mercoledì 24 marzo 2010

il Fatto 24.3.10
Omissioni e abusi di nostra madre chiesa
Un viaggio attraverso gli scandali che stanno investendo il Vaticano e che, dall’Irlanda agli Stati Uniti, non risparmiano certo l’Italia
di Vania Lucia Gaito

IL CORAGGIO DI PARLARE
MI CHIAMO MARCO MARCHESE. Sono stato abusato per quattro anni, da quando ne avevo dodici. Ero in seminario, pensavo di avere la vocazione”. Cominciò così, diretto, chiaro. Secco come uno schiaffo. “All’epoca abitavo a Favara, vicino ad Agrigento. Sono nato in Germania, poi quando avevo otto anni ci siamo trasferiti in Sicilia. Volevo diventare prete, almeno lo credevo. Sicché entrai in seminario: fu lì che accadde. All’epoca don Bruno era un assistente, un diacono. Divenne prete l’anno successivo. Mi legai fortemente a lui: sembrava una persona affettuosa, e io mi trovavo fuori di casa ed ero piccolo. Mi circondava di attenzioni. Il seminario, sa, è un po’ come un collegio: si mangia lì, si dorme lì. Andavamo a trovare la famiglia una volta alla settimana, spesso ogni due. Inserirsi è difficile, e trovarsi accanto una persona che si mostra amichevole, affettuosa, fa sentire meno soli”. Parlando, cincischiava con il tovagliolo di carta, un tormento gli mangiava le dita, guardava il piattino, la tazzina, il tavolo. Poi mi posò addosso il suo sguardo malinconico. “Accadde una domenica pomeriggio. Era dicembre, e fuori pioveva. In genere, nei pomeriggi di domenica, si giocava a calcetto nel cortile del seminario. Invece quella volta don Bruno venne da me e mi invitò nella sua camera a riposare. Accadeva spesso che noi ragazzi entrassimo nelle camere degli assistenti. Magari per fare due chiacchiere. Invece quel pomeriggio lui mi spogliò, mi baciò, e poi... poi abusò di me”. Per un attimo la voce vacillò, sembrò sul punto di rompersi, ma riprese. Con lentezza, in un rievocare che dava ancora dolore. “Dopo lui andò in bagno. Quando tornò mi chiese solo: ‘Ti sei sporcato?’. Mi diceva di non preoccuparmi, che non c’era nulla di male. La nostra era solo un’amicizia, un’amicizia particolare, ecco. Così mi diceva. E io gli credevo. Non avevo mai avuto esperienze sessuali, e gli credevo. Mi diceva che era normale, che era giusto. Mi diceva anche che non dovevo dirlo a nessuno, perché avrei suscitato invidie, gelosie. E io non lo dissi a nessuno. Neanche quando l’abuso si ripeté. E poi si ripeté ancora, e ancora. Soprattutto quando pioveva. Veniva a chiamarmi e io andavo da lui”. Sul suo volto fiorì un sorriso amaro, una smorfia alla propria ingenuità di un tempo. “Del resto, io mi ero convinto che la nostra fosse un’amicizia ‘divina’, come diceva lui. Era un uomo di Dio: con lui pregavo, mi fidavo. Ciecamente”.
“E poi? Che cos’è accaduto?” “Dopo un anno, lui divenne prete e lasciò il seminario. Però i nostri rapporti divennero ancora più stretti, perché divenne il mio padrino di cresima. Così, nei fine settimana che avevo a disposizione e durante le vacanze, andavo a trovarlo nella sua parrocchia. E accadeva anche lì. In sacrestia. A casa sua. Nel pomeriggio. Anche la sera, se restavo a dormire. Per quattro anni”. [...] Alla fine in tribunale non ci erano arrivati. La trasmissione [Mi manda Raitre del 15 dicembre 2006, ndr] aveva sollevato un grosso scalpore, l’avvocato della Curia aveva saputo attirare perfino le antipatie dei cattolici più accesi. Il vescovo aveva dovuto fare marcia indietro e ritirare la richiesta di danni. Anzi, fece di tutto per evitare il processo civile. Don Bruno firmò un accordo con il quale riconosceva ogni responsabilità e si impegnava a corrispondere a Marco un risarcimento per i danni morali. “Si trattava di cinquantamila euro”. Le mani adesso riposavano tranquille sul tavolo, accanto alla tazzina. “Li ho impiegati per sovvenzionare la mia associazione. Si chiama Mobilitazione Sociale. Ci occupiamo soprattutto di ascoltare e aiutare i bambini vittime di abusi”. Per la prima volta sorrise davvero. Un sorriso aperto, giovane, fiducioso. Durò solo un attimo. “C’è talmente tanto da fare, e se ne sa così poco. Il mio non è un caso isolato. Anzi. Le associazioni contro la pedofilia ricevono migliaia di telefonate, di e-mail, di segnalazioni. Non ci sono solo io. La maggior parte delle vittime non ha il coraggio di denunciare. Subisce e tace. Nonostante i dolori dentro, nonostante gli incubi, i malesseri, il desiderio di morire”. Il sole era scomparso dietro le case, il cielo scuriva, e in via dell’Orologio si accendevano i lampioni. Nell’aria tiepida della sera, la gente sciamava verso i locali, i bar, i ristoranti. Per i vicoli rimbalzavano richiami, chiacchiere, risate. Le donne avevano vestiti leggeri che ondeggiavano intorno alle gambe, tacchi che si impigliavano tra le “balate”, sorrisi come lampi di bianco. Gli uomini profumavano di dopobarba e lanciavano occhiate alle ragazze. Sembrava una serata qualunque. Il viaggio nel silenzio era appena incominciato.
DON GELMINI: “SCHERZI DA PRETE”
“Non mi hanno creduto nemmeno quando per loro facevo il corrispondente lì in Bosnia. La mia strada e quella di don Pierino si sono incrociate molte volte. In un certo momento della mia vita sono finito a vivere in un borgo della Sabina, Castel di Tora, dove il ‘Don’ aveva messo su una comunità spirituale. C’era un numero ristretto di ragazzi, tutti piuttosto avvenenti, ma ben poco spirituali. Andavano di nascosto a comprar vino e alcolici in paese. Con un paio di loro feci amicizia, entrai in confidenza. Mi confermarono quello che già sapevo. Monsignor Giovanni d’Ercole, funzionario del Vaticano con il quale ero in rapporti per via del mio lavoro, lo sapeva. L’avevo informato anni fa su don Pierino: gli avevo detto tutto, che adescava i ragazzi, che molti anni prima aveva adescato anche me assieme a un amico, e che ora era accusato dai suoi ragazzi di molestie sessuali. Padre Federico Lombardi, all’epoca direttore dei servizi giornalistici di Radio Vaticana, lo sapeva. Durante un’accesa discussione glielo dissi in faccia chi erano e cosa erano stati certi preti per me, gli dissi di don Pierino e di come l’avevo conosciuto, non batté ciglio. Poco dopo gli mandai una lettera. Lo informai fino ai dettagli: manco mi rispose. Scrissi anche alla Procura di Terni, ho fatto un esposto senza firmarmi. Mia madre era ancora viva, avevo due figli piccoli. Lottavo nella totale solitudine, e poi avevo paura che mi accusassero di smania di protagonismo. Ma lo sapevano tutti. Uno di quelli che sapevano era il vescovo di Terni, monsignor Gualdrini. E poi lo dissi al segretario della Cei, che mi attaccò il telefono in faccia. Lo dissi a monsignor Salvatore Boccaccio al tempo vescovo di Poggio Mirteto e ora di Frosinone, telefonai a don Ciotti: era perplesso, mi disse di avere le mani legate”. “Ho un dubbio atroce, Bruno. Se lo sapevano tutti, com’è stato possibile che lasciassero centinaia di ragazzi inermi nelle mani di qualcuno che avrebbe potuto approfittarsi della loro debolezza, del loro bisogno di aiuto, del loro bisogno di protezione?”. Mi guardò con amarezza, si passò una mano irruvidita in mezzo ai capelli grigi, a pettinare i pensieri. “Lo sapevano perché io lo avevo detto, e non ero mica il solo. I ragazzi della comunità lo sapevano tutti. Chi non ci stava veniva allontanato, oppure se ne andava da solo. Nessuno si è mai preso la briga di vedere cosa succedeva in queste comunità”. [...]
Di quella giornata, un ospite mi raccontò: “Il più bel regalo di compleanno, ottant’anni ieri, don Pierino Gelmini l’ha avuto da Silvio Berlusconi: dieci miliardi di vecchie lire. Il più bel regalo, senza compleanno, Berlusconi lo ha avuto da don Gelmini, sempre ieri, che ha ordinato di accoglierlo con un canto di ‘Alleluja’ a tutto volume. Ovunque entrasse il premier, prima nella sala mensa e poi nell’auditorium della ‘Comunità Incontro’, veniva preceduto dalle note gloriose riservate, in Chiesa, a onorare il Signore. Un incontro di due ego travolgenti quello di ieri ad Amelia, nella struttura per il recupero dei tossicodipendenti nata nel 1979. Don Gelmini che spiegava al premier: ‘Preferirei essere Papa che capo del governo’. Berlusconi che gli diceva, dopo avere visto i preti, destinati alla successione da don Pierino, inginocchiarsi e promettergli fedeltà: ‘Mi hai dato un’idea, quasi quasi chiamo i miei ministri azzurri e li faccio inginocchiare davanti a me...’. Una festa-show con Gigi D’Alessio che cantava la sua nuova canzone Non c’è vita da buttare dedicata ai ragazzi persi e che salutava Berlusconi con un ‘salve collega’. Amedeo Minghi che dedicava un videoclip a don Pierino. Ad Amelia, per omaggiare questo fenomenale prete, ‘esarca’ precisa lui, che a ottant’anni ha una vitalità e un’energia travolgenti, sono arrivati in tanti a iniziare dal capo del comitato dei festeggiamenti, il ministro delle Telecomunicazioni Maurizio Gasparri. C’erano anche il ministro Rocco Buttiglione, il ministro Lunardi, Gustavo Selva, una sfilata di sottosegretari. Della prima Repubblica c’era l’ex ministro De Lorenzo che sembrava avere una missione: parlare con Berlusconi. E quando c’è riuscito, l’ha baciato, anche. A rappresentare l’opposizione, la presidente della Regione Maria Rita Lorenzetti, che nel salutare il padrone di casa, seduto nell’auditorium in prima fila vicino a Berlusconi, gli ha riconosciuto il grande impegno nella lotta contro la droga, ma ha anche detto: ‘Non siamo d’accordo su molte cose’. Non c’era il fratello di don Pierino, padre Eligio stava male. Una giornata lunga, iniziata di mattina presto nello studio privato di don Pierino dove sono arrivati in tanti a salutarlo, molti genitori di ragazzi salvati dalla comunità. Un padre è entrato piangendo, con una busta da lettera in mano piena di soldi da offrire a colui che aveva ridato la vita a suo figlio. ‘Era rinato qui dentro, purtroppo poi fuori non ce l’ha fatta’. Don Pierino ha preso la busta e lo ha abbracciato. ‘Suo figlio era un cantautore’, ha spiegato poi. A mezzogiorno tutti a messa. Don Pierino è entrato tra due ali di sacerdoti, seguito dal cardinale Jorge Maria Mejia. Mischiato tra i concelebranti c’era anche Alessandro Meluzzi, ex deputato azzurro, psichiatra fino a qualche giorno fa impegnato a commentare in tv gli irrecuperabili de L’Isola dei famosi, e adesso qui, in comunità di recupero, in un angolo di Umbria, con il saio da frate e la croce indosso. Nelle pause del serrato programma, Rocco Buttiglione ha parlato della sua prossima terza prova da nonno, la figlia partorirà ad agosto, e ha rivelato di aver cambiato idea su quale sia la vera vocazione della donna: ‘Credevo che fosse essere mamma. A un certo punto ho anche pensato che potesse essere suocera. Adesso che vedo mia moglie con i nipoti ho capito che la vera vocazione è quella di essere nonna. Un ruolo che la ringiovanisce di vent’anni’. Come sempre, era difficile capire se scherzava o diceva sul serio”.
IL CASO AMERICANO
A Boston cominciò così. In sordina, senza troppo rumore. L’avvocato che mise la prima pietra aveva un nome armeno, difficile da pronunciare: si chiamava Mitchell Garabedian, e non era mai stato uno di quegli avvocati inseguiti dai giornalisti all’uscita dell’aula di dibattimento. Si era laureato all’Università statale, si era sempre occupato di piccoli casi. Insomma, uno sconosciuto. Uno fra i tanti avvocati di Boston. Gli piaceva il suo lavoro; certe mattine arrivava in ufficio prestissimo e andava avanti a lavorare fino a tarda sera. Era il 1994 quando un uomo era entrato nel suo studio, s’era seduto di fronte alla vecchia scrivania, e gli aveva parlato di padre Geoghan. Mitch non lo sapeva, ma quell’incontro avrebbe segnato la sua vita. “Ero un ragazzino normale” raccontò l’uomo all’avvocato, “andavo bene a scuola e mi piaceva lo sport. Facevo anche parte di una squadra. Non avevo neanche dodici anni, ma mi dicevano che ero un bravo atleta. I miei genitori erano orgogliosi di me. Poi arrivò lui. I miei si fidavano, lo consideravano quasi una persona di famiglia: lo invitavano a cena, a qualche partita di bridge, ai compleanni. Spesso, dopo cena, mi portava fuori a prendere un gelato, a fare un giro in macchina. Nessuno ha mai saputo che mi facesse quelle cose. Non lo dissi neppure a mia madre, a mio padre. Per loro, padre Geoghan era un buon amico, un amico di tutta la famiglia. Come potevo dirgli che mi faceva quelle cose? Stavo male. Riuscivo a fare solo questo: star male. Certi giorni non andavo nemmeno a scuola, agli allenamenti. Lasciai la squadra. E cominciai a bere. Ero solo un bambino, Dio mio, ero solo un bambino”.
GLI INTOCCABILI LEGIONARI DI CRISTO
Il potere della Legione di Cristo all’interno della Chiesa è tale che Lennon, uno degli accusatori di Maciel, parlando dei rapporti tra quest’ultimo e il Vaticano, affermò: “Maciel è intoccabile. Ha lavorato con molti Papi, conosce i procedimenti interni, conosce vescovi, conosce cardinali, conosce quelli che hanno realmente il potere, e li conosce bene, molto bene”. Alejandro Espinosa, nel libro El prodigioso ilusionista, il seguito di El legionario, avanza sospetti e ipotesi inquietanti sulla vita del fondatore dei Legionari di Cristo. Già in El legionario, Espinosa aveva fatto riferimento alle “morti provvidenziali” di alcuni nemici di Maciel, ma è soprattutto nel suo secondo libro che le ipotesi si fanno dettagliate. Espinosa parte dagli anni giovanili del sacerdote, dai tempi in cui frequentava il seminario retto da suo zio, il vescovo Rafael Guizar y Valencia, e sostiene che si siano verificate circostanze quanto meno singolari, coincidenze preoccupanti. Sembra che lo stesso giorno della sua morte, il vescovo avesse avuto un’accalorata discussione con Marcial Maciel, e avesse decretato la sua espulsione per mancanza di attitudine allo studio, per mancanza di spirito di sacrificio e di vocazione al sacerdozio, oltre che per avere saputo dei suoi approcci sessuali nei confronti di seminaristi più giovani. Pare sia arrivato perfino a dire che se avesse proseguito il cammino verso l’ordinazione si sarebbe 198 Viaggio nel silenzio esposto alla dannazione eterna. Rafael Guizar y Valencia morì poche ore dopo. Un dettagliato resoconto sulla sua morte, racconta che fu impossibile coricarlo nel letto e dovettero lasciarlo steso al suolo, spiegando che volle giacere lì “come san Francesco”. A dodici anni dalla morte, le spoglie del vescovo furono riesumate per essere trasportate dal cimitero di Xalapa alla Cattedrale: aprendo la bara, il corpo fu trovato integro, ma i suoi capelli bianchi erano diventati rossicci. Espinosa sostiene che Maciel possa aver avvelenato lo zio con il cianuro, secondo alcune confessioni che lo stesso Maciel gli avrebbe fatto quando Alejandro era stato in seminario, e la colorazione rossiccia dei capelli dovrebbe esserne testimonianza, così come l’impossibilità di trasportare il vescovo agonizzante nel letto, poiché le convulsioni e gli spasmi dell’avvelenamento sono tali da riuscire a fratturare la colonna vertebrale. Tuttavia, padre Rafael González Hernández, il sacerdote che si è occupato della canonizzazione del vescovo, smentisce assolutamente l’ipotesi di un omicidio: “Monsignore Guizar morì nel 1938 a causa di un’insufficienza cardiaca e di un attacco di diabete. Aveva sessant’anni ma era piuttosto malandato per aver speso la vita al servizio dei fedeli”. Espinosa prosegue con l’elenco delle morti “provvidenziali” tra quelli che disturbarono Maciel. Padre Francisco Orozco Yepes morì in strane circostanze, mentre viaggiava dall’Irlanda a Roma, dove aveva il fermo proposito di denunciare le perversioni di Marcial Maciel davanti alla Sacra Rota Romana. Non si sa che cosa o chi lo convinse ad abbandonare l’aereo allo scalo di Madrid, si sa solo che preferì affittare un’automobile all’aeroporto e fare migliaia di chilometri per raggiungere Roma, dove non arrivò mai.
Un vescovo del Messico, che si opponeva al riconoscimento canonico della Legione di Cristo, fu minacciato da Marcial Maciel durante una discussione, davanti a testimoni. Pochi giorni dopo, un camion investì l’automobile del vescovo: morirono due dei suoi quattro occupanti ma il prelato riuscì a uscirne indenne. Nello stesso mese, si verificò un secondo incidente con la stessa dinamica del precedente, questa volta con esito tragico per il vescovo. Anche la morte di Juan-Manuel Fernández Amenábar, come abbiamo visto, avvenne in circostanze singolari: soffocato da un pezzo di pollo mentre era in ospedale, dove si stava riprendendo da un ictus. Perfino Juan José Vaca temeva una reazione alla lettera che inviò a Maciel quando lasciò la Legione. Perciò quella lettera, nella quale gli rimproverava il danno irreparabile che gli aveva fatto e gliene domandava conto, conteneva un avvertimento: “Desiderando essere assolutamente sincero con lei, l’informo che l’originale di questo scritto, più altre undici copie, si trovano dentro buste sigillate, in un deposito inaccessibile agli indiscreti. Queste dodici buste recano già il nome e l’indirizzo dei destinatari – alte personalità della Chiesa e della società che, nel caso, conosceranno il loro contenuto – e immediatamente giungeranno nella mani dei destinatari, in due circostanze. La prima, nel caso in cui io muoia o sparisca inaspettatamente... “.

SILENZIO ASSORDANTE
Vania Lucia Gaito, psicologa, salernitana di origine, collabora dal 2006 con il blog di controinformazione “Bipensiero” sul quale, nel maggio 2007, ha trasmesso e sottotitolato il documentario della Bbc, “Sex crimes and Vatican”. Lo scoop del video, visto in Italia da oltre cinque milioni di persone, ha aiutato a uscire allo scoperto decine di vittime di abusi, le cui testimonianze sono in parte raccolte in “Viaggio nel silenzio”. “In quei giorni accadde anche qualcos’altro – scrive l’autrice –
Alla mia casella di posta arrivarono centinaia di e-mail. Di protesta, di ringraziamento, di rabbia, di indignazione. E in mezzo a tante, c’erano anche le lettere di chi aveva subìto abusi. Vergognandosi di ciò che avevano patito. Le leggevo e sapevo che non potevo ritirarmi adesso, non potevo gettare solo uno sguardo su quello che avevo visto, appena dietro la porta”.
“Viaggio nel silenzio”, edito nel 2008 da Chiarelettere, è stato ripubblicato di recente per i Tascabili degli Editori Associati.

Repubblica Roma 24.3.10
Regionali, quattro giorni per scegliere Bonino-Polverini all´ultimo voto
di Chiara Righetti

«Dice cose lunari». «Bufale io? Non so come si permetta». Si scalda fino a toni quasi da rissa, al femminile, il confronto tra Renata Polverini ed Emma Bonino. Ieri di nuovo faccia a faccia negli studi di Sky Tg 24, in arancio la prima, in grigio la seconda - ma con l´immancabile sciarpa gialla - le candidate sembrano averci preso gusto, tra occhi al cielo e smorife ad accompagnare l´una le dichiarazioni dell´altra, col conduttore nel ruolo di arbitro di secondi.
Inizia la candidata del centrosinistra: «In queste elezioni c´è una sproporzione di forze, con la discesa in campo del premier». Pronta replica dell´avversaria: «Per la prima lista della capitale esclusa, mi sembra rilevante». Bonino: «In un Paese normale un governo resta fuori». Polverini: «È un governo politico, non tecnico». «E ci mancherebbe! Le elezioni non sono un referendum sul governo, mi darei una regolata». Secondo round sul buco della sanità: quando Polverini assicura che non è sceso nell´era Marrazzo, Bonino alza gli occhi al cielo e prende dei documenti. Mossa vana: «Tira fuori tutte le carte che vuoi, ma il debito non si può accreditare al centrodestra: si trascina da prima». Quando poi è la vicepresidente del Senato a buttare là «per voi le istituzioni non contano mai, il questore non è credibile, la Corte dei Conti non è credibile» a scattare è l´ex sindacalista: «Non mi accreditare cose che non ho detto. Io sono Renata Polverini, parla con me».
Mentre fuori infuria il dibattito sul monito dei vescovi (e D´Ubaldo assicura che «il programma della Bonino rappresenta i cattolici, perciò il voto disgiunto non ha senso»), negli studi tv, almeno sulle prime, sembra prevalere il fair play: la Polverini si limita a osservare che «la Chiesa è una fonte talmente autorevole che non è possibile commentare, perché si rischia di strumentalizzare parole così alte». Ma quando Bonino ricorda che «l´aborto e la 194 non sono competenza regionale, e dovrebbe saperlo anche il "signor Bagnasco"», l´altra precisa a mezza bocca: «Monsignore!». Finché la candidata di centrodestra, sui titoli di coda, promette la stabilizzazione dei precari over 35, e la radicale sbotta in una risata: «Ma non si può fare! La finanziaria ha bloccato le stabilizzazioni... Certo che sei buffa tu, vuoi fare il contrario di quello che dice il tuo governo».
Intanto, ieri la Rete Liberal ha depositato il ricorso al Tar dopo il "no" di Montino al rinvio delle regionali. La lista di Sgarbi - riammessa a una settimana dal voto - chiede che le elezioni siano posticipate d´urgenza per avere una campagna elettorale più lunga, e l´annullamento dei risultati se la decisione di merito dovesse arrivare dopo le urne. L´udienza è fissata per domani, lo stesso giorno in cui è attesa la decisione sui ricorsi di altre liste escluse dalla competizione, dal Pli al Movimento sociale alla Lega Italia di Carlo Taormina: se fossero riammesse, uno slittamento sarebbe inevitabile.

Repubblica Roma 24.3.10
Bersani: siamo al fotofinish, ma vinciamo

«Ho fiducia: non dico che abbiamo vinto, perché siamo al pelo, ma dico che vinciamo». Parola di Pier Luigi Bersani. «Abbiamo un candidato forte - spiega il segretario del Pd - e cioè Emma Bonino: hanno cercato di inchiodarla su posizioni politiche particolari, ma lei può rappresentare una forte azione di governo. Invece Renata Polverini, che all´inizio sembrava una candidatura fresca, si è avvitata, e ora è prigioniera politica di uno schieramento regressivo». Insomma, «siamo prossimi a un risultato che era impensabile fino a poco tempo fa».

Libero 24.3.10
Un errore strategico criminalizzare Emma
di Maria Giovanna Maglie

Attenti, finisce che le arrivano i voti delle donne indecise, che si incazzano i laici moderati. Il voto di centro destra non è un esercito di soldati schierati contro l'aborto e il divorzio, entusiasti di accanimento terapeutico e terrorizzati dal testamento biologico. Non ho niente contro l'appello dei vescovi italiani, si rivolgono ai cattolici, ricordano loro i valori della fede, li mettono in guardia indirettamente dal rischio che astenersi significhi votare indirettamente nel Lazio per un candidato tanto esplicitamente radicale qual è Emma Bonino.
Ma una cosa è la Cei, un'altra dovrebbe essere il PdL, ovvero popolo delle libertà, o se preferite promotori delle libertà. E non c'è bisogno di essere neo finiani per sentirsi a disagio, basterebbe il ricordo di quando si era socialisti, e la conta dei socialisti ancora presenti nel governo e nella maggioranza; basterebbe essere agnostici, liberali senza vergogna. Faccio parte di una categoria di gente rispettosa, ma anche convinta che il divorzio sia un'istituzione profondamente radicata nella nostra società, che meglio separarsi che stare insieme odiandosi, stile guerra dei Roses. Siamo gente rispettosa, ma anche convinta che l'aborto, scelta dolorosa che ricade prevalentemente sulle donne, sia legge sancita da referendum popolare a furor di "no", nel senso di no all'abrogazione, da trentuno anni, e che il ricorso a questo metodo sia modesto per cifre e per fortuna in continuo calo.
Può succedere che a furia di presentarsi come il governo della famiglia si sortisca l'effetto opposto, che vademecum come quello appena varato al Senato, promotori Maurizio Gasparri e Rocco Buttiglione, sui tredici o giù di lì motivi per dire di no a Emma facciano scattare il vezzo, la tentazione contraria. Di motivi per non votare il candidato governatore del Lazio per il centro sinistra, dipietristi forcaioli e giustizialisti compresi nella santa alleanza, ce ne sono di molto seri. Emma Bonino, con Marco Pannella, ha difeso strenuamente la linea fiscale di Prodi e Visco, ci ha sommersi di tasse. Da ministro del governo Prodi ha votato la controriforma previdenziale grazie alla quale l'Italia è diventato l'unico Paese ad abbassare l'età pensionabile. Ci è costata dieci miliardi di euro, un terzo dei quali li ha trovati innalzando i contributi a carico dei lavoratori parasubordinati, cioè proprio quei precari sulla cui sorte e futuro la sinistra ci tortura. Sempre da ministro di Romano Prodi, la Bonino ha deciso di non utilizzare la moratoria possibile, al contrario di quanto hanno scelto di fare gli altri Paesi europei, e ha fatto accomodare immigrati bulgari e rumeni neo europei senza il minimo controllo, teorizzando la bontà del'`invasione, impalcandosi a paladina dell`antirazzismo di governo.
Sarà bene non votarla governatore, se possibile, anche se a suo tempo ha introdotto nell'Italia delle mammane e delle stragi per aborti clandestini, dei raschiamenti senza anestesia dei "cucchiai d'oro", un metodo, il Karman, l'aspirazione, che trasformò per tante l'incubo in un episodio doloroso più tollerabile. Ecco, quella era un'epoca, questa è un'altra, e lei allora aveva qualcosa in più da dire, oggi no. Oggi appartiene alla peggior politica di tattica senz'anima, di retorica bolsa, di politically correct noioso e nocivo. Sconfitta, statene certi, non farà il consigliere d'opposizione nel Lazio, si terrà la sua bella poltrona di Palazzo Madama.

Libero 24.3.10
Anche il Pd prega che la Polverini batta la Bonino
di Maurizio Belpietro

Bersani non lo ammetterà mai, ma anche a lui conviene che Emma Bonino perda. Non c'è solo Renata Polverini a tifare contro la candidata di sinistra nel Lazio. E non ci sono solo i vescovi, i quali l'altro ieri hanno ricordato che non bisogna votare per chi è favorevole all'aborto(pentendosi poi l'indomani, come usa fare in confessionale). 
No, a sperare che, nonostante gli aiutini dei giudici, l'esponente radicale non ce la faccia ci sono anche alcuni del Pd e probabilmente pure lo stesso segretario. La ragione è semplice e l'autolesionismo non c'entra per nulla, anzi, semmai è il contrario: candidare la seguace di Pannella è stato un puro gesto di masochismo da parte di Bersani, il quale forse è stato costretto dagli eventi e dalla carenza di alternative sottomano. Fatto sta che ora l'uomo venuto da Bettola rischia di trovarsi alla guida della Regione Lazio una signora invisa alla Chiesa al punto da spingere le gerarchie della Cei alla mobilitazione dell'elettorato cattolico. Che le sottane vaticane non gradissero era facilmente immaginabile, visto che nel passato dell'esponente della Rosa nel pugno c'è qualche aborto clandestino e il segretario del Pd non poteva non sapere. 
L'ostilità d'Oltretevere basterebbe per augurarsi che l'urna risolva la questione alla radice, rispedendo la Bonino da dove è venuta. Ma se ciò non fosse sufficiente, ci sono altre considerazioni che consigliano a Bersani di sperare nella sconfitta. 
Innanzitutto c'è l'aspetto giudiziario. Dopo aver rimproverato per una vita al Cavaliere i guai giudiziari, lamentando il fatto che il premier sfuggirebbe i processi che lo riguardano, se la Bonino fosse eletta il Pd si ritroverebbe un governatore che, inseguito per anni dalle Procure, l'ha fatta franca solo grazie all'immunità parlamentare. Difficile a questo punto continuare a dire no al lodo Alfano o ad altre guarentigie adatte a sottrarre i parlamentari all'invadenza dei pubblici 
ministeri. 
Ma l'argomento chiave è che se la candidata radicale venisse eletta per Bersani sarebbero guai. Già è costretto sulla difensiva dalle continue uscite di Antonio Di Pietro, l'alleato più scomodo che la sinistra abbia mai avuto, ma se ci fosse pure la Bonino, il povero Pier Luigi verrebbe messo all'angolo, dovendo fronteggiare anche le iniziative dei pannelliani, che in quanto a diritti del lavoro e altro sono assai distanti da quelle dell'ex partitone di Botteghe Oscure. Emma poi non sarebbe facile da ridurre al silenzio. Anzi: essendo più nota di tutti gli altri governatori di sinistra, dai Vasco Errani agli Enrico Rossi, ed essendo alla guida di una grande Regione rischierebbe di diventare un contraltare pericoloso più per il Pd che per il centrodestra. Diventerebbe insomma una sorta di vicesegretario o addirittura un altro segretario, alternativo a quello ufficiale. Non potendola controllare come fa con gli altri, Bersani sarebbe costretto a inseguirla tutte le volte che apre bocca e ciò che può dire la Bonino lo si è visto in campagna elettorale, dove non ha certo nascosto come la pensa su varie materie, aborto, biotestamento e famiglie allargate. 
Insomma, alla fine, c'è da credere che davvero Pier Luigi accenda un cero in chiesa ogni mattina, sperando che il 29 la Madonna faccia il miracolo di sconfiggere la madonna laica amata da Pannella. Altrimenti gli toccherebbe una novena, ma di penitenze.

l’Unità 24.3.10
Ma Polverini teme l’assist dei vescovi. “Sulla 194 perde”
di Susanna Turco

Persino Renata Polverini sa che non le conviene. Che cavalcare uno scontro laici-cattolici su aborto e altri cosiddetti valori non negoziabili rilanciati (salvo correzione di tiro) da monsignor Bagnasco è, di questi tempi, una lama a doppio taglio. Un'arma spuntata che finirebbe per alienarle più consensi di quanti non ne raccolga. «Portare la campagna elettorale su questo schema sarebbe politicamente sconveniente», spiega chi ha avuto modo di parlare con la ex leader sindacale. Sarebbe un boomerang, insomma. Un rischio più che un vantaggio: con buona pace per il duo Berlusconi-Ruini che ha tentato di riportare in auge il cosiddetto scontro tra laicisti e clericali.
Così, per il secondo giorno consecutivo, la candidata del Pdl alla guida della Regione Lazio ha preferito non cogliere lo spunto, lasciar cadere la palla alzatale (soprattutto in funzione anti Bonino) dalle gerarchie ecclesiastiche. «La Chiesa è una fonte talmente autorevole che non è possibile commentare quel che dice, perché si rischia di strumentalizzare parole così alte», si è limitata a spiegare ieri a Sky Tg24. Altrimenti tradotto, da chi ne conosce bene strategia e mosse: quella posizione c'è già la Chiesa a prenderla, influenzerà comunque quella fettina di voto cattolico che può, inutile e persino controproducente doppiarla.
Del resto, proprio seguendo questa filosofia, l'ex leader Ugl ha da tempo scelto una linea di buonsenso-destrorso-soft sui cosiddetti temi etici: proclamarsi genericamente a favore della vita e della famiglia; non dire mai cosa pensa personalmente della 194 salvo specificare - ieri - che «si tratta di una legge dello Stato» e che quindi «certamente Bagnasco non si riferiva a quella»; ribadire a ogni buon conto che lei si batte «in difesa delle donne». Il che, sia detto di sfuggita, va benissimo sia per chi voglia vedere nella Polverini una che si schiererebbe per non toccare la 194, sia per chi la immagina pronta a impedire la diffusione nella Regione Lazio della Ru486: in entrambi i casi «a difesa delle donne«, volendo.
Non c'era motivo dunque di sciupare questo profilo non divisivo («la mia parola chiave è normalità», è il suo mantra) per infilarsi in una diatriba sulla quale nemmeno Renato Mannheimer è disposto a scommettere. «Non credo che l'appello di Bagnasco sia determinante: l'elettorato cattolico è ormai molto frammentato», spiega infatti il presidente dell'Ispo. Un ragionamento che il finiano Benedetto Della Vedova cala nella politica: «Bisogna evitare il rischio di far passare tra gli elettori italiani l'idea che, se non la si pensa come il cardinal Bagnasco sull'aborto, non si può votare per il Pdl e i suoi candidati», dice.
Parole che la Polverini, se potesse, sottoscriverebbe in pieno. Che ci pensino i Gasparri e i Buttiglione, a stracciarsi le vesti pro valori non negoziabili: non è così che si può vincere, non ora e non qui.
Del resto, la sua valutazione coincide in più punti con le preoccupazioni espresse anche tra finiani e laici del Pdl. «Spingere la campagna elettorale verso lo scontro di civiltà finisce per ricompattare la sinistra», spiegano, «E bisogna anche stare attenti a non consegnare alla Bonino la palma dei diritti tout
court. Se alziamo una barricata e lasciamo intendere che chi non la pensa come i vescovi non è allineato, rischiamo di demotivare i nostri elettori». Peraltro, aggiungono, «ormai questo tipo di schema eccita soltanto tifoserie marginali: ma lo scontro laici-cattolici non sposta più nemmeno il voto delle suore»

Repubblica Roma 24.3.10
Forza Nuova tenta di ostacolare una manifestazione del Pd su resistenza e mafie
Piazza Vescovio, oltraggio ai partigiani "Bella ciao" contro i saluti romani
di Valeria Forgione

Canti fascisti e uno striscione degli ultras di destra. La polizia ha presidiato lo slargo Lo sdegno di Zingaretti: "Ritorno al passato violento"

Il coro di un gruppo di partigiani che canta "Bella ciao". E alcuni giovani militanti di Forza Nuova che rispondono intonando l´inno di Mameli con il braccio destro teso. Una piazza Vescovio, nel quartiere Salario, ieri divisa in due: da una parte il gazebo allestito per l´iniziativa promossa dal coordinamento per Emma Bonino del II Municipio, in concomitanza con la XV giornata della memoria in ricordo delle vittime delle mafie; dall´altra alcuni giovani militanti di Forza Nuova schierati nel giardinetto antistante che hanno srotolato lo striscione con la scritta: "Questa piazza non ti vuole". Ovunque camionette delle forze dell´ordine e al centro, a formare un cordone di sicurezza, tanti agenti in tenuta antisommossa.
L´appuntamento era fissato per le 16.30: un pomeriggio di commemorazione per ricordare le vittime della mafia dal titolo "Sì alla legalità e alla trasparenza con Emma presidente del Lazio". "Un comizio svolto in un posto sbagliato", secondo i militanti di Forza Nuova, che da anni si ritrovano nella piazza, dove a pochi metri si trova anche una sezione del partito. Volti minacciosi e mani in tasca, per tutta la durata dell´evento, dal giardinetto della piazza, i giovani di destra hanno continuato a fissare gli anziani partigiani. "È un´iniziativa che parla dei valori della Resistenza, come quelli dell´etica pubblica e della legalità e non potevano mancare i partigiani" , ha spiegato Massimo Rendina, presidente dell´Anpi. "Forza Nuova è rimasta agli anni ´70 quando la città era divisa in quartieri neri e rossi", ha dichiarato Paolo Masini, consigliere comunale del Pd. Lancia un grido d´allarme il presidente della Provincia, Nicola Zingaretti, "contro il rischio di un ritorno indietro verso un passato oscuro e violento. In tutta la città va garantito il diritto a esprimere le proprie idee e opinioni". Ma per i militanti di Fn si è trattato di "una chiara provocazione. Noi non stiamo contestando il merito della manifestazione, ma questa è una piazza simbolica per Roma dove nel 1979 morì un ragazzo, Francesco Cecchini, colpito da uno che oggi milita in un partito comunista. È da quel giorno qui non si sono organizzate più manifestazioni", ha commentato Gianguido Salentnich, responsabile della sezione di Forza Nuova a piazza Vescovio. E Marco Miccoli, segretario della Federazione Pd Roma, si è rivolto al sindaco Alemanno: "È inaccettabile. Tutte le piazze a Roma dovrebbero poter essere utilizzate dai cittadini".

l’Unità 24.3.10
Aborto, una questione di ammissibilità morale
Suona curioso il concetto di «umanità del feto» se non si specifica il concetto, né si accetta l’intervento diretto di biologi e giuristi. Anche la Chiesa non può più nascondersi dietro il termine «persona»
di Nicla Vassallo

Per affrontare i temi dell’inizio e della fine della vita, di conseguenza i temi della morte e della dignità umana, occorre dibatterne con competenza e pertinenza, senza strumentalizzazioni e discriminazioni di sorta. La ricetta pare semplice: si prendano quattro grandi filosofi, come Michael Tooley, Celia Wolf–Devine, Philip Devine, Alison Jaggar, li si metta a esaminare il problema, si chieda loro di esporre le rispettive posizioni, nonché di criticare quelle altrui, si condensi il tutto in un bel volume (Abortion: Three Perspectives, Oxford University Press, Oxford 2009, pp. 272, euro 9.99), lettura doverosa sia per chi rifiuta, sia per chi accetta fissazioni, fondamentalismi, paraocchi. Ricetta “banale” e degna di lodi, come spesso accade alla cosiddette banalità, che non convengono a questo o a quell’altro, perché di questo e quell’altro ne smontano le prevenzioni.
È tra l’altro raro che su un tema non particolarmente delicato per la filosofia (ve ne sono ben altri), ma alquanto spinoso su un piano socio–politico–religioso, ove scatena ciclicamente accese polemiche, quali quelle italiane di questi giorni, ci si confronti con intellighenzia aperta e onesta, nel tentativo di comprendere le posizioni avverse, senza escludere quelle comuni – incarnate spesso dal cosiddetto “uomo” della strada che, sebbene perlopiù incapace di offrirci una buona definizione di embrione, etica, essenza, persona, scienza, giunge a nutrire una propria irremovibile posizione sull’aborto, influenzato da questo e quell’altro – per esempio, dal presidente della Cei, cardinal Angelo Bagnasco e dalle sue facili esternazioni sulla RU486 in periodo pre–elettorale. Meglio allora suggerire a questo e quell’altro una buona filosofia internazionale, interessata alle argomentazioni per diverse tesi (liberale, a favore della possibilità dell’aborto; comunitaria, contro la possibilità dell’aborto; femminista, a sostegno dell’aborto per una giustizia di genere), senza ricorrere ad alcuna sorta di autorità ecclesiale (nonostante di devozioni si parli), per garantire l’opzione tra questioni valoriali che non presuppongono alcuna fede politico-clericale, né terminano col suggerirla.
L’ammissibilità morale dell’aborto (stando a Michael Tooley) rintraccia il proprio fondamento nella tesi stando a cui embrioni/feti umani non posseggono uno stato etico rilevante e intrinseco, né le proprietà che si addicono alle persone. Gli embrioni non risultano annoverabili tra le persone, anche perché si rivelano fallaci le spiegazioni religiose, le attribuzioni a embrioni/feti di menti immateriali razionali, gli appelli a competenze psichiche di embrioni/feti, le assicuranti attribuzioni di vita umana a un qualsiasi ente che si richiami alla specie Homo sapiens.
Stando a una teorizzazione antitetica (supportata da Celia Wolf–Devine e Philip Devine), l’ammissibilità dell’aborto va osteggiata per più di una ragione, tra cui emerge la convizione preponderante stando a cui, se da una parte madri e padri (in senso biologico) compiono un’azione, quella del concepire, che, oltre a non essere priva di obblighi etici, dovrebbe garantire a concepito/a e genitori una qualche sorta benessere, dall’altra il/la concepito/a viene a inserirsi subitaneo/a in una rete di relazioni, senza cui si negherebbe ogni vita adulta a ogni essere umano. Ci si appella tuttavia alla cosiddetta “umanità del feto”, il che suona curioso, se non si specifica il significato di “umanità”, né si accetta l’intervento diretto di biologi e giuristi, ove le conclusioni della biologia, al pari di leggi spesso cavillose, rischiano di venire stravolte.
Alle comparazioni tra liberalismo e femminismo, nonché alle analisi delle obiezioni contro l’aborto (affidate a Alison Jaggar) vengono applicate metodologie filosofiche atte al mondo reale, per promuovere una giustizia globale, impossibilitata a prescindere dal genere di appartenenza, nonostante l’ormai netta consapevolezza della problematici-
tà del concetto stesso di “genere”. Questo significa che, se nel mondo reale appartengo al genere femminile, affettività, autonomia, incolumità, vita mi devono venire assicurate, e di ciò viene a fa parte integrante il mio diritto umano di abortire; se appartengo al genere femminile, è di rigore per me un’equità che include la possibilità dell’aborto; se appartengo al genere femminile, la stessa salute pubblica, lo stesso sviluppo sociale, la stessa giustizia non possono prescindere dal garantirmi l’aborto, per l’integrità del mio corpo/ mente e delle mie libertà sessuali.
Tra le diverse posizioni filosofiche a emergere risultano soprattutto i punti di dissenso, valorizzati però da impagabili riflessioni, che farebbero un gran bene a ogni dibattito pubblico, arricchendolo di modalità civili e oneste, troppo spesso assenti. Tuttavia, rimane il sospetto che gli enigmi della vita e della morte non siano accessibili se non si hanno idee chiare su ciò che rende un essere umano tale: generiche caratteristiche fisiche e psicologiche, oppure una qualche specifica esistenza mentale, da non confondersi con qualche “esistenza” cerebrale, nonostante il recente predominio delle neuroscienze? Non è affatto semplice attribuire a un embrione un’esistenza mentale, né quel minimo di auto-consapevolezza necessaria a fare sì che si sappia di vivere quell’esistenza.
Ma è di questo che occorre discutere, sempre che si intenda conservare una distinzione (non affatto scontata) tra animali-umani e animali-non-umani, sempre che non ci si nasconda dietro il termine “persona” (da intendersi come “maschera” secondo l’etimologia antica) per suddividere arbitrariamente gli esseri viventi in persone e non-persone, fermo restando che esistono le persone-maschere.

l’Unità 24.3.10
Battaglia dei Radicali per rendere pubblica la lista di fornitori di beni e servizi di Montecitorio
Nel 2010 53 milioni di affitti alla società Milano 90. L’elenco da ieri sul sito BoninoPannella.it
I conti segreti della Camera Un milione e mezzo al Gemelli
Pubblica per la prima volta la lista delle ditte che ricevono appalti dall’amministrazione della Camera. Centinaia di milioni ogni anno senza gare di appalto. Operazione Trasparenza di Bonino nella Regione Lazio.
di Claudia Fusani

Locazioni e affitti 54.423.628,84 Biblioteca 3.020.867,77 Antincendio 1.618.467.35 Consulenze 311.390,00 Medico-sanitario 1.600.603,50 Arredi 1.070.000,00 Edili 4.784.788,00 Magazzino 3.447.000,00 Ristorazione 7.589.192.00 Autorimessa 687.730,00 Sicurezza 2.787.713.00

Il più beneficiato è sicuramente mr. “Milano 90”, proprietario dell’omonima società che nel 2010 riceverà dall’ammnistrazione della Camera dei Deputati 53 milioni e 579 mila euro tra affitti, servizi condominiali e di ristorazione. Succede da almeno otto anni. L’affittuario più curioso è il Patriarcato di Antiochia dei Siri, la chiesa cattolica sira, che intasca 51 mila euro e spiccioli per la locazione annuale di piazza Campo Marzio. Chi intasca meno in assoluto è l’Istituto di cultura e lingua russa (cinque mila), si vede che tra i deputati il russo non va per la maggiore. I più “incredibili” sono i 7 milioni e mezzo annui per la ristorazione degli onorevoli deputati. Per non parlare dei 688 mila euro alla voce “autorimessa”, il noleggio delle auto blu.
LA PRIMA VOLTA IN 40 ANNI
Con una di quelle battaglie tipiche dei Radicali, non-mollo-finchè non-ottengo-ciò-che-è-mio-diritto avere, l’onorevole Rita Bernardini ha messo in croce per quasi un anno il segretario generale di Montecitorio Ugo Zampetti fino a riuscire in qualcosa che nessuno mai prima in 40 anni: rendere pubblica la lista dei fornitori di lavori beni e servizi alla Camera dei Deputati. L’elenco è sempre stato tenuto riservato «in nome di normative europee che non ne prevedono la pubblicazione» ebbe a spiegare il 7 luglio 2009 il questore della Camera Antonio Mazzocchi (gli altri due sono Francesco Colucci e Gabriele Albonetti). «Una clamoroso bugia» può dire oggi Bernardini che, dopo uno sciopero della fame, il più breve della storia grazie all’intervento del presidente Gianfranco Fini («Domani avrai quel che chiedi. Giustamente», disse il 2 febbraio 2010) mette on line quell’elenco (www.boninopannella.it/trasparenza).
Sono quaranta pagine di ditte e fornitori, cosa fanno e il valore dell’appalto assegnati per lo più a trattativa privata e chiamata diretta. Il controllo pubblico e popolare sull’elenco può riservare sorpresa. «Ci sono profili penali» assicura Pannella. Non è azzardato ipotizzare un nuovo sistema gelatinoso, liste di amici degli amici. «La Camera insiste Bernardini è esente da qualsiasi controllo gestionale o contabile. E il controllo interno, affidato ai questori, è in realtà affidato al Segretario generale, il soggetto che dovrebbe essere controllato».
Alla voce ristorazione spicca il nome «Compass». Tra gli edili la «Titano edilizia» e al capitolo condizionamento la Saccir spa. Un elenco da spulciare voce per voce. Ogni anno la spesa medicosanitaria degli onorevoli ammonta a un milione e 600 mila euro. Tra le ditte Medtronic, Philips spa, Roche diagnostic spa, Sancar srl, la parte del leone tocca al policlinico Gemelli che per servizi medici e infermieristici incasserà nel 2010 un milione e 400 mila. Ma non è finita qui. Gli onorevoli deputati hanno anche una speciale convenzione con il Centro diagnostico Pantheon, specilizzato anche in chirurgia estetica. Il segretario Zampetti non lo aveva inserito perchè «non è costo vivo dell’amministrazione bensì del Fondo di solidarietà tra gli onorevoli», che ogni mese sono obbligati a versare 800 euro. Soldi suoi? No, nostri, visto che lo stipendio dei parlamentari è pagato, anche, con le tasse dei cittadini.

il Fatto 24.3.10
Oltre 68 milioni di euro l’anno: è il costo di Montecitorio
La Camera degli sprechi
Cancelleria, uffici, corsi di lingue, automobili. E ancora ristorante e commessi. Tutte le spese per i deputati svelate dai Radicali.
di Alessandro Ferrucci

Via le malignità. Basta con le cattiverie. Stop al qualunquismo. Anche in Italia c’è un posto di lavoro dove le regole di sicurezza vengono rispettate. Tutte. E non esistono morti bianche. Guarda un po’. Dove è disponibile un medico; dove la mensa non serve piatti vecchi o riciclati. Anzi, vengono effettuati continui controlli sanitari. Dove anche la cura dell’immagine diventa un valore, pari a 307 mila euro l’anno di foto. Sì, esiste, basta farsi eleggere alla Camera dei Deputati, piazza Montecitorio, Roma.
Quindi ecco uno stipendio di quasi 20 mila euro al mese, altri 7 mila per i collaboratori, 2 mila per i viaggi e 5 mila per un affitto. Più tanto, tanto altro. Per scoprirlo è stato necessario lo sciopero della fame di Rita Bernardini, deputata radicale, tenace nel mettere alle corde i tre questori della Camera (“riluttanti a consegnare quanto richiesto, nonostante il regolamento”, racconta la stessa) e a strappare l’appoggio del presidente della Camera “che mi ha scritto: ‘Sarà lo sciopero della fame più breve della storia. Domani avrai quel che chiedi, giustamente. Con stima Gianfranco Fini”. Così è stato. Ed ecco consegnata al popolo una lista lunga 17 pagine, con su scritti tutti i fornitori, i servizi erogati e i prezzi pagati. Risultato? I radicali quantificano in altri 9.000 euro al mese il costo impiegato per ogni deputato “nemmeno al Grand Hotel un ufficio costerebbe così tanto!” incalza la Bernardini.
Ecco alcune delle voci: quasi 7 milioni di euro per la ristorazione, comprensivi anche del “monitoraggio alla qualità dei servizi” (126 mila euro); oltre 600 mila per il noleggio delle fotocopiatrici; 400 mila per “agende e agendine”, 292 mila per la somministrazione cartoncini, carte e buste personalizzate, 300 mila per i corsi di lingue. Fino al vero “gruzzolo”, composto da oltre 51 milioni per le locazioni: “Sono gli uffici a disposizione per ognuno di noi – continua la radicale. Sono dislocati attorno a Montecitorio, e lì abbiamo a disposizione tutto quanto è necessario”. E di più, ancora. “Non solo, dentro il personale svolge lo stesso ruolo dei commessi della Camera, ma con uno stipendio, e benefit, decisamente inferiori: 800 euro al mese. Li vedo arrivare la mattina presto vestiti con tuta e armati di strofinacci per le pulizie. Quindi si cambiano, indossano gli abiti ufficiali, ed ecco la rappresentanza. Assurdo. Soprattutto perché gli uffici vengono utilizzati pochissimo”. Già, la Camera lavora tre giorni la settimana, dal martedì al giovedì, e molti deputati arrivano da fuori, quindi non restano a Roma durante il periodo di inattività.
Comunque, protagonista alla voce “canone di locazione” è la società Milano 90 Srl, con ben quattro lotti assegnati per la cifra complessiva di circa 45 milioni. “Fa capo all’imprenditore Scarpellini, prosegue la Bernardini. È un costruttore romano, impegnato nella realizzazione di un quartiere alla Romanina e dello stadio della Roma calcio. Ah, comunque, le posso dire anche un’altra cosa: i lavoratori suddetti, nonostante lo stipendio da fame, sono segnalati dai partiti stessi. Insomma, c’è una sorta di lottizzazione. Nella lista consegnata ci sono anche altre voci interessanti”. Vero. Sotto la categoria “manutenzioni” finiscono le punzonatrici: per la loro efficienza, solo per quella, la cifra è di quasi 4 mila euro; o 99 mila per l’arredo verde dei terrazzi, giardini e cortili. E ancora un milione e 200 per le tappezzerie e falegnameria.
Nonostante tutto questo “il bilancio della Camera – conclude la deputata radicale – è omertoso, l’ho detto in aula e lo ripeto: in virtù del principio di autonomia costituzionale, la Camera è esente
da qualsiasi controllo contabile e gestionale esterno”. “Il controllo interno – ricordano i Radicali in un documento – dovrebbe essere esercitato dai questori (...) supportati dal Servizio per il controllo amministrativo, gerarchicamente subordinato al segretario generale, cioè al soggetto che dovrebbe essere controllato. Dunque è lecito dubitare della reale efficacia della funzione di controllo, comunque esclusivamente formale, dato che l’assenza della contabilità analitica non permette di istituire controlli sull’efficienza e l’efficacia della gestione”. Un giro di parole per dire, semplicemente, che chi detta le regole, si giudica; chi emette o assegna un lotto, si auto-controlla. Chi ci guadagna, invece, sorride.

il Fatto 24.3.10
La forza tranquilla e la lunga marci dell’Aubry
La leader socialista tra nemici interni e alleanze per le presidenziali francesi del 2012
di Gianni Marsili

Dimenticato quel centinaio di voti del novembre 2008. era il suo infinitesimale vantaggio su Sègoléne Royal, un fotofinish grazie al quale lei, Martine Aubry, era diventata segretario del partito. L’altra gridò alla frode, Martine fece orecchie da mercante. Poi, giorno dopo giorno, si è costruita la legittimità piena che le mancava. Il primo anno sembrava sparita dalla scena. Stava più a Lilla, nel suo ufficio di sindaco, che a Parigi in rue Solferino, direzione del partito. Dov’è Martine? Cosa fa Martine? Perché in tv si vede sempre e soltanto Ségolène? Fino a che, un paio di mesi fa, qualcuno qua e là cominciò ad accorgersi che le acque dentro il Ps erano stranamente tranquille e che alle regionali si andava con nuova sicurezza. I sondaggi confermarono. Allora Martine uscì dal guscio, trattò con verdi e comunisti, venne più volentieri in tv, scherzò con i giornalisti al seguito, fece il suo bravo tour de France, s’ingentilì con un paio di orecchini, perse qualche chilo, scoprì le virtù del maquillage, cambiò finalmente parrucchiere. E vinse clamorosamente le elezioni di questo marzo. Oggi la chiamano “la Merkel della sinistra” e lei, con la severità di chi nasce a sinistra e intende morire a sinistra, accetta il paragone “con alcune riserve”. È pur sempre la figlia di Jacques Delors, l’ex ministra di Mitterrand e Jospin, il primo cittadino della capitale operaia del nord. Ma questa cosa della Merkel non le dispiace. Hanno in comune la concretezza, la pazienza, l’arte della tessitura. Ambedue riescono a tenere a bada gli ambiziosi ometti che vociferano nei rispettivi partiti. Se la Merkel ha già conquistato i galloni da statista, per Martine potrebbe essere questione di tempo. Sono in molti, già da ora, a vederla “presidenziabile”. Lei sa bene che il gioco dei “presidenziabili” è di solito mortale, per cui non una sola parola le è uscita dalla bocca, dalla sera di domenica, sul rendez-vous del 2012. La parola che ha più usato è stata “prematuro”. Prematuro prefigurare il tipo di alleanza con i verdi (fin dal primo turno, o solo al secondo?), prematuro tracciare l’identikit di chi porterà i colori della gauche. Avanti a piccoli passi: Sarkozy si abbatte con un lavoro di scavo, non certo a spallate. Sa anche, Martine, che le scale più insaponate di tutte sono proprio quelle di rue Solferino. I signori della guerra intestina, i Fabius, gli Strauss Kahn, con i quali lei aveva stretto il patto detto Tss (“tout sauf Ségolène”), possono dissotterrare l’ascia in un batter d’occhio. Vanno quindi blanditi e rassicurati. Quanto a Ségolène, l’ascia non l’ha mai sotterrata. La corsa alle primarie, nel 2011, sarà affollata e irta di trappole. Arrivarci in modo decente è la grande responsabilità che spetta a Martine. Che nel frattempo dovrà anche posizionare il partito su temi fondamentali. Sarkozy, per esempio, intende ritrovare un po’ di colori riformando il sistema pensionistico, e il Ps dovrà scegliere se essere partito di lotta o partito di governo.
Martine dovrà ascoltare, mediare e poi decidere: un’opposizione di principio o una disponibilità ingenua potrebbero esserle fatali. Come sembra lontano quel giorno del 2002, quando Le Pen andò alla finale al posto di Jospin. Martine piangeva calde lacrime, e altre ne versò quando, un mese più tardi, perse anche il suo seggio parlamentare. Oggi gli occhi le ridono, tiene finalmente il coltello dalla parte del manico, e lo tiene saldamente.

il Fatto 24.3.10
La Francia è vicina?
di Gianfranco Pasquino

Ma non ci avevano detto che i socialisti francesi erano in una crisi profonda? Che il socialismo è, dopotutto, un’ideologia ottocentesca? Che la sinistra non c’è più? Dalla Francia arriva qualche notizia diversa che dovrebbe far pensare, chi ha ancora la capacità di farlo, e fare agire seguendo qualche direttiva che, evidentemente, la sinistra francese ha saputo utilizzare. Prima di tutto, appare opportuno capire il contesto. Nelle democrazie, gli elettori hanno diritto di cambiare opinione, anche perché molti di loro sono interessati alla politica, si informano, vogliono contare. Quando cambiano opinione possono votare un partito diverso, oppure starsene a casa, oppure tornare a votare. L’alto tasso di astensionismo francese, già normalmente superiore a quello italiano, significa, anzitutto, che una parte dell’elettorato centrista, che ha votato Sarkozy due anni fa, non è particolarmente convinta né da quello che il presidente ha fatto (e non fatto) né dal suo stile politico (debbo trattenermi o posso permettermi di scrivere “berlusconeggiante”?). L’astensione è un comportamento di voto razionale che ha effetti. Suona, infatti, un campanello d’allarme per il governante che perde. In secondo luogo, le sinistre già avevano una notevole presenza al governo delle ventidue regioni francesi e, in generale, dispongono, grazie ai loro esponenti nei governi locali, di una presenza organizzativa sul territorio, a macchie di leopardo, ma i leopardi sono almeno tre: socialisti, verdi-ecologisti, comunisti. Questa delle elezioni regionali si presentava come la prima grande e ghiotta occasione per contarsi dopo due sconfitte: presidenziali ed europee (terreno sul quale le loro ambiguità continuano a produrre effetti quasi devastanti). Dunque, hanno evidentemente moltiplicato i loro sforzi contando anche sull’attivismo dei loro numerosi candidati alle diverse cariche locali e sulla loro disponibilità, pungolati dalla necessità, ad impegnarsi per rovesciare una brutta tendenza. In terzo luogo, le prestazioni di Sarkozy sono state largamente insoddisfacenti avendo il presidente privilegiato il suo attivismo di promesse, dimenticando che quello che conta è la lunga durata, ovvero dare un senso ad una presidenza che durerà fino al 2012 con l’attuazione di riforme che ad alcuni frutti immediati accompagnino rendimenti crescenti. Naturalmente, alcuni critici francesi hanno messo in rilievo che Sarkozy è stato ampiamente sopravvalutato e che la sua cifra politica complessiva è modesta (in paragone con Chirac e con Mitterrand).
I problemi della sinistra francese hanno radici molto profonde e molto lunghe, con qualche aggiunta recente non positiva. Non è mai stata elettoralmente molto forte a livello nazionale. E’ stata salvata, curiosamente, da un uomo tutt’altro che di sinistra, come François Mitterrand, e tenuta, con qualche difficoltà, nell’area di governo per una quindicina d’anni. Ha avuto un fortunoso soprassalto di potere politico di governo, grazie ad un clamoroso errore di Chirac nel 1997. Dopodiché è tornata a dividersi e a fare errori, pagando anche il declino storico dei comunisti. In quanto a errori, gelosie, divisioni, persino settarismi, non ha, in generale, nulla da invidiare alla sinistra Italiana – nella misura in cui in Italia esista ancora qualcosa degno di questo nome. La sinistra francese ruota intorno al Parti socialiste e sale e scende come conseguenza delle capacità o delle disgrazie del PS. La spaccatura del PS sul referendum costituzionale europeo del 2005 ha avuto conseguenze negative non facili da rimarginare. La candidatura di Ségolène Royal alle presidenziali, per quanto non vincente (anche perché non del tutto sostenuta dal partito), ha segnalato inconvenienti politici e di linea che la vittoria contrastata della più solida Martine Aubry per la segreteria del partito sembra avere parzialmente risolto. Ma, se i socialisti faranno primarie riservate ai loro iscritti per la scelta del/la candidato/a che dovrà sfidare Sarkozy nel 2012 potranno emergere tensioni e conflitti tutt’altro che mobilitanti. Quello che è sicuro è che in queste elezioni regionali ha vinto una ipotesi sufficientemente chiara, regione dopo regione. Una alleanza fra socialisti, verdi-ecologisti, comunisti, non difficile da costruire contesto dopo contesto, offre sicura e convincente rappresentanza politica, di preferenze e di interessi, alla maggioranza degli elettori. La lezione è duplice, con una coda. Primo, il sistema elettorale a doppio turno rende l’alleanza imperativa e la facilita. Il “correre da soli”, per chiunque, in particolare, per verdi e comunisti, ma anche per gli stessi socialisti, è sicuramente la scelta perdente. Secondo, il radicamento locale continua ad essere una risorsa molto efficace per fare politica anche contro un presidente molto (tele)visibile. La politica parte dal basso. Coda, tutto questo deve, e può, essere trasferito a livello nazionale. Ma a questo livello quello che conterà davvero fra due anni sarà la figura della candidatura presidenziale. Insomma, la sinistra plurale francese è viva e vitale, ma deve prepararsi con grande impegno alla sfida nazionale sfruttando al meglio la personalizzazione della politica.

l’Unità 24.3.10
Giovani e immigrati La Cgil aumenta gli iscritti
Oltre 5,7 milioni di iscritti, in aumento nonostante la crisi. Alla vigilia del XVI congresso, la Cgil incrementa le tessere registra un cambiamento nella composizione interna: la Filcams sorpassa Fillea e Fiom.
di La. Ma.

La Cgil arriva al sedicesimo congresso, a Rimini dal 5 all’8 maggio, in buona salute. Oltre 5 milioni e 746mila gli iscritti, in aumento rispetto al 2008 (+11.312 tessere, lo 0,20% in più), soprattutto grazie ad immigrati, che ora rappresentano il 14% del ttoale e circa 380mila persone, donne (più 5%, con punte del 22% in alcune categorie) e giovani (più 10% tra chi ha meno di 35 anni). E anche i primi tre mesi di quest’anno sono positivi. Sono i dati conclusivi del tesseramento 2009 illustrati dal segretario generale, Guglielmo Epifani, e dal responsabile organizzativo Enrico Panini. Che, quantità a parte, mettono in evidenza anche un cambiamento «qualitativo», di composizione interna della confederazione di Corso d’Italia, con il sorpasso dei lavoratori del commercio su quelli dell’edilizia e sui metalmeccanici. La Filcams (commercio e servizi) segna un aumento del 4,39%. Mentre le tute blu, storicamente primo sindacato della confederazione, dopo aver subìto il sorpasso dei pubblici e l’anno scorso degli edili, perdono quota anche rispetto al commercio e, con 363.507 iscritti, diventano la quarta categoria tra gli attivi, pur registrando una crescita dell’1,3%, nonostante la crisi. La prima (dopo lo Spi) resta la funzione pubblica, con 407.716 tessere. «Siamo la più grande forza sociale in Italia dice Epifani, «soddisfatto» dell’andamento del tesseramento quando si pensa di escludere la Cgil dai confronti e dagli accordi si va contro la maggior parte dei lavoratori e dei pensionati». «Durante i congressi continua abbiamo notato che in tutti i settori la gente veniva a iscriversi. È un fenomeno che ci ha molto colpito. Prendiamo questo segno anche come una risposta alla crisi perché in questi momenti si avverte un senso di solitudine e il bisogno di reti di protezione. Si tratta, dunque, di un risultato importante malgrado la crisi».
LA LOMBARDIA PRIMA REGIONE
Negli ultimi quattro anni i lavoratori attivi sono aumentati di 207.041 unità, pari all’8,25%. Lo scorso anno i lavoratori attivi sono stati 2.751.964, più 0,84% (22.241 unità) rispetto al 2008. I pensionati iscritti alla Cgil sono invece 2.994.203, in diminuzione dello 0,02% sull’anno precedente. Considerando poi gli iscritti alle organizzazioni di emanazione del sindacato guidato da Epifani (Auser, Federconsumatori e Sunia) il «sistema Cgil» può contare su circa 6 milioni e 350mila iscritti.
Panini sottolinea che la linea di tendenza mostra un ulteriore incremento degli iscritti nel 2010 che potrebbero superare i 5,8 milioni: «Si profila un risultato positivo per quanto riguarda le adesioni».
Dal punto di vista territoriale la Lombardia si conferma prima regione per numero di iscritti con un aumento dello 0,12%, seguita dall’Emilia Romagna, più 0,4%. Seguono Toscana, Sicilia e Veneto.

l’Unità 24.3.10
L’anniversario Oggi ricorrono i sessantasei anni dall’eccidio delle Fosse Ardeatine
«Ieri attentato al Tritone» Le note di «cronaca» in un quaderno di appunti quotidiani
Il prezzo del pane e il conto dei morti Via Rasella nelle pagine di un diario
Un prozio e un diario privato in cui sono annotati l’uno accanto all’altro, il prezzo del pane, del riso e della farina e il numero dei morti nell’attentato di via Rasella. Vita quotidiana e barbarie nazista.
di Giovanni Nucci

Nel 1944 Antonio Nucci finisce un suo personale Journal Intime iniziato nel 1933, con un resoconto dei mesi dell’occupazione tedesca di Roma. Il fatto che fosse prozio di chi scrive è irrilevante (se
non perché ciò mi ha permesso di reperire la sua testimonianza), per il resto era un colto avvocato poco più che trentenne, gobettiano e letterato, che aderì prima al partito liberale e poi al Partito d’azione: antifascista. Il diario, insolitamente letterario, è spesso aspro e privo dei centrogravitamenti sul sé a cui simili scritture sono solite. Le pagine sull’occupazione tedesca e sul collaborazionismo dei fascisti di Salò sono un resoconto immediato e molto efficace, un’insolita testimonianza di quanto il fascismo si fosse sottilmente infiltrato nella vita delle persone e del loro vivere quotidiano: non era affatto evidente, né ri-
conosciuto come tale (vale a dire una dittatura), per lo più veniva accettato senza che si ritenesse utile, vantaggioso o efficace opporvisi. La resistenza civile, al contempo, fu una reazione sofferta, faticosissima e pericolosa: ma col senno di poi fondamentale.
Vedendo quanto l’attentato di via Rasella e l’eccidio delle fosse Ardeatine vengano utilizzati, il primo per glorificare (o demonizzare) la Resistenza e il secondo per rappresentare la barbarie nazista e la vigliacca spietatezza fascista, torna utile andare a leggere cosa è scritto, sul diario, riguardo a quei giorni.
Marzo 1944: «I prezzi salgono ogni giorno: Pane: 50/60 lire al chilo, farina: 85/100/120 un prosciutto è stato pagato da G. 3.600. Nei bar e nei caffè si possono trovare dolci autentici». 24 marzo: «Ieri attentato al Tritone: chi dice 38 chi 60 i morti: civili e qualche tedesco». A seguire: maggio 1944: «Prezzi: Pane: 100 lire Kg. Riso: 200/230 Kg. Carne: 230 Kg. Farina: 200/230 Kg. Formaggi: 200/280 Kg. Insalate: 40 Kg».
Nel settembre successivo, dopo la liberazione, torna a parlarne e il racconto diventa più libero e articolato (evidentemente non teme più il ritrovamento dei suoi appunti ma è anche più lucido su ciò che è accaduto): «Il 23 marzo partecipavo (più esattamente “assistevo”) ad una seduta del Comitato Centrale nel solito studio dell’avv. Libonati. Era pomeriggio. Verso le cinque arrivò Ughi annunciando che tra Via Rasella e il Tritone infuriava una mezza battaglia. La sera del giorno successivo apprendemmo alla radio la prima notizia ufficiale: 32 tedeschi uccisi. Aggiunse la voce della radio: “Il comando tedesco, anzi germanico, ha deciso che per ogni soldato germanico ucciso dieci comunisti badogliani siano fucilati. L’ordine è stato già eseguito”. Ho udito io stesso questo comunicato. Così furono massacrati trecentoventi “ostaggi” anzi, sembra per un errore nel conto, trecentoventuno».
E aggiunge: «Pochi giorni prima che cadesse il trigesimo, durante una seduta del Comitato Centrale arrivò G.B. Rizzo. Il Comitato di agitazione forense aveva deciso di commemorare in udienza le vittime e di indire per il giorno successivo alla commemorazione lo sciopero delle udienze. Rizzo concluse invitando il Comitato a designare due oratori. Deve dirsi che i presenti non si mostrarono entusiasti anzi, cercarono di “evadere”. È vero infine che gli “oratori” rischiavano seriamente di finire in galera. Cattani sconsigliò “l’avventura”. Brosio dichiarò di non essere disposto a parlare. Di fatto si decise di partecipare senza oratori di parte liberale alla commemorazione, visto che eluderla del tutto non era possibile. Così andammo in udienza: alle 9 le aule erano già sorvegliate da agenti di giustizia e guardie armate. Come si seppe poco dopo il Presidente del Tribunale preavvertito della manifestazione aveva chiamato Caruso, e aveva ordinato di non tenere udienza. Eravamo una sessantina. Passeggiammo per un’ora buona nei corridoi. Poi ce ne andammo dopo aver lanciato i manifestini che invitavano allo sciopero per il giorno successivo. In Pretura invece la commemorazione fu tenuta e per i Magistrati parlò il Pretore Rosso. Il giorno successivo l’astensione dalle udienze fu completa. E questi furono gli unici atti di protesta in Roma per l’eccidio del 24 marzo».
La vita per loro era fatta di trentotto o sessanta morti in un attentato al Tritone raccontati in mezzo al prezzo del pane che passa, in due mesi, da 50 a 100 lire al chilo. Colpisce vedere cos’era la storia prima di diventare tale: come quasi non se ne accorgessero, che stava già lì, che direzione avrebbe preso e cosa sarebbe diventata quando ancora era tutto fumoso e indeterminato: soprattutto come entrare e farne parte, mentre quasi tutti pensavano al prezzo del pane (le uova e la farina): e solo alcuni avvocati ebbero il coraggio di tirare dei manifesti in tribunale per commemorare i propri morti.

Repubblica 24.3.10
La Jiahd delle donne
Malika, Aafia e le altre. Il fanatismo islamico si affida sempre più alle donne. Ecco chi sono le protagoniste della nuova stagione jihadista
di Francesca Cafarri

Malika Al Aroud è sotto processo a Bruxelles per aver portato la "guerra santa" online Aafia Siddiqi, soprannominata lady Al Qaeda, è stata appena condannata a New York E poi gli ultimi arresti di cittadine americane coinvolte in attentati. La presenza femminile nel terrorismo islamico cresce sempre di più. Ecco perché
Internet ha un ruolo primario Abbatte le barriere fra i sessi, molto forti nell´Islam
La nuova guardia del gruppo di Bin Laden vuole dare alle sue sostenitrici un ruolo maggiore
Dalla Rete le responsabili dei siti incoraggiano a partire per Iraq e Afghanistan
A gennaio a Londra fu lanciato un allarme urgente su possibili kamikaze donne

Quando Malika al Aroud è comparsa nell´aula di tribunale di Bruxelles dove è a processo con l´accusa di aver sostenuto il terrorismo e mandato uomini a combattere in Afghanistan, due settimane fa, i presenti non hanno potuto evitare un moto di sorpresa. La donna diventata famosa nel 2008 spiegando sulle pagine del New York Times come sosteneva la jihad via Internet e sottolineando «la mia arma è la scrittura: non è mio compito mettere bombe» non era più il fantasma nero avvolto nel niqab che tutti ricordavano dalle foto di allora. Di fronte a giudici e avvocati Malika, 50 anni, originaria del Marocco, vedova di uno degli attentatori che uccise il comandante afgano Massud alla vigilia dell´11 settembre 2001, si è presentata a capo scoperto.
Così, ha spiegato il suo avvocato, le era stato imposto. Occhi neri ben visibili, capelli scuri, con voce sicura ha detto di essere sì in in contatto con uomini partiti per l´Afghanistan, ma di non averli incitati a fare quella scelta. Ha ammesso di essersi rallegrata quando «i nemici americani sono caduti» e spiegato che «è un obbligo andare a difendere la nostra terra, i nostri fratelli e sorelle», ma ha negato di aver finanziato giovani pronti a combattere.
Il suo processo si chiuderà a giorni. Ieri il procuratore federale, Jean-Marc Trigaux, ha chiesto per lei una pena minima di otto anni: è «la più influente jihadista presente in Rete», ha sostenuto. Le richieste di Trigaux sono immediatamente rimbalzate sui siti Internet vicini alla posizioni di Malika, già affollati in questi giorni da documenti su un´altra donna musulmana alla prese con la giustizia occidentale: Aafia Siddiqi, la scienziata pachistana diplomata al Massachusetts Institute of Technology condannata nel febbraio scorso a New York per aver tentato di uccidere alcuni ufficiali americani al momento della sua cattura nel 2008 in Afghanistan. Aafia, 39 anni, madre di tre figli, unica donna nella lista dei most wanted di Al Qaeda, conoscerà definitivamente la sua sorte a maggio: rischia il carcere a vita. Nel frattempo domenica i suoi sostenitori faranno sentire la loro voce in tutto il mondo, organizzando proteste che, gli esperti ne sono certi, porteranno in strada migliaia di persone nel solo Pakistan, dove la vicenda è ormai un caso di Stato.
Malika Al Aroud e Aafia Siddiqi. Ma anche Colleen La Rose e Jamie Paulin-Ramirez, soprannominate dai media Usa JihadJane e JihadJamie, due donne americane accusate di aver preso parte a un complotto per uccidere Kurt Westergaard, autore della famosa vignetta di Maometto che nel 2005 fece scoppiare una crisi internazionale: nelle ultime settimane la cronaca si è riempita dei nomi di donne associate ai piani degli estremisti islamici, rilanciando la paura - già evidente a gennaio, quando gli investigatori inglesi alzarono il livello di allarme terrorismo proprio per timore di donne kamikaze - che le donne stiano assumendo un ruolo sempre più di primo piano nell´Islam radicale.
«È un dato di fatto che il ruolo femminile nella lotta dei gruppi radicali islamici contro l´Occidente sia cresciuto negli ultimi anni. E potrebbe crescere ancora», spiega Mia Bloom, esperta di terrorismo e autrice di un libro di prossima uscita in materia. «A lungo l´ala più tradizionalista di Al Qaeda, quella che faceva riferimento a Bin Laden e al Mullah Omar per intenderci, non ha voluto coinvolgere le donne. Ma la nuova generazione potrebbe avere una diversa posizione, come l´aveva già Zarqawi: quando c´era lui al comando in Iraq, il numero delle terroriste suicide si è moltiplicato. In questo momento ci sono discussioni accese in materia: i terroristi sanno che una donna, soprattutto occidentale, è un profilo che desta meno sospetti». Per Bloom Internet ha un ruolo fondamentale nel processo di coinvolgimento delle donne: «In Rete cadono le barriere: una donna non può andare in un campo di addestramento e prepararsi a combattere. Ma può incitare chi vuole fare questa scelta sui siti web, lo può guidare, può raccogliere fondi. E in questa maniera è rispettata e ascoltata come di persona non sarebbe mai».
Proprio questo è il ruolo che, per l´accusa, avrebbe ricoperto Malika Al Aroud dal Belgio. Lo stesso che, secondo alcuni esperti, avrebbe svolto la turca Defne Bayrak, la moglie di Humam Al Balawi, il giordano che il 30 dicembre si è fatto saltare in aria alle porte di un avamposto americano in Afghanistan, uccidendo sette agenti della Cia. «È riuscito a compiere una missione importante, sono fiera di lui», disse allora Defne in un´intervista. Oggi vive nella stessa casa che divideva con il marito, sotto l´occhio della polizia turca: contattata, ha prima accettato di rispondere alle nostre domande via mail, poi ha cambiato idea, su pressione della famiglia del marito. «Voglio che sia chiaro - ha scritto prima di interrompere i contatti - che io sostengo la jihad: e dire jihad non vuol dire terrorismo. I terroristi non siamo noi, sono loro (gli americani ndr.)».
«Il confine fra l´opinione e l´azione nel caso di queste donne è molto sottile - spiega ancora Bloom - loro lo sanno benissimo. E ci giocano molto bene: non possono essere condannate solo per quello che dicono o scrivono». Un concetto che Aisha Farina ha molto chiaro: italiana, sposata a Abdul Qadir Allah Fadl Mamour, ex Imam di Carmagnola, e con lui emigrata in Senegal quando il marito è stato espulso dall´Italia, ha visto il suo sito Internet chiuso dalla Digos in più di una occasione. Negli ultimi mesi Aisha ha riaperto il suo blog: nelle pagine c´è ampio risalto alle lettere dal carcere di Malika al Aroud e alla giornata mondiale per Aafia Siddiqui, così come alle invocazioni alla guerra contro gli americani in Afghanistan e in Iraq. Farina non nega le sue posizioni, ma sottolinea la differenza fra opinione e azione. Come quando parla della sua amica Malika. «Chi volesse perpetrare attentati starebbe attento a non esporsi a non gridare "no" alla guerra di sterminio in Afghanistan e in Iraq su fori islamici, con proprio nome e cognome - ci ha scritto in una mail, preferendo non rispondere a domande - ognuno può pensarla come vuole sul jihad in Afghanistan, ma pensa davvero che ci sia un musulmano al mondo che stia con gli Usa & Co.? Certamente non tutti lo dichiarano perché non vogliono ritrovarsi incarcerati o deportati solo per un reato di opinione. Perché qui sta il punto: è reato sostenere con le preghiere, con le invocazioni i nostri fratelli che combattono per liberare le nostre terre occupate? Malika non ha fatto che questo: ha detto la verità contro lo sterminio perpetrati dai paesi occidentali».
Un concetto ribadito anche dall´avvocato della signora Al Aroud, Fernande Motte de Raedt: «La mia cliente - ci dice al telefono dal suo studio a Bruxelles - non ha reclutato terroristi, si è detta scandalizzata dagli attentati in Europa. È a favore della guerra difensiva contro gli Stati Uniti che si sta svolgendo in Iraq e in Afghanistan, non del terrorismo. E pensa che sia giusto che gli uomini vadano a combattere lì. Però non ha aiutato nessuno a partire: quindi non può essere condannata».
Eppure gli studiosi avvertono che il passaggio dalle parole ai fatti spesso può essere breve. Eleonora Rossi, ricercatrice all´università della Pennsylvania, sta studiando il diario di una delle terroriste cecene morte nel 2002 al teatro Dubrovka di Mosca: «Dal linguaggio si capisce che stava andando verso l´estremismo, le sue parole sono una testimonianza di quello che è accaduto negli ultimi mesi della sua vita - spiega - c´è un moltiplicarsi di concetti che si riferiscono al martirio, di riferimenti alla jihad, alla violenza, ad Allah, al Paradiso».
Come in molti dei siti Internet consultati dalle donne americane arrestate per il complotto contro il disegnatore danese e in quelli a lungo gestiti da Malika Al Aroud. «Non possiamo dire che sia in atto un fenomeno generale di radicalizzazione delle donne islamiche - conclude Stefano Allievi, docente all´università di Padova e uno dei massimi esperti europei di Islam - ma di certo ci sono donne che si stanno radicalizzando. E di certo Internet è un modo semplice per farlo, perché arrivare ad ambienti radicali o diffondere idee radicali in questo modo è più semplice. Le donne che sostengono queste idee non parlano in moschea o nei gruppi, ma lo fanno in Rete». Il prossimo allarme, gli investigatori europei e americani ne sono certi, potrebbe venire da loro.

Repubblica 24.3.10
Se la guerra santa si modernizza
di Renzo Guolo

Sempre più donne in Al Qaeda. La vertigine della guerra, asimmetrica, sulla via di Dio calamita anche combattenti femminili, velate o meno. Frequentano la Rete per fare proselitismo a favore della "rete delle reti", il network qaedista; mettono a disposizione le loro competenze professionali, si tratti di conoscenze scientifiche o di "logistica strategica"; inneggiano e aspirano al "martirio", atto in cui qualsiasi differenza di genere viene meno nel "sacrificio altruistico" in nome della causa.
Un mutamento consapevole, quello della femminilizzazione del jihad combattente, che dilata sino al limite estremo il processo di ambivalente modernizzazione indotto nella cultura islamica dal radicalismo globale qaedista.
Se in passato le donne del jihad avevano un ruolo prevalentemente passivo, si trattava di mogli, fidanzate, sorelle di attentatori o caduti in combattimento, "sacrificabili" perché la loro vita veniva ritenuta priva di significato fuori dalla relazione subalterna con i maschi di famiglia, oggi la situazione appare diversa. Le donne iniziano a occupare uno spazio, apparentemente, paritario sul piano della militanza.
Un mutamento di ruolo indotto dal ferreo primato del Dio del Politico su quello della Devozione. Come altri movimenti novecenteschi , il jihadismo nelle sue forme contemporanee è una sorta di "leninismo religioso" che pensa la politica come elemento trasformativo "dall´alto". Prodotto dell´azione di una piccola avanguardia della fede capace di innescare una massa critica mediante la spirale azione/repressione/insurrezione. In questa concezione del mondo il riferimento alla dimensione religiosa lascia progressivamente spazio non solo alla polarizzante logica amico/nemico, ma anche a quel diritto dinamico che legittima lo stato d´eccezione in cui prescrizioni e tradizioni consolidate possono essere sospese o abbandonate in nome delle necessità. Un simile ambiente, e pragmatismo, ideologico non poteva che produrre una progressiva secolarizzazione dello stesso jihadismo. Una modernizzazione che, con il deperire dei vincoli legati alla tradizione, compresa quella che voleva le donne relegate al compito di angeli del focolare del militante o, comunque, in seconda fila rispetto ai mujaheddin, ha reso possibile l´ingresso di nuove, aggressive, figure femminili nelle fila qaediste. Sviluppo alimentato dalla stesso indebolimento della leadership storica di Al Qaeda, costretta - per riprodurre la supremazia simbolica sulle sue diverse filiali regionali e locali, guidate da leader più giovani che spesso non hanno remore nei confronti di un più attivo militantismo femmnile - ad accettare l´innovazione pur di continuare a imporre il marchio sulle azioni delle diverse strutture della "rete"
Non è casuale che tra le nuove regine del jihad emergano donne occidentali convertite, o donne musulmane che vivono o hanno vissuto in Occidente. In un contesto come quello europeo o nordamericano, dove l´Islam è minoranza e non si impone per evidenza o pressione sociale, la scelta del come viverlo è spesso frutto di individualizzazione. E l´individualizzazione ha come potenziali sbocchi anche la politicizzazione della soggettività femminile, tanto più se questa ha memoria di altre esperienze militanti. Se gli islamisti più legati al rispetto dei ruoli tradizionali temono che l´irrompere delle donne in uno spazio pubblico maschile come la guerra modifichi il loro ruolo anche nello spazio privato, nei radicali il timore è venuto meno. Non solo perché servono nuove energie; ma perché il tabù religioso è eroso dall´ideologia. Per chi si percepisce come avanguardia rivoluzionaria, il primato della politica gerarchizza tutto, ed è sfruttando questa contraddizione scaturita dal "diritto di necessità" che le donne reclamano, in un´illusoria concezione di eguaglianza di genere, un ruolo sino a poco tempo fa impensabile.

Repubblica 24.3.10
Una mega-ricerca reinterpreta la nostra attività onirica Ecco cosa vogliono dire incubi e immagini ricorrenti
Amore è precipitare nel vuoto l´inconscio non ha più segreti
di Enrico Franceschini

Londra”. Il sogno", sosteneva Sigmund Freud, "è il tentato appagamento di un desiderio". Ma quando è un brutto sogno, che cosa rappresenta della nostra coscienza consapevole? Che collegamento ha con la nostra vita reale. E in definitiva, che cosa significa? La risposta del più ampio studio recente condotto sull´argomento è che un metodo di indagine statistico può aiutare a comprendere meglio gli incubi, a capire cosa rivelano delle nostre paure, e di riflesso anche dei nostri inconsci desideri. Precipitare nel vuoto da grande altezza, per esempio, generalmente vuol dire che ci si sta innamorando di qualcuno, oppure il contrario, che un amore sta finendo: un sogno tipico, che fanno per tutta la vita sia uomini che donne, dunque forse il segno che senza l´amore non si può vivere. Sognare di perdere i capelli o i denti, che viceversa è un sogno più tipicamente femminile e di solito circoscritto a donne non più giovanissime, rivela uno stato di ansia sul proprio invecchiamento, il timore di non essere più attraenti. E sognare di essere bocciati a un esame, un sogno che fanno molti adolescenti e studenti universitari, ma pure adulti di entrambi i sessi, anche questo molto diffuso come incubo, significa una mancanza di fiducia in se stessi, un calo dell´autostima.
Condotta da psicologi dell´International Association for the Study of Dreams (Associazione Internazionale per lo Studio dei Sogni) e pubblicata dallo European Archives of Psychiatry and Clinical Neuroscience Journal, la ricerca ha interrogato un campione di oltre 2 mila uomini e donne di ogni età. Ne risulta che il 48 per cento non hanno mai avuto, neanche una volta, un incubo durante il sonno: o forse che non se lo sono ricordati una volta svegli, per loro fortuna (o sfortuna, se uno ci tiene a conoscere freudianamente se stesso). Il 10 per cento degli interpellati dicono di fare brutti sogni con una certa regolarità ma non spesso: succede soltanto varie volte all´anno. Il 5 per cento afferma invece di svegliarsi in preda al panico mediamente ogni quindici giorni, a causa di un incubo, spesso sempre lo stesso.
Altri significati attribuiti dagli autori di questa "reinterpretazione dei sogni": avere l´impressione di essere paralizzati o impossibilitati a muoversi significa sentirsi intrappolati in una relazione o in una situazione. Sognare di trovarsi a bordo di un´auto coinvolta in un incidente oppure di un aereo che cade, invece, allude a una perdita di controllo sulla propria vita. I cinque "brutti sogni" più frequenti, in base allo studio, sono: cadere da grande altezza, sentirsi inseguiti da qualcuno, sentirsi paralizzati, avere la sensazione di essere in grave ritardo a un appuntamento importante, e la morte di una persona amata. «Sogni come cadere, essere inseguiti o sentirsi paralizzati, non sempre hanno una diretta corrispondenza con esperienze provate da svegli, nella vita vera - osserva il dottor Michael Schredtl, che ha diretto la ricerca - ma possono avere ugualmente un significato, rispondendo a paure ancestrali, a desideri inconsapevoli, a timori repressi». Una conferma, se mai ve ne fosse bisogno, della vecchia massima del dottor Freud: uomini e donne "si giudicano meglio da quel che sognano che da quel che pensano". Anche, forse soprattutto, quando i sogni che fanno non sono molto piacevoli.

Repubblica Roma 24.3.10
All´Anfiteatro Flavio dal 26 marzo al 3 ottobre una mostra di armi Modelli moderni a confronto con la collezione di Pompei
Spade ed elmi colorati così i giochi di sangue conquistarono Roma
di Francesca Giuliani

Il primo rito privato voluto da due figli per la morte del padre Era il 264 a. C.
Le feste al Colosseo potevano durare anche 120 giorni Come quando Traiano vinse i Daci

UNA piccola, avvincente esposizione didattica nel grande Colosseo ricostruisce origini, trionfi e anche brutture di uno dei fenomeni più imponenti e popolari di Roma antica, quello dei giochi gladiatori. A cura di Rossella Rea, vengono presentati gli strumenti di quella "guerra" per noi incomprensibile e cruenta, che tanto appassionava i romani e di cui i gladiatori erano i protagonisti. Elmi, spade, scudi sono stati ricostruiti con lunghi e accurati studi da un esperto e sono messi a confronto con la famosa collezione delle armi della caserma dei gladiatori di Pompei in una mostra promossa dalla Soprintendenza speciale per i Beni archeologici di Roma in collaborazione con Electa.
Magnifici copricapi piumati arancio e giallo ocra, tuniche di seta sgargiante e schinieri lustri sono allineati al primo piano del Colosseo: non c´è (quasi) niente di vero, ma c´è qualcosa che aiuta la comprensione, sempre nei ranghi dell´attendibilità scientifica. Spiega Rea: «Le ricostruzioni, curate da un esperto come Silvano Mattesini, intendono soprattutto mostrare al pubblico la differenza tra i reperti, quello che si è conservato fino a noi, e ciò che il pubblico vedeva durante i giochi. Soprattutto bisogna tener presente che l´Anfiteatro Flavio consentiva una visuale chiara a chi si trovava nelle prime file. Per gli altri c´erano soltanto macchie di colore: le piume sugli elmi, il luccicare delle armi, le armature sotto il sole».
La mostra guida il pubblico all´affermarsi nei secoli della passione gladiatoria fino ai trionfi del Colosseo, il teatro privato dell´Imperatore. Il primo spettacolo di cui si ha testimonianza risale al 264 avanti Cristo quando i figli di Bruto Pera allestirono giochi per il padre defunto: il munus (il tributo), rimase a lungo privato, mentre il primo ludus imperiale nacque come proprietà dell´imperatore nel I secolo avanti Cristo. Col tempo, i giochi gladiatori vennero codificati e inglobati nell´amministrazione romana che definì anche le diverse categorie dei gladiatori: gente che lo faceva per soldi e non sempre soldati i quali, se sconfitti, potevano anche essere giustiziati.
Era proprio il Colosseo a non conoscere rivali quanto a sfarzo o durata: i giochi potevano durare anche cento giorni, come nel caso dell´inaugurazione nell´80 o 120, quando Traiano tornò vincitore dalla Dacia, eventi colossali cui è dedicata una sezione della mostra. Tra gli argomenti trattati, la venatio, giochi con le belve iniziati da Marco Fulvio Nobiliore che portò nell´arena leoni e pantere. A stupire il pubblico, anche interi paesaggi capaci di apparire dai sotterranei all´improvviso, quando gli animali stessi erano coperti da ornamenti e dal velarium , disteso sopra l´arena, scendevano profumi di zafferano e incenso. Effetti speciali, giochi di sangue: tutto quello che i romani amavano di più si consumava negli stessi luoghi che oggi ne ricostruiscono i fasti e ne custodiscono le tracce.

Liberazione 24.3.10
Scomunichiamoli
Gentile direttore, nel 2007 ho stilato un “Manifesto per la Scomunica”: un semplice elenco di libertà per cui un manipolo di firmatari lotta variamente da tempo (dalla pillola Ru486 alla interruzione volontaria di gravidanza, dalle coppie di fatto alla fecondazione assistita, dalla piena libertà di ricerca scientifica al testamento biologico…) e con cui chiede di essere estromesso dalla chiesa cattolica, perché contrario ai suoi dogmi e soprattutto per non essere “conteggiato” tra gli aderenti a quella setta. Oggi il gruppo “Scomunicateci” conta quasi 4000 adesioni (solo su Facebook), cioè cinque volte il numero degli abitanti della Città del Vaticano... Il crimine della pedofilia, la violenza sui bambini perpetrata in luoghi presunti "sacri", richiede però un aggiornamento: oggi siamo noi a sentire il dovere etico di scomunicarli, oggi siamo noi a rifiutare quell’orrore travestito da candore. Oggi siamo noi che li scomunichiamo, almeno dalla politica e dal potere terreno. Che si occupino soltanto di un aldilà pieno di tormenti. Il loro aldilà.

martedì 23 marzo 2010

l’Unità 23.3.10
Emma Bonino: «Fare il militante porta una ventata di giovinezza»
Mancano solo pochi giorni, non sono poi così tanti. Fate i militanti come da piccoli, perchè può essere veramente una ventata di giovinezza». È questo l'appello rivolto dalla candidata del centrosinistra alla presidenza della Regione Lazio, Emma Bonino, a qualche centinaio di operatori della cultura, raccolti ieri al Teatro Palladium di Roma. All'incontro hanno preso parte tra gli altri l'assessore alla Cultura della Regione Lazio, Giulia Rodano, e quello della Provincia di Roma, Cecilia D'Elia, l'ex assessore alla Cultura del Comune di Roma, Silvio Di Francia e il regista Citto Maselli.

Il Tempo 23.3.10
Emma: «Sono l’occasione del Pd»
intervista di Alberto Di Majo

Il primo confronto con la Polverini non l`ha lasciata soddisfatta: «É stato noioso, poi mandarlo in onda alle 9 di mattina...». Emma Bonino, candidata del centrosinistra alle Regionali nel Lazio, avrebbe voluto un vero dibattito: «Invece ognuno ha fatto il suo discorsetto. Il governo vuole il nucleare, la privatizzazione dell`Acea, ha messo un commissario alla sanità e ha bocciato il quoziente familiare ma la Polverini se la cava semplicemente dicendo che lei farà tutto il contrario. Mi sembrano contraddizioni da segnalare in un confronto».
D`accordo onorevole Bonino, ma perché i cittadini dovrebbero votare lei?
«Ho fatto una campagna di verità senza promesse illusorie e senza demagogia. Perché sono convinta che i cittadini vogliano un nuovo rapporto con l`amministrazione basato sulla piena fiducia e la trasparenza. Il mio programma parte proprio da questo presupposto. E io ci metterò tutta la mia cocciutaggine e la mia determinazione per aprire una pagina nuova fatta di imparzialità e rigore morale nelle grandi e nelle piccole cose».
A proposito di trasparenza, nel suo programma c`è scritto che farà un assessorato specifico sul modello della Puglia. Alcuni pensano che sia un autogol, almeno in questo momento...
«Intanto la trasparenza come l`intendo io non c`è da nessuna parte. La Regione Lazio ha cominciato bene con l`anagrafe degli eletti, io la estenderò a tutti».
Quali sono le prime tre cose che farebbe da presidente della Regione Lazio?
«Inizierò appunto a dare attuazione al nostro programma sulla trasparenza totale in ogni settore dell`attività regionale: i cittadini potranno sapere tutto su chi li governa e su quanto e come si spende. Chiederò poi lo sblocco delle grandi infrastrutture tenute ferme dal governo, a partire dalla Roma-Latina, e avvierò le prime iniziative nel settore della green economy, puntando sull`efficienza e il risparmio energetico, che sono un importante volano di sviluppo assieme alla bioedilizia. Infine, nei primi cento giorni, convocherò gli Stati generali della sanità e della salute per un`operazione verità in cui siano coinvolti tutti gli attori in campo: dai cittadini ai medici, dai farmacisti agli infermieri».
Cosa manterrà e cosa cambierà della Regione targata Marrazzo?
«Voglio mantenere certamente un metodo di inclusione delle rappresentanze che è spesso andato oltre la semplice concertazione: nell`affrontare la crisi, la Giunta Marrazzo ha preso importanti decisioni assieme ai rappresentanti delle imprese e dei lavoratori, come il reddito minimo o i fondi per il credito. La grande novità sarà quella di fare di tutto per assicurare alcuni servizi primari alla persona: in particolare, dobbiamo accelerare sui nuovi servizi di cura sul territorio e sulla costruzione di una rete di trasporti pubblici all`altezza delle grandi regioni europee».
Gli ospedali. Riaprirà il San Giacomo e il Forlanini?
«Bisogna intendersi sul significato di chiudere e riaprire: secondo me qualcuno sta cercando di fare confusione. Il San Giacomo, secondo le indicazioni dello stesso ministro Fazio, è stato chiuso come ospedale con posti letto per acuti, ma mantenendo una struttura polifunzionale dedicata all`assistenza per anziani e ad altri servizi sociosanitari. La stessa strada va intrapresa anche per il Forlanini. Quello che il centrodestra regionale finge di non capire e che il centrodestra nazionale non vuole spiegare è che, nella situazione della sanità laziale, una residenza assistita e un poliambulatorio attrezzato con tecnologie moderne, primo soccorso e con un efficiente servizio di day hospital svolge una funzione più efficace, più economica e più utile di un inadeguato ospedale per acuti».
All`inizio lei ha annunciato la sua candidatura soltanto con la lista Bonino. Sospettava che il Pd avrebbe finito per sostenerla?
«Ho deciso di candidarmi nel Lazio perché secondo me questa è la regione che più di tutte ha la possibilitàdi lanciare al Paese un segnale: di fronte ai tentennamenti e a un diffuso senso di smarrimento, tanto della destra quanto della sinistra, noi abbiamo rotto gli indugi con una proposta politica altamente innovativa. La mia candidatura è in sé una proposta precisa, basata su valori e politiche che difendo da sempre con i Radicali: innanzitutto diritti, legalità e trasparenza. Su questa piattaforma ho incontrato il favore dei partiti che mi sostengono, compreso il Pd».
A proposito, si sente il salvagente del Pd?
«Sono convinta di rappresentare un`opportunità per tutti, anche per il Pd. Dopo la mia candidatura, c`è stata una risposta chiara e immediata da parte di Pier Luigi Bersani e di alcuni rappresentanti di rilievo del Pd del Lazio, a partire da Nicola Zingaretti. Abbiamo capito insieme molto presto che il nostro progetto politico ha una sua forza, un alto tasso d`innovazione. Sono convinta che la risposta da parte della società e degli elettori sarà forte».
I maligni dicono che può farle perdere voti solo Pannella...
«Pannella è un patrimonio di rinnovamento politico inesauribile: porta idee, onestà intellettuale e un amore raro per la democrazia e per la Repubblica. Tutta merce pregiata, altro che far perdere voti».
Dunque se vince lo nominerà assessore...
«Non so nemmeno se lui lo vuole fare. Non ne abbiamo parlato».
Mi dice una cosa che farà da presidente che darà soddisfazione ai cattolici?
«Farò quello che tanti cattolici mi riconoscono da sempre: sarò vicina agli ultimi e spenderò il
potere di una grande amministrazione per portare più uguaglianza e più rispetto dei diritti tra i cittadini del Lazio».
Un pregio e un difetto di Renata Polverini?
«Evidentemente parlo solo della candidata Polverini: il suo pregio iniziale è stato un certo coraggio nel proporre temi laici, come le coppie di fatto. Il suo difetto è di aver rinunciato
subito alle sue idee sotto la pressione dei partiti che la sostengono».

l’Unità 23.3.10
Bagnasco schiera la Chiesa «Alle urne contro l’aborto»
Non votate chi è a favore dell’aborto e all’uso della pillola RU486. È il richiamo del cardinale Bagnasco che ha aperto ieri il Consiglio permanente. Chiede anche moralità e onestà. Sulla pedofilia «vigilanza».
di Roberto Monteforte

Al Consiglio permanente il cardinale punta il dito contro la pillola Ru486 e contraccezione
«Valori non negoziabili». E Berlusconi elogia il Papa: efficace la lettera sulla pedofilia

Per un cattolico la difesa della vita dal suo concepimento alla morte naturale è un impegno irrinunciabile. Mentre è iniziato il conto alla rovescia per le prossime elezioni amministrative la Chiesa dà la linea all’elettorato cattolico. Lo fa il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco richiamando il rispetto dei «valori non negoziabili» nella prolusione con cui ha aperto ieri i lavori del consiglio permanente dei vescovi. «Quale solidarietà sociale è possibile se si rifiuta o si sopprime la vita, specialmente la più debole?» si è chiesto puntanto il dito contro l’impiego della pillola abortiva RU486 e la diffusione di altre «metodiche contraccettive cosiddette di emergenza». In tal modo, denuncia, «l'aborto sarà prolungato e banalizzato», con il risultato di una «invisibilità etica». È in questo contesto, «inevitabilmente denso di significati», che per i vescovi «sarà bene che la cittadinanza inquadri con molta attenzione ogni singola verifica elettorale, sia nazionale sia locale e quindi regionale». Non fa nomi Bagnasco, ma paiono evidenti i suoi riferimenti alle candidature PD alla presidenza della regione Lazio e a quella del Piemonte.
POLITICA VERA E MORALITÀ
Il richiamo al rispetto dei valori etici è a tutto tondo. Fermissime sono, infatti, le parole di condanna di Bagnasco della corruzione e sulla crisi della moralità pubblica, l’attenzione al bene comune e in particolare ai più deboli. La Chiesa attende l’esito delle inchieste giudiziarie in atto, ma richiama con decisione l’«imperativo all’onestà», invitando tutti «con umiltà, ad
uscire dagli incatenamenti prodotti dall'egoismo e dalla ricerca esasperata del tornaconto e a innalzarsi sul piano della politica vera». Invita alla cautela nella rappresantazione mediatica del fenomeno. «Non è vero che tutti rubano, ma se per assurdo ciò accadesse, cosa che non è, non si attenuerebbe in nulla l'imperativo dell'onestà», sottolinea il cardinale. «Non cerchiamo alibi preventivi nè coperture impossibili: sottrarre qualcosa a ciò che fa parte della cosa pubblica non è rubare di meno; semmai, sarebbe un rubare di più». I vescovi chiedono di liberarsi «dai comportamenti iniqui, dalle contiguità affaristiche per riconoscere al prossimo tutto ciò di cui egli ha diritto, e innanzitutto la sua dignità di cittadino».
Forte è la preoccupazione della Chiesa per «i frutti più amari» che la crisi economica sprigiona ora sul territorio». Fabbriche che chiudono, disoccupazione e cassa integrazione che aumentano: un’emergenza da affrontare prestando attenzione alla «responsabilità sociale», evitando la fuga dai problemi, e «soluzioni unilaterali e drastiche». Si invoca «una seria concertazione sociale». Sul tema caldo dell’immigrazione la Cei chiede una strategia di reale integrazione, bocciando le «isole etniche».
TRASPARENTI SULLA PEDOFILIA
Bagnasco affronta anche il tema doloroso della pedofilia. Piena è la sintonia dei vescovi italiani con Benedetto XVI e con la sua lettera pastorale inviata ai cattolici irlandesi. «La Chiesa impara a non avere paura della verità, anche quando è dolorosa e odiosa, a non tacerla o coprirla» scandisce il cardinale. Questo però «non significa subire qualora ci fossero strategie di discredito generalizzato». Bagnasco si fa vanto della «trasparenza» nel-
l’azione dei vescovi e del fatto che in Italia c'è stata «vigilanza per prevenire situazioni e fatti non compatibili con la scelta di Dio». Anche se casi di questo «comportamento aberrante» stanno venendo alla luce anche nel nostro paese. La linea è quella indicata dalla lettera di Benedetto XVI ai cattolici d’Irlanda. Una «risposta straordinariamente efficace», davanti a «situazioni difficili» che diventano anche «motivo di attacco» verso la Chiesa la definisce il premier Berlusconi in un messaggio inviato al Papa esprimendogli a nome del governo italiano «tutto l’affetto, la vicinanza e la solidarietà che ha verso di Lui il nostro popolo». La nostra gente, conclude un Berlusconi a caccia di voti, «sa distinguere tra gli errori umani, e gli enormi frutti di bene che sono nati e continuano a nascere dalla radice cristiana».

Repubblica 23.3.10
La bandiera vaticana
di Adriano Prosperi

Le elezioni sono alle porte e la Chiesa italiana ha parlato: o meglio, ha parlato la Cei per bocca del cardinal Bagnasco. La precisazione è d´obbligo: è possibile che una sola voce riesca ad esprimere la quantità e la qualità delle posizioni che si muovono nella realtà del mondo cattolico?
Ci si chiede anche se le elezioni amministrative siano un´occasione di tale importanza da imporre che si levi in modo speciale la voce di un´autorità morale e spirituale come la Chiesa nella sua espressione gerarchica, obbligata dalla sua stessa natura a essere al di sopra delle parti . E non intendiamo levare la pur sacrosanta protesta di chi chiede che le autorità ecclesiastiche si astengano dalla lotta politica: anche se si potrebbe – e forse si dovrebbe, visti i tempi – ricordare ai vescovi che ci sono tante occasioni di urgenze grosse e di scandali clamorosi davanti ai quali la loro voce dovrebbe trovare il coraggio di levarsi. Lo stato morale del Paese è disastroso. C´è una corruzione che ha invaso – partendo dall´alto – anche i più remoti angoli dove si dà esercizio del potere. È cosa recentissima la pubblicazione del rapporto annuale dell´agenzia internazionale per il monitoraggio dello stato dei diritti umani nel mondo: e lì abbiamo letto note ben poco confortanti per il nostro Paese. Che cosa può fare un vescovo in questa situazione?
I modelli di vescovi che hanno saputo affrontare senza paura i potenti per esercitare il loro compito di pastori di anime e di guide di coscienze non mancano certo nella millenaria storia della Chiesa: il gesto di ripulsa e di condanna di Sant´Ambrogio davanti all´imperatore Teodosio fondò il diritto del vescovo di Milano a guidare il suo popolo. Non sono più tempi così drammatici, penserà qualcuno. Eppure l´appello del cardinal Bagnasco ha un tono di una certa drammaticità. Anche se nel suo discorso sono stati toccati diversi problemi, nella sostanza uno domina su tutti gli altri. Gli elettori sono stati invitati a seguire nella scelta elettorale la bussola della questione dell´aborto.
Ora, la domanda che si pone è se questo è veramente il problema dei problemi, quello per cui sta o cade la società. Si dice che questa funzione è quella che prima di tutte le altre appartiene alla Chiesa: la difesa della vita. Bandiera nobile, se altre ce ne sono. La vita umana va difesa. Su questo siamo tutti d´accordo. Ma allora bisogna essere conseguenti e andare fino in fondo. Prendiamo un caso: sono passati appena pochi giorni da un episodio gravissimo: una madre ha partorito in una stazione di sport invernali dove lavorava, sulla neve dell´Abetone. Aveva un permesso di soggiorno legato al suo posto di lavoro. Ha nascosto il parto, il neonato è morto soffocato. Un´immigrata non può avere figli senza rischiare di perdere il lavoro: è l´effetto di una legge approvata da un governo di centrodestra che si vanta di avere il consenso degli italiani. E l´appoggio della Chiesa a questo governo produce ogni giorno effetti devastanti.
Noi non sappiamo quanti siano gli aborti clandestini che si praticano in Italia. Fu per affrontare la piaga dell´aborto clandestino che fu varata la legge 194. E l´effetto si è visto. Era un modo civile di affrontare una piaga antica, ben nota alle autorità ecclesiastiche. Per secoli l´arma della scomunica non ha impedito che nel segreto delle famiglie si eliminassero i figli indesiderati laddove le ferree catene del bisogno imponevano di non aumentare le bocche e di non avere figlie femmine. Allora la scomunica non colpiva i colpevoli della iniqua distribuzione delle risorse. E ancora oggi la condanna ecclesiastica non colpisce coloro che hanno varato quella legge che provoca lutti e dolori, che impedisce alle donne immigrate di avere figli. Né colpisce le forze politiche che non hanno a cuore la tutela della famiglia e che dedicano tutta la loro forza a sottrarre alla legge un presidente del Consiglio invece di varare una riforma fiscale che introduca il quoziente famiglia. Invece basta un normale appuntamento elettorale perché si ripeta ancora lo stanco spettacolo di un´autorità ecclesiastica che si schiera a favore di una parte politica contro un´altra. È un rito vecchio, logorato dall´uso, ripetitivo, facilmente decifrabile. Siamo a una scadenza elettorale resa inquieta dal silenzio della televisione di Stato, assurdamente determinata a lasciare i cittadini in una condizione di dubbio e di perplessità. Sono semplici elezioni amministrative. Non è in gioco la sorte del governo. Si tratta di scegliere i candidati più credibili per affidare loro l´amministrazione di regioni e città. Ci aspettavamo di essere messi in grado di scegliere serenamente sulla base dei profili dei candidati e del contenuto dei loro programmi. Ma di programmi è stato molto difficile parlare .
Il confronto è stato oscurato dall´episodio della clamorosa incapacità del più potente partito italiano di mettere insieme una lista di candidati e di farla pervenire alla scadenza dovuta davanti all´ufficio competente. Una manifestazione di piazza ha costruito lo spettacolo televisivo per raggiungere in un colpo solo tutti gli elettori. Ma forse anche questo spettacolo rischiava di non essere efficace. E allora, che altro si poteva fare per dare una mano al Pdl e combattere la candidatura di Emma Bonino nel Lazio?

Repubblica 23.3.10
La candidata del centrosinistra nel Lazio teme che il centrodestra voglia utilizzare contro di lei le parole del presidente della Cei
La Bonino evita lo scontro frontale "Vogliono farmi cadere in una trappola"
di Giovanna Vitale

È un evergreen, non mi sembra ci siano novità. Noi continuiamo la campagna sui problemi che interessano la gente
Spetta allo Stato legiferare su temi etici, non alla Regione. Noi andiamo avanti su temi come salute e legalità

ROMA - Le dichiarazioni del cardinal Bagnasco raggiungono Emma Bonino al Caffè Letterario, dove la candidata del centrosinistra sta incontrando una piccola folla di ragazzi, almeno duecento, per parlare di loro: cioè di futuro. Il telefonino le segnala l´arrivo di una mail spedita da Sabrina Gasperini, la donna-ombra che vigila sul suo Comitato elettorale: "Tema aborto non può influenzare voto", titola il primo lancio d´agenzia; "Politici ricordino che rubare è sempre male", recita il secondo. È il succo del discorso pronunciato da presidente della Cei: la leader radicale scorre velocemente il testo, nessuna smorfia a tradire disappunto, come se un po´ se lo aspettasse.
«È un evergreen. Non mi sembra ci sia nessuna novità, sono le solite cose», dirà più tardi correndo al teatro Palladium per un confronto con il mondo della cultura, il cinema, lo spettacolo. Giusto qualche telefonata, prima, per concordare la linea con i collaboratori: tutti zitti, nessuna reazione, la consegna del silenzio deve essere ferrea. «Qualsiasi cosa dica rischierei il massacro», ragionerà con i più fidati, «siamo alla stretta finale, un errore adesso e ci giochiamo l´intera campagna elettorale». Conosce i suoi polli, la vicepresidente del Senato. È bastata una sola parola, «evergreen», perché il pidiellino Maurizio Lupi la tacciasse di essere «sprezzante». Un´analisi condivisa anche con lo storico portavoce: «Emma, questa è una trappola, una chiamata alle armi di un centrodestra in difficoltà», le suggerisce Filippo di Robilant. «Non devi dire niente perché è esattamente quello che vogliono e che aspettano per farti a pezzi».
La trincea da difendere, per Bonino, è chiara. Lo ha ripetuto più e più volte in queste ultime settimane: «Spetta allo Stato legiferare sui temi etici, non alla Regione. Noi continuiamo la nostra campagna sui problemi che interessano i cittadini: la salute; la legalità; lo sviluppo; il sostegno alle famiglie, che significa tutelare i diritti delle persone che spesso organizzano i loro affetti come possono non come vogliono, non sta alle istituzioni dare una valutazione di merito». Un concetto ribadito anche in mattinata, durante il primo faccia a faccia televisivo con Renata Polverini. Condito da un acceso botta e risposta sul «buco di 10 miliardi nella sanità lasciato da Storace», subito contestato dalla sfidante del centrodestra («Il debito era stato accumulato da Badaloni» e comunque «io rinegozierò il piano del governo e in tre anni abbasserò Irap e Irpef»), chiuso da una stoccata della leader radicale: «Però, Renata, un po´ decenza: il governo è per il nucleare e tu dici che non lo vuoi. Vogliono privatizzare l´Acea e tu dici che non vuoi. Il tuo è un libro dei sogni».
Tuttavia un po´ di amarezza resta. Unita alla sensazione che i colpi di coda di una campagna elettorale già avvelenata dai contenziosi giudiziari potrebbero non essere finiti. Occorre evitare le trappole. Non cadere nella rete. Una scelta di low profile, soprattutto nei confronti delle gerarchie. «D´altra parte, quando la settimana scorsa lo stesso Bagnasco disse che serviva rigore nell´amministrare la cosa pubblica, che senza trasparenza la democrazia muore, nessuno di noi si è sognato di esultare», sottolineano al Comitato Bonino. «Eppure sembravano parole tese a valorizzare le battaglie di legalità di Emma. Come pure, a ben guardare, la seconda parte dell´intervento di oggi, allorché sempre il cardinale evoca l´imperativo all´onestà e ammonisce: "Nessun alibi per chi ruba"».
Passaggi che anzi, in qualche caso, coincidono con quelli pronunciati dalla vicepresidente del Senato nel suo incontro con i ragazzi: «Non vi sentite una categoria, siete il futuro di questo Paese», li aveva incitati la leader radicale. «Badate: il futuro è davvero nelle vostre mani, vorrei vedervi determinati a mordere il mondo». Il corollario di quanto appena detto dal n.1 dei vescovi a proposito degli effetti della crisi sui giovani «che già costituivano la fascia di popolazione più in sofferenza perché meno garantiti e poco sussidiati nel loro tuffo verso la vita» e che «oggi rischiano di demoralizzarsi definitivamente».

Repubblica 23.3.10
Pedofilia, Bagnasco avverte "Dobbiamo affrontare la verità ma basta accuse indiscriminate"
Lo scandalo, annuncia un avvocato delle vittime, scoppierà anche in Italia
di Marco Ansaldo

CITTÀ DEL VATICANO - «Fare giustizia nella verità». «Determinazione di fare verità fino ai necessari provvedimenti». «La Chiesa, nel momento stesso in cui sente su di sé l´umiliazione, impara dal Papa a non avere paura della verità, anche quando è dolorosa e odiosa, a non tacerla o coprirla».
Verità. Il cardinale Angelo Bagnasco ripete la parola tre volte, sempre nei passaggi centrali del suo discorso di apertura ai lavori della Conferenza episcopale permanente, il "parlamentino" dei vescovi. Faremo giustizia e verità. Lo spinoso tema della pedofilia nella Chiesa viene trattato ampiamente nella sua prolusione. E´ un «crimine odioso», ripete il presidente della Cei. Anzi, «aberrante». Ma è anche un «peccato scandalosamente grave, che tradisce il patto di fiducia iscritto nel rapporto educativo».
E´ per questo che la Chiesa italiana, dice l´arcivescovo di Genova leggendo ai suoi colleghi confratelli le 19 pagine dell´intervento, non intende minimizzare il problema. «La trasparenza - assicura Bagnasco - è un punto d´onore della nostra azione pastorale». Ma attenti al pericolo, avverte, di «accuse indiscriminate» che rischiano di gettare discredito su tutto il clero. I preti lavorano con dedizione per i bambini. «In quest´ora delicata - dice il capo dei vescovi proprio ai suoi ministri - una parola ci sentiamo in dovere di rivolgere a voi, amati sacerdoti che fate il vostro dovere con fede, amore e dignità. Siate sereni sapendo che le nostre comunità hanno fiducia in voi».
Alla Lettera pastorale indirizzata sabato scorso dal pontefice ai cattolici irlandesi si è riferito ieri anche il Presidente del Consiglio. «Benedetto XVI - ha detto Silvio Berlusconi - non diversamente dai suoi recenti predecessori, è spesso chiamato a confrontarsi con situazioni difficili, che diventano motivo di attacco alla Chiesa e perfino alla sostanza stessa della religione cristiana. Il modo in cui risponde è straordinariamente efficace. La Lettera pastorale ai cattolici irlandesi è solo l´ultimo esempio di questo suo grande carisma».
In varie zone d´Italia cominciano intanto a prendere forma diverse iniziative antipedofilia. «Lo scandalo sta per scoppiare anche in Italia - dice Roberto Mirabile, presidente dell´associazione La Caramella buona, di Reggio Emilia - è solo questione di settimane. E il Papa non dovrebbe aspettare una causa miliardaria, ma fare una bella lavata di testa ai vescovi. Sono loro il vero problema perché, piuttosto che intervenire, spostano i responsabili degli abusi da una parrocchia all´altra».
Anche a Verona qualcosa si muove. E i fascicoli sulle presunte violenze sessuali da parte di religiosi all´Istituto per sordomuti Antonio Provolo, avvenute circa 30 anni fa su 67 alunni, verranno affrontati dalla Congregazione vaticana per la Dottrina della fede. Lo ha annunciato il portavoce della Curia veronese, monsignor Bruno Fasani, precisando che la decisione risponde alle recenti disposizioni papali contro i preti pedofili, per accelerare i processi.
A Bologna infine, Claudia Colombo, avvocato ferrarese che rappresenta una decina di genitori di bambine dai 5 ai 7 anni che subirono molestie sessuali all´asilo da un sacerdote di Cento, poi condannato a 6 anni e 10 mesi, lancia un appello: «Nonostante la lettera del Papa ai cattolici irlandesi, nessun messaggio di scuse ci è arrivato dalla Curia di Bologna. E neppure si è parlato di risarcimenti. Le parole di conforto sono importanti, ma non sempre sono sufficienti».

Repubblica 23.3.10
Berlino, imbarazzo sui silenzi del Pontefice
Tensione nel governo Merkel. Nuovi casi denunciati a Ratisbona
di Andrea Tarquini

Berlino - Il Papa prenderà presto posizione sul dramma degli abusi di minori da parte di religiosi in Germania, dice la ministro liberale (Fdp) della Giustizia, Sabine Leutheusser- Schnarrenberger. È opportuno, dopo il silenzio sul caso tedesco nella lettera ai vescovi irlandesi, aggiunge. E urge che la Chiesa collabori pienamente con la giustizia. Ma la lettera del Pontefice, replica la Cancelliera Angela Merkel va accolta con soddisfazione. Il tragico tema della pedofilia nelle istituzioni religiose arriva a creare tensioni nel governo, nella patria di Benedetto XVI. Proprio mentre emergono nuove denunce: sei sacerdoti o religiosi in vita sono sotto inchiesta a Ratisbona (la città dove il fratello del Papa ha diretto per decenni il coro delle voci bianche del Duomo) per sospetti abusi su minori, e altre denunce riguardano prelati deceduti. Su questo sfondo, esplode uno scontro tra Chiesa ed ebrei tedeschi: la presidente delle Comunità ebraiche, Charlotte Knobloch, esige indignata che il vescovo di Ratisbona, Gerhard Ludwig Muller, si scusi per aver paragonato le critiche di oggi contro la Chiesa alla campagna anticristiana ordita da Hitler e Goebbels sotto il nazismo.
In vista della tavola rotonda del 23 aprile sulla lotta alla pedofilia, che riunirà esecutivo, responsabili dell´istruzione, chiese, il governo è diviso da tensioni. «Penso che il Vaticano prenderà presto posizione sui casi tedeschi», ha detto alla Frankfurter Rundschau la combattiva ministro della Giustizia (il cui cane, quando lei era nel governo Kohl, si chiamava Martin Lutero). Mi aspetto anche, ha aggiunto, piena collaborazione della Chiesa con le indagini della magistratura. E auspico tempi di prescrizione più lunghi per i delitti pedofili. Un linguaggio ben più duro della soddisfazione espressa dalla Cancelliera. Secondo la quale è di grande importanza che il Papa abbia affrontato il tema trovando le parole giuste per le vittime.
Ogni giorno però la posizione della gerarchia ecclesiastica si fa più difficile, nella patria di Benedetto. «Alla Chiesa tedesca avrebbe fatto bene una parola del Papa sui casi in Germania, lui non ha avuto il coraggio di trovarla», accusa la Sueddeutsche Zeitung di Monaco, liberal. Anche la più conservatrice Frankfurter Allgemeine lamenta i silenzi sui problemi strutturali che possono favorire la pedofilia. E su questo sfondo, la sfuriata del vescovo di Ratisbona col paragone tra oggi e l´era nazista causa shock. Il presidente del Comitato centrale dei cattolici tedeschi, l´arciconservatore e autorevole politico cristianosociale bavarese Alois Glueck, nota che «quelle parole creano l´impressione che parte della Chiesa non voglia fare luce».

Repubblica 23.3.10
L´intellettuale cattolico: "Nel nostro Paese quegli abusi nelle scuole erano sistematici e diffusi"
La provocazione di O´Connnor "Il Papa dovrebbe dimettersi"
Lo scrittore irlandese: venga qui e chieda scusa in ginocchio
di Enrico Franceschini

Penso sia stata una risposta inadeguata e profondamente evasiva. La Chiesa non vuole affrontare quanto c´è di sordido nel suo interno

LONDRA - «Una risposta vergognosamente inadeguata ed evasiva». Così Joseph O´Connor, uno dei più importanti scrittori irlandesi dell´ultima generazione, giudica la lettera con cui Benedetto XVI ha chiesto scusa all´Irlanda per gli abusi dei preti pedofili e per la copertura che hanno a lungo ricevuto dalle istituzioni cattoliche. Il 47enne autore di La fine della strada, Stella del mare e La moglie del generale, tutti best-seller internazionali pubblicati con successo anche in Italia da Guanda (per la quale in agosto uscirà la traduzione del suo ultimo romanzo, Ghost light), vorrebbe molto di più dal pontefice: chiede le dimissioni del Papa e auspica un suo pellegrinaggio in Irlanda e negli altri paesi colpiti dagli abusi dei religiosi, «per chiedere di persona perdono, in ginocchio, davanti alle vittime degli stupri».
Come valuta la lettera pastorale inviata dal papa lo scorso fine settimana all´Irlanda, alla chiesa cattolica d´Irlanda, ai fedeli irlandesi?
«Penso che sia una risposta vergognosamente inadeguata e profondamente evasiva. Mi sembra la prova che le istituzioni della Chiesa cattolica continuano a non volere affrontare tutto quanto c´è di sordido, di segretezza e di corruzione al loro interno».
Quale fu la sua prima reazione quando lo scandalo fu portato alla luce per la prima volta in Irlanda?
«Sentii semplicemente che veniva confermato ciò che ogni scolaretto o ex-scolaretto irlandese sapeva già».
Lei pensa che i rapporti pubblicati dalle due commissioni d´inchiesta irlandesi sugli abusi sessuali di preti e suore, il primo reso noto nel maggio scorso e il secondo in novembre dello stesso anno, abbiano evidenziato fino in fondo i soprusi e il tentativo di insabbiamento?
«Be´, in effetti i termini di riferimento di quelle inchieste erano limitati in partenza. Tuttavia a mio parere entrambi i rapporti sono buoni e utili. Però dovrebbero essere il primo atto, non l´atto conclusivo, di questa vicenda. Io credo che sarebbe il momento di aprire un´inchiesta minuziosa su ogni diocesi e ogni istituzione religiosa dell´Irlanda, senza eccezioni».
Ha mai incontrato o conosciuto personalmente qualche vittima di questi abusi?
«Naturalmente sì. Guardi, in Irlanda, non c´è individuo che non conosca vittime degli abusi della Chiesa cattolica sui minori, tanto erano sistematici e diffusi».
Lei è cattolico?
«No, non lo sono».
In ogni modo crede che lo scandalo abbia creato una crisi di fiducia dei cattolici irlandesi nei confronti della Chiesa?
«Come ho detto, non essendo cattolico non mi sento nella posizione più adatta per rispondere a questa domanda. Pur tuttavia mi sembra, guardando la situazione dall´esterno, che i fedeli che vanno a messa sappiano distinguere tra la fede in Dio e la fiducia nella Chiesa. Ma come riescano a fare questa distinzione, non saprei proprio dirlo».
Ritiene che gli scandali venuti alla luce dovrebbero diventare un´opportunità per la Chiesa cattolica per cambiare le norme sul celibato e permettere ai preti di sposarsi?
«Ripeto, non sono cattolico e dunque non è il tipo di domanda che ha una reale importanza per me. Quello che mi sento di dire comunque è che ogni organizzazione che sia totalmente maschile e riceva un universale rispetto è ovviamente un potenziale paradiso ideale dei pedofili. Entrando a far parte della Chiesa cattolica, queste persone avevano la possibilità di nascondersi pur conducendo un´attività pubblica e venivano sistematicamente protette».
Che cosa dovrebbe fare Benedetto XVI, secondo lei, per dimostrare il suo pentimento e cambiare radicalmente le cose rispetto a questo problema?
«Primo, dovrebbe immediatamente dimettersi. Secondo, dovrebbe trasferire al governo irlandese tutte le proprietà che la Chiesa cattolica ha in Irlanda. Terzo, dovrebbe venire in Irlanda, mettersi in ginocchio, e implorare il perdono di coloro che sono stati stuprati dai preti che le sue istituzioni hanno protetto. E poi dovrebbe andare a fare la stessa cosa in ogni altro paese dove è accaduta la stessa cosa».
Questa storia ha già generato almeno un film, The Magdalene Sisters: potrebbe diventare ora anche un romanzo? Ha mai pensato di scriverne uno su questo argomento?
«A dire la verità ci sto pensando proprio adesso».

il Fatto 23.3.10
C’è un’alternativa al governo: è la Chiesa di Ratzinger
di Carlo Tecce

Lezioni di scienza politica. Come fare campagna elettorale, anzi come confezionare un comizio di parte davanti a sette milioni di italiani. Una propaganda a più voci. Fase 1, l’indicazione. Il ‘monito’ dei vescovi per un voto contro l’aborto e per la difesa della famiglia. Al Tg1 sanno bene che, domenica prossima, ci saranno le elezioni in tredici regioni. Non il referendum sull’aborto, cronaca del 1981. Il messaggio non è proprio subliminale: “Non votate per la radicale Bonino”. Fase 2, chiamata alle armi. Solita telefonata di Berlusconi intercettata in chissà quale convegno (n.b. stavolta Minzolini arriva prima di Emilio Fede e di “Studio Aperto”): “No all’astensione, attenzione al regalo a quelli di sinistra”. Fase 3, la pluralità. Elucubrazione di Gianfranco Fini sul presidenzialismo, e altri sofismi fuori dal tema per dimostrare la ‘coralità’ nel Pdl. Fase 4, le disgrazie altrui. Insolito agguerrito pezzo dell’inviata Graziadei sull’inchiesta di Bari, la sanità, il carcere di Frisullo, le tangenti, le escort. In una parola: il Pd. Totale: sette minuti al governo e alla maggioranza, alla Chiesa e all’inconsistenza (morale, se non religiosa) dell’opposizione. Un atto di fede del “direttorissimo”.

l’Unità 23.3.10
Bagnasco e Polverini, un abbraccio mortale?

L’invito del cardinal Bagnasco a votare alle prossime regionali come se si trattasse della rivincita del referendum con cui (quasi trent’anni fa) l’Italia disse no all’abrogazione della legge 194 è stato accolto da una parte del Pdl, almeno inizialmente, con sollievo. Soprattutto perché di motivi di ottimismo Renata Polverini ne ha avuti fin’ora davvero pochi. Ma rapidamente a destra si è fatta strada un po’ di preoccupazione: è sorto il dubbio che, alla fine, il messaggio della Cei possa diventare una sorta di messa in mora della candidata laziale del centrodestra. Non è infatti un mistero che Emma Bonino abbia combattuto negli anni Settanta contro il flagello dell’aborto clandestino (lei stessa l’ha rivendicato con orgoglio all’inizio della campagna elettorale), mentre non è ben chiaro il pensiero di Polverini sul problema, a parte qualche generica dichiarazione a sostegno della vita. Ed ecco il timore della messa in mora: forse le gerarchie ecclesiastiche vogliono sentir dire da lei che, se vincerà il centrodestra, per le donne nel Lazio sarà più difficile, se non impossibile, abortire? E comunque mai con la pillola Ru486, cioè con la tecnica più moderna e meno dolorosa? Se è questo che Bagnasco vuole da Polverini, si comprendono le preoccupazioni nel suo entourage e in particolare nella parte più vicina a Gianfranco Fini. Il voto che, alle politiche del 2008, cifrò la lista antiabortista di Giuliano Ferrara allo 0,3% fa ancora paura. Preoccupazione comune anche ai laici (per esempio Cicchitto) che all’inizio della campagna elettorale invitarono a non sottovalutare proprio la candidatura, allora ancora ipotetica, di Emma Bonino.
A questo timore se ne aggiunge un altro: che gli effetti benefici dell’intervento episcopale, vista l’assenza della lista del Pdl,, si riversino a Roma sulla sola Udc. Certo, in maggioranza non si aspettavano in un sostegno elettorale così netto. Ma la lettera con la quale in mattinata il cattolico Berlusconi aveva espresso vicinanza alla Chiesa per le accuse sulla pedofilia, secondo quanto confidano fonti di governo, ha avuto un ruolo non secondario nella scelta dei toni di Bagnasco. E pensare che nel Pdl c’era chi temeva una bacchettata per il rito pagano, con tanto di promessa sconfitta del cancro, consumatosi sabato sul palco di Piazza San Giovanni. Uomini di poca fede...

l’Unità 23.3.10
Bersani: «Nel Lazio la partita decisiva E poi torneremo in Campidoglio»
di Maria Zegarelli

La partita più importante si gioca nel Lazio: è da qui che può essere servito «il primo piatto al Pdl, in attesa del secondo», cioè il ritorno del governo di centrosinistra a Roma, «perché una città come questa non può avere Alemanno come sindaco». Pierluigi Bersani parla ai simpatizzanti del XV ̊ Municipio, uno dei più popolosi della capitale e diffonde ottimismo tra i militanti. «Qui si può realizzare il fatto politico più importante», perché oggi l’aria è diversa, «è un’aria buona, credo che siamo in condizione di aspettarci che gli elettori mandino una letterina un po’ brusca al governo, a questa maggioranza e al presidente del Consiglio dicendogli che l’Italia non può stare sempre attorno ai suoi problemi». A chi gli chiede pronostici risponde: «Non dico abbiamo vinto, dico vinciamo», quello che è certo è che le cose stanno in maniera molto diversa da come il Pdl le raccontava due mesi fa, ripete in vista dell’appuntamento con le urne. E in serata, ospite di «Otto e mezzo» dice che non sarà certo l’appello della Chiesa a dare un voto per la vita a danneggiare Emma Bonino, «non mi è sembrato un appello elettorale quello del cardinale Bagnasco». E se il ministro Sacconi cerca di spostare il tema sull’aborto, Bersani replica «che non è un tema della campagna elettorale».
I NERVI TESI DEL PDL
«Non siamo nella riserva indiana, oggi possiamo vincere nella maggioranza delle Regioni» se si parla dei temi che più riguardano i cittadini: lavoro, legalità, regole, futuro». Il segretario cerca di riportare la campagna elettorale sui contenuti, ma la polemica con la maggioranza e dentro la stessa maggioranza sposta l’asse. L’ultimo tema che divide, soprattutto nel governo, sono i numeri della manifestazione di sabato scorso: Bersani si dice «sbigottito» davanti a esponenti «di primissimo piano della maggioranza che hanno insultato il Questore di Roma, addirittura il capogruppo al Senato gli ha dato dell’ubriacone. Non mi aspettavo che arrivassero fin lì, non so cosa ci sia ancora da aspettarci». E si chiede quale impressione deve aver fatto agli elettori di centrodestra vedere i 13 candidati, «campioni delle autonomie», giurare nelle mani di Berlusconi. «Lo trovo umiliante e agghiacciante, quella cosa non avrei voluto vederla», spiega aggiungendo che se il clima è teso non è certo una responsabilità dell’opposizione, quanto piuttosto di un premier che pensa alla politica «come ad un eterno comizio». Un comizio senza contradditorio, come dimostra il rifiuto del confronto televisivo con Bersani. «Prendo atto che questo è il suo modo, credo che abbia qualche difficoltà ad affrontare i problemi reali», risponde Bersani elencando i risultati di due anni di governo: 20 miliardi in meno di incasso dall’Iva; un megacondono per capitali esportati con un obolo del 5%; 12 miliardi di euro in più rispetto allo scorso anno spesi per beni della pubblica amministrazione; un taglio di otto miliardi nelle scuole e 9 miliardi in meno in investimenti. «Berlusconi non può confrontarsi con la realtà perché deve sempre mettere la faccia vicino a un miracolo, non vicino a un problema». Per questo non ci saranno confronti e per questo, dice, nei sette milioni di lettere che stanno per arrivare agli italiani, «dirà sempre le stesse cose: il bene contro il male, la sinistra, i giudici... È un disco rotto».
C’è chi chiede un commento alle dichiarazioni di Bagnasco e ils egretario anticipa quello che dirà in serata ospite di Lilli Gruber: «È un discorso serio quello di tenere conto dei comportamenti, perché tra comportamento personale e pubblico non c’è il mare, deve esserci qualche comunicazione». Perché la Chiesa ha parlato anche della questione morale, della lotta alla corruzione e della questione antropologica. «Noi siamo attenti non solo alla questione sociale ma anche a quella che la Chiesa da tempo definisce la questione antropologica», conclude Bersani.

il Fatto 23.3.10
Al coro “Unité” la Sinistra punta all’Eliseo
La vittoria alle Regionali su Sarkozy frutto della coesione tra le varie anime
di G. M.

“Adesso comincia la parte più difficile”: Daniel Cohn Bendit dixit, Martine Aubry assentì. Vittoria eclatante, ma ingombrante e costrittiva, quella della sinistra francese. Non è solo che il Ps ha conquistato ventuno regioni su ventidue, è che ha fatto nascere la speranza di vincere anche le presidenziali: non accade dal 1988, l’anno della stanca seconda volta di François Mitterrand. Quindi tutti d’accordo, ieri, i vincitori: per mantenere l’abbrivio adesso urgono strategia, leadership, programma. Una montagna da scalare, con il piede che scivola ad ogni metro. Il più rapido è stato l’ex leader del ’68. Ha firmato su Libération il suo secondo “appello del 22 marzo”. Il primo fu quello di quarantadue anni fa, e diede fuoco alle polveri del Maggio. Quello odierno non sa più di barricate. Ruota attorno ad una parola-chiave, inedita nel linguaggio politico transalpino: “Cooperativa”. Vuole mettere la prima pietra all’edificio, e comincia guardando in casa sua, nella variegata famiglia ecologista. Intende strutturarla, consapevole che ruota ormai tra il 13 e il 16 per cento, e forse anche di più. Ma non vuol sentir parlare di “partito”: “I partiti sono roba vecchia, superata”. Ecco quindi la “cooperativa politica” strutturata su due piani. Al primo piano, detto “camera alta”, si raccoglieranno i gruppi dirigenti già esistenti: Verdi, Europe écologie, altre anime della galassia ambientalista. Al pianterreno tanti “collettivi” territoriali, detti “camera bassa”, ai quali spetterà sempre l’ultima parola per le decisioni di carattere nazionale. Fondamentali i tempi: “Cooperativa” entro il 2010, in modo da posizionarsi alle primarie del Partito socialista nel 2011, che saranno aperte agli elettori e non più riservate agli iscritti.
Sullo sfondo, il nocciolo del problema, costituito dal primo turno delle presidenziali del 2012: esserci o non esserci con un candidato tutto di verde vestito? Le opinioni per ora divergono. Il Ps ieri si stava ancora allisciando il pelo, troppo beato della sua vittoria per reagire puntualmente alle proposte del frenetico Cohn Bendit. I suoi dirigenti, Martine Aubry in primis, avevano ancora nelle orecchie il coro che risuonava domenica sera nella sede di rue Solferino, presa d’assalto dai militanti: “Unité, unité!”. Dunque la strada, in teoria, è tracciata: Ps-Europe écologie-Front de gauche sono un trio a somma vincente. In verità il lavoro di cucitura sarà improbo. Innanzitutto in casa socialista: bastava vedere domenica il sorriso radioso di Ségolène Royal, trionfalmente rieletta nel suo Poitou-Charente con il 63 per cento dei voti. Un sorriso, una promessa: alle primarie per le presidenziali ci sarò, e non farò sconti a nessuno. Oppure i commenti di François Hollande, tutti improntati a saggezza presidenziale. E la disponibilità nuova di Martine Aubry verso i suoi alleati, come se si portasse garante di un Ps rispettoso delle diversità. Insomma le ambizioni dei leader socialisti sono lì, intatte e anzi più gagliarde che mai. Sarà un lavoraccio tenerli calmi per i prossimi due anni. L’incubo, per tutti, è quello delle regionali del 2004: trionfali anche allora, venti regioni su ventidue ai socialisti. Ma nel 2007 seguì
la tranvata presidenziale, così che da allora si parla della maledizione del Ps, anzi dei due Ps: uno regionale e comunale, al quale i francesi danno volentieri fiducia, l’altro nazionale, al quale invece preferiscono la destra. È l’incantesimo che Martine Aubry vuole infrangere, ma senza passi precipitosi, quindi falsi: “La sinistra solidale deve ancora
consolidarsi ed espandersi”. Sull’altro fronte, quello governativo, ieri all’Eliseo era tutto un rimpasto. Tra ministri e sottosegretari domenica erano in corsa una ventina, tutti sonoramente battuti. Sarkozy conferma il premier Fillon, ma qua e là vuole qualche iniezione di novità. Intende metter mano alla riforma delle pensioni, e vorrebbe evitare di ritrovarsi il paese paralizzato da scioperi e manifestazioni. Tanto più che un sondaggio Ipsos di ieri gli ha ulteriormente avvelenato la giornata: il 58 per cento dei francesi gli rifiuterebbe un secondo mandato. g.m.

il Fatto 23.3.10
Sconfitto Sarkozy
Cosa ci insegna il successo della sinistra
Quando si rinuncia agli egoismi personali e politici
di Gianni Marsili

Sì, vale la pena guardare Oltralpe per trarne qualche utile idea. Una considerazione preliminare: ha vinto il Partito socialista, ma soprattutto ha vinto la sinistra. Non è stata, inoltre, una semplice vittoria in elezioni locali, per quanto importante possa essere il governo di quasi tutte le regioni di Francia. E’ nientedimeno che l’embrione di una maggioranza presidenziale e parlamentare, se nei prossimi due anni non si disperderà il patrimonio raccolto in queste due tornate di marzo. Prima constatazione: per una volta il Ps, sotto la guida di Martine Aubry, è riuscito a mettere il silenziatore alle rivalità tra i suoi tristemente celebri “elefanti”. Tanta esibita e nuova unità deve molto, è vero, alla posta in gioco: i vari Fabius, Royal, Strauss-Kahn usano scannarsi per il trono dell’Eliseo, non certo per la presidenza piccarda o provenzale. Però il successo è stato tale che il primo al quale verrà l’ùzzolo di giocare in proprio ci penserà non due ma tre volte, prima di passare alla storia come l’affossatore di una squadra che vince. L’elettorato ha visibilmente apprezzato l’inedita armonia dei vertici socialisti, e chi la straccerà dovrà aspettarsi perlomeno un calcio nel sedere. Secondo: analogo esempio, dietro l’impulso di Daniel Cohn Bendit, hanno fornito le diverse anime ambientaliste. Hanno smesso di dividersi tra verdi di governo e verdi barricadieri, tra verdi nostalgici preindustriali e verdi hi-tech. Ne è scaturita la terza formazione politica del Paese, decisiva per qualsiasi futura operazione presidenziale o legislativa. Terzo: niente più comunisti più o meno rifondati, socialisti dissidenti, cani sciolti in sigle e siglette (e sotto la sigla niente), tutti evaporati. Al loro posto un “Front de gauche” per raccogliere i radicalismi e guarirli dalla loro congenita sterilità. E’ stata questa la terza componente della vittoria della sinistra, disciplinata nel far convergere i suoi voti sul candidato socialista al secondo turno, l’unico in misura di farcela. Per farla breve, questo marzo francese racconta una storia di rinuncia agli egoismi personali e politici. E’ la storia di un compromesso nuovo e virtuoso, per quanto ancora fragile. I francesi hanno preferito questa onesta diversità, animata da spirito unitario, al blocco compatto e monopartitico che solo tre anni fa aveva portato Sarkozy alla presidenza. Naturalmente ha giocato un ruolo la delusione per quanto fatto finora: niente o quasi, malgrado la prorompente energia del capo dello Stato. Che è però apparsa, mese dopo mese, un esercizio a metà tra onanismo (almeno sul piano politico) e narcisismo, o poco più. E’ dunque bastato un lampo unitario da parte delle opposizioni perché gli elettori vi intravvedano la possibilità di un’alternanza, subito premiata alla grande. Solo tre anni, e non sedici, per minare la saldezza del padre padrone del centrodestra, che pareva già tranquillamente avviato verso un secondo quinquennio: invidiabile rapidità di reazione. Di Sarkozy (che ha 53 anni, non 73) e delle sue chance per il 2012 oramai si dubita apertamente nel suo stesso campo, che fino a ieri pareva un blocco di ghisa. Certo, se negli ultimi anni i socialisti avessero sgovernato le regioni, o se la loro gestione avesse ispirato malandrini e borseggiatori da assessorato, una vittoria così potevano sognarsela. Hanno governato bene, e in più hanno messo un freno alla loro storica tentazione di egemonia. Insomma non c’è mistero nella vittoria di domenica: meditiamo, italica gente, meditiamo.

Repubblica 23.3.10
Il Pd e la lezione della gauche
di Marc Lazar

Il caso ha voluto che per ragioni di calendario, le elezioni regionali di francesi fossero seguite con particolare interesse in Italia: i francesi infatti hanno votato il 14 e il 21 marzo, mentre gli italiani si preparano a farlo domenica e lunedì prossimi.
Grande è dunque la tentazione di un esame comparativo. Un esercizio peraltro non facile, dato che le differenze sono notevoli. La Francia ha appena rinnovato i suoi 22 consigli regionali nella metropoli, più i 4 d´oltremare, mentre in Italia si voterà in tredici regioni su venti. I sistemi elettorali di entrambi i Paesi combinano tra loro elementi del maggioritario e del proporzionale, articolati però in maniera diversa. In Italia - contrariamente alla Francia - le regioni hanno alle spalle una lunga storia, dispongono di ampi poteri e rappresentano realtà chiaramente identificabili; i loro governatori sono ben più visibili dei presidenti delle regioni d´oltralpe. Anche le rispettive campagne elettorali sono state impostate in maniera assai diversa. In Francia il presidente della Repubblica Nicolas Sarkozy, che in un primo tempo avrebbe voluto personalizzare la consultazione elettorale, ha rapidamente cambiato idea, scegliendo di limitare il significato del voto alla sua dimensione regionale (quella stessa che la maggioranza degli elettori intendeva dare al proprio voto). Per converso, l´opposizione socialista ha interpretato queste elezioni come un confronto nazionale, con l´obiettivo di punire l´inquilino dell´Eliseo. In Italia Silvio Berlusconi, fedele alla propria concezione e al proprio modo di far politica, ha trasformato queste regionali in un plebiscito sulla sua persona, mentre il Pd oscilla tra una prudente limitazione del significato del voto alla sua dimensione regionale, e la tentazione di interpretarlo come un indicatore del rapporto di forze globale tra maggioranza e opposizione. Ma al di là di queste differenze, nulla vieta di prendere spunto dal voto francese per proporre quattro temi di riflessione per l´Italia.
In Francia la partecipazione elettorale è stata molto bassa al primo turno (46,4%), e un po´ migliore al secondo, con il 51% (contro il 65,7% nel 2004). Il basso livello di interesse per le regionali ha contribuito ad accrescere ulteriormente i battaglioni degli astensionisti abituali; mentre a ingrossare le file gli «intermittenti», che decidono di votare a seconda della posta in gioco, hanno contribuito anche molti elettori di destra: delusi da Sarkozy e preoccupati per la gravità delle condizioni economiche e sociali del Paese, sono rimasti sordi agli appelli lanciati dal governo e dall´Ump nell´intervallo tra il primo e il secondo turno. Come andranno le cose in Italia? Per varie ragioni, qui gli elettori hanno tuttora una maggior tendenza a recarsi alle urne, anche se l´astensionismo continua ad avanzare. E un po´ come in Francia, anche qui peserà sull´esito del voto il grado di mobilitazione degli elettori del Pdl, il principale partito di governo.
In Francia il Fronte Nazionale (Fn) è stato un elemento caratterizzante in queste elezioni, ottenendo al primo turno un risultato inferiore rispetto alle precedenti regionali, ma superiore alle aspettative; e dal primo al secondo turno ha progredito laddove i suoi candidati sono rimasti in lizza. C´è da aspettarsi qualcosa di analogo per la Lega – ma sempre ricordando che questo partito non si può collocare senz´altro all´estrema destra. Anche in questo caso si è tentati a un accostamento non privo di rischi: se infatti la Lega e il Fronte Nazionale hanno vari punti in comune (l´ostilità all´immigrazione, l´insistenza sui problemi di sicurezza, la condanna dell´Europa, il populismo ecc.), presentano tuttavia notevoli differenze: il Fronte Nazionale esalta la nazione centralizzata e punta ad affermarsi su tutto il territorio, mentre la Lega cavalca il federalismo e ha i suoi capisaldi al Nord. Altre differenze riguardano sia i bacini elettorali, sia le strategie di questi due partiti. D´altra parte, così come il Fronte Nazionale ha approfittato del malcontento degli elettori dell´Ump, la Lega potrebbe trarre vantaggio dal disagio dei simpatizzanti del Pdl, ma anche dall´incapacità della sinistra di parlare agli strati popolari.
In Francia la destra è stata severamente punita. Il presidente Sarkozy esce indebolito da queste regionali, i cui risultati confermano la sua impopolarità, rilevata da tutti i sondaggi, che rimbalza sul suo partito, l´Ump, in quanto partito presidenziale. Anche la popolarità di Silvio Berlusconi, per quanto maggiore di quella del presidente francese, appare oggi in calo. Al pari dell´Ump, il Pdl rischia di essere penalizzato dai dubbi degli elettori di centro-destra: in un momento in cui la situazione economica e sociale del Paese si sta deteriorando, l´Uomo del fare – a differenza di Sarkozy – non ha fatto granché dal 2008, tranne le leggi in favore dei suoi interessi privati e i numerosi annunci di importanti riforme, l´ultima delle quali – quella di una riforma del sistema politico – divide l´opinione pubblica. Al di là delle loro specificità, l´Ump e il Pdl si erano rivelati strumenti formidabili per far vincere, nel 2007 e nel 2008, i rispettivi campioni, imponendo i loro valori e i temi delle campagne elettorali. Ora però rivelano le proprie debolezze in quanto partiti di governo, mettendo a nudo difficoltà organizzative e divergenze interne (più marcate in Italia che in Francia).
Infine, il successo eclatante della sinistra francese fa sognare il Pd. Questa vittoria si fonda su una strategia di alleanze con gli ecologisti, divenuti il terzo partito in Francia ( a differenza dell´Italia) e con il Fronte della sinistra, formato da socialisti dissidenti, dal piccolo partito comunista francese e da un gruppetto di trotzkisti in contrasto col settarismo delle loro organizzazioni. In altri termini, come già in passato, il Ps ha ricostruito una forma di unione della sinistra, ma con tre grandi differenze: i socialisti badano a non schiacciare i loro alleati; gli ecologisti sono oggi al primo posto tra questi ultimi; e infine i loro partner della «gauche de la gauche» sottraggono voti all´estrema sinistra, senza però raggiungere percentuali tali da poter imporre le loro esigenze. Inoltre, per il Ps il tracollo del partito del centrista François Bayrou ha l´immenso vantaggio di evitare, almeno per il momento, il dibattito su un´eventuale alleanza con l´espressione di questa sensibilità politica, fonte di divisioni.
Quanto al Pd, è ben lontano dall´interpretare lo stesso spartito. I suoi risultati in queste regionali alimenteranno peraltro un dibattito che andrà molto al di là dei confini italiani, e riguarderà le scelte della sinistra europea nel suo insieme: tornare alle sue posizioni fondamentali, anche se rinnovate da capo a fondo, o spingersi oltre i suoi limiti abituali? In altri termini, definirsi come sinistra o come centro-sinistra?
Traduzione di Elisabetta Horvat

il Fatto 23.3.10
L’insopportabile vittoria di Obama
di Furio Colombo

Non c’è stata voce, per quanto sobria, nel nostro Paese che non abbia denunciato per tempo gli errori di Barack Obama, pronosticandone la sconfitta. “Le faccio un esempio. Obama ha perso il seggio che gli permetteva di arrivare a 60 voti. E per fare passare la sua riforma sanitaria al Senato, che cosa fa? Non va al Congresso tentando di convincere i senatori. No, va in televisione. In questo senso la situazione è simile all’Italia. Perché quello che vuol far pesare Obama è la persona, la comunicazione, più che le idee. In Italia è lo stesso. Non si discute delle idee e dei programmi. Ci si polarizza”. (“Il Corriere della Sera”, 20 marzo). L’inaspettato autore di questa stroncatura preventiva del presidente degli Stati Uniti – due giorni e una notte prima della sua storica vittoria – ci dice quanto danno può fare una cattiva informazione anche a carico di personaggi autorevoli e credibili. In questo caso Guido Rossi che, intento a riflettere sui mali di un Paese (l’Italia) travolto da un quasi ventennale e sempre dominante conflitto di interessi, finisce suo malgrado per diffondere immagini distorte della realtà. A partire da tante descrizioni adulterate della vita politica americana – e prendendole come fonte attendibile – non si può che sbagliare. Vorrei prendere il pretesto della straordinaria vittoria del presidente Obama sulla riforma sanitaria che cambierà vita e valori americani (dopo 30 anni di destra spietata in cui un ammalato di diabete – anche se in buone condizioni di salute – non avrebbe mai ottenuto una polizza di assicurazione) per chiarire che in Italia esiste un caso Obama, e che esiste a destra e a sinistra, perché la sua passione, la sua tenacia, la sua ininterrotta azione insieme morale, culturale e politica, senza interruzioni e senza rinvii, non è sopportabile. S’intende che la destra non gli perdona il gesto deciso con cui ha rovesciato la visione di tutto: prima le persone, poi gli interessi – per quanto rispettabili – sia di Stato che privati. S’intende che la sinistra europea e quella italiana hanno mal sopportato quel maestrino saccente che non ha taciuto mai e che ha cercato (e non ottenuto) i voti di destra partendo, come deve essere, dal potere (è lui il Presidente) e non mendicando impossibili dialoghi fuori dalla porta chiusa. Una irritazione particolare a sinistra si è certo registrata per la scarsa inclinazione di Obama a trovare del buono nella destra di Bush e in quella di Reagan, che hanno tentato di tagliare i tendini al mondo del lavoro, come i “fencers” (proprietari stanziali di terra) facevano al bestiame dei “catlers” (cow-boys) per fermare l’attività rivale. E ancora deve essere risultata antipatica l’ostinazione: dovunque, in tutte le ore e in tutto il Paese e in contatto continuo non con il partito, ma con i cittadini. Però ammettiamolo: ciò che ha fatto traboccare il vaso è stato il Premio Nobel per la pace. Si sono uniti uno tsunami di sarcasmo da destra e una serie di trattenuti, limitati, avari apprezzamenti da sinistra. “Un Nobel alle intenzioni”, si diceva con stizzita benevolenza. Eppure il comitato di Oslo è stato chiaro nella sua quasi unica motivazione che inizia con queste parole: “Era quasi un secolo che aspettavamo un uomo così”. Significa avere capito il “metodo Obama”. Per quanto ingrato sia il cammino, il punto di arrivo è la pace. La pace non può esistere senza migliorare la vita. Chi può di più deve contribuire di più (invece della regola opposta, che aveva guidato la destra). E chi ha responsabilità, di quella deve rispondere, non del suo indice di gradimento. Obama si è esposto a ventate feroci di impopolarità, ha perso una parte dei suoi elettori e dei suoi deputati e senatori, ha vinto per pochi voti, superando di un soffio l’opposizione fondamentalista dei cattolici. Ma ha vinto. E con lui l’America ricomincia da capo. Ora dobbiamo domandarci che cosa c'entra, in questa storia americana, la televisione dunque l'accusa a Obama di cercare rifugio in Tv invece che nella politica, contro le difficoltà del suo progetto. Potenza della cattiva informazione. Obama ha avuto e continua ad avere come nemici implacabili un certo numero di commentatori televisivi e radiofonici, che combattono il "comunista alla Casa Bianca" a tempo pieno. Due dei più celebri, Limbaugh (radio) e Beck (televisione) raccontano senza sosta episodi di totale invenzione su Obama islamico e legato alle più pericolose lobby islamiche (e dunque alla distruzione dell'America). Una rete televisiva tra le più popolari Fox Television dedica la sua intera programmazione alla lotta a Obama. Per le "normali" e libere televisioni commerciali è stato stanziato un fondo, pari al costo di un'intera campagna presidenziale, che consente la frequentissima messa in onda di spot televisivi contro il presidente degli Stati Uniti e il suo programma “comunista” di riforma sanitaria. Il presidente non è mai corso in uno studio televisivo per difendersi . La sua difesa sono stati continui eventi veri con i cittadini, dai supermercati ai campus universitari, dagli ospedali alle strade; e una serie senza precedenti di discorsi a deputati e senatori in modo da guadagnare ogni giorno dei voti in più, rispondendo con mezzi politici alla enorme potenza economica di compagnie di assicurazione, imprese farmaceutiche e "National Rifle Association", la lobby delle armi, che vuole comunque la sconfitta del presidente, perché premio Nobel per la pace. Ecco il senso di ciò che è accaduto. Ha vinto Obama, con la sua tenacia. Ha vinto il metodo di non abbandonare mai la promessa fatta ai cittadini. Ha vinto la politica, nel suo senso più nobile, contro il denaro. Quando di tutto ciò si farà il film, sembrerà una fiaba.

il Fatto 23.3.10
Le lacrime di Harlem per una giornata storica

Domenica per Obama era il giorno della verità. Portare a casa la riforma sanitaria significava ricominciare ad alimentare la speranza negli americani, che ultimamente non si fidavano più come prima di lui. Ma non ad Harlem. La comunità di New York che per gli stranieri canta solo canzoni gospel, ha pregato per il presidente e per la sua legge. Già, perché i lavori del Parlamento coincidono col giorno della Messa, la domenica. In America, la politica non si ferma per il weekend. E allora a nord di Central Park, dove la città cambia aspetto e i cittadini colore, sono tutti concentrati su ciò che succederà nel pomeriggio. Nelle chiese a nord della 125esima Strada è un risuonare di sermoni in favore della riforma che l’America sta per approvare. Entrando e uscendo dai santuari si ascoltano solo parole per il presidente. Secondo loro, se Obama ce la farà non è per suoi meriti, ma per volere divino. E la legge, in effetti, ha del miracoloso, perché fino a due mesi fa, dopo la perdita del seggio appartenuto a Ted Kennedy, e quindi della maggioranza assoluta al Senato, sembrava destinata a morire. All’ora del brunch il pienone è da Amy Ruth’s, sulla 116esima, dove si mangia il pollo fritto, e per la comunità i prezzi sono più bassi. I bambini corrono tra i tavoli e la televisione è accesa sulle dichiarazioni democratiche. Ci sono molti ispanici, altra faccia del quartiere, e tutti puntano gli occhi sulla tv. Al pollo fritto la domenica non si rinuncia, ma all’assicurazione quasi sempre. Costa troppo, e se ti ammali la compagnia la rescinde. Non approfittarsi più della debolezza delle persone e non rifiutare la copertura è uno dei punti focali della riforma, che nessuno per le vie di Harlem giudica epocale, ma sicuramente un passo avanti. La discussione va per le lunghe, i repubblicani cominciano a parlare alle 18 e il voto è atteso in serata. Cambiano i locali nei quali ci s’incontra e anche l’età dei frequentatori, ma tutti aspettano. Arriva il responso positivo, e nei pub i ragazzi applaudono. C’è chi si abbraccia all’incrocio tra la 125esima e la Lennox, rinominate Malcom x e Martin Luther King boulevard. Magari, la prossima strada ad Harlem la dedicheranno a lui, Barack Obama.

il Fatto 23.3.10
Corradino Mineo: “È una notizia: RaiNews lo trasmetterà”
di Beatrice Borromeo

Corradino Mineo, direttore di RaiNews24, ha deciso di mandare in onda lo speciale di Annozero “Rai per una notte”. Direttore, perché ha scelto di trasmettere una serata polemica nei confronti della Rai, che è la sua azienda? Sarebbe stato grave lasciare alla concorrenza un grande evento informativo organizzato da un gruppo di professionisti Rai. La Rai però ha deciso lo stop del talk-show fino a elezioni concluse.
Il servizio pubblico deve pensare ai telespettatori. Non possiamo tradire la loro fiducia. E poi il punto è un altro.
Quale?
Questo sarà un fatto importante che merita di essere raccontato.
Una notizia. Sarebbe giornalisticamente inaccettabile non darla. Lei ha trasmesso anche la manifestazione di Berlusconi e quella del popolo viola. Infatti. RaiNews24 manda in onda tutto ciò che interessa al pubblico.
Ha chiesto autorizzazioni?
Scherza? Siamo un canale all news, valutiamo autonomamente cosa ha la dignità per diventare notizia. Informiamo l’azienda, questo sì, e poi trasmettiamo. Si aspetta ritorsioni?
E perché? Alla fine la Rai sarà felice di aver rispettato il pubblico. Però Loris Mazzetti, dirigente di RaiTre, è stato sospeso per aver criticato la Rai sul Fatto. Secondo lui è un avvertimento a chi parteciperà allo speciale di Annozero.
Guardi, sono in Rai dal primo febbraio 1978. Condizionamenti ambientali? Ce ne sono a bizzeffe. Scelte ingiuste? Certamente sì. Ma censure preventive io non ne ho mai avute.
E se dovessero sanzionarla a posteriori?
Come si dice, siamo tutti provvisori. Il fatto di avere un’informazione politicizzata mette tutti a rischio, ma se per evitare i rischi non fai il tuo lavoro, che giornalista sei?
Non tutti sembrano pensarla come lei, dentro l’azienda. Prendiamo la vicenda di Minzolini che al Tg1 dice che l’avvocato Mills è stato “assolto” e non prescritto. Io sono dell’idea che anche l’ultimo dei giornalisti avrebbe dovuto controllare la notizia della prescrizione, chiamarla col suo nome, e darla nella maniera più corretta.
Ma è davvero così tranquillo? Un giornalista non può scegliere con la pancia, la paura o il machiavellismo. Ne va della sua credibilità.

l’Unità 23.3.10
Chi aveva paura di Kurosawa l’imperatore del cinema?
di Alberto Crespi

Anniversari Cade oggi il centenario dalla nascita dell’immenso regista dei «Sette samurai»
Strano destino Per circa vent’anni fu estromesso dal «sistema»: non fosse stato per Lucas & co...
Come Fellini e Orson Welles, e nonostante una sfilza di capolavori clamorosi, anche Kurosawa ad un certo punto fu considerato un «ferrovecchio»... e invece confezionò meravigle come «Ran» e «Sogni».

Parlando di Akira Kurosawa, noi italiani possiamo evitare di vergognarci. Non capita spesso, di questi tempi. Il sommo maestro nipponico, del quale ricorre oggi il centenario della nascita (vide la luce, o forse la luce vide lui, il 23 marzo 1910,
in quel di Tokyo), deve all’Italia la sua fama internazionale. Era il 1951 quando la Mostra di Venezia propose in concorso Rashomon. A molti italiani sembrò un film «pirandelliano» 4 personaggi raccontano ciascuno la propria verità su uno stupro dando il via forse a un equivoco che dura ancora oggi (nella sua autobiografia Kurosawa non nomina mai Pirandello mentre nomina molte volte Dostoevskij, altro scrittore che sul tema del «doppio» e sulla polifonia ha costruito tutta la sua opera). Ma fu un equivoco fruttifero. Il film vinse il Leone d’oro e tutto il mondo si accorse che in Giappone si faceva un cinema modernissimo e straordinario. Kuro-
sawa era in buona compagnia: i suoi amici-rivali si chiamavano Kenji Mizoguchi e Yasujiro Ozu, altri due giganti che sarebbe bene riscoprire. Tra parentesi, se Ozu è un artista dai ritmi forse difficili per noi occidentali, Mizoguchi è invece un cineasta di immensa piacevolezza: procuratevi I racconti della luna pallida d’agosto, pubblicati in dvd da Punto Zero, e ci
ringrazierete. Pagato il tributo agli altri due sa-
murai, rimane il fatto indiscutibile che il samurai numero 1 resta lui, Akira. E in Italia c’è tutto quello che serve per ripercorrere la sua grandezza. Ci sono quasi tutti i film in dvd (qui accanto ve ne segnaliamo tre, ma vorremmo ribadire che la recentissima edizione Studio Canal/Universal di Ran è davvero imperdibile). C’è la sua autobiografia, L’ultimo samurai, curata da Aldo Tassone per l’editore Baldini & Castoldi. E c’è la bella monografia che sempre Tassone ha scritto per il Castoro, a suo tempo edita in un cofanetto assieme ai Sette samurai – ovviamente la versione lunga, che non si era mai vista in Italia e che un giorno di tanti anni fa venne trasmessa dalla Rai in una serata che non esitiamo a definire epica... Insomma, non ci sono scuse: se un italiano non conosce Kurosawa, è una sua libera scelta autolesionista.
Che aggiungere? Ah, sì, c’è sempre quella vecchia storia, sentita mille volte ma ancora istruttiva: Sergio Leone, non sapendo bene cosa inventarsi per il suo primo western, prende La sfida del samurai (1961) e lo rifà inquadratura per inquadratura, quasi fosse una fotocopia, in Per un pugno di dollari, senza dir nulla a nessuno e soprattutto senza pagare i diritti. Tanto, pensa, ‘sto filmetto uscirà solo in Italia e figurati se in Giappone se ne accorgerà qualcuno. Per un pugno di dollari diventa un successo planetario e un bel giorno i dirigenti della Toho Film chiamano Leone e gli dicono cortesemente: scusi, abbiamo visto il suo film, è veramente UGUALE al nostro, come la mettiamo? Al che Leone pensa di fregarli offrendo loro a mo’ di risarcimento i diritti per il mercato giapponese, dove Per un pugno di dollari fa, se possibile, ancora più soldi che in Italia...
Ci siamo capiti. Kurosawa è un gigante indiscutibile. Del resto, non lo ha copiato solo Leone: i remake hollywoodiani dei suoi film – regolarmente pagati, almeno si spera – sono numerosi, e uno è celeberrimo: I magnifici sette, ispirato ai Sette samurai. Ma ci sono anche remake «nascosti»: George Lucas non ha mai negato, ad esempio, che una delle fonti della saga di Guerre stellari è La fortezza nascosta, meraviglioso film picaresco del 1958 (in particolare, si ispirebbero ai due contadini di quel film le figure dei due droidi servitori di Luke Skywalker, C3-PO e R2-D2). Vi aspettereste, quindi, che in Giappone ci sia come minimo una statua equestre di Kurosawa nella piazza principale di ogni città. Ebbene, non è così. O forse è così oggi – non conosciamo abbastanza bene il Giappone. Ma non è così all’inizio degli anni ’70, quando il regista ha solo 60 anni ed è però considerato, nel suo paese, un ferrovecchio. Accade dopo l’insuccesso commerciale di Dodes’ka-den, il suo primo film a colori. Il cinema giapponese attraversa una crisi profonda e Kurosawa, non sentendo più
il «polso» del pubblico, viene colpito da quella bruttissima bestia chiamata depressione. Tenta addirittura il suicidio: si taglia le vene nella vasca da bagno, come Seneca e Petronio! Un gesto da antico romano, più che samurai, che verrebbe da definire in linea con il personaggio se non si trattasse di una cosa tragica e se non ci fosse un precedente terribile (un fratello di Kurosawa, Heigo, si suicidò nel 1933).
Per fortuna lo salvano e sempre per fortuna, in quegli anni, esiste ancora l’Unione Sovietica. Perché è lì, contro ogni pronostico, che Kurosawa trova aiuto.
DALLA SIBERIA A SPIELBERG
Il vecchio regista Sergej Gerasimov, un artista-burocrate potentissimo ai tempi di Breznev, lo invita a girare un film in Urss. Kurosawa ha già firmato, nel ’51, una versione cinematografica dell’Idiota di Dostoevskij, ma per il suo film «russo» non sceglie un classico, bensì una storia vera: si ispira ai diari di Vladimir Arsenev, un esploratore della Siberia, per Dersu Uzala, un gioiello di epica e di poesia che lo rimette sulla mappa del cinema mondiale. Credete che in Giappone facciano ammenda? Figurarsi! Dal ’75 al ’90 gira solo altri 3 film, uno ogni cinque anni: Kagemusha (1980), Ran (1985) e Sogni (1990). Stavolta, anziché i rubli, sono i dollari a finanziarlo: George Lucas e Steven Spielberg, divenuti onnipotenti dopo i successi di Guerre stellari e dello Squalo, si ricordano del maestro e decidono di aiutarlo. È una bella storia, con un bel finale: Kurosawa riesce a girare altri due film prima di morire (nel 1998), Rapsodia d’agosto e Madadayo. Ma certo è triste, ripensando alla sua filmografia, che una simile voce abbia dovuto tacere – o parlare poco – per vent’anni, dai 60 agli 80. Qualcosa del genere è successo a Fellini in Italia, o ad Orson Welles in America. I giganti possono diventare fastidiosi. E pensare che tanti pigmei vivono sulle loro spalle.

Repubblica 19 marzo 1985
IL GAY DELLA FGCI
intervista di stefano Malatesta

ROMA - Nichi Vendola ha 26 anni, è pugliese. Qualche giorno fa è stato eletto membro della segreteria nazionale della Fgci, la Federazione giovanile comunista. Ha un viso gradevole. In testa calza un berretto blu con visiera, da studente svedese. Intorno al collo è annodata una sciarpa di lana bianca. Porta al lobo sinistro un orecchino d' oro. Nichi Vendola è un gay, il primo attivista omosessuale entrato a far parte della dirigenza comunista. Dice senza asprezza polemica: "Sono sicuro che parlerai dell' orecchino d' oro. Ho già dato un' intervista in cui raccontavo un po' di cose, fatti personali e politici. Dopo ho avuto dei timori, credevo che ci fossero reazioni a Roma, nel partito. Invece i compagni sono stati benevoli. Mi hanno però avvertito: stai attento a non farti ingabbiare nel clichè, il gay alle Botteghe Oscure, eccetera. Prima c' erano i funzionari infagottati nei doppipetti grigi tagliati male, con le cravatte stonate in raso. Adesso l' omosessuale con l' orecchino. Al congresso giovanile avevo un magnifico, luminescente papillon sopra una camicia a righe. Dì, vuoi che ti stringa la mano sotto il tavolo?". Rispondo che il passaggio sotto le forche del commento becero è obbligato: cosa si vuole aspettare, finezze anglosassoni? L' umorismo in Italia, e anche altrove, è spesso di genere caserma, dovrebbe esserci abituato. Però mica posso far finta di essere venuto per le sue preclare virtù politiche di cui tutta l' Italia parla. Sono venuto perchè Vendola è il primo dirigente comunista gay dichiarato. Nel 1948 il Pci non ha espulso Pier Paolo Pasolini per indegnità morale? "Sono passati esattamente 37 anni. Sai cosa ho detto al congresso giovanile? Per noi comunisti non si tratta di difendere la grande dignità e i valori dell' omosessualità, ma di acquisire la diversità come elemento di ricchezza per chi vuole ancora trasformare il mondo. E' stato il passo più applaudito nel mio intervento". Mi ricordo di un altro intervento, più volte citato, fatto da Enrico Berlinguer quando era segretario della Fgci, su Maria Goretti: la additava ad esempio per le future generazioni dei comunisti. "Era il dopoguerra. I comunisti venivano descritti come bestie. L' accusa di essere intellettual-frocio-comunista, senza molta distinzione tra i termini, ugualmente vituperati, è stata merce corrente fino a non troppo tempo fa. Da parte del Pci si tentava di difendersi, di proporre dei modelli di moralità sotto quell' alluvione di vituperi. Il difetto stava nel prendere in prestito i modelli dalla cultura cattolico borghese". Ma c' era anche molta grettezza moralistica e bacchettona all' interno del partito. Chi conviveva con una ragazza veniva convocato e avvertito con l' usuale frase: "Compagno, è ora che regoli la tua posizione". E Togliatti ebbe dei problemi quando iniziò la sua relazione con Nilde Jotti. Secchia non scherzava. "Lo stesso Secchia, una volta caduto in disgrazia, fu accusato, non tanto larvatamente, di essere un finocchio, accusa infamante e degradante. Ma erano tempi diversi, il partito continuava a vivere in stato di allarme, non ci si potevano concedere lassismi personali con il nemico o con la sindrome del nemico alle porte. Però Pasolini, tra il ' 60 e il ' 70, già poteva scrivere liberamente anche di omosessualità su "Vie Nuove"". Pasolini era uno scrittore celebre, un poeta, "un' artista". Anche Visconti non venne mai attaccato: Togliatti ne ha fatto sempre grandi elogi. Ma era un' eccezione. L' aristocratico decadente se lo poteva permettere, proprio perchè aristocratico e decadente. L' operaio in fabbrica no. Diciamo la verità: i compagni lo avrebbero preso a calci nel sedere. "Su Visconti posso essere d' accordo. Ma lui non faceva professione di omosessualità, come non la fa Zeffirelli. In questo senso non sono "scandalosi". Invece Pasolini era provocatorio, almeno per quegli anni e il fatto che scrivesse su "Vie Nuove" è significativo. Però è vero che l' omosessuale in fabbrica, tra i compagni, non aveva vita allegra. Mio padre, comunista da sempre, un uomo magnifico, dolce, andava a fare le spedizioni per picchiare "i froci". Una volta mi ha detto: se ti ammazzassi, noi tutti potremmo riacquistare una dignità. Mi ha molto amato, ma per lui, come per tanti altri, gli omosessuali erano solo i turpi individui che adescavano i bambini nei giardinetti. Ma di queste cose non ne voglio più parlare". Non ho l' intenzione di continuare ad insistere su certi ritardi e manchevolezze del Pci. Ma qui, come in altre occasione, l' azione dei radicali mi sembra sia stata decisiva. Gli altri hanno seguito, anche con riluttanza: tutto questo non gli interessava, soprattutto non faceva parte della loro cultura. "I radicali hanno avuto dei meriti, creando movimenti, flussi, attraverso un' ottica garantista. Ma con qualche casella o piccolo spazio in più di libertà non cambi le regole del gioco, che sono rimaste quasi le stesse. Il "Fuori" voleva creare la cittadella gay, dove gli omosessuali si potessero sentir protetti. I comunisti sono sempre stati contro l' ideologia del ghetto: in ritardo, magari, però decisi a risolvere le questioni, non solo a presentarle, che è molto più facile. D' altronde basta andarsi a rileggere le centinaia di lettere che arrivavamo all' "Unità" e a "Rinascita"" durante gli anni 70: un dibattito libero". Mi dicono però che alti dirigenti del partito non siano stati particolarmente soddisfatti dell' elezione di un omosessuale nella segreteria della Fgci: Chiaromonte ad esempio. "Francamente nel Pci non ho mai avuto problemi, come li ho avuti in famiglia. Credo che oggi comunista significhi anche rispetto dell' altro, essere condannati ad una contaminazione attraverso il rapporto umano: un rischio che bisogna accettare. Lo sguardo inquietante di un altro uomo può farti crollare il tuo castello di certezze, ma è inutile e stupido fuggire. Sono i liberali che hanno sguardi paralleli, che non s' incrociano mai: l' idea del rapporto come due monologhi. Questa è mummificazione dell' esistente. Libertà comunista è dinamismo, è contaminazione, con le nostre coscienze e i nostri corpi, è buttarsi nella mischia. Io l' ho fatto, sono diventato coscientemente omosessuale, per poi recuperare l' eterosessualità, per poi trovar la sessualità, senza aggettivi. Vorrei che ci capissimo, non sto parlando di membri e di apparati genitali, altrimenti torniamo alla caserma". Io credo di capire, ma non so quanti siano in grado di farlo nel Pci, non parlo della Fgci... "Giovanni Berlinguer è uno che capisce: aperto, vivace. Anche Natta ci aiuta. Abbiamo avuto un dibattito con lui molto libero. Ripete sempre che bisogna andare fino in fondo, che bisogna parlare, confessarci di più - non dal prete con la cotta - togliersi di dosso tutti i residui di intolleranza. Gli altri non so, sono arrivato da pochi giorni a Roma. Certo l' età conta, ognuno forma la propria cultura in un momento storico preciso. Non è facile affrontare un tema come quello della pedofilia ad esempio, cioè del diritto dei bambini ad avere una loro sessualità, ad avere rapporti tra loro, o con gli adulti - tema ancora più scabroso - e trattarne con chi la sessualità l' ha vista sempre in funzione della famiglia e dalla procreazione. Le donne, da questo punto di vista, sono notevolmente più sensibili. Ma il Pci non è un organismo matriarcale".