giovedì 25 marzo 2010

l’Unità 25.3.10
Più unioni di fatto e neonati stranieri
Così cambia l’Italia
L’ultima rilevazione Istat mostra un paese sempre più «laico» Sono raddoppiati i figli nati fuori dal matrimonio
di Vittorio Emiliani

La società italiana cambia, si modifica, si secolarizza, si fa multietnica. Molto al di là dei diktat della Chiesa da una parte e delle convulsioni razziste della Lega e di Berlusconi dall’altra. Così la «fotografa» l’Istat fra il 1995 e il 2008. Crescono sempre più le tanto penalizzate unioni di fatto: più che raddoppiati i figli nati da conviventi, ormai al 20 %. Nel Nord – dove la Lega si proclama tutrice della famiglia cattolica – balzano al 25 %, se da genitori italiani.
Per le nascite c’è una ripresa. Concentrata nel Centro-Nord. Nel Sud, invece, il solo Abruzzo non cala. A Basilicata e Calabria record negativo: – 21-20 %,. Al Centro-Nord l’Emilia-Romagna, regione ricca di servizi sociali, dove però la natalità era molto scemata, segna un + 50 %, seguita a distanza da Toscana, Umbria e Marche. Le regioni «rosse» dove si è costruito un rassicurante welfare locale.
Più figli al Centro-Nord, meno al Sud, e mamme sempre meno giovani. Giustamente vogliono consolidare la loro posizione professionale, l’età biologica si è spostata in avanti, la coppia pianifica di più le nascite, ecc. Così le madri hanno un’età media di 31,1 anni. Quelle al di sotto dei 25 sono meno del 9 % (oltre il 15 nelle Isole), ormai avvicinate dalle over 40, specie al Centro (7, 91 %). E scendono molto – effetto dei contraccettivi – le madri minorenni (al Nord, 0,17 %). Una serie di rivoluzioni epocali.
Il capitolo stranieri. Nel decennio 1999-08, i nati con almeno un genitore straniero sono quasi triplicati (dal 6 al 17 %). Come quelli con madre e padri stranieri: dal 4 al 12,6 %. Uno su 5 è nato da stranieri in Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia, e uno su 6 in Piemonte, Umbria, Marche, Friuli, Toscana e Trento. Molto meno nel Sud. Fa eccezione l’Abruzzo. In testa alla classifica dei nati con almeno un genitore straniero c’è, al solito, l’Emilia-Romagna (dove per contro i casi di razzismo sono assai pochi, segno di politiche più attente e consapevoli) col 26,1%. Fra le province, in cima Mantova (33,5%), Prato (cinesi) e Brescia, subito dopo Piacenza (chi ne parla mai?) vicina al 31%, Parma, Modena, Reggio Emilia. La cittadinanza italiana a questi nuovi nati si pone pertanto con forza ovunque, anche in province come Macerata (26,1 %), Perugia e Livorno (24%). Altro che veti, blocchi, muri alle frontiere. Questi dati reclamano una politica civile, realistica, preveggente.
Quali le madri straniere nella coppia mista? Romene (18,4%), poi polacche (9,1%), e, a sorpresa, brasiliane e ucraine. E i padri? Albanesi e marocchini, indi tunisini, romeni (e qui si inseriscono inglesi, francesi e tedeschi). Le coppie totalmente straniere: romeni, seguiti da marocchini, albanesi e cinesi (tutti insieme, oltre il 53 %). La fertilità delle straniere? Un figlio in più (2,31 figli contro 1,32), ma tende a diminuire con l’integrazione smentendo gli allarmisti. Certo, una realtà complessa che si conosce e si affronta meglio nei centri medi e piccoli. Con maggiori difficoltà nelle aree metropolitane.

il Fatto 25.3.10
Cresce il numero dei ginecologi obiettori
Gli aborti clandestini toccano quota 20mila
L’ultimo caso quello di una badante irregolare che ha rischiato la vita
di Chiara Paolin

Nella Lombardia di Formigoni sono diminuiti i centri pubblici, dai 346
del 1996 ai 151 di oggi

E’ scappata, ma la troveranno. Una settimana fa era distesa in un letto della clinica Mangiagalli, a Milano. Tutto intorno un gran via vai di regali e bebè,lei invece parlava con la polizia. E ha confessato subito: è vero, ho abortito. Mi sono procurata delle medicine, le ho prese, poi il bambino è uscito. Un'amica mi ha aiutato. L'abbiamo sepolto vicino casa, nel bosco di Sant'Ambrogio. Una buca per terra. Faccio la badante a Mariano Comense, ma in nero, non potevo proprio tenerlo. Qualche giorno dopo ho cominciato a perdere sangue, e una sera ho chiamato il 118 mentre ero a casa di un'amica qui a Milano, stavo troppo male. Adesso sono disperata, ho perso tutto.
Insomma, una storia come tante: ucraina, 28 anni, clandestina. Sola. Ha rischiato la vita, e adesso è in fuga. Gli agenti della squadra mobile l'hanno cercata per dirle che l'autopsia ha stabilito l'età del feto, quasi cinque mesi, ma lei era sparita. La cercano ovunque, anche alle frontiere, perché ora le cose si mettono male. Se non potesse dimostrare di essere stata costretta ad abortire diventerebbe una criminale.
Al momento, nel registro degli indagati c'è solo l'amica che l'avrebbe aiutata a prendere i medicinali. Forse il Cytotec, un antiulcera che qualsiasi medico può prescrivere. Sul mercato nero si trova facilmente: quattro pastiglie inserite nella vagina provocano contrazioni violente, poi il distacco della placenta e l'emorragia. Se non funziona, altre quattro pastiglie il giorno dopo, ma le complicazioni sono in agguato e possono portare alla morte. Un'esperienza che vivono ogni anno migliaia di donne. Secondo le stime dell'Istituto Superiore di Sanità, sono circa ventimila le italiane ancora schiave dell'aborto clandestino. Una cifra spaventosa, che però non comprende il numero di tutte le straniere costrette alla stessa pratica: irregolari, prostitute, semplici lavoratrici che sperano di ridurre al minimo i tempi e le spiegazioni. C'è la paura di essere denunciate dai medici se non si hanno i documenti a posto, ma anche il problema ormai massiccio dell'obiezione di coscienza. In Italia il 70% dei ginecologi non pratica l'aborto (erano il 60% nel 2005), e in alcune regioni si arriva a sfiorare il 90% dell'obiezione: Lazio, Sicilia, Campania, Molise. Così i tempi di attesa per l'intervento si fanno inevitabilmente più lunghi, e anche la strada a ostacoli della RU486, ormai legale ma tuttora osteggiata da moltissime strutture sanitarie pubbliche, non aiuta a migliorare la situazione. Perfino la cosiddetta pillola del giorno dopo, un medicinale contraccettivo che impedisce l’eventuale avvio della gravidanza dopo un rapporto valutato a rischio, viene negato in modo massiccio da medici di base e farmacisti. Nulla a che vedere con l'aborto, come sanno perfettamente i professionisti incaricati di prescriverlo e consegnarlo, ma fa paura lo stesso.
Infine ci sono i soldi, che c’entrano sempre. Migliaia di donne cercano l’aborto legale ma si sentono dire che occorre pagare, dai 600 ai 1.500 euro: succede alle straniere non convenzionate col servizio sanitario nazionale, e pure alle italiane che – se non vogliono aspettare qualche settimana o andare in un'altra città – devono ricorrere a una prestazione intramoenia a pagamento. Allora, meglio una mammana o il fai da te. Le politiche di contrasto del fenomeno sono tuttora vaghe nel Paese. E ci sono regioni che hanno investito su una linea solo teoricamente antiabortista ottenendo risultati opposti. La Lombardia, ad esempio, ha ridotto gli investimenti sulle strutture naturalmente destinate a gestire il problema, ovvero i consultori. Con apposite delibere di riordino, il governatore Formigoni ha progressivamente diminuito i centri pubblici (erano 346 nel 1996, ora 151) convenzionando quelli privati (63 ad oggi). Oltretutto, con la deliberazione n. 2594 del 2000, la giunta lombarda ha stabilito che “in deroga a quanto stabilito dalla normativa, i Consultori familiari privati possono escludere dalle prestazioni rese quelle previste per l’interruzione volontaria della gravidanza”. Insomma: niente soldi per gli aborti regolari. E tanti problemi a trovare un ginecologo non obiettore nelle strutture pubbliche. In Lombardia ormai 7 medici su 10 preferiscono astenersi dalla pratica abortiva, e la Cgil denuncia come la scelta sia fortemente legata a problemi di carriera: gli abortisti non vanno lontano nel regno di Formigoni. Chissà se è per questo che nell'ospedale di Mariano Comense, quello dove abitava la clandestina in fuga, non c'è nemmeno un ginecologo disponibile all’intervento.

l’Unità 25.3.10
«Ora gli americani scoprono che la salute non è una merce»
L’esperto italiano che ha lavorato con Obama alla riforma della sanità: «L’ostilità al cambiamento deriva dall’eccessiva fede individualistica tipica della mentalità Usa. È il momento di risvegliarsi da quel sogno»
di Gabriel Bertinetto

Un italiano ha contribuito alla storica riforma sanitaria varata dal Parlamento degli Stati Uniti. Si chiama Gino Gumirato, 43 anni, padovano, È un economista. esperto di gestione dei sistemi sanitari. Ha diretto le Asl di Viterbo, Piacenza, Chioggia, Cagliari.
Alla fine Obama ce l’ha fatta. Quali secondo lei che vi ha contribuito, professor Gumirato, i principali pregi della riforma sanitaria Usa? «Due. Il primo è fin troppo noto ed ovvio: 32 milioni di cittadini avranno una copertura assicurativa cui prima non potevano accedere. L’altra conquista importante è frutto della battaglia contro le clausole che sinora storicamente avevano escluso milioni di individui dall’assistenza medica. Mi riferisco ai requisito delle condizioni sanitarie preesistenti, in base al quale non venivano rimborsate le spese per cure relative a malattie anteriori alla firma della polizza. Oppure alle clausole per negare il pagamento delle cure eccessivamente costose. Scompaiono. Non potranno più figurare nei contratti. Di fatto sinora servivano a discriminare in base al reddito». La riforma ha anche dei difetti. Quali?
«Per evitare che la legge si arenasse, i promotori hanno dovuto accettare pesanti condizioni e fare concessioni. Una vede le donne protagoniste in negativo, o per meglio dire vittime, perché vieta l’uso di fondi pubblici a vantaggio di cliniche ed ospedali in cui si praticano gli aborti. L’altra è il ridimensionamento dell’agenzia federale che avrebbe dovuto svolgere un ruolo di controllo sul mercato delle assicurazioni. Nella versione originaria del progetto era una “authority” con forti poteri di controllo. Alla quale poteva rivolgersi il cittadino che non avesse trovato la compagnia adatta ad offrirgli il tipo di polizza a lui conveniente. L’agenzia federale avrebbe risolto il problema. Alla fine ci si è dovuti accontentare di una soluzione di compromesso. Il cittadino che ne faccia richiesta, riceverà il contributo finanziario utile a trovare sul mercato la compagnia che vada bene per lui. Il compito dell’authority non è più di controllare, ma piuttosto di compiere un’opera di supervisione».
Qual è stato il suo ruolo nella preparazione della riforma? «Inizialmente ero stato chiamato fra i dieci esperti voluti da Obama per disporre di una sorta di specchio o di sparring partner per confrontare il progetto di riforma americana con i sistemi sanitari esistenti nel mondo. In realtà sostanzialmente mi sono occupato di calcoli economici e matematici. Più precisamente ho esaminato l’impatto economico che il varo della riforma avrebbe potuto avere, e le ricadute di tipo manageriale. L’idea originaria prevedeva che svolgessi la mia consulenza a Ginevra o presso l’ufficio europeo della Organizzazione mondiale della sanità a Copengahen. Di fatto a Ginevra sono andato una sola volta, e per il resto ho lavorato a Washington». Il fatto che lei sia stato scelto come italiano, derivava da un giudizio positivo o comunque da un interesse specifico verso il servizio sanitario di casa nostra?
«In parte sì. L’offerta mi è arrivata dopo avere vinto un premio riservato agli ex-alunni della London School of Economics con una tesi sulla governance dei sistemi sanitari. I dati da me utilizzati si riferivano all’esperienza maturata per 4 anni alla Asl di Cagliari. L’invito ad unirmi alla squadra dei tecnici incaricati di lavorare alla riforma Usa è arrivato da un mio compagno di studi universitari e quasi coetaneo, che oggi dirige un ufficio governativo di 900 persone che stila i bilanci federali: Peter Orszag».
La legge è passata a fatica in Parlamento, mentre l’opinione pubblica gradualmente diventava sempre più contraria o fredda. Perché tanta ostilità? È il frutto di una propaganda ben orchestrata o c’è dell’altro? «Sicuramente quella che lei definisce propaganda ha avuto un impatto importante. Ci sono state campagne di stampa molto critiche, e le associazioni imprenditoriali hanno acquistato ampi spazi pubblicitari per attaccare la riforma. Ma non c’è dubbio che alla base ci sia un problema di natura culturale. Il popolo americano convive da sempre con un modello economico e mentale secondo cui la libera scelta dell’individuo è sempre la migliore possibile. Trasferito nel campo della salute, questo principio porta a conclusioni illogiche, perché non si tratta di un mercato come gli altri. La scelta dei farmaci, dei medici, del tipo di cura non è paragonabile all’acquisto di una macchina o di un telefono. Questo modello culturale ed economico ha portato all’assurdo che negli Usa per la sanità si spende rispetto al prodotto interno lordo il doppio di quello che spendiamo in Italia, ma la durata della vita è inferiore. È tempo che gli americani si risveglino dal sogno di potere comprare ogni cosa, anche la salute. E devo dire che lo sforzo fatto da Obama nelle ultime settimane per superare gli ostacoli che si ergevano di fronte al suo disegno è stato degno delle fatiche di Ercole».
Le innovazioni appena introdotte negli Stati Uniti sono rivoluzionarie rispetto a quella situazione di riferimento. Molto meno rispetto ai welfare sanitari europei, oppure si tratta di realtà fra loto incomparabili? «Si potrebbero anche comparare, ma sarebbe necessario un lungo esercizio di analisi. Posso dire che negli Stati Uniti esistono punti di eccellenza sanitaria, ad esempio per quel che riguarda la ricerca scientifica, sia quella di base, sia quella applicata alla medicina ed alla biotecnologia. I progressi terapeutici nel mondo in genere nascono lì, grazie spesso a ingenti finanziamenti privati. Per certi aspetti però gli Usa sono indietro rispetto alle tendenze prevalenti altrove, Italia compresa, dove da dieci anni si punta ad esempio a ridurre i ricoveri ospedalieri per le malattie acute ed a valorizzare piuttosto l’assistenza domiciliare. Questo deriva dal fatto che, detto in parole semplici, negli Stati Uniti non ci si chiede quali siano i bisogni dei cittadini, ma quali siano le richieste».
Vi siete ispirati a qualche modello esistente? «In realtà non abbiamo inventato molto di nuovo. Il modello americano non è cambiato in quanto tale, ma è stato profondamente corretto. Abbiamo comunque tenuto presenti in particolare due realtà, quella francese e quella canadese, che costituiscono esempi di equilibrio fra due istanze: la copertura universale dell’assistenza e la limitazione dei costi».
Il suo lavoro per il governo americano continua o finisce con l’avvenuta approvazione della riforma? «Il mio contratto aveva durata annuale ed era in scadenza alcune settimane fa. Ma in quel momento la legge era ancora in bilico e mi è stato rinnovato per altri sei mesi».

l’Unità 25.3.10
Fu segretario di tre Papi Il vescovo Magee si dimette per lo scandalo pedofilia
Dimissioni d’alto rango nella Chiesa irlandese per lo scandalo pedofilia. Lascia il vescovo John Magee, segretario particolare sotto tre Papi e maestro di cerimonia in Vaticano: ignorò le denunce di abusi su minori.
di Marina Mastroluca

La lettera del Papa ai cattolici d’Irlanda sulla pedofilia è stata tradotta anche in gaelico, perché il messaggio arrivi a tutti. E a riprova della contrizione delle gerarchie ecclesistiche, ieri sono state accettate le dimissioni del vescovo irlandese della contea di Cloyne, John Magee, responsabile secondo un rapporto pubblicato nel 2008 di aver ignorato le denunce di abusi su minori: un danno che ha generato altre violenze, altri abusi. «Andandomene voglio offrire ancora una volta le mie sincere scuse ad ogni persona abusata da un sacerdote della diocesi di Cloyne durante il mio ministero e in ogni tempo», ha detto ieri Magee, che si era autosospeso già dal 2009 ma che solo questo mese ha chiesto di dimettersi. «Rimarrò a disposizione della Commissione investigativa», ha aggiunto.
UOMO DI PESO IN VATICANO
Dimissioni importanti, quelle di Magee, uomo ben noto in Vaticano, per essere stato segretario particolare sotto tre pontefici, da Paolo VI a Giovanni Paolo II. Con Woytila era rimasto per quattro anni, prima di diventare maestro di cerimonia in Vaticano. Uomo di peso, all’interno della Chiesa. Nell’81 Giovanni Paolo II lo aveva mandato in Irlanda per convincere i detenuti dell’Ira a sospendere lo sciopero della fame, che poi costò la vita a Bobby Sands.
Ma nel maneggiare lo scandalo dei preti pedofili, Magee si era attenuto al principio oggi denunciato del «non chiedere, non dire». Un silenzio colpevole, il suo, e non il solo. Sono quattro i vescovi irlandesi che hanno chiesto di poter lasciare, dopo essere stati travolti dallo scandalo dei preti pedofili. Finora il pontefice ha accettato le dimissioni solo di Magee e del vescovo di Limerick, Donald Brendan Murray. Ma l’ondata di critiche sollevata dal rapporto Murphy investe lo stesso capo della chiesa irlandese, il cardinale Sean Brady, accusato di aver coperto un caso di abusi sessuali nel 1975. Colpevole di silenzio, come Magee, che più volte aveva difeso. Brady ha chiesto più volte scusa, ma nonostante le pressioni non ha pensato di uscire di scena.
COMMISSIONE MERKEL
Scuse reiterate anche in Germania dal cardinale Friedrich Wetter, arcivescovo di Monaco di Baviera e Frisinga negli anni in cui un altro prete, Peter Hullermann, già segnalato per abusi su minori era tornato in servizio, a contatto con altri bambini. «Ho sopravvalutato la capacità di un essere umano di realizzare un cambiamento di personalità ha detto ieri Wetter, assumendosi la responsabilità dell’errore -. La violazione di bambini e ragazzi mi carica di un gravissimo peso».
Il governo tedesco ha deciso di istituire una commissione di esperti, guidata dai ministri di Giustizia, Famiglia e Istruzione, per affrontare le conseguenze dello scandalo che ha travolto anche la Chiesa tedesca. Il nuovo organo dovrà riesaminare la legislazione sui reati sessuali e valutare risarcimenti alle vittime. Ma non potrà riparare al danno di credibilità delle istituzioni cattoliche. Secondo un sondaggio la fiducia dei cattolici tedeschi nel Papa in 6 settimane è scesa dal 62 al 39%.

l’Unità 25.3.10
I mercanti (ancora) nel tempio
risponde Luigi Cancrini

Anziché preoccuparsi di non dare scandalo, non solo con gravi fatti di pedofilia sempre negati o coperti, i signori ecclesiastici intervengono ancora in soccorso alla destra di Berlusconi con la solita lezioncina sull’aborto, platealmente sconsigliando il voto per i candidati della sinistra.
Convinto come sono del fatto che l’etica di un uomo moderno debba fondarsi ancora sulla lettura dei Vangeli e del fatto che la Chiesa come comunità di fedeli è molto più avanti di chi la guida, sento in modo particolarmente acuto (e quasi doloroso) la contraddizione che c’è fra la parola di Gesù e la pratica politica recente del Vaticano. Vicino a coloro che soffrono e alle ragioni della loro sofferenza, Gesù sarebbe stato assai infastidito da un circo come quello di Berlusconi e dai vescovi che con tanto cinismo lo sostengono nelle sue battaglie elettorali: utilizzando, stavolta, il dolore della donna (e dell’uomo) che arriva (arrivano) a ritenere necessario un aborto per attribuire all’uomo di Arcore il ruolo di custode della moralità. Qualcuno arriverà ancora una volta, forse, a scacciare i mercanti dal tempio. Quello di oggi è davvero un momento buio, comunque, per una gerarchia assediata dalle denunce sulla pedofilia e dalle proteste di chi, credente, le chiede conto di questo brutto aiuto elettorale dato, come al tempo del Family Day, a un uomo la cui straripante immoralità è sotto gli occhi di tutti.

Repubblica 25.3.10
Küng attacca Ratzinger: "Sapeva degli abusi"
L´affondo del teologo ribelle. Il Vaticano: "Fa solo marketing"
di Marco Ansaldo

CITTÀ DEL VATICANO - «Ratzinger tenne nascoste informazioni importanti sui casi di abusi sessuali riguardanti i minori nella Chiesa». «Küng? Ha sempre avuto un grande talento nel settore del marketing». Sono scintille fra il pontefice tedesco e il teologo ribelle, un tempo confidenti all´epoca del Concilio Vaticano II, e oggi su fronti opposti dopo che anche un recente tentativo di riconciliazione è andato fallito. Lo scandalo della pedofilia sembra aver ulteriormente scavato un fossato. Già la scorsa settimana Küng aveva invitato Benedetto XVI a recitare il «mea culpa» sugli episodi di violenza. Ieri è tornato alla carica.
«Non c´era nessun altro uomo, in tutta la Chiesa cattolica, che sapeva così tanto sui casi di abusi sessuali - ha detto a un´emittente televisiva svizzera - e certamente ex officio, in virtù della sua carica». Il riferimento, ha precisato Küng, è a una lettera del 18 maggio 2001 inviata dall´allora cardinale Joseph Ratzinger, a quel tempo presidente della Congregazione per la dottrina della fede, ai vescovi di tutta la Chiesa cattolica.
Nella missiva ai presuli, ha spiegato il teologo riformista, veniva chiesto di passare a Ratzinger tutte le informazioni sui casi di abusi sessuali. Quindi il pontefice «non può solo puntare il dito contro i vescovi», ha ancora commentato Küng, sottolineando che «lo stesso» Benedetto XVI «ha dato le istruzioni quando era capo Congregazione della fede e di nuovo come Papa».
La replica è arrivata per voce del cardinale tedesco Paul Josef Cordes, presidente del Pontificio consiglio "´Cor Unum", considerato molto vicino a Benedetto XVI. Già quando, negli anni ‘70, era professore a Tubinga - dove aveva chiamato ad insegnare l´allora giovane Joseph Ratzinger - Küng aveva mostrato di avere «grande talento nel campo del marketing strategico», e di essere «molto abile nel mettere il dito nelle piaghe della Chiesa» ma non nel «curarle». Un giudizio sprezzante, pronunciato in occasione della presentazione del suo libro "Perche´ sacerdote? Risposte attuali con Benedetto XVI", e riportato dall´Osservatore Romano.
Cordes ha ricordato in proposito un libro di Küng del 1971, "Wozu Priester? Eine Hilfe"´ (Preti perché? Un aiuto). Secondo il porporato, il teologo svizzero è in errore nel definire il ruolo del prete solo come «guida della comunità, che a sua volta si articola sotto forma di molteplici ‘funzioni´», trascurando che «il segno distintivo non deriva al presbitero dalla comunità» ma da Cristo, e che «il ministero sacerdotale ha carattere strettamente teocentrico».

l’Unità 25.3.10
Il faccia a faccia si è svolto a porte chiuse. Nessuna conferenza stampa né comunicato finale
GliUsa chiedono spiegazioni sulle case a Gerusalemme Est. Il premier israeliano tira dritto
Niente conferenza stampa congiunta. Nessun comunicato ufficiale. Neanche uno straccio di foto con la classica stretta di mano tra i due protagonisti. Una scenografia della visita decisamente sotto tono.
di Umberto De Giovannangeli

Tra Barack Obama e Benjamin Netanyahu è crisi vera. Politica. E personale. Secondo il giornale The Politico, la Casa Bianca è passata «dalla rabbia al gelido sospetto nei confronti del primo ministro israeliano, che, durante la maratona di incontri con funzionari Usa, ha messo in chiaro che non darà spazio, se non riluttanza, al loro obiettivo di bloccare la costruzione di nuove abitazioni israeliani nel territorio conteso». L'incontro fra Obama e Netanyahu si è svolto a due riprese, entrambe a porte chiuse: non c'erano fotografi e alla fine dell'incontro non è stato emesso nessun comunicato stampa o organizzato un briefing per i giornalisti. Un fatto inusuale secondo quanto scrive anche il Washington Post: «Generalmente da un leader di un qualsiasi Paese alleato ci si aspetta una conferenza congiunta con il presidente al termine dell'incontro o quantomeno una breve seduta per i fotografi. Ma la Casa Bianca non ha nemmeno reso noto un comunicato per riassumere i temi dell'incontro».
L'incontro fra Obama e Netanyahu non è partito nella situazione migliore, dopo che «Bibi» aveva ribadito al suo arrivo a Washington l'intenzione di continuare a costruire a Gerusalemme, «che non è un insediamento, è la nostra capitale». Proprio mentre iniziava l'incontro alla Casa Bianca, la municipalità di Gerusalemme ha approvato l'altro ieri sera un altro progetto per la costruzione di nuovi 20 appartamenti. L'operazione è finanziata dal miliardario ebreo-americano Irving Moskowitz e prevede la costruzione di nuove case al posto dell'hotel Shepherd, che verrà abbattuto. L'estate scorsa gli Stati Uniti avevano chiesto
a Israele di rinunciare al progetto e avevano anche convocato l'ambasciatore israeliano in merito a questa questione. L'annuncio dei venti nuovi alloggi non ha fatto altro che rafforzare la linea dura scelta da Netanyahu per questa sua visita a Washington. Una pozione, quella del premier israeliano, che era già stata anticipata in un intervento all'Aipac (la più importante lobby ebraica d'America). «Gerusalemme non è una colonia, ma la capitale» d'Israele aveva detto -. È dunque del tutto legittimo che vi possano essere insediamenti israeliani a Gerusalemme Est». Poche ore dopo Netanyahu ha rilanciato: «Non dobbiamo rimanere intrappolati in richieste illogiche e irragionevoli». Se la richiesta di congelare totalmente gli insediamenti dovesse persistere, «i colloqui di pace potranno essere ritardati di un altro anno». E che il clima non sia tra i più sereni lo conferma il gelido, formalissimo, commento del portavoce della Casa Bianca, Robert Gibbs: quello avuto l'altro ieri da Obama con Netanyahu è stato un confronto «onesto» e «diretto», dice Gibbs. Onesto e diretto, tradotto dal diplomatichese, un confronto tra visioni diverse, per molti aspetti, opposte.
LE RICHIESTE USA
Al premier israeliano, il presidente Usa ha chiesto «gesti» nei confronti dei palestinesi e di adoperarsi affinché possa essere ristabilita la «fiducia» nel processo di pace in Medio Oriente. A riferirlo è lo stesso Gibbs: il portavoce della Casa Bianca ha aggiunto anche che gli Stati Uniti intendono chiedere «chiarimenti» sui progetti di Israele riguardanti nuovi insediamenti a Gerusalemme Est.
Una fonte israeliana citata dal sito di Haaretz, riferisce che Obama e la segretaria di Stato Hillary Clinton sono insoddisfatti di una lettera inviata loro da Netanyahu, nella quale vengono dettagliati i passi che Israele intende intraprendere per ricucire i rapporti con gli Stati Uniti. La lettera, confida a l'Unità una fonte diplomatica occidentale a Tel Aviv, conterrebbe anche la richiesta di una dichiarazione di «manifesta disponibilità» da parte americana a spostare la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. Il senso della visita di Netanyahu è il messaggio chiaro di rifiuto. E a chi gli chiede un avvicinamento alla Casa Bianca dice: «Il futuro dello Stato ebraico non può dipendere in alcun modo dalla benevolenza, neanche se fosse dell'uomo più nobile. Israele deve sempre riservarsi il diritto a difendersi». E a costruire a Gerusalemme Est.

l’Unità 25.3.10
Cisgiordania ai raggi x. Cresce lo Stato ombra di Giudea e Samaria
Case private, edifici pubblici, strade e stabilimenti, le colonie sono un bottino da 17,5 miliradi di dollari. Ci vivono 300 mila persone La stampa israeliana: gli insediamenti non si possono fermare
di U.D.G.

Uno Stato «ombra». È lo «Stato ebraico di Giudea e Samaria» (i nomi biblici della Cisgiordania). Uno «Stato» realizzato anno dopo anno, giorno dopo giorno. Uno «Stato» che prende corpo, nelle sue dimensioni, dal documentatissimo rapporto del dottor Rubi Nathanson del «Centro Macro di politica economica». Nathanson ha appena concluso quattro anni di raccolta sistematica di dati sugli insediamenti israeliani. Dati che rendono conto di quanto sia sempre più etereo il principio, evocato da Barack Obama, dall'Unione Europea, dal Quartetto di una pace fondata su «due Stati». Il rapporto Nathanson inchioda tutti ad un'altra verità: due Stati già esistono. Lo Stato (ufficiale) d'Israele e lo Stato (ombra) di Giudea e Samaria.
È di 17,5 miliardi di dollari – stima Nathanson – il valore attuale dell'insieme di case private, edifici pubblici, strade e stabilimenti che si trovano nelle colonie israeliane in Cisgiordania. Cifra che non tiene conto del valore delle case private ed edifici pubblici e religiosi realizzati da Israele a Gerusalemme Est. Nelle colonie sono stati costruiti complessivamente 55.708 alloggi (32.711 appartamenti e 22.997 case private). I circa 300 mila coloni beneficiano inoltre di 868 edifici pubblici, 717 stabilimenti ad uso industriale, 555 scuole e asili nido, 321 installazioni sportive, 271 sinagoghe e 187 centri commerciali. Il 71% dei coloni nella West Bank sono concentrati in 8 insediamenti: Muduin ilit, Bitar ilit, Mahalih adumim, Ar-il, Afahat zahif, Alfi manshi, Afrat e Carni shamrun. Nelle colonie occupate degli ebrei religiosi (Al-haridin), come ad esempio Mudihin ilit e Bitar ilit, la percentuale di residenti è in aumento e arriva a più del 10%. Nemmeno i responsabili di governo disponevano finora di una tale mole di dati di insieme sulle colonie ebraiche in Cisgiordania, rileva il quotidiano Haaretz. «In Cisgiordania non è possibile fermare le nuove costruzionicommenta Shalom Yerushalmi, editorialista di punta del quotidiano Maariv -. Basta fare un giro nella regione per vedere centinaia di unità abitative che vengono costruite ovunque. Netanyahu dà oggi un fondamento a tutto questo, e perfino se egli annunciasse all’assemblea generale delle Nazioni Unite che ridurrà le costruzioni, i coloni troverebbero il modo di aggirare la cosa.
Se i coloni in Cisgiordania dovessero continuare ad aumentare al ritmo attuale rileva Sever Plotzker, analista economico che scrive abitualmente sul quotidiano Yediot Ahronot «il numero di abitanti ebrei al di là della linea verde, che è ormai cancellata dalla coscienza degli israeliani, sarà nel 2025 pari a circa 750.000 persone». Ma anche adesso, con il numero di coloni che si aggira intorno alle 500.000 persone, «le colonie ebraiche nei territori decidono in grande misura il destino di Israele». «Non va poi dimenticato che un numero non trascurabile di ufficiali delle “Forze di Difesa Israeliane” risiede negli insediamenti, e addirittura la stampa israeliana afferma che essi collaborano con i coloni in svariati modi», rileva Asaad Abdel Rahman, scrittore e politico palestinese. «È ormai tempo che il popolo israeliano alzi la propria voce e dica chiaramente al primo ministro ed al suo governo che lo scontro in cui essi sono impegnati con la comunità internazionale, e il deterioramento dei rapporti con gli Stati Uniti, non sono il risultato della volontà di migliorare la situazione e la reputazione di Israele, ma – al contrario – di una miope volontà politica di migliorare la situazione dei coloni e di salvaguardare la stabilità del governo», afferma a sua volta Yariv Oppenheimer, segretario generale di Peace Now.

il Fatto 25.3.10
L’altra guancia presa a schiaffi
Obama ci riprova con Netanyahu ed è ancora scontro
Mentre il premier isrealiano andava alla Casa Bianca, a Gerusalemme davano l’ok a nuove case nei quartieri arabi
di Giampiero Gramaglia

Lo schiaffo al suo vice Joe Biden era stato forte. Ma Barack Obama, da buon cristiano, ha offerto lo stesso l’altra guancia. E Benyamin Netanyahu non ci ha pensato due volte: giù un altro ceffone, questa volta alla Casa Bianca. Così il presidente degli Stati Uniti ha potuto misurare, e far misurare al Mondo, la sua impotenza di fronte al premier israeliano. Ma chi gliel’ha fatto fare a Obama di ricevere Netanyahu, giunto a Washington con atteggiamento di sfida e senza per nulla nasconderlo? Ospite di una organizzazione ebraico-americana oltranzista, il premier era latore di un messaggio forte e chiaro: Gerusalemme non è una colonia, è la capitale di Israele e ci costruiamo quel che ci pare dove ci pare, “l’abbiamo tirata su 3.000 anni or sono e continuiamo a tirarla su ora”. E perché non ci fossero dubbi, proprio mentre Netanyahu arrivava alla Casa Bianca, il municipio di Gerusalemme annunciava l’ok definitivo a 20 nuove case ebraiche in un quartiere arabo, parte di un piano per cento abitazioni. Gli Stati Uniti, che non riconoscono l’annessione a Israele dei quartieri arabi occupati nel 1967, s’oppongono ai programmi edilizi a Gerusalemme Est. Due settimane or sono, l’annuncio di un piano ben più ampio (1.600 nuove case) aveva coinciso con la visita in Israele e nei Territori del vice-presidente Joe Biden, per l’avvio dei “negoziati indiretti” israelo-palestinesi, messi in scacco proprio dalla mossa israeliana. Netanyahu, a Washington, prima di vedere Obama, era stato esplicito: “Se gli americani sostengono le richieste irragionevoli dei palestinesi sul congelamento dell’attività edilizia a Gerusalemme Est, il processo politico rischia di restare bloccato per un anno”. Gli ingredienti per un flop diplomatico c’erano tutti, anche se i contatti preliminari del premier erano stati definiti “franchi” e “produttivi”: una cena con Biden e il consigliere per la Sicurezza Nazionale James Jones, un colloquio in albergo con il segretario di Stato Hillary Clinton. Certo, Obama non è stato caloroso con l’ospite che lo prendeva a sberle. Le fonti israeliane parlano di “buon clima” durante l’incontro, svoltosi in due fasi. Ma molti rilevano il “silenzio assordante” della Casa Bianca: presidente e premier non si sono presentati insieme ai giornalisti neppure per uno scambio di battute, né hanno diramato una dichiarazione congiunta. Solo 12 ore più tardi, il portavoce Robert Gibbs ha fatto sapere che Obama ha chiesto a Netanyahu “gesti” verso i palestinesi e “chiarimenti”, in uno scambio “onesto e diretto”. Il fatto stesso che il colloquio, incerto fino all’ultimo, abbia avuto un carattere privato è un segnale di freddezza deliberato, anche se l’incontro è stato lungo e articolato: due ore a porte chiuse, un’ora di pausa perché Netanyahu consultasse il suo staff, quindi un’altra mezz’ora abbondante quattrocchi nello Studio Ovale. L’esito del colloquio e il gelo conseguente sono segnali d’impotenza degli Usa verso Israele, che non frena davanti alla crisi dei rapporti con il suo unico e vero alleato strategico e neppure davanti agli screzi con altri Paesi amici, come la Gran Bretagna, dopo che il governo di Londra ha espulso il capo del Mossad nel Regno Unito per la falsificazione di passaporti britannici. Obama chiama alcuni leader europei (non Silvio Berlusconi), vede il mediatore Usa George Mitchell. Stati Uniti e Israele continuano a parlarsi, in queste ore, a livello di diplomatici e alti funzionari. Ma l’intesa non c’è e la capacità di Obama di smuovere Netanyahu neppure. E gli Stati Uniti non hanno neppure, in questa fase, la piena fiducia dei Paesi arabi: l’Arabia Saudita chiede al Quartetto (Onu, Ue, Usa e Russia) “spiegazioni” sulla posizione di Israele e le dichiarazioni del premier. Da oggi, Ban Ki-moon, segretario generale delle Nazioni Unite, s’appresta a partecipare in Libia a un Vertice della Lega araba. Gli israeliani presentano i contrasti come “dissensi fra amici”, mentre la stampa Usa afferma che la Casa Bianca è passata “dalla rabbia” do-
po lo schiaffo a Biden “al gelido sospetto”. Ma Washington non vuole rompere: Obama insiste sul rapporto speciale tra Stati Uniti e “popolo israeliano”. E Nancy Pelosi, speaker della Camera, un’eroina dopo il varo della riforma della sanità, ribadisce “un’amicizia” fondata su valori comuni: “Noi siamo al fianco di Israele”.

il Fatto 25.3.10
Astensioni, il grande bacino
Le elezioni francesi svelano che oggi si vince o si perde non nascondendo la propria identità.
Il camaleontismo che impone l’accantonamento della tradizione, produce solo sconfitte in serie
di Pierfranco Pelizzetti

Tra le varie letture prescrittive delle elezioni regionali francesi (la sinistra ha vinto perché ha ben governato o non ha bisticciato), qui se ne avanza una un po’ diversa: sono l’ennesima smentita delle analisi in materia di flussi del consenso dominanti negli ultimi decenni, soprattutto nelle strategie della sinistra. Che le hanno arrecato danni irreparabili; soprattutto in Italia. Ossia la tesi peregrina di un “modello idraulico totale”, per cui si vincerebbero i confronti elettorali semplicemente sottraendo elettori allo schieramento contrapposto; grazie al riposizionamento “centripeto” della propria immagine di soggetto politico, a prescindere da coerenza, rigore e contenuti.
Puro camaleontismo che ha imposto l’accantonamento dei tratti identitari più significativi e riconoscibili a vantaggio di una indistinguibile genericità. La chiamano “conquista del centro”. Strategia con un corollario altrettanto per icoloso: nell’eclisse delle ideologie si conquisterebbe l’elettorato con la fantomatica “buona amministrazione” purchessia (riparare i marciapiedi? Aggiungere un cassonetto della spazzatura?), magari “creativa” (le inflazionate “notti bianche”?). Il fatto è che i margini di manovra operativa della politica in materia gestionale sono pressoché inesistenti. E non è certo un marciapiede riparato (ovviamente, va riparato) a spostare consensi in una situazione altamente polarizzata quale quella in cui ci troviamo. Semmai tale risultato si potrebbe ottenere offrendo cornici mobilitanti di senso e significato. Ma questo è un altro discorso. Del resto, la strategia del camaleonte non ha funzionato bene in Germania con la “sinistra al cachemire” di Gerhard Schröder, nell’Esagono ha portato poca fortuna ai camuffamenti para-gollisti di Ségolène Royal. Però si diceva: c’è Tony Blair e il suo New Labour in Gran Bretagna... Cosa succederà in quel d’Albione staremo a vedere alla prossima puntata elettorale. Tuttavia, quanto appare certo è che certe magie ormai non funzionano più neanche oltre Manica. Comunque la ricetta dello scippo a Destra, da parte di una Sinistra alla Zelig, in Italia sconta il dato ulteriore che qui c’è Berlusconi e i mimetismi centristi hanno comportato la totale sottomissione alla volontà di potenza del Cavaliere, al suo strapotere mediatico. Per cui si è avvalorata la tesi demenziale che l’antiberlusconismo favorirebbe il berlusconismo, che il concedere all’avversario terreno di manovra e qualsivoglia pretesa (anche la più umiliante) sarebbe il massimo dell’astuzia politica. Cedevolezza che ha prodotto disaffezione e rifiuto nell’elettorato di sinistra; ha dimostrato che i presunti adepti del marketing politico sono degli sprovveduti in materia. Cosa dice la teoria dell’orientamento al
cliente nei periodi di stanca del mercato (in politica, quando gli schieramenti sono bloccati nel reciproco rifiuto)? Spiega che il primo obiettivo deve essere il mantenimento della clientela “captive” (quella che i marchettari chiamano “fidelizzata”). Invece le teste lucide della Sinistra hanno fatto l’esatto opposto: smettere di fidelizzare i propri “clienti” per inseguire quelli altrui. Risultato: nessuno sfondamento a destra, contestuale crescita dell’astensionismo a sinistra. Con riprova anche a destra, come in Francia; dove l’elettorato ha mollato Sarkozy non per la Gauche ma per Le Pen o l’astensione. Buon senso imporrebbe l’accantonamento del “modello idraulico” per impegnarsi a promuovere il flusso dal non voto al voto dei potenziali “propri”, offrendo loro connotati nitidi e comportamenti conseguenti. Insomma, oggi si vince o si perde nella misura in cui si riesce o meno a sgelare quel voto in ghiacciaia che in teoria già sarebbe proprio. Sempre lo si sappia rimotivare. Resta ancora un dubbio: come mai tante teste finissime quali quelle a sinistra non si rendono conto di una così palese ovvietà? Forse l’unica risposta plausibile è psicologica: non possono fare diversamente. Insomma, i personaggi cresciuti nelle penombre della politica politicante risultano geneticamente inadatti a un confronto politico affrontato a muso duro. Visto che i loro file mentali sono stati programmati solo per piccoli tatticismi e grandi “inciuci”. Per questo ha ragione da vendere chi un giorno esclamò in piazza Navona: “Con questi dirigenti non vinceremo mai”. Ma anche con questi consigliori delle tesi idrauliche più balorde. A cui si abbeverano politici non interessati a vincere, quanto a restare personalmente in sella.

l’Unità 25.3.10
Il maestro a Roma: «Ho lanciato l’idea di far nascere in Italia il “sistema Abreu”»
La politica «Al nostro governo non interessa la cultura. Non viene diffusa ai cittadini»
La musica a tutti i bambini L’ultimo progetto di Abbado
di Luca Del Fra

«Ho lanciato l’idea di far nascere il “sistema Abreu” in Italia per far studiare la musica ai bambini, e la cosa sta procedendo...», «Il Nastro bianco di Haneke mi ha talmente colpito che faremo insieme a lui la Lulu di Berg a Salisburgo...», «Mai avuto preconcetti contro la televisione e Fabio Fazio mi mette a mio agio...», «Nel nostro paese mancano politici che abbiano un vero progetto culturale...», «Gli alberi a Milano? Mi arrivano tutti i giorni notizie contraddittorie...»: è un Claudio Abbado a 360 ̊ quello incontrato a ieri Roma, in forma smagliante per i suoi tre concerti con l’Orchestra Mozart all’Auditorium della capitale nella stagione di Santa Cecilia.
Una lunga carriera caratterizzata dalla capacità d’inventare progetti quella di Abbado, che oggi guarda al futuro: «Ho lanciato l’idea di far nascere il “sistema Abreu” in Italia esordisce -, e ho avuto riscontri positivi da molte persone e istituzioni». Si tratta del modello didattico nato in Venezuela per far studiare la musica ai ragazzi di tutti i ceti sociali: «Con una particolare attenzione alle classi disagiate insiste Abbado -, ai ragazzi che hanno problemi e perfino trascorsi criminali, e che grazie alla musica trovano una strada per il reinserimento nella società. Una caratteristica da mantenere anche qui da noi, assolutamente». Si tratta nella sostanza di una rete di scuole piccole e grandi, estesa su tutto il Venezuela, e che oltre a provvedere alla alfabetizzazione musicale di milioni di ragazzi ha fatto nascere parecchie orchestre su tutto il territorio. I musicisti migliori passano a far parte della Simon Bolívar, una compagine oramai affermata a livello mondiale assieme al suo direttore musicale Gustavo Dudamel, ma che ospita regolarmente bacchette come quella di Abbado, Daniel Barenboim e Simon Rattle. In un paese come il nostro, dove si tagliano sempre di più le risorse destinate alla cultura, potrà decollare un simile progetto che coinvolgerebbe centinaia, forse migliaia di persone: «Proprio per la disattenzione del governo alla musica, abbiamo pensato di partire dalle regioni che, al contrario, dovrebbero essere interessate. Naturalmente in alcune i risultati tangibili saranno più immediati». Presto ci sarà un convegno, dove si riuniranno i responsabili delle varie regioni italiane per fare il punto della situazione.
«L’Italia è il paese europeo che a mio parere possiede la più grande cultura riflette il musicista -, tuttavia negli ultimi cento anni non è stata diffusa sufficientemente ai nostri concittadini. In tempi recenti poi sono mancate figure di politici di alto profilo in grado di promuovere una vera politica culturale. Penso al francese Jacques Delors».
Il prossimo giugno dopo 24 anni Abbado tornerà a dirigere in pubblico l’orchestra della Scala di Milano, un primo incontro con la compagine di cui è stato direttore musicale fino al 1986 si è svolto nella trasmissione Che tempo che fa: come ha trovato i musicisti? «Li ho trovati bene risponde con un sorriso lievemente ironico -, bravi, simpatici tutti nuovi. Uno si è avvicinato per dirmi: “Sono il figlio di Lanfranchini, si ricorda...”. Il padre era violoncellista nell’orchestra quando ero alla Scala. Mi fa piacere tornare a suonare a Milano, è la mia città. E mi pare che con Stéphan Lissner alla Scala sia tornata quell’attenzione verso i giovani, che è iniziata con Paolo Grassi alla fine degli anni ‘60». Per suonare nella stagione della Filarmonica scaligera Abbado invece del compenso ha chiesto che venissero piantati 90 mila alberi a Milano, condizione subito accettata, ma poi sono iniziati i problemi: «Ogni giorno arrivano notizie contradditorie, e il progetto di piantarli a terra invece che in vasi sta incontrando complicazioni, tuttavia procede. Molti saranno messi in periferia, ma ho chiesto che almeno uno andasse al centro, a Piazza Dante».
Da sempre interessato alla cultura del mondo di lingua tedesca «In questi giorni sto leggendo Herztier di Herta Müller spiega il cui titolo in italiano è stato tradotto malissimo in Il paese delle prugne verdi, quando significherebbe “Cuore d’animale”», ed è rimasto molto colpito da Il nastro bianco: «Un film straordinario quello di Michael Haneke, che come Müller e Roberto Saviano ha la capacità di mostrare delle verità nascoste e scomode. Mi sono incontrato con il regista austriaco e abbiamo deciso di fare insieme la Lulu di Berg a Salisburgo nel 2012».
Con l’Orchestra Mozart Abbado ha creato uno stile particolare per interpretare il repertorio del Settecento: «Credo che non si possa eseguire la musica barocca come 50 anni fa, senza tenere conto delle innovazioni della prassi musicale antica. Vale per Pergolesi ma anche per Mozart, perché è giusto chiedersi se fosse anche un musicista barocco». Presto Abbado tornerà ospite a Che tempo che fa: «Fazio fa una trasmissione particolare e poi fa sentire a proprio agio le persone: non ho mai avuto alcun preconcetto nei confronti della televisione e dunque ci vado volentieri». Semmai è stata la televisione ad avere preconcetti verso la musica e i musicisti colti.

Repubblica 25.3.10
Zizek: la sinistra nel XXI secolo
Il nuovo libro del filosofo e le tesi di Fukuyama
Il collasso finanziario ha segnato la fine dell´utopia liberista
Bisogna imparare dagli errori compiuti e riprendere il lavoro critico
di Slavoj Zizek

Anticipiamo un brano tratto dal nuovo libro di Zizek "Dalla tragedia alla farsa. Ideologia della crisi e superamento del capitalismo" edito da Ponte alle Grazie in libreria in questi giorni
Dodici anni prima dell´11 settembre, il 9 novembre del 1989, è caduto il Muro di Berlino. Questo evento sembrò annunciare l´inizio dei «felici anni Novanta», l´utopia di Francis Fukuyama della «fine della storia», la fede che la democrazia liberale avesse vinto in linea di principio, che l´avvento di una comunità liberale globale stesse aspettando appena dietro l´angolo, e che l´ostacolo a questo lieto fine hollywoodiano fosse meramente empirico e contingente (sacche locali di resistenza i cui leader non avevano ancora colto che il loro tempo era finito). L´11 settembre, invece, ha simboleggiato la fine del periodo clintoniano e avviato un´era in cui nuovi muri sembrano emergere dappertutto: tra Israele e Cisgiordania, lungo il confine messicano, ma anche all´interno degli stessi stati-nazione.
In un articolo su Newsweek, Emily Flynn Vencat e Ginanne Brownell riferiscono come oggi, «il fenomeno del "per soli membri" si sta espandendo fino a diventare un intero modus vivendi, includendo ogni cosa, dalle condizioni bancarie private alle cliniche sanitarie solo su invito (...), coloro che hanno i soldi stanno progressivamente rinchiudendo la loro intera vita dietro portoni sbarrati. Piuttosto che partecipare a grandi eventi mediatici, organizzano concerti privati, sfilate di moda ed esposizioni d´arte a casa propria. Vanno a fare shopping after-hours e la classe e la disponibilità economica dei loro vicini (e potenziali amici) viene rigorosamente controllata».
Una nuova classe globale sta così emergendo «con, ad esempio, un passaporto indiano, un castello in Scozia, un pied-à-terre a Manhattan e un´isola privata ai Caraibi». Il paradosso è che i membri di questa classe globale «cenano in privato, fanno shopping in privato, fruiscono arte in privato, ogni cosa è privata, privata, privata». Si stanno creando un ambiente vitale proprio per risolvere il proprio angoscioso dilemma ermeneutico; come afferma Todd Mullay: «le famiglie ricche non possono "iniziare a fare inviti alla gente e aspettarsi che questa capisca cosa voglia dire avere 300 milioni di dollari"».
Allora quali sono i loro contatti con il mondo esterno? Sono di due tipi: affari e beneficenza (protezione dell´ambiente, lotta contro le malattie, mecenatismo ecc.). Questi cittadini globali vivono la loro vita per lo più nella natura incontaminata - facendo trekking in Patagonia o nuotando nell´acqua trasparente delle loro isole private. Non si può fare a meno di notare che una delle caratteristiche di fondo dell´atteggiamento di questi ultraricchi che vivono nelle loro torri d´avorio è la paura: paura della vita sociale esterna in sé. Le priorità maggiori degli ultrahigh-net-worth individuals sono quindi di minimizzare i rischi di sicurezza - malattie, esposizione alle minacce di crimine violento, e così via.
Nella Cina contemporanea, il nuovo ricco si è costruito delle comunità isolate modellate sull´immagine idealizzata delle «tipiche» città occidentali; vicino a Shanghai, ad esempio, esiste una replica «reale» di una piccola cittadina inglese, compresa una via principale con pub, una chiesa anglicana, un supermercato Sainsbury ecc.: l´intera area è isolata da ciò che la circonda da una cupola invisibile, ma non meno reale. Non esiste più una gerarchia tra gruppi sociali che vivono nella stessa nazione, coloro che risiedono in questa città vivono in un universo per il quale, all´interno del suo immaginario ideologico, il mondo circostante di «classe inferiore» semplicemente non esiste. Questi «cittadini globali» che vivono in aree isolate, non rappresentano forse il vero polo opposto di coloro che vivono negli slum e delle altre «macchie bianche» della sfera pubblica? In effetti essi rappresentano le due facce della stessa medaglia, i due estremi della nuova divisione di classe.
La città che incarna meglio questa divisione è San Paolo, nel Brasile di Lula, che ospita 250 eliporti nell´area del suo centro città. Per isolarsi dal pericolo di mescolarsi con la gente ordinaria, il ricco di San Paolo preferisce usare gli elicotteri, sicché, dando uno sguardo all´orizzonte della città, ci si sente veramente come se ci si trovasse in una megalopoli futurista del genere descritto in film come Blade Runner o Il quinto elemento, con la gente comune che sciama per strade pericolose in basso, mentre il ricco volteggia in giro a un livello più alto, nell´aria.
Sembra così che l´utopia degli anni Novanta di Fukuyama debba morire due volte, dal momento che il crollo dell´utopia politica liberal-democratica dell´11 settembre non ha colpito l´utopia economica del mercato capitalista globale; se il collasso finanziario del 2008 ha un significato storico, allora, è come segno della fine della faccia economica del sogno di Fukuyama. Il che ci riporta alla parafrasi marxiana di Hegel: bisogna ricordare che, nella sua introduzione a una nuova edizione del Diciotto Brumaio negli anni Sessanta, Herbert Marcuse aggiunse un ulteriore giro di vite: a volte, la ripetizione in guisa di farsa può essere più terrificante della tragedia originale.
In un famoso scontro all´università di Salamanca nel 1936, Miguel de Unamuno lanciò una frecciata ai franchisti: Venceréis, pero no convenceréis («Vincerete, ma non convincerete»). È tutto qui quello che oggi la sinistra può dire al capitalismo globale trionfante? La sinistra è predestinata a continuare a giocare il ruolo di coloro che, al contrario, convincono ma nondimeno continuano a perdere (e sono particolarmente convincenti nello spiegare retroattivamente le ragioni del proprio fallimento)? Il nostro compito è scoprire come fare un passo in avanti. La nostra undicesima tesi dovrebbe essere: nelle nostre società, la sinistra critica finora è riuscita solo a sporcare coloro che stanno al potere, mentre il punto reale è castrarli...
Ma come possiamo riuscirci? È necessario imparare dai fallimenti della politica della sinistra nel ventesimo secolo. Il compito non è praticare la castrazione nell´apice di uno scontro diretto, ma minare coloro che stanno al potere con un lavoro ideologico-critico paziente, in modo tale che, sebbene siano ancora al potere, ci si accorga improvvisamente che i potenti si ritrovano a parlare con voci innaturalmente acute. Negli anni Sessanta, Lacan chiamò il periodico della sua scuola, che fu pubblicato in maniera irregolare per un breve periodo, Scilicet. Il messaggio non era il significato oggi predominante della parola («cioè», «ossia», «vale a dire»), ma letteralmente: «è permesso sapere». (Sapere cosa? Ciò che la Scuola freudiana di Parigi pensa dell´inconscio...) Oggi, il nostro messaggio dovrebbe essere lo stesso: è permesso sapere e impegnarsi pienamente nel comunismo, agire nuovamente in piena fedeltà all´idea comunista. La permissività liberale è dell´ordine del videlicet - è permesso vedere - ma la fascinazione per l´oscenità che ci è consentito osservare ci impedisce di sapere cos´è ciò che vediamo.
Morale della storia: il tempo del ricatto moralistico liberal-democratico è finito. Non dobbiamo più continuare a giustificarci; mentre loro farebbero meglio a iniziare a farlo presto.

Repubblica 25.3.10
Il pericolo di affidarsi alle emozioni
Quando vince l’irrazionale
di Umberto Galimberti

Il consenso dovrebbe fondarsi sull´argomentazione la competenza, il dubbio e il dialogo. Se invece dipende dalla fascinazione della parola e della retorica, allora diventa acritico e incondizionato

Amore e odio sono sentimenti, e come tali appartengono alla dimensione pre-razionale e non di rado irrazionale dell´uomo. Prima di giungere all´età della ragione i bambini amano e odiano e, dopo aver raggiunto l´età della ragione, capita a ciascuno di noi di amare e di odiare senza un valido sostegno della ragione, che a quel punto risulta offuscata e impotente a governare pensieri e condotte.
Platone, per inaugurare la democrazia nella sua città ideale, riteneva che dovessero essere allontanati retori e sofisti, perché costoro, per ottenere consenso, ricorrevano non a solidi argomenti, ma alla mozione degli affetti e alla cattura dell´anima attraverso la fascinazione della parola. Lo dice con chiarezza il sofista Gorgia: «I divini incantesimi compiuti con le parole possiedono una potenza che blandisce l´anima, persuadendola e trascinandola con il loro fascino» (Elogio di Elena § 14). E Platone, consapevole di questo rischio, ammonisce il giovane che entra nella vita pubblica con queste parole: «Salirai la torre più elevata per il sentiero della Giustizia (Dike) o della Seduzione ingannevole (Apate) perché lì ti perda e passi la tua vita?» (Repubblica, 365 b).
A differenza della ragione, i sentimenti di amore e di odio, suscitati dalla fascinazione della parola e dal suo potere seduttivo, non ospitano l´argomentazione, il dubbio, la critica, il dialogo, la mediazione, che sono figure essenziali della buona politica, ma, in modo acritico, aderiscono incondizionatamente a chi è stato in grado di provocarli e di far leva su di loro per ottenere un consenso che, proprio perché è acritico, è incondizionato. I ragionamenti non servono, come non servono le prove dell´esistenza di Dio a chi non crede, o le prove della sua inesistenza a chi crede. Basta la parola, la parola persuasiva pronunciata da chi ha carisma.
In politica le figure carismatiche conoscono il potere della parola e la sua efficacia persuasiva, che è tale perché non ha bisogno di interloquire con le figure della ragione, essendo in presa diretta con lo scatenamento delle passioni, la cui adesione al dettato ipnotico della parola carismatica è incondizionato.
Quando si affida a personalità carismatiche, la politica è già scesa di livello, perché produce consenso o dissenso non su base razionale, ma su base emotiva. E quanti non hanno una sufficiente conoscenza dei fatti, o abbastanza dimestichezza con le questioni di cui si discute, diventano sensibili ai fattori emozionali che il potere carismatico sfrutta, quando addirittura non alimenta con l´incuria, ad esempio, per i percorsi formativi, di cui la scuola e non la televisione dovrebbe essere il luogo e l´ambiente.
Un potere che si regge su basi emotive è un potere che regredisce alla logica primitiva dell´amico/nemico, da cui la cultura occidentale ha cercato di emanciparsi proprio attraverso la politica, intesa come gestione razionale di interessi contrastanti e non come tifoseria da stadio, dove l´amore per la propria squadra e l´odio per l´avversario sono impermeabili a qualsiasi giudizio critico.
Se la democrazia funziona per argomenti, competenze, scelte ponderate, obiezioni critiche, un potere che si regge su basi emotive è molto pericoloso, perché ha già oltrepassato la linea di demarcazione della democrazia. Prima di questa linea, a un livello di primitivismo antropologico, ci sono i carismi, le fascinazioni, le seduzioni, i plagi, ci sono le adorazioni, gli odi e gli amori. Ed è una vera oscenità che anche la parola "amore", su cui si regge la vicenda umana, debba essere anch´essa strumentalizzata per fini politici.

mercoledì 24 marzo 2010

il Fatto 24.3.10
Omissioni e abusi di nostra madre chiesa
Un viaggio attraverso gli scandali che stanno investendo il Vaticano e che, dall’Irlanda agli Stati Uniti, non risparmiano certo l’Italia
di Vania Lucia Gaito

IL CORAGGIO DI PARLARE
MI CHIAMO MARCO MARCHESE. Sono stato abusato per quattro anni, da quando ne avevo dodici. Ero in seminario, pensavo di avere la vocazione”. Cominciò così, diretto, chiaro. Secco come uno schiaffo. “All’epoca abitavo a Favara, vicino ad Agrigento. Sono nato in Germania, poi quando avevo otto anni ci siamo trasferiti in Sicilia. Volevo diventare prete, almeno lo credevo. Sicché entrai in seminario: fu lì che accadde. All’epoca don Bruno era un assistente, un diacono. Divenne prete l’anno successivo. Mi legai fortemente a lui: sembrava una persona affettuosa, e io mi trovavo fuori di casa ed ero piccolo. Mi circondava di attenzioni. Il seminario, sa, è un po’ come un collegio: si mangia lì, si dorme lì. Andavamo a trovare la famiglia una volta alla settimana, spesso ogni due. Inserirsi è difficile, e trovarsi accanto una persona che si mostra amichevole, affettuosa, fa sentire meno soli”. Parlando, cincischiava con il tovagliolo di carta, un tormento gli mangiava le dita, guardava il piattino, la tazzina, il tavolo. Poi mi posò addosso il suo sguardo malinconico. “Accadde una domenica pomeriggio. Era dicembre, e fuori pioveva. In genere, nei pomeriggi di domenica, si giocava a calcetto nel cortile del seminario. Invece quella volta don Bruno venne da me e mi invitò nella sua camera a riposare. Accadeva spesso che noi ragazzi entrassimo nelle camere degli assistenti. Magari per fare due chiacchiere. Invece quel pomeriggio lui mi spogliò, mi baciò, e poi... poi abusò di me”. Per un attimo la voce vacillò, sembrò sul punto di rompersi, ma riprese. Con lentezza, in un rievocare che dava ancora dolore. “Dopo lui andò in bagno. Quando tornò mi chiese solo: ‘Ti sei sporcato?’. Mi diceva di non preoccuparmi, che non c’era nulla di male. La nostra era solo un’amicizia, un’amicizia particolare, ecco. Così mi diceva. E io gli credevo. Non avevo mai avuto esperienze sessuali, e gli credevo. Mi diceva che era normale, che era giusto. Mi diceva anche che non dovevo dirlo a nessuno, perché avrei suscitato invidie, gelosie. E io non lo dissi a nessuno. Neanche quando l’abuso si ripeté. E poi si ripeté ancora, e ancora. Soprattutto quando pioveva. Veniva a chiamarmi e io andavo da lui”. Sul suo volto fiorì un sorriso amaro, una smorfia alla propria ingenuità di un tempo. “Del resto, io mi ero convinto che la nostra fosse un’amicizia ‘divina’, come diceva lui. Era un uomo di Dio: con lui pregavo, mi fidavo. Ciecamente”.
“E poi? Che cos’è accaduto?” “Dopo un anno, lui divenne prete e lasciò il seminario. Però i nostri rapporti divennero ancora più stretti, perché divenne il mio padrino di cresima. Così, nei fine settimana che avevo a disposizione e durante le vacanze, andavo a trovarlo nella sua parrocchia. E accadeva anche lì. In sacrestia. A casa sua. Nel pomeriggio. Anche la sera, se restavo a dormire. Per quattro anni”. [...] Alla fine in tribunale non ci erano arrivati. La trasmissione [Mi manda Raitre del 15 dicembre 2006, ndr] aveva sollevato un grosso scalpore, l’avvocato della Curia aveva saputo attirare perfino le antipatie dei cattolici più accesi. Il vescovo aveva dovuto fare marcia indietro e ritirare la richiesta di danni. Anzi, fece di tutto per evitare il processo civile. Don Bruno firmò un accordo con il quale riconosceva ogni responsabilità e si impegnava a corrispondere a Marco un risarcimento per i danni morali. “Si trattava di cinquantamila euro”. Le mani adesso riposavano tranquille sul tavolo, accanto alla tazzina. “Li ho impiegati per sovvenzionare la mia associazione. Si chiama Mobilitazione Sociale. Ci occupiamo soprattutto di ascoltare e aiutare i bambini vittime di abusi”. Per la prima volta sorrise davvero. Un sorriso aperto, giovane, fiducioso. Durò solo un attimo. “C’è talmente tanto da fare, e se ne sa così poco. Il mio non è un caso isolato. Anzi. Le associazioni contro la pedofilia ricevono migliaia di telefonate, di e-mail, di segnalazioni. Non ci sono solo io. La maggior parte delle vittime non ha il coraggio di denunciare. Subisce e tace. Nonostante i dolori dentro, nonostante gli incubi, i malesseri, il desiderio di morire”. Il sole era scomparso dietro le case, il cielo scuriva, e in via dell’Orologio si accendevano i lampioni. Nell’aria tiepida della sera, la gente sciamava verso i locali, i bar, i ristoranti. Per i vicoli rimbalzavano richiami, chiacchiere, risate. Le donne avevano vestiti leggeri che ondeggiavano intorno alle gambe, tacchi che si impigliavano tra le “balate”, sorrisi come lampi di bianco. Gli uomini profumavano di dopobarba e lanciavano occhiate alle ragazze. Sembrava una serata qualunque. Il viaggio nel silenzio era appena incominciato.
DON GELMINI: “SCHERZI DA PRETE”
“Non mi hanno creduto nemmeno quando per loro facevo il corrispondente lì in Bosnia. La mia strada e quella di don Pierino si sono incrociate molte volte. In un certo momento della mia vita sono finito a vivere in un borgo della Sabina, Castel di Tora, dove il ‘Don’ aveva messo su una comunità spirituale. C’era un numero ristretto di ragazzi, tutti piuttosto avvenenti, ma ben poco spirituali. Andavano di nascosto a comprar vino e alcolici in paese. Con un paio di loro feci amicizia, entrai in confidenza. Mi confermarono quello che già sapevo. Monsignor Giovanni d’Ercole, funzionario del Vaticano con il quale ero in rapporti per via del mio lavoro, lo sapeva. L’avevo informato anni fa su don Pierino: gli avevo detto tutto, che adescava i ragazzi, che molti anni prima aveva adescato anche me assieme a un amico, e che ora era accusato dai suoi ragazzi di molestie sessuali. Padre Federico Lombardi, all’epoca direttore dei servizi giornalistici di Radio Vaticana, lo sapeva. Durante un’accesa discussione glielo dissi in faccia chi erano e cosa erano stati certi preti per me, gli dissi di don Pierino e di come l’avevo conosciuto, non batté ciglio. Poco dopo gli mandai una lettera. Lo informai fino ai dettagli: manco mi rispose. Scrissi anche alla Procura di Terni, ho fatto un esposto senza firmarmi. Mia madre era ancora viva, avevo due figli piccoli. Lottavo nella totale solitudine, e poi avevo paura che mi accusassero di smania di protagonismo. Ma lo sapevano tutti. Uno di quelli che sapevano era il vescovo di Terni, monsignor Gualdrini. E poi lo dissi al segretario della Cei, che mi attaccò il telefono in faccia. Lo dissi a monsignor Salvatore Boccaccio al tempo vescovo di Poggio Mirteto e ora di Frosinone, telefonai a don Ciotti: era perplesso, mi disse di avere le mani legate”. “Ho un dubbio atroce, Bruno. Se lo sapevano tutti, com’è stato possibile che lasciassero centinaia di ragazzi inermi nelle mani di qualcuno che avrebbe potuto approfittarsi della loro debolezza, del loro bisogno di aiuto, del loro bisogno di protezione?”. Mi guardò con amarezza, si passò una mano irruvidita in mezzo ai capelli grigi, a pettinare i pensieri. “Lo sapevano perché io lo avevo detto, e non ero mica il solo. I ragazzi della comunità lo sapevano tutti. Chi non ci stava veniva allontanato, oppure se ne andava da solo. Nessuno si è mai preso la briga di vedere cosa succedeva in queste comunità”. [...]
Di quella giornata, un ospite mi raccontò: “Il più bel regalo di compleanno, ottant’anni ieri, don Pierino Gelmini l’ha avuto da Silvio Berlusconi: dieci miliardi di vecchie lire. Il più bel regalo, senza compleanno, Berlusconi lo ha avuto da don Gelmini, sempre ieri, che ha ordinato di accoglierlo con un canto di ‘Alleluja’ a tutto volume. Ovunque entrasse il premier, prima nella sala mensa e poi nell’auditorium della ‘Comunità Incontro’, veniva preceduto dalle note gloriose riservate, in Chiesa, a onorare il Signore. Un incontro di due ego travolgenti quello di ieri ad Amelia, nella struttura per il recupero dei tossicodipendenti nata nel 1979. Don Gelmini che spiegava al premier: ‘Preferirei essere Papa che capo del governo’. Berlusconi che gli diceva, dopo avere visto i preti, destinati alla successione da don Pierino, inginocchiarsi e promettergli fedeltà: ‘Mi hai dato un’idea, quasi quasi chiamo i miei ministri azzurri e li faccio inginocchiare davanti a me...’. Una festa-show con Gigi D’Alessio che cantava la sua nuova canzone Non c’è vita da buttare dedicata ai ragazzi persi e che salutava Berlusconi con un ‘salve collega’. Amedeo Minghi che dedicava un videoclip a don Pierino. Ad Amelia, per omaggiare questo fenomenale prete, ‘esarca’ precisa lui, che a ottant’anni ha una vitalità e un’energia travolgenti, sono arrivati in tanti a iniziare dal capo del comitato dei festeggiamenti, il ministro delle Telecomunicazioni Maurizio Gasparri. C’erano anche il ministro Rocco Buttiglione, il ministro Lunardi, Gustavo Selva, una sfilata di sottosegretari. Della prima Repubblica c’era l’ex ministro De Lorenzo che sembrava avere una missione: parlare con Berlusconi. E quando c’è riuscito, l’ha baciato, anche. A rappresentare l’opposizione, la presidente della Regione Maria Rita Lorenzetti, che nel salutare il padrone di casa, seduto nell’auditorium in prima fila vicino a Berlusconi, gli ha riconosciuto il grande impegno nella lotta contro la droga, ma ha anche detto: ‘Non siamo d’accordo su molte cose’. Non c’era il fratello di don Pierino, padre Eligio stava male. Una giornata lunga, iniziata di mattina presto nello studio privato di don Pierino dove sono arrivati in tanti a salutarlo, molti genitori di ragazzi salvati dalla comunità. Un padre è entrato piangendo, con una busta da lettera in mano piena di soldi da offrire a colui che aveva ridato la vita a suo figlio. ‘Era rinato qui dentro, purtroppo poi fuori non ce l’ha fatta’. Don Pierino ha preso la busta e lo ha abbracciato. ‘Suo figlio era un cantautore’, ha spiegato poi. A mezzogiorno tutti a messa. Don Pierino è entrato tra due ali di sacerdoti, seguito dal cardinale Jorge Maria Mejia. Mischiato tra i concelebranti c’era anche Alessandro Meluzzi, ex deputato azzurro, psichiatra fino a qualche giorno fa impegnato a commentare in tv gli irrecuperabili de L’Isola dei famosi, e adesso qui, in comunità di recupero, in un angolo di Umbria, con il saio da frate e la croce indosso. Nelle pause del serrato programma, Rocco Buttiglione ha parlato della sua prossima terza prova da nonno, la figlia partorirà ad agosto, e ha rivelato di aver cambiato idea su quale sia la vera vocazione della donna: ‘Credevo che fosse essere mamma. A un certo punto ho anche pensato che potesse essere suocera. Adesso che vedo mia moglie con i nipoti ho capito che la vera vocazione è quella di essere nonna. Un ruolo che la ringiovanisce di vent’anni’. Come sempre, era difficile capire se scherzava o diceva sul serio”.
IL CASO AMERICANO
A Boston cominciò così. In sordina, senza troppo rumore. L’avvocato che mise la prima pietra aveva un nome armeno, difficile da pronunciare: si chiamava Mitchell Garabedian, e non era mai stato uno di quegli avvocati inseguiti dai giornalisti all’uscita dell’aula di dibattimento. Si era laureato all’Università statale, si era sempre occupato di piccoli casi. Insomma, uno sconosciuto. Uno fra i tanti avvocati di Boston. Gli piaceva il suo lavoro; certe mattine arrivava in ufficio prestissimo e andava avanti a lavorare fino a tarda sera. Era il 1994 quando un uomo era entrato nel suo studio, s’era seduto di fronte alla vecchia scrivania, e gli aveva parlato di padre Geoghan. Mitch non lo sapeva, ma quell’incontro avrebbe segnato la sua vita. “Ero un ragazzino normale” raccontò l’uomo all’avvocato, “andavo bene a scuola e mi piaceva lo sport. Facevo anche parte di una squadra. Non avevo neanche dodici anni, ma mi dicevano che ero un bravo atleta. I miei genitori erano orgogliosi di me. Poi arrivò lui. I miei si fidavano, lo consideravano quasi una persona di famiglia: lo invitavano a cena, a qualche partita di bridge, ai compleanni. Spesso, dopo cena, mi portava fuori a prendere un gelato, a fare un giro in macchina. Nessuno ha mai saputo che mi facesse quelle cose. Non lo dissi neppure a mia madre, a mio padre. Per loro, padre Geoghan era un buon amico, un amico di tutta la famiglia. Come potevo dirgli che mi faceva quelle cose? Stavo male. Riuscivo a fare solo questo: star male. Certi giorni non andavo nemmeno a scuola, agli allenamenti. Lasciai la squadra. E cominciai a bere. Ero solo un bambino, Dio mio, ero solo un bambino”.
GLI INTOCCABILI LEGIONARI DI CRISTO
Il potere della Legione di Cristo all’interno della Chiesa è tale che Lennon, uno degli accusatori di Maciel, parlando dei rapporti tra quest’ultimo e il Vaticano, affermò: “Maciel è intoccabile. Ha lavorato con molti Papi, conosce i procedimenti interni, conosce vescovi, conosce cardinali, conosce quelli che hanno realmente il potere, e li conosce bene, molto bene”. Alejandro Espinosa, nel libro El prodigioso ilusionista, il seguito di El legionario, avanza sospetti e ipotesi inquietanti sulla vita del fondatore dei Legionari di Cristo. Già in El legionario, Espinosa aveva fatto riferimento alle “morti provvidenziali” di alcuni nemici di Maciel, ma è soprattutto nel suo secondo libro che le ipotesi si fanno dettagliate. Espinosa parte dagli anni giovanili del sacerdote, dai tempi in cui frequentava il seminario retto da suo zio, il vescovo Rafael Guizar y Valencia, e sostiene che si siano verificate circostanze quanto meno singolari, coincidenze preoccupanti. Sembra che lo stesso giorno della sua morte, il vescovo avesse avuto un’accalorata discussione con Marcial Maciel, e avesse decretato la sua espulsione per mancanza di attitudine allo studio, per mancanza di spirito di sacrificio e di vocazione al sacerdozio, oltre che per avere saputo dei suoi approcci sessuali nei confronti di seminaristi più giovani. Pare sia arrivato perfino a dire che se avesse proseguito il cammino verso l’ordinazione si sarebbe 198 Viaggio nel silenzio esposto alla dannazione eterna. Rafael Guizar y Valencia morì poche ore dopo. Un dettagliato resoconto sulla sua morte, racconta che fu impossibile coricarlo nel letto e dovettero lasciarlo steso al suolo, spiegando che volle giacere lì “come san Francesco”. A dodici anni dalla morte, le spoglie del vescovo furono riesumate per essere trasportate dal cimitero di Xalapa alla Cattedrale: aprendo la bara, il corpo fu trovato integro, ma i suoi capelli bianchi erano diventati rossicci. Espinosa sostiene che Maciel possa aver avvelenato lo zio con il cianuro, secondo alcune confessioni che lo stesso Maciel gli avrebbe fatto quando Alejandro era stato in seminario, e la colorazione rossiccia dei capelli dovrebbe esserne testimonianza, così come l’impossibilità di trasportare il vescovo agonizzante nel letto, poiché le convulsioni e gli spasmi dell’avvelenamento sono tali da riuscire a fratturare la colonna vertebrale. Tuttavia, padre Rafael González Hernández, il sacerdote che si è occupato della canonizzazione del vescovo, smentisce assolutamente l’ipotesi di un omicidio: “Monsignore Guizar morì nel 1938 a causa di un’insufficienza cardiaca e di un attacco di diabete. Aveva sessant’anni ma era piuttosto malandato per aver speso la vita al servizio dei fedeli”. Espinosa prosegue con l’elenco delle morti “provvidenziali” tra quelli che disturbarono Maciel. Padre Francisco Orozco Yepes morì in strane circostanze, mentre viaggiava dall’Irlanda a Roma, dove aveva il fermo proposito di denunciare le perversioni di Marcial Maciel davanti alla Sacra Rota Romana. Non si sa che cosa o chi lo convinse ad abbandonare l’aereo allo scalo di Madrid, si sa solo che preferì affittare un’automobile all’aeroporto e fare migliaia di chilometri per raggiungere Roma, dove non arrivò mai.
Un vescovo del Messico, che si opponeva al riconoscimento canonico della Legione di Cristo, fu minacciato da Marcial Maciel durante una discussione, davanti a testimoni. Pochi giorni dopo, un camion investì l’automobile del vescovo: morirono due dei suoi quattro occupanti ma il prelato riuscì a uscirne indenne. Nello stesso mese, si verificò un secondo incidente con la stessa dinamica del precedente, questa volta con esito tragico per il vescovo. Anche la morte di Juan-Manuel Fernández Amenábar, come abbiamo visto, avvenne in circostanze singolari: soffocato da un pezzo di pollo mentre era in ospedale, dove si stava riprendendo da un ictus. Perfino Juan José Vaca temeva una reazione alla lettera che inviò a Maciel quando lasciò la Legione. Perciò quella lettera, nella quale gli rimproverava il danno irreparabile che gli aveva fatto e gliene domandava conto, conteneva un avvertimento: “Desiderando essere assolutamente sincero con lei, l’informo che l’originale di questo scritto, più altre undici copie, si trovano dentro buste sigillate, in un deposito inaccessibile agli indiscreti. Queste dodici buste recano già il nome e l’indirizzo dei destinatari – alte personalità della Chiesa e della società che, nel caso, conosceranno il loro contenuto – e immediatamente giungeranno nella mani dei destinatari, in due circostanze. La prima, nel caso in cui io muoia o sparisca inaspettatamente... “.

SILENZIO ASSORDANTE
Vania Lucia Gaito, psicologa, salernitana di origine, collabora dal 2006 con il blog di controinformazione “Bipensiero” sul quale, nel maggio 2007, ha trasmesso e sottotitolato il documentario della Bbc, “Sex crimes and Vatican”. Lo scoop del video, visto in Italia da oltre cinque milioni di persone, ha aiutato a uscire allo scoperto decine di vittime di abusi, le cui testimonianze sono in parte raccolte in “Viaggio nel silenzio”. “In quei giorni accadde anche qualcos’altro – scrive l’autrice –
Alla mia casella di posta arrivarono centinaia di e-mail. Di protesta, di ringraziamento, di rabbia, di indignazione. E in mezzo a tante, c’erano anche le lettere di chi aveva subìto abusi. Vergognandosi di ciò che avevano patito. Le leggevo e sapevo che non potevo ritirarmi adesso, non potevo gettare solo uno sguardo su quello che avevo visto, appena dietro la porta”.
“Viaggio nel silenzio”, edito nel 2008 da Chiarelettere, è stato ripubblicato di recente per i Tascabili degli Editori Associati.

Repubblica Roma 24.3.10
Regionali, quattro giorni per scegliere Bonino-Polverini all´ultimo voto
di Chiara Righetti

«Dice cose lunari». «Bufale io? Non so come si permetta». Si scalda fino a toni quasi da rissa, al femminile, il confronto tra Renata Polverini ed Emma Bonino. Ieri di nuovo faccia a faccia negli studi di Sky Tg 24, in arancio la prima, in grigio la seconda - ma con l´immancabile sciarpa gialla - le candidate sembrano averci preso gusto, tra occhi al cielo e smorife ad accompagnare l´una le dichiarazioni dell´altra, col conduttore nel ruolo di arbitro di secondi.
Inizia la candidata del centrosinistra: «In queste elezioni c´è una sproporzione di forze, con la discesa in campo del premier». Pronta replica dell´avversaria: «Per la prima lista della capitale esclusa, mi sembra rilevante». Bonino: «In un Paese normale un governo resta fuori». Polverini: «È un governo politico, non tecnico». «E ci mancherebbe! Le elezioni non sono un referendum sul governo, mi darei una regolata». Secondo round sul buco della sanità: quando Polverini assicura che non è sceso nell´era Marrazzo, Bonino alza gli occhi al cielo e prende dei documenti. Mossa vana: «Tira fuori tutte le carte che vuoi, ma il debito non si può accreditare al centrodestra: si trascina da prima». Quando poi è la vicepresidente del Senato a buttare là «per voi le istituzioni non contano mai, il questore non è credibile, la Corte dei Conti non è credibile» a scattare è l´ex sindacalista: «Non mi accreditare cose che non ho detto. Io sono Renata Polverini, parla con me».
Mentre fuori infuria il dibattito sul monito dei vescovi (e D´Ubaldo assicura che «il programma della Bonino rappresenta i cattolici, perciò il voto disgiunto non ha senso»), negli studi tv, almeno sulle prime, sembra prevalere il fair play: la Polverini si limita a osservare che «la Chiesa è una fonte talmente autorevole che non è possibile commentare, perché si rischia di strumentalizzare parole così alte». Ma quando Bonino ricorda che «l´aborto e la 194 non sono competenza regionale, e dovrebbe saperlo anche il "signor Bagnasco"», l´altra precisa a mezza bocca: «Monsignore!». Finché la candidata di centrodestra, sui titoli di coda, promette la stabilizzazione dei precari over 35, e la radicale sbotta in una risata: «Ma non si può fare! La finanziaria ha bloccato le stabilizzazioni... Certo che sei buffa tu, vuoi fare il contrario di quello che dice il tuo governo».
Intanto, ieri la Rete Liberal ha depositato il ricorso al Tar dopo il "no" di Montino al rinvio delle regionali. La lista di Sgarbi - riammessa a una settimana dal voto - chiede che le elezioni siano posticipate d´urgenza per avere una campagna elettorale più lunga, e l´annullamento dei risultati se la decisione di merito dovesse arrivare dopo le urne. L´udienza è fissata per domani, lo stesso giorno in cui è attesa la decisione sui ricorsi di altre liste escluse dalla competizione, dal Pli al Movimento sociale alla Lega Italia di Carlo Taormina: se fossero riammesse, uno slittamento sarebbe inevitabile.

Repubblica Roma 24.3.10
Bersani: siamo al fotofinish, ma vinciamo

«Ho fiducia: non dico che abbiamo vinto, perché siamo al pelo, ma dico che vinciamo». Parola di Pier Luigi Bersani. «Abbiamo un candidato forte - spiega il segretario del Pd - e cioè Emma Bonino: hanno cercato di inchiodarla su posizioni politiche particolari, ma lei può rappresentare una forte azione di governo. Invece Renata Polverini, che all´inizio sembrava una candidatura fresca, si è avvitata, e ora è prigioniera politica di uno schieramento regressivo». Insomma, «siamo prossimi a un risultato che era impensabile fino a poco tempo fa».

Libero 24.3.10
Un errore strategico criminalizzare Emma
di Maria Giovanna Maglie

Attenti, finisce che le arrivano i voti delle donne indecise, che si incazzano i laici moderati. Il voto di centro destra non è un esercito di soldati schierati contro l'aborto e il divorzio, entusiasti di accanimento terapeutico e terrorizzati dal testamento biologico. Non ho niente contro l'appello dei vescovi italiani, si rivolgono ai cattolici, ricordano loro i valori della fede, li mettono in guardia indirettamente dal rischio che astenersi significhi votare indirettamente nel Lazio per un candidato tanto esplicitamente radicale qual è Emma Bonino.
Ma una cosa è la Cei, un'altra dovrebbe essere il PdL, ovvero popolo delle libertà, o se preferite promotori delle libertà. E non c'è bisogno di essere neo finiani per sentirsi a disagio, basterebbe il ricordo di quando si era socialisti, e la conta dei socialisti ancora presenti nel governo e nella maggioranza; basterebbe essere agnostici, liberali senza vergogna. Faccio parte di una categoria di gente rispettosa, ma anche convinta che il divorzio sia un'istituzione profondamente radicata nella nostra società, che meglio separarsi che stare insieme odiandosi, stile guerra dei Roses. Siamo gente rispettosa, ma anche convinta che l'aborto, scelta dolorosa che ricade prevalentemente sulle donne, sia legge sancita da referendum popolare a furor di "no", nel senso di no all'abrogazione, da trentuno anni, e che il ricorso a questo metodo sia modesto per cifre e per fortuna in continuo calo.
Può succedere che a furia di presentarsi come il governo della famiglia si sortisca l'effetto opposto, che vademecum come quello appena varato al Senato, promotori Maurizio Gasparri e Rocco Buttiglione, sui tredici o giù di lì motivi per dire di no a Emma facciano scattare il vezzo, la tentazione contraria. Di motivi per non votare il candidato governatore del Lazio per il centro sinistra, dipietristi forcaioli e giustizialisti compresi nella santa alleanza, ce ne sono di molto seri. Emma Bonino, con Marco Pannella, ha difeso strenuamente la linea fiscale di Prodi e Visco, ci ha sommersi di tasse. Da ministro del governo Prodi ha votato la controriforma previdenziale grazie alla quale l'Italia è diventato l'unico Paese ad abbassare l'età pensionabile. Ci è costata dieci miliardi di euro, un terzo dei quali li ha trovati innalzando i contributi a carico dei lavoratori parasubordinati, cioè proprio quei precari sulla cui sorte e futuro la sinistra ci tortura. Sempre da ministro di Romano Prodi, la Bonino ha deciso di non utilizzare la moratoria possibile, al contrario di quanto hanno scelto di fare gli altri Paesi europei, e ha fatto accomodare immigrati bulgari e rumeni neo europei senza il minimo controllo, teorizzando la bontà del'`invasione, impalcandosi a paladina dell`antirazzismo di governo.
Sarà bene non votarla governatore, se possibile, anche se a suo tempo ha introdotto nell'Italia delle mammane e delle stragi per aborti clandestini, dei raschiamenti senza anestesia dei "cucchiai d'oro", un metodo, il Karman, l'aspirazione, che trasformò per tante l'incubo in un episodio doloroso più tollerabile. Ecco, quella era un'epoca, questa è un'altra, e lei allora aveva qualcosa in più da dire, oggi no. Oggi appartiene alla peggior politica di tattica senz'anima, di retorica bolsa, di politically correct noioso e nocivo. Sconfitta, statene certi, non farà il consigliere d'opposizione nel Lazio, si terrà la sua bella poltrona di Palazzo Madama.

Libero 24.3.10
Anche il Pd prega che la Polverini batta la Bonino
di Maurizio Belpietro

Bersani non lo ammetterà mai, ma anche a lui conviene che Emma Bonino perda. Non c'è solo Renata Polverini a tifare contro la candidata di sinistra nel Lazio. E non ci sono solo i vescovi, i quali l'altro ieri hanno ricordato che non bisogna votare per chi è favorevole all'aborto(pentendosi poi l'indomani, come usa fare in confessionale). 
No, a sperare che, nonostante gli aiutini dei giudici, l'esponente radicale non ce la faccia ci sono anche alcuni del Pd e probabilmente pure lo stesso segretario. La ragione è semplice e l'autolesionismo non c'entra per nulla, anzi, semmai è il contrario: candidare la seguace di Pannella è stato un puro gesto di masochismo da parte di Bersani, il quale forse è stato costretto dagli eventi e dalla carenza di alternative sottomano. Fatto sta che ora l'uomo venuto da Bettola rischia di trovarsi alla guida della Regione Lazio una signora invisa alla Chiesa al punto da spingere le gerarchie della Cei alla mobilitazione dell'elettorato cattolico. Che le sottane vaticane non gradissero era facilmente immaginabile, visto che nel passato dell'esponente della Rosa nel pugno c'è qualche aborto clandestino e il segretario del Pd non poteva non sapere. 
L'ostilità d'Oltretevere basterebbe per augurarsi che l'urna risolva la questione alla radice, rispedendo la Bonino da dove è venuta. Ma se ciò non fosse sufficiente, ci sono altre considerazioni che consigliano a Bersani di sperare nella sconfitta. 
Innanzitutto c'è l'aspetto giudiziario. Dopo aver rimproverato per una vita al Cavaliere i guai giudiziari, lamentando il fatto che il premier sfuggirebbe i processi che lo riguardano, se la Bonino fosse eletta il Pd si ritroverebbe un governatore che, inseguito per anni dalle Procure, l'ha fatta franca solo grazie all'immunità parlamentare. Difficile a questo punto continuare a dire no al lodo Alfano o ad altre guarentigie adatte a sottrarre i parlamentari all'invadenza dei pubblici 
ministeri. 
Ma l'argomento chiave è che se la candidata radicale venisse eletta per Bersani sarebbero guai. Già è costretto sulla difensiva dalle continue uscite di Antonio Di Pietro, l'alleato più scomodo che la sinistra abbia mai avuto, ma se ci fosse pure la Bonino, il povero Pier Luigi verrebbe messo all'angolo, dovendo fronteggiare anche le iniziative dei pannelliani, che in quanto a diritti del lavoro e altro sono assai distanti da quelle dell'ex partitone di Botteghe Oscure. Emma poi non sarebbe facile da ridurre al silenzio. Anzi: essendo più nota di tutti gli altri governatori di sinistra, dai Vasco Errani agli Enrico Rossi, ed essendo alla guida di una grande Regione rischierebbe di diventare un contraltare pericoloso più per il Pd che per il centrodestra. Diventerebbe insomma una sorta di vicesegretario o addirittura un altro segretario, alternativo a quello ufficiale. Non potendola controllare come fa con gli altri, Bersani sarebbe costretto a inseguirla tutte le volte che apre bocca e ciò che può dire la Bonino lo si è visto in campagna elettorale, dove non ha certo nascosto come la pensa su varie materie, aborto, biotestamento e famiglie allargate. 
Insomma, alla fine, c'è da credere che davvero Pier Luigi accenda un cero in chiesa ogni mattina, sperando che il 29 la Madonna faccia il miracolo di sconfiggere la madonna laica amata da Pannella. Altrimenti gli toccherebbe una novena, ma di penitenze.

l’Unità 24.3.10
Ma Polverini teme l’assist dei vescovi. “Sulla 194 perde”
di Susanna Turco

Persino Renata Polverini sa che non le conviene. Che cavalcare uno scontro laici-cattolici su aborto e altri cosiddetti valori non negoziabili rilanciati (salvo correzione di tiro) da monsignor Bagnasco è, di questi tempi, una lama a doppio taglio. Un'arma spuntata che finirebbe per alienarle più consensi di quanti non ne raccolga. «Portare la campagna elettorale su questo schema sarebbe politicamente sconveniente», spiega chi ha avuto modo di parlare con la ex leader sindacale. Sarebbe un boomerang, insomma. Un rischio più che un vantaggio: con buona pace per il duo Berlusconi-Ruini che ha tentato di riportare in auge il cosiddetto scontro tra laicisti e clericali.
Così, per il secondo giorno consecutivo, la candidata del Pdl alla guida della Regione Lazio ha preferito non cogliere lo spunto, lasciar cadere la palla alzatale (soprattutto in funzione anti Bonino) dalle gerarchie ecclesiastiche. «La Chiesa è una fonte talmente autorevole che non è possibile commentare quel che dice, perché si rischia di strumentalizzare parole così alte», si è limitata a spiegare ieri a Sky Tg24. Altrimenti tradotto, da chi ne conosce bene strategia e mosse: quella posizione c'è già la Chiesa a prenderla, influenzerà comunque quella fettina di voto cattolico che può, inutile e persino controproducente doppiarla.
Del resto, proprio seguendo questa filosofia, l'ex leader Ugl ha da tempo scelto una linea di buonsenso-destrorso-soft sui cosiddetti temi etici: proclamarsi genericamente a favore della vita e della famiglia; non dire mai cosa pensa personalmente della 194 salvo specificare - ieri - che «si tratta di una legge dello Stato» e che quindi «certamente Bagnasco non si riferiva a quella»; ribadire a ogni buon conto che lei si batte «in difesa delle donne». Il che, sia detto di sfuggita, va benissimo sia per chi voglia vedere nella Polverini una che si schiererebbe per non toccare la 194, sia per chi la immagina pronta a impedire la diffusione nella Regione Lazio della Ru486: in entrambi i casi «a difesa delle donne«, volendo.
Non c'era motivo dunque di sciupare questo profilo non divisivo («la mia parola chiave è normalità», è il suo mantra) per infilarsi in una diatriba sulla quale nemmeno Renato Mannheimer è disposto a scommettere. «Non credo che l'appello di Bagnasco sia determinante: l'elettorato cattolico è ormai molto frammentato», spiega infatti il presidente dell'Ispo. Un ragionamento che il finiano Benedetto Della Vedova cala nella politica: «Bisogna evitare il rischio di far passare tra gli elettori italiani l'idea che, se non la si pensa come il cardinal Bagnasco sull'aborto, non si può votare per il Pdl e i suoi candidati», dice.
Parole che la Polverini, se potesse, sottoscriverebbe in pieno. Che ci pensino i Gasparri e i Buttiglione, a stracciarsi le vesti pro valori non negoziabili: non è così che si può vincere, non ora e non qui.
Del resto, la sua valutazione coincide in più punti con le preoccupazioni espresse anche tra finiani e laici del Pdl. «Spingere la campagna elettorale verso lo scontro di civiltà finisce per ricompattare la sinistra», spiegano, «E bisogna anche stare attenti a non consegnare alla Bonino la palma dei diritti tout
court. Se alziamo una barricata e lasciamo intendere che chi non la pensa come i vescovi non è allineato, rischiamo di demotivare i nostri elettori». Peraltro, aggiungono, «ormai questo tipo di schema eccita soltanto tifoserie marginali: ma lo scontro laici-cattolici non sposta più nemmeno il voto delle suore»

Repubblica Roma 24.3.10
Forza Nuova tenta di ostacolare una manifestazione del Pd su resistenza e mafie
Piazza Vescovio, oltraggio ai partigiani "Bella ciao" contro i saluti romani
di Valeria Forgione

Canti fascisti e uno striscione degli ultras di destra. La polizia ha presidiato lo slargo Lo sdegno di Zingaretti: "Ritorno al passato violento"

Il coro di un gruppo di partigiani che canta "Bella ciao". E alcuni giovani militanti di Forza Nuova che rispondono intonando l´inno di Mameli con il braccio destro teso. Una piazza Vescovio, nel quartiere Salario, ieri divisa in due: da una parte il gazebo allestito per l´iniziativa promossa dal coordinamento per Emma Bonino del II Municipio, in concomitanza con la XV giornata della memoria in ricordo delle vittime delle mafie; dall´altra alcuni giovani militanti di Forza Nuova schierati nel giardinetto antistante che hanno srotolato lo striscione con la scritta: "Questa piazza non ti vuole". Ovunque camionette delle forze dell´ordine e al centro, a formare un cordone di sicurezza, tanti agenti in tenuta antisommossa.
L´appuntamento era fissato per le 16.30: un pomeriggio di commemorazione per ricordare le vittime della mafia dal titolo "Sì alla legalità e alla trasparenza con Emma presidente del Lazio". "Un comizio svolto in un posto sbagliato", secondo i militanti di Forza Nuova, che da anni si ritrovano nella piazza, dove a pochi metri si trova anche una sezione del partito. Volti minacciosi e mani in tasca, per tutta la durata dell´evento, dal giardinetto della piazza, i giovani di destra hanno continuato a fissare gli anziani partigiani. "È un´iniziativa che parla dei valori della Resistenza, come quelli dell´etica pubblica e della legalità e non potevano mancare i partigiani" , ha spiegato Massimo Rendina, presidente dell´Anpi. "Forza Nuova è rimasta agli anni ´70 quando la città era divisa in quartieri neri e rossi", ha dichiarato Paolo Masini, consigliere comunale del Pd. Lancia un grido d´allarme il presidente della Provincia, Nicola Zingaretti, "contro il rischio di un ritorno indietro verso un passato oscuro e violento. In tutta la città va garantito il diritto a esprimere le proprie idee e opinioni". Ma per i militanti di Fn si è trattato di "una chiara provocazione. Noi non stiamo contestando il merito della manifestazione, ma questa è una piazza simbolica per Roma dove nel 1979 morì un ragazzo, Francesco Cecchini, colpito da uno che oggi milita in un partito comunista. È da quel giorno qui non si sono organizzate più manifestazioni", ha commentato Gianguido Salentnich, responsabile della sezione di Forza Nuova a piazza Vescovio. E Marco Miccoli, segretario della Federazione Pd Roma, si è rivolto al sindaco Alemanno: "È inaccettabile. Tutte le piazze a Roma dovrebbero poter essere utilizzate dai cittadini".

l’Unità 24.3.10
Aborto, una questione di ammissibilità morale
Suona curioso il concetto di «umanità del feto» se non si specifica il concetto, né si accetta l’intervento diretto di biologi e giuristi. Anche la Chiesa non può più nascondersi dietro il termine «persona»
di Nicla Vassallo

Per affrontare i temi dell’inizio e della fine della vita, di conseguenza i temi della morte e della dignità umana, occorre dibatterne con competenza e pertinenza, senza strumentalizzazioni e discriminazioni di sorta. La ricetta pare semplice: si prendano quattro grandi filosofi, come Michael Tooley, Celia Wolf–Devine, Philip Devine, Alison Jaggar, li si metta a esaminare il problema, si chieda loro di esporre le rispettive posizioni, nonché di criticare quelle altrui, si condensi il tutto in un bel volume (Abortion: Three Perspectives, Oxford University Press, Oxford 2009, pp. 272, euro 9.99), lettura doverosa sia per chi rifiuta, sia per chi accetta fissazioni, fondamentalismi, paraocchi. Ricetta “banale” e degna di lodi, come spesso accade alla cosiddette banalità, che non convengono a questo o a quell’altro, perché di questo e quell’altro ne smontano le prevenzioni.
È tra l’altro raro che su un tema non particolarmente delicato per la filosofia (ve ne sono ben altri), ma alquanto spinoso su un piano socio–politico–religioso, ove scatena ciclicamente accese polemiche, quali quelle italiane di questi giorni, ci si confronti con intellighenzia aperta e onesta, nel tentativo di comprendere le posizioni avverse, senza escludere quelle comuni – incarnate spesso dal cosiddetto “uomo” della strada che, sebbene perlopiù incapace di offrirci una buona definizione di embrione, etica, essenza, persona, scienza, giunge a nutrire una propria irremovibile posizione sull’aborto, influenzato da questo e quell’altro – per esempio, dal presidente della Cei, cardinal Angelo Bagnasco e dalle sue facili esternazioni sulla RU486 in periodo pre–elettorale. Meglio allora suggerire a questo e quell’altro una buona filosofia internazionale, interessata alle argomentazioni per diverse tesi (liberale, a favore della possibilità dell’aborto; comunitaria, contro la possibilità dell’aborto; femminista, a sostegno dell’aborto per una giustizia di genere), senza ricorrere ad alcuna sorta di autorità ecclesiale (nonostante di devozioni si parli), per garantire l’opzione tra questioni valoriali che non presuppongono alcuna fede politico-clericale, né terminano col suggerirla.
L’ammissibilità morale dell’aborto (stando a Michael Tooley) rintraccia il proprio fondamento nella tesi stando a cui embrioni/feti umani non posseggono uno stato etico rilevante e intrinseco, né le proprietà che si addicono alle persone. Gli embrioni non risultano annoverabili tra le persone, anche perché si rivelano fallaci le spiegazioni religiose, le attribuzioni a embrioni/feti di menti immateriali razionali, gli appelli a competenze psichiche di embrioni/feti, le assicuranti attribuzioni di vita umana a un qualsiasi ente che si richiami alla specie Homo sapiens.
Stando a una teorizzazione antitetica (supportata da Celia Wolf–Devine e Philip Devine), l’ammissibilità dell’aborto va osteggiata per più di una ragione, tra cui emerge la convizione preponderante stando a cui, se da una parte madri e padri (in senso biologico) compiono un’azione, quella del concepire, che, oltre a non essere priva di obblighi etici, dovrebbe garantire a concepito/a e genitori una qualche sorta benessere, dall’altra il/la concepito/a viene a inserirsi subitaneo/a in una rete di relazioni, senza cui si negherebbe ogni vita adulta a ogni essere umano. Ci si appella tuttavia alla cosiddetta “umanità del feto”, il che suona curioso, se non si specifica il significato di “umanità”, né si accetta l’intervento diretto di biologi e giuristi, ove le conclusioni della biologia, al pari di leggi spesso cavillose, rischiano di venire stravolte.
Alle comparazioni tra liberalismo e femminismo, nonché alle analisi delle obiezioni contro l’aborto (affidate a Alison Jaggar) vengono applicate metodologie filosofiche atte al mondo reale, per promuovere una giustizia globale, impossibilitata a prescindere dal genere di appartenenza, nonostante l’ormai netta consapevolezza della problematici-
tà del concetto stesso di “genere”. Questo significa che, se nel mondo reale appartengo al genere femminile, affettività, autonomia, incolumità, vita mi devono venire assicurate, e di ciò viene a fa parte integrante il mio diritto umano di abortire; se appartengo al genere femminile, è di rigore per me un’equità che include la possibilità dell’aborto; se appartengo al genere femminile, la stessa salute pubblica, lo stesso sviluppo sociale, la stessa giustizia non possono prescindere dal garantirmi l’aborto, per l’integrità del mio corpo/ mente e delle mie libertà sessuali.
Tra le diverse posizioni filosofiche a emergere risultano soprattutto i punti di dissenso, valorizzati però da impagabili riflessioni, che farebbero un gran bene a ogni dibattito pubblico, arricchendolo di modalità civili e oneste, troppo spesso assenti. Tuttavia, rimane il sospetto che gli enigmi della vita e della morte non siano accessibili se non si hanno idee chiare su ciò che rende un essere umano tale: generiche caratteristiche fisiche e psicologiche, oppure una qualche specifica esistenza mentale, da non confondersi con qualche “esistenza” cerebrale, nonostante il recente predominio delle neuroscienze? Non è affatto semplice attribuire a un embrione un’esistenza mentale, né quel minimo di auto-consapevolezza necessaria a fare sì che si sappia di vivere quell’esistenza.
Ma è di questo che occorre discutere, sempre che si intenda conservare una distinzione (non affatto scontata) tra animali-umani e animali-non-umani, sempre che non ci si nasconda dietro il termine “persona” (da intendersi come “maschera” secondo l’etimologia antica) per suddividere arbitrariamente gli esseri viventi in persone e non-persone, fermo restando che esistono le persone-maschere.

l’Unità 24.3.10
Battaglia dei Radicali per rendere pubblica la lista di fornitori di beni e servizi di Montecitorio
Nel 2010 53 milioni di affitti alla società Milano 90. L’elenco da ieri sul sito BoninoPannella.it
I conti segreti della Camera Un milione e mezzo al Gemelli
Pubblica per la prima volta la lista delle ditte che ricevono appalti dall’amministrazione della Camera. Centinaia di milioni ogni anno senza gare di appalto. Operazione Trasparenza di Bonino nella Regione Lazio.
di Claudia Fusani

Locazioni e affitti 54.423.628,84 Biblioteca 3.020.867,77 Antincendio 1.618.467.35 Consulenze 311.390,00 Medico-sanitario 1.600.603,50 Arredi 1.070.000,00 Edili 4.784.788,00 Magazzino 3.447.000,00 Ristorazione 7.589.192.00 Autorimessa 687.730,00 Sicurezza 2.787.713.00

Il più beneficiato è sicuramente mr. “Milano 90”, proprietario dell’omonima società che nel 2010 riceverà dall’ammnistrazione della Camera dei Deputati 53 milioni e 579 mila euro tra affitti, servizi condominiali e di ristorazione. Succede da almeno otto anni. L’affittuario più curioso è il Patriarcato di Antiochia dei Siri, la chiesa cattolica sira, che intasca 51 mila euro e spiccioli per la locazione annuale di piazza Campo Marzio. Chi intasca meno in assoluto è l’Istituto di cultura e lingua russa (cinque mila), si vede che tra i deputati il russo non va per la maggiore. I più “incredibili” sono i 7 milioni e mezzo annui per la ristorazione degli onorevoli deputati. Per non parlare dei 688 mila euro alla voce “autorimessa”, il noleggio delle auto blu.
LA PRIMA VOLTA IN 40 ANNI
Con una di quelle battaglie tipiche dei Radicali, non-mollo-finchè non-ottengo-ciò-che-è-mio-diritto avere, l’onorevole Rita Bernardini ha messo in croce per quasi un anno il segretario generale di Montecitorio Ugo Zampetti fino a riuscire in qualcosa che nessuno mai prima in 40 anni: rendere pubblica la lista dei fornitori di lavori beni e servizi alla Camera dei Deputati. L’elenco è sempre stato tenuto riservato «in nome di normative europee che non ne prevedono la pubblicazione» ebbe a spiegare il 7 luglio 2009 il questore della Camera Antonio Mazzocchi (gli altri due sono Francesco Colucci e Gabriele Albonetti). «Una clamoroso bugia» può dire oggi Bernardini che, dopo uno sciopero della fame, il più breve della storia grazie all’intervento del presidente Gianfranco Fini («Domani avrai quel che chiedi. Giustamente», disse il 2 febbraio 2010) mette on line quell’elenco (www.boninopannella.it/trasparenza).
Sono quaranta pagine di ditte e fornitori, cosa fanno e il valore dell’appalto assegnati per lo più a trattativa privata e chiamata diretta. Il controllo pubblico e popolare sull’elenco può riservare sorpresa. «Ci sono profili penali» assicura Pannella. Non è azzardato ipotizzare un nuovo sistema gelatinoso, liste di amici degli amici. «La Camera insiste Bernardini è esente da qualsiasi controllo gestionale o contabile. E il controllo interno, affidato ai questori, è in realtà affidato al Segretario generale, il soggetto che dovrebbe essere controllato».
Alla voce ristorazione spicca il nome «Compass». Tra gli edili la «Titano edilizia» e al capitolo condizionamento la Saccir spa. Un elenco da spulciare voce per voce. Ogni anno la spesa medicosanitaria degli onorevoli ammonta a un milione e 600 mila euro. Tra le ditte Medtronic, Philips spa, Roche diagnostic spa, Sancar srl, la parte del leone tocca al policlinico Gemelli che per servizi medici e infermieristici incasserà nel 2010 un milione e 400 mila. Ma non è finita qui. Gli onorevoli deputati hanno anche una speciale convenzione con il Centro diagnostico Pantheon, specilizzato anche in chirurgia estetica. Il segretario Zampetti non lo aveva inserito perchè «non è costo vivo dell’amministrazione bensì del Fondo di solidarietà tra gli onorevoli», che ogni mese sono obbligati a versare 800 euro. Soldi suoi? No, nostri, visto che lo stipendio dei parlamentari è pagato, anche, con le tasse dei cittadini.

il Fatto 24.3.10
Oltre 68 milioni di euro l’anno: è il costo di Montecitorio
La Camera degli sprechi
Cancelleria, uffici, corsi di lingue, automobili. E ancora ristorante e commessi. Tutte le spese per i deputati svelate dai Radicali.
di Alessandro Ferrucci

Via le malignità. Basta con le cattiverie. Stop al qualunquismo. Anche in Italia c’è un posto di lavoro dove le regole di sicurezza vengono rispettate. Tutte. E non esistono morti bianche. Guarda un po’. Dove è disponibile un medico; dove la mensa non serve piatti vecchi o riciclati. Anzi, vengono effettuati continui controlli sanitari. Dove anche la cura dell’immagine diventa un valore, pari a 307 mila euro l’anno di foto. Sì, esiste, basta farsi eleggere alla Camera dei Deputati, piazza Montecitorio, Roma.
Quindi ecco uno stipendio di quasi 20 mila euro al mese, altri 7 mila per i collaboratori, 2 mila per i viaggi e 5 mila per un affitto. Più tanto, tanto altro. Per scoprirlo è stato necessario lo sciopero della fame di Rita Bernardini, deputata radicale, tenace nel mettere alle corde i tre questori della Camera (“riluttanti a consegnare quanto richiesto, nonostante il regolamento”, racconta la stessa) e a strappare l’appoggio del presidente della Camera “che mi ha scritto: ‘Sarà lo sciopero della fame più breve della storia. Domani avrai quel che chiedi, giustamente. Con stima Gianfranco Fini”. Così è stato. Ed ecco consegnata al popolo una lista lunga 17 pagine, con su scritti tutti i fornitori, i servizi erogati e i prezzi pagati. Risultato? I radicali quantificano in altri 9.000 euro al mese il costo impiegato per ogni deputato “nemmeno al Grand Hotel un ufficio costerebbe così tanto!” incalza la Bernardini.
Ecco alcune delle voci: quasi 7 milioni di euro per la ristorazione, comprensivi anche del “monitoraggio alla qualità dei servizi” (126 mila euro); oltre 600 mila per il noleggio delle fotocopiatrici; 400 mila per “agende e agendine”, 292 mila per la somministrazione cartoncini, carte e buste personalizzate, 300 mila per i corsi di lingue. Fino al vero “gruzzolo”, composto da oltre 51 milioni per le locazioni: “Sono gli uffici a disposizione per ognuno di noi – continua la radicale. Sono dislocati attorno a Montecitorio, e lì abbiamo a disposizione tutto quanto è necessario”. E di più, ancora. “Non solo, dentro il personale svolge lo stesso ruolo dei commessi della Camera, ma con uno stipendio, e benefit, decisamente inferiori: 800 euro al mese. Li vedo arrivare la mattina presto vestiti con tuta e armati di strofinacci per le pulizie. Quindi si cambiano, indossano gli abiti ufficiali, ed ecco la rappresentanza. Assurdo. Soprattutto perché gli uffici vengono utilizzati pochissimo”. Già, la Camera lavora tre giorni la settimana, dal martedì al giovedì, e molti deputati arrivano da fuori, quindi non restano a Roma durante il periodo di inattività.
Comunque, protagonista alla voce “canone di locazione” è la società Milano 90 Srl, con ben quattro lotti assegnati per la cifra complessiva di circa 45 milioni. “Fa capo all’imprenditore Scarpellini, prosegue la Bernardini. È un costruttore romano, impegnato nella realizzazione di un quartiere alla Romanina e dello stadio della Roma calcio. Ah, comunque, le posso dire anche un’altra cosa: i lavoratori suddetti, nonostante lo stipendio da fame, sono segnalati dai partiti stessi. Insomma, c’è una sorta di lottizzazione. Nella lista consegnata ci sono anche altre voci interessanti”. Vero. Sotto la categoria “manutenzioni” finiscono le punzonatrici: per la loro efficienza, solo per quella, la cifra è di quasi 4 mila euro; o 99 mila per l’arredo verde dei terrazzi, giardini e cortili. E ancora un milione e 200 per le tappezzerie e falegnameria.
Nonostante tutto questo “il bilancio della Camera – conclude la deputata radicale – è omertoso, l’ho detto in aula e lo ripeto: in virtù del principio di autonomia costituzionale, la Camera è esente
da qualsiasi controllo contabile e gestionale esterno”. “Il controllo interno – ricordano i Radicali in un documento – dovrebbe essere esercitato dai questori (...) supportati dal Servizio per il controllo amministrativo, gerarchicamente subordinato al segretario generale, cioè al soggetto che dovrebbe essere controllato. Dunque è lecito dubitare della reale efficacia della funzione di controllo, comunque esclusivamente formale, dato che l’assenza della contabilità analitica non permette di istituire controlli sull’efficienza e l’efficacia della gestione”. Un giro di parole per dire, semplicemente, che chi detta le regole, si giudica; chi emette o assegna un lotto, si auto-controlla. Chi ci guadagna, invece, sorride.

il Fatto 24.3.10
La forza tranquilla e la lunga marci dell’Aubry
La leader socialista tra nemici interni e alleanze per le presidenziali francesi del 2012
di Gianni Marsili

Dimenticato quel centinaio di voti del novembre 2008. era il suo infinitesimale vantaggio su Sègoléne Royal, un fotofinish grazie al quale lei, Martine Aubry, era diventata segretario del partito. L’altra gridò alla frode, Martine fece orecchie da mercante. Poi, giorno dopo giorno, si è costruita la legittimità piena che le mancava. Il primo anno sembrava sparita dalla scena. Stava più a Lilla, nel suo ufficio di sindaco, che a Parigi in rue Solferino, direzione del partito. Dov’è Martine? Cosa fa Martine? Perché in tv si vede sempre e soltanto Ségolène? Fino a che, un paio di mesi fa, qualcuno qua e là cominciò ad accorgersi che le acque dentro il Ps erano stranamente tranquille e che alle regionali si andava con nuova sicurezza. I sondaggi confermarono. Allora Martine uscì dal guscio, trattò con verdi e comunisti, venne più volentieri in tv, scherzò con i giornalisti al seguito, fece il suo bravo tour de France, s’ingentilì con un paio di orecchini, perse qualche chilo, scoprì le virtù del maquillage, cambiò finalmente parrucchiere. E vinse clamorosamente le elezioni di questo marzo. Oggi la chiamano “la Merkel della sinistra” e lei, con la severità di chi nasce a sinistra e intende morire a sinistra, accetta il paragone “con alcune riserve”. È pur sempre la figlia di Jacques Delors, l’ex ministra di Mitterrand e Jospin, il primo cittadino della capitale operaia del nord. Ma questa cosa della Merkel non le dispiace. Hanno in comune la concretezza, la pazienza, l’arte della tessitura. Ambedue riescono a tenere a bada gli ambiziosi ometti che vociferano nei rispettivi partiti. Se la Merkel ha già conquistato i galloni da statista, per Martine potrebbe essere questione di tempo. Sono in molti, già da ora, a vederla “presidenziabile”. Lei sa bene che il gioco dei “presidenziabili” è di solito mortale, per cui non una sola parola le è uscita dalla bocca, dalla sera di domenica, sul rendez-vous del 2012. La parola che ha più usato è stata “prematuro”. Prematuro prefigurare il tipo di alleanza con i verdi (fin dal primo turno, o solo al secondo?), prematuro tracciare l’identikit di chi porterà i colori della gauche. Avanti a piccoli passi: Sarkozy si abbatte con un lavoro di scavo, non certo a spallate. Sa anche, Martine, che le scale più insaponate di tutte sono proprio quelle di rue Solferino. I signori della guerra intestina, i Fabius, gli Strauss Kahn, con i quali lei aveva stretto il patto detto Tss (“tout sauf Ségolène”), possono dissotterrare l’ascia in un batter d’occhio. Vanno quindi blanditi e rassicurati. Quanto a Ségolène, l’ascia non l’ha mai sotterrata. La corsa alle primarie, nel 2011, sarà affollata e irta di trappole. Arrivarci in modo decente è la grande responsabilità che spetta a Martine. Che nel frattempo dovrà anche posizionare il partito su temi fondamentali. Sarkozy, per esempio, intende ritrovare un po’ di colori riformando il sistema pensionistico, e il Ps dovrà scegliere se essere partito di lotta o partito di governo.
Martine dovrà ascoltare, mediare e poi decidere: un’opposizione di principio o una disponibilità ingenua potrebbero esserle fatali. Come sembra lontano quel giorno del 2002, quando Le Pen andò alla finale al posto di Jospin. Martine piangeva calde lacrime, e altre ne versò quando, un mese più tardi, perse anche il suo seggio parlamentare. Oggi gli occhi le ridono, tiene finalmente il coltello dalla parte del manico, e lo tiene saldamente.

il Fatto 24.3.10
La Francia è vicina?
di Gianfranco Pasquino

Ma non ci avevano detto che i socialisti francesi erano in una crisi profonda? Che il socialismo è, dopotutto, un’ideologia ottocentesca? Che la sinistra non c’è più? Dalla Francia arriva qualche notizia diversa che dovrebbe far pensare, chi ha ancora la capacità di farlo, e fare agire seguendo qualche direttiva che, evidentemente, la sinistra francese ha saputo utilizzare. Prima di tutto, appare opportuno capire il contesto. Nelle democrazie, gli elettori hanno diritto di cambiare opinione, anche perché molti di loro sono interessati alla politica, si informano, vogliono contare. Quando cambiano opinione possono votare un partito diverso, oppure starsene a casa, oppure tornare a votare. L’alto tasso di astensionismo francese, già normalmente superiore a quello italiano, significa, anzitutto, che una parte dell’elettorato centrista, che ha votato Sarkozy due anni fa, non è particolarmente convinta né da quello che il presidente ha fatto (e non fatto) né dal suo stile politico (debbo trattenermi o posso permettermi di scrivere “berlusconeggiante”?). L’astensione è un comportamento di voto razionale che ha effetti. Suona, infatti, un campanello d’allarme per il governante che perde. In secondo luogo, le sinistre già avevano una notevole presenza al governo delle ventidue regioni francesi e, in generale, dispongono, grazie ai loro esponenti nei governi locali, di una presenza organizzativa sul territorio, a macchie di leopardo, ma i leopardi sono almeno tre: socialisti, verdi-ecologisti, comunisti. Questa delle elezioni regionali si presentava come la prima grande e ghiotta occasione per contarsi dopo due sconfitte: presidenziali ed europee (terreno sul quale le loro ambiguità continuano a produrre effetti quasi devastanti). Dunque, hanno evidentemente moltiplicato i loro sforzi contando anche sull’attivismo dei loro numerosi candidati alle diverse cariche locali e sulla loro disponibilità, pungolati dalla necessità, ad impegnarsi per rovesciare una brutta tendenza. In terzo luogo, le prestazioni di Sarkozy sono state largamente insoddisfacenti avendo il presidente privilegiato il suo attivismo di promesse, dimenticando che quello che conta è la lunga durata, ovvero dare un senso ad una presidenza che durerà fino al 2012 con l’attuazione di riforme che ad alcuni frutti immediati accompagnino rendimenti crescenti. Naturalmente, alcuni critici francesi hanno messo in rilievo che Sarkozy è stato ampiamente sopravvalutato e che la sua cifra politica complessiva è modesta (in paragone con Chirac e con Mitterrand).
I problemi della sinistra francese hanno radici molto profonde e molto lunghe, con qualche aggiunta recente non positiva. Non è mai stata elettoralmente molto forte a livello nazionale. E’ stata salvata, curiosamente, da un uomo tutt’altro che di sinistra, come François Mitterrand, e tenuta, con qualche difficoltà, nell’area di governo per una quindicina d’anni. Ha avuto un fortunoso soprassalto di potere politico di governo, grazie ad un clamoroso errore di Chirac nel 1997. Dopodiché è tornata a dividersi e a fare errori, pagando anche il declino storico dei comunisti. In quanto a errori, gelosie, divisioni, persino settarismi, non ha, in generale, nulla da invidiare alla sinistra Italiana – nella misura in cui in Italia esista ancora qualcosa degno di questo nome. La sinistra francese ruota intorno al Parti socialiste e sale e scende come conseguenza delle capacità o delle disgrazie del PS. La spaccatura del PS sul referendum costituzionale europeo del 2005 ha avuto conseguenze negative non facili da rimarginare. La candidatura di Ségolène Royal alle presidenziali, per quanto non vincente (anche perché non del tutto sostenuta dal partito), ha segnalato inconvenienti politici e di linea che la vittoria contrastata della più solida Martine Aubry per la segreteria del partito sembra avere parzialmente risolto. Ma, se i socialisti faranno primarie riservate ai loro iscritti per la scelta del/la candidato/a che dovrà sfidare Sarkozy nel 2012 potranno emergere tensioni e conflitti tutt’altro che mobilitanti. Quello che è sicuro è che in queste elezioni regionali ha vinto una ipotesi sufficientemente chiara, regione dopo regione. Una alleanza fra socialisti, verdi-ecologisti, comunisti, non difficile da costruire contesto dopo contesto, offre sicura e convincente rappresentanza politica, di preferenze e di interessi, alla maggioranza degli elettori. La lezione è duplice, con una coda. Primo, il sistema elettorale a doppio turno rende l’alleanza imperativa e la facilita. Il “correre da soli”, per chiunque, in particolare, per verdi e comunisti, ma anche per gli stessi socialisti, è sicuramente la scelta perdente. Secondo, il radicamento locale continua ad essere una risorsa molto efficace per fare politica anche contro un presidente molto (tele)visibile. La politica parte dal basso. Coda, tutto questo deve, e può, essere trasferito a livello nazionale. Ma a questo livello quello che conterà davvero fra due anni sarà la figura della candidatura presidenziale. Insomma, la sinistra plurale francese è viva e vitale, ma deve prepararsi con grande impegno alla sfida nazionale sfruttando al meglio la personalizzazione della politica.

l’Unità 24.3.10
Giovani e immigrati La Cgil aumenta gli iscritti
Oltre 5,7 milioni di iscritti, in aumento nonostante la crisi. Alla vigilia del XVI congresso, la Cgil incrementa le tessere registra un cambiamento nella composizione interna: la Filcams sorpassa Fillea e Fiom.
di La. Ma.

La Cgil arriva al sedicesimo congresso, a Rimini dal 5 all’8 maggio, in buona salute. Oltre 5 milioni e 746mila gli iscritti, in aumento rispetto al 2008 (+11.312 tessere, lo 0,20% in più), soprattutto grazie ad immigrati, che ora rappresentano il 14% del ttoale e circa 380mila persone, donne (più 5%, con punte del 22% in alcune categorie) e giovani (più 10% tra chi ha meno di 35 anni). E anche i primi tre mesi di quest’anno sono positivi. Sono i dati conclusivi del tesseramento 2009 illustrati dal segretario generale, Guglielmo Epifani, e dal responsabile organizzativo Enrico Panini. Che, quantità a parte, mettono in evidenza anche un cambiamento «qualitativo», di composizione interna della confederazione di Corso d’Italia, con il sorpasso dei lavoratori del commercio su quelli dell’edilizia e sui metalmeccanici. La Filcams (commercio e servizi) segna un aumento del 4,39%. Mentre le tute blu, storicamente primo sindacato della confederazione, dopo aver subìto il sorpasso dei pubblici e l’anno scorso degli edili, perdono quota anche rispetto al commercio e, con 363.507 iscritti, diventano la quarta categoria tra gli attivi, pur registrando una crescita dell’1,3%, nonostante la crisi. La prima (dopo lo Spi) resta la funzione pubblica, con 407.716 tessere. «Siamo la più grande forza sociale in Italia dice Epifani, «soddisfatto» dell’andamento del tesseramento quando si pensa di escludere la Cgil dai confronti e dagli accordi si va contro la maggior parte dei lavoratori e dei pensionati». «Durante i congressi continua abbiamo notato che in tutti i settori la gente veniva a iscriversi. È un fenomeno che ci ha molto colpito. Prendiamo questo segno anche come una risposta alla crisi perché in questi momenti si avverte un senso di solitudine e il bisogno di reti di protezione. Si tratta, dunque, di un risultato importante malgrado la crisi».
LA LOMBARDIA PRIMA REGIONE
Negli ultimi quattro anni i lavoratori attivi sono aumentati di 207.041 unità, pari all’8,25%. Lo scorso anno i lavoratori attivi sono stati 2.751.964, più 0,84% (22.241 unità) rispetto al 2008. I pensionati iscritti alla Cgil sono invece 2.994.203, in diminuzione dello 0,02% sull’anno precedente. Considerando poi gli iscritti alle organizzazioni di emanazione del sindacato guidato da Epifani (Auser, Federconsumatori e Sunia) il «sistema Cgil» può contare su circa 6 milioni e 350mila iscritti.
Panini sottolinea che la linea di tendenza mostra un ulteriore incremento degli iscritti nel 2010 che potrebbero superare i 5,8 milioni: «Si profila un risultato positivo per quanto riguarda le adesioni».
Dal punto di vista territoriale la Lombardia si conferma prima regione per numero di iscritti con un aumento dello 0,12%, seguita dall’Emilia Romagna, più 0,4%. Seguono Toscana, Sicilia e Veneto.

l’Unità 24.3.10
L’anniversario Oggi ricorrono i sessantasei anni dall’eccidio delle Fosse Ardeatine
«Ieri attentato al Tritone» Le note di «cronaca» in un quaderno di appunti quotidiani
Il prezzo del pane e il conto dei morti Via Rasella nelle pagine di un diario
Un prozio e un diario privato in cui sono annotati l’uno accanto all’altro, il prezzo del pane, del riso e della farina e il numero dei morti nell’attentato di via Rasella. Vita quotidiana e barbarie nazista.
di Giovanni Nucci

Nel 1944 Antonio Nucci finisce un suo personale Journal Intime iniziato nel 1933, con un resoconto dei mesi dell’occupazione tedesca di Roma. Il fatto che fosse prozio di chi scrive è irrilevante (se
non perché ciò mi ha permesso di reperire la sua testimonianza), per il resto era un colto avvocato poco più che trentenne, gobettiano e letterato, che aderì prima al partito liberale e poi al Partito d’azione: antifascista. Il diario, insolitamente letterario, è spesso aspro e privo dei centrogravitamenti sul sé a cui simili scritture sono solite. Le pagine sull’occupazione tedesca e sul collaborazionismo dei fascisti di Salò sono un resoconto immediato e molto efficace, un’insolita testimonianza di quanto il fascismo si fosse sottilmente infiltrato nella vita delle persone e del loro vivere quotidiano: non era affatto evidente, né ri-
conosciuto come tale (vale a dire una dittatura), per lo più veniva accettato senza che si ritenesse utile, vantaggioso o efficace opporvisi. La resistenza civile, al contempo, fu una reazione sofferta, faticosissima e pericolosa: ma col senno di poi fondamentale.
Vedendo quanto l’attentato di via Rasella e l’eccidio delle fosse Ardeatine vengano utilizzati, il primo per glorificare (o demonizzare) la Resistenza e il secondo per rappresentare la barbarie nazista e la vigliacca spietatezza fascista, torna utile andare a leggere cosa è scritto, sul diario, riguardo a quei giorni.
Marzo 1944: «I prezzi salgono ogni giorno: Pane: 50/60 lire al chilo, farina: 85/100/120 un prosciutto è stato pagato da G. 3.600. Nei bar e nei caffè si possono trovare dolci autentici». 24 marzo: «Ieri attentato al Tritone: chi dice 38 chi 60 i morti: civili e qualche tedesco». A seguire: maggio 1944: «Prezzi: Pane: 100 lire Kg. Riso: 200/230 Kg. Carne: 230 Kg. Farina: 200/230 Kg. Formaggi: 200/280 Kg. Insalate: 40 Kg».
Nel settembre successivo, dopo la liberazione, torna a parlarne e il racconto diventa più libero e articolato (evidentemente non teme più il ritrovamento dei suoi appunti ma è anche più lucido su ciò che è accaduto): «Il 23 marzo partecipavo (più esattamente “assistevo”) ad una seduta del Comitato Centrale nel solito studio dell’avv. Libonati. Era pomeriggio. Verso le cinque arrivò Ughi annunciando che tra Via Rasella e il Tritone infuriava una mezza battaglia. La sera del giorno successivo apprendemmo alla radio la prima notizia ufficiale: 32 tedeschi uccisi. Aggiunse la voce della radio: “Il comando tedesco, anzi germanico, ha deciso che per ogni soldato germanico ucciso dieci comunisti badogliani siano fucilati. L’ordine è stato già eseguito”. Ho udito io stesso questo comunicato. Così furono massacrati trecentoventi “ostaggi” anzi, sembra per un errore nel conto, trecentoventuno».
E aggiunge: «Pochi giorni prima che cadesse il trigesimo, durante una seduta del Comitato Centrale arrivò G.B. Rizzo. Il Comitato di agitazione forense aveva deciso di commemorare in udienza le vittime e di indire per il giorno successivo alla commemorazione lo sciopero delle udienze. Rizzo concluse invitando il Comitato a designare due oratori. Deve dirsi che i presenti non si mostrarono entusiasti anzi, cercarono di “evadere”. È vero infine che gli “oratori” rischiavano seriamente di finire in galera. Cattani sconsigliò “l’avventura”. Brosio dichiarò di non essere disposto a parlare. Di fatto si decise di partecipare senza oratori di parte liberale alla commemorazione, visto che eluderla del tutto non era possibile. Così andammo in udienza: alle 9 le aule erano già sorvegliate da agenti di giustizia e guardie armate. Come si seppe poco dopo il Presidente del Tribunale preavvertito della manifestazione aveva chiamato Caruso, e aveva ordinato di non tenere udienza. Eravamo una sessantina. Passeggiammo per un’ora buona nei corridoi. Poi ce ne andammo dopo aver lanciato i manifestini che invitavano allo sciopero per il giorno successivo. In Pretura invece la commemorazione fu tenuta e per i Magistrati parlò il Pretore Rosso. Il giorno successivo l’astensione dalle udienze fu completa. E questi furono gli unici atti di protesta in Roma per l’eccidio del 24 marzo».
La vita per loro era fatta di trentotto o sessanta morti in un attentato al Tritone raccontati in mezzo al prezzo del pane che passa, in due mesi, da 50 a 100 lire al chilo. Colpisce vedere cos’era la storia prima di diventare tale: come quasi non se ne accorgessero, che stava già lì, che direzione avrebbe preso e cosa sarebbe diventata quando ancora era tutto fumoso e indeterminato: soprattutto come entrare e farne parte, mentre quasi tutti pensavano al prezzo del pane (le uova e la farina): e solo alcuni avvocati ebbero il coraggio di tirare dei manifesti in tribunale per commemorare i propri morti.

Repubblica 24.3.10
La Jiahd delle donne
Malika, Aafia e le altre. Il fanatismo islamico si affida sempre più alle donne. Ecco chi sono le protagoniste della nuova stagione jihadista
di Francesca Cafarri

Malika Al Aroud è sotto processo a Bruxelles per aver portato la "guerra santa" online Aafia Siddiqi, soprannominata lady Al Qaeda, è stata appena condannata a New York E poi gli ultimi arresti di cittadine americane coinvolte in attentati. La presenza femminile nel terrorismo islamico cresce sempre di più. Ecco perché
Internet ha un ruolo primario Abbatte le barriere fra i sessi, molto forti nell´Islam
La nuova guardia del gruppo di Bin Laden vuole dare alle sue sostenitrici un ruolo maggiore
Dalla Rete le responsabili dei siti incoraggiano a partire per Iraq e Afghanistan
A gennaio a Londra fu lanciato un allarme urgente su possibili kamikaze donne

Quando Malika al Aroud è comparsa nell´aula di tribunale di Bruxelles dove è a processo con l´accusa di aver sostenuto il terrorismo e mandato uomini a combattere in Afghanistan, due settimane fa, i presenti non hanno potuto evitare un moto di sorpresa. La donna diventata famosa nel 2008 spiegando sulle pagine del New York Times come sosteneva la jihad via Internet e sottolineando «la mia arma è la scrittura: non è mio compito mettere bombe» non era più il fantasma nero avvolto nel niqab che tutti ricordavano dalle foto di allora. Di fronte a giudici e avvocati Malika, 50 anni, originaria del Marocco, vedova di uno degli attentatori che uccise il comandante afgano Massud alla vigilia dell´11 settembre 2001, si è presentata a capo scoperto.
Così, ha spiegato il suo avvocato, le era stato imposto. Occhi neri ben visibili, capelli scuri, con voce sicura ha detto di essere sì in in contatto con uomini partiti per l´Afghanistan, ma di non averli incitati a fare quella scelta. Ha ammesso di essersi rallegrata quando «i nemici americani sono caduti» e spiegato che «è un obbligo andare a difendere la nostra terra, i nostri fratelli e sorelle», ma ha negato di aver finanziato giovani pronti a combattere.
Il suo processo si chiuderà a giorni. Ieri il procuratore federale, Jean-Marc Trigaux, ha chiesto per lei una pena minima di otto anni: è «la più influente jihadista presente in Rete», ha sostenuto. Le richieste di Trigaux sono immediatamente rimbalzate sui siti Internet vicini alla posizioni di Malika, già affollati in questi giorni da documenti su un´altra donna musulmana alla prese con la giustizia occidentale: Aafia Siddiqi, la scienziata pachistana diplomata al Massachusetts Institute of Technology condannata nel febbraio scorso a New York per aver tentato di uccidere alcuni ufficiali americani al momento della sua cattura nel 2008 in Afghanistan. Aafia, 39 anni, madre di tre figli, unica donna nella lista dei most wanted di Al Qaeda, conoscerà definitivamente la sua sorte a maggio: rischia il carcere a vita. Nel frattempo domenica i suoi sostenitori faranno sentire la loro voce in tutto il mondo, organizzando proteste che, gli esperti ne sono certi, porteranno in strada migliaia di persone nel solo Pakistan, dove la vicenda è ormai un caso di Stato.
Malika Al Aroud e Aafia Siddiqi. Ma anche Colleen La Rose e Jamie Paulin-Ramirez, soprannominate dai media Usa JihadJane e JihadJamie, due donne americane accusate di aver preso parte a un complotto per uccidere Kurt Westergaard, autore della famosa vignetta di Maometto che nel 2005 fece scoppiare una crisi internazionale: nelle ultime settimane la cronaca si è riempita dei nomi di donne associate ai piani degli estremisti islamici, rilanciando la paura - già evidente a gennaio, quando gli investigatori inglesi alzarono il livello di allarme terrorismo proprio per timore di donne kamikaze - che le donne stiano assumendo un ruolo sempre più di primo piano nell´Islam radicale.
«È un dato di fatto che il ruolo femminile nella lotta dei gruppi radicali islamici contro l´Occidente sia cresciuto negli ultimi anni. E potrebbe crescere ancora», spiega Mia Bloom, esperta di terrorismo e autrice di un libro di prossima uscita in materia. «A lungo l´ala più tradizionalista di Al Qaeda, quella che faceva riferimento a Bin Laden e al Mullah Omar per intenderci, non ha voluto coinvolgere le donne. Ma la nuova generazione potrebbe avere una diversa posizione, come l´aveva già Zarqawi: quando c´era lui al comando in Iraq, il numero delle terroriste suicide si è moltiplicato. In questo momento ci sono discussioni accese in materia: i terroristi sanno che una donna, soprattutto occidentale, è un profilo che desta meno sospetti». Per Bloom Internet ha un ruolo fondamentale nel processo di coinvolgimento delle donne: «In Rete cadono le barriere: una donna non può andare in un campo di addestramento e prepararsi a combattere. Ma può incitare chi vuole fare questa scelta sui siti web, lo può guidare, può raccogliere fondi. E in questa maniera è rispettata e ascoltata come di persona non sarebbe mai».
Proprio questo è il ruolo che, per l´accusa, avrebbe ricoperto Malika Al Aroud dal Belgio. Lo stesso che, secondo alcuni esperti, avrebbe svolto la turca Defne Bayrak, la moglie di Humam Al Balawi, il giordano che il 30 dicembre si è fatto saltare in aria alle porte di un avamposto americano in Afghanistan, uccidendo sette agenti della Cia. «È riuscito a compiere una missione importante, sono fiera di lui», disse allora Defne in un´intervista. Oggi vive nella stessa casa che divideva con il marito, sotto l´occhio della polizia turca: contattata, ha prima accettato di rispondere alle nostre domande via mail, poi ha cambiato idea, su pressione della famiglia del marito. «Voglio che sia chiaro - ha scritto prima di interrompere i contatti - che io sostengo la jihad: e dire jihad non vuol dire terrorismo. I terroristi non siamo noi, sono loro (gli americani ndr.)».
«Il confine fra l´opinione e l´azione nel caso di queste donne è molto sottile - spiega ancora Bloom - loro lo sanno benissimo. E ci giocano molto bene: non possono essere condannate solo per quello che dicono o scrivono». Un concetto che Aisha Farina ha molto chiaro: italiana, sposata a Abdul Qadir Allah Fadl Mamour, ex Imam di Carmagnola, e con lui emigrata in Senegal quando il marito è stato espulso dall´Italia, ha visto il suo sito Internet chiuso dalla Digos in più di una occasione. Negli ultimi mesi Aisha ha riaperto il suo blog: nelle pagine c´è ampio risalto alle lettere dal carcere di Malika al Aroud e alla giornata mondiale per Aafia Siddiqui, così come alle invocazioni alla guerra contro gli americani in Afghanistan e in Iraq. Farina non nega le sue posizioni, ma sottolinea la differenza fra opinione e azione. Come quando parla della sua amica Malika. «Chi volesse perpetrare attentati starebbe attento a non esporsi a non gridare "no" alla guerra di sterminio in Afghanistan e in Iraq su fori islamici, con proprio nome e cognome - ci ha scritto in una mail, preferendo non rispondere a domande - ognuno può pensarla come vuole sul jihad in Afghanistan, ma pensa davvero che ci sia un musulmano al mondo che stia con gli Usa & Co.? Certamente non tutti lo dichiarano perché non vogliono ritrovarsi incarcerati o deportati solo per un reato di opinione. Perché qui sta il punto: è reato sostenere con le preghiere, con le invocazioni i nostri fratelli che combattono per liberare le nostre terre occupate? Malika non ha fatto che questo: ha detto la verità contro lo sterminio perpetrati dai paesi occidentali».
Un concetto ribadito anche dall´avvocato della signora Al Aroud, Fernande Motte de Raedt: «La mia cliente - ci dice al telefono dal suo studio a Bruxelles - non ha reclutato terroristi, si è detta scandalizzata dagli attentati in Europa. È a favore della guerra difensiva contro gli Stati Uniti che si sta svolgendo in Iraq e in Afghanistan, non del terrorismo. E pensa che sia giusto che gli uomini vadano a combattere lì. Però non ha aiutato nessuno a partire: quindi non può essere condannata».
Eppure gli studiosi avvertono che il passaggio dalle parole ai fatti spesso può essere breve. Eleonora Rossi, ricercatrice all´università della Pennsylvania, sta studiando il diario di una delle terroriste cecene morte nel 2002 al teatro Dubrovka di Mosca: «Dal linguaggio si capisce che stava andando verso l´estremismo, le sue parole sono una testimonianza di quello che è accaduto negli ultimi mesi della sua vita - spiega - c´è un moltiplicarsi di concetti che si riferiscono al martirio, di riferimenti alla jihad, alla violenza, ad Allah, al Paradiso».
Come in molti dei siti Internet consultati dalle donne americane arrestate per il complotto contro il disegnatore danese e in quelli a lungo gestiti da Malika Al Aroud. «Non possiamo dire che sia in atto un fenomeno generale di radicalizzazione delle donne islamiche - conclude Stefano Allievi, docente all´università di Padova e uno dei massimi esperti europei di Islam - ma di certo ci sono donne che si stanno radicalizzando. E di certo Internet è un modo semplice per farlo, perché arrivare ad ambienti radicali o diffondere idee radicali in questo modo è più semplice. Le donne che sostengono queste idee non parlano in moschea o nei gruppi, ma lo fanno in Rete». Il prossimo allarme, gli investigatori europei e americani ne sono certi, potrebbe venire da loro.

Repubblica 24.3.10
Se la guerra santa si modernizza
di Renzo Guolo

Sempre più donne in Al Qaeda. La vertigine della guerra, asimmetrica, sulla via di Dio calamita anche combattenti femminili, velate o meno. Frequentano la Rete per fare proselitismo a favore della "rete delle reti", il network qaedista; mettono a disposizione le loro competenze professionali, si tratti di conoscenze scientifiche o di "logistica strategica"; inneggiano e aspirano al "martirio", atto in cui qualsiasi differenza di genere viene meno nel "sacrificio altruistico" in nome della causa.
Un mutamento consapevole, quello della femminilizzazione del jihad combattente, che dilata sino al limite estremo il processo di ambivalente modernizzazione indotto nella cultura islamica dal radicalismo globale qaedista.
Se in passato le donne del jihad avevano un ruolo prevalentemente passivo, si trattava di mogli, fidanzate, sorelle di attentatori o caduti in combattimento, "sacrificabili" perché la loro vita veniva ritenuta priva di significato fuori dalla relazione subalterna con i maschi di famiglia, oggi la situazione appare diversa. Le donne iniziano a occupare uno spazio, apparentemente, paritario sul piano della militanza.
Un mutamento di ruolo indotto dal ferreo primato del Dio del Politico su quello della Devozione. Come altri movimenti novecenteschi , il jihadismo nelle sue forme contemporanee è una sorta di "leninismo religioso" che pensa la politica come elemento trasformativo "dall´alto". Prodotto dell´azione di una piccola avanguardia della fede capace di innescare una massa critica mediante la spirale azione/repressione/insurrezione. In questa concezione del mondo il riferimento alla dimensione religiosa lascia progressivamente spazio non solo alla polarizzante logica amico/nemico, ma anche a quel diritto dinamico che legittima lo stato d´eccezione in cui prescrizioni e tradizioni consolidate possono essere sospese o abbandonate in nome delle necessità. Un simile ambiente, e pragmatismo, ideologico non poteva che produrre una progressiva secolarizzazione dello stesso jihadismo. Una modernizzazione che, con il deperire dei vincoli legati alla tradizione, compresa quella che voleva le donne relegate al compito di angeli del focolare del militante o, comunque, in seconda fila rispetto ai mujaheddin, ha reso possibile l´ingresso di nuove, aggressive, figure femminili nelle fila qaediste. Sviluppo alimentato dalla stesso indebolimento della leadership storica di Al Qaeda, costretta - per riprodurre la supremazia simbolica sulle sue diverse filiali regionali e locali, guidate da leader più giovani che spesso non hanno remore nei confronti di un più attivo militantismo femmnile - ad accettare l´innovazione pur di continuare a imporre il marchio sulle azioni delle diverse strutture della "rete"
Non è casuale che tra le nuove regine del jihad emergano donne occidentali convertite, o donne musulmane che vivono o hanno vissuto in Occidente. In un contesto come quello europeo o nordamericano, dove l´Islam è minoranza e non si impone per evidenza o pressione sociale, la scelta del come viverlo è spesso frutto di individualizzazione. E l´individualizzazione ha come potenziali sbocchi anche la politicizzazione della soggettività femminile, tanto più se questa ha memoria di altre esperienze militanti. Se gli islamisti più legati al rispetto dei ruoli tradizionali temono che l´irrompere delle donne in uno spazio pubblico maschile come la guerra modifichi il loro ruolo anche nello spazio privato, nei radicali il timore è venuto meno. Non solo perché servono nuove energie; ma perché il tabù religioso è eroso dall´ideologia. Per chi si percepisce come avanguardia rivoluzionaria, il primato della politica gerarchizza tutto, ed è sfruttando questa contraddizione scaturita dal "diritto di necessità" che le donne reclamano, in un´illusoria concezione di eguaglianza di genere, un ruolo sino a poco tempo fa impensabile.

Repubblica 24.3.10
Una mega-ricerca reinterpreta la nostra attività onirica Ecco cosa vogliono dire incubi e immagini ricorrenti
Amore è precipitare nel vuoto l´inconscio non ha più segreti
di Enrico Franceschini

Londra”. Il sogno", sosteneva Sigmund Freud, "è il tentato appagamento di un desiderio". Ma quando è un brutto sogno, che cosa rappresenta della nostra coscienza consapevole? Che collegamento ha con la nostra vita reale. E in definitiva, che cosa significa? La risposta del più ampio studio recente condotto sull´argomento è che un metodo di indagine statistico può aiutare a comprendere meglio gli incubi, a capire cosa rivelano delle nostre paure, e di riflesso anche dei nostri inconsci desideri. Precipitare nel vuoto da grande altezza, per esempio, generalmente vuol dire che ci si sta innamorando di qualcuno, oppure il contrario, che un amore sta finendo: un sogno tipico, che fanno per tutta la vita sia uomini che donne, dunque forse il segno che senza l´amore non si può vivere. Sognare di perdere i capelli o i denti, che viceversa è un sogno più tipicamente femminile e di solito circoscritto a donne non più giovanissime, rivela uno stato di ansia sul proprio invecchiamento, il timore di non essere più attraenti. E sognare di essere bocciati a un esame, un sogno che fanno molti adolescenti e studenti universitari, ma pure adulti di entrambi i sessi, anche questo molto diffuso come incubo, significa una mancanza di fiducia in se stessi, un calo dell´autostima.
Condotta da psicologi dell´International Association for the Study of Dreams (Associazione Internazionale per lo Studio dei Sogni) e pubblicata dallo European Archives of Psychiatry and Clinical Neuroscience Journal, la ricerca ha interrogato un campione di oltre 2 mila uomini e donne di ogni età. Ne risulta che il 48 per cento non hanno mai avuto, neanche una volta, un incubo durante il sonno: o forse che non se lo sono ricordati una volta svegli, per loro fortuna (o sfortuna, se uno ci tiene a conoscere freudianamente se stesso). Il 10 per cento degli interpellati dicono di fare brutti sogni con una certa regolarità ma non spesso: succede soltanto varie volte all´anno. Il 5 per cento afferma invece di svegliarsi in preda al panico mediamente ogni quindici giorni, a causa di un incubo, spesso sempre lo stesso.
Altri significati attribuiti dagli autori di questa "reinterpretazione dei sogni": avere l´impressione di essere paralizzati o impossibilitati a muoversi significa sentirsi intrappolati in una relazione o in una situazione. Sognare di trovarsi a bordo di un´auto coinvolta in un incidente oppure di un aereo che cade, invece, allude a una perdita di controllo sulla propria vita. I cinque "brutti sogni" più frequenti, in base allo studio, sono: cadere da grande altezza, sentirsi inseguiti da qualcuno, sentirsi paralizzati, avere la sensazione di essere in grave ritardo a un appuntamento importante, e la morte di una persona amata. «Sogni come cadere, essere inseguiti o sentirsi paralizzati, non sempre hanno una diretta corrispondenza con esperienze provate da svegli, nella vita vera - osserva il dottor Michael Schredtl, che ha diretto la ricerca - ma possono avere ugualmente un significato, rispondendo a paure ancestrali, a desideri inconsapevoli, a timori repressi». Una conferma, se mai ve ne fosse bisogno, della vecchia massima del dottor Freud: uomini e donne "si giudicano meglio da quel che sognano che da quel che pensano". Anche, forse soprattutto, quando i sogni che fanno non sono molto piacevoli.

Repubblica Roma 24.3.10
All´Anfiteatro Flavio dal 26 marzo al 3 ottobre una mostra di armi Modelli moderni a confronto con la collezione di Pompei
Spade ed elmi colorati così i giochi di sangue conquistarono Roma
di Francesca Giuliani

Il primo rito privato voluto da due figli per la morte del padre Era il 264 a. C.
Le feste al Colosseo potevano durare anche 120 giorni Come quando Traiano vinse i Daci

UNA piccola, avvincente esposizione didattica nel grande Colosseo ricostruisce origini, trionfi e anche brutture di uno dei fenomeni più imponenti e popolari di Roma antica, quello dei giochi gladiatori. A cura di Rossella Rea, vengono presentati gli strumenti di quella "guerra" per noi incomprensibile e cruenta, che tanto appassionava i romani e di cui i gladiatori erano i protagonisti. Elmi, spade, scudi sono stati ricostruiti con lunghi e accurati studi da un esperto e sono messi a confronto con la famosa collezione delle armi della caserma dei gladiatori di Pompei in una mostra promossa dalla Soprintendenza speciale per i Beni archeologici di Roma in collaborazione con Electa.
Magnifici copricapi piumati arancio e giallo ocra, tuniche di seta sgargiante e schinieri lustri sono allineati al primo piano del Colosseo: non c´è (quasi) niente di vero, ma c´è qualcosa che aiuta la comprensione, sempre nei ranghi dell´attendibilità scientifica. Spiega Rea: «Le ricostruzioni, curate da un esperto come Silvano Mattesini, intendono soprattutto mostrare al pubblico la differenza tra i reperti, quello che si è conservato fino a noi, e ciò che il pubblico vedeva durante i giochi. Soprattutto bisogna tener presente che l´Anfiteatro Flavio consentiva una visuale chiara a chi si trovava nelle prime file. Per gli altri c´erano soltanto macchie di colore: le piume sugli elmi, il luccicare delle armi, le armature sotto il sole».
La mostra guida il pubblico all´affermarsi nei secoli della passione gladiatoria fino ai trionfi del Colosseo, il teatro privato dell´Imperatore. Il primo spettacolo di cui si ha testimonianza risale al 264 avanti Cristo quando i figli di Bruto Pera allestirono giochi per il padre defunto: il munus (il tributo), rimase a lungo privato, mentre il primo ludus imperiale nacque come proprietà dell´imperatore nel I secolo avanti Cristo. Col tempo, i giochi gladiatori vennero codificati e inglobati nell´amministrazione romana che definì anche le diverse categorie dei gladiatori: gente che lo faceva per soldi e non sempre soldati i quali, se sconfitti, potevano anche essere giustiziati.
Era proprio il Colosseo a non conoscere rivali quanto a sfarzo o durata: i giochi potevano durare anche cento giorni, come nel caso dell´inaugurazione nell´80 o 120, quando Traiano tornò vincitore dalla Dacia, eventi colossali cui è dedicata una sezione della mostra. Tra gli argomenti trattati, la venatio, giochi con le belve iniziati da Marco Fulvio Nobiliore che portò nell´arena leoni e pantere. A stupire il pubblico, anche interi paesaggi capaci di apparire dai sotterranei all´improvviso, quando gli animali stessi erano coperti da ornamenti e dal velarium , disteso sopra l´arena, scendevano profumi di zafferano e incenso. Effetti speciali, giochi di sangue: tutto quello che i romani amavano di più si consumava negli stessi luoghi che oggi ne ricostruiscono i fasti e ne custodiscono le tracce.

Liberazione 24.3.10
Scomunichiamoli
Gentile direttore, nel 2007 ho stilato un “Manifesto per la Scomunica”: un semplice elenco di libertà per cui un manipolo di firmatari lotta variamente da tempo (dalla pillola Ru486 alla interruzione volontaria di gravidanza, dalle coppie di fatto alla fecondazione assistita, dalla piena libertà di ricerca scientifica al testamento biologico…) e con cui chiede di essere estromesso dalla chiesa cattolica, perché contrario ai suoi dogmi e soprattutto per non essere “conteggiato” tra gli aderenti a quella setta. Oggi il gruppo “Scomunicateci” conta quasi 4000 adesioni (solo su Facebook), cioè cinque volte il numero degli abitanti della Città del Vaticano... Il crimine della pedofilia, la violenza sui bambini perpetrata in luoghi presunti "sacri", richiede però un aggiornamento: oggi siamo noi a sentire il dovere etico di scomunicarli, oggi siamo noi a rifiutare quell’orrore travestito da candore. Oggi siamo noi che li scomunichiamo, almeno dalla politica e dal potere terreno. Che si occupino soltanto di un aldilà pieno di tormenti. Il loro aldilà.