venerdì 26 marzo 2010

Repubblica 26.3.10
Sanità, famiglia e nucleare nel duello tra le ex amiche
Polverini: realizzerò 60 idee. Bonino: vendi sogni
di Alessandra Longo

La candidata del Pdl: non sono stata messa sotto tutela dal premier io sono il nuovo
La radicale promette ospedali migliori, trasparenza nei costi e il taglio degli stipendi dei consiglieri

ROMA - A tarda sera la luce è ancora accesa. Nella sua casa di Trastevere, che lei chiama «tana», Emma Bonino passa quel che resta del giorno a studiare. Sono gli ultimi momenti di una campagna elettorale tesa, frontale, con il premier che si è avocato la regia della battaglia: «O noi o loro». Il caos colpevole delle liste Pdl, le sentenze del Tar, l´ipotesi di rinvio infilata da Sgarbi, la piazza berlusconiana con il giuramento feudale dei candidati regionali sul palco e, in ultimo, l´appello-monito del cardinale Bagnasco ai cattolici perché «votino contro l´aborto». Un percorso a prova di nervi. In mezzo, anche quelle 111 ore di sciopero della fame e della sete che Emma ha fatto a fine febbraio per protestare contro «la strage di legalità ai danni della lista Bonino-Pannella». «Mi sento spremuta come un limone», ammette la candidata, in realtà più tonica che mai. Esaurita l´agenda quotidiana, già consumati i poco esaltanti confronti televisivi con la sua avversaria Renata Polverini, Emma «la secchiona» studia fino all´ultimo «perché la partita non è vinta, perché, non so se avete capito, io voglio essere eletta e governare il Lazio».
Si è messa in pista da sola, sotto l´insegna radicale, il Pd l´ha sposata a competizione iniziata, con un certo travaglio. Così le altre liste di sinistra. Ma il bilancio di fine corsa è di unità, di sintesi. «Emma, ti amo», le ha sussurrato ridendo il cattolico Franco Marini che non ha paura del diavolo. Mentre con Pierluigi Bersani il feeling di vecchia data si è rinforzato: «Abbiamo lavorato per due anni insieme al governo. Lo stimo, non è mai altezzoso, sa ascoltare».
A proposito di feeling questa corsa nel Lazio ha interrotto una simpatia, vicina all´amicizia, tra le due sfidanti. Due anni fa, Emma sedeva nel salotto di Renata Polverini, ospite di una cena prenatalizia per sole donne. Cena trasversale, bipartisan, nell´allora stile della Polverini che è scesa in campo, appoggiata da Fini, con un profilo autonomo. Non iscritta ad un partito, self-made woman, infanzia povera, come poco elegantemente ha ricordato Berlusconi a piazza San Giovanni, brillante carriera sindacale, visibilità televisiva. Alla fine di questa lunga maratona, c´è però una Polverini diversa, suggestionata, quasi eterodiretta, dal protagonismo del premier, che oggi concluderà con uno show la sua campagna elettorale, condizionata anche dalle ambizioni del sindaco Alemanno e dall´entourage che lo circonda, lambita dalla destra dei camerati e delle curve sportive. Lei smentisce infastidita: «Non mi sento espropriata» ma ha perso il sorriso (certo anche per l´esclusione della lista Pdl in Provincia di Roma), i toni sono aggressivi. Con la rivale, che adesso chiama «la signora», è gelida: «Il nuovo, il futuro, sono io. Ho in mente 60 azioni concrete per governare. Tu, Emma, rappresenti la «continuità» con la giunta Marrazzo». Bonino la liquida così: «Il tuo programma è solo un libro dei sogni, superi la decenza».
Visioni diverse su tutto: sanità, nucleare (perlomeno fino a ieri quando Polverini ha corretto la sua linea), privatizzazione dell´acqua, quoziente familiare. (Per completezza d´informazione, c´è anche un´altra candidata, Marzia Marzoli, Rete dei Cittadini, bionda signora di Tarquinia, taglio alla Annie Lennox, programma trinariciuto).
La sanità regionale è la madre delle grane. Attualmente commissariata, rappresenta il 60 per cento del deficit sanitario nazionale. Il rosso di dieci miliardi di euro, lasciato per la più parte da Storace, è stato ripianato dalla giunta Marrazzo accendendo un mutuo trentennale che costa alla comunità una rata di 310 milioni di euro all´anno. Oltre il buco, c´è un disavanzo che sfiora il miliardo e mezzo. Roba da far tremare i polsi. Bonino è drastica: «Occorre razionalizzare i costi, usare i posti letto degli ospedali solo per i malati. Occorre soprattutto trasparenza perché la legalità cura la sanità». Trasparenza: ecco la vera ossessione, la premessa politica di Emma, che vuole tutto on line: gli stipendi dei consiglieri regionali (che ha intenzione di «rivedere») gli appalti, i beneficiari dei contratti pubblici. «Trasparenza? Evidentemente si rivolge alla sua coalizione», sibila Polverini che promette: «Di sanità mi occuperò io personalmente, ci metto la faccia». Ed è già qualcosa visto che il senatore Claudio Fazzone, membro del suo comitato elettorale e ras di Fondi, comune ad alto tasso di mafiosità, aveva fatto intendere che la materia lo interessava molto.
Niente tagli di posti letto, niente chiusure di ospedali. Polverini ritiene di poter dribblare le linee guida già fissate da Palazzo Chigi e descrive un futuro radioso: «In 5 anni il Lazio diventerà la regione più accogliente e vivibile d´Italia». Sul nucleare, Renata la sindacalista ha fiutato l´impopolarità, virato all´ultimo: «Mi pare che non lo voglia nessuno: né io, né Formigoni, né Cota. «. Va da sé: Emma, il nucleare, l´ha bocciato subito, «non per posizioni ideologiche, ma perché il futuro è la green economy». Sullo sfondo, il tema della famiglia, il tentativo della destra di proporre il bianco e il nero: Emma laica, addirittura radicale, contro Renata, scuola dalle suore, unica vestale autorizzata, anche dall´Udc, della «famiglia, nucleo fondante della società». Zia amatissima dai suoi nipoti, la Bonino trova stucchevole lo schemino: «Non sta alle istituzioni dare dei valori di merito a seconda di come la gente organizza i propri affetti». Ha incontrato preti, suore, spesso fuori dai riflettori. Si sottrae al clima da crociata dei suoi avversari: «Non sono cattolica nel senso delle credenze. Il mio amico iraniano Ramin Jahanbegloo dice che il problema non sono le credenze ma l´utilizzo che uno fa delle proprie credenze». Oggi Berlusconi tira la volata alla Polverini. Emma non sottovaluta: «So che la partita si giocherà al fotofinish». E studia ancora, la luce accesa.

Repubblica 26.3.10
La candidata del centrosinistra dà la carica: "Dobbiamo contrastare fino all'ultimo l'offensiva mediatica di Berlusconi"
Bonino: "Sfida al fotofinish"
di Chiara Righetti

E il Tar respinge il ricorso di Sgarbi: si vota domenica e lunedì

«Siate formichine, fino all´ultimo voto: per vincere ne basta uno, ma se sono due è meglio». Mentre Emma Bonino chiama a raccolta gli elettori per una sfida che si annuncia al fotofinish, Renata Polverini dà un dispiacere al premier, che oggi sarà con lei all´Eur per la chiusura di campagna elettorale. Nella prima uscita pubblica con Fini, l´ex sindacalista confida: «La tessera del Pdl? Non l´ho fatta». Ed è polemica sul tour elettorale di parlamentari e assessori del Pdl su bus di proprietà di Trambus. Anche se Saltamartini precisa: «Erano regolarmente affittati».
Invita i suoi sostenitori ad essere «formichine». E corre senza fermarsi, Emma Bonino, nelle ultime ore di campagna elettorale. Si vota domenica e lunedì, è ormai certo, dopo che ieri il Tar del Lazio ha respinto i ricorsi di diverse liste, tra cui la Rete Liberal di Vittorio Sgarbi, che chiedevano il rinvio della data. Anche se il critico d´arte già annuncia un ricorso al Consiglio di Stato, mentre il legale del Mdc Gianluigi Pellegrino ribatte: «Il diritto di voto è stato tutelato».
Ieri Bonino era all´Istituto dermatologico Idi, dove ha parlato di «un piano per premiare le eccellenze della sanità». Poi a Tarquinia, dove ha risposto all´appello dei cittadini contro la trasformazione in Cie dell´ex polveriera: «Esistono altri strumenti per governare un fenomeno di portata planetaria». Il perché della sua "volata" l´ha spiegato proprio a Tarquinia al sindaco Mauro Mazzola: «Tu hai vinto per 56 voti, a me ne basta uno. Poi se sono due è meglio». Intanto la vicepresidente del Senato parla da governatrice, e conferma che la sua prima proposta di legge sarà quella per ridurre gli stipendi dei consiglieri: «Una questione di rispetto». Ma non dimentica l´ironia, e liquida in una battuta chi chiede se gli ultimi sviluppi del caso Marrazzo siano un esempio di una giustizia "a orologeria": «Queste cose lasciamole dire a Berlusconi». Che in questi giorni sente più che mai come diretto avversario, anche perché «io incontro centinaia di persone alla volta, lui con Mediaset parla a milioni». Ma assicura che «la partita non è vinta, nulla è scontato». E anche se la campagna finisce stasera invita a una mobilitazione continua: «Tutti i minuti, fino alle 15 di lunedì, dobbiamo contrastare la controffensiva di Berlusconi. Ognuno faccia la formichina fino all´ultimo voto, è agli indecisi che dobbiamo rivolgerci». Dopo Tarquinia è Montalto di Castro, dove annuncia: «Se ho capito bene, il nucleare non si farà. Qualcuno avverta Scajola». E avverte: «In 5 anni abbiamo tappato il debito della banda del buco. È imprudente riconsegnare tutto a Storace. Evitiamo la solita tragedia della sinistra: riceviamo conti fuori controllo, e non facciamo in tempo a metterli in ordine che regaliamo tutto a qualcun altro».
In serata è tornata a Roma per unirsi al presidio permanente del centrosinistra sotto la sede Rai di viale Mazzini, per «denunciare le continue violazioni delle leggi e di tutti gli spazi tv del presidente del Consiglio». Ma l´ultimo giorno di campagna vuole passarlo coi cittadini. Lo farà con un lungo filo diretto su Radio Radicale, da dove, a partire dalle 16, risponderà alle domande al telefono, in video e via chat, sulla web tv http: //tv. boninopannella. it. L´evento sarà trasmesso sul digitale terrestre da TeleAmbiente, su Sky (can. 890) da Red Tv, e con collegamenti da diverse emittenti. Appuntamento alle 11 a Sant´Andrea delle Fratte, invece, per il Pd romano, con Marco Miccoli e il capogruppo Umberto Marroni; ma tutta la giornata sarà una girandola d´iniziative, da quella di Claudio Mancini al Futurarte Cafè alle "Sorelle Marinetti" al Caffè letterario per Cristiana Alicata. La Bonino in serata sarà ad Ostia col segretario Pd Mazzoli.

l’Unità 26.3.10
Olanda, Irlanda, Usa La scia dei preti pedofili
Il fenomeno è antico ma negli ultimi decenni si assiste a un’escalation impressionante, tra omertà e complicità Anche in Italia 235 vittime calcolate in un decennio
di Rachele Gonnelli

La pedofilia tra i preti è una tara talmente antica che già nel 1517 papa Leone X ne parlava espressamente nel suo Taxa Camerae, compendio di peccati e afflizioni con relative tasse da pagare in libbre da parte dell’«ecclesiastico che chiedesse di essere assolto da peccati contro natura o bestialità». Guardacaso proprio il il 31 ottobre di quello stesso anno Martin Lutero affisse le sue 95 tesi contro le indulgenze papali al portone della Chiesa di Wittenberg. Ma ora che dall’America protestante arriva il grido di accusa alla Chiesa Cattolica Romana, vale la pena ripercorrere cosa sia successo negli ultimi cinquant’anni.
Fu nel 1962, all’inizio del Concilio Vaticano II, che il cardinal Ottaviani scrisse il documento denominato Crimen Sollecitationis che prescrive ai vescovi il modo di comportarsi di un altra tornata di scandali. Questa volta in Germania, che già coinvolse Joseph Ratzinger nella sua veste di allora di Prefetto della Congregazione della Fede.
La Chiesa d’Irlanda è stata investita in pieno dal «rapporto Ryan», dal nome del giudice dell’alta corte di Dublino che ha messo la sua firma sulle 2600 pagine di inchiesta sulla situazione, definita «endemica», della pedofilia tra i prelati dell’isola. Ci sono poi da contare i casi, spesso insabbiati per anni, di stupri e violenze su bambini in America Latina o peggio in Paesi africani. Secondo quanto ha ammesso il cardinal Jummes in una intervista all’Osservatore Romano di un paio di anni fa «i casi di pedofilia a volte non arrivano nemmeno al 4% dei sacerdoti». I preti cattolici in tutto il mondo sono circa 400mila. La più alta concentrazione preti-abitanti è in Italia. La vaticanista Nicole Winfield dell’agenzia Aps ha ricostruito 73 casi di abusi sessuali su minori con 235 vittime solo negli ultimi dieci anni in Italia. Non tutti denunciati alle autorità pubbliche. fronte alla denuncia di un sacerdote per pedofilia. Una sorta di vademecum molto meticoloso, composto da 74 articoli, utilizzato finora, in cui sostanzialmente vittima e violentatore vengono messi sullo stesso piano davanti ad un comune peccato di fornicazione. Eppure lo scopo del manuale era proprio quello di porre un argine al fenomeno evidentemente dilagante.
Il carcere dei preti. Soltanto tre anni più tardi viene infatti trasformata la congregazione Servi di Paraclito come istituto dedicato ai sacerdoti accusati di pedofilia davanti a tribunali penali e alla salvazione delle loro anime. Già negli anni Cinquanta proprio la Curia Romana aveva infatti cominciato a ricevere un numero crescente di lettere di denuncia per preti coinvolti in episodi di questo tipo.
In Olanda sono venuti alla luce oltre 200 abusi di preti su minori tra il 1950 e il 1970. Lo scandalo iniziale riguardava il collegio dei Padri salesiani a Heeremberg e scoppiò nel 2000. Anche l’anno successivo ci fu un altra tornata di scandali. Questa volta in Germania, che già coinvolse Joseph Ratzinger nella sua veste di allora di Prefetto della Congregazione della Fede.
La Chiesa d’Irlanda è stata investita in pieno dal «rapporto Ryan», dal nome del giudice dell’alta corte di Dublino che ha messo la sua firma sulle 2600 pagine di inchiesta sulla situazione, definita «endemica», della pedofilia tra i prelati dell’isola. Ci sono poi da contare i casi, spesso insabbiati per anni, di stupri e violenze su bambini in America Latina o peggio in Paesi africani. Secondo quanto ha ammesso il cardinal Jummes in una intervista all’Osservatore Romano di un paio di anni fa «i casi di pedofilia a volte non arrivano nemmeno al 4% dei sacerdoti». I preti cattolici in tutto il mondo sono circa 400mila. La più alta concentrazione preti-abitanti è in Italia. La vaticanista Nicole Winfield dell’agenzia Aps ha ricostruito 73 casi di abusi sessuali su minori con 235 vittime solo negli ultimi dieci anni in Italia. Non tutti denunciati alle autorità pubbliche.

l’Unità 26.3.10
Le ipocrisie cattoliche sull’aborto
Le difficili coerenze e le indicazioni della Chiesa. Scelte morali e opzioni politiche non coincidono
di Luigi Manconi

Umberto Bossi: «No alla famiglia trasversale» (sabato 20 marzo 2010). Siamo sicuri che il leader leghista non volesse dire piuttosto «sesso trasversale»? Ovvero quella roba là che si fa in due, o anche più, a letto (ma pure, che so, in ascensore?) e che prevede che le gambe, le mani, e tutti gli altri arti e organi e sporgenze e rilievi vari, vadano da una parte o dall’altra, e si intreccino e si confondano e si ingarbuglino. Così da realizzare combinazioni e amplessi, congiunzioni e incroci i più acrobatici: e, appunto, «trasversali». Ah, ecco, forse è questa la famiglia (e il sesso) trasversale di cui ha parlato Bossi davanti a «oltre un milione» (o 150.000: comunque troppi) accorsi in piazza San Giovanni. Solo che, dopo un tale sforzo di ermeneutica, apprendiamo dalle parole dello stesso Bossi che quella arrapante «famiglia trasversale» è diventata, nel frattempo, una più rassicurante e rispettabile «famiglia orizzontale» (Corriere della Sera 24 marzo 2010).
Che imbarazzo a sentire le parole del cardinale Bagnasco sul voto per le regionali. Lo dico con disagio perché mai (prego, controllare) ho criticato la «ingerenza» della chiesa negli affari interni dello Stato italiano. E mai (prego, controllare) ho negato la rilevanza pubblica del fatto religioso. Ma qui siamo oltre. Il presidente della Cei, dopo una sofisticata analisi (per certi versi condivisibile) sui rischi di una «invisibilità sociale» dell’aborto, la butta in politica: «sarà bene che la cittadinanza inquadri con molta attenzione ogni singola verifica elettorale, sia nazionale sia locale e quindi regionale». E se a qualcuno rimaneva un dubbio, ecco l’interpretazione autentica. Il direttore di Avvenire, Marco Tarquinio, scrive: «Sono in lizza candidati protagonisti di un’ostentata militanza abortista: Emma Bonino». Il giorno dopo, un comunicato dei vescovi liguri sembra costituire una sorta di «rettifica»: tra i valori non negoziabili oltre che “l’indisponibilità della vita dal concepimento fino alla morte naturale” vi sono – tra gli altri – «il diritto al lavoro» e «l’accoglienza verso gli immigrati».
Più che un maggior equilibrio, ne consegue una grottesca confusione. Il cattolico molto, ma molto solidale si potrebbe orientare a votare per il centrosinistra, mentre il cattolico molto, ma molto antiabortista sarebbe portato a scegliere il centrodestra: tutti e due straconvinti di fare ciò che dice la Cei (oppure, ma in fondo è lo stesso, straconvinti di fare ciò che meglio credono). Se ne dev’essere accorto monsignor Rino Fisichella, il prelato più chic che ci sia, che ha subito ristabilito la corretta gerarchia dei valori non negoziabili. E ha spiegato che «non possono essere messi alla stessa stregua il principio fondativo della difesa e della promozione della vita umana innocente con quello della solidarietà con i più poveri, semplicemente perché questo è una derivazione del primo» (Giornale di ieri). Monsignor Fisichella è competente di teologia e di dialettica tanto da sapere che il suo ragionamento è davvero gracile. Questo il cuore della questione: la politica dei respingimenti, che determina la morte in mare di tanti migranti, costituisce una lesione di quel «principio derivato» che sarebbe la «solidarietà con i più poveri» oppure è la negazione assoluta del «principio fondativo della difesa della vita umana?». E dunque – se il rapporto tra valori non negoziabili e voto fosse nei termini indicati da Bagnasco e Fisichella il cattolico che vota Lega attenterebbe alla «difesa della vita umana» quanto il cattolico che vota Emma Bonino. In realtà la relazione tra opzioni morali e scelte politico-elettorali è assai più complessa. Se così non fosse, dalla dichiarazione della Cei dovrebbe derivare una conseguenza ineludibile. Ovvero, quanti si dichiarano anti abortisti dovrebbero, da subito, presentare alle Camere disegni di legge e promuovere referendum popolari per abrogare la legge 194. Non mi sembra che qualcuno abbia intenzione di farlo. Che aspettano? Se non lo faranno, vorrà dire – secondo la logica della Cei – che sono favorevoli all’aborto quanto Emma Bonino. O meglio assai più della Bonino, dal momento che quest’ultima, unitamente a gran parte della sinistra, si batté contro l’aborto nell’unico modo intelligente ed efficace possibile. Ovvero attraverso la legalizzazione (e la conseguente drastica riduzione degli aborti stessi). Tutto il resto è ipocrisia: e non la bella e santa “dissimulazione onesta”, non la sensibile e vereconda ipocrisia che omaggia la virtù: qui c’è solo la più torva e piccina meschinità dei baciapile, come in un film in bianco e nero di Robert Bresson.

il Fatto 26.3.10
Pedofilia, bufera sul Papa
L’accusa: Ratzinger “coprì” un sacerdote americano responsabile di violenze su 200 bambini. Il Vaticano apra gli archivi
di Marco Politi

E adesso il Vaticano apra gli archivi. C’è una sola risposta che Papa Ratzinger può dare ora che il bubbone dell’insabbiamento degli abusi raggiunge il centro del governo della Chiesa: fare piena trasparenza sulle migliaia di casi approdati al Sant’Uffizio.
Perché di insabbiamenti ce ne sono stati. Basta il caso Maciel, fondatore dei Legionari di Cristo, colpevole di abusi e invano denunciato negli anni Novanta mentre il suo dossier si smarriva in Vaticano. Quando si afferma che Benedetto XVI ha segnato una svolta, condannando Maciel a ritirarsi da ogni ruolo pubblico, si sottolinea evidentemente che prima di lui i Vertici ecclesiastici avevano coperto il caso. Il dossier Murphy è ancora più agghiacciante: duecento bambini abusati in istituti per sordomuti. Un vescovo chiede consiglio alla Congregazione per la Dottrina della fede, guidata dal cardinale Ratzinger, si sta per iniziare un processo canonico, alla fine il prete malato viene graziato, lasciandogli la tonaca sacerdotale. Alle vittime la Chiesa non ha reso giustizia.
Benedetto XVI si trova a un bivio. La sua Lettera ai vescovi irlandesi ha tracciato una linea di condotta rigorosa: ricerca della verità, piena trasparenza, ascolto e cura delle vittime, punizione dei colpevoli e loro deferimento ai Tribunali dello Stato. Con tre sottolineature. Benedetto XVI ha biasimato che le pene previste non siano state applicate. Ha denunciato i silenzi dovuti alla “preoccupazione fuori luogo per il buon nome della Chiesa”. Ha riconosciuto la responsabilità della Chiesa, esprimendo “in suo nome” vergogna e rimorso.
Ora Papa Ratzinger può scegliere di ignorare il passato, seguendo i consigli di quanti intonano il coro della “persecuzione della Chiesa”. Oppure può decidere di andare sino in fondo nella politica di trasparenza. E allora ci sono tremila casi di abusi approdati al Sant’Uffizio nell’ultimo decennio: si dica quanti sono i religiosi innocenti, quanti i colpevoli, se sono stati denunciati, se sono stati trasferiti e hanno commesso altri crimini. Ma si dica tutta la verità. Perché i silenzi non pagano e la voce delle vittime non grida solo a Dio, ma anche all’opinione pubblica che ascolta.

il Fatto 26.3.10
Murphy, il prete predatore e l’impunità del Vaticano
Il responsabile di 200 abusi su minori rimase sacerdote negli Usa grazie all’intervento di Ratzinger e di Bertone
di Marco Politi

Ratzinger sapeva di un prete americano, colpevole di centinaia di abusi. É accaduto negli anni Novanta, ma l’episodio fa riesplodere le polemiche sui silenzi della Chiesa. Arrivano dall’America – pubblicate dal New York Times – accuse dirette al cardinale Ratzinger, quando era prefetto dell’ex Sant’Uffizio, cioè la Congregazione per la Dottrina della fede. Su documentazione degli avvocati di alcune vittime viene rivelato che un certo padre L. Murphy, impiegato in un istituto per sordi tra il 1950 e il 1974, si è reso responsabile di duecento abusi su minori. Un caso ignobile. Nel 1996 il vescovo della diocesi monsignor Weakland (più tardi ritiratosi per avere usato fondi diocesani in modo da tacitare un suo ex partner gay) si rivolge al cardinale Ratzinger per chiedere come procedere. Due sue lettere rimangono senza risposta. Otto mesi dopo mons. Bertone (allora segretario della Congregazione) dà l’indicazione di avviare un processo canonico. Ma il prete colpevole scrive direttamente a Ratzinger e ottiene ascolto. Murphy parla del suo pentimento, invoca gravi condizioni di salute e chiede al cardinale: “Voglio semplicemente vivere quello che mi resta nella dignità del mio sacerdozio”. E allora dal Vaticano parte un altro “consiglio” al vescovo di Milwaukee. Risolvere “pastoralmente” il caso. Di fatto non viene adottata nei confronti del prete alcuna sanzione canonica. Morirà nel 1998, indossando ancora la tonaca. Durante la sua carriera di predatore non è mai stato punito, ma invece trasferito in varie scuole ed istituti.
La notizia esplode con il fragore di una bomba e fa il giro del mondo. Replica il portavoce vaticano padre Lombardi che nulla impediva al vescovo locale di adottare le punizioni necessarie. Fu un “caso tragico”, ammette, un abuso compiuto ai danni di persone “particolarmente vulnerabili” ma sulla decisione di non proseguire il processo – spiega – ha influito il fatto della salute molto precaria del prete e la constatazione che gli episodi risalivano a oltre vent’anni prima. Di fronte all’ondata di indignazione che monta – il New York Times scrive che il “Vaticano non ha imparato la lezione”, dagli scandali, che hanno provocato l’espulsione di settecento preti colpevoli – interviene l’Osservatore Romano. Il quotidiano della Santa Sede replica indignato: “Nessun insabbiamento”. Scrive l’Osservatore che il vescovo di Milwaukee aveva già avviato per suo conto una “procedura canonica”. Spiega l’Osservatore che le lettere del vescovo Weakland, arrivate vent’anni dopo i fatti, si riferivano soltanto ai casi di “adescamento in confessionale” e che Bertone aveva risposto di “procedere secondo quanto stabilisce (il documento vaticano) Crimen Sollicitationis”. La parte debole della difesa vaticana si rivela, tuttavia, a proposito della richiesta rivolta da Murphy direttamente a Ratzinger di “interrompere il procedimento canonico”. Invece di ribadire la necessità di svolgere senza indugio una processo canonico a fronte dell’enormità dei delitti commessi, la Congregazione per la Dottrina della fede (a firma Bertone) “invita il vescovo di Milwaukee – così l’Osservatore – a esperire tutte le misure pastorali previste dal canone 1341 per ottenere la riparazione dello scandalo e il ristabilimento della giustizia”. É un invito generico, perché nei fatti Murphy rimarrà prete e nei pochi mesi che gli rimangono da vivere non c’è nessuna sanzione ecclesiastica che abbia il valore di un segnale dinanzi all’opinione pubblica. I volti delle vittime, nella loro concretezza, nel loro dolore duecento volte vissuto, rimangono assenti in questo burocratico carteggio.
In difesa della Santa Sede interviene polemicamente anche Avvenire, documentando che la giustizia americana aveva archiviato il caso, mentre il vescovo locale mons. Weakland, di fronte al ripetersi di denunce per abusi, aveva sottoposto il prete-predatore a “quattro lunghi interrogatori” con l’assistenza di esperti. Ne era emerso il quadro clinico del “pedofilo tipico” da raccomandare a trattamento psicoterapeutico. Resta il fatto, come risulta dalla stessa documentazione dell’Avvenire, che dopo la denuncia della prima vittima Murphy fu semplicemente allontanato dalla diocesi dove era avvenuto il fatto e mandato con un certificato “per motivi di salute” in un altro posto (a vivere presso la madre), continuando tranquillamente a esercitare il suo sacerdotale in una parrocchia. Un classico.
In Vaticano pochi sembrano rendersi conto che le spiegazioni parziali – che non affrontano il problema chiave della non-punizione del prete colpevole e del suo permanere in attività – finiranno per essere un gigantesco boomerang. Ieri si è svolta ai limiti di piazza San Pietro una manifestazione lampo dell’associazione Snap, che riunisce vittime di abusi sessuali commessi dal clero in America. Due vittime e due militanti dello Snap hanno distribuito volantini anti-Ratzinger. É solo l’avvisaglia di iniziative che potrebbero ripetersi più massicce in vari paesi. Se le autorità ecclesiastiche si illudono che basti gridare al complotto contro il Papa senza fare piena luce su tutte le denunce pervenute alla Congregazione per la Dottrina delle fede – e sono 3000 solo nell’ultimo decennio – commettono uno sbaglio.
Già in Italia le vittime cominciano a organizzarsi. L’Espresso anticipa una mappa di quaranta casi: dal Trentino-Alto Adige, al Piemonte, alla Lombardia e poi Veneto, Campania, Puglia, Molise, Lazio, Sardegna, Sicilia, Umbria e Liguria.

il Fatto 26.3.10
In Italia il processo contro don Conti può aprire il vaso di Pandora
di Andrea Gagliarducci

“Si stanno smuovendo le coscienze. C’è più coraggio da parte delle vittime, o presunte tali, a denunciare gli abusi subiti. Sta crollando un muro difficile da tirare giù soprattutto in Italia. E non è difficile comprendere perché: in Italia ci sono il Vaticano e il Santo Padre, e questo contribuisce. E lo dico raccontando un dato di fatto, non come anticlericale”. Roberto Mirabile è presidente della Caramella Buona, una Onlus fondata dallo stesso Mirabile nel 1997, e che si occupa di lotta alla pedofilia. Prima associazione in Italia ad essere riconosciuta parte civile in una causa di pedofilia (nel 2005, in un processo di Reggio Emilia contro un pedofilo che aveva abusato di 17 bambini, causa vinta), la Caramella Buona è parte civile anche nel processo contro don Ruggero Conti. Un processo che è stato possibile grazie alla denuncia di due ragazzi tra i 20 e i 22 anni, che hanno accusato il parroco di Selva Candida (Roma) di aver abusato di loro un quinquennio fa. È proprio in occasione di questo processo che Roberto Mirabili ha visto crollare il muro di omertà che c’è sui casi di pedofilia all’interno della stessa Chiesa. “Dopo l’arresto di don Ruggero Conti, il 30 giugno del 2008 – racconta Mirabile – sono arrivate alla Caramella Buona telefonate da Legnano (dove Conti quando non era ancora prete insegnava in passato educazione sessuale, ndr) che raccontavano di essere stati vittime di abusi da parte del futuro sacerdote oltre 25 anni fa. E siamo sicuri che queste sono denunce reali, perché dopo 10 anni il reato di pedofilia viene prescritto e queste persone che vengono a testimoniare al processo non possono ottenere nessun risarcimento, perciò non hanno alcun interesse a raccontare bugie”. Si denuncia tardi, spiega Mirabile, perché “c’è un grande senso di vergogna, trovare la persona giusta con cui parlarne è difficilissimo”. Comincia a intravedersi, insomma, una certa presa di coscienza riguardo i casi di abusi anche in Italia. Forse non forte come quella statunitense, che si è potuta toccare con mano anche ieri mattina, quando un gruppo di americani è stato fermato in piazza San Pietro mentre distribuiva volantini con una foto di Benedetto XVI, per denunciare le coperture della Chiesa sugli abusi. In Italia, invece, è attesa per settembre la prima riunione di una nuova associazione per le vittime di abusi sessuali da parte del clero. Molto significativamente, la riunione si terrà a Verona: lì dozzine di bambini sordi ospiti di un istituto religioso – è una storia emersa lo scorso anno – sono stati abusati per trent’anni dai sacerdoti. La volontà dell’associazione è quella di incoraggiare le vittime a venire allo scoperto.
Lo stesso lavoro che fa Caramella Buona, che agisce con una certa prudenza. Tanto che presidente onorario è stato nominato Nino Marazzita, avvocato penalista. “La mia nomina – racconta Marazzita – viene dal fatto che siamo garantisti, e per valutare caso per caso ci vuole una certa capacità tecnica”. E racconta Mirabile che, prima di arrivare alla denuncia penale contro don Ruggero Conti, è stato moltissime volte a parlare con alti esponenti della Cei, del Vicariato di Roma e della Santa Sede. “L’ultimo colloquio – dice – l’ho avuto monsignor Scicluna, il promotore di Giustizia dell’ex Sant’Uffizio. Sono stati tre quarti d’ora di colloquio, ma ci siamo sentiti come di fronte a un muro di gomma. Abbiamo detto: basta”. Ma l’eventuale condanna di don Ruggero scoperchierà un grande scandalo. Perché, dice Mirabile, “si chiederà conto dell’omertà della Chiesa sul caso Conti”. E ci si domanderà quanti altri casi sono rimasti nascosti.

Repubblica 26.3.10
Chi imponeva l’omertà
di Giancarlo Zizola

Un´ipotesi ma le cui conseguenze difficilmente lascerebbero indenne la responsabilità di Woityla

Se mai il comportamento di un vescovo è stato irreprensibile di fronte ai doveri della coscienza verso la verità e verso la Chiesa sugli abusi sessuali del clero, questo è il caso dell´arcivescovo di Milwaukee monsignor Weakland, una delle figure più luminose del cattolicesimo degli Stati Uniti d´America.
Egli non avrebbe meritato uno solo dei rimproveri mossi di recente da Benedetto XVI ai vescovi irlandesi. Fin dagli anni Novanta aveva tentato di tutto per fare breccia nelle maglie procedurali del Vaticano in modo da fare entrare nel sistema un approccio più chiaro, realistico e insieme evangelico del trattamento della piaga della pedofilia del clero. Ciò che ha portato alla luce il New York Times della storia di questo pastore, morto con parole di perdono per coloro che lo avevano ingiustamente coinvolto in accuse infamanti, testimonia con chiarezza ciò da cui alcuni circoli cattolici tentano di difendersi. Cioè, che la questione soggiacente alle perversioni dei singoli riguarda alcuni dei funzionamenti strutturali della Chiesa. Alcune buone prove e buone fedi al servizio della missione del vangelo non la rendono immune da deficit di sistema sui quali ha finito per infrangersi la rivolta di vescovi consci della loro vocazione. È troppo evidente che l´omissione di una seria riforma della Chiesa ha fatto marcire i problemi al coperto di palliativi illusori.
«È una conversione strutturale che si impone» ha dichiarato al giornale cattolico francese La Croix la psicologa Isabelle De Gaulmyn, augurandosi che la Chiesa possa servirsi degli scandali per interrogarsi su alcune sue distorsioni istituzionali. Nella stessa logica della verità che Benedetto XVI pone a fondamento della morale, la Chiesa dovrebbe esprimere la propria gratitudine ai media che l´hanno aiutata a far cadere le maschere, invece di attaccarli come aggressori dell´autorità. Ma se è plausibile far risalire a un fallimento di sistema il circuito letale instauratosi fra il crimine di una minoranza del clero e la generale omertà del sistema ecclesiastico, ben prima del fantasma del liberalismo sessuale sessantottino, diverrebbe ben provata la ragione per cui neanche gli sforzi dei più lucidi fra i pastori siano riusciti a rompere questo blocco in cui la considerazione dell´autodifesa istituzionale, la cultura del segreto e della negazione, un concetto idolatrico dell´autorità hanno finito per sottomettere i valori della giustizia, della trasparenza e dei diritti umani degli innocenti.
Quanti guardano alla Chiesa con ammirazione pari alla sincerità, sanno che essa conserva, malgrado le deviazioni di alcuni uomini e dei suoi apparati, le risorse sufficienti per scrutare con lucidità le cause istituzionali della crisi. La «Lettera ai cattolici d´Irlanda» potrebbe essere un primo passo. È possibile presumere che lo stesso papa Ratzinger, al tempo in cui era capo della Congregazione per la Dottrina, avesse fatto l´esperienza del dramma tra la forza della verità e le pressioni istituzionali per il suo insabbiamento. Di fronte alla vastità del fenomeno egli ha finito per prorompere nel grido del Venerdì Santo del 2005 sulla «sporcizia nella Chiesa», che era già la promessa di un programma di moralizzazione presto legato alla sua candidatura alla successione era una denuncia forse a lungo repressa, il segnale di quanto fosse faticoso anche per lui liberare delle linee guida efficaci senza intaccare a fondo la logica del sistema. Non si può dire che non abbia mantenuto le promesse: la bonifica è in corso. D´altra parte, solo annettendo il giusto valore al peso lordo del sistema sarebbe possibile separare ciò che è di Benedetto XVI da ciò che era del cardinale Ratzinger alla testa dell´ex Sant´Uffizio.
L´operazione verità potrebbe essere fruttuosa solo a patto di aprire ogni sipario sui gangli del sistema che l´hanno lungamente inibita. Delle due l´una: o il cardinale Ratzinger aveva gestito il dossier sporco utilizzando da solo o coi suoi propri stretti collaboratori la delega papale, all´insaputa del suo superiore Giovanni Paolo II. Oppure, come è consuetudine specie per i casi più gravi, il prefetto della Congregazione per la Dottrina è andato a riferirne al Papa in una delle sue udienze settimanali di tabella. E ha ricevuto da lui carta bianca per agire nel senso in cui ha agito. Un´ipotesi forse più verosimile ma le cui conseguenze difficilmente lascerebbero indenne la responsabilità di Wojtyla, alla vigilia della sua beatificazione. Anche se proprio quel Papa fu inesorabile coi vescovi americani e il loro clero pedofilo e le coperture del sistema.

Repubblica 26.3.10
Parla il fondatore di un´associazione americana di persone abusate protagonista di un raduno davanti al colonnato della piazza
Il grido delle vittime nel cuore di San Pietro "Quelle notti di violenze nella camerata"
di Marco Ansaldo

Quattro dirigenti della "Snap" hanno distribuito ai passanti copie dei dossier sul caso Murphy. Poi sono stati fermati dalla polizia di Borgo Pio
"Il sacerdote usava poi il confessionale per farsi raccontare i peccati dai singoli. Incrociava le informazioni per gestirle"

CITTÀ DEL VATICANO - Mai era accaduto che la protesta per gli abusi dei preti pedofili sui minori arrivasse fisicamente nel cuore del Vaticano. Ieri però è successo, quando prima di mezzogiorno, un piccolo gruppo di dirigenti della Snap (Survivors network of those abused by priests), l´associazione americana delle vittime agli abusi da parte dei preti, ha organizzato un raduno davanti al Colonnato di San Pietro.
Hanno distribuito copie dei dossier sul caso Murphy pubblicato ieri sul New York Times, e mostrato alcuni cartelli con le foto di Papa Ratzinger e del Segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone. «Benedetto XVI - si leggeva su uno dei poster - quando era Capo della congregazione per la dottrina della fede ha ignorato le richieste provenienti di tre vescovi di rimuovere dal sacerdozio il molestatore seriale Lawrence Murphy». Venti minuti di pacifica dimostrazione, interrotti dal brusco arrivo della polizia che ha trattenuto i quattro, due uomini e due donne, per aver organizzato una conferenza stampa senza autorizzazione, sequestrato tutto il materiale e portato il gruppetto al vicino commissariato di Borgo Pio. Dopo il loro rilascio, Repubblica ha incontrato il fondatore della Snap, Peter Isely, nel suo albergo intorno a piazza Risorgimento. Isley, piscoterapeuta degli ex bambini sordi abusati, indossa un gessato scuro e porta all´occhiello il distintivo tondo dell´associazione, con cinque piccoli che si danno la mano.
Mr. Isely, che cosa avete voluto dimostrare con la vostra azione a piazza San Pietro?
«Volevamo ricordare a tutti il ruolo che Benedetto XVI ebbe in qualità di Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede nella copertura degli abusi compiuti da Murphy».
Quale ruolo?
«Ratzinger fu il primo a ricevere le lettere di denuncia. Ma non rispose mai».
Sì, ma non fu Bertone, cioè il suo vice, a replicare con due lettere?
«E´ vero. Però Ratzinger non poteva non sapere di questo fatto scottante. Era lui il numero uno della Congregazione, e non è pensabile che l´archiviazione del caso richiesta da Bertone non avesse ricevuto la sua approvazione diretta».
Voi come avete saputo del caso?
«Io ho fondato l´Associazione vent´anni fa, dopo essere venuto a conoscenza di queste situazioni di violenza».
Lei subì abusi?
«Io sono originario di Milwaukee, e a 13 anni fui vittima di un prete pedofilo, non padre Murphy, quando studiavo in seminario. Lo stesso la mia collega Barbara Blaine, stuprata nel 1969 da un sacerdote di Toledo, Ohio».
Poi che cosa accadde?
«Tre arcivescovi del Wisconsin vennero a sapere che Murphy abusava sessualmente dei piccoli ma, come risulta dai documenti, non si rivolsero mai alla magistratura o alle autorità. Nel 1974 Murphy fu infine trasferito in una diocesi a nord, dove trascorse gli ultimi 24 anni della sua vita continuando a lavorare con i bambini, in parrocchie, scuole e addirittura in un centro di detenzione per minori. Morì nel 1998, ancora sacerdote...».
Oggi è saltato il coperchio e molti cominciano a parlare. La Chiesa però dice che non ci fu nessun insabbiamento.
«La Chiesa sta cercando di riscrivere la storia dicendo "noi non sapevamo". Ma i documenti pubblicati dimostrano il contrario: Ratzinger sapeva ed è rimasto in silenzio. La Chiesa non deve fare la sua inchiesta, ma deve mettere le denunce nelle mani della polizia».
Che cosa faceva esattamente Murphy?
«Le dico solo questo: a parte entrare la notte nelle camere dei ragazzi, usava poi il confessionale per farsi raccontare i peccati dai singoli. Cioè adoperava uno dei sacramenti per incrociare le informazioni che otteneva da tutti e quindi gestirle».
Le vittime che cosa chiedono oggi al Vaticano?
«Che il Papa finalmente parli di questo caso. Che obblighi i vescovi a denunciare i pedofili alla polizia rimuovendoli dal sacerdozio. E che dia disposizione di rendere pubbliche le carte su questi crimini tenute segrete nell´ex Sant´Uffizio».
Avete contatti in Italia?
«Vorremmo aprire una sezione italiana, così come fatto abbiamo fatto in Germania. Ma qui le vittime hanno ancora paura di parlare».

Repubblica 26.3.10
E ora scoppia anche il caso italiano
Dopo anni di silenzi, cominciano a emergere le denunce delle violenze
di Tommaso Cerno

Solo lo scorso anno, Telefono Azzurro ha raccolto cinque richieste d´aiuto da parte di ragazzini
Ernesto Caffo: "Per molto tempo la Chiesa ha trattato le questioni al proprio interno"
Il religioso è chiuso in preghiera a St. Colman, in quella che fu la sua cattedrale
Accusato di aver ostacolato le indagini, sarebbe già stato ascoltato dalla magistratura

ROMA - Un ragazzino di 11 anni violentato da un frate in Toscana: «Mi diceva: sono le mani di Dio, non avere paura», racconta oggi Mario. Non denunciò mai quel prete, la Chiesa lo convinse a tacere. In Lombardia una suora molestava una bimba. Anche stavolta nell´omertà: «Intervenne il vescovo e i miei genitori decisero di lasciar perdere i tribunali».
È la pedofilia in agguato nell´oscurità di chiese e seminari italiani. La più subdola, quella finora rimasta nascosta. Una piaga che s´allarga proprio come in Irlanda, Germania e Stati Uniti. Sono già oltre 40 i sacerdoti condannati, da Palermo a Bolzano. E potrebbe essere solo la punta dell´iceberg.
Telefono azzurro, nel 2009, ha raccolto 105 denunce di abuso sui minori. Nelle categorie i preti non ci sono, ma scavando fra i report compaiono: 5 casi (pari al 4,7%) hanno come autore un religioso, una percentuale simile alla scuola (3,9%) e molto più alta dello sport (0,8%). Segnalazioni tutte simili. Un ragazzo di 16 anni denuncia un prete: l´ha condotto a una festa, ubriacato e tentato di baciarlo. In Veneto sette ragazzini sottoposti ad abusi sessuali da due sacerdoti. Un frate accusato di far visionare film porno in oratorio a bimbi di sei anni. Forse i processi di domani: «Segnaliamo tutto alle autorità, ma per molto tempo in Italia la Chiesa ha scelto di trattare le questioni al proprio interno, sfuggendo alla via giudiziaria per non mettere in discussione l´intero sistema», spiega il presidente di Telefono Azzurro, Ernesto Caffo.
Chi sa tace, anche per decenni. Spesso vittima di pressioni dalla Curia, come confermano le sentenze di molti processi. A Cento, nella diocesi di Ferrara, don Andrea Agostini è stato condannato a sei anni e dieci mesi per violenze su una decina di bimbe. I giudici denunciano il «silenzio dei vertici ecclesiastici». Anche con l´appoggio dei fedeli, pronti a difendere pubblicamente i sacerdoti anche dopo la condanna. Storie simili a quella di Alassio, dove attorno a don Luciano Massaferri, arrestato dopo il racconto di una ragazzina di 11 anni, s´è schierata la parrocchia, con un tam tam di solidarietà.
Se Benedetto XVI cambia rotta e invita per la prima volta a denunciare gli abusi alle procure, spesso nei fatti questo non avviene. Come nel caso di don Marco Dessì, il missionario della diocesi di Iglesias che operava in Nicaragua. Già nel 1990 fu segnalato per abusi su un gruppo di ragazzini fra gli 11 e i 14 anni, costretti a ogni tipo di prestazione sessuale. «Dopo i rapporti completi diceva loro che erano diventati dei prescelti», racconta l´avvocato Marco Scarpati che si rivolse al Vaticano: «La chiesa ufficiale ci aiutò, ma la congregazione lo protesse. Per oltre un decennio agì indisturbato, mentre molti di quei ragazzi potevano essere salvati in tempo». Lo sanno bene Alberto, David, Marlon, Ignacio e Juan Carlos, tutti orfani dell´Hogar del Niño. Sono dovuti volare in Italia per motivi di sicurezza, perché minacciati di morte. Per quei silenzi e quei ritardi, poi, la condanna a 12 anni in primo grado, ridotta a otto dalla Corte d´Appello e annullata dalla Cassazione per un vizio di forma, rischia di non arrivare più. Il processo ripartirà in ottobre, ma la prescrizione è vicina. Come in molti altri casi italiani.

Repubblica 26.3.10
Nel rifugio di monsignor Magee il vescovo rischia l´incriminazione
di Enrico Franceschini

COBH (Irlanda) - «La messa è finita, andate in pace». Ma non vanno da nessuna parte, le vecchiette col fazzoletto in testa venute a pregare alle dieci del mattino nella cattedrale di St. Colman: terminata la funzione, restano sedute sulle panche, a capo chino, come incerte sul da farsi. Né c´è pace in vista per i cattolici irlandesi, da quando due giorni or sono il Papa ha accolto le dimissioni di monsignor John Magee, ex-segretario personale di tre pontefici, vescovo della diocesi di Cloyne, di cui questa chiesa di pietra grigia è il quartier generale, coinvolto anche lui nello scandalo dei preti pedofili. «Che vergogna», biascica una delle donnine, estraendo dalla borsetta il rosario. «Vergogna per il nostro vescovo, per la nostra chiesa, per Benedetto XVI». Pausa. «E per tutti noi». Poi comincia: «Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te».
Lassù, da qualche parte nei meandri della cattedrale, prega anche il vescovo, anzi ex-vescovo. «Monsignore non intende rilasciare interviste, al momento», dice con fermezza il reverendo James Killen, suo portavoce. Un silenzio stampa che monsignor Magee si impegna a riempire con le preghiere: per i suoi peccati, per le sue omissioni e per l´indagine che una commissione d´inchiesta governativa ha aperto su quella che è stata per vent´anni la sua diocesi, al fine di fare piena luce sugli abusi sessuali commessi ai danni dei bambini che vi rimasero intrappolati dentro, così come su coperture e insabbiamenti delle autorità ecclesiastiche per proteggerli. È questa l´accusa alla base delle dimissioni del vescovo.
Magee sapeva dei misfatti compiuti da almeno due preti pedofili della diocesi di Cloyne, ma non li fece perseguire. La commissione ha bollato come «inadeguate» e «pericolose» le misure da lui varate a protezione dei bambini. Nella sua lettera di dimissioni, il vescovo ha «implorato perdono» per le sofferenze arrecate dalle sue azioni o inadempienze, e già nel marzo 2009 si era profferto in scuse, ottenendo dal Vaticano di essere sollevato dall´incarico, sostituito da un amministratore apostolico, pur conservando il titolo di vescovo.
Ma perché Benedetto XVI glielo ha tolto proprio adesso? «Per gravi ragioni», recita l´articolo 401, paragrafo secondo, del codice canonico citato nel provvedimento di dimissioni, senza fornire delucidazioni. «È possibile che siano emerse nuove prove contro di lui», rivela tuttavia Barry Roche, corrispondente dell´Irish Times dal sud dell´Irlanda. Tre settimane fa, racconta una fonte bene informata, monsignor Magee è stato interrogato dalla magistratura irlandese, che esaminando documenti forniti dal vescovo vi avrebbe riscontrato nuovi elementi del "cover-up". Il vescovo avrebbe occultato l´identità di un prete pedofilo per ben due volte, nel rispondere alle domande della commissione d´inchiesta e poi a quelle della procura. Può darsi che ora le autorità stiano valutando se incriminarlo per ostruzione di giustizia: il che spiegherebbe perché, dopo avere lasciato la pratica su uno scaffale per un anno, improvvisamente il Papa ha deciso di dare esecuzione alle dimissioni.
La Storia è già passata altre volte da Cobh. Da questa cittadina portuale all´estremità meridionale dell´Irlanda partirono per l´America 4 milioni di emigranti, in particolare durante la grande carestia a metà dell´Ottocento, quando l´isola si svuotò. Qui davanti, nel 1915, il transatlantico americano "Lusitania" fu affondato da un U-boot tedesco: morirono 1.198 passeggeri, l´attacco provocò l´ingresso degli Usa nella Prima Guerra mondiale. E tre anni prima Cobh era stata testimone di un altro disastro, come ultimo porto in cui fece tappa il "Titanic", nel suo viaggio fatale verso l´iceberg.
Lo scandalo dei pedofili è l´iceberg della Chiesa, nel paese più cattolico d´Europa? «Abbiamo compiuto errori, ma non intenzionalmente, e voglio assicurarvi che tali errori non si ripeteranno»: con queste parole monsignor Magee chiuse l´omelia della messa di mezzanotte, il giorno di Natale del 2008. Ma l´inchiesta sugli abusi continua a fare emergere nuovi "errori", od orrori, la cui premeditazione appare sempre più evidente. La strada per l´inferno, talvolta, è lastricata dalle peggiori intenzioni.
Sul sito della diocesi di Cloyne è comparso un codice di condotta per i sacerdoti nei rapporti con i minori. Suona come una versione per l´infanzia dei dieci comandamenti: non lavorare da soli con i bambini; non usare linguaggio inappropriato davanti ai bambini; non parlare di sesso con i bambini; non avere alcun contatto fisico con i bambini; non giocare a fare la lotta con i bambini. La messa è finita, ma il processo alla Chiesa continua.

il Fatto 26.3.10
Sorpresa: i romeni non sono un popolo di delinquenti
Un’indagine sfata i miti negativi rispetto alla popolazione straniera più numerosa che c’è in Italia
di Corrado Giustiniani

Un milione e 110mila persone che versano ogni anno un miliardo di euro di tasse e un miliardo e 700 milioni di contributi

Si fa in fretta a criminalizzare un popolo intero. Ci vuole un omicidio che colpisca profondamente l'opinione pubblica, come quello di Giovanna Reggiani, compiuto il 30 ottobre del 2007 da Romulus Mailat. E poi, sei mesi dopo, sempre a Roma, lo stupro di una studentessa del Lesotho, finito nell'apertura di prima pagina dei principali quotidiani, fra le 4 mila orribili violenze carnali denunciate ogni anno, perché era il 20 aprile del 2008 e si stava per votare, al ballottaggio, il sindaco della capitale. Per non dimenticare, il 14 febbraio di un anno fa, lo stupro della Caffarella, ai danni di una ragazza di quindici anni, con una partenza falsa che portò in carcere gli incolpevoli Loyos e Racz, ma la certezza di alcuni giornali che il dna dei violentatori fosse romeno, come se avesse una bandierina incorporata dentro.
Un libro-ricerca zeppo di dati statistici, I romeni in Italia tra rifiuto e accoglienza, presentato ieri all'Accademia di Romania dalla Caritas italiana e romena, smonta questa mole di pregiudizi. La stima media dei soggiornanti di quel paese in Italia è di 1 milione e 110 mila. Sono la nazionalità più rilevante: un immigrato su quattro è romeno, e la loro presenza si è più che quadruplicata dal 2003 ad oggi (erano infatti 240 mila al tempo della regolarizzazione della Bossi-Fini). Ma chi equipara aumento dei romeni ad aumento della criminalità non trova supporto nei numeri. Nel 2008, osserva la Caritas, costoro incidevano per il 24,5 per cento sulla popolazione straniera residente ma soltanto per il 13,8 per cento sulle denunce presentate contro tutti i cittadini stranieri. Dunque, i romeni delinquono meno della media degli immigrati.
Ancora: le denunce contro i romeni sono sì aumentate, dalle 31.465 nel 2005 alle 41.708 del 2008, ma soltanto del 32,5 per cento, mentre nello stesso periodo la popolazione romena in Italia è salita del 268 per cento. La propensione a delinquere, perciò, è nettamente calata negli ultimi anni. Ad essere denunciati sono circa il 3,5 per cento dei residenti romeni. Quota che scende attorno al 3, se si tiene conto che alcune denunce si riferiscono a una stessa persona. Il 97 per cento non ha problemi con la giustizia. Difficile il confronto con la popolazione italiana, perché gli immigrati sono più giovani e la tendenza a delinquere non è certo degli anziani. La criminalità romena, che pure preoccupa per il suo carattere violento e la ramificazione in diverse attività illecite (dallo sfruttamento della prostituzione e dell'accattonaggio alle frodi informatiche) secondo la Direzione investigativa antimafia (Dia) è meno strutturata e meno in crescita rispetto ad altre di paesi diversi (soprattutto nordafricani).
Sul lavoro i romeni non cercano di far valere ad ogni costo la loro formazione, spesso più elevata, ma si inseriscono anche nelle posizioni più umili e rischiose, tanto che nel 2008 hanno subito 21 mila 400 infortuni, 48 dei quali mortali. Nello stesso anno sono stati assunti ben 175 mila di loro, corrispondenti al 40 per cento dei nuovi contratti di cui ha beneficiato l'intera popolazione immigrata: in ciò sono stati sicuramente favoriti dall'essere cittadini dell'Unione europea, a partire dal 1 gennaio del 2007. I romeni, così, assicurano un notevole apporto di contributi previdenziali (circa 1 miliardo e 700 milioni di euro l'anno) a vantaggio delle casse dell'Inps, mentre pagano circa 1 miliardo di tasse. Non soltanto laboriosi: sono anche creatori d'imprese, al ritmo di 9 mila l'anno. A maggio del 2009 quelle con titolare romeno erano in tutto 28 mila, con un primato in edilizia. Soltanto i marocchini, fra le nazionalità immigrate, ne vantano un numero più elevato.
Il Lazio è la regione che vede il maggior numero di residenti (158 mila) e Roma la prima provincia (122 mila) davanti a Torino (86 mila) e Milano (41 mila). Sono già 50 mila i bimbi romeni nati in Italia dal 2000 ad oggi e 105 mila i ragazzi iscritti nelle nostre scuole. Nel volume della Caritas, tuttavia, si sottolinea la nota dolente dei minori non accompagnati: nel 2006 erano già 2 mila 500. I minori costituiscono comunque il 18 per cento della presenza in Italia, che per la maggior parte (53 per cento) è femminile: le donne romene, come si sa, trovano ampi spazi nell'assistenza alle famiglie, agli anziani e ai malati.
Ma cosa pensano i romeni del nostro paese e degli italiani? La ricerca è integrata da un sondaggio condotto su 50 testimoni privilegiati distinti per età (dai 19 ai 50 anni) e regione di residenza. Sei su dieci intendono stabilizzarsi in Italia, della quale apprezzano lavoro, livello di vita e sistema sanitario, mentre rimpiangono la scuola romena che ritengono migliore. Il 94 per cento dichiara di aver fatto amicizie italiane, il 74 per cento di aver imparato la lingua dopo l'arrivo nel nostro paese, mentre il 36 per cento parla a casa soltanto italiano. Il 92 per cento guarda la tv italiana e i programmi più seguiti sono Anno Zero, Repor t, Por ta a Por ta, non quelli di intrattenimento. Nota dolente: il 90 per cento degli intervistati ha dichiarato che i romeni di propria conoscenza hanno subito discriminazioni, soprattutto sul lavoro. La mattinata finisce con un toccante concerto di musicisti romeni. Una ragazza, Oana Lungu, esce dall'Accademia di Romania esibendo orgogliosa la sua tesi di laurea conseguita alla Lumsa. Il titolo è L'altra Romania in Italia. Storie di integrazione. Lei ne ha raccolte 12. “L'altra Romania siamo noi – spiega – quelli venuti in Italia per lavorare onestamente: la stragrande maggioranza”.

l’Unità 26.3.10
Obama è inflessibile stop alle colonie per dieci mesi
Il flop di Netanyahu
di Umberto De Giovannangeli

Le richieste Usa Liberare i prigionieri, via l’esercito dalle posizioni occupate dopo la II intifada
Nessun accordo E ora il premier israeliano convoca un vertice ministeriale ristretto

Umiliato e indebolito. Così i giornali israeliani raccontano la missione di Benjamin Netanyahu negli Usa. In gioco la sicurezza degli Usa nella regione, avverte il ministro della Difesa americano Robert Gates.

«Ora me ne ne vado negli appartamenti privati per cenare con Michelle e le bambine»: con questa frase Barack Obama ha gelato Benjamin Netanyahu nel bel mezzo del colloquio di martedì sera alla Casa Bianca. A raccontare una serie di umiliazioni inflitte al premier israeliano dal presidente Usa è il più diffuso giornale israeliano, Yediot Aharonot, in una dettagliata ricostruzione. Obama si sarebbe infuriato per l'annuncio arrivato poche ore prima dell'incontro della costruzione di altre 20 case a Gerusalemme est e per le risposte vaghe date da Netanyahu alla richiesta di aperture ai palestinesi per far partire i negoziati indiretti. Così alle 19, dopo un’ora e mezza di infruttuoso colloquio, il presidente americano si è alzato dalla poltrona e, anziché invitare il premier a unirsi per la cena, gli ha chiesto di continuare la discussione con i suoi consiglieri. «Io resterò qui, fammi sapere se ci sono novità», gli ha chiesto con scarsa diplomazia. Successivamente, sempre secondo la ricostruzione del giornale israeliano, Netanyahu ha chiesto e ottenuto un secondo colloquio, durato appena mezz'ora.
SCONTRO CONTINUO
A conferma della freddezza dell'incontro, c'è il fatto che non sono stati fatti comunicati o dichiarazioni alla stampa e non sono state diffuse le foto come è consuetudine per le visite di statisti stranieri. La diffidenza reciproca è attestata anche dalla decisione di Netanyahu di non utilizzare la linea telefonica messa a disposizione dalla Casa Bianca per consultarsi con i suoi consiglieri e con il governo, preferendo il rientro in ambasciata. Obama avrebbe chiesto a Netanyahu tre gesti di buona volontà da offrire ai palestinesi senza chiedere contropartite: l'estensione fino a settembre della moratoria parziale di 10 mesi sulle nuove costruzioni nelle colonie in Cisgiordania, il ritiro dell'esercito israeliano alle posizioni precedenti alla seconda Intifada e la liberazione di un numero di detenuti palestinesi compreso tra i cento e i mille.
UMILIATO
Netanyahu non è riuscito a chiudere la grave crisi nelle relazioni col presidente Usa Barak Obama ma anzi quest' ultimo lo ha posto «con le spalle al muro» avanzando una serie di richieste in tema di processo di pace con i palestinesi. È il preoccupato giudizio nei servizi e nei commenti della stampa israeliana a conclusione del viaggio del premier nella capitale americana. «Pressioni» è il titolo sul quotidiano Yedioth Ahronot che nel sottotitolo afferma che «Obama ha posto richieste che per Israele sarà difficile accettare». Il Maariv, cita una fonte governativa americana, secondo la quale «Obama si è stufato delle tattiche dilatorie» di Netanyahu e in un commento parla di un «agguato» teso a Netanyahu dal governo americano. Duro il giudizio di Haaretz: «Si aggrava la crisi con gli Usa: Obama esige da Netanyahu impegni scritti per passi volti a creare un clima di fiducia» in vista di negoziati di pace indiretti con i palestinesi. Netanyahu, afferma il giornale, esce da Washington «isolato, umiliato e indebolito». La crisi divampa. La «mancanza di progressi» nei negoziati di pace israelo-palestinesi «danneggia gli interessi americani in materia di sicurezza nazionale nella regione», avverte il ministro della Difesa statunitense, Robert Gates.
Netanyahu ha convocato per oggi a Gerusalemme una consultazione urgente con i sei ministri a lui più vicini per riferire dell'incontro avuto con Obama e per esaminarne le conseguenze. In una intervista alla radio militare, il vicepremier Silvan Shalom sostiene che Netanyahu deve respingere le pressioni statunitensi per il congelamento di progetti edili ebraici a Gerusalemme est. «Quella politica rileva ha il consenso della maggioranza degli israeliani». «Gli americani taglia corto Shalom devono comprendere che anche noi abbiamo delle “linee rosse” invalicabili».

Repubblica 26.3.10
Così la filosofia spiega i miti d'oggi
C’è Platone dietro il pop
di Valerio Magrelli

Dall´arte alla tv, dai film ai fumetti due saggi provano ad applicare i metodi della cultura "alta" per decodificare quella "bassa" Con risultati diversi
L´antropologia sessuale e Foucault sono utilizzati per studiare la serie "Sex and the City"
Le riflessioni di Deleuze e Agamben possono essere utili per "Romanzo criminale"

«Perché parlare di tragico pare filosofico e parlare di comico no? Perché si può andare in cattedra con un libro su Heidegger e non con un libro sulla pornografia? Perché i miti sembrano una gran cosa e le barzellette no? Ed è così da sempre, o dipende da una involuzione moderna della filosofia?». Tempo fa, con questa incalzante serie di interrogativi, Maurizio Ferraris, Ugo Perone e Alberto Voltolini hanno introdotto un ciclo di incontri torinesi dedicato alla Filosofia Pop. Affermatasi ormai da vari anni in area angloamericana (ma sulle tracce dello strutturalismo), questa tendenza mira ad applicare gli strumenti della tradizione speculativa a esempi di cultura popolare, un po´ sul genere dei Miti d´oggi di Roland Barthes. Lo ha spiegato bene la studiosa statunitense Avital Ronell, affermando che, se Aristotele scrivesse adesso, si occuperebbe di soap opera.
L´idea di fondo della filosofia pop, insomma, è che non c´è niente di intoccabile: nulla di tanto alto da non poter essere criticato, nulla di così basso da non meritare una considerazione filosofica. Da qui l´idea di affrontare sia temi classici in forma non convenzionale, sia temi che hanno piena dignità teorica, ma che per qualche motivo sembrano marginali.
Grande fortuna ha avuto a tale riguardo il volume Matrix e la Filosofia (a cura di William Irwin e Vincenzo Cicero, Bompiani), dedicato a quel film dei fratelli Wachowski che fra l´altro, nel 2003, fu oggetto di un convegno nel segno di Platone cui parteciparono lo stesso Ferraris, Giulio Giorello, Diego Marconi e Carlo Sini. Sulla stessa linea si colloca il recente Stramaledettamente logico. Esercizi di filosofia su pellicola, a cura di Armando Massarenti (Laterza), che affronta alcune cruciali domande filosofiche basandosi su altrettante sceneggiature per il cinema. Tuttavia, chi si è più concentrato su questo filone di ricerca è stato forse Simone Regazzoni, prima con Harry Potter e la filosofia (il nuovo melangolo), poi con La filosofia di Lost (Ponte alle Grazie), infine con un testo appena uscito a sua cura con il titolo Pop filosofia (il nuovo melangolo, pagg. 253, euro 15). Gli undici capitoli del libro spaziano dall´analisi della pop music di Michael Jackson a quella della fiction televisiva italiana e straniera, passando attraverso l´esame di un film come Mucchio selvaggio di Sam Peckimpah.
Il lettore è avvisato: il gioco consisterà nel sottoporre prodotti di consumo al vaglio critico, per osservarne la configurazione, il funzionamento, l´ideologia sottaciuta. Non a caso, l´intera operazione si colloca nel solco di quanto scrisse Peter Sloterdijk: «Noi non dobbiamo essere titubanti nel pensare oltre i confini dell´attività accademica. La crisi complessiva dei nostri giorni dovrebbe spingere la filosofia che si è rinchiusa nel grembo delle università ad abbandonare il suo nascondiglio».
Vediamo allora come procede questa opera di smontaggio. Mettendo da parte alcuni saggi meno immediati per il lettore-spettatore italiano (che forse non sempre conosce certe serie televisive come Mad men, o certe graphic novel quali Asterios Polyp), cominciamo da Sex and the City. Nelle loro sedute di autocoscienza post-moderne, spiega Francesca R. Recchia Luciani, le quattro protagoniste femminili non fanno che cercare il senso della propria esperienza. Inoltre la modalità interrogativa con cui la giornalista Carrie avvia ogni suo articolo (mettendo così in moto il plot che caratterizza ogni singolo episodio), si mostra come un esercizio eminentemente filosofico. La sua è una vera e propria indagine di antropologia sessuale, e come tale viene esaminata dalla studiosa, vuoi ricorrendo alla riflessione offerta da Michel Foucault, Giorgio Agamben o Jean-Luc Nancy, vuoi accostandola ad alcuni esiti dell´arte contemporanea (Jeff Koons, Tracey Emin, Sophie Calle).
I nomi di Foucault e Agamben, insieme a quelli di Gilles Deleuze e Paolo Virno, tornano anche nell´esame di Romanzo criminale, il romanzo di Giancarlo De Cataldo in cui Lorenzo Fabbri scorge una autentica "cartografia politica" della forma-Stato e in genere della società di controllo. Con una specie di lunga zoomata, le vicende della banda della Magliana finiscono per incrociare le più sofisticate meditazioni sui dispositivi di repressione, tracciando un nero ritratto dell´Italia del secondo dopoguerra. Qualcosa di analogo si verifica anche nel saggio di Giulio Itzcovich sulla versione inglese del Grande fratello, mentre il saggio del collettivo Wu Ming 1 sul film 300 di Zack Snyder propone un´apertura differente.
Attraverso il concetto di "tecnicizzazione del mito" formulato da Furio Jesi, la pellicola finisce per svelare la sua natura sostanzialmente banalizzata, caratterizzata da una serie di falsificazioni storiche. Una volta superato lo sconcerto che nasce dallo squilibrio fra l´oggetto studiato e il mezzo impiegato nella sua analisi, prestazioni critiche tanto brillanti e acute portano a dire che la Pop filosofia ha vinto la sua scommessa. Tuttavia, sarebbe più giusto affermare che la sua funzione, per quanto utile come esercizio di decifrazione, appare decisamente secondaria rispetto a quella dell´elaborazione teorica vera e propria. Ben venga questo tipo di ricerche, a patto però di tenere ben distinte le due fasi del processo speculativo: una cosa è applicare uno strumento ai più diversi aspetti della cultura di massa, un´altra, assai più complessa, riuscire a forgiarlo.

giovedì 25 marzo 2010

l’Unità 25.3.10
Più unioni di fatto e neonati stranieri
Così cambia l’Italia
L’ultima rilevazione Istat mostra un paese sempre più «laico» Sono raddoppiati i figli nati fuori dal matrimonio
di Vittorio Emiliani

La società italiana cambia, si modifica, si secolarizza, si fa multietnica. Molto al di là dei diktat della Chiesa da una parte e delle convulsioni razziste della Lega e di Berlusconi dall’altra. Così la «fotografa» l’Istat fra il 1995 e il 2008. Crescono sempre più le tanto penalizzate unioni di fatto: più che raddoppiati i figli nati da conviventi, ormai al 20 %. Nel Nord – dove la Lega si proclama tutrice della famiglia cattolica – balzano al 25 %, se da genitori italiani.
Per le nascite c’è una ripresa. Concentrata nel Centro-Nord. Nel Sud, invece, il solo Abruzzo non cala. A Basilicata e Calabria record negativo: – 21-20 %,. Al Centro-Nord l’Emilia-Romagna, regione ricca di servizi sociali, dove però la natalità era molto scemata, segna un + 50 %, seguita a distanza da Toscana, Umbria e Marche. Le regioni «rosse» dove si è costruito un rassicurante welfare locale.
Più figli al Centro-Nord, meno al Sud, e mamme sempre meno giovani. Giustamente vogliono consolidare la loro posizione professionale, l’età biologica si è spostata in avanti, la coppia pianifica di più le nascite, ecc. Così le madri hanno un’età media di 31,1 anni. Quelle al di sotto dei 25 sono meno del 9 % (oltre il 15 nelle Isole), ormai avvicinate dalle over 40, specie al Centro (7, 91 %). E scendono molto – effetto dei contraccettivi – le madri minorenni (al Nord, 0,17 %). Una serie di rivoluzioni epocali.
Il capitolo stranieri. Nel decennio 1999-08, i nati con almeno un genitore straniero sono quasi triplicati (dal 6 al 17 %). Come quelli con madre e padri stranieri: dal 4 al 12,6 %. Uno su 5 è nato da stranieri in Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia, e uno su 6 in Piemonte, Umbria, Marche, Friuli, Toscana e Trento. Molto meno nel Sud. Fa eccezione l’Abruzzo. In testa alla classifica dei nati con almeno un genitore straniero c’è, al solito, l’Emilia-Romagna (dove per contro i casi di razzismo sono assai pochi, segno di politiche più attente e consapevoli) col 26,1%. Fra le province, in cima Mantova (33,5%), Prato (cinesi) e Brescia, subito dopo Piacenza (chi ne parla mai?) vicina al 31%, Parma, Modena, Reggio Emilia. La cittadinanza italiana a questi nuovi nati si pone pertanto con forza ovunque, anche in province come Macerata (26,1 %), Perugia e Livorno (24%). Altro che veti, blocchi, muri alle frontiere. Questi dati reclamano una politica civile, realistica, preveggente.
Quali le madri straniere nella coppia mista? Romene (18,4%), poi polacche (9,1%), e, a sorpresa, brasiliane e ucraine. E i padri? Albanesi e marocchini, indi tunisini, romeni (e qui si inseriscono inglesi, francesi e tedeschi). Le coppie totalmente straniere: romeni, seguiti da marocchini, albanesi e cinesi (tutti insieme, oltre il 53 %). La fertilità delle straniere? Un figlio in più (2,31 figli contro 1,32), ma tende a diminuire con l’integrazione smentendo gli allarmisti. Certo, una realtà complessa che si conosce e si affronta meglio nei centri medi e piccoli. Con maggiori difficoltà nelle aree metropolitane.

il Fatto 25.3.10
Cresce il numero dei ginecologi obiettori
Gli aborti clandestini toccano quota 20mila
L’ultimo caso quello di una badante irregolare che ha rischiato la vita
di Chiara Paolin

Nella Lombardia di Formigoni sono diminuiti i centri pubblici, dai 346
del 1996 ai 151 di oggi

E’ scappata, ma la troveranno. Una settimana fa era distesa in un letto della clinica Mangiagalli, a Milano. Tutto intorno un gran via vai di regali e bebè,lei invece parlava con la polizia. E ha confessato subito: è vero, ho abortito. Mi sono procurata delle medicine, le ho prese, poi il bambino è uscito. Un'amica mi ha aiutato. L'abbiamo sepolto vicino casa, nel bosco di Sant'Ambrogio. Una buca per terra. Faccio la badante a Mariano Comense, ma in nero, non potevo proprio tenerlo. Qualche giorno dopo ho cominciato a perdere sangue, e una sera ho chiamato il 118 mentre ero a casa di un'amica qui a Milano, stavo troppo male. Adesso sono disperata, ho perso tutto.
Insomma, una storia come tante: ucraina, 28 anni, clandestina. Sola. Ha rischiato la vita, e adesso è in fuga. Gli agenti della squadra mobile l'hanno cercata per dirle che l'autopsia ha stabilito l'età del feto, quasi cinque mesi, ma lei era sparita. La cercano ovunque, anche alle frontiere, perché ora le cose si mettono male. Se non potesse dimostrare di essere stata costretta ad abortire diventerebbe una criminale.
Al momento, nel registro degli indagati c'è solo l'amica che l'avrebbe aiutata a prendere i medicinali. Forse il Cytotec, un antiulcera che qualsiasi medico può prescrivere. Sul mercato nero si trova facilmente: quattro pastiglie inserite nella vagina provocano contrazioni violente, poi il distacco della placenta e l'emorragia. Se non funziona, altre quattro pastiglie il giorno dopo, ma le complicazioni sono in agguato e possono portare alla morte. Un'esperienza che vivono ogni anno migliaia di donne. Secondo le stime dell'Istituto Superiore di Sanità, sono circa ventimila le italiane ancora schiave dell'aborto clandestino. Una cifra spaventosa, che però non comprende il numero di tutte le straniere costrette alla stessa pratica: irregolari, prostitute, semplici lavoratrici che sperano di ridurre al minimo i tempi e le spiegazioni. C'è la paura di essere denunciate dai medici se non si hanno i documenti a posto, ma anche il problema ormai massiccio dell'obiezione di coscienza. In Italia il 70% dei ginecologi non pratica l'aborto (erano il 60% nel 2005), e in alcune regioni si arriva a sfiorare il 90% dell'obiezione: Lazio, Sicilia, Campania, Molise. Così i tempi di attesa per l'intervento si fanno inevitabilmente più lunghi, e anche la strada a ostacoli della RU486, ormai legale ma tuttora osteggiata da moltissime strutture sanitarie pubbliche, non aiuta a migliorare la situazione. Perfino la cosiddetta pillola del giorno dopo, un medicinale contraccettivo che impedisce l’eventuale avvio della gravidanza dopo un rapporto valutato a rischio, viene negato in modo massiccio da medici di base e farmacisti. Nulla a che vedere con l'aborto, come sanno perfettamente i professionisti incaricati di prescriverlo e consegnarlo, ma fa paura lo stesso.
Infine ci sono i soldi, che c’entrano sempre. Migliaia di donne cercano l’aborto legale ma si sentono dire che occorre pagare, dai 600 ai 1.500 euro: succede alle straniere non convenzionate col servizio sanitario nazionale, e pure alle italiane che – se non vogliono aspettare qualche settimana o andare in un'altra città – devono ricorrere a una prestazione intramoenia a pagamento. Allora, meglio una mammana o il fai da te. Le politiche di contrasto del fenomeno sono tuttora vaghe nel Paese. E ci sono regioni che hanno investito su una linea solo teoricamente antiabortista ottenendo risultati opposti. La Lombardia, ad esempio, ha ridotto gli investimenti sulle strutture naturalmente destinate a gestire il problema, ovvero i consultori. Con apposite delibere di riordino, il governatore Formigoni ha progressivamente diminuito i centri pubblici (erano 346 nel 1996, ora 151) convenzionando quelli privati (63 ad oggi). Oltretutto, con la deliberazione n. 2594 del 2000, la giunta lombarda ha stabilito che “in deroga a quanto stabilito dalla normativa, i Consultori familiari privati possono escludere dalle prestazioni rese quelle previste per l’interruzione volontaria della gravidanza”. Insomma: niente soldi per gli aborti regolari. E tanti problemi a trovare un ginecologo non obiettore nelle strutture pubbliche. In Lombardia ormai 7 medici su 10 preferiscono astenersi dalla pratica abortiva, e la Cgil denuncia come la scelta sia fortemente legata a problemi di carriera: gli abortisti non vanno lontano nel regno di Formigoni. Chissà se è per questo che nell'ospedale di Mariano Comense, quello dove abitava la clandestina in fuga, non c'è nemmeno un ginecologo disponibile all’intervento.

l’Unità 25.3.10
«Ora gli americani scoprono che la salute non è una merce»
L’esperto italiano che ha lavorato con Obama alla riforma della sanità: «L’ostilità al cambiamento deriva dall’eccessiva fede individualistica tipica della mentalità Usa. È il momento di risvegliarsi da quel sogno»
di Gabriel Bertinetto

Un italiano ha contribuito alla storica riforma sanitaria varata dal Parlamento degli Stati Uniti. Si chiama Gino Gumirato, 43 anni, padovano, È un economista. esperto di gestione dei sistemi sanitari. Ha diretto le Asl di Viterbo, Piacenza, Chioggia, Cagliari.
Alla fine Obama ce l’ha fatta. Quali secondo lei che vi ha contribuito, professor Gumirato, i principali pregi della riforma sanitaria Usa? «Due. Il primo è fin troppo noto ed ovvio: 32 milioni di cittadini avranno una copertura assicurativa cui prima non potevano accedere. L’altra conquista importante è frutto della battaglia contro le clausole che sinora storicamente avevano escluso milioni di individui dall’assistenza medica. Mi riferisco ai requisito delle condizioni sanitarie preesistenti, in base al quale non venivano rimborsate le spese per cure relative a malattie anteriori alla firma della polizza. Oppure alle clausole per negare il pagamento delle cure eccessivamente costose. Scompaiono. Non potranno più figurare nei contratti. Di fatto sinora servivano a discriminare in base al reddito». La riforma ha anche dei difetti. Quali?
«Per evitare che la legge si arenasse, i promotori hanno dovuto accettare pesanti condizioni e fare concessioni. Una vede le donne protagoniste in negativo, o per meglio dire vittime, perché vieta l’uso di fondi pubblici a vantaggio di cliniche ed ospedali in cui si praticano gli aborti. L’altra è il ridimensionamento dell’agenzia federale che avrebbe dovuto svolgere un ruolo di controllo sul mercato delle assicurazioni. Nella versione originaria del progetto era una “authority” con forti poteri di controllo. Alla quale poteva rivolgersi il cittadino che non avesse trovato la compagnia adatta ad offrirgli il tipo di polizza a lui conveniente. L’agenzia federale avrebbe risolto il problema. Alla fine ci si è dovuti accontentare di una soluzione di compromesso. Il cittadino che ne faccia richiesta, riceverà il contributo finanziario utile a trovare sul mercato la compagnia che vada bene per lui. Il compito dell’authority non è più di controllare, ma piuttosto di compiere un’opera di supervisione».
Qual è stato il suo ruolo nella preparazione della riforma? «Inizialmente ero stato chiamato fra i dieci esperti voluti da Obama per disporre di una sorta di specchio o di sparring partner per confrontare il progetto di riforma americana con i sistemi sanitari esistenti nel mondo. In realtà sostanzialmente mi sono occupato di calcoli economici e matematici. Più precisamente ho esaminato l’impatto economico che il varo della riforma avrebbe potuto avere, e le ricadute di tipo manageriale. L’idea originaria prevedeva che svolgessi la mia consulenza a Ginevra o presso l’ufficio europeo della Organizzazione mondiale della sanità a Copengahen. Di fatto a Ginevra sono andato una sola volta, e per il resto ho lavorato a Washington». Il fatto che lei sia stato scelto come italiano, derivava da un giudizio positivo o comunque da un interesse specifico verso il servizio sanitario di casa nostra?
«In parte sì. L’offerta mi è arrivata dopo avere vinto un premio riservato agli ex-alunni della London School of Economics con una tesi sulla governance dei sistemi sanitari. I dati da me utilizzati si riferivano all’esperienza maturata per 4 anni alla Asl di Cagliari. L’invito ad unirmi alla squadra dei tecnici incaricati di lavorare alla riforma Usa è arrivato da un mio compagno di studi universitari e quasi coetaneo, che oggi dirige un ufficio governativo di 900 persone che stila i bilanci federali: Peter Orszag».
La legge è passata a fatica in Parlamento, mentre l’opinione pubblica gradualmente diventava sempre più contraria o fredda. Perché tanta ostilità? È il frutto di una propaganda ben orchestrata o c’è dell’altro? «Sicuramente quella che lei definisce propaganda ha avuto un impatto importante. Ci sono state campagne di stampa molto critiche, e le associazioni imprenditoriali hanno acquistato ampi spazi pubblicitari per attaccare la riforma. Ma non c’è dubbio che alla base ci sia un problema di natura culturale. Il popolo americano convive da sempre con un modello economico e mentale secondo cui la libera scelta dell’individuo è sempre la migliore possibile. Trasferito nel campo della salute, questo principio porta a conclusioni illogiche, perché non si tratta di un mercato come gli altri. La scelta dei farmaci, dei medici, del tipo di cura non è paragonabile all’acquisto di una macchina o di un telefono. Questo modello culturale ed economico ha portato all’assurdo che negli Usa per la sanità si spende rispetto al prodotto interno lordo il doppio di quello che spendiamo in Italia, ma la durata della vita è inferiore. È tempo che gli americani si risveglino dal sogno di potere comprare ogni cosa, anche la salute. E devo dire che lo sforzo fatto da Obama nelle ultime settimane per superare gli ostacoli che si ergevano di fronte al suo disegno è stato degno delle fatiche di Ercole».
Le innovazioni appena introdotte negli Stati Uniti sono rivoluzionarie rispetto a quella situazione di riferimento. Molto meno rispetto ai welfare sanitari europei, oppure si tratta di realtà fra loto incomparabili? «Si potrebbero anche comparare, ma sarebbe necessario un lungo esercizio di analisi. Posso dire che negli Stati Uniti esistono punti di eccellenza sanitaria, ad esempio per quel che riguarda la ricerca scientifica, sia quella di base, sia quella applicata alla medicina ed alla biotecnologia. I progressi terapeutici nel mondo in genere nascono lì, grazie spesso a ingenti finanziamenti privati. Per certi aspetti però gli Usa sono indietro rispetto alle tendenze prevalenti altrove, Italia compresa, dove da dieci anni si punta ad esempio a ridurre i ricoveri ospedalieri per le malattie acute ed a valorizzare piuttosto l’assistenza domiciliare. Questo deriva dal fatto che, detto in parole semplici, negli Stati Uniti non ci si chiede quali siano i bisogni dei cittadini, ma quali siano le richieste».
Vi siete ispirati a qualche modello esistente? «In realtà non abbiamo inventato molto di nuovo. Il modello americano non è cambiato in quanto tale, ma è stato profondamente corretto. Abbiamo comunque tenuto presenti in particolare due realtà, quella francese e quella canadese, che costituiscono esempi di equilibrio fra due istanze: la copertura universale dell’assistenza e la limitazione dei costi».
Il suo lavoro per il governo americano continua o finisce con l’avvenuta approvazione della riforma? «Il mio contratto aveva durata annuale ed era in scadenza alcune settimane fa. Ma in quel momento la legge era ancora in bilico e mi è stato rinnovato per altri sei mesi».

l’Unità 25.3.10
Fu segretario di tre Papi Il vescovo Magee si dimette per lo scandalo pedofilia
Dimissioni d’alto rango nella Chiesa irlandese per lo scandalo pedofilia. Lascia il vescovo John Magee, segretario particolare sotto tre Papi e maestro di cerimonia in Vaticano: ignorò le denunce di abusi su minori.
di Marina Mastroluca

La lettera del Papa ai cattolici d’Irlanda sulla pedofilia è stata tradotta anche in gaelico, perché il messaggio arrivi a tutti. E a riprova della contrizione delle gerarchie ecclesistiche, ieri sono state accettate le dimissioni del vescovo irlandese della contea di Cloyne, John Magee, responsabile secondo un rapporto pubblicato nel 2008 di aver ignorato le denunce di abusi su minori: un danno che ha generato altre violenze, altri abusi. «Andandomene voglio offrire ancora una volta le mie sincere scuse ad ogni persona abusata da un sacerdote della diocesi di Cloyne durante il mio ministero e in ogni tempo», ha detto ieri Magee, che si era autosospeso già dal 2009 ma che solo questo mese ha chiesto di dimettersi. «Rimarrò a disposizione della Commissione investigativa», ha aggiunto.
UOMO DI PESO IN VATICANO
Dimissioni importanti, quelle di Magee, uomo ben noto in Vaticano, per essere stato segretario particolare sotto tre pontefici, da Paolo VI a Giovanni Paolo II. Con Woytila era rimasto per quattro anni, prima di diventare maestro di cerimonia in Vaticano. Uomo di peso, all’interno della Chiesa. Nell’81 Giovanni Paolo II lo aveva mandato in Irlanda per convincere i detenuti dell’Ira a sospendere lo sciopero della fame, che poi costò la vita a Bobby Sands.
Ma nel maneggiare lo scandalo dei preti pedofili, Magee si era attenuto al principio oggi denunciato del «non chiedere, non dire». Un silenzio colpevole, il suo, e non il solo. Sono quattro i vescovi irlandesi che hanno chiesto di poter lasciare, dopo essere stati travolti dallo scandalo dei preti pedofili. Finora il pontefice ha accettato le dimissioni solo di Magee e del vescovo di Limerick, Donald Brendan Murray. Ma l’ondata di critiche sollevata dal rapporto Murphy investe lo stesso capo della chiesa irlandese, il cardinale Sean Brady, accusato di aver coperto un caso di abusi sessuali nel 1975. Colpevole di silenzio, come Magee, che più volte aveva difeso. Brady ha chiesto più volte scusa, ma nonostante le pressioni non ha pensato di uscire di scena.
COMMISSIONE MERKEL
Scuse reiterate anche in Germania dal cardinale Friedrich Wetter, arcivescovo di Monaco di Baviera e Frisinga negli anni in cui un altro prete, Peter Hullermann, già segnalato per abusi su minori era tornato in servizio, a contatto con altri bambini. «Ho sopravvalutato la capacità di un essere umano di realizzare un cambiamento di personalità ha detto ieri Wetter, assumendosi la responsabilità dell’errore -. La violazione di bambini e ragazzi mi carica di un gravissimo peso».
Il governo tedesco ha deciso di istituire una commissione di esperti, guidata dai ministri di Giustizia, Famiglia e Istruzione, per affrontare le conseguenze dello scandalo che ha travolto anche la Chiesa tedesca. Il nuovo organo dovrà riesaminare la legislazione sui reati sessuali e valutare risarcimenti alle vittime. Ma non potrà riparare al danno di credibilità delle istituzioni cattoliche. Secondo un sondaggio la fiducia dei cattolici tedeschi nel Papa in 6 settimane è scesa dal 62 al 39%.

l’Unità 25.3.10
I mercanti (ancora) nel tempio
risponde Luigi Cancrini

Anziché preoccuparsi di non dare scandalo, non solo con gravi fatti di pedofilia sempre negati o coperti, i signori ecclesiastici intervengono ancora in soccorso alla destra di Berlusconi con la solita lezioncina sull’aborto, platealmente sconsigliando il voto per i candidati della sinistra.
Convinto come sono del fatto che l’etica di un uomo moderno debba fondarsi ancora sulla lettura dei Vangeli e del fatto che la Chiesa come comunità di fedeli è molto più avanti di chi la guida, sento in modo particolarmente acuto (e quasi doloroso) la contraddizione che c’è fra la parola di Gesù e la pratica politica recente del Vaticano. Vicino a coloro che soffrono e alle ragioni della loro sofferenza, Gesù sarebbe stato assai infastidito da un circo come quello di Berlusconi e dai vescovi che con tanto cinismo lo sostengono nelle sue battaglie elettorali: utilizzando, stavolta, il dolore della donna (e dell’uomo) che arriva (arrivano) a ritenere necessario un aborto per attribuire all’uomo di Arcore il ruolo di custode della moralità. Qualcuno arriverà ancora una volta, forse, a scacciare i mercanti dal tempio. Quello di oggi è davvero un momento buio, comunque, per una gerarchia assediata dalle denunce sulla pedofilia e dalle proteste di chi, credente, le chiede conto di questo brutto aiuto elettorale dato, come al tempo del Family Day, a un uomo la cui straripante immoralità è sotto gli occhi di tutti.

Repubblica 25.3.10
Küng attacca Ratzinger: "Sapeva degli abusi"
L´affondo del teologo ribelle. Il Vaticano: "Fa solo marketing"
di Marco Ansaldo

CITTÀ DEL VATICANO - «Ratzinger tenne nascoste informazioni importanti sui casi di abusi sessuali riguardanti i minori nella Chiesa». «Küng? Ha sempre avuto un grande talento nel settore del marketing». Sono scintille fra il pontefice tedesco e il teologo ribelle, un tempo confidenti all´epoca del Concilio Vaticano II, e oggi su fronti opposti dopo che anche un recente tentativo di riconciliazione è andato fallito. Lo scandalo della pedofilia sembra aver ulteriormente scavato un fossato. Già la scorsa settimana Küng aveva invitato Benedetto XVI a recitare il «mea culpa» sugli episodi di violenza. Ieri è tornato alla carica.
«Non c´era nessun altro uomo, in tutta la Chiesa cattolica, che sapeva così tanto sui casi di abusi sessuali - ha detto a un´emittente televisiva svizzera - e certamente ex officio, in virtù della sua carica». Il riferimento, ha precisato Küng, è a una lettera del 18 maggio 2001 inviata dall´allora cardinale Joseph Ratzinger, a quel tempo presidente della Congregazione per la dottrina della fede, ai vescovi di tutta la Chiesa cattolica.
Nella missiva ai presuli, ha spiegato il teologo riformista, veniva chiesto di passare a Ratzinger tutte le informazioni sui casi di abusi sessuali. Quindi il pontefice «non può solo puntare il dito contro i vescovi», ha ancora commentato Küng, sottolineando che «lo stesso» Benedetto XVI «ha dato le istruzioni quando era capo Congregazione della fede e di nuovo come Papa».
La replica è arrivata per voce del cardinale tedesco Paul Josef Cordes, presidente del Pontificio consiglio "´Cor Unum", considerato molto vicino a Benedetto XVI. Già quando, negli anni ‘70, era professore a Tubinga - dove aveva chiamato ad insegnare l´allora giovane Joseph Ratzinger - Küng aveva mostrato di avere «grande talento nel campo del marketing strategico», e di essere «molto abile nel mettere il dito nelle piaghe della Chiesa» ma non nel «curarle». Un giudizio sprezzante, pronunciato in occasione della presentazione del suo libro "Perche´ sacerdote? Risposte attuali con Benedetto XVI", e riportato dall´Osservatore Romano.
Cordes ha ricordato in proposito un libro di Küng del 1971, "Wozu Priester? Eine Hilfe"´ (Preti perché? Un aiuto). Secondo il porporato, il teologo svizzero è in errore nel definire il ruolo del prete solo come «guida della comunità, che a sua volta si articola sotto forma di molteplici ‘funzioni´», trascurando che «il segno distintivo non deriva al presbitero dalla comunità» ma da Cristo, e che «il ministero sacerdotale ha carattere strettamente teocentrico».

l’Unità 25.3.10
Il faccia a faccia si è svolto a porte chiuse. Nessuna conferenza stampa né comunicato finale
GliUsa chiedono spiegazioni sulle case a Gerusalemme Est. Il premier israeliano tira dritto
Niente conferenza stampa congiunta. Nessun comunicato ufficiale. Neanche uno straccio di foto con la classica stretta di mano tra i due protagonisti. Una scenografia della visita decisamente sotto tono.
di Umberto De Giovannangeli

Tra Barack Obama e Benjamin Netanyahu è crisi vera. Politica. E personale. Secondo il giornale The Politico, la Casa Bianca è passata «dalla rabbia al gelido sospetto nei confronti del primo ministro israeliano, che, durante la maratona di incontri con funzionari Usa, ha messo in chiaro che non darà spazio, se non riluttanza, al loro obiettivo di bloccare la costruzione di nuove abitazioni israeliani nel territorio conteso». L'incontro fra Obama e Netanyahu si è svolto a due riprese, entrambe a porte chiuse: non c'erano fotografi e alla fine dell'incontro non è stato emesso nessun comunicato stampa o organizzato un briefing per i giornalisti. Un fatto inusuale secondo quanto scrive anche il Washington Post: «Generalmente da un leader di un qualsiasi Paese alleato ci si aspetta una conferenza congiunta con il presidente al termine dell'incontro o quantomeno una breve seduta per i fotografi. Ma la Casa Bianca non ha nemmeno reso noto un comunicato per riassumere i temi dell'incontro».
L'incontro fra Obama e Netanyahu non è partito nella situazione migliore, dopo che «Bibi» aveva ribadito al suo arrivo a Washington l'intenzione di continuare a costruire a Gerusalemme, «che non è un insediamento, è la nostra capitale». Proprio mentre iniziava l'incontro alla Casa Bianca, la municipalità di Gerusalemme ha approvato l'altro ieri sera un altro progetto per la costruzione di nuovi 20 appartamenti. L'operazione è finanziata dal miliardario ebreo-americano Irving Moskowitz e prevede la costruzione di nuove case al posto dell'hotel Shepherd, che verrà abbattuto. L'estate scorsa gli Stati Uniti avevano chiesto
a Israele di rinunciare al progetto e avevano anche convocato l'ambasciatore israeliano in merito a questa questione. L'annuncio dei venti nuovi alloggi non ha fatto altro che rafforzare la linea dura scelta da Netanyahu per questa sua visita a Washington. Una pozione, quella del premier israeliano, che era già stata anticipata in un intervento all'Aipac (la più importante lobby ebraica d'America). «Gerusalemme non è una colonia, ma la capitale» d'Israele aveva detto -. È dunque del tutto legittimo che vi possano essere insediamenti israeliani a Gerusalemme Est». Poche ore dopo Netanyahu ha rilanciato: «Non dobbiamo rimanere intrappolati in richieste illogiche e irragionevoli». Se la richiesta di congelare totalmente gli insediamenti dovesse persistere, «i colloqui di pace potranno essere ritardati di un altro anno». E che il clima non sia tra i più sereni lo conferma il gelido, formalissimo, commento del portavoce della Casa Bianca, Robert Gibbs: quello avuto l'altro ieri da Obama con Netanyahu è stato un confronto «onesto» e «diretto», dice Gibbs. Onesto e diretto, tradotto dal diplomatichese, un confronto tra visioni diverse, per molti aspetti, opposte.
LE RICHIESTE USA
Al premier israeliano, il presidente Usa ha chiesto «gesti» nei confronti dei palestinesi e di adoperarsi affinché possa essere ristabilita la «fiducia» nel processo di pace in Medio Oriente. A riferirlo è lo stesso Gibbs: il portavoce della Casa Bianca ha aggiunto anche che gli Stati Uniti intendono chiedere «chiarimenti» sui progetti di Israele riguardanti nuovi insediamenti a Gerusalemme Est.
Una fonte israeliana citata dal sito di Haaretz, riferisce che Obama e la segretaria di Stato Hillary Clinton sono insoddisfatti di una lettera inviata loro da Netanyahu, nella quale vengono dettagliati i passi che Israele intende intraprendere per ricucire i rapporti con gli Stati Uniti. La lettera, confida a l'Unità una fonte diplomatica occidentale a Tel Aviv, conterrebbe anche la richiesta di una dichiarazione di «manifesta disponibilità» da parte americana a spostare la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme. Il senso della visita di Netanyahu è il messaggio chiaro di rifiuto. E a chi gli chiede un avvicinamento alla Casa Bianca dice: «Il futuro dello Stato ebraico non può dipendere in alcun modo dalla benevolenza, neanche se fosse dell'uomo più nobile. Israele deve sempre riservarsi il diritto a difendersi». E a costruire a Gerusalemme Est.

l’Unità 25.3.10
Cisgiordania ai raggi x. Cresce lo Stato ombra di Giudea e Samaria
Case private, edifici pubblici, strade e stabilimenti, le colonie sono un bottino da 17,5 miliradi di dollari. Ci vivono 300 mila persone La stampa israeliana: gli insediamenti non si possono fermare
di U.D.G.

Uno Stato «ombra». È lo «Stato ebraico di Giudea e Samaria» (i nomi biblici della Cisgiordania). Uno «Stato» realizzato anno dopo anno, giorno dopo giorno. Uno «Stato» che prende corpo, nelle sue dimensioni, dal documentatissimo rapporto del dottor Rubi Nathanson del «Centro Macro di politica economica». Nathanson ha appena concluso quattro anni di raccolta sistematica di dati sugli insediamenti israeliani. Dati che rendono conto di quanto sia sempre più etereo il principio, evocato da Barack Obama, dall'Unione Europea, dal Quartetto di una pace fondata su «due Stati». Il rapporto Nathanson inchioda tutti ad un'altra verità: due Stati già esistono. Lo Stato (ufficiale) d'Israele e lo Stato (ombra) di Giudea e Samaria.
È di 17,5 miliardi di dollari – stima Nathanson – il valore attuale dell'insieme di case private, edifici pubblici, strade e stabilimenti che si trovano nelle colonie israeliane in Cisgiordania. Cifra che non tiene conto del valore delle case private ed edifici pubblici e religiosi realizzati da Israele a Gerusalemme Est. Nelle colonie sono stati costruiti complessivamente 55.708 alloggi (32.711 appartamenti e 22.997 case private). I circa 300 mila coloni beneficiano inoltre di 868 edifici pubblici, 717 stabilimenti ad uso industriale, 555 scuole e asili nido, 321 installazioni sportive, 271 sinagoghe e 187 centri commerciali. Il 71% dei coloni nella West Bank sono concentrati in 8 insediamenti: Muduin ilit, Bitar ilit, Mahalih adumim, Ar-il, Afahat zahif, Alfi manshi, Afrat e Carni shamrun. Nelle colonie occupate degli ebrei religiosi (Al-haridin), come ad esempio Mudihin ilit e Bitar ilit, la percentuale di residenti è in aumento e arriva a più del 10%. Nemmeno i responsabili di governo disponevano finora di una tale mole di dati di insieme sulle colonie ebraiche in Cisgiordania, rileva il quotidiano Haaretz. «In Cisgiordania non è possibile fermare le nuove costruzionicommenta Shalom Yerushalmi, editorialista di punta del quotidiano Maariv -. Basta fare un giro nella regione per vedere centinaia di unità abitative che vengono costruite ovunque. Netanyahu dà oggi un fondamento a tutto questo, e perfino se egli annunciasse all’assemblea generale delle Nazioni Unite che ridurrà le costruzioni, i coloni troverebbero il modo di aggirare la cosa.
Se i coloni in Cisgiordania dovessero continuare ad aumentare al ritmo attuale rileva Sever Plotzker, analista economico che scrive abitualmente sul quotidiano Yediot Ahronot «il numero di abitanti ebrei al di là della linea verde, che è ormai cancellata dalla coscienza degli israeliani, sarà nel 2025 pari a circa 750.000 persone». Ma anche adesso, con il numero di coloni che si aggira intorno alle 500.000 persone, «le colonie ebraiche nei territori decidono in grande misura il destino di Israele». «Non va poi dimenticato che un numero non trascurabile di ufficiali delle “Forze di Difesa Israeliane” risiede negli insediamenti, e addirittura la stampa israeliana afferma che essi collaborano con i coloni in svariati modi», rileva Asaad Abdel Rahman, scrittore e politico palestinese. «È ormai tempo che il popolo israeliano alzi la propria voce e dica chiaramente al primo ministro ed al suo governo che lo scontro in cui essi sono impegnati con la comunità internazionale, e il deterioramento dei rapporti con gli Stati Uniti, non sono il risultato della volontà di migliorare la situazione e la reputazione di Israele, ma – al contrario – di una miope volontà politica di migliorare la situazione dei coloni e di salvaguardare la stabilità del governo», afferma a sua volta Yariv Oppenheimer, segretario generale di Peace Now.

il Fatto 25.3.10
L’altra guancia presa a schiaffi
Obama ci riprova con Netanyahu ed è ancora scontro
Mentre il premier isrealiano andava alla Casa Bianca, a Gerusalemme davano l’ok a nuove case nei quartieri arabi
di Giampiero Gramaglia

Lo schiaffo al suo vice Joe Biden era stato forte. Ma Barack Obama, da buon cristiano, ha offerto lo stesso l’altra guancia. E Benyamin Netanyahu non ci ha pensato due volte: giù un altro ceffone, questa volta alla Casa Bianca. Così il presidente degli Stati Uniti ha potuto misurare, e far misurare al Mondo, la sua impotenza di fronte al premier israeliano. Ma chi gliel’ha fatto fare a Obama di ricevere Netanyahu, giunto a Washington con atteggiamento di sfida e senza per nulla nasconderlo? Ospite di una organizzazione ebraico-americana oltranzista, il premier era latore di un messaggio forte e chiaro: Gerusalemme non è una colonia, è la capitale di Israele e ci costruiamo quel che ci pare dove ci pare, “l’abbiamo tirata su 3.000 anni or sono e continuiamo a tirarla su ora”. E perché non ci fossero dubbi, proprio mentre Netanyahu arrivava alla Casa Bianca, il municipio di Gerusalemme annunciava l’ok definitivo a 20 nuove case ebraiche in un quartiere arabo, parte di un piano per cento abitazioni. Gli Stati Uniti, che non riconoscono l’annessione a Israele dei quartieri arabi occupati nel 1967, s’oppongono ai programmi edilizi a Gerusalemme Est. Due settimane or sono, l’annuncio di un piano ben più ampio (1.600 nuove case) aveva coinciso con la visita in Israele e nei Territori del vice-presidente Joe Biden, per l’avvio dei “negoziati indiretti” israelo-palestinesi, messi in scacco proprio dalla mossa israeliana. Netanyahu, a Washington, prima di vedere Obama, era stato esplicito: “Se gli americani sostengono le richieste irragionevoli dei palestinesi sul congelamento dell’attività edilizia a Gerusalemme Est, il processo politico rischia di restare bloccato per un anno”. Gli ingredienti per un flop diplomatico c’erano tutti, anche se i contatti preliminari del premier erano stati definiti “franchi” e “produttivi”: una cena con Biden e il consigliere per la Sicurezza Nazionale James Jones, un colloquio in albergo con il segretario di Stato Hillary Clinton. Certo, Obama non è stato caloroso con l’ospite che lo prendeva a sberle. Le fonti israeliane parlano di “buon clima” durante l’incontro, svoltosi in due fasi. Ma molti rilevano il “silenzio assordante” della Casa Bianca: presidente e premier non si sono presentati insieme ai giornalisti neppure per uno scambio di battute, né hanno diramato una dichiarazione congiunta. Solo 12 ore più tardi, il portavoce Robert Gibbs ha fatto sapere che Obama ha chiesto a Netanyahu “gesti” verso i palestinesi e “chiarimenti”, in uno scambio “onesto e diretto”. Il fatto stesso che il colloquio, incerto fino all’ultimo, abbia avuto un carattere privato è un segnale di freddezza deliberato, anche se l’incontro è stato lungo e articolato: due ore a porte chiuse, un’ora di pausa perché Netanyahu consultasse il suo staff, quindi un’altra mezz’ora abbondante quattrocchi nello Studio Ovale. L’esito del colloquio e il gelo conseguente sono segnali d’impotenza degli Usa verso Israele, che non frena davanti alla crisi dei rapporti con il suo unico e vero alleato strategico e neppure davanti agli screzi con altri Paesi amici, come la Gran Bretagna, dopo che il governo di Londra ha espulso il capo del Mossad nel Regno Unito per la falsificazione di passaporti britannici. Obama chiama alcuni leader europei (non Silvio Berlusconi), vede il mediatore Usa George Mitchell. Stati Uniti e Israele continuano a parlarsi, in queste ore, a livello di diplomatici e alti funzionari. Ma l’intesa non c’è e la capacità di Obama di smuovere Netanyahu neppure. E gli Stati Uniti non hanno neppure, in questa fase, la piena fiducia dei Paesi arabi: l’Arabia Saudita chiede al Quartetto (Onu, Ue, Usa e Russia) “spiegazioni” sulla posizione di Israele e le dichiarazioni del premier. Da oggi, Ban Ki-moon, segretario generale delle Nazioni Unite, s’appresta a partecipare in Libia a un Vertice della Lega araba. Gli israeliani presentano i contrasti come “dissensi fra amici”, mentre la stampa Usa afferma che la Casa Bianca è passata “dalla rabbia” do-
po lo schiaffo a Biden “al gelido sospetto”. Ma Washington non vuole rompere: Obama insiste sul rapporto speciale tra Stati Uniti e “popolo israeliano”. E Nancy Pelosi, speaker della Camera, un’eroina dopo il varo della riforma della sanità, ribadisce “un’amicizia” fondata su valori comuni: “Noi siamo al fianco di Israele”.

il Fatto 25.3.10
Astensioni, il grande bacino
Le elezioni francesi svelano che oggi si vince o si perde non nascondendo la propria identità.
Il camaleontismo che impone l’accantonamento della tradizione, produce solo sconfitte in serie
di Pierfranco Pelizzetti

Tra le varie letture prescrittive delle elezioni regionali francesi (la sinistra ha vinto perché ha ben governato o non ha bisticciato), qui se ne avanza una un po’ diversa: sono l’ennesima smentita delle analisi in materia di flussi del consenso dominanti negli ultimi decenni, soprattutto nelle strategie della sinistra. Che le hanno arrecato danni irreparabili; soprattutto in Italia. Ossia la tesi peregrina di un “modello idraulico totale”, per cui si vincerebbero i confronti elettorali semplicemente sottraendo elettori allo schieramento contrapposto; grazie al riposizionamento “centripeto” della propria immagine di soggetto politico, a prescindere da coerenza, rigore e contenuti.
Puro camaleontismo che ha imposto l’accantonamento dei tratti identitari più significativi e riconoscibili a vantaggio di una indistinguibile genericità. La chiamano “conquista del centro”. Strategia con un corollario altrettanto per icoloso: nell’eclisse delle ideologie si conquisterebbe l’elettorato con la fantomatica “buona amministrazione” purchessia (riparare i marciapiedi? Aggiungere un cassonetto della spazzatura?), magari “creativa” (le inflazionate “notti bianche”?). Il fatto è che i margini di manovra operativa della politica in materia gestionale sono pressoché inesistenti. E non è certo un marciapiede riparato (ovviamente, va riparato) a spostare consensi in una situazione altamente polarizzata quale quella in cui ci troviamo. Semmai tale risultato si potrebbe ottenere offrendo cornici mobilitanti di senso e significato. Ma questo è un altro discorso. Del resto, la strategia del camaleonte non ha funzionato bene in Germania con la “sinistra al cachemire” di Gerhard Schröder, nell’Esagono ha portato poca fortuna ai camuffamenti para-gollisti di Ségolène Royal. Però si diceva: c’è Tony Blair e il suo New Labour in Gran Bretagna... Cosa succederà in quel d’Albione staremo a vedere alla prossima puntata elettorale. Tuttavia, quanto appare certo è che certe magie ormai non funzionano più neanche oltre Manica. Comunque la ricetta dello scippo a Destra, da parte di una Sinistra alla Zelig, in Italia sconta il dato ulteriore che qui c’è Berlusconi e i mimetismi centristi hanno comportato la totale sottomissione alla volontà di potenza del Cavaliere, al suo strapotere mediatico. Per cui si è avvalorata la tesi demenziale che l’antiberlusconismo favorirebbe il berlusconismo, che il concedere all’avversario terreno di manovra e qualsivoglia pretesa (anche la più umiliante) sarebbe il massimo dell’astuzia politica. Cedevolezza che ha prodotto disaffezione e rifiuto nell’elettorato di sinistra; ha dimostrato che i presunti adepti del marketing politico sono degli sprovveduti in materia. Cosa dice la teoria dell’orientamento al
cliente nei periodi di stanca del mercato (in politica, quando gli schieramenti sono bloccati nel reciproco rifiuto)? Spiega che il primo obiettivo deve essere il mantenimento della clientela “captive” (quella che i marchettari chiamano “fidelizzata”). Invece le teste lucide della Sinistra hanno fatto l’esatto opposto: smettere di fidelizzare i propri “clienti” per inseguire quelli altrui. Risultato: nessuno sfondamento a destra, contestuale crescita dell’astensionismo a sinistra. Con riprova anche a destra, come in Francia; dove l’elettorato ha mollato Sarkozy non per la Gauche ma per Le Pen o l’astensione. Buon senso imporrebbe l’accantonamento del “modello idraulico” per impegnarsi a promuovere il flusso dal non voto al voto dei potenziali “propri”, offrendo loro connotati nitidi e comportamenti conseguenti. Insomma, oggi si vince o si perde nella misura in cui si riesce o meno a sgelare quel voto in ghiacciaia che in teoria già sarebbe proprio. Sempre lo si sappia rimotivare. Resta ancora un dubbio: come mai tante teste finissime quali quelle a sinistra non si rendono conto di una così palese ovvietà? Forse l’unica risposta plausibile è psicologica: non possono fare diversamente. Insomma, i personaggi cresciuti nelle penombre della politica politicante risultano geneticamente inadatti a un confronto politico affrontato a muso duro. Visto che i loro file mentali sono stati programmati solo per piccoli tatticismi e grandi “inciuci”. Per questo ha ragione da vendere chi un giorno esclamò in piazza Navona: “Con questi dirigenti non vinceremo mai”. Ma anche con questi consigliori delle tesi idrauliche più balorde. A cui si abbeverano politici non interessati a vincere, quanto a restare personalmente in sella.

l’Unità 25.3.10
Il maestro a Roma: «Ho lanciato l’idea di far nascere in Italia il “sistema Abreu”»
La politica «Al nostro governo non interessa la cultura. Non viene diffusa ai cittadini»
La musica a tutti i bambini L’ultimo progetto di Abbado
di Luca Del Fra

«Ho lanciato l’idea di far nascere il “sistema Abreu” in Italia per far studiare la musica ai bambini, e la cosa sta procedendo...», «Il Nastro bianco di Haneke mi ha talmente colpito che faremo insieme a lui la Lulu di Berg a Salisburgo...», «Mai avuto preconcetti contro la televisione e Fabio Fazio mi mette a mio agio...», «Nel nostro paese mancano politici che abbiano un vero progetto culturale...», «Gli alberi a Milano? Mi arrivano tutti i giorni notizie contraddittorie...»: è un Claudio Abbado a 360 ̊ quello incontrato a ieri Roma, in forma smagliante per i suoi tre concerti con l’Orchestra Mozart all’Auditorium della capitale nella stagione di Santa Cecilia.
Una lunga carriera caratterizzata dalla capacità d’inventare progetti quella di Abbado, che oggi guarda al futuro: «Ho lanciato l’idea di far nascere il “sistema Abreu” in Italia esordisce -, e ho avuto riscontri positivi da molte persone e istituzioni». Si tratta del modello didattico nato in Venezuela per far studiare la musica ai ragazzi di tutti i ceti sociali: «Con una particolare attenzione alle classi disagiate insiste Abbado -, ai ragazzi che hanno problemi e perfino trascorsi criminali, e che grazie alla musica trovano una strada per il reinserimento nella società. Una caratteristica da mantenere anche qui da noi, assolutamente». Si tratta nella sostanza di una rete di scuole piccole e grandi, estesa su tutto il Venezuela, e che oltre a provvedere alla alfabetizzazione musicale di milioni di ragazzi ha fatto nascere parecchie orchestre su tutto il territorio. I musicisti migliori passano a far parte della Simon Bolívar, una compagine oramai affermata a livello mondiale assieme al suo direttore musicale Gustavo Dudamel, ma che ospita regolarmente bacchette come quella di Abbado, Daniel Barenboim e Simon Rattle. In un paese come il nostro, dove si tagliano sempre di più le risorse destinate alla cultura, potrà decollare un simile progetto che coinvolgerebbe centinaia, forse migliaia di persone: «Proprio per la disattenzione del governo alla musica, abbiamo pensato di partire dalle regioni che, al contrario, dovrebbero essere interessate. Naturalmente in alcune i risultati tangibili saranno più immediati». Presto ci sarà un convegno, dove si riuniranno i responsabili delle varie regioni italiane per fare il punto della situazione.
«L’Italia è il paese europeo che a mio parere possiede la più grande cultura riflette il musicista -, tuttavia negli ultimi cento anni non è stata diffusa sufficientemente ai nostri concittadini. In tempi recenti poi sono mancate figure di politici di alto profilo in grado di promuovere una vera politica culturale. Penso al francese Jacques Delors».
Il prossimo giugno dopo 24 anni Abbado tornerà a dirigere in pubblico l’orchestra della Scala di Milano, un primo incontro con la compagine di cui è stato direttore musicale fino al 1986 si è svolto nella trasmissione Che tempo che fa: come ha trovato i musicisti? «Li ho trovati bene risponde con un sorriso lievemente ironico -, bravi, simpatici tutti nuovi. Uno si è avvicinato per dirmi: “Sono il figlio di Lanfranchini, si ricorda...”. Il padre era violoncellista nell’orchestra quando ero alla Scala. Mi fa piacere tornare a suonare a Milano, è la mia città. E mi pare che con Stéphan Lissner alla Scala sia tornata quell’attenzione verso i giovani, che è iniziata con Paolo Grassi alla fine degli anni ‘60». Per suonare nella stagione della Filarmonica scaligera Abbado invece del compenso ha chiesto che venissero piantati 90 mila alberi a Milano, condizione subito accettata, ma poi sono iniziati i problemi: «Ogni giorno arrivano notizie contradditorie, e il progetto di piantarli a terra invece che in vasi sta incontrando complicazioni, tuttavia procede. Molti saranno messi in periferia, ma ho chiesto che almeno uno andasse al centro, a Piazza Dante».
Da sempre interessato alla cultura del mondo di lingua tedesca «In questi giorni sto leggendo Herztier di Herta Müller spiega il cui titolo in italiano è stato tradotto malissimo in Il paese delle prugne verdi, quando significherebbe “Cuore d’animale”», ed è rimasto molto colpito da Il nastro bianco: «Un film straordinario quello di Michael Haneke, che come Müller e Roberto Saviano ha la capacità di mostrare delle verità nascoste e scomode. Mi sono incontrato con il regista austriaco e abbiamo deciso di fare insieme la Lulu di Berg a Salisburgo nel 2012».
Con l’Orchestra Mozart Abbado ha creato uno stile particolare per interpretare il repertorio del Settecento: «Credo che non si possa eseguire la musica barocca come 50 anni fa, senza tenere conto delle innovazioni della prassi musicale antica. Vale per Pergolesi ma anche per Mozart, perché è giusto chiedersi se fosse anche un musicista barocco». Presto Abbado tornerà ospite a Che tempo che fa: «Fazio fa una trasmissione particolare e poi fa sentire a proprio agio le persone: non ho mai avuto alcun preconcetto nei confronti della televisione e dunque ci vado volentieri». Semmai è stata la televisione ad avere preconcetti verso la musica e i musicisti colti.

Repubblica 25.3.10
Zizek: la sinistra nel XXI secolo
Il nuovo libro del filosofo e le tesi di Fukuyama
Il collasso finanziario ha segnato la fine dell´utopia liberista
Bisogna imparare dagli errori compiuti e riprendere il lavoro critico
di Slavoj Zizek

Anticipiamo un brano tratto dal nuovo libro di Zizek "Dalla tragedia alla farsa. Ideologia della crisi e superamento del capitalismo" edito da Ponte alle Grazie in libreria in questi giorni
Dodici anni prima dell´11 settembre, il 9 novembre del 1989, è caduto il Muro di Berlino. Questo evento sembrò annunciare l´inizio dei «felici anni Novanta», l´utopia di Francis Fukuyama della «fine della storia», la fede che la democrazia liberale avesse vinto in linea di principio, che l´avvento di una comunità liberale globale stesse aspettando appena dietro l´angolo, e che l´ostacolo a questo lieto fine hollywoodiano fosse meramente empirico e contingente (sacche locali di resistenza i cui leader non avevano ancora colto che il loro tempo era finito). L´11 settembre, invece, ha simboleggiato la fine del periodo clintoniano e avviato un´era in cui nuovi muri sembrano emergere dappertutto: tra Israele e Cisgiordania, lungo il confine messicano, ma anche all´interno degli stessi stati-nazione.
In un articolo su Newsweek, Emily Flynn Vencat e Ginanne Brownell riferiscono come oggi, «il fenomeno del "per soli membri" si sta espandendo fino a diventare un intero modus vivendi, includendo ogni cosa, dalle condizioni bancarie private alle cliniche sanitarie solo su invito (...), coloro che hanno i soldi stanno progressivamente rinchiudendo la loro intera vita dietro portoni sbarrati. Piuttosto che partecipare a grandi eventi mediatici, organizzano concerti privati, sfilate di moda ed esposizioni d´arte a casa propria. Vanno a fare shopping after-hours e la classe e la disponibilità economica dei loro vicini (e potenziali amici) viene rigorosamente controllata».
Una nuova classe globale sta così emergendo «con, ad esempio, un passaporto indiano, un castello in Scozia, un pied-à-terre a Manhattan e un´isola privata ai Caraibi». Il paradosso è che i membri di questa classe globale «cenano in privato, fanno shopping in privato, fruiscono arte in privato, ogni cosa è privata, privata, privata». Si stanno creando un ambiente vitale proprio per risolvere il proprio angoscioso dilemma ermeneutico; come afferma Todd Mullay: «le famiglie ricche non possono "iniziare a fare inviti alla gente e aspettarsi che questa capisca cosa voglia dire avere 300 milioni di dollari"».
Allora quali sono i loro contatti con il mondo esterno? Sono di due tipi: affari e beneficenza (protezione dell´ambiente, lotta contro le malattie, mecenatismo ecc.). Questi cittadini globali vivono la loro vita per lo più nella natura incontaminata - facendo trekking in Patagonia o nuotando nell´acqua trasparente delle loro isole private. Non si può fare a meno di notare che una delle caratteristiche di fondo dell´atteggiamento di questi ultraricchi che vivono nelle loro torri d´avorio è la paura: paura della vita sociale esterna in sé. Le priorità maggiori degli ultrahigh-net-worth individuals sono quindi di minimizzare i rischi di sicurezza - malattie, esposizione alle minacce di crimine violento, e così via.
Nella Cina contemporanea, il nuovo ricco si è costruito delle comunità isolate modellate sull´immagine idealizzata delle «tipiche» città occidentali; vicino a Shanghai, ad esempio, esiste una replica «reale» di una piccola cittadina inglese, compresa una via principale con pub, una chiesa anglicana, un supermercato Sainsbury ecc.: l´intera area è isolata da ciò che la circonda da una cupola invisibile, ma non meno reale. Non esiste più una gerarchia tra gruppi sociali che vivono nella stessa nazione, coloro che risiedono in questa città vivono in un universo per il quale, all´interno del suo immaginario ideologico, il mondo circostante di «classe inferiore» semplicemente non esiste. Questi «cittadini globali» che vivono in aree isolate, non rappresentano forse il vero polo opposto di coloro che vivono negli slum e delle altre «macchie bianche» della sfera pubblica? In effetti essi rappresentano le due facce della stessa medaglia, i due estremi della nuova divisione di classe.
La città che incarna meglio questa divisione è San Paolo, nel Brasile di Lula, che ospita 250 eliporti nell´area del suo centro città. Per isolarsi dal pericolo di mescolarsi con la gente ordinaria, il ricco di San Paolo preferisce usare gli elicotteri, sicché, dando uno sguardo all´orizzonte della città, ci si sente veramente come se ci si trovasse in una megalopoli futurista del genere descritto in film come Blade Runner o Il quinto elemento, con la gente comune che sciama per strade pericolose in basso, mentre il ricco volteggia in giro a un livello più alto, nell´aria.
Sembra così che l´utopia degli anni Novanta di Fukuyama debba morire due volte, dal momento che il crollo dell´utopia politica liberal-democratica dell´11 settembre non ha colpito l´utopia economica del mercato capitalista globale; se il collasso finanziario del 2008 ha un significato storico, allora, è come segno della fine della faccia economica del sogno di Fukuyama. Il che ci riporta alla parafrasi marxiana di Hegel: bisogna ricordare che, nella sua introduzione a una nuova edizione del Diciotto Brumaio negli anni Sessanta, Herbert Marcuse aggiunse un ulteriore giro di vite: a volte, la ripetizione in guisa di farsa può essere più terrificante della tragedia originale.
In un famoso scontro all´università di Salamanca nel 1936, Miguel de Unamuno lanciò una frecciata ai franchisti: Venceréis, pero no convenceréis («Vincerete, ma non convincerete»). È tutto qui quello che oggi la sinistra può dire al capitalismo globale trionfante? La sinistra è predestinata a continuare a giocare il ruolo di coloro che, al contrario, convincono ma nondimeno continuano a perdere (e sono particolarmente convincenti nello spiegare retroattivamente le ragioni del proprio fallimento)? Il nostro compito è scoprire come fare un passo in avanti. La nostra undicesima tesi dovrebbe essere: nelle nostre società, la sinistra critica finora è riuscita solo a sporcare coloro che stanno al potere, mentre il punto reale è castrarli...
Ma come possiamo riuscirci? È necessario imparare dai fallimenti della politica della sinistra nel ventesimo secolo. Il compito non è praticare la castrazione nell´apice di uno scontro diretto, ma minare coloro che stanno al potere con un lavoro ideologico-critico paziente, in modo tale che, sebbene siano ancora al potere, ci si accorga improvvisamente che i potenti si ritrovano a parlare con voci innaturalmente acute. Negli anni Sessanta, Lacan chiamò il periodico della sua scuola, che fu pubblicato in maniera irregolare per un breve periodo, Scilicet. Il messaggio non era il significato oggi predominante della parola («cioè», «ossia», «vale a dire»), ma letteralmente: «è permesso sapere». (Sapere cosa? Ciò che la Scuola freudiana di Parigi pensa dell´inconscio...) Oggi, il nostro messaggio dovrebbe essere lo stesso: è permesso sapere e impegnarsi pienamente nel comunismo, agire nuovamente in piena fedeltà all´idea comunista. La permissività liberale è dell´ordine del videlicet - è permesso vedere - ma la fascinazione per l´oscenità che ci è consentito osservare ci impedisce di sapere cos´è ciò che vediamo.
Morale della storia: il tempo del ricatto moralistico liberal-democratico è finito. Non dobbiamo più continuare a giustificarci; mentre loro farebbero meglio a iniziare a farlo presto.

Repubblica 25.3.10
Il pericolo di affidarsi alle emozioni
Quando vince l’irrazionale
di Umberto Galimberti

Il consenso dovrebbe fondarsi sull´argomentazione la competenza, il dubbio e il dialogo. Se invece dipende dalla fascinazione della parola e della retorica, allora diventa acritico e incondizionato

Amore e odio sono sentimenti, e come tali appartengono alla dimensione pre-razionale e non di rado irrazionale dell´uomo. Prima di giungere all´età della ragione i bambini amano e odiano e, dopo aver raggiunto l´età della ragione, capita a ciascuno di noi di amare e di odiare senza un valido sostegno della ragione, che a quel punto risulta offuscata e impotente a governare pensieri e condotte.
Platone, per inaugurare la democrazia nella sua città ideale, riteneva che dovessero essere allontanati retori e sofisti, perché costoro, per ottenere consenso, ricorrevano non a solidi argomenti, ma alla mozione degli affetti e alla cattura dell´anima attraverso la fascinazione della parola. Lo dice con chiarezza il sofista Gorgia: «I divini incantesimi compiuti con le parole possiedono una potenza che blandisce l´anima, persuadendola e trascinandola con il loro fascino» (Elogio di Elena § 14). E Platone, consapevole di questo rischio, ammonisce il giovane che entra nella vita pubblica con queste parole: «Salirai la torre più elevata per il sentiero della Giustizia (Dike) o della Seduzione ingannevole (Apate) perché lì ti perda e passi la tua vita?» (Repubblica, 365 b).
A differenza della ragione, i sentimenti di amore e di odio, suscitati dalla fascinazione della parola e dal suo potere seduttivo, non ospitano l´argomentazione, il dubbio, la critica, il dialogo, la mediazione, che sono figure essenziali della buona politica, ma, in modo acritico, aderiscono incondizionatamente a chi è stato in grado di provocarli e di far leva su di loro per ottenere un consenso che, proprio perché è acritico, è incondizionato. I ragionamenti non servono, come non servono le prove dell´esistenza di Dio a chi non crede, o le prove della sua inesistenza a chi crede. Basta la parola, la parola persuasiva pronunciata da chi ha carisma.
In politica le figure carismatiche conoscono il potere della parola e la sua efficacia persuasiva, che è tale perché non ha bisogno di interloquire con le figure della ragione, essendo in presa diretta con lo scatenamento delle passioni, la cui adesione al dettato ipnotico della parola carismatica è incondizionato.
Quando si affida a personalità carismatiche, la politica è già scesa di livello, perché produce consenso o dissenso non su base razionale, ma su base emotiva. E quanti non hanno una sufficiente conoscenza dei fatti, o abbastanza dimestichezza con le questioni di cui si discute, diventano sensibili ai fattori emozionali che il potere carismatico sfrutta, quando addirittura non alimenta con l´incuria, ad esempio, per i percorsi formativi, di cui la scuola e non la televisione dovrebbe essere il luogo e l´ambiente.
Un potere che si regge su basi emotive è un potere che regredisce alla logica primitiva dell´amico/nemico, da cui la cultura occidentale ha cercato di emanciparsi proprio attraverso la politica, intesa come gestione razionale di interessi contrastanti e non come tifoseria da stadio, dove l´amore per la propria squadra e l´odio per l´avversario sono impermeabili a qualsiasi giudizio critico.
Se la democrazia funziona per argomenti, competenze, scelte ponderate, obiezioni critiche, un potere che si regge su basi emotive è molto pericoloso, perché ha già oltrepassato la linea di demarcazione della democrazia. Prima di questa linea, a un livello di primitivismo antropologico, ci sono i carismi, le fascinazioni, le seduzioni, i plagi, ci sono le adorazioni, gli odi e gli amori. Ed è una vera oscenità che anche la parola "amore", su cui si regge la vicenda umana, debba essere anch´essa strumentalizzata per fini politici.