si vedeva che le bambine non lo attiravano. Poi prese mio fratello. Lo strinse a sé, lo toccò. Ci inquietammo, ma mio fratello aveva solo 9 anni, non lo eccitava tanto. Poi Padre Kramer disse "giochiamo a nascondino". Chiese ai miei fratelli di nascondersi, mi disse "noi dovremo trovarli, ora vieni con me nella stanza accanto". Andai, fidandomi».
Cosa successe nell´altra stanza?
«Il prete – lo ricordo ancora, 39 anni che sembravano di più, massiccio, uno strano odore addosso - mi disse: "Sei nella pubertà, devi imparare. Non dire mai nulla a papà e mamma". Ero sotto shock, incapace di difendermi. Feci tutto quello che diceva. Mi disse di togliermi i pantaloni, mi toccò nelle parti intime. Mi chiese se avevo già avuto eiaculazioni. "Voglio solo educarti", insisteva. Mi strinse da dietro. Non mi violentò, ma fu una sensazione tremenda. E dall´altra stanza mia sorella e mio fratello gridavano».
E poi?
«Uscimmo dalla stanza, i miei fratelli e io quasi singhiozzando corremmo giù da mamma e papà. "Andiamo subito a casa", dicemmo loro. Mamma e papà erano preoccupati. Io volevo tacere, mi vergognavo. Volevo fare una doccia, sentivo ancora sul mio corpo l´abbraccio e l´odore del prete. Esplosi in una crisi nervosa e di pianto, narrai tutto. I miei genitori chiesero un incontro col padre superiore. Fu loro proposto, e loro accettarono, di firmare un´intesa confidenziale. In cambio del silenzio avrebbero avuto assistenza psicologica per me e per tutti, un risarcimento di 5000 marchi, e l´impegno a trasferire padre Kramer. L´incubo non mi lasciò mai. Mio padre finì in terapia, i miei divorziarono. Io poi cominciai a fumare marijuana tentando di dimenticare. Quel prete fu trasferito a Riekhofen con l´accordo del vescovo di Ratisbona, Mueller. I dossier sul mio caso all´episcopato sparirono, i fedeli di Riekhofen non furono informati. Là egli fu recidivo, e la giustizia lo condannò a tre anni con la condizionale per abusi gravi in 22 casi, in almeno un caso con stupro pedofilo. Ma la chiesa non lo espulse».
Cioè?
«A Riekhofen lo avevano accolto con entusiasmo, "è così gentile", dicevano. Formò gruppi con giovani, organizzò un viaggio a Roma. Sempre solo con ragazzi, mai ragazze nel gruppo. Da noi si fece vivo intanto il vicario generale Gegenfurtner, ci assicurò che Kramer non avrebbe avuto più contatti con bambini. Poi circolarono voci anche sul vicario. Intanto la storia era divenuta pubblica. Per me fu come rivivere l´abuso. Ci fecero capire che preferivano che non parlassimo in pubblico».
Come reagiste?
«Io dal 2007 cominciai a raccontare la mia storia. Fu una liberazione, mi affrancai dai sensi di colpa. Oggi sono ancora in terapia. Studio, ho una fidanzata, con lei va tutto bene. Ma quando vado a una toilette pubblica non ce la faccio mai ad andare agli orinatoi dove sono altri uomini accanto a me. E vorrei sentire dal Papa in persona parole chiare, per noi vittime. Altrimenti dove finiscono i valori della Chiesa in cui credevo, prima che quel sacerdote distruggesse la mia infanzia e la mia gioventù?»

l’Unità 14.3.10
Accuse americane a Israele Netanyahu sotto shock
La risposta del gabinetto di sicurezza alle critiche di Clinton: una commissione d’inchiesta
Per il Wall Street Journal Obama «livido» per l’annuncio di nuove case a Gerusalemme Est
di Umberto De Giovannangeli

Per il Wall Street Journal il presidente Usa sarebbe «livido» per il trattamento riservato al suo vice Biden accolto in Israele con l’annuncio di nuove case a Gerusalemme Est. Netanyahu colpito dalle critiche Usa.

Hillary non molla la presa. E in una intervista alla Cnn torna sulla decisione del governo israeliano di costruire nuovi insediamenti per coloni nel quartiere di Ramat Shlomo, a Gerusalemme Est: secondo la segretaria di Stato Usa «l’annuncio, proprio nel giorno della visita del vice-presidente Joe Biden, è stato un insulto». Alla Cnn, Hillary Clinton ribadisce che
la relazione con lo Stato ebraico è «durevole, forte, radicata in valori comuni», ma aggiunge anche che «è necessario mettere in chiaro con i nostri amici e alleati israeliani che la soluzione dei due Stati che appoggiamo e che il primo ministro Benjamin Netanyahu afferma di appoggiare richiede azioni che creino uno spirito di fiducia da entrambe le parti».
Secondo fonti dell’amministrazione Usa citate dal Wall Street Journal il presidente Barack Obama sarebbe «livido» per il trattamento riservato al suo vice Joe Biden a Gerusalemme. Secondo queste fonti la rabbia di Obama sarebbe tra le ragioni per cui Hillary Clinton ha telefonato al premier israeliano Benyamin Netanyahu l’altro ieri per avvertirlo, in 45 minuti di teso colloquio che gli
Stati Uniti si aspettano di più da Israele in materia di processo di pace. L’Autorità nazionale palestinese (Anp) si è rallegrata oggi per le severe critiche che la segretaria di Stato Usa il Quartetto e gran parte della comunità internazionale hanno rivolto a Israele dopo l’annuncio del suo molto controverso piano di espansione di edilizia ebraica a Gerusalemme Est. «L’Autorità palestinese – afferma il capo negoziatore palestinese Saeb Erekat si rallegra delle dichiarazioni di Hillary Clinton e del comunicato del Quartetto in cui si denuncia la decisione del governo di costruire colonie (ebraiche) nella parte orientale di Gerusalemme», che per i palestinesi dovrà divenire capitale del loro futuro Stato. I palestinesi, aggiunge Erekat, insistono tuttavia a chiedere che Israe-
le annulli tutte le decisioni prese concernenti l’espansione dei suoi insediamenti in Cisgiordania e a Gerusalemme Est e che inoltre cessi una politica che «è inutile e dannosa» per il processo di pace.
BIBI TRAMORTITO
Ma è in serata che arriva la reazione più attesa. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu riunisce i ministri che formano il gabinetto politico militare per decidere la risposta da dare alle severe critiche della segretaria di Stato Usa. «Sono rimasto sorpreso, scioccato dalle accuse (americane)... Ero convinto che le scuse rivolte al vice presidente (Biden) fossero più che sufficienti» si lascia andare Netanyahu. Il clima è pesante. C’è chi vorrebbe una risposta durissima agli «insulti (della Clinton...)».
Chi pretende che sia chiarito «una volta per tutte» che Israele non accetta alcuna imposizione su Gerusalemme. Netanyahu veste i panni del «pompiere». Ma fa fatica a spegnere l’incendio. La riunione si protrae nella notte, la bozza di comunicato presentata dal premier è giudicata troppo «arrendevole» dai falchi del governo. Il rischio di una rottura con la componente più oltranzista dell’esecutivo prende corpo. Tra i più convinti sostenitori della linea dura si distingue il ministro degli Esteri Avigdor Lieberman. Forse in cerca di sostegno Netanayhu aveva telefonato
La decisione in nottata
Il premier «chiede» che certi episodi non si verifichino più in giornata a due leader che ritiene amici fidati per uno scambio di idee: al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e alla cancelliera tedesca Angela Merkel. In nottata, Netanyahu ordina un'inchiesta per capire le motivazioni dell'annuncio dei nuovi insediamenti proprio durante la visita del vice-presidente Usa, chiedendo la creazione di una Commissione che unirà i direttori dei ministeri ed esaminerà ciò che è successo. Il Comitato dovrà assicurare che incidenti di questo tipo non si ripetano più.

l’Unità 14.3.10
«Non si può fidare del premier israeliano. Obama lo ha capito»
A colloquio con i politologi americani Mearsheimer e Walt: «Lo scontro Usa-Israele non è un incidente di percorso A rischio è il nuovo inizio di Barack con arabi e musulmani»
di U. D. G.

Non si tratta di un incidente di percorso né di una crisi contingente. Gli oltranzisti che governano Israele stanno mettendo in discussione gli interessi dell’America nell’intera area mediorientale. Obama ha compreso di non potersi fidare di Netanyahu». La considerazione è del professor John J.Mearsheimer, docente di Scienza della politica all’Università di Chicago, dove dirige il programma di politica della sicurezza internazionale. Assieme a Stephen M.Walt, l’altro nostro interlocutore, Mearsheimer è autore di un saggio che ha scatenato dibattito e polemiche negli Usa e nel mondo: «La Israel Lobby e la politica estera americana» (Mondadori). «L’amministrazione Obama – riflette Mearsheimer – ha dovuto prendere atto che il “Nuovo inizio” vagheggiato nel rapporto tra l’Occidente e il mondo arabo e musulmano rischia di infrangersi contro il fondamentalismo nazionalista e religioso che ispira le forze che oggi detengono il potere in Israele».
Le parole di Mearsheimer trovano riscontro in quanto rivelato nei giorni scorsi dal giornale israeliano Maariv secondo cui il presidente Obama ha reagito «con collera» nell’apprendere che durante la visita di Biden il ministero israeliano dell’Edilizia ha annunciato la estensione di un rione ebraico a Gerusalemme Est. Un episodio che ha messo in forse la ripresa di negoziati indiretti fra Israele e Anp, a cui la diplomazia statunitense ha lavorato per mesi. Secondo il giornale, funzionari statunitensi hanno affermato che «Israele ha così pugnalato Obama alla schiena». Il giornale afferma inoltre che «se finora Obama prendeva con un grano di sale le dichiarazioni del premier Benyamin Netanyahu, adesso semplicemente non crede più ad alcuna sua parola» Anche alla luce di questa crisi annunciata, alcuni analisti americani chiedono a Obama di adottare una strategia di «offshore balancing» (bilanciamento dall’esterno) nell’area mediorienatele.
A sostenerlo è M.Walt, ordinario di Relazioni internazionali alla John F.Kennedy School of Government presso l’Università di Harvard, coautore del discusso saggio sulla lobby israeliana in America: «Trattare Israele come un Paese normale», osserva Walt, «significa innanzitutto smettere di fingere che gli interessi americani e quelli israeliani siano coincidenti e non agire più come se Israele meritasse, indipendentemente da quello che fa, un appoggio comunque incondizionato, che altri non meritano. Se Israele agirà in modi che per gli Stati Uniti sono positivi e desiderabili, godrà del sostegno americano; se non lo farà, si dovrà aspettare le critiche e l’opposizione degli Stati Uniti, Proprio come qualsiasi altra nazione». E se Israele rimanesse ostile alla costituzione di un vero e proprio Stato palestinese – o se cercasse di imporre un’ingiusta soluzione unilaterale – Obama, riflette ancora il professor Walt, dovrebbe «eliminare ogni forma di sostegno economico e militare allo Stato ebraico». E dovrebbe farlo «non allo scopo di arrecare un danno a Israele, ma nella consapevolezza che per gli Stati Uniti l’occupazione rappresenta un problema ed è contraria ai valori politici americani. Coerentemente con il proprio ruolo di equilibratore esterno, gli Stati Uniti agirebbero soltanto sulla base del proprio interesse, anziché aderire ciecamente a un’alleanza con un partner che non perde occasione per dimostrarsi un partner poco collaborativo». D’altro canto, «i sostenitori americani di Israele»prosegue il professor Walt, che dal 2002 al 2006 ha diretto la Kennedy School, «devono riconoscere che negare ai palestinesi legittimi diritti politici non ha reso Israele più sicuro; e chi ha condotto con maggiore determinazione attività di lobby per ottenere l’appoggio incondizionato degli Stati Uniti, alla fine non ha fatto altro che alimentare l’estremismo israeliano e palestinese, infliggendo senza volere un danno proprio al Paese che intendeva difendere». Ed è sulla base di queste considerazioni che Obama, afferma a sua volta il professor Mearsheimer, «dovrebbe mettere Israele di fronte a una scelta: porre termine all’autolesionistica occupazione della Cisgiordania e all’assedio della Striscia di Gaza e rimanere uno stretto alleato dell’America oppure restare una potenza coloniale che gli Stati Uniti dovrebbero trattare nello stesso modo in cui hanno trattato le altre democrazie coloniali». «La soluzione del conflitto (israelo-palestinese) e l’adozione di una modalità più normale di relazione con Israele – aggiunge Mearsheimer – aiuterebbe gli Stati Uniti a ricostruirsi una immagine positiva presso il mondo islamico e a mettersi in una posizione dalla quale possano più credibilmente incoraggiare le riforme così necessarie nella regione». «La sopravvivenza di Israele conclude Walt – è uno degli interessi degli Usa in questa regione nevralgica del mondo – ma la sua presenza nei Territori occupati non lo è. Prenderne atto fino in fondo, anche a livello di opinione pubblica, incoraggerebbe l’amministrazione Obama a perseguire politiche più in sintonia con il proprio interesse nazionale, con gli interessi degli altri Stati della regione e, ne sono fermamente convinto, anche con l’interesse di Israele».

Repubblica Roma 14.3.10
Rossini: "A Roma sono felice"
E compose il Barbiere di Siviglia


Due impresari del teatro Valle lo ingaggiano per un´opera nuova
In via dei Leutari in un paio di settimane creò uno dei capolavori dello spirito umano

Pur così breve di lunghezza, via dei Leutari, tra via del Governo Vecchio e corso Rinascimento, trasuda letteralmente di memorie storiche, leggende, ricordi sospesi fra la realtà e il mito. Basta sfogliare la fondamentale enciclopedia sulle «Strade di Roma» di Claudio Rendina per farsene un´idea. Al civico n.23 c´è l´antico palazzo Peretti, dove abitò Sisto V prima di essere eletto papa, e dove visse col primo marito (un nipote del futuro papa Sisto) Vittoria Accoramboni, bella ed infelice protagonista, in pieno Cinquecento, di una fosca vicenda di passioni e di sangue, che ispirò il genio del grande Stendhal. Ma si dice che anche un´altra donna famosa e sfortunata sia vissuta in questa strada: Maria Bibbiena, la fidanzata di Raffaello, che l´avrebbe fatta morire di dolore. Nel 1553, proprio qui a via dei Leutari riemerse dal sottosuolo la colossale statua di Pompeo che oggi si ammira a Palazzo Spada.
Sobria ed elegante nell´espressione, la targa che commemora la residenza del giovane Gioacchino Rossini in questa strada così affollata di memorie risale al 1872. Non celebra solo il grande artista, ma assieme a lui un suo capolavoro in particolare. Questo è il testo: «Abitando questa casa/Gioacchino Rossini/trovò le armonie sempre nuove/del Barbiere di Siviglia». L´estensore di questo testo era, senza dubbio, una persona intelligente. Quando i fatti e le persone ricordati sono di per sé eccezionali, diventano inutili le formule retoriche e gli aggettivi roboanti. Che in una stanza di Palazzo Paglierini siano state inventate le arie, i duetti, e gli altri brani tutti più o meno celebri di un´opera come «Il barbiere di Siviglia» basta e avanza a infondere a questo luogo l´atmosfera degli eventi memorabili. Rossini era arrivato a Roma nel novembre del 1815. Aveva ventitré anni ed era già famosissimo. Dalla Francia alla Russia, i teatri replicavano continuamente opere come «L´Italiana in Algeri» e «Il Turco in Italia».
Rossini arrivava a Roma da Napoli. Il suo impresario, il celebre Barbaja, gli concedeva delle periodiche licenze, durante le quali il musicista poteva accettare lavori da altri teatri, attingendo al pozzo, in apparenza inesauribile, del suo talento. «Sono felice in Roma», scrive Rossini alla madre pochi giorni dopo l´arrivo. Ma non è una piazza facile. Due impresari del teatro Valle lo ingaggiano per un´opera nuova, mentre ancora va in scena «Il Turco in Italia», con enorme successo. Ogni sera, Rossini viene chiamato sul palco del Valle almeno tre volte a ricevere gli applausi dei romani entusiasti, che non avevano mai ascoltato nulla di simile in precedenza. Ma anche se i romani sono «fanatici» della sua musica (o della sua «Porca Musica», come scrive con orgoglio ai genitori), la nuova opera per il Valle, «Torvaldo e Dorliska», va in scena il 26 dicembre senza troppo successo.
Poco male: il teatro è una macchina insaziabile, e non tutte le opere possono avere la stessa fortuna. A volte, ciò che non va bene in una città trionfa in un´altra. Come Rossini imparerà ben presto, le sorti di un´opera possono addirittura cambiare da una sera all´altra. Il carattere del pubblico romano è più imprevedibile di un felino in gabbia. Mentre al Valle la nuova opera stenta a conquistarsi gli applausi, a poche decine di metri, sul palco dell´Argentina, trionfa «L´Italiana in Algeri», anche grazie alla voce di soprano di Gertrude Righetti Giorgi. Ed è per l´Argentina che Rossini sta preparando il «Barbiere di Siviglia». Tratto dalla vecchia commedia di Beaumarchais, l´autore tanto amato anche da Mozart, il libretto dello Sterbini, sottoposto alla sospettosa censura pontificia, non destò sospetti. Rossini, in un paio di settimane, ci imbastì sopra uno dei capolavori assoluti dello spirito umano. Si può non amare l´opera, stentare a capirla, rimanerne annoiati: ma il «Barbiere» conquista tutti, dai melomani più fanatici agli ascoltatori più distratti e restii. E´ una musica che stupisce, trascina, commuove.
E´ un inno all´amore più puro e assoluto, ma anche un elogio della furbizia umana, incarnata da Figaro. E´ uno di quei rarissimi capolavori capaci di rivelare nuovi segreti ogni volta che lo si ascolta. Chi non vorrebbe amare una donna come Rosina, mite ed obbediente, eppure pronta a trasformarsi in «vipera» se qualcuno prova a separarla dal suo amato conte d´Almaviva? E chi non vorrebbe avere un amico fidato e capace di tutto come Figaro? Il baritono Luigi Zamboni, che divideva con Rossini l´appartamento di via de´ Lautari, sarebbe stato il primo a interpretare la parte. Ma la sera della prima, il 20 febbraio del 1816, all´Argentina i fischi prevalevano decisamente sulla musica. Alla fine, si dovette abbassare il sipario in tutta fretta. Cosa era successo? Cosa aveva allentato così bruscamente i legami che univano Rossini al pubblico romano? Fiumi d´inchiostro sono stati versati per spiegare i motivi di questo clamoroso fiasco. Forse un eccesso di novità urta le aspettative anche più rosee; forse cantanti e orchestra si rivelarono inadeguati; forse Rossini fu vittima di una delle innumerevoli congiure teatrali del suo tempo. Ma ancora più interessante, in questa vicenda, è la brusca inversione di tendenza, che si realizza a partire dalla seconda replica. Dopo i fischi, il trionfo. Sono lezioni che un artista non può dimenticare. E se Rossini tornerà altre volte a Roma (circa un anno dopo, al Valle debutterà la Cenerentola), è questo primo soggiorno che di sicuro si stampò in maniera indelebile nella sua memoria. In una pagina del suoi «Ricordi», Massimo d´Azeglio ci descrive il grande musicista una sera di Carnevale, che suona la chitarra travestito da donna, chiedendo l´elemosina per una compagnia di finti ciechi. Ad accompagnarlo nella bravata, anche lui vestito da donna, c´è un certo Paganini. Davvero, non c´è immagine più autentica e ricca di senso di questa, per fare da emblema alle avventure romane del grande Rossini.

Repubblica Roma 14.3.10
Marta Agerich
"Al piano, i suoni della mia terra"
di Leonetta Bentivoglio

I tanghi di Piazzolla e Luis Bacalov Melodie ipernote come La Cumparsita ma anche il raro e prezioso Scaramouche di Milhaud
L´artista argentina è ospite dell´Accademia di Santa Cecilia stasera e mercoledì 17. Un programma che mescola brani popolari e colti ma con radici folk

«Amo suonare il pianoforte ma non essere pianista», confessa Martha Argerich. È un paradosso che può dirci molto sul suo anticonformismo. Interprete tra le più celebrate del nostro tempo, Martha affronta la tastiera con una naturalezza tale da cullarci nell´illusione di una musica che sgorga sotto le sue dita. Ma col suo spirito ribelle e la sua originalità spiccata, è un´artista che sfugge a delimitazioni dentro un ruolo, persino quello di pianista. Intensamente fisica nel rapporto con lo strumento, è sempre stata estranea alle apparenze più diffuse in una pratica notoriamente disciplinata e rigida.
Con la sua vasta chioma da zingara e i suoi gonnoni fuori dalle mode, spicca per diversità rispetto agli altri grandi concertisti: mai che si proponga come l´officiante di un culto misterioso, oppure come l´eroina di una missione che esige strenui sacrifici. In lei niente è lontano o sofferto, tutto è vivido e passionale. Suonando emana un contagioso senso di libertà; e accanto ai suoi complici musicali (da anni si sottrae all´isolamento del recital solistico), comunica l´entusiasmo travolgente della condivisione. Quest´affrancarsi dalle regole non vuol dire che la Argerich non conti su una tecnica eccelsa. Però la trascende: nella sua esattezza non c´è il minimo sospetto di meccanicismo, e l´eleganza dello stile rifiuta vezzi ornamentali. La sua presenza calda e affascinante sembra pulsare all´unisono con gli universi musicali con cui entra in relazione.
Martha è a Roma per due concerti, su invito di Santa Cecilia al Parco della Musica, uno stasera e l´altro mercoledì. Non offrirà il classico repertorio che l´ha resa illustre nel mondo (personalissimo il suo Beethoven, insuperabile il suo Ravel, avvincente il suo Prokofiev), bensì un´esplorazione dell´Argentina e dintorni (è nata a Buenos Aires nel ‘41) assieme ad un ensemble di ottimi amici musicisti. Figurano in scaletta gloriosi brani popolari e pezzi "colti" (ma con radici nel folclore), composizioni di Ginastera e Gustavino e tanghi di Piazzolla e di Luis Bacalov (che suonerà con lei mercoledì), melodie leggendarie come La Cumparsita ma anche il raro Scaramouche di Milhaud, siglato dal piglio di una rovente Brazileira. Partecipano tra gli altri i pianisti Alberto Portugheis ed Eduard Hubert. Il grande Nestor Marconi fa piangere e cantare il suo bandoneon.