giovedì 1 aprile 2010

l’Unità 1.4.10
Bonino: «Bersani è stato leale con me. Altri, nel Pd, no»
Conferenza post-voto della candidata dei Radicali nel Lazio Che attacca: «Rosy Bindi e i cattolici non hanno apprezzato la mia scelta. E credo non si siano impegnati più di tanto»

Mi auguro per il bene di tutti che non finisca qua, per me è stata una esperienza appassionante... Certo immagino che nel Pd quelli che apertamente hanno detto che non erano d’accordo con la mia candidatura, da Rosi Bindi a Castagnetti, non si siano impegnati più di tanto per coerenza», si sfoga Emma Bonino, appena terminata la conferenza stampa. Il bilancio della sua corsa su Renata Polverini nel Lazio ha voluto farlo nella sede del partito radicale, accanto a Pannella. Un ritorno nel fortino, dopo una campagna elettorale in mare aperto con il Pd. Certo c’è stato chi ha remato contro, risponde. Non D’Alema, assicura. «L’impegno di Bersani e della sua area è stato deciso». Ma tutto questo è un «corollario», assicura lei. E anche l’analisi del voto la lascia ad altri. «A chi pensa di conoscere il paese e uno tsunami come l’astensione che si è abbattuta su queste elezioni non l’ha nemmeno visto arrivare...», annota con amarezza. Altro che analisi: «Come se queste fossero state elezioni normali o nel rispetto delle regole». Ecco: «Almeno spero che la percezione che legalità e diritto non esistano più (e non solo sul processo elettorale) continui a diffondersi». Qualcuno dice che doveva andare di più in provincia. «Di visite ai mercati non me ne sono risparmiata una, ma non è lì che ci si gioca la partita quando poi arriva Berlusconi e occupa tutti i tg». Ecco quello è il «bubbone». Berlusconi che «come Paolini», dice Pannella, nell’ultima settimana di campagna elettorale spunta dappertutto. E poi l’uno-due tra il premier e Bagnasco sul voto cattolico. «Quando hai quella Santabarbara senza nemmeno il diritto di replica puoi anche andare ad abitare a Roccacannuccia, non riesci a cambiare nulla... Non so più in che lingua dirlo, lo avevamo visto in Sardegna, se non si capisce questo, Berlusconi nel 2013 arriverà a far eleggere pure un cavallo», ripete Emma. Rai, quello resta il terreno di confronto-scontro con il Pd. «Se l’occupazione dei tg da parte di Berlusconi era così grave come tutti andavamo dicendo, dovevamo occupare la Rai, deputati e senatori del Pd, non solo noi radicali, finché non arriveremo a questa non violenza organizzata per raddrizzare il servizio pubblico televisivo siamo votati a prossime disgrazie...». Quella è la sua futura battaglia. E il Lazio? «Voglio fare una opposizione molto dura alla Polverini e a questo governo, rimane da decidere dove e come, di solito ho una certa creatività».

Repubblica 1.4.10
La candidata sconfitta nel Lazio: il mio avversario è stato l´asse premier-Cei, non la Polverini
"Non tutti leali come Pier Luigi" la Bonino accusa anche Bagnasco
"Nel Pd alcuni non erano entusiasti di me. E queste persone non si sono spese molto"
di Alessandra Longo

ROMA - «Contro di me non avevo Renata Polverini ma tutt´altro: avevo l´alleanza Bagnasco-Berlusconi a reti unificate. Per carità, un´alleanza del tutto legittima se uno avesse potuto rispondere, se ci fosse stata la possibilità di un contradditorio». Smontata la sede del comitato elettorale, metabolizzata con un giorno di silenzio la sconfitta, Emma Bonino affronta a fianco di Marco Pannella una conferenza stampa per ragionare su che cosa non ha funzionato. E´ pallida, con ancora i segni della fatica, anche ben intenzionata a distinguere i cattivi dai buoni: «Parte del Pd non mi ha sostenuta. Bersani sì». Marco è abbronzato, tonico, quasi allegro, e la fa sobbalzare quando batte i pugni sul tavolo nella sede dei radicali: «Per far fuori Emma e tirare la volata alla candidata di Ballarò – tuona Pannella - si sono mosse le istituzioni, si sono mossi il presidente del Consiglio e il Vaticano».
Frange di Pd anemiche nella lotta e, soprattutto, un´informazione «a senso unico», senza facoltà di replica, con il premier omnipresente sul video, caso unico in Europa («Come se negli altri Paesi, per le Regionali, intervenissero Gordon Brown, Sarkozy o il Papa...»). Altro che le analisi «tradizionali» sui flussi dei voti, sul rapporto metropoli-territorio. La Bonino sventola i dati, elaborati dal partito, che certificano lo strapotere mediatico del Pdl e del suo Capo: «Con questa Santabarbara tivù puoi anche andare a Rocca Cannuccia e abitarci per tutta la campagna elettorale ma non serve a nulla». Eccoli i numeri. Dopo il primo marzo, Emma la radicale non ha avuto neanche un secondo di presenza sul Tg 1, 34 secondi sul Tg 2 e 40 secondi sul Tg3. Nel periodo 21-26 marzo, durante il rush finale di Berlusconi («o noi o loro»), integrato, «con sapiente tempistica», dall´intervento del presidente della Cei, il centrodestra ha potuto contare sul 62 per cento degli interventi in voce nelle edizioni principali del Tg1 (contro il 17 per cento al Pd). A seguire un 58 per cento al Pdl sul Tg2 (21,8 per il Pd); e un 52 per cento di Pdl sul Tg3 (contro il 24,5 per cento al Pd). Percentuali bulgare di centrodestra nei Tg Mediaset, tanto per dirne una l´86 per cento di interventi in voce filo-governativi a Studio Aperto (il 13,8 concesso al Pd ). Va da sé, la lista Bonino-Pannella era presente sul Tg1 con l´1,7 per cento.
Un intero processo elettorale e preelettorale «totalmente illegale», dall´autentica delle firme, non garantita dai Comuni, «al servizio pubblico Rai che ha violato», denuncia fredda Emma Bonino, «quel regolamento da noi proposto che prevedeva i faccia a faccia in prima serata». In più anche un pezzo di Pd che «non si è entusiasticamente adoperato» per la vittoria finale: «Che ci fossero parti del partito che non erano soddisfatte della mia candidatura era noto e non lo hanno mai nascosto. Evidentemente queste persone non si sono spese molto». Al contrario, per «Pierluigi Bersani e il suo gruppo» (lo chiama così, ndr), calde parole di riconoscenza: «Il loro è stato un impegno deciso, determinato, generoso». Anche una notazione antropologica: «Dopo aver visto le altre organizzazioni politiche ho l´impressione che i più normali siamo noi».
Un rapporto da salvare, quello con il Pd (Marco Pannella "minaccia" addirittura di prendersi la tessera «se si darà forza e ufficialità alla linea del segretario»). A patto che l´impegno prioritario, «il tema di confronto principale», sia sui tre pilastri che tengono insieme un Paese: «democrazia, legalità, stato di diritto». La Bonino è preoccupata che ci si dimentichi di questi temi, «senza i quali ogni riforma, anche la migliore, rischia di fallire»: «Erano al centro della mia campagna elettorale ma sono già spariti dall´agenda politica. Lo considero un fatto clamoroso». Pentita di qualcosa? Si accende una sigaretta e scuote la testa: «Ho fatto tutto quello che potevo, dai mercati ai quartieri, ai giri nella provincia laziale. No, non mi sono risparmiata».

Repubblica Roma 1.4.10
"Il voto lo dimostra, Roma vuole cambiare"
La Bonino dopo la sconfitta alle Regionali: mi occuperò comunque del Lazio
Il suo seggio sarà ceduto al primo degli esclusi della lista, Rocco Berardo
di Chiara Righetti

Indossa ancora il fucsia, ma non più la sciarpa gialla che l´ha accompagnata nella battaglia elettorale. Nella prima uscita ufficiale dopo la sconfitta, Emma Bonino veste di nuovo i panni dei Radicali e al fianco non ha esponenti Pd ma Marco Pannella. Ai giornalisti offre una paginetta di numeri. E esprime il rammarico «che tutti i temi della nostra campagna, democrazia, legalità, stato di diritto, siano già spariti perfino dalle analisi elettorali». Le tabelle mostrano la presenza dei partiti nei principali telegiornali e talk show: una prevalenza schiacciante del premier e del suo partito soprattutto nell´ultimo mese di campagna al veleno.
Così davanti a chi le chiede ragione della sconfitta la Bonino si limita a sventolare quel foglio che parla chiaro. Il motivo è solo questo? «Prioritariamente questo. Basta vedere i dati: a un certo punto non avevo più di fronte la Polverini, ma tutt´altro. Un´alleanza Bagnasco-Berlusconi: chi altro doveva scendere in campo? Alleanza anche legittima se uno avesse potuto rispondere. Invece è stata a senso unico, senza contraddittorio». Poi certo «seguo il dibattito interno al Pd, conosco la situazione di Latina, Fondi, che penso stia avanzando lungo il litorale. Ma «per quanto mi riguarda, il problema non è che non ho visitato i mercati, le province - che comunque ho visitato. Quando hai di fronte una tale Santabarbara, a Rocca Cannuccia ci puoi anche andare ad abitare, ma non cambia niente».
Quanto al fatto che interi settori del Pd non fossero entusiasti di lei «non è una novità, e mi pare non l´abbiano mai nascosto. Certo chi non era d´accordo con la mia candidatura immagino non si sia speso molto. L´impegno del gruppo Bersani è stato deciso e generoso. E col mio comitato elettorale ho lavorato in modo intenso, scoprendo anche la forte militanza di quei compagni, una straordinaria famiglia politica». Insomma, il teorema dei dissapori coi democratici lo smentisce vigorosamente: «Non ho mai detto che mi avevano lasciata sola. Però all´estero, se si vota per i Laender, mica si mobilitano Sarkozy, Gordon Brown... Di che parliamo? Poi certo nel Pd possono strapparsi le vesti sui temi locali, ma è stato questo il problema. Per parte mia credo di aver fatto una campagna elettorale intensa e vigorosa, ma è solo un corollario».
E il voto di Roma, che l´aveva scelta, in 17 municipi su 19? «La mobilitazione delle gerarchie ecclesiastiche qui ha meno presa, credo ne abbia di più nei paesini di provincia, dove il controllo è più forte. Quello che io definisco l´evergreen del voto cattolico non credo conti granché, ma è vero che c´è stata una mobilitazione mirata e a tempo». Il risultato nella capitale è «comunque lusinghiero, un patrimonio da non disperdere, segno di una capitale che col suo voto mostra di cercare un´aria e una politica diverse».
Adesso una sola certezza: «Mi occuperò comunque del Lazio». Come? «Le nostre capacità inventive sono infinite». Sarà lei dunque a guidare l´opposizione dai banchi della Pisana? Il seggio conquistato con oltre 10mila preferenze nelle file della lista che porta il suo nome sarà ceduto, subito dopo la proclamazione, al primo degli esclusi, Rocco Berardo. E l´altro, quello che le spetta di diritto come candidata governatrice sconfitta? Emma non risponde, ma non intende occuparlo, trapela dal suo entourage. Perché i ruoli di rilievo nazionale che già ricopre offrono strumenti migliori anche per fare opposizione in Regione, per parlare dei temi quotidiani di un milione e 300mila cittadini che hanno votato per lei.

Repubblica Roma 1.4.10
L’astrofisica eletta con 7205 voti. "Mi auguro che da ex sindacalista si ricordi dei problemi della gente"
Hack, un boom di consensi a sinistra "Polverini ignori la destra arrogante"
di Cecilia Gentile

Emergenza abitativa, case a prezzi ragionevoli, scuola, sanità e salute, ricerca scientifica, sempre trascurata
Sta affogando, è inadeguata, ogni volta si divide quindi perde Dovrebbe essere unita, dall´Idv a Rifondazione

Un boom di consensi. L´astrofisica Margherita Hack, capolista nel Lazio della Federazione della sinistra (Rifondazione, Comunisti Italiani e Sinistra Europea) è stata eletta con 7205 voti.
Se l´aspettava, professoressa?
«Un po´ sì, perché quando tengo le conferenze sento che la gente mi vuole bene».
Il suo è stato un grande successo personale, ma la sinistra ha perso.
«La sinistra sta affogando. È uno schieramento diviso al suo interno, inadeguato. Si divide sempre, quindi perde. Invece ci dovrebbe essere unità, dall´Italia dei Valori fino a Rifondazione».
L´hanno convinta i programmi del centrosinistra alle regionali del Lazio?
«Di programmi se ne è parlato abbastanza poco. Tutti dicono le stesse cose, poi i programmi bisogna realizzarli».
Quali sono, a suo parere, le priorità da affrontare?
«L´emergenza abitativa, la casa a prezzi ragionevoli, la sanità e la salute, la scuola, la ricerca, che è totalmente dimenticata».
Cosa ne pensa di Renata Polverini, neo presidente della Regione Lazio?
«Spero che abbia voglia di fare le cose necessarie per il Lazio e che non sia succube di una destra arrogante e ignorante. Mi auguro che da ex sindacalista si ricordi dei problemi della gente».
Già altre volte è stata eletta ed ha rinunciato al seggio. Stavolta la vedremo alla Pisana?
«No, non mi vedrete. La politica è una professione, non ci si improvvisa, io faccio un altro lavoro».
Perché ha accettato di candidarsi allora?
«Per dare un segnale di fiducia nella sinistra. Perché sono una cittadina e ritengo doveroso spendere la mia popolarità per tutelare la costituzione, la libertà, la giustizia».
Ritiene che siano a rischio?
«Sì, con questo centrodestra la libertà è a rischio. Non perché siamo sotto una dittatura feroce, ma perché ci è tolta la libertà di decidere della nostra vita con una legge sul testamento biologico, ci è tolta la libertà di informazione (Margherita Hack ha aderito allo sciopero del canone tivvù per protestare contro lo stop ai talk show deciso dalla Rai un mese prima delle elezioni), la libertà sulle coppie di fatto. E la giustizia non è più uguale per tutti, per qualcuno è più uguale che per altri».
Però gli elettori hanno votato il centrodestra.
«Io rimango stupefatta nel constatare che la gente non si indigna per le leggi ad personam, per l´evasione fiscale che viene premiata, per gli attacchi ai giudici, per il razzismo crescente verso gli immigrati di cui invece abbiamo bisogno».

Repubblica Roma 1.4.10
I malumori dei Democratici "Quei dirigenti si facciano da parte"
Foschi: "Troppo potere ai capibastone, poco ai circoli e militanti" Di Stefano: "Ora da Mazzoli aspettiamo un ricambio"

La nuova parola d´ordine dei delusi del Pd la dice chiara il consigliere capitolino Gianfranco Zambelli: «In politica è come nel calcio, "squadra che perde è da cambiare"». Se non arriva a parlare di resa dei conti, Zambelli non usa mezze misure: «Dire che abbiamo contenuto la sconfitta è come prendere un´aspirina dopo esser stati travolti da un treno in corsa». Sul banco degli imputati stavolta non c´è tanto il segretario Mazzoli, mai troppo amato fin dagli esordi, accusato di immobilismo e scarsa capacità di tenere insieme le tante anime del partito. Ma un´intera nomenklatura. Dirigenti, consiglieri, assessori, alcuni sconfitti, altri riconfermati per un soffio. Perché in fondo, anche tra chi sperava in una storia diversa, nessuno se la prende con Emma Bonino. O con Marco Miccoli, che si è assunto il compito di traghettare il partito romano fino al dopo-elezioni. Ma la débacle in Regione? Il ragionamento è semplice: c´erano 5 anni di governo alle spalle, assessori con soldi da spendere e crediti da vantare: strade, ospedali, leggi sul lavoro. Perché non è bastato? Caso emblematico Frosinone: come si può perdere 58mila voti con un sindaco (Marini), un eurodeputato (De Angelis), un assessore (Scalia)? Lo stesso a Latina con parlamentari pesanti da Sesa Amici a Ranucci. Mentre a Viterbo Angelo Cappelli, il candidato di Fioroni, è arrivato terzo su tre.
Nello sconcerto generale la parola va agli eletti, forti di una credibilità conquistata sul campo. Sintetizza Enzo Foschi: «Siamo stati troppo simili alla destra: e tra la copia e l´originale, la gente sceglie l´originale. Si è dato troppo potere ai capibastone, troppo poco a circoli e militanti». Il consigliere, classe ‘66, riconfermato con oltre 14mila preferenze, spiega che l´errore è stato «delegare, specie in provincia, col risultato di boom personali e sconfitte per le liste». Grave per un partito che vuol essere «di territorio», mentre «spesso siamo parsi più quelli dei favori che dei diritti, generando sfiducia nei giovani». L´astensionismo stavolta ha colpito anche qui; lo dice chiaro il quinto degli eletti a Roma, Marco Di Stefano: «Ora da Mazzoli ci aspettiamo un ricambio: più che il centrodestra non hanno votato i militanti, nauseati da questa classe dirigente. E se non si apre un dibattito, sarà la stessa che ci governerà domani. Ognuno torni a fare il suo mestiere: chi fa il deputato, il deputato; chi il senatore, lo stesso». La sensazione è quella di un distacco forte tra base e dirigenti. Ancora Di Stefano: «Hanno scelto il candidato e l´ho appreso dai giornali, hanno scelto il coordinatore e l´ho appreso dai giornali, hanno scelto il responsabile del programma e l´ho appreso dai giornali. Io sono un militante, ho preso 16mila voti, con Panecaldo 24mila: molti di più di chi ha centinaia di nominati fra Comuni, municipi, aziende. Bisogna passare la mano, dare responsabilità a chi non ne ha avute finora».
(c.r. e gio.vi.)

Repubblica 1.4.10
La società incivile
di Guido Crainz

Sottovalutando o minimizzando, in queste prime ore, il significato del voto il Partito democratico non sembra comprendere davvero quel che è successo.
Eppure, non c´è molto da discutere. Al solidissimo blocco lombardo-veneto del centrodestra si era già unito due anni fa il Friuli-Venezia Giulia e si aggiunge ora il Piemonte: se si considera che entrambe le regioni erano state ben governate, in sostanza, dal centrosinistra, l´inquietudine aumenta.
Restano le regioni rosse, ma in Emilia il centrosinistra perde quasi l´11% rispetto al 2005 e la Lega, che aveva allora poco più del 4%, giunge a sfiorare il 14%. Per non parlare del 6% conquistato ancora in Emilia dal movimento di Beppe Grillo o, per altri versi, del generale rafforzarsi di Antonio Di Pietro.
C´è poi il Mezzogiorno. Qualcuno dovrebbe spiegare come si è passati dalla nuova stagione annunciata nel 1993 dall´elezione di Bassolino a sindaco di Napoli al disastro di ieri e di oggi, mentre appare più facilmente comprensibile il crollo calabrese: un "suicidio annunciato" cui il gruppo dirigente del Partito democratico ha assistito con una inerzia sorprendente. Inerzia compensata dal grande impegno profuso per perdere anche in Puglia, contrastando con tutte le forze la candidatura del governatore uscente.
Sarebbe un errore, però, attribuire il panorama di oggi solo alla inadeguatezza dei dirigenti del centrosinistra. Occorre invece riflettere sulle cause più lontane di questo esito, guardando sia ai processi che hanno attraversato la società sia alle responsabilità della politica e dello stesso mondo intellettuale. Lo richiede, del resto, l´ingigantirsi stesso dell´astensionismo. Dal 1948 in poi la percentuale dei votanti oscillò per più di trent´anni fra il 92% e il 94%, scendendo sotto il 90% solo nelle regionali del 1980. Fu l´annuncio di un processo che negli anni successivi mescolò l´astensione e il voto di protesta, catalizzato allora dal tumultuoso emergere delle Leghe. Domenica scorsa un italiano su tre non è andato a votare, e rispetto al 2005 il calo è dell´8%.
Il precipitare della crisi degli anni ottanta portò al crollo della "repubblica dei partiti": quasi vent´anni dopo dobbiamo fare i conti con una crisi forse più profonda nel rapporto fra cittadini e istituzioni. Dobbiamo fare i conti, anche, con la sostanziale assenza di una credibile alternativa politica e con il dichiarato progetto del premier di stravolgere il quadro costituzionale e l´equilibrio fra i poteri dello stato. Progetto che esce dal voto rafforzato, oltre che appesantito dalle ipoteche della Lega. Dobbiamo fare i conti, infine, con il consolidarsi di settori sempre più corposi di "società incivile", la cui incubazione prese corpo negli anni ottanta e che poterono confluire nella "idea di Italia" di cui Berlusconi è stato alfiere. Sembrarono però aperte molte vie, nella crisi di Tangentopoli, sino all´"abbaglio" favorito dalle elezioni amministrative del 1993: la voragine che si era aperta allora al centro permise infatti una larga vittoria della sinistra. Il quadro fu radicalmente modificato da due fattori, non da uno solo: dalla scesa in campo di Berlusconi, naturalmente, ma anche dalla incapacità della sinistra di offrire al paese prospettive ed esempi convincenti di buona politica. Prospettiva ed esempi assolutamente necessari in un Paese in cui la critica ai partiti era dilagata, alimentata sia da buone che da cattive ragioni.
Tutto questo avveniva quasi vent´anni fa, e in quest´arco di tempo sono fortemente cresciuti processi di decadimento sia della società civile che della politica, segnati dall´ulteriore deperire dell´etica pubblica e della cultura delle regole. Più ancora, dal nostro orizzonte sembra scomparso il futuro. Sembra scomparsa cioè la capacità di mettere al centro i grandi temi, le grandi sfide.
In un paese sempre più ripiegato su se stesso sono mancati in realtà alla prova quasi tutti gli attori, e il mondo intellettuale è largamente fra essi. In altri momenti della storia della repubblica riviste, gruppi e voci differenti hanno aperto o rafforzato la riflessione sui nodi di fondo. Hanno messo talora in discussione vulgate consolidate, rimescolato schieramenti, aperto frontiere. E´ impietoso il confronto fra la ricchezza del dibattito culturale e politico che precedette il primo governo di centrosinistra, all´alba degli anni sessanta, e la povertà del panorama in cui trent´anni dopo ha preso corpo – o meglio, avrebbe dovuto prender corpo – una rinnovata ipotesi riformatrice: una ipotesi capace di avviare una nuova ripresa dell´Italia e di sgomberare il campo da corpose macerie. Così non fu, e furono lasciate vaste praterie al discutibile "nuovo" variamente rappresentato da Forza Italia e dalla Lega.
Tutto questo rende oggi molto più difficile, e al tempo stesso indifferibile, una radicale inversione di tendenza del centrosinistra e di quelle forze intellettuali e sociali che a quell´area guardano. Esaurite da tempo – o in via di esaurimento – le rendite di posizione, il centrosinistra non può pensare di vincere, e neppure di sopravvivere, senza mettere in campo un "valore aggiunto" capace di parlare alla accresciuta area di cittadini segnati dalla sfiducia, e anche a quelli spesso al confine fra rassegnazione e adeguamento. Capace di scuotere coscienze e intelligenze, rimettendo realmente nell´agenda politica il profilo del nostro domani. Al tempo stesso, se non vuole solo vegliare sul proprio declino, il Partito democratico deve dare segnali robusti e chiarissimi di rinnovamento. Non sembra tempo di ricambi al vertice: un vertice insediato da pochi mesi e privo di alternative credibili, almeno nell´immediato. È però tempo di mutare radicalmente – a tutti i livelli e in tutte le sedi – il volto, la fisionomia, il modo di essere del partito. Anche da questo dipende la sua credibilità residua.
Se un "valore aggiunto" è richiesto al ceto politico del centrosinistra, altrettanto è richiesto alla società civile, o a quel che resta di essa. Negli anni di Tangentopoli Antonio Gambino osservava, su questo giornale: il quadro è fosco non perché da noi i disonesti siano più numerosi che in altre società occidentali ma perché da noi «manca una "cultura dell´onestà". Manca cioè un numero di persone attivamente oneste, capaci di fornire quel "punto di appoggio" senza il quale appare irrealizzabile ogni tentativo di sollevare il paese dal pantano in cui si è infilato». Anche da qui occorre ripartire: nelle professioni, nella società, nelle istituzioni. Sarebbe stato necessario allora ma è ancor più necessario oggi, in un momento importante della "costruzione dei nuovi italiani". Ci si interroga spesso sui mutamenti che i flussi dell´immigrazione possono indurre nel nostro modo di essere: ci si dovrebbe interrogare al tempo stesso su quanto la società italiana – con il suo calante senso delle regole e delle istituzioni – influirà sul modellarsi di questi flussi. Su quanto rafforzerà al loro interno le tendenze negative o quelle positive. La sfida che abbiamo di fronte si gioca anche su questo terreno.

l’Unità 1.4.10
L’avvocato delle vittime in Kentucky presenta una mozione alla Corte distrettuale
I legali della Santa Sede studiano le contromosse per disinnescare la mina delle cause Usa
«Il Papa deponga sugli abusi» Sul Vaticano l’incubo processi
Portare in aula il Papa «come testimone»: è la strategia dei legali delle vittime dei preti pedofili negli Usa. La risposta vaticana. La polemica con il New York Times. Solidarietà al pontefice dei vescovi americani.
di Roberto Monteforte

Il cardinale Levada: «Il New York Times riconsideri il suo attacco contro il Pontefice»
Caso Florida. Nuove accuse su prete cubano: Ratzinger insabbiò le denunce

Puntano in alto gli avvocati che negli Usa difendono chi, minore, ha subito abusi da parte di preti pedofili. Si vuole coinvolgere il Vaticano e chiamare Papa Benedetto XVI a testimoniare sotto giuramento davanti alla corte del Kentucky. È la linea dell’avvocato William McMurry, legale di tre delle vittime che avrebbero subito molestie da parte di padre Lawrence Murphy,
il sacerdote «pedofilo» del Wisconsin. L’avvocato ha presentato una mozione in tal senso presso la Corte Distrettuale di Louisville, motivandola con il fatto che la Santa Sede avrebbe ordinato ai vescovi del Wisconsin di evitare il processo di Murphy. Il legale non avrebbe dubbi: il Vaticano «ha scoraggiato la persecuzione legale del clero e incoraggiato il segreto per proteggere la reputazione della Chiesa».
La class-action va avanti da anni. Ora l'avvocato McMurry, lancia il suo affondo e chiede formalmente alla corte di chiamare Papa Benedetto XVI a deporre proprio in virtù «della sua conoscenza unica dei casi di abuso sessuale da parte dei sacerdoti». Non in quanto Papa è, quindi, il capo della Chiesa», ma «perché un testimone di fatto». Stessa linea quella dell’avvocato Jessica Arbour, legale delle vittime di un altro sacerdote, don Ernesto Garcia Rubio, che prima a Cuba e poi a lungo parroco a Sweetwater, in Florida avrebbe molestato minori. L’accusa è la stessa: le gerarchie cattoliche erano a conoscenza dello scandalo e avrebbero deciso di «insabbiare tutto». Nel 1990 il dossier del prete pedofilo, per cui era stata chiesta la riduzione allo stato laicale, sarebbe stato inviato alla Congregazione per la dottrina della fede, di cui era a capo Ratzinger, ma «la documentazione andò perduta». «Ha protetto i pedofili è l’accusa a scapito dei fedeli e delle loro famiglie».
Chiamare direttamente in causa il Papa: questa sarebbe, quindi, la strategia. Lo conferma l'edizione online del Boston Globe, che dà anche conto delle contromosse vaticane. Tre sarebbero i punti fermi degli avvocati della Santa Sede: «Il pontefice, in quanto capo di Stato, gode dell'immunità diplomatica; i vescovi americani che supervisionarono preti colpevoli di abusi non erano impiegati della Santa Sede; il documento del 1962 il Crimen sollicitationis non è la “pistola fumante” che prova la copertura» vaticana sui casi di pedofilia. Le vittime hanno, quindi, il diritto di rivalersi direttamente con il Vaticano? Un punto, questo, dagli evidenti risvolti economici che preoccupa non poco Oltretevere. Nel 2005 l’Alta Corte ha già rigettato una domanda di coinvolgimento del Papa, dopo che la Casa Bianca è intervenuta «a tutela dei superiori interessi del Paese», visto che il Papa è «capo di Stato estero».
I VESCOVI USA CON IL PAPA
Fanno quadrato attorno al Papa i vescovi degli Stati Uniti, ne sottolineano l’impegno «diretto» a contrastare «il «peccato e il crimine» degli abusi sessuali compiuti da sacerdoti. Il New York Times, che aggiunge anche elementi nuovi, «riconsideri fatti e accuse» chiede l’attuale prefetto dell’ex sant’Uffizio, il cardinale statunitense Levada, mentre accusa il quotidiano di «inattendibilità e l'imprecisione» padre Thomas Brundage, vicario giudiziale dell'arcidiocesi di Milwauke dal 1995 al 2003 e dunque presidente del collegio giudicante che avviò il processo contro padre Murphy. Il quotidiano avrebbe fatto una ricostruzione «assolutamente imprecisa e sciatta della vicenda», fondandosi tra l'altro sulle «menzogne di monsignor Rembert Weakland fatta passare per testimone credibile, costretto a lasciare la guida dell'arcidiocesi di Milwaukee dopo il coinvolgimento in una storia omosessuale con un ex studente di teologia». Le responsabilità sarebbero tutte della diocesi e delle autorità civili, non del Vaticano. «Mai nessuno nella Chiesa ha fatto quanto Papa Ratzinger contro i casi di abusi».

l’Unità 1.4.10
Negli Stati Uniti a picco la popolarità di Ratzinger

Lo scandalo dei preti pedofili ha danneggiato la popolarità di Benedetto XVI negli Stati Uniti. Secondo un sondaggio Gallup solo il 40% degli intervistati apprezza l'operato del Papa contro il 35% che lo disapprova. Si tratta del livello più basso dopo il 50% raggiunto nel 2005 e il picco del 63 toccato nel 2008 durante la visita pastorale di Papa Ratzinger. Tra i cattolici l'indice di approvazione del Papa è più alto, 61%, ma è sempre il livello più basso dalla sua elezione al soglio di Pietro. Il rilevamento è stato svolto tra il 26 e il 28 marzo scorso. Dal sondaggio alla «provocazione» su carta stampata. «Un'inquisizione per il Papa?». La columnist del New York Times Maureen Dowd, nota per la sua penna al vetriolo, lancia un'altra provocazione dopo avere proposto alcuni giorni fa, in un altro articolo, «una suora come Papa». Segnali diversi che portano alla stessa conclusione: Papa Ratzinger perde quota negli Usa.

Repubblica 1.4.10
L´omelia di Schoenborn: "Riconosciamo le nostre colpe"
Vienna, messa per le vittime il cardinale chiede scusa
Nuovo scandalo in Germania: il vescovo di Augusta accusato di avere picchiato orfani
di Andrea Tarquini

BERLINO - «Noi riconosciamo le colpe della Chiesa. Siamo furiosi, quanto è accaduto non deve ripetersi». Con dure parole, l´arcivescovo di Vienna, cardinale Christoph Schoenborn, ha celebrato ieri sera nel duomo di Santo Stefano, nel cuore della capitale austriaca, la messa della colpa e del pentimento per i peccati, dedicata alle vittime degli abusi sessuali e delle violenze nelle istituzioni cattoliche. È stato un gesto coraggioso, un segnale nuovo. La messa, a cui hanno partecipato almeno tremila persone, è stata organizzata dall´arcidiocesi insieme a "Wir sind Kirche", il movimento dei cattolici critici di base. E alcune vittime di abusi hanno parlato dal pulpito, narrando i loro drammi.
Prima è toccato a una donna. Ha narrato che negli anni Settanta, in un convento, subì maltrattamenti, anche se non violenze sessuali. Poi ha parlato un uomo anziano, ha portato una testimonianza toccante. «Sono ancora perseguitato di notte dagli incubi su quanto ho subìto da ragazzo», ha detto. «Dio, proteggimi», ha continuato, «salvami da queste orrende paure e dagli incubi di cui io non ho colpa, salvami dai ricordi che di notte tornano come cani randagi a tormentarmi!». L´iniziativa della messa è stata presa dal cardinale Schoenborn, che nel vertice della Chiesa si sta profilando come una delle voci più decise e coraggiose nella denuncia degli abusi sessuali e delle violenze commessi in passato nelle istituzioni cattoliche.
«La Chiesa oggi è scossa», ha detto il cardinale Schoenborn. In quanto è accaduto, egli ha aggiunto, «ho visto troppa Chiesa e troppo poco Gesù Cristo». Ma «lo shock del momento può diventare una speranza, una chance per cambiamenti di fondo». Egli ha poi ripetuto l´appello alle vittime di abusi subìti in istituzioni religiose, anche lontano nel tempo, a uscire dal silenzio. E ha esortato ogni membro della Chiesa a reagire. E al tempo stesso, egli ha sottolineato, ogni religioso che si sia reso colpevole di simili crimini deve essere incoraggiato dalla Chiesa ad autodenunciarsi alla giustizia.
In Germania intanto è esploso un altro caso: il vescovo di Augusta, Walter Mixa, un capofila della corrente conservatrice nel cattolicesimo tedesco, è stato accusato da ex ospiti di un brefotrofio di averli ripetutamente e brutalmente percossi, negli anni Settanta.

Repubblica 1.4.10
Il papa e lo scandalo della pedofilia
di Joaquìn Navarro-Valls

Nelle ultime due settimane i media hanno riempito lo spazio pubblico con la struggente realtà dei casi criminali di pedofilia.
L´accusa si è alzata progressivamente a seguito di una serie di rivelazioni provenienti via via da diversi paesi europei e riguardanti casi di abusi sessuali perpetrati a danno di minori da parte di sacerdoti. A leggere le cronache sembra addirittura che si tratti di uno scoop gigantesco, e che adesso grazie a queste geniali rivelazioni stia emergendo un sottobosco marcio in seno alla Chiesa cattolica.
Certamente, in Austria, in Germania e in Irlanda, non meno però di quasi tutti i Paesi in cui vi è una consistente presenza di scuole e organizzazioni educative ecclesiastiche, vi sono stati fenomeni criminali gravi di violazione della dignità dell´infanzia. La cosa è nota. Non a caso, durante la Via crucis del 2005, l´allora cardinale Joseph Ratzinger non usava mezzi termini, quando rilevava con disappunto: «Quanta sporcizia c´è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza!». Forse ce lo siamo dimenticato. Quindi, si può senza tema di smentita rilevare che il problema esiste nella Chiesa, è conosciuto dalla Chiesa, e che è stato affrontato e verrà ancor più affrontato con decisione dalla Chiesa stessa nel futuro.
Proviamo, però, a riflettere un momento sulla manifestazione della pedofilia in sé. Dalla mia esperienza di medico posso evidenziare alcuni dati importanti, utili per capire la gravità e la diffusione del problema.
Le statistiche più accreditate sono eloquenti. E´ certificato che 1 ragazza su 3 ha subito abusi sessuali, e che 1 ragazzo su 5 è stato oggetto di atti di violenza. Il fatto veramente inquietante, divulgato non soltanto nelle publicazioni scientifiche ma addiritura dalla Cnn, riporta che la percentuale di coloro che in un campione rappresentativo della popolazione hanno molestato sessualmente un bambino si muove dall´1 al 5%. Un numero, cioè, impressionante.
Gli atti di pedofilia sono effettuati dai genitori o da parenti stretti. Fratelli, sorelle, madri, babysitter o zii sono i più comuni abusatori di bambini. Secondo il dipartimento di Giustizia americano quasi tutti i pedofili accusati dalla polizia erano maschi, il 90 per cento. Secondo Diana Russell, il 90% degli abusi sessuali viene compiuto da persone che hanno una conoscenza diretta delle piccole vittime, e restano chiusi nell´omertà familiare.
Un aspetto notevole, purtroppo, è che nel 60% dei casi di violenza i colpiti hanno un´età inferiore a 12 anni, e che nella stragrande maggioranza dei casi ad abusare sono persone di sesso maschile e con un legame di sangue.
Queste statistiche mostrano, dunque, un quadro chiaro e piuttosto ampio di pratica della violenza sessuale sull´infanzia. Tenendo conto che questi dati si riferiscono unicamente a quanto è stato denunciato, è noto o comunque conosciuto, possiamo facilmente immaginare quale sia il grado drammatico della perversione che si nasconde dietro questa realtà, più diffusa ancora nei Paesi che per cultura non reputano nitidamente questa violenza un´oscenità aberrante.
Ora, puntare l´attenzione esclusivamente su coloro che evidentemente sono iscrivibili nel novero generale degli abusatori sessuali, essendo però dei sacerdoti, può essere veramente fuorviante. In questo caso, infatti, la percentuale scende fino a diventare un fenomeno statisticamente minimo.
Certamente, nulla potrà distogliere l´emozione e la vergogna che si prova davanti a queste rivelazioni recenti rilevate dalla Chiesa, anche quando si riferiscono a fatti compiuti decenni fa e magari coperti da gravissime forme di omertà. Possiamo essere certi, partendo dalla Lettera pastorale all´Irlanda della settimana scorsa, che Benedetto XVI prenderà tutti i provvedimenti che saranno necessari per espellere i colpevoli e giudicarli in base ai crimini reali commessi dalle persone coinvolte.
Perché non dovrebbe farlo? Quale utilità ne ricaverebbe?
Evitiamo, però, di cadere nel tranello dell´ipocrisia, specialmente nella forma inscenata recentemente dal New York Times nel riferire il caso del reverendo Murphy. Lì, l´autrice dell´articolo, non valuta né trae delle conclusioni né segnala con adeguato risalto, il fatto che la polizia, che aveva ricevuto denunce in merito, lo aveva rilasciato come innocente.
Quale Stato ha fatto un´indagine in profondità sul tremendo fenomeno prendendo, anche preventivamente, provvedimenti chiari ed espliciti contro gli abusi di pedofilia presenti tra i propri cittadini, nelle famiglie o in istituzioni scolastiche pubbliche? Quale altra confessione religiosa si è mossa per scovare, denunciare e assumere pubblicamente il problema, portandolo alla luce e perseguendolo esplicitamente?
Evitiamo, innanzi tutto, l´insincerità: ossia di concentrarci sul limitato numero di casi di pedofilia accertati nella Chiesa cattolica, non aprendo invece gli occhi davanti al dramma di un´infanzia violata e abusata molto spesso e dappertutto, ma senza scandalo.
Se vogliamo combattere i reati sessuali sui minori, almeno nelle nostre società democratiche, allora dobbiamo evitare di sporcarci la coscienza, guardando esclusivamente a dove il fenomeno si produce con gravità morale magari anche maggiore, ma in misura certamente minore.
Prima di poter giudicare chi fa qualcosa, si dovrebbe avere il fegato e l´onestà di riconoscere che non si sta facendo abbastanza. E cercare di fare qualcosa di analogo a quanto sta facendo il Papa. Altrimenti, è meglio smettere di parlare di pedofilia e cominciare a discutere della furibonda fobia scatenata contro la Chiesa cattolica. Quest´ultima azione, infatti, sembra essere fatta veramente ad arte e con meticoloso scrupolo d´indagine: purtroppo, però, in evidente malafede.

l’Unità 1.4.10
Scuola, governo conferma taglio di oltre 25mila insegnanti
8.700 unità nella primaria, 7.450 nella secondaria

Una riduzione complessiva di 25.600 unità di personale docente per l’anno scolastico 2010-2011. È confermato nella bozza di circolare sugli organici (che sarà oggetto di ulteriori approfondimenti) che i dirigenti del ministero dell’Istruzione hanno illustrato ieri ai sindacati. La riduzione che l’amministrazione intende realizzare, anche tenendo conto dell’andamento della previsione degli alunni, comporterà una contrazione di organico di circa 8.700 unità nella scuola primaria, di circa 3.700 nella scuola secondaria di primo grado e di circa 13.750 nella secondaria di secondo grado.
Per questo intervento l’amministrazione, oltre a tener conto dell’andamento degli alunni secondo quanto ha riferito la Uil scuola al termine dell’incontro agirà sull’innalzamento del rapporto alunni/classi, sul dimensionamento della rete scolastica e sul riordino dei cicli di studio. Nella scuola dell’infanzia è previsto il consolidamento dell’organico di fatto dell’anno scolastico in corso che prevede un incremento nel diritto di 560 posti. Per quanto riguarda il sostegno verrà recepita la sentenza della Corte Costituzionale, dello scorso 22 febbraio che abroga i limiti del tetto massimo. E sempre per il sostegno verrà confermato l’incremento triennale dell’organico di diritto che verrà determinato in 63.348 unità. Rispetto alla riduzione complessiva dell’organico l’amministrazione è orientata ad agire, in parte, anche nell’organico di fatto: su un totale di 25.600 posti 22.000 verrebbero ridotti in organico di diritto e 3.600 in quello di fatto. Critica la Uil scuola: «Si interviene con tagli lineari e anzichè operare per la riqualificazione della spesa si insiste con una gestione tutta burocratica. Occorre, invece, fotografare la situazione reale e, su quella base, determinare il bisogno effettivo di organico».

l’Unità 1.4.10
La pillola «magica»
Triplicato in Italia l’uso degli psicofarmaci. Siamo tutti depressi?
Il rapporto di Osservasalute. L’aumento dell’uso degli antidepressivi ha un collegamento con la crisi economica. L’insicurezza sul posto di lavoro produce danni alla salute fisica e psichica. È successo anche agli americani dopo il crollo della Lehman Brothers del 2008
di Cristiana Pulcinelli

Le stime dell’OMS
Nel 2020 la depressione sarà la seconda causa di disabilità dopo l’infarto del miocardio
In Italia il consumo di antidepressivi è più che triplicato in pochi anni. Per la precisione è aumentato del 310% dal 2000 al 2008. Il dato è ricavato dal numero delle prescrizioni fatte dai medici del sistema sanitario nazionale, si può leggere sul rapporto annuale Osservasalute. Il rapporto è stato presentato dall’Osservatorio nazionale sulla salute nelle regioni italiane, un organismo nato per iniziativa dell’istituto di igiene dell’università cattolica del Sacro Cuore di Roma, ma al quale partecipano numerose istituzioni nazionali e regionali.
Come interpretare questo fatto? Si può pensare che sia dovuto a un aumento dei casi di depressione? Magari causato dallo stato generale di crisi economica? Non possiamo dirlo con certezza, come spiega Roberta Siliquini, docente di igiene all’università di Torino che ha curato la parte del rapporto relativa alla salute
mentale: «Il dato può essere interpretato in modi diversi. Prima di tutto, c’è una maggiore attenzione a queste patologie da parte del medico di base e, quindi, un uso più ampio delle terapie. Poi c’è il fatto che gli antidepressivi recentemente vengono utilizzati anche per altri problemi, ad esempio per trattare i disturbi d’ansia o nelle terapie di supporto ai malati oncologici. Infine, si può pensare ad un aumento del disagio sociale».
Non è la prima volta, comunque, che si riscontra un legame tra una situazione difficile dal punto di vista socioeconomico e un aumento nel consumo degli psicofarmaci. Sembra che dopo la crisi che ha messo in ginocchio l’Argentina nel 2001, la vendita di farmaci antidepressivi sia aumentata notevolmente. Così come, secondo una ricerca pubblicata su Psychiatry, è lievitata la prescrizione di sonniferi, ansiolitici e antidepressivi negli Stati Uniti subito prima e subito dopo il mese di settembre del 2008. A quella data risale la bancarotta della banca Lehman Brothers, evento simbolo del crollo finanziario, ma la crisi mordeva gli Stati Uniti già nei mesi precedenti.
È vero che, come scrivono gli autori della ricerca sull’Argentina, non si può dire se questo aumento sia dovuto alla difficile situazione sociale che, a sua volta, ha causato un aumento del disagio psichico, o a una efficace campagna promozionale dei farmaci in questione, prescritti non solo per curare la depressione, ma anche per attutire il senso di insicurezza e di vulnerabilità dovuto alla crisi. Un po’ quello che successe al Valium negli anni Sessanta, consigliato «contro gli stress della vita quotidiana», o agli psicotici nel decennio precedente: nel 1953 l’antipsicotico torazina veniva pubblicizzato per trattare vicini molesti, vecchietti rompiscatole e «l’ossessione per i comunisti», raccontano Pietro Adamo e Stefano Benzoni nel libro Psychofarmers (Isbn Edizioni, 2005). Ed è vero che, come invece scrivono i ricercatori statunitensi nell’articolo apparso su Psychiatry, il consumo di antidepressivi è in crescita da quando sono stati scoperti come dimostra il caso del Prozac, il più famoso dei farmaci di questa categoria: messo in commercio alla fine del 1987, nel 1998 era il farmaco più venduto in America e il secondo in termini assoluti. Quindi, quello a cui si è assistito nel 2008 non sarebbe che un’accelerazione di questa crescita.
Tuttavia, vari studi nel mondo hanno trovato un legame tra crisi economica e problemi di salute mentale. In particolare, l’insicurezza del posto di lavoro produce danni alla salute, anche quella psichica, come dimostra una ricerca condotta su 16 paesi europei e pubblicata sulla rivista Social Studies of Science nel 2009. E una ricerca condotta in Inghilterra ha mostrato che l’insicurezza del posto di lavoro e il fatto di aver contratto debiti sono condizioni associate ad un aumento del rischio di ammalarsi di depressione. Che la depressione sia un problema in crescita in tutto il mondo, del resto, lo afferma la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità. «Secondo le stime dell’Oms racconta Antonella Gigantesco dell’Istituto Superiore di Sanità nel 2020 la depressione sarà la seconda causa di disabilità dopo l’infarto del miocardio. Un problema che riguarda seriamente anche l’Europa: su 900 milioni di abitanti della regione europea, circa 100 soffrono di disturbi d’ansia e di depressione, 21 milioni di disturbi correlati all’alcool, 4 milioni di schizofrenia, 4 milioni di disturbi bipolari e 4 milioni di disturbi da panico. Inoltre, dei 10 paesi con il tasso più alto di suicidio, 9 sono in Europa». E l’Italia? «In Italia mancano dati nazionali sull’incidenza e sull’andamento dei disturbi mentali gravi, quindi al momento non è possibile sapere se queste malattie sono in aumento o no. Il centro di epidemiologia dell’Iss ha avuto finanziamenti per un progetto di sorveglianza sulle malattie mentali che utilizza centri-sentinella. Abbiamo scelto di seguire 25 centri sparsi sul territorio italiano per vedere quanti nuovi casi di disturbi psicotici, depressione grave o anoressia mentale si presentano ogni anno. Il progetto è partito a marzo del 2009, speriamo di poter avere i primi risultati sull’andamento di queste patologie entro due anni».

l’Unità 1.4.10
E il rossetto diventa euforizzante
di Concita De Gregorio

Storia microscopica con coda di pensieri. Ho ricevuto tempo fa un comunicato della Deborah, azienda italiana di cosmetici: allegato un rossetto. È stato il giorno che le agenzie di stampa diffondevano gli ultimi dati sul consumo di ansiolitici e psicofarmaci in terrificante aumento: l’Oms dice che nel 2020, lo leggete accanto, la depressione sarà la seconda causa di disabilità dopo l’infarto al miocardio. Perfetto. Sul rossetto un lucidalabbra, per la precisione c’è scritto «Euphoric shine». Dice il foglietto: si tratta di «neurocosmesi», cosmetici «formulati con principi attivi che agiscono sul sistema nervoso cutaneo e favoriscono la produzione di dopamina, molecola della felicità». Favoloso. Scrisse per noi Loretta Napoleoni del «lipstick index», nei giorni del crollo Lehman. Un indicatore noto agli economisti. C’è una relazione diretta (inversa) tra crisi economica repentina e impennata dell’acquisto di rossetti. Se ne accorse per primo Lauder, quello della Estee Lauder. Quando all’improvviso non c’è più una lira l’unica cosa che si può comprare a un dollaro per tirarsi su è il rossetto. Si mette in faccia, si vede subito. Un trucco, letteralmente. Però efficace, una consolazione collettiva. L’idea del rossetto che rende euforici è un’idea tragica e geniale. Un’istantanea perfetta del tempo che viviamo. Avrà successo, vedrete. Basta crederci.

No al burqa nei luoghi pubblici In Belgio primo sì al divieto
l’Unità 1.4.10
«Legge sbagliata. Così si minano i diritti individuali»
La scrittrice egiziana: «Non è per via giudiziaria che si rendono più libere le donne musulmane. L’emancipata Europa manda un altro segnale distruttivo a chi punta allo scontro di civiltà»
di Umberto De Giovannangeli

Il velo integrale: «Non è solo frutto di imposizione di una cultura patriarcale»

Chi è
L’intellettuale femminista minacciata dagli integralisti
È la scrittrice femminista egiziana più conosciuta e premiata al mondo. Per il suo impegno a favore dei diritti delle donne, contro l’infibulazione nel mondo arabo e musulmano, ha conosciuto il carcere e l’odio degli integralisti.

Non è con i divieti o le imposizioni di legge che si modificano i costumi o si rendono più libere le donne musulmane. Non credo in una “via giudiziaria” all’emancipazione». A sostenerlo è Nawal El Saadawi l'autrice egiziana femminista più conosciuta e premiata. I suoi scritti sono tradotti in più di trenta lingue in tutto il mondo. Per le sue battaglie in difesa dei diritti delle donne e per la democrazia nel mondo arabo, la scrittrice egiziana compare su una lista di condannati a morte emanata da alcune organizzazioni integraliste.
Le donne musulmane non potranno portare nè burqa nè niqab camminando per le strade, nei parchi, in ospedali e scuole, sugli autobus e in tutti i luoghi pubblici. Così ha votato all’unanimità la Commissione affari interni del Parlamento belga. Cosa ne pensa?
«Vede, in Occidente, nella “libera” ed emancipata Europa, vige la convinzione che una donna musulmana che indossa il burqa, il niqab o lo chador, sia di per sé una donna violata, costretta da una società o comunità o famiglia maschilista, patriarcale, sessuofobica, a nascondere il proprio corpo o parte di esso.
Non nego che vi sia anche questo, ma eviterei di assolutizzare questo dato. Per tornare al Belgio, mi sembra che siamo di fronte ad un provvedimento forzato, che finisce per intaccare profondamente il principio di libertà individuale».
«È un segnale molto forte che inviamo agli islamici», ha detto il liberale francofono Denis Ducarme, «fiero» che il Belgio sia il primo Paese europeo a legiferare su una materia così sensibile.
«Francamente faccio fatico a capire di cosa il signor Ducarme sia fiero. E ancor più mi preoccupa il presunto “segnale forte” che si è inteso mandare “agli islamici”. Ma di quale Islam parla il signor Ducarme? Quello degli integralisti teocratici e sessuofobici, o l’Islam che punta decisamente a coniugare modernità e tradizione, che rivendica libertà ma non per questo ritiene che la libertà significhi, anche nel campo della liberazione femminile, assumere il modello occidentale? Il segnale è distruttivo e finirà per fornire altro materiale di propaganda a quanti, nel complesso mondo musulmano, teorizzano e praticano lo “scontro di civiltà”». Lei ha sperimentato personalmente l’odio dei fondamentalisti.
«Questi fanatici che dicono di agire per conto dell’Islam sono in realtà i primi nemici dell’Islam. Ero e resto fermamente convinta che la maggioranza dei musulmani non ritenga che sia impossibile coniugare la fede religiosa e la costruzione di una società sostanzialmente laica, plurale nelle sue espressioni politiche, culturali, di fede. La tolleranza e il rispetto delle diversità non sono affatto estranee alla millenaria cultura islamica. Non bisogna negare i diritti ma garantirli a tutti, a cominciare dalle donne, che per i fondamentalisti, in Afghanistan come in Egitto, in Bangladesh come in Arabia Saudita e in Iran, esistono solo in quanto “figlie di”, “madri di”, “mogli di”... E la cosa ancor più allarmante e che in molti dei Paesi che discriminano le donne e perseguitano chiunque si batta per i loro diritti, al potere vi sono regimi sostenuti dal civile e democratico Occidente. Quel civile e democratico Occidente che in Belgio decide di dare una lezione agli islamici...Ma il problema non riguarda solo il rapporto tra Occidente e mondo islamico. Riguarda un’Europa sempre più multietnica, multireligiosa. Un’Europa che deve integrare e non vietare. Evitando di considerare le comunità islamiche come incubatrici di fondamentalisti e potenziali jihadisti».

Il Fatto 1.4.10
Donne, paura antichissima

Breve storia letteraria della misoginia: da Esiodo che definisce Pandora (l’Eva dei Greci) “uno splendido malanno”, al Pavese teorico della “razza nemica”
di Giovanni Ghiselli

Nell’articolo di Massimo Fini sulla “razza nemica” si può riscontrare un antifemminismo antico e moderno il quale nasce dalla paura della donna, un metus feminae che è genitivo soggettivo (la donna ha paura) ma anche, e molto di più, oggettivo (noi maschi temiamo la donna). Tanto per cominciare “la razza nemica” echeggia un misogino suicida del Novecento, Cesare Pavese che nel Mestiere di vivere, scrisse: “Sono un popolo nemico, le donne, come il popolo tedesco”. All’inizio del secolo si suicidò, giovanissimo, Otto Weininger, un altro scrittore spaventato dal sesso femminile. Leggiamo alcuni pre-giudizi topici di Sesso e carattere: “l senso della donna è
dunque quello di essere non-senso. Essa rappresenta il nulla. E così si spiega anche quella profonda paura dell'uomo: la paura della donna, cioè la paura di fronte alla mancanza di senso: la paura dinanzi all'abisso allettante del nulla. La donna non è nulla, è un vaso cavo imbellettato e dipinto per un po' di tempo”. Un’eco di questo misogino austriaco si trova nel rimuginare dello Zeno di Svevo mentre osserva e ascolta il rivale Guido: “Faceva parte della sua teoria (o di quella del Weininger) che la donna non può essere geniale perché non sa ricordare”. Una così grande avversione, suggerita ai maschi dalla paura probabilmente generata da esperienze frustranti, risale alla civiltà greca, la quale fu tragica prima che classica. A partire da Esiodo. Il poeta beota nella Teogonia considera Pandora, la prima donna, l’Eva dei Greci, come uno splendido malanno, un inganno scosceso e senza rimedio inflitto agli uomini da Zeus per controbilanciare il beneficio prometeico del fuoco. Una considerazione malevola che ha fatto scuola: l’Adamo del Paradiso perduto del puritano John Milton si chiede perché il Signore ha creato “questo grazioso difetto di natura” e non ha riempito subito il mondo con uomini simili ad angeli senza il femminino, o non ha trovato un altro modo per generare l'umanità ( X, 888 e sgg.). Nella tragedia greca appaiono mogli e madri terribili, “bipedi leonesse”, come la Clitennestra dell’Agamennone di Eschilo o la Medea di Euripide, forse perché la donna ateniese costretta in casa e trascurata dal marito, incombeva sui figli, soprattutto sui maschi. I bambini ateniesi crescevano in un ambiente casalingo dominato dalle donne. Probabilmente anche quelli romani, almeno fino ai tempi rimpianti da Catone il Vecchio.
Nelle Storie di Tito Livio, il rigido tradizionalista prende la parola, da console, contro le feminae, quando queste, nel 195 a. C., scesero in piazza, chiedendo l’abrogazione di una legge che, dal 215, imponeva un limite al lusso delle matrone. Il futuro censore, l’austero fustigatore dei costumi che cominciavano a rilassarsi, dunque disse: “ I nostri antenati non vollero che le donne trattassero alcun affare, nemmeno privato, senza un tutore garante, e che stessero sotto il controllo dei padri, dei fratelli, dei mariti. Allentate il freno a una natura così intemperante, a una creatura riottosa, e sperate pure che sappiano darsi da sole un limite alla dissolutezza. Desiderano la libertà, anzi la licenza in tutti i campi. Appena cominceranno a esserci pari, saranno superiori”. Il disprezzo del maschio antico per le donne era legato anche al tacito sospetto dell'inferiorità maschile. Le usanze come quella che una moglie non doveva essere più attempata del marito, né di posizione sociale più elevata, né più colta, tradiscono la convinzione che gli uomini non sono in grado di competere con le donne a livello di parità; le carte vanno prima truccate: l'uomo deve ricevere un vantaggio. Come in una corsa a handicap dove l'handicappato è il maschio. Lo afferma apertamente Marziale nella clausula di un suo epigramma: “la moglie, Prisco, stia sotto il marito: non altrimenti l'uomo e la donna diventano pari”. Moltissime sono le riprese moderne di questo topos. Eccone una. Il protagonista di Delitto e castigo si rivolge polemicamente al fidanzato della splendidissima sorella con queste parole: “Ma non è forse vero che voi -l o interruppe di nuovo Raskolnikovnon è forse vero che alla vostra fidanzata, proprio nel momento in cui ricevevate il suo consenso, voi avete detto che più di tutto eravate lieto che fosse povera, perché è più vantaggioso togliere la moglie dalla miseria in cui vive, per poi poterla dominare?”. Talora il metus feminae (genitivo solo oggettivo) si avvicina al delirio. Sigmund Freud nella Introduzione alla psicoanalisi, immagina “l’invidia del pene”, ma non si ferma qui; sostiene che la vanità femminile “tanto più deve stimare le proprie attrattive, in quanto rappresentano un tardivo risarcimento per l’originaria inferiorità sessuale”, mentre il supposto pudore delle donne, copre in realtà “l’originaria intenzione di nascondere il difetto genitale”. Femina è parola imparentata etimologicamente con felix e con felicitas. Senza la femmina non solo non c’è alcuna felicità. Non c’è nemmeno la vita.

Repubblica 1.4.10
Il filosofo francese Jullien: "Perché bisogna imparare dall’Asia”
Lezione orientale

PARIGI. Sono trent´anni che François Jullien fa dialogare la cultura occidentale e quella orientale, lavorando sullo "scarto" esistente tra filosofia europea e pensiero cinese, usando quest´ultimo come uno strumento «per rimettere in moto la nostra filosofia, sottraendola alla pigrizia e al conformismo, nel tentativo di elaborare concetti utilizzabili anche al di fuori dell´ambito filosofico». Tale progetto è esplicitato apertamente nelle pagine del suo ultimo libro, Le trasformazioni silenziose (traduzione di Mario Porro, Raffaello Cortina, pagg.145, 13 euro), un saggio denso e affascinante nel quale il filosofo e sinologo francese mostra come la nostra cultura sia incapace di cogliere quei cambiamenti impercettibili, lenti e regolari, che trasformano radicalmente il reale quasi a nostra insaputa. «La realtà è fatta di maturazioni silenziose, di trasformazioni continue e globali che però, anche se ci stanno davanti agli occhi, noi non riusciamo a vedere», spiega lo studioso già noto in Italia per opere come Figure dell´immanenza, Parlare senza parole e Pensare l´efficacia in Cina e in Occidente. «Sono evoluzioni che non riusciamo a percepire, accorgendocene purtroppo solo alla fine, e spesso in modo brutale, quando la trasformazione è ormai avvenuta. Il risultato allora ci sorprende e spesso ci spaventa. Ma se siamo ciechi di fronte a questi cambiamenti striscianti, è perché il pensiero occidentale è incapace di pensarli. La cultura cinese invece è sempre stata molto sensibile alle trasformazioni silenziose».
Può fare qualche esempio?
«L´invecchiamento: un processo lento, impercettibile e globale, a cui però non facciamo caso. Invecchiamo senza accorgercene. Poi un giorno all´improvviso, rimaniamo sorpresi di fronte a una vecchia foto, rendendoci conto dei cambiamenti avvenuti senza che ce ne rendessimo conto. Anche il riscaldamento climatico del pianeta è un fenomeno globale e silenzioso di cui cogliamo la realtà solo quando è troppo tardi, al momento di avvenimenti drammatici che ne sono il risultato. Naturalmente, il concetto di trasformazione silenziosa funziona anche in ambito storico, dove ad esempio, le rivoluzioni sono sempre il risultato clamoroso di una lente e invisibile evoluzione che a poco a poco ha creato le condizioni dell´esplosione rivoluzionaria».
Perché la cultura occidentale è incapace di cogliere tali trasformazioni?
«Fin dai tempi della filosofia greca, tutto il pensiero occidentale è rimasto prigioniero dell´essere e dell´ontologia, considerando il reale composto da essenze immobili, come ad esempio le idee platoniche. Più un´entità è determinata, più essa è. La trasformazione silenziosa è invece sempre in movimento, rimanda a una realtà fluida e indeterminata, dove ciò che è contemporaneamente è già anche qualcos´altro. Essa rimette in discussione il principio d´identità e il principio di non contraddizione, due cardini dell´ontologia occidentale. Di conseguenza, è inconcepibile per il pensiero occidentale che è incapace di pensare la transizione».
Eppure anche il pensiero occidentale ha dovuto confrontarsi con il divenire...
«Lo ha fatto, immaginando il tempo come scena del divenire e riempiendola poi di eventi che sono diventati il dato cardinale della nostra percezione del reale. L´evento suscita pathos e aiuta a narrare. Ed è proprio perché la sua percezione si colloca sul piano della drammaticità emotiva, che gli eventi sono sempre stati al centro delle grandi narrazioni. Oggi il luogo privilegiato della liturgia dell´evento sono i media, che consumano eventi in continuazione per ottenere ascolti. Il loro scopo non è tanto l´informazione, quanto il montaggio teatrale del patetico a partire da una sequenza di avvenimenti. L´insorgere imprevisto e drammatico di un evento è quanto di meglio ci possa essere per conquistare il pubblico sul piano emotivo. È evidente che questo modo di affrontare la realtà è incapace d´interessarsi alle trasformazioni silenziose».
Che invece svolgono un ruolo importante nella cultura cinese.
«Certo. Spesso sono anche il frutto di una strategia cosciente. Per i cinesi sono la via maestra per realizzare un progetto politico. Si pensi alla demaoizzazione del paese realizzata senza strappi e rotture significative, ma solo attraverso cambiamenti quasi impercettibili e continui. Trentacinque anni dopo la morte di Mao, la Cina si ritrova lontanissima dal maoismo senza che ci siano state accelerazioni drammatiche tali da suscitare un rifiuto di tale evoluzione. Lo stratega, in Cina, non è un eroe che compie azioni sorprendenti, ma colui che trasforma silenziosamente una situazione, favorendo un´evoluzione senza che nessuno quasi se ne accorga. Alla fine, i risultati diventano evidenti a tutti, decretando la sua vittoria. La strategia cinese però non tiene conto di un elemento decisivo, vale a dire la capacità di opporsi e di confrontarsi apertamente. In questo modo dissolve le possibilità dell´opposizione frontale».
Il gioco del Go è un esempio del modo cinese d´intervenire sulla realtà?
«Gli scacchi sono un gioco frontale; il Go invece non è frontale, agisce per linee di forza che progressivamente bloccano e sfiniscono l´avversario. E il pensiero cinese evita lo scontro frontale».
È un bene, secondo lei?
«Non è detto che sia meglio, dato che nello scontro c´è sempre un dato positivo, vale a dire il lavoro del negativo. La forza del pensiero europeo è proprio quella di aver fatto emergere la figura del negativo, che sul piano politico è strettamente legata alla democrazia e al dibattito delle idee. In Cina, il pensiero dell´armonia e della trasformazione impercettibile tende a dissolvere la negatività».
Quali sono le trasformazioni silenziose che oggi le sembrano in atto?
«Si parla molto della crisi economica, che però, secondo me, è solo il risultato drammaticamente evidente della trasformazione silenziosa che negli anni scorsi ha favorito il progressivo passaggio del potenziale economico dall´Occidente all´Oriente, dagli Stati Uniti alla Cina. Un´altra trasformazione in corso, di cui spesso non si ha coscienza, è quella che riguarda il progressivo restringimento degli spazi di cultura in Europa, dove la cultura mediatica sta progressivamente sostituendo la cultura di qualità. Pur non volendo fare troppo la Cassandra, credo che sia giusto mettere in guardia contro questa vera e propria recessione intellettuale che riduce progressivamente le possibilità della cultura di qualità. È una trasformazione silenziosa, di cui dobbiamo avere coscienza per provare a organizzare forme di resistenza e strategie in grado d´interrompere tale processo».

mercoledì 31 marzo 2010

il Fatto 31.3.10
La sconfitta della Bonino caccia alle responsabilità
In provincia non si è vista e il Pd non l’ha chiamata
di Paola Zanca

Sotto shock, ma lucidi. Il giorno dopo la sconfitta, il segretario del Pd Pierluigi Bersani ringrazia Emma Bonino. Come a dire: non è colpa sua. Ma su cosa sia successo, non tutti la pensano allo stesso modo. Ecco una rassegna dei perché Emma ha per so.
Mai vista una campagna così. Lo pensano in molti, (quasi) nessuno lo dice. Emma Bonino è stata troppo a Roma e troppo poco nelle province. Per questo è stata punita. Diciamolo, non è proprio un’insinuazione. Il suo tour elettorale comincia due mesi fa. Va subito a Frosinone, Latina e Viterbo. Rispettivamente, il 7, il 13 e il 20 febbraio. Ma non ci tornerà più. Si fa vedere a Rieti e a Magliano Sabina a fine febbraio, un mese fa. La domenica dopo fa Sora, Cassino e Ceccano, in provincia di Frosinone. Quella dopo ancora, Anzio e Nettuno. L’ultima disponibile, il 21 marzo, Monterotondo e Passo Corese. Il giorno prima era andata a Firenze (dove nessuno poteva votarla), per sostenere la lista Bonino-Pannella. “Soprattutto all’inizio – dice il segretario regionale dell’Idv, Stefano Pedica – faceva tutto tranne che il candidato di coalizione. La si è vista in Piemonte, in Toscana: ma un candidato nel Lazio non si può muovere da quella regione. Noi abbiamo fatto una campagna dura, un’opposizione forte. A volte ci è mancato un candidato presidente”. Siamo quasi agli sgoccioli: un passaggio a Velletri, Frascati, Ostia e Civitavecchia. Giovedì scorso un incontro con i cittadini di Montalto di Castro. Alle cene elettorali con i candidati non si è quasi mai fatta vedere. La Polverini, invece, non se n’è persa una. Nel mese di marzo, gli appuntamenti dell’agenda Polverini sono 176. Quelli segnati sul calendario della Bonino solo 72. Certo, servivano più soldi: per le strade della re) gione, ogni 4 manifesti della Polverini se ne vedeva uno della Bonino. Ma andare in giro non costa nulla. È anche vero che in campagna elettorale non è il candidato che prende e va. Sono i partiti locali che organizzano l’appuntamento, trovano la sede, mobilitano il territorio. E questo è un altro punto.
Il partito perso sulla consolare. Dice Massimiliano Valeriani, consigliere comunale a Roma per il Pd: “La Bonino ha perso perché la coalizione, a partire dal Pd, non ha ancora fatto i conti con la sua organizzazione territoriale. Non è possibile che un voto su scala regionale abbia differenze così rilevanti, solo percorrendo la consolare che da Roma sale a Viterbo e scende a Frosinone. Ci sono tante coalizioni e mai la stessa proposta politica. Il problema del Pd è questo: non c’è omogeneità, mentre la destra è la stessa, da Latina a Viterbo”. Ad aver fatto sbarrare gli occhi ai dirigenti democratici laziali è soprattutto il dato di una città, Frosinone, dove la Polverini ha battuto la Bonino 60 a 39. Da Frosinone vengono due esponenti di rilievo del partito: Scalia, assessore uscente della giunta Marrazzo, già presidente delle provincia ciociara, e Francesco De Angelis, anche lui ex assessore e oggi europarlamentare. Possibile, si chiedono nel Pd, che non abbiano portato un voto? È la filiera che non funziona. Perfino a Viterbo – dove si votava anche per le provinciali – il centrosinistra è riuscito a dividersi e a presentare due candidati: non andrà nemmeno al ballottaggio. Perchè l’avrebbero dovuto votare unito alle regionali?
Ci volevano le primarie. A proposito di territorio, c’è chi non riesce a non pensare che quella della Bonino è stata una candidatura piombata dal cielo. Per esempio Luigi Nieri, già assessore, ora rieletto con Sinistra Ecologia e Libertà: “Ci volevano le primarie: servivano a lanciare il candidato, a farlo conoscere, a rafforzarlo”. Ma per lui la ragione della sconfitta è anche un altra: “Nonostante gli sforzi, non siamo riusciti a trasmettere quel messaggio di legalità e trasparenza in opposizione al centrodestra”. Nieri pensa soprattutto a Fondi: quel Comune doveva essere sciolto per infiltrazioni mafiose. Invece, l’affluenza è stata record e la destra ha vinto con il 75 per cento dei voti.
Via Gradoli. Nessuno vuole dare la colpa a Marrazzo, ma in tanti ricordano che, soprattutto in provincia, le frequentazioni di Natalì e Brenda hanno colpito parecchio l’immaginario dell’elettorato moderato. Senza quel video, c’è chi è pronto a scommettere, Marrazzo ora sarebbe stato riconfermato presidente: aveva già stretto l’accordo con l’Udc. Il voto cattolico era assicurato. L’editto della Chiesa. Ci mancava solo l’appello della Cei. Con quel richiamo sull’aborto ha tirato un brutto colpo. Magari non a Roma, ma nei piccoli centri dove i parroci fanno da collante e collettore di voti, qualche effetto deve averlo sortito. Anche perchè, più che dell’aborto, sostiene più di qualcuno, le gerarchie ecclesiastiche temevano i tagli della Bonino sulle cliniche private accreditate con la regione.
L’ombra di Pannella. Quello sciopero della sete in piena campagna elettorale non è andato giù. Troppo impegnata nelle “sue” battaglie, la Bonino avrebbe tralasciato il vero obiettivo: vincere le elezioni. La candidata sconfitta dirà la sua oggi, in una conferenza stampa. Al fianco di Marco Pannella.

il Fatto 31.3.10
Si può dare battaglia al cattivismo della Lega
Vendola: “Bossi salva il Pdl ma lo divora
“Ci vorrebbe un congresso di futurologia alla Berlinguer. Vince chi ha un’idea del domani”
di Luca Telese

C erto, il momento magico si sente. E’ partito dalla Puglia per staccare dopo una campagna massacrante, ma si aggira per i vicoli del centro di Roma, chiunque lo vede lo saluta. Nichi Vendola in queste ore è diventato suo malgrado un simbolo: “Sei l’unico che ha vinto, aiutaci!!”, gli grida una professoressa a corso Vittorio Emanuele. “Sono volata da Stoccolma solo per votare te”, gli sussurra una studentessa da Feltrinelli. “Siamo andati e tornati da Lecce in 12 ore per sostenerti”, dicono degli studenti affacciati ad un bar vicino a piazza Navona (che brandiscono una copia de Il Fatto). Il neogovernatore si gode il momento magico con una punta di pudore, ma felicissimo. Quando un altro ragazzo, da un tavolino di piazza del Fico grida: “Per me esisti solo tu! E Berlusconi!” gli scappa da ridere: “Ti ringrazio, ma temo che dovrai scegliere”. Che fare dopo la sconfitta, per Vendola è un pensiero dominante.
Molti dicono: adesso Nichi si deve iscrivere al Pd. (Faccia stranita). Io non voglio iscrivermi al Pd. Io con il Pd voglio discutere.
Perché dici di no?
Perché l’identità del Pd è uno dei problemi della coalizione che deve nascere: è un partito che non ha un chiaro progetto culturale, un contenitore elettorale che spesso produce effetti bizzarri. Ovvero?
Funziona come una centrifuga che tritura gruppi dirigenti: Veltroni, Franceschini... Io non ho ancora capito quali erano le differenze politiche, su cosa si dividono. Molti dicono: per te aderire è come Parigi val bene una messa per Enrico IV. Un atto di sottomissione che ti regala un biglietto in prima squadra.
(Ride) Se io avessi un problema di collocazione personale non avrei fatto quello che ho fatto in Puglia, la battaglia delle primarie. Per mia fortuna non ce l’ho, sono un uomo felice che ha altri problemi.
Quali?
Come ricostruire una coalizione e tornare a vincere. Cosa manca? Bè, tutto. Anche solo capire chi sono gli invitati. A volte temo che la sinistra non impari mai.
A che ti riferisci?
Vedo che inizia la campagna di demonizzazione contro i grillini al grido: ‘Ci hanno fatto perdere’.
E invece tu cosa diresti?
C’è gente che ha passato una vita a inseguire Buttiglione, e che ora vuole iniziare un nuovo cammino partendo da un veto. Assurdo. Non bisogna inseguire Rocco? Per carità, io con lui farei un seminario di filosofia: ma voglio dire che deve finire la cultura altezzosa della repellenza per cui si mette all’indice un nemico interno. Tu cosa avresti fatto? Io ho fatto. Con i ragazzi delle Cinque Stelle parlo, discuto, ragiono. Si trovano punti di convergenza e
di dissenso. Ma intanto va capito che non sono l’orco, ma una delle cose più nuove e vive di queste elezioni. Assieme ai ragazzi delle fabbriche di Nichi.
Dicono: sono fondamentalisti. Se è per questo esiste anche il fondamentalismo di palazzo, il vangelo triste della realpolitik.
Ogni riferimento a D’Alema... I riferimenti sono tanti. Elenca gli errori che portano alla sconfitta.
Il primo, sempre lo stesso: il centrosinistra pretende sempre di raccogliere senza seminare. Il secondo.
A Piazza del Popolo abbiamo avuto la percezione dell’indispensabilità l’uno dell’altro. Il meraviglioso pluralismo di quella piazza era una speranza, non una minaccia. Ma se poi non ci si parla, se non si apre il cantiere... Quando va fatto?
Subito.
Passiamo a un altro errore.
L’analisi dell’avversario e della sua situazione di difficoltà. Ovvero? Il berlusconismo è un racconto in crisi, e dopo l’insorgenza tragicomica delle guerra per bande e delle liste mancate, le urne lo dimostrano. Però quella crisi non trova sponde e, sbocca a destra.
Nella Lega...
Proprio così. Noi ci siamo fatti raccontare dai giornali che tutto per loro è andato bene. E’ folle.
E non è così?
Macchè: la stampella della Lega maschera malamente la crisi: ma è anche un fattore che la accelera. Tu non consideri Bossi una costola della sinistra? Un’altra follia ricorrente. Ho citato in tutti i comizi la vergogna dei bambini lasciati a pane e acqua dal sindaco leghista in provincia di Vicenza perché non avevano pagato la retta. Su follie come questa la si-
nistra deve fare battaglia culturale ogni giorno, senza remore. Si dice: Maroni è il miglior ministro del governo.
Come no. Ed è anche il teorico della cattiveria come simbolo politico, dell’ordine pubblico come discriminazione, della galera come soluzione ai problemi sociali.
La sinistra pensa di dover competere su quel terreno. Una follia. Nella campagna elettorale in Puglia la destra non ha usato l’argomento nemmeno una volta: lo avevano disinnescato con le politiche sociali. Contro il nuovo razzismo dobbiamo dare battaglia. Hai una ricetta?
Di sicuro una: liberiamoci della subalternità alle idee della destra. Facciamo un corpo a corpo sul loro terreno, con i fatti.
Ad esempio?
Il fisco. Possiamo raccontare a questo Paese che le uniche tasse che sono saltate sono quelle dei ricchi e che la pressione fiscale è aumentata?.
E gli argomenti positivi?
Il lavoro e la libertà. Finché il lavoro resta marginale anche la sinistra lo sarà. E la libertà? La vuoi contendere al Cavaliere?
Ma certo! Il mix liberismo-populismo inventato da Berlusconi promette una libertà che non c’è, e che viene sostituita dal rancore sociale dei ricchi, che interpretano e illudono i sentimenti dei poveri. Come si rompe questo mix?
Raccontandolo. Dietro questa ideologia cultural sentimentale c’è l’immaginario guardone dei reality, il populismo manipolatorio di Beautiful.
Cos’altro serve?
Uscire da discussioni inutili tipo: va inseguita o no l’Udc? In Piemente l’Udc c’era e la Bresso ha perso lo stesso. Ci serve un’idea della crisi diversa da quella della destra... E poi?
(Sorride). Ricominciamo a pensare in grande. Magari rispolverare una geniale idea di Berlinguer, il congresso di futurologia. Oggi vince chi ha un’idea del futuro, e non del passato.

Repubblica 31.3.10
Sulla moralità
Niente nuovismo
Vendola avvisa gli alleati "Non c´è futuro per i partiti io punto sulle virtù civiche"
Il governatore: qui si fabbrica la speranza
L´ex segretario inquisito del Pd aveva detto che lasciava Ora mi aspetto che lo faccia davvero
Forse rischio di ficcarmi nel buco nero del nuovismo, una moda nefasta. Ma io osservo la realtà...
itervista di Antonello Caporale

BARI - «I morti seppelliscono i morti. Concentriamoci sui vivi».
Nichi Vendola dà già per stecchito Bersani.
«Io penso invece che siano finiti i partiti. Consumati, inadeguati, fuori dalle virtù civiche. Non voglio più essere scambiato per uno degli esorcisti che tentano di far vivere chi è defunto».
Bersani, invece...
«Non commento i destini personali. Penso a quel che dovrà succedere».
Succederà che porterà le sue poesie a Roma.
«Anche la poesia, sì. "La poesia è nei fatti" è stato il mio slogan elettorale. Porterò l´esperienza delle fabbriche».
Sembra che la Puglia sia piena di operai. Invece lei fabbrica parole.
«Sono luoghi in cui le esperienze si coagulano, la gente si ritrova insieme e resta insieme. Sono posti in cui si coopera per un´idea di governo. Cooperazione: l´uno a fianco all´altro. Invece mi dica lei cosa sono i partiti».
Dica lei.
«Aree delimitate da una specie di filo spinato in cui la competizione è sfacciata, ossi di seppia, luoghi pieni di detriti, posti senza anima. I partiti sono fuori dal popolo, oltre la gente. A volte contro di essa. Una catena, una rete oligarchica e distante».
Nelle sue fabbriche invece c´è piena occupazione
«Ha visto quanta gente? Centoquaranta sono le fabbriche. E fabbricano speranze, sono connesse alle piazze, alle vite degli ultimi. Altrimenti io come avrei fatto, come avrei potuto vincere?».
In effetti D´Alema aveva garantito che avrebbe perso.
«Quando le differenze sono politiche è inutile commentare con parole senza riguardo».
La sua è sempre una costruzione innocentista, anche se parecchio sanguinante della realtà. Però se annusa le liste che l´hanno sostenuta troverà qualche brigante.
«È il frutto di questo sistema, siamo figli di questi partiti. La ragione per cui le ho detto che la loro vita naturale si deve considerare conclusa».
Per esempio: l´ex segretario del Pd pugliese, inquisito, annuncia il ritiro dalla politica. Però giacché è già candidato aspetta di vedere i risultati. Eletto. Finita la festa, gabbato il santo.
«Aveva detto che lasciava ed è assai opportuno che tenga fede all´impegno».
La moralità.
«La moralità dobbiamo ritrovare, sì. La vita sobria, anche umile. Io non ho partecipato a una sola festa, e sa che Bari è piuttosto generosa nell´offerta, perché mi sembrava utile non apparire. Io devo difendere la mia persona dal rischio di divenire solo un personaggio e mi produco in periodi di astinenza: dalla tv e dal potere. Voglio riuscire a non farmi mangiare dal potere».
A lei si rivolgono con devozione di stampo berlusconiano.
«Quale Berlusconi! Qui in Puglia c´è stata semina. Ed ora c´è raccolto. Nell´innovazione abbiamo investito un miliardo e 700 milioni di euro. Il budget della giunta precedente era di 80 milioni di euro. Innovazione. Cioè ricerca, nuove competenze, apertura di carriere per chi inizia il lavoro. Cultura. Abbiamo la più possente e tecnologica macchina di Protezione civile, un sistema unico di telecontrollo del territorio. E quando ripartirà l´economia vedrà la Puglia come correrà. Altrove forse il raccolto non c´è stato perché nessuno ha pensato di seminare».
Berlusconi ha seminato?
«Lui è riuscito nel miracolo di separare il concetto della libertà dal lavoro. Il lavoro è scomparso. La sinistra nemmeno se ne è accorta. Lui ha cancellato l´articolo 18 e l´opposizione quasi non s´è destata dal torpore. Questo è il centrosinistra delle allusioni, perciò diviene il centrosinistra delle illusioni. Ed ecco qui il risultato».
Il partito che non c´è più.
«Partito: participio passato. Cioè e anche: fuggito, sparito. Scomparso».
Il partito democratico.
«Il fuggito democratico».
Poesia pura.
«Berlusconi lascia solo solitudini. E noi che stiamo dall´altra parte non abbiamo strumenti, non capiamo, non agiamo. Competiamo. Sappiamo unicamente competere tra noi».
Sapete solo scannarvi.
«È il frutto della formula sbagliata. Non sono gli uomini. La leadership è una funzione non una finalità. Non ho la forza di connettere quello con l´altro, l´operaio e il borghese, il giovane e l´anziano, il diversamente abile, colui che è fragile. E provo a vincere da solo, corro per dominare».
Dunque: bisogna buttare giù il partito democratico e tutto l´edificato urbano delle periferie di sinistra e costruire la nuova fabbrica del consenso.
«Rischio di ficcarmi nel buco nero del nuovismo, una moda nefasta. Ma osservo la realtà: ossi di seppia sono divenuti i partiti. Io porto le fabbriche, un segno nella costellazione. Contribuisco così. A fine aprile avremo gli stati generali delle fabbriche. Tutta Italia».
Tutta l´Italia di centrosinistra in Puglia, per uno stage formativo.
«Da quel punto di vista sì. Siamo imbattibili a utilizzare al meglio gli strumenti e le parole: connettere, coinvolgere, gratificare. Vede la meraviglia del volontariato, vede la forza oscura dell´anima, il piacere di costruire qualcosa di nuovo. Quanti soldi sarebbero serviti? E con quei soldi cosa mai avremmo ottenuto?».

Repubblica 31.3.10
Jeff Anderson, l´avvocato anti-abusi: "Il trasferimento dei preti-pedofili dipende dal Vaticano"
"Porteremo il Papa in tribunale" Usa, la guerra dei legali delle vittime
"Un giudice mi ha già dato ragione, ma la Santa Sede si è appellata alla Corte Suprema"
di Angelo Aquaro

NEW YORK - Avvocato, ma davvero lei crede di poter portare il Papa a processo per pedofilia? Jeff Anderson, 62 anni, l´uomo che da un quarto di secolo combatte gli abusi dei preti negli Usa, il detective che ha scoperto i documenti che mostrerebbero come Joseph Ratzinger difese il molestatore di duecento bambini sordi, ha pochi dubbi: «Il mio caso porta direttamente al Vaticano. E io spero, anzi sono convinto di riuscire a fare deporre il Papa. Un tribunale mi ha già dato ragione. La Santa Sede si è appellata alla Corte Suprema. E adesso... ».
E adesso Jeff non ha più un attimo di pace. I telefoni dell´ufficio legale di St. Paul, Minnesota, suonano che neppure le campane di Pasqua. «Ogni due settimane una nuova causa» dice Patrick Noaker, l´altro avvocato che da dieci anni segue Jeff. «Ma sapete che negli Usa un bimbo su sei è molestato?». Anderson lo ha scoperto sulla sua pelle: anzi, sulla pelle di sua figlia. «Trovò la forza di confessarglielo solo dieci anni dopo», ricorda Patrick. Il mostro era lo psicoterapeuta, per la cronaca un ex prete, che avrebbe dovuto assistere la ragazza, entrata in crisi per il divorzio - e, ha scritto l´Ap, ai tempi anche i problemi di alcolismo - del papà. «Ecco perché dobbiamo fare tutto quello che possiamo per fermare l´orrore. Arrivando fino a Roma: perché il meccanismo che abbiamo scoperto porta fin là».
Il meccanismo è una bomba a orologeria che spetta alla Corte Suprema disinnescare o meno. Il Washington Post ha scritto che ci sono già stati contatti con i legali del Vaticano. «Non nostri: probabilmente fanno parte dell´istruttoria della Corte, che deve decidere se accogliere il ricorso o no». Ma uno stato straniero come il Vaticano non è protetto dall´immunità? «Questo è il punto» dice Jeff. «Il punto sono le eccezioni».
La legge prevede il perseguimento di uno stato straniero se i suoi dipendenti sono responsabili di "tortious activity", cattiva condotta. «E i preti sono dipendenti del Vaticano: lo dimostra il fatto che è Roma a ordinare i trasferimenti».
Il procedimento non è l´unico intentato contro il Vaticano. Già cinque anni fa il segretario di Stato Angelo Sodano cercò di "sensibilizzare" sul tema la collega Condoleezza Rice: perché continuano a farci causa? Ma «John V. Doe contro la Santa Sede» (John Doe è il nome fittizio che si usa per coprire l´identità del molestato) è il primo arrivato in tribunale.
Dice Pat Noacker: «Il caso dell´Oregon nasce così: un prete confesso di abusi che dall´Irlanda viene spostato negli Usa, prima a Chicago e poi appunto a Portland. Passo dopo passo, inchiesta dopo inchiesta, ci siamo resi conto che il meccanismo degli spostamenti era sempre identico. La scoperta di abusi, il trasferimento, altri abusi».
La ragnatela, dicono, tocca anche l´Italia. «Tanti sacerdoti in partenza, molti americani che hanno studiato nei seminari di lì. Il disegno è evidente: questa è la politica della Chiesa. E la politica della Chiesa non la fa il Papa?».
Dal Vaticano continuano a dire che no, i sacerdoti dipendono dai vescovi: e infatti finora sono state le diocesi a rispondere degli indennizzi miliardari. Ma il carteggio scoperto qui in Minnesota e pubblicato dal New York Times, con il futuro del prete pedofilo deciso a Roma, dice il contrario.
Vi accusano di complotto, vi accusano di complicità nell´attacco dei grandi giornali a Benedetto XVI. «Ma sapete quanto aiuto abbiamo ricevuto da tanti sacerdoti, perfino da tanti vescovi? Una minoranza, purtroppo: troppe consegne del silenzio. Ma è dalla stessa chiesa che si alza l´indignazione: e sempre di preti, vescovi, che hanno potuto parlare con le vittime, conoscere le loro storie».
E se quel giorno arrivasse davvero? Il Papa sul banco degli imputati. E, da fare, una sola, decisiva domanda... «Perché ha permesso tutto questo. Perché lo ha permesso quando era vescovo in Germania. Perché lo ha permesso quando era cardinale a Roma. Perché continua a permetterlo ancora adesso».

Repubblica 31.3.10
La formula del piacere
La biografia del professore americano che raccontò i misteri delle donne
Masters e i suoi studi sul sesso
di Natalia Aspesi

Ciclicamente si fanno epocali sondaggi sul sesso, chiedendo a centinaia o migliaia di malcapitati quante volte, di qua o di là, in che modo, con chi, come nel ricco e recente saggio La sessualità degli italiani di Barbagli, Dalla Zuanna e Garelli: l´hanno chiamato il primo "Rapporto Kinsey" italiano, speriamo toccandosi (essendo maschi tutti e tre gli autori), vista la deriva autolesionista-masochista del povero Alfred, evidentemente frastornato dalla miseria sessuale degli americani anni ´40/´50. Negli anni ´70 una affascinante signora fulva, Shire Hite, sondaggiando tra belle addormentate incavolate, compose un famoso rapporto da cui si deduceva che gli uomini ancora si perdevano nei misteri del piacere femminile, venendone casualmente e raramente a capo. Ma intanto, tra Kinsey e Hite, si era imposta una coppia avventurosa e sfacciata che non riteneva sufficienti le parole spesso bugiarde, ma voleva sapere quel che nessuno, neppure il più spericolato degli scienziati, sino a quel momento aveva osato affrontare: cosa succede nel corpo umano quando si fa l´amore. Soprattutto nel corpo femminile, di cui ancora si preferiva non sapere quale trambusto avvenisse nei loro ignoti e temuti recessi.
Nel pieno del suo spettacolare successo mondiale, la coppia fu immortalata sulla copertina di Time del 25 maggio 1970, ma solo ora esce la prima ricca biografia a tratti crudele. Thomas Mayer in Masters of sex (Basic Book, pagg.411, euro 33) racconta la vita di William Masters, docente all´università Washington di St. Louis, ginecologo ed ostetrico insigne, guru dell´infertilità (tra le sue pazienti, oltre alla sua signora, ci fu, inutilmente, l´infelice e sterile Soraya, moglie per questo ripudiata dello Scia di Persia), e di Virginia Johnson, che priva di qualsiasi titolo accademico, era diventata una collaboratrice indispensabile per l´intuito e la sensibilità femminili. Quando i due si incontrarono, alla fine del 1956, lui aveva 41 anni, sposato, due figli, l´eroica fissazione di voler sfidare il moralismo d´epoca che considerava reato la prostituzione e comunisti gli studi sul corpo della donna. Lei era una trentenne di aspetto placido, più volte divorziata, sola con due figli da mantenere: Masters la ingaggiò subito come assistente per i suoi segreti e pericolosi esperimenti, a causa della voce suadente ed erotica (che, secondo il biografo Mayer, la signora, oggi 85enne, ha conservato) e per aver capito che, al contrario di lui, molta teoria e poca pratica, lei era forse scarsa nella prima ma ottimamente provvista nella seconda.
Ottenuta anche la benedizione dell´arcivescovo cattolico che per scongiurare i divorzi avrebbe consentito qualsiasi peccaminosità, la coppia subito molto affiatata (qualche anno dopo anche a letto, "fa parte dei suoi doveri professionali, cara", segue dopo 15 anni matrimonio freddo e dopo altri 11 divorzio astioso), iniziò il suo prezioso studio: dapprima solo con prostitute, poi con studentesse e mogli di insegnanti. Nude ma con una federa in testa per garantirne l´anonimato, la generose cavie che si immolavano alla scienza, talvolta a pagamento, erano ben contente di spassarsela un po´, sia pure con la collaborazione di un fallo di plexiglass a motore con in cima una microcamera chiamato Ulisse, (però anche con partner umani sconosciuti), una foresta di elettrodi e sensori sul corpo, generando scene da Frankenstein Junior (di Mel Brooks, con Gene Wilder, 1974).
Le servizievoli ragazze così monitorate, manovravano con tale appassionata destrezza il simpatico Ulisse da farlo talvolta schizzar via, in faccia a qualche raro scienziato ammesso alla segreta sperimentazione, indubbiamente epocale, altro che sondaggi: per la prima volta infatti quella grotta straniera, quel labirinto alieno tra le gambe delle signore, erano stati esplorati, fotografati, visti! Cadeva il più lunatico dei misteri, quello dell´innominabile orgasmo: con i suoi umori e le sue tensioni e i suoi fremiti e sudori e sperdimenti e battiti e arrossamenti di ogni muscolo e ogni nervo e ogni centimetro di pelle. La tecnologia applicata al sesso registrò 10mila orgasmi di 700 persone, con rivelazioni sconvolgenti: a) Freud aveva torto, esisteva un solo orgasmo femminile, non due; b) responsabile era una parte del sesso femminile ignorata dai testi scientifici e spesso dagli uomini e talvolta persino dalle donne; c) le donne erano più erotiche degli uomini, potendo ottenere orgasmi multipli.
L´atto sessuale nell´uomo e nella donna nel 1966 divenne un bestseller mondiale (in Italia uscì da Feltrinelli): e gli autori si aspettavano un tripudio di gloria; fu invece uno scandalo, un disastro, e Masters fu costretto a rinunciare al suo ruolo accademico. Un paio d´anni dopo, con Patologia e Terapia del rapporto coniugale riconquistarono i moralisti inventando un trattamento che in due settimane (l´approccio psicanalitico poteva durare anni) di esercizi diurni e notturni ovviamente sessuali, ricuciva matrimoni sfasciati. Il mondo intanto cambiava e pareva che tutti ormai facessero l´amore senza problemi, e i loro studi diventarono sempre più demoniaci: arrivando a Homosexuality in Perspective, accolto malissimo perché propagandava una ‘cura´ dell´omosessualità che in un baleno rendeva arrapante il sesso opposto. Sessuologo evidentemente romantico, l´ormai anziano studioso improvvisamente chiese il divorzio: non aveva mai perso i contatti col biondo primo amore e 55 anni dopo, lei vedova e sempre bionda, lui, già malato di Parkinson, i due decisero che avevano aspettato abbastanza. E nell´agosto del ‘93 a 77 anni, William e la sua coeatanea Dodi si sposarono. Virginia, ultrasessantenne ancora piacente e non doma, si comportò come talvolta fanno donne in là con gli anni: si prese per un po´ un compagno omosessuale, belloccio e servizievole.
Masters è morto nel 2002, Johnson vive in uno di quei briosi quartieri per ricchi pensionati; tempo fa ha distrutto un tesoro: gli appunti, le registrazioni, le storie cliniche del lungo straordinario lavoro che l´aveva legata a Masters per 40 anni, stanca di pagare l´affitto del magazzino. O forse come ultima vendetta verso l´uomo mai amato e mai perdonato.

l'Unità 31.3.10
Cardinal Ruini, ex Cei: «C’è chi vuole scardinare la fiducia e la fede in Dio»

Preoccupata la Cei sgomento per gli abusi, solidarietà al Papa p Il cardinale Schoenborn «Fu Wojtyla a insabbiare, non Ratzinger»
Scandalo pedofilia i vescovi italiani ora collaboreranno con la giustizia
L’arcivescovo di Vienna punta il dito con il predecessore di Benedetto XVI. L’attuale Papa avrebbe voluto indagare su un cardinale accusato di pedofilia, ma venne fermato. Scende in Germania il consenso al Pontefice.
di Virginia Lori

L’accusa viene dalla Germania, ed è esplicita: fu papa Giovanni Paolo II a bloccare le indagini su un caso di pedofilia nel 1995 e non l’allora cardinale Ratzinger, oggi papa Benedetto XVI. Così il cardinale Christoph Schoenborn difende l’attuale Papa e accusa il predecessore: aveva paura, dice, che una commissione d’inchiesta avrebbe danneggiato l’immagine del Vaticano. Accusato di molestie sessuali, allora, era l’arcivescovo di Vienna, cardinale Hans Hermann Groer.
Di fronte alla pedofilia i vescovi italiani «non si oppongono, ma anzi convergono, con una leale collaborazione con le autorità dello Stato, a cui compete accertare la consistenza dei fatti». «Sgomento, senso di tradimento e rimorso per ciò che è stato
compiuto da alcuni ministri della Chiesa» dice la Cei, che si schiera a difesa del Papa e ribadisce «la vicinanza alle vittime di abusi e alle loro famiglie, parte vulnerata e offesa della Chiesa». Ma i vescovi intravedono dietro le notizie e i documenti pubblicati dal New York Times la mano di un ex vescovo progressista che dovette dimettersi per una relazione omosessuale iniziata quando il partner aveva 10 anni. Sarebbe il portabandiera di una quinta colonna «interna» il cui interesse a offuscare l'immagine del Papa coincide con quello di chi vede la Chiesa Cattolica come origine di tutto il male. Anche Camillo Ruini, ex cardinal vicario, accusa «uno spirito non solo polemico» che «vorrebbe sradicare la fiducia» nella Chiesa e alla fine «la fede in Dio dal cuore degli uomini». Un complotto: «Ci sono due motivi di sofferenza che stanno insieme: sofferenza per le colpe dei figli della Chiesa, e sofferenza per questa volontà ostile alla Chiesa». Manca però la sofferenza per le vittime degli abusi.
PIOGGIA DI DENUNCIE
Continuano le denunce. Oggi su Italia 1 la confessione del primo prete sbattezzato, Salvatore Domolo, che racconta gli abusi subiti a 8 anni. Ieri la diocesi di Bozano e Bressanone colpita dall’arresto del responsabile dei chierichetti di Varna ha istituito un referente indipendente per le vittime e per i colpevoli di abusi. È Werner Palla, ex difensore civico della Provincia autonoma, a cui ci si può rivolgere anche via mail (werner.palla rolmail. net).
Anche in Germania la Chiesa ha istituito un telefono presso la diocesi di Treviri. Centinaia di persone hanno denunciato di aver subito violenze a sfondo sessuale da bambini, tra gli anni 50 e 80. Lo scandalo ha toccato due terzi della diocesi; l'arcivescovo di Treviri, Stephan Ackermann, ha riconosciuto che 20 sacerdoti sono sospettati di aver abusato di bambini. Non basta, forse: il 46% per cento dei tedeschi il sondaggio sarà pubblicato dal settimanale Stern non apprezza il comportamento del papa. Nel 2007 il 70% l’approvava, i critici erano l’8%.

martedì 30 marzo 2010

Repubblica 30.3.10
La candidata radicale evita dichiarazioni. "Con il Pd comunque esperienza utile"
"Brutte notizie dalle province" l´amarezza nel fortino di Emma
Con lei molti democratici e il compagno di partito Spadaccia. Ma non Pannella
di Alessandra Longo

ROMA Quartiere per quartiere, sezione per sezione, voto per voto, Roma e provincia, Latina, Frosinone, Rieti. Emma Bonino, occhiali sul naso, e sigaretta tra le dita, è appesa ai risultati.
Che cambiano, ora sale lei, ora tocca a Renata Polverini e sono gli ultimi dati, quelli che fanno male. Va come previsto: «Sarà una battaglia al fotofinish». E così è. Scende la sera e il Lazio non ha ancora il suo governatore. In via Ripense, al comitato elettorale di Emma, c´è un clima che volge all´amaro, le facce si fanno buie con il passar delle ore. Tutto è sospeso, una sorta di apnea forzata, anche un po´ crudele da reggere. Altalena di notizie che la candidata apprende dallo schermo tv: «Emma, a Roma città vai fortissimo!». E subito dopo: «Emma, brutte notizie da Frosinone, Latina, Rieti. Lì la Polverini stravince». Via vai di amici, amiche, un po´ al capezzale. Lei non si fa vedere. Stretta in un giacchino grigio con la sciarpa gialla avvolta intorno al collo, si sottrae alle pressioni, azzanna un panino per fame arretrata: «Figurati se esco a fare commenti in una situazione così». Perché il problema, mentre la luna sale, è uno solo: i dati positivi della capitale riusciranno a compensare la defaillance schiacciante nelle altre province? Alle 22 le proiezioni danno la Polverini al 50,6. Emma è ferma al 48,8.
A centellinare qualche dichiarazione, giusto per buona educazione, è Riccardo Milana, coordinatore della sua campagna elettorale, senatore del Pd, cattolico vicino a Marini, perfettamente integrato con il team dei radicali. Uno che è entrato prudente al fianco di Emma per poi «invaghirsi» della sua energia, della sua determinazione, della sua voglia di vincere.
Adesso dice, allargando le braccia: «Sapevamo che finiva così, con un testa a testa». Dunque, prudenza, anche qualche rito scaramantico consumato fuori dai riflettori. Si oscilla, sale il nervosismo. Alle sette della sera, Emma fugge. Il tempo di vederla salire in macchina e una muta di cronisti la segue. Scusi dove sta andando? «A casa per un po´, la notte sarà lunga».
Sfida difficile, con un´avversaria, Renata Polverini, sponsorizzata dal premier in persona che si è speso per lei, ha occupato manu militari tutti gli spazi televisivi alla vigilia del voto e ha detto chiaro agli elettori: «O noi o loro». Filippo di Robilant, braccio destro di Emma da una vita, fa la spola tra il suo ufficio e la stanza avvolta dal fumo dove lo schermo distribuisce coltellate. Passa Zingaretti (Pd), transita il radicale Gianfranco Spadaccia, il reggente alla Regione Esterino Montino. Marco Pannella non c´è, aspetta la sentenza nella sede storica di Largo Argentina. In mezzo a tanta fibrillazione forse è lei ad essere la più tranquilla se non altro per quel che le ha insegnato sua madre: «Fai quel che devi. Succederà quel che può».
Più di così dice ai suoi non si poteva fare. Lo ripete a Radioradicale dove è andata in diretta anche ad urne aperte, con gran indignazione di Cicchitto che l´ha subito accusata di aver violato il silenzio dovuto. Lei colpevole, il premier che straripa dalla mattina alla sera, no, lui invece può.
Non c´è tempo per le riflessioni sugli elettori che si sono sottratti al rito. Emma azzarda una prima risposta nel pomeriggio, del tutto provvisoria, già invecchiata la sera: «Forse chi voleva votare Pdl non se l´è sentita di votare altro, Storace e Lista Civica. Ma questa spiegazione avrebbe senso solo per il Lazio».
Le amiche si preoccupano: «E´ stanca, si è spesa come non mai». Domenica l´hanno portata a cena fuori, a mangiare una tagliata e poi al cinema. Lei, che ha conosciuto Mandela di persona, ha scelto "Invictus". Si è commossa, si è riconosciuta nella frase del vecchio leader: «Non si governa un Paese senza una visione».
Anche Emma Bonino la pensa così e ha giocato per vincere. Forse non ci è riuscita. Ancora non lo sa in questa notte lunga. Ma già trae, da quest´esperienza, comunque vada, un buon bilancio nei rapporti con il Pd: «C´è stata una gran comunanza di intenti in un´atmosfera utile, gradevole. Io ho imparato delle cose da loro, spero anche loro da noi».

Repubblica Roma 30.3.10
Staderini: "La forza del marchio radicale"
di Anna Rita Cillis

Un «dato è già emerso» per Mario Staderini, segretario dei Radicali Italiani, a fianco di Emma Bonino in questa battaglia elettorale per la presidenza della Regione. Ed è «che quanto sostenevano oltre Tevere, cioè che temi come l´aborto e il divorzio potessero pesare negativamente sulla decisione degli elettori, soprattutto a Roma, non è accaduto. Anzi: sono convinto che le nostre lotte per i diritti sociali dei cittadini siano state determinanti a suo tempo, come oggi lo sono state quelle sulla trasparenza e sul rispetto delle leggi. Non a caso ci siamo battuti affinché la campagna elettorale fosse la più trasparente possibile, per tutti.
Se i dati reggono, Roma premia la lista Bonino-Pannella e la coalizione.
«Sicuramente. Ovviamente parliamo di un dato parziale. Ma la risposta degli elettori è stata comunque la riprova che la nostra direzione era quella giusta: solo tre mesi fa la corsa alla Regione sembrava persa in partenza. E sembrava impossibile arrivare a un testa a testa con Renata Polverini, candidata sorretta dalla forza mediatica di Silvio Berlusconi».
Una scommessa vinta al di là dei risultati, dunque?
«Certo, per il centrosinistra, come per noi Radicali. E grazie a una coalizione forte».
Ma si corre per vincere, o no?
«Eccome! Però se non dovesse accadere abbiamo comunque dimostrato che l´alternativa a Berlusconi sono le opposizioni con chiaro connotato politico. Come Emma Bonino nel Lazio, Nichi Vendola in Puglia e Mercedes Bresso in Piemonte.
«La forza delle coalizioni?»
«Certo, però oltre a stringere le coalizioni bisogna anche crederci. Come ha dimostrato nei nostri confronti Pierluigi Bersani. L´appoggio del segretario nazionale del Pd, la sua determinazione nel portare avanti il nome Bonino sono stati importanti. Da parte nostra abbiamo però dato forza a questo progetto con un "marchio" solido come quello dei Radicali».
E ora?
«La priorità dei prossimi mesi è conquistare spazi di agibilità democratica per tutti i cittadini. E nel Lazio si tratterà di controllare tutto e ridare la parola ai cittadini».

Repubblica Roma 30.3.10
Il voto disgiunto premia Emma anche dall'Udc consensi per lei
E nei seggi il flop dei "gladiatori" del Pdl
di Laura Mari

Non è andata meglio nella provincia di Roma, dove l´affluenza alle urne è stata del 59,20 per cento e ha registrato un calo del 12,72 per cento rispetto al 2005. E forse proprio per la scarsa partecipazione degli elettori, al di là dei timori e delle polemiche, nei seggi elettorali della Capitale non ci sono stati particolari problemi. Insomma, l´ascia di guerra, alla fine, è stata sotterrata. Il buonsenso e, soprattutto, la capacità degli elettori di non sbagliare, ha evitato che si arrivasse allo scontro tra i rappresentanti di lista.
Pronti a battersi per far valere (a favore della candidata del centrodestra Renata Polverini) ogni voto che indicasse come preferenza il nome di un candidato escluso del Pdl, i "gladiatori del voto" messi in campo dal Popolo della Libertà hanno riposto le armi. «Soprattutto quando si sono accorti che la corretta interpretazione delle norme favoriva il centrodestra ironizza Guido Lai, rappresentante di lista del Pd nel seggio di via Lovania nel II municipio sono infatti capitate delle schede in cui, accanto al simbolo del Pd, gli elettori avevano segnato erroneamente i nomi di alcuni candidati, scrivendo ad esempio Alicante invece di Alicata. E allora prosegue Lai i gladiatori del voto non hanno esitato a pretendere che la schede venisse, giustamente, annullata». Tra le curiosità, quelle legate al voto disgiunto. «In molti hanno barrato il simbolo della Bonino presidente e quello dell´Udc» fa sapere Guido Lai.
Analogo discorso nel seggio di via Acquaroni, nell´VII municipio. «I cittadini hanno votato nella maniera corretta, precisa Walter Mastrangeli, rappresentante di lista del Pd nel seggio di via Acquaroni nell´VIII municipio il numero delle schede annullate è stato nella media. In molti hanno scelto il voto disgiunto, premiando ad esempio accoppiate come Pd-Polverini, Idv-Polverini». «A Monteverde dice il consigliere comunale Pd Paolo Masini-alcune schede sono state annullate perché accanto al simbolo della lista Polverini c´erano nomi di candidati esclusi come Celori e Di Paolo».

Repubblica 30.3.10
Bonino, l’ora della sconfitta. “Una lunga battaglia ma era una sfida disperata”
di Giovanna Vitale

Emma Bonino rientra al comitato elettorale di via Ripense quando mancano venti minuti a mezzanotte: un lungo applauso di militanti e sostenitori, facce scure e qualche lacrima di sincera delusione, accoglie la pasionaria radicale ormai battuta. In quello stesso istante il Viminale annuncia il sorpasso di Renata Polverini: a un soffio dalla fine, con 4.440 sezioni scrutinate su un totale di 5.266, la candidata del centrodestra è passata in testa con il 49,83 per cento dei voti rispetto al 49,62 della sfidante, il vantaggio iniziale consumato ora dopo ora sino al ribaltone finale. Il trend positivo improvvisamente travolto dalla valanga di consensi che, a tarda sera, sono cominciati ad affluire dalle province di Latina e Frosinone, tradizionali roccaforti del Pdl e della Destra.
Fino all’ultimo nel fortino di Trastevere si è sperato nel miracolo, in un colpo di reni proveniente dagli ultimi seggi mancanti a Roma, che ha comunque premiato la vicepresidente del Senato con 113mila preferenze di scarto, come già accadde nel 2005, quando Marrazzo strappò la Pisana a Storace grazie alla risposta della capitale. Stavolta però non è bastato. La Bonino lo sa, ma vuole aspettare. Restano ancora 500 sezioni, troppo poche per invertire un risultato che fa volare al 50,7% l’avversaria già in festa a piazza del Popolo, inchiodando lei al 49,27.11 dato è ormai consolidato.
E’ ora di ammettere la sconfitta. La candidata Emma e con lei i collaboratori più fidati, il responsabile della campagna elettorale Riccardo Milana, il segretario regionale del Pd Alessandro Mazzoli, provato dalla debacle nella sua Viterbo, salgono sul palco del comitato. «Ho appena telefonato alla Polverini per farle i complimenti », esordisce. «E’ stata una lunga cavalcata durante la quale ho imparato molto, ma eravamo partiti da urta situazione disperata. Adesso mi auguro che il tema della legalità e delle regole diventi una priorità per il Paese. Tenendo presente che non è possibile avere un presidente del consiglio che occupa tutti gli spazi possibili e immaginabili». E’ finita, gli applausi sono caldi e sinceri. «Grazie a tuttì», ripete.
Mentre, dauna finestra del piano di sopra, parte lo sberleffo: una bandiera del Pdl sventola nel buio sulle note di "Meno male che Silvio c’è" cantato a squarciagola.

Repubblica 30.3.10
Emma, Amarezza ma niente rimorsi
“Ho fatto quello che potevo”
di Alessandra Longo

Sconfitta. Emma Bonino ha perso e la sua faccia non nasconde l’amarezza: «Ringrazio gli elettori che hanno creduto in me». Nel cuore della notte, a scrutinio terminato, quando già Renata Polverini festeggia a Piazza del Popolo, la candidata del centrosinistra affronta la botta. Scrive su un foglio due cose da dire al microfono. Intorno, nella sede del comitato, l’atmosfera è di grande delusione. Due ragazze piangono. Emma le guarda con tenerezza. Mentre è con rabbia che pensa a quanto siano mancati i canali ufficiali, i media tradizionali, «occupati» dalla maggioranza e dal suo leader.
Alla fine, un po’ più di diecimila voti mancano all’appello. Roma e provincia l’hanno scelta in massa, ma non ha sfondato nelle altre province dove la debacle è bruciante. Frosinone, Rieti, Latina. Non a caso Polverini ringrazia. Emma non scende subito nel loft affollato di giornalisti. Vuoi sentire forte e chiaro la sentenza definitiva. Per la verità, i suoi attendono anche che si facciano vedere gli esponenti di vertice del Pd per condividere la batosta, magari proprio Bersani in persona.
Con lei invece c’è solo Nicola Zingaretti, presidente della Provincia, senza cravatta, pallido. Ma in molti, anche amici, se ne sono andati: «Basta, andiamo a dormire, è finita». «Fai quel che devi, succederà quel che può». Così le diceva sua madre. E adesso, rivedendo alla moviola questa lunga campagna elettorale, i rimorsi sono davvero pochi: «Ho fatto quel che potevo». Niente errori di comunicazione, passi falsi, niente battute infelici, nonostante le tante provocazioni, anche molto illustri e d’Oltretevere, sull’aborto, sulla famiglia, sull’eredità Marrazzo. La squadra che l’ha accompagnata nell’avventura che ora assiste delusa, alla fine del sogno, si è mossa compatta. I radicali si sono saldati con la comunità del Pd. Riccardo Milana, senatore, vicino a Marini, e coordinatore dell’impresa, era partito prudente, «Ma poi, di Emma, del suo modo di fare, dell’energia, della competenza acquisita sul campo, si è innamorato», dicono al quartier generale in questa notte mesta. E che dire di Pannella? Anche Marco, irruente, naturalmente protagonista, ha avuto mesi di fair play e, diciamolo pure, di affettuosa discrezione. Non è questo che non ha funzionato. Semmai è una parte del Paese - perché questa sconfinava oltre il territorio dove si è consumata- che non ha risposto alla«visione» di Emma, a quel suo insistere con le parole chiave della sua sfida: legalità, trasparenza, onestà. Equilibri che si sentivano insidiati, assetti di potere che hanno scelto di interloquire con Renata Polverini, protetta dal rush finale del premier.
Emma un po’ l’aveva capito che le cose stavano prendendo una piega rischiosa: «Sarà una battaglia al photofinish», aveva detto.
Troppo il peso del capo del governo, i suoi interventi televisivi a pioggia, troppo poche le forze per contrastarlo. Certo non poteva bastare a raggiungere gli indecisi la diretta di Radioradicale alla vigilia del voto. Emma la «dulce», come la chiamavano gli spagnoli all’epoca del suo lavoro di commissaria a Bruxelles, ce l’ha messa tutta. Ha girato in lungo e in largo il territorio, ha studiato da par suo, cioè «da secchiona», come si autodefinisce, il dossier sulla sanità regionale, inghiottita da una voragine di debiti lasciati dalla gestione Storace. Ha picchiato duro sul centrodestra senza sferrare colpi bassi nei confronti dell’avversaria e dei suo programma «da libro dei sogni».
Mesi di fatica, bocciati dagli elettori che hanno preferito non osare, non affidarsi ad una signora colta, poliglotta, fuori dai giri che si porta in borsetta il discorso di Pericle agli Ateniesi del 461 a, c. («Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia. Qui ad Atene noi facciamo così»). E adesso? «Farò l’opposizione in consiglio come prevede la legge», dice.
Certo sul viso c’ è la delusione ma Emma, come sempre, ripartirà: «Le battaglie civili che vorrei combattere sono così tante che non mi basterebbero dieci vite».

Repubblica 30.3.10
E la capitale boccia la candidata del sindaco
di Simona Casalini

Impaurita da situazioni tipo "gladiatori" nei seggi, frastornata dal "pasticciaccio" della lista Pdl espulsa dalla scheda, investita e talvolta infastidita dal pressing del premier sulla candidata Polverini, Roma, nel voto regionale al fotofinish, ha comunque scelto dall’altra parte. Bonino, con una progressione da fondista. Il primo flash le vede perfettamente pari poi, formichina, altre proporzioni.
Il sito elettorale del Comune parte con Polverini vincente a tutta scena. Poi, però... E’ dopo le 19, a metà delle sezioni romane, che Emma si irrobustisce con 9 punti avanti. E così andrà. Alemanno non è felice, la città di cui è sindaco ha bocciato la sua pupilla.
E’ intorno alle venti e trenta che Alemanno prende la parola, che dice la sua su queste elezioni del Lazio su cui si è speso tantissimo. E lancia un messaggio che non è quello del vincitore placato e soddisfatto. «I primi dati sulle elezioni regionali del Lazio, ancora parziali, evidenziano» dice il sindaco, che ha la moglie, Isabella Rauti, al fianco della Polverini, destinata anche lei a un seggio di consigliere regionale, «il risultato di una campagna elettorale inquinata, brutta, segnata dall’esclusione della lista del Pdl dalla competizione elettorale». E aggiunge ai microfoni del Tg3: «Chi vince, dovrà tener conto delle problematiche e dei contrasti che ci sono stati in campagna elettorale e aprire un confronto costruttivo con l’altra parte politica». Ma intanto è netto il risultato romano: la sua pupilla, la Polverini, non ha convinto gli elettori romani. E c’è chi del Pd prova a pizzicare il sindaco: «Il voto a Roma sta prefigurando un vero e proprio avviso di sfratto per Alemanno e l’inizio del suo declino politico» dice una voce, per la verità isolata.
E mentre procede il conto complessivo della Regione e via via sembrerebbe che i circa 120 mila voti in più presi dalla Bonino a Roma forse non riusciranno a colmare il robusto risultato del centro destra che via via si sta delineando nelle altre province del Lazio (due fra tutte, Latina, a quasi metà scrutinio, dà alla Polverini quasi il 64% contro il 37% per la Bonino, o Frosinone, 60% a 39%) si delinea ancor di più quanto Emma sia stata comunque sospinta dal voto capitolino.
A tarda sera, a scrutinio ancora incompleto, a Roma la Bonino risultava al 52,6 %, la Polverini al 46,8 %. Con un conteggio di schede nulle pari a circa 27 mila. E chi delle due alla fine risulterà sconfitta, è più che probabile che chiederà di rivederle.
Ma è comunque il partito del non voto, il dato più netto del voto dei romani. Oltre un milione di aventi diritto hanno comunque deciso di non recarsi alle urne. Un meno 17% rispetto alle comunali di due anni fa e un meno 13% dalle regionali del 2005. Il dato definitivo parla di un’affluenza del 56,50% contro il 73,32% delle comunali del 2008. Un robusto pezzo di elettorato che si é letteralmente perso per strada.
E i partiti premiati o bocciati dai romani? Le percentuali, anche se a risultati ancora parziali, sembrano delineate. Il voto cittadino ha fatto volare Di Pietro, con la sua Idv balzata a quasi 11%, decuplicato rispetto alle regionali 2005. Ha invece decisamente punito la lista civica della Bonino, tributandole appena l’1,98 %. Risultato record ma prevedibile, quello delle lista civica della Polverini, col 33,68 %, che però, come da indicazioni dei vertici del centrodestra, si è inglobata anche tutti i voti destinati alla lista Pdl esclusa dalla scheda dopo il noto pasticciaccio del tribunale.
Un 33,68%, dunque, che però è ben sotto a138,1% chela stessa Capitale aveva destinato al Pdl alle ultime Europee. E l’Udc di Casini non è certo decollata: era al 4,3 alle Europee, più o meno lo stesso dato ora: col centrodestra non è stata premiata. E il Pd? Scende rispetto alle Europee: dal 31,64 %, si delinea un 27,5%. E non sfonda neanche la lista Bonino-Pannella: aveva il 4,05% nel 2008, ha ottenuto il quasi omologo 4,07%. Storace parla diretto al sindaco: «A Roma siamo sopra l’Udc, Alemanno dovrà riflettere».

Il Messaggero 30.3.10
Bonino: “Io battuta da Berlusconi e dalle tv”
di Mauro Evangelisti e Fabio Rossi

Nella notte, all’una, Emma Bonino è chiusa nel suo ufficio, prende il telefono e chiama. Chiama Renata Polverini. «Complimenti e auguri. hai, vinto». Il testa a testa e finito, la candidata del centrosinistra riconosce la sconfitta e poi, emozionata dopo una giornata sulle montagne russe, usa le parole di chi guarda oltre alla sconfitta e ha un progetto in mente. «Ho posto con forza il tema del rispetto delle regole. della trasparenza, della legalità, spero che non cada nel vuoto. Ricordiamoci degli episodi che hanno contraddistinto anche gli ultimi giorni di questa campagna elettorale. Bisogna riscoprire il senso delle regole e delle istituzioni. Non sfugge l’occupazione da parte del premier di tutti gli spazi possibili e immaginabili a questo un paese normale dovrebbe saper porre rimedio». Ma Emma Bonino non vuole solo recriminare: «La stessa astensione ci interpella e interpella tutti. Ora voglio credere che questo sia solo un inizio, la costruzione di un modo diverso di fare politica in questo Paese». E’ orgogliosa: «Eravamo partiti da una situazione disperata, ricordiamocelo. Questa esperienza ci ha arricchito, andiamo avanti. E’ stata una battaglia appassionante, che mi ha appassionato».
Emozioni, nel cuore della notte, ma anche un messaggio politico prima di lasciare il comitato e andare a dormire: il progetto di dialogo con il centrosinistra, ma anche di una politica differente, non va archiviato.
Eppure, al pomeriggio ci avevano sperato, al comitato della Bonino, a Trastevere. «Faremo tardi, vedrete», dice Emma Bonino alle 16, avvolta da un nube di fumo. Chiusa in un ufficio, gli occhi fissi su un computer. Circondata dalle suo collaboratrici, tenta di interpretare l’andamento indecifrabile dei dati, quelli che fino alla sesta proiezione danno un pareggio. I numeri veri, quelli del dato assoluto, sono un’illusione che si trascina fino a tardi. Così, alle 18.30 Emma Bonino torna a casa, a Trastevere, a riposarsi. Alle 23 si capisce come andrà a finire: Renata Polverini è in piazza del Popolo a festeggiare, alle 23.50 Emma Bonino torna al comitato dove l’accoglie la grande delusione di tutti, perfino la beffa di una bandiera del Pdl dell’inquilino del piano di sopra. «Ma non parlo - ripete Fino a quando non avremo tutti i dati».
E’ una sconfitta, di misura, che arriva al termine di un sali e scendi che avrebbe scosso chiunque. «No, lei è rimasta calma, non ha mai perso il suo sangue freddo», dicono che le è stato vicino. In effetti, al suo primo passaggio al comitato, vero le 15.30, Emma Bonino ripete «Tutto bene, tutto bene». Veste un tailleur nero e una sciarpa gialla, il colore che ha caratterizzato la sua campagna elettorale. Non è sola: c’è il suo staff, arrivano i leader del Partito democratico ad affiancarla. Fra tutti proprio Nicola Zingaretti, il presidente della Provincia di Roma, uno dei nomi a lungo circolati quando il Partito democratico doveva ancora scegliere il candidato. Con Patrizia Prestipino, assessore provinciale, Emma Bonino trova anche la “forza d’animo" di concedersi qualche battuta. «Sembrava possibile, sembrava possibile vincere», ricorda la Prestipino. Alle 18.30 la Bonino esce dalla nuvola di fumo e se ne va. A piedi. Va a casa a ricaricare le pile.
Alle 21.20 la brutta notizia: la proiezione negativa. Dilagare a Roma non è bastato. Eccola, alle 23.50, tornare al comitato, nell’ufficio riordina le idee prima di parlare. Intanto, Marco Pannella da Radio Radicale predica: «Abbiamo perso queste elezioni, ma non abbiamo perso ciò che le ha precedute». In fondo, il testa a testa nel centrosinistra nessuno avrebbe osato prevederlo quasi cinque mesi fa, quando il governatore Marrazzo firmò la sua lettera di dimissioni. Sembra un secolo fa.

Repubblica 30.3.10
Nichi e Emma Ticket di outsider
di Curzio Malese

Che cosa accadrebbe se alle prossime primarie del Pd fosse candidato il «Papa straniero», Nichi Vendola? È la domanda da un milione di dollari che circola da ieri notte nei quartier generali dell´opposizione.
In poche settimane il ciclone Nichi ha travolto ogni pronostico sfavorevole. Fino a vincere sul margine della maggioranza assoluta, senza quasi bisogno dell´aiuto esterno del terzo incomodo, la candidata dell´Udc Adriana Poli Bortone. Nessuno, fino a poco tempo fa, avrebbe scommesso un centesimo sul trionfo di Vendola. Massimo D´Alema era calato per tempo, in una Bari sconvolta dagli scandali, con un foglietto fitto di cifre di sondaggi, per dire che «con Nichi non abbiamo una speranza di vincere». Non era un suggerimento, era un ordine. Ma in due mesi di battaglie contro tutti, prima gli alleati e poi gli avversari, Vendola ha rovesciato la profezia, inflitto agli strateghi eternamente perdenti del centrosinistra la più sonora batosta degli ultimi vent´anni, riconquistato al centrosinistra una regione che in teoria è fra le più destrorse d´Italia. Nelle politiche del 2008 la coalizione di centrodestra, già senza i voti dei centristi di Casini, aveva trionfato con 12 punti di vantaggio. «In Puglia, la prossima volta, possiamo candidare chiunque» aveva commentato Raffaele Fitto, vicerè berlusconiano, pregustando la rivincita per interposta persona. Non è stato così. Il candidato «chiunque», Rocco Palese, è uscito sonoramente battuto.
È difficile immaginare un outsider più outsider di Nichi, almeno per gli arretrati parametri della politica nazionale. Comunista cresciuto in federazione, omosessuale dichiarato, ma cattolico fervente e praticante. Una serie di anomalie, esaltate dalla più straordinaria di tutte: il coraggio. Il coraggio di mantenere la barra dritta quando tutti erano contro. Il coraggio di presentarsi sempre per quello che si è, senza giravolte opportunistiche. Il coraggio soprattutto di sfidare da solo il partito trasversale degli affari che in Puglia voleva privatizzare l´acquedotto. Contro l´opinione del novanta per cento dei pugliesi, ma con l´accordo del novantacinque per cento del quadro politico. Nell´affare dell´acquedotto ci stavano tutti, dai leghisti del Sud all´Italia dei Valori, passando per Pdl e Pd. Ma più di tutto, aggiungevano i dietrologi, passando per l´Udc di Casini e del suocero Caltagirone.
Quella di Vendola in Puglia è la vittoria di una sinistra sincera, popolare, anticonformista, davvero moderna. Dove la modernità non consiste nell´inseguire il vento di destra, mascherandosi da moderati nei talk show. Ma al contrario nel difendere con orgoglio i valori alternativi della sinistra e nella capacità di immergersi in un mondo post televisivo, nel mescolare l´antica arte del comizio in piazza con il nuovissimo talento di saper cogliere la natura politica di Internet. Almeno nell´uso della rete, se non nel resto, Vendola si è rivelato il tanto atteso «Obama italiano». Mezza campagna elettorale, per le primarie e poi per le regionali, le Fabbriche di Vendola l´hanno fatta sulle sigle della rete, da Facebook a Youtube, con trovate di enorme successo, come le videolettere. Qui probabilmente si è creata la distanza e la differenza finale di risultato fra Vendola e la Bonino, altra «straniera» ingaggiata dal Pd, ma ancora prigioniera di stilemi da radicali anni Settanta e Ottanta, compreso il rito stanco dello sciopero della fame. È in ogni caso evidente che dove il Pd ha voluto a tutti i costi cercare il «candidato giusto», quello «in grado di spostare il voto moderato», si trattasse di sceriffi di sinistra come Penati o De Luca, o di democristiani progressisti come Bortolussi e Loiero, sono arrivate catastrofiche sconfitte. Il Pd sconta la presuntuosa pochezza dei propri strateghi, l´incapacità di capire davvero il sentimento popolare, l´incredibile errore di scambiare la Binetti per il mondo cattolico. «Dove la sinistra imita la destra, alla fine perde e perde male» ha sempre sostenuto Vendola. Oggi ha avuto ragione, almeno in Puglia. Nel resto d´Italia, si vedrà presto.

il Fatto 30.3.10
E ora qualcuno sogna la leadership nazionale
Un altro miracolo firmato Vendola
di Luca Telese

Nichi Vendola 3.0. Nella notte di Bari, con la strada chiusa dai vigili perché una folla incredibile – moltissimi ragazzi – si concentra, con Piazza Prefettura che si riempie come una clessidra, il trionfatore delle elezioni in Puglia guarda lontano, passa alla terza fase dell’incredibile rincorsa avviata con le primarie, e già immagina come trasformare la sua regione in un laboratorio. Gli chiedono: “Adesso lei è un leader nazionale?”. Lui, sorridendo e schermendosi: “Mamma mia... lo sarò nella misura in cui governo bene la Puglia...”. Ovvero sì, ma con prudenza, con passi di piombo, tenendosi ancorato all’incredibile radicamento sul territorio, alla “connessione sentimentale” con il suo popolo che è stato la prima chiave del suo successo contro tutto e tutti. La sua è stata una campagna diversa, unica, modernissima. Molto più simile a quella di Obama che a quella di Romano Prodi. Una campagna elettorale combattuta con strumenti antichi e postmoderni, le piazze alla Di Vittorio, piene a qualsiasi ora, in qualsiasi angolo della Puglia, sommate alle piazze della Rete: Twitter e Facebook, più un reticolo impressionante di siti e di video Web. Gli spot esilaranti girati a tavola con la mamma nella cucina di Terlizzi (“Nichi, come si risolve questa storia della malasanità?”) ma anche i video ironici con la visita della signorina Puglia dal dottor Fitto (“Adesso le prescrivo una bella cura nucleare...”, dice il medico. E quella: “Ma lei è matto!”).
Il distacco con l’avversario Rocco Palese, rispetto ai tre punti degli Exit poll, cresce nella notte dello scrutinio, si avvicina al 9%, portando il presidente fra il 47% e il 49%. Il motivo è semplice. Gli exit poll non erano riusciti a monitorare il voto disgiunto, che ha portato un 3% di elettori, a destra e al centro, a votare per lui. Così si ridimensiona anche il dato della candidata Udc, Adriana Poli Bortone: le prime proiezioni la davano intorno al 12,5%, ma alla fine si attesta intorno all’8%. Vendola nelle ultime settimane aveva quasi oscurato il suo sfidante, rivolgendo direttamente il guanto di sfida a Silvio Berlusconi. Una scelta pericolosa, che però ha pagato. Adesso molti osservatori lo indicano come un possibile candidato premier del centrosinistra nel 2013. Mica male per uno che solo l’estate scorsa era stato giudicato perdente da Massimo D’Alema e da buona parte degli oligarchi di centrosinistra. Ieri, invece, poco dopo le nove di sera arrivava una telefonata affettuosa: “Sono Massimo, volevo complimentarmi per questo successo...”.E giù un intenso scambio di opinioni. Ora D’Alema, maestro di machiavellismo, potrebbe diventare addirittura uno sponsor (perché Vendola, al contrario della Bonino, viene pur sempre dalla antica famiglia del Pci). Altro segnale. Il sindaco Michele Emiliano, per un breve periodo suo possibile sfidante, appariva la suo fianco – con una scelta simbolica – nel primo collegamento televisivo con il Tg1. Poi ci sono gli altri elementi di analisi: la sua Sinistra e libertà vola in Puglia al 10% (in Campania, Calabria e Basilicata sta intorno al 4%. nel Lazio al 3.6%). La lista per Vendola, affidata ai “moderati” capitanati dall’industriale Divella (un’operazione di marketing calibrata con micidiale efficacia) arriva al 5%. Così il governatore quasi grida: “Abbiamo dimostrato che esiste un altro sud, un meridione che non è Gomorra, che può rappresentare la legalità, la speranza, il buongoverno”. E poi, quando gli chiedono chi deve ringraziare Vendola fa esplodere l’entusiasmo dei suoi: “I primi sono ragazzi delle fabbriche di Nichi”.
Ecco, le fabbriche. Un altro fenomeno. Tutta la campagna è stata coordinata da un gruppo di ragazzi con un’età media di trent’anni. Il coordinatore dello staff, Ed Testa, è un giovane crea geni dell’internautica, un sito curato da un’altra trentenne – Sonia Pellizzari – che nelle ultime ore ha superato i 50 mila contatti (da tutto il mondo). Le fabbriche non sono sezioni, ma qualcosa a metà fra gli atelier e gli Internet point, aggregano le persone più diverse, e sono tutte costruite con panche, cartoni, materiali di recupero, trovate grafiche, ed equipaggiate con connessioni Internet. Ieri il comitato era uno spaccato emblematico: il fratello di Nichi e sua moglie – Gianni ed Emanuela – e che portano torta con ricotta e focacce ai ragazzi che su Internet continuavano a coordinare la partecipazione anche durante il voto. “Le 150 fabbriche – spiegava Vendola nella notte – sono il luogo dove cresce una nuova cultura politica quello dove io mi trovo meglio. Il modello nuovo: oltre Sinistra e libertà e oltre il centrosinistra”. E così, il nodo della terza fase è il futuro di queste strutture che sono state il cardine della vittoria: “Convocherò al più presto gli stati generali di tutte le fabbriche di Nichi per decidere che farne”. Piccola bugia. Già lo sa: ne sta aprendo alcune anche in queste ore, fuori della Puglia (Roma) e addirittura fuori dall’Italia. Poi Vendola guarda alla scena nazionale: “Il Pdl perde, ma attenua la sconfitta grazie alla stampella della Lega. Prima ancora del leader bisogna pensare alla prima priorità, la costruzione di un nuovo centrosinistra. Una coalizione che possa attrarre speranze, e non promettere la sostituzione di un vecchio ceto politico di destra con un altro ceto politico di sinistra”. Mentre dice questo intorno a lui cala il silenzio: l’Opa di Nichi sul centrosinistra è già stata lanciata. Veni, vidi, Nichi.

l’Unità 30.3.10
Il Vaticano e la pedofilia
Risponde Luigi Cancrini

Ho trovato ingiusto da parte del «New York Time», giornale notoriamente anticattolico, accusare questo Papa di non aver fatto abbastanza per contrastare il problema degli abusi su minori da parte di alcuni preti. Già dall’inizio del suo pontificato ha mostrato subito rigore e determinazione nel fronteggiare questi casi.
RISPOSTA Secondo la Crimen Sollicitationis il processo che si istaura nei confronti dei preti sospetti o colpevoli di pedofilia deve svolgersi in un tribunale ecclesiastico. Con la De Delictis Gravioribus firmata nel 2001 da Ratzinger viene confermato l’obbligo del silenzio perpetuo (tra le pene previste c’è la scomunica) per quelli che partecipano al processo, compresi i testimoni e le vittime. È così che la Chiesa ha impedito spesso la condanna penale del pedofilo e la richiesta di risarcimenti da parte delle vittime il cui danno è stato spesso aggravato dalle pressioni ricevute per non denunciare il reato: come ben provato, oggi, dai risarcimenti che la Chiesa ha patteggiato in Irlanda e negli Stati Uniti. Ratzinger, oggi Papa Benedetto XVI, non è stato indagato dal giudice americano solo perché negli Stati Uniti non è possibile processare dei Capi di Stato. Che abbia ora cambiato tono e atteggiamenti su un problema a lungo sottovalutato è sicuramente positivo per lui e per la Chiesa. La pedofilia è un reato tuttavia e la Chiesa deve riconoscere ai tribunali, collaborando, che tocca a loro fare giustizia contro chi lo commette.

Repubblica 30.3.10
La Chiesa tra scandali e privilegi medievali
risponde Corrado Augias

Caro Augias, il termine clericale, di cui si parla, ha origine medievale. Indicava persone con alcuni privilegi tra cui il 'Privilegium fori', cioè la possibilità di essere giudicato solo dai tribunali ecclesiastici in base al diritto canonico. (V. Antonio Banfi, Habent Illi Iudices Suos. Giuffrè, 2005). Oggi non può essere così, ma l'organizzazione della Chiesa (il Vaticano è Stato indipendente e teocratico con logiche stataliste) cerca di conservare la giurisdizione sui propri membri. Vale per i casi di pedofilia «vecchi», ma si ripete con il cadavere di una giovane trovato nella chiesa di Potenza, con la mancata comunicazione del ritrovamento alla polizia (un cittadino che si comportasse così sarebbe indagato per occultamento di cadavere, credo). Le reazioni della Chiesa non sono diverse da quella di altre organizzazioni di fronte a gravi crisi. Il sociologo Giuseppe Bonazzi ha studiato il fenomeno («Pour une sociologie du bouc émissaire dans les organisation complexes») spiegando che quando avviene una crisi al loro interno si verificano dei riallineamenti e qualcuno paga (il capro espiatorio) e in genere chi paga non sono i vecchi uomini di potere e neppure le opposizioni tradizionali, ma persone o gruppi che stanno cercando di cambiare qualcosa. Chi sarà il capro espiatorio?
Guido Martinotti guido.martinotti@unimib. it

N on sappiamo chi (e se) alla fine pagherà per la dimensione, addirittura planetaria dello scandalo; i tempi della Chiesa (a volte) sono lunghi. Sappiamo solo che il 'privilegio giurisdizionale' è tuttora vigente in un'organizzazione che possiede la particolarità unica di potersi presentare, secondo casi e convenienze, come religione e culto oppure come potenza statale. Nelle circostanze gravi comunque l'organizzazione si è sempre dimostrata custode gelosissima delle sue prerogative. Così per esempio in occasione del triplice omicidio avvenuto in Vaticano (maggio 1998) quando Alois Estermann, Comandante della Guardia Svizzera; sua moglie Gladys Meza Romero e l'alabardiere Cedric Tornay, vennero uccisi da un'arma da fuoco. Nessuna collaborazione con gli inquirenti italiani e udienza negata perfino alla madre del povero Tornay nonostante suppliche personali e ingiunzioni legali. Uguale comportamento per la scomparsa di Emanuela Orlandi. I magistrati italiani lamentarono nei loro atti la mancata collaborazione della Santa Sede. Idem in occasione dello spaventoso scandalo Ior (banca vaticana); anche in quel caso omissioni e distorsioni. Non stupisce quindi che a Potenza l'attuale viceparroco (e il vecchio parroco dell'epoca) nulla abbiano detto sul ritrovamento della povera Elisa nella soffitta della chiesa. E che sui preti pedofili il silenzio sia stato mantenuto fino a quando lo scandalo è diventato incontenibile. Nel 2002 negli Usa, ora in Europa.

Repubblica 30.3.10
La Bbc: lo rivela Schoenborn bloccata denuncia di Ratzinger "Wojtyla tacque sul cardinale pedofilo"
Ratzinger voleva punire il vescovo pedofilo In Austria nel '95 le accuse furono "insabbiate" dal Vaticano. Nuovo scandalo a Treviri Per Schoenborg l´attuale Papa voleva un´indagine sulle violenze dell´ex arcivescovo
di Andrea Tarquini

BERLINO Papa Benedetto XVI sta affrontando bene lo scandalo degli abusi pedofili nella Chiesa, e ha sempre preso estremamente sul serio il problema: nel 1995, quand´era cardinale e prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, fece ogni sforzo per aprire un´inchiesta sul cardinale austriaco Hans Hermann Groer, ma fu bloccato dall´ala della Curia romana favorevole all´insabbiamento e contraria all´inchiesta, ala che avrebbe avuto il sopravvento durante il pontificato di Giovanni Paolo II. Questo, secondo il sito della Bbc, è quanto l´arcivescovo di Vienna, cardinale Schoenborn, ha detto in dichiarazioni alla Orf, la tv austriaca. Il Vaticano, ha aggiunto Schoenborn secondo la Bbc, allora ritenne che un´inchiesta gli avrebbe fatto cattiva pubblicità.
Nella sua intervista, Schoenborn ha ricordato gli eventi del 1995, quando l´allora arcivescovo di Vienna, appunto il cardinale Hans Hermann Groer, fu accusato dai media e dalle sue vittime di aver ripetutamente compiuto abusi sessuali su giovani in un monastero negli anni Settanta. Ma fu solo tre anni dopo le accuse, cioè nel 1998, che Groer, per ordine della Santa Sede, si dimise da ogni incarico. Annunciò il suo ritiro in pubblico chiedendo perdono, non ammise nessuna colpa, e si ritirò in Germania, dove morì nel 2003.
All´epoca, il Vaticano si attirò aspre critiche in Austria per aver atteso tre anni prima di agire contro il cardinale Groer. Secondo la ricostruzione attribuita dalla Bbc al cardinale Schoenborn, il caso divise la Curia. Alcuni suoi esponenti, è dato di capire, avrebbero persuaso Giovanni Paolo II (che comunque non viene nominato da Schoenborn) che le accuse contro Groer erano esagerate e che l´inchiesta voluta da Ratzinger avrebbe esposto la Chiesa a una pericolosa pubblicità negativa. Ratzinger la pensava diversamente, ma non riuscì a spuntarla. «Ricordo ancora molto chiaramente – ha detto Schoenborn – il momento in cui il cardinale Ratzinger mi disse con tristezza che l´altro campo (ndr: gli insabbiatori) aveva avuto il sopravvento… accusarlo di essere una persona che copre gli scandali vuol dire sostenere cose assolutamente non vere, e io lo affermo perché lo conosco da molti anni».
Il cardinale Schoenborn ha appena deciso di nominare una donna, l´ex governatrice democristiana-popolare (Oevp) della Stiria Waltraud Klasnic, a capo della commissione d´inchiesta sui casi in Austria. Ma questa scelta è stata duramente criticata ieri da organizzazioni cattoliche di base. La signora Klasnic, ha affermato Rudolf Schermann di "Kirche in", è troppo vicina alla Chiesa, «preferirei al suo posto un ateo obiettivo e dare la priorità alla voce delle vittime». In Germania intanto 20 sacerdoti sono sospettati di abusi nella diocesi di Treviri, quella guidata dal vescovo Ackermann che conduce l´inchiesta sugli abusi per conto della Conferenza episcopale tedesca.

Repubblica 30.3.10
Il quotidiano nel mirino della Chiesa: "Punta a coinvolgere il Santo Padre in persona"
Il vescovo di New York contro il Times Il giornale: "Niente complotti solo notizie"
I vaticanisti del giornale puntano il dito contro l´omertà delle autorità vaticane
di Federico Rampini

new york Perfino l´arcivescovo "progressista" di New York, Timothy Dolan, è indignato contro il New York Times. Perché sbatte lo scandalo dei pedofili ogni giorno in prima pagina? Cosa c´è dietro? Forse, come sostengono senza troppe parafrasi alcuni ambienti cattolici, è all´opera la "lobby ebraica" newyorchese? «Ciò che accresce la nostra tristezza dice Dolan sono le insistenti insinuazioni contro il Santo Padre in persona. C´è una voglia frenetica di coinvolgerlo in persona». La teoria del complotto allude alla proprietà del New York Times: la famiglia Sulzberger figura tra le dinastie ebraiche della città, anche se il giornale non esita ad attaccare Israele.
Nel grattacielo di Renzo Piano sull´Ottava Avenue, dove ha sede la redazione, le bordate del Vaticano sono considerate come un tentativo di distogliere l´attenzione dalle vere responsabilità dello scandalo. Certo, la serie di reportage è uscita con un ritmo martellante: lo scoop sui 200 bambini sordi molestati per anni da un sacerdote americano mai punito dal Vaticano; poi le inchieste sul passato di papa Ratzinger in Germania; infine altre rivelazioni dall´Irlanda e dagli Stati Uniti. «Le nostre inchieste ci dice Diane McNulty, direttrice esecutiva del quotidiano per le relazioni esterne sono basate sulla meticolosa raccolta di notizie e documenti. La Chiesa non smentisce neppure un dettaglio di quello che abbiamo pubblicato. Le accuse di abusi sessuali sono un tema serio e lo stesso Vaticano lo riconosce. Anche il ruolo svolto dal Papa nel reagire a quelle accuse è un aspetto centrale della vicenda».
La deontologia del giornalismo americano, il rispetto delle notizie, l´interesse del lettore, è la linea di difesa della "Signora in Grigio", come viene chiamato l´austero e rigoroso quotidiano. Ma dietro lo scontro tra il New York Times e la Santa Sede c´è anche una profonda incompatibilità di valori. Lo rivela l´editorialista Maureen Dowd, una delle grandi firme del quotidiano: Dowd ricorda che negli anni in cui il cardinal Ratzinger dirigeva la Congregazione della dottrina della fede, era «così ossessionato dai costumi sessuali della nostra società interveniva costantemente contro la pillola e l´aborto che non aveva tempo di reprimere gli abusi sessuali dei preti sui bambini». La Dowd sottolinea come l´ossessione del clero continua tuttora, fino a schierare la conferenza episcopale americana contro la riforma sanitaria di Barack Obama. È evidente la distanza che separa le gerarchie cattoliche dai valori della società americana più "liberal", impregnata della rivoluzione sessuale degli anni Sessanta, di cui il New York Times è un´espressione.
Un´altra grande firma del quotidiano, l´ex vaticanista Frank Bruni (autore di un libro sui preti pedofili), punta l´indice contro l´omertà della Chiesa e la sua estraneità allo Stato di diritto. Bruni ricorda che sia il cardinale irlandese Sean Brady, sia l´arcivescovo americano Rembert Weakland, di fronte alle denunce dei bambini molestati sessualmente, ebbero una preoccupazione dominante: «Evitare lo scandalo, proteggere la Chiesa dalla pubblicità negativa». Trattata come un peccato, la pedofilia può essere oggetto di confessione, pentimento e penitenza, aggirando la giustizia umana. «Lo stesso Ratzinger sottolinea Bruni non esortò i suoi sottoposti a denunciare i colpevoli dei crimini alla polizia». Questo è intollerabile per un giornale ancorato nei valori della Costituzione americana, nella tradizione della liberaldemocrazia. Per l´editorialista Ross Douthat la Chiesa è prigioniera di una «gerarchia conservatrice con una mentalità da bunker», una psicosi di stato d´assedio che le impedisce di «capire la dimensione dello scandalo». Bruni conclude: quando un´istituzione è tutta impegnata a difendersi da una presunta minaccia esterna, rischia di non rispondere alla vera minaccia che è al suo interno.

il Fatto 30.3.10
Salute e dignità nella Carta
L’articolo 32 della Costituzione tutela l’integrità della persona nelle sue molteplici dimensioni: fisica, psichica e sociale Al centro, i concetti di dignità e liberta
di Lorenza Carlassare

L’ art. 32 della Costituzione “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti” è l’unico in cui un diritto viene qualificato “fondamentale”. Grande è il rilievo attribuito alla salute, presupposto indispensabile per la realizzazione piena della persona e base di tutti gli altri diritti. In quanto “diritto primario fondamentale” inerente alla persona deve essere riconosciuto a tutti: ai cittadini e, nel suo nucleo irriducibile, agli stranieri qualunque sia la loro posizione rispetto alle leggi sull’immigrazione e il soggiorno nello Stato (Corte cost., sent. 252/2001; 432/2005). E deve essere assicurato in modo “eguale” in tutto il territorio nazionale, almeno nei suoi livelli essenziali. Il “perseguimento di una sempre migliore condizione sanitaria della popolazione”, uno degli obiettivi primari assegnati alla Repubblica, coinvolge tutti gli apparati pubblici: l’espressione ‘Repubblica’ designa infatti loStato,le Regioni e gli altri enti pubblici esistenti sul territorio. Diverse sono le situazioni garantite: dalla pretesa negativa di ciascun individuo a che altri non tengano comportamenti dannosi per la salute, alla pretesa positiva verso la Repubblica, tenuta a predisporre mezzi e strutture per assicurare cure adeguate a tutti e gratuite agli indigenti. Siamo infatti nel campo dei ‘diritti sociali’ che – a differenza dei diritti di libertà che esigono la ‘non interferenza’ dello Stato – per essere soddisfatti richiedono l’intervento pubblico e l’erogazione di prestazioni positive. L’art. 32 tutela l’integrità della persona nelle sue molteplici dimensioni fisica, psichica e sociale: la giurisprudenza, da questa ampia concezione di ‘salute’ è arrivata alla risarcibilità del “danno biologico”, danno alla salute come bene in sé a prescindere dalle conseguenze patrimonialmente valutabili sulla produzione del reddito. Dal diritto all’integrità psico-fisica dell’individuo la giurisprudenza ha tratto il diritto a un “ambiente salubre” come indispensabile presupposto: la Corte costituzionale ha dato “riconoscimento specifico alla salvaguardia dell’ambiente come diritto fondamentale della persona e interesse della collettività” (sent. 210/1987). L’ambiente è protetto “come elemento determinativo della qualità della vita” e “assurge a valore primario e assoluto (sent. 641/1987). Tuttavia il bilanciamento con i costi economici, la considerazione della necessaria gradualità nell’imposizione alle imprese della modifica di impianti dannosi e inquinanti, le tolleranze crescenti, rendono difficile affermare che, a tanti anni di distanza da quelle sentenze, viviamo in un ‘ambiente salubre’. Eppure già in Assemblea Costituente si precisava che la tutela della salute implica anche la prevenzione delle malattie. Con il comma 2 dell’art. 32, “Nessuno può essere sottoposto ad un trattamento sanitario se non nei casi previsti dalla legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”, rientriamo in pieno nella dimensione dei diritti di libertà. Trattamenti sanitari imposti, ai quali il malato non abbia consentito, sono rigorosamente vietati; “se non nei casi previsti dalla legge” è scritto nel testo, che non significa libertà per la legge di costringere a trattamenti sanitari (come ha sostenuto un politico scarsamente informato nel caso Englaro). La salute è tutelata come diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività; due sono dunque i riferimenti costituzionali, l’individuo e la collettività: il diritto del primo può cedere, eccezionalmente, soltanto di fronte ad un interesse della seconda. La persona è al centro del sistema; non la collettività o lo Stato come nel fascismo. Il trattamento sanitario può essere imposto soltanto quando sia direttamente in gioco l’interesse collettivo: ad esempio epidemie, malattie contagiose che per la loro diffusione si risolvono in un diretto danno sociale. Ogni limitazione alla libertà individuale deve trovare un’adeguata giustificazione negli interessi collettivi. Per consentire trattamenti sanitari imposti l’interesse della collettività dev’essere anche attuale; se si tenesse conto di un possibile danno futuro, o di un interesse futuro della collettività a selezionare individui sani, belli e simili, si arriverebbe ad esiti finali spaventosi: interventi di eugenetica, conosciuti nei regimi autoritari, come la sterilizzazione obbligatoria dei portatori di malattie ereditarie, o degli individui di una certa razza. “La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”, così termina l’art. 32; ed è interessante ricordare la formula originaria del Progetto: “Sono vietate le pratiche sanitarie lesive della dignità umana”. Sulla dignità della persona è costruita l’intera Costituzione (basta ricordarne i primi articoli) e ad essa, come alla libertà della persona, si richiamano i Documenti fondamentali che fissano i principi cardine della nostra civiltà. E’ scindibile la vita umana dalla dignità e dalla libertà? La domanda ha una risposta certa: ogni persona è libera di scegliere fra il rischio di una morte naturale e trattamenti sanitari che le assicurino il prolungamento di una vita senza libertà e dignità. Incertezze rimangono sulla ‘naturalità’ della morte (nel progresso tecnologico) e sull’apprezzamento necessariamente soggettivo del concetto di vita libera e dignitosa. Per questo la decisione non può che essere del malato, nessun altro può sostituirsi a lui. Ciascuno ha il diritto di rifiutare le cure anche per il futuro se non sarà in grado di esprimersi: la legge potrebbe disciplinare le modalità di esercizio delle dichiarazioni ma non limitare un diritto: “Il valore costituzionale dell’inviolabilità della persona” va costruito “come libertà nella quale è postulata la sfera di esplicazione del potere della persona di disporre del proprio corpo” e dunque come diritto d’impedire illegittime intromissioni altrui, ha detto la Corte.

il Fatto 30.3.10
Scuola, riforma anti-immigrati
Il maggior ritardo si accumula alle superiori con il 24,4% degli italiani, cui si contrappone il 71,8% degli stranieri E non a caso questa legge colpisce ferocemente l’istruzione professionale
di Marina Boscaino

La storia che sto per raccontare potrebbe rafforzare le convinzioni di Gelmini, Cota e chi in questi anni ha lavorato, attraverso una serie di proposte indecenti, ad una (dis)integrazione del tessuto sociale e del mandato inclusivo della scuola della Repubblica. Spero, viceversa, che chi la leggerà si trovi d’accordo con me. “Semplificazione”, una delle parole-chiave della “riforma”, sbandierata per giustificare i tagli di 140.000 posti di lavoro e di ore di lezione, sapere, cittadinanza, socialità, inclusione e per assecondare il bisogno di certezze di una parte della nostra società, rappresenta il criterio più inopportuno da riferire a un progetto di scuola. La scuola, semmai, se davvero si investisse culturalmente su di essa, sarebbe da “complessificare”, per renderla più adatta di quanto non sia ad accogliere il senso della diversità e della complessità, le cifre dell’oggi. Complessificare la scuola significherebbe renderla più adatta a rappresentare il punto di partenza per sperare in integrazione sociale non subalterna di tutte e di tutti. In particolare per gli alunni stranieri, che sono passati dai 13.712 (a. s. 1999/00) ai 118.977 (2007/8) e che sono l’oggetto di un’inchiesta – L’integrazione dei ragazzi stranieri alle superiori – pubblicata da “Animazione Sociale” del Gruppo Abele di Luigi Ciotti. I minori rappresentano 1/5 di tutti i migranti: nel 2009 erano 862.453, con un trend di aumento di 100.000 unità l’anno. Occorrerà fare presto e sensatamente i conti con questi dati.
Le nazionalità presenti nella scuola italiana sono ben 191: percorsi, viaggi, storie differenti, tutte caratterizzate dallo snodo cruciale che è la migrazione e la fatica esistenziale che essa comporta. L’energia indispensabile per un riadattamento in una realtà sconosciuta, con una lingua a volte incomprensibile, modelli culturali estranei, sovente indifferenza ai saperi e al saper fare già acquisito, che vengono confinati, come il senso della vita altra, quella del “prima”. L’identikit dei più “vulnerabili”: nati all’estero e giunti da noi dopo i 10 anni; arrivano ad anno scolastico già avviato; provengono dal contesto africano; maschi. L’esperienza scolastica non è facilissima: i ragazzi italiani in ritardo sono l’11,6% della popolazione scolastica, quelli migranti il 42,5%. Il maggior ritardo si accumula proprio nella scuola superiore, con il 24,4% degli italiani, cui si contrappone il 71,8% dei ragazzi stranieri. Il 40,7% dei giovani migranti sono inseriti nell’istruzione professionale, il 37,6% in quella tecnica; le rispettive percentuali degli italiani sono 19,9% e 35%: troppo evidente ancora una volta come nel nostro Paese la scuola media abbia rinunciato a qualsiasi funzione orientativa e traghetti destini socialmente determinati nei vari segmenti delle superiori – quando ci si arriva. Appare perfettamente coerente che la “riforma” colpisca nella maniera più feroce proprio l’istruzione professionale, svuotandola ulteriormente di qualsiasi funzione acculturante, a vantaggio di una dinamica meramente addestrativa: creazione di manodopera digiuna di cittadinanza, nella miope e triste visione del mondo che caratterizza il progetto. Il dossier racconta anche illuminate esperienze felici. Ma molto più spesso integrazione – tra retorica e pratica – è diventata parola svuotata di significato, con una normativa di riferimento poco conosciuta o attuata solo in parte. Le classi-ghetto non sono state solo la macabra proposta del leghista Cota, ma rappresentano una realtà organizzativa per venire incontro alla visione ottusa e xenofoba dello straniero ostacolo ai processi di apprendimento degli altri, nati dalla parte “giusta” del mondo.
I numeri sono impressionanti. Ma ancor più le storie, gli occhi, i traumi, i sogni di ragazzi che potrebbero essere i nostri figli. Rispondere ai loro legittimi bisogni è un’emergenza assoluta. Loro, invece, non sono un’emergenza, alla quale far fronte con soluzioni improvvisate o con proposte che violino Costituzione e buon senso. Sono la nostra realtà. Occorrono investimenti – e consistenti – su questa importante e nuova dimensione della nostra identità socio-culturale. Occorre individuare strategie didattiche e di relazione, tempi diversi, aperture ed interrelazione tra apporti e contributi ugualmente significativi. Occorre la scuola dell’art. 3. Lontana mille miglia dalle classi ponte, dalla quota del 30%, dalle impronte ai bimbi rom. Dalla mistificazione di una “semplificazione” che non è altro che asfittico disinvestimento che il tempo si occuperà di dimostrare incivile.

Repubblica 30.3.10
Il giorno della pillola
Arriva in Italia il camion con le prime confezioni della Ru486. Ma le polemiche sull´aborto non si spengono. Ecco cosa succederà
di Michele Bocci e Anais Ginori

Le prime confezioni sono arrivate ieri mattina all´alba. Un furgone partito dalla Francia ha già scaricato duemila scatole nel deposito Dhl di Settala, provincia di Milano. Il viaggio della Ru486 fino all´Italia sembra davvero terminato. Un percorso lungo e travagliato, cominciato oltre vent´anni fa, quando fu inventata la pillola che permetteva alle donne di scegliere l´aborto farmacologico. Raramente un medicinale è stato al centro di così tante polemiche. Appelli di movimenti per la vita e anatemi del Vaticano, indagini parlamentari, ricorsi legali. Sono serviti ben settecento giorni di istruttoria per il via libera definitivo da parte dell´Aifa, l´agenzia per il farmaco. Un record. Ma ormai è questione di poco.
il seguito nelle edicole

Repubblica 30.3.10
Cinquan’anni dopo un’altra rivoluzione
di Miriam Mafai

Se la potestà sul proprio corpo è il primo riconoscimento della libertà di ognuno di noi, nel caso della donna questa libertà va declinata anche come potestà sulla propria capacità di riproduzione. E infatti, la storia della libertà della donna, nel nostro come in altri paesi europei, conosce, nell´ultimo scorcio del secolo passato, una importante accelerazione grazie a scoperte scientifiche che affidano a lei, a ogni singola donna, la possibilità/il diritto al controllo della propria fecondità. A queste scoperte scientifiche faranno seguito, grazie all´intervento e alla crescita di importanti movimenti femminili, i provvedimenti legislativi, che nel nostro come in altri paesi occidentali, ne riconoscono questo nuovissimo diritto, esercitato in piena coscienza e autonomia morale.
Risale al 1960 la scoperta, e l´adozione in molti paesi occidentali della pillola Pincus (detta «la pillola» per antonomasia) che per la prima volta darà alla donna la possibilità di controllare la propria fecondità. Ma ci vorranno più di dieci anni perché quella pillola, grazie a una sentenza delle Corte Costituzionale, venga considerata legale e finalmente messa in vendita in Italia.
L´ultimo scorcio del secolo passato conosce una serie di conquiste del movimento delle donne e un affermarsi, sia pure contrastato, del principio della laicità dello Stato e quindi del diritto di ognuno (e di ognuna) di noi di disporre del proprio corpo.
Ma questo principio, della dignità morale della donna, della sua capacità di assumere in piena responsabilità le decisioni che la riguardano continua ad essere messo in discussione dalla Chiesa, come dimostra anche la più recente vicenda della Ru486.
Anche in questo caso, come nella lontana vicenda del 1960, si tratta di una pillola. Ci vollero allora circa dieci anni perché quella pillola anticoncezionale venisse messa in commercio. E per anni, in Italia, è stata impedita l´adozione di un´altra pillola, la Ru486, che, già adottata in tutta Europa da tempo, consente l´aborto farmacologico, senza il ricorso all´intervento chirurgico.
Ora, qualunque donna che abbia deciso di ricorrere all´aborto (per ragioni che solo a lei appartengono) se interpellata dirà, probabilmente, che preferisce l´aborto farmacologico a quello chirurgico. Ma pare che sia propria la relativa «facilità» di questo intervento a indignare molti uomini di Chiesa, evidentemente convinti che la sofferenza per la rinuncia a un figlio sia misurabile solo dal dolore provocato dai ferri che ti entrano in pancia e non dal fatto che a quel figlio hai dovuto rinunciare.
Le ragioni che dalle gerarchie vaticane e da alcuni parlamentari cattolici sono state portate per impedire l´adozione della Ru486 sono a dir poco risibili. Finalmente, dopo anni di polemiche, di dibattiti, di resistenze, la pillola entrerà da oggi in Italia. E nelle prossime settimane le donne che lo vorranno potranno abortire assumendo una pillola, anziché sdraiandosi sul tavolo operatorio. Non diremo che è una vittoria delle donne. Sarebbe una vittoria non dover mai rinunciare a una vita che portiamo in grembo. Ma finché questo non sarà possibile, è giusto che ogni donna scelga, in piena autonomia, quale procedura adottare. Il corpo è suo, dopotutto. Anche se questo non le viene ancora riconosciuto dalle autorità del Vaticano.