domenica 4 aprile 2010

il manifesto 3.4.10
Che fare
Orsù compagni della capitale
di Sandro Medici

Non è una consolazione. Semmai un conforto. Rilevare che nella sconfitta di Emma Bonino nel Lazio il voto romano si stagli nella sua nitidezza algebrica, è la conferma di ciò che tutti sanno, Alemanno compreso: in città c'è una sensibile prevalenza democratica, ostile se non antagonista alla destra che la governa. Un dato politico che restituisce al centrosinistra, ancora una volta, la responsabilità dei suoi errori. Ora che Rutelli gira al largo, Veltroni è in castigo e Bertinotti studia, chi è rimasto a Roma a battersi e dannarsi ha una ragione in più per prendersela con chi ha consegnato il Campidoglio a un sindaco con la croce celtica al collo.
Quel che agevolmente ha ottenuto la candidata radicale, staccare di nove punti Renata Polverini in città, e che, in minor misura, riuscì anche a Nicola Zingaretti, dà la misura di quanto scellerata sia stata la scelta politica del centrosinistra alle elezioni comunali di due anni fa. Due anni che sembrano trascorsi invano, se siamo qui a commentare un'altra sconfitta. Dove tuttavia si segnalano non tanto i limiti di una candidatura improvvisata ma accolta in assenza di alternative, quanto la rovinosa disgregazione dell'assetto territoriale dei partiti. Un assetto sempre più rarefatto via via che ci si allontana dalla città, e che non riesce più a dialogare con un elettorato culturalmente e geograficamente periferico. La Regione Lazio è andata perduta proprio qui, in questa vistosa divaricazione. Tra una città che ancora si segnala per tenuta sociale e cultura civile e una provincia che la politica non sa più presidiare, sempre più disancorata e lasciata ai margini, incollerita e rancorosa, oppure indifesa e dunque incline a semplificare. Una contraddizione antica che oggi prepotentemente si ripropone nella sua avvilente modernità, come notava Michele Serra ieri su Repubblica. A Roma, ma anche a Torino e perfino a Napoli: la metropoli tradita dai territori.
Non è l'unica ragione della sconfitta, ma certo la quantità di voti di destra a Frosinone o a Viterbo o nei Castelli romani è impressionante, assolutamente inedita. E stride con l'alto numero di preferenze di alcuni candidati del perdente Pd: a testimoniare quanto questo partito (e gli altri) sia soltanto un insieme di consociazioni che si occupano di convogliare voti individuali e non più di proporsi come un ambito collettivo che si connota per la sua offerta politica. E sull'inconsistenza del Pd, sulle sue ormai croniche divisioni, si concentra il risentimento critico della Bonino. A cui non è mai sfuggita la freddezza con cui in settori del partito sia stata accettata la sua candidatura. Ce l'ha in particolare con D'Alema che pur di allearsi con l'Udc sarebbe stato disposto ad affossare Vendola in Puglia, oltreché sperare che il Lazio andasse a Renata Polverini, appunto per dimostrare la necessità di quell'alleanza. Sarà anche cinicamente così, e non ci si stupirebbe. Ma in questa vicenda, più dei sospetti e dei veleni, è illuminante l'entusiasmo con cui Avvenire, il quotidiano dei vescovi, ha salutato la vittoria della destra nel Lazio. Più di D'Alema e più di Casini, a spostare voti e risultato finale c'è riuscito forse monsignor Bagnasco con il suo richiamo a non votare chi sostiene l'aborto.
Forse è per questo che Emma Bonino ha perso elettoralmente ma ha vinto politicamente. Con il suo incedere schivo e misurato, con quel rifuggire da una campagna elettorale comiziante ed esibita, ha raccolto consenso e considerazione indicando la strada su cui transitare per recuperare credibilità politica. È successo soprattutto a Roma, dove è riuscita a raccogliere quella domanda politica che i partiti non sono più in grado di intercettare, ad accogliere quel sentimento appassionato e critico, quell'insieme di intelligenze sociali: tutto ciò che sarà necessario per rimuovere Alemanno dal Campidoglio. Ma questo patrimonio non è sempre disponibile: ha bisogno di riconoscersi in un progetto innanzitutto liberato dal politicismo. In cui si intreccino proposte politiche e pratiche sociali, si valorizzino le esperienze locali e i modelli di governo territoriali.
Lo capiranno i partiti del centrosinistra romano? Capiranno che le confraternite di oligarchie in permanente e reciproco contrasto diventano impedienti di ogni possibile sviluppo positivo. Capiranno che devono mettersi finalmente in discussione e smetterla con le loro grottesche liturgie autoconservatrici? A occhio, non sembra: continuano in queste ore a cincischiare con le loro guerricciole.
Forse qualcuno dovrebbe dirgli che i partiti hanno sì bisogno della politica, ma la politica non sempre ha bisogno dei partiti.

il Fatto 4.4.10
Vaticano. L’inchiesta del New York Times
La battaglia persa di Ratrzinger
Preti pedofili, chi fermò Ratzinger?
Le rivelazioni del cardinale Schoenborn
di Marco Politi

Con chi parla Joseph Ratzinger? Chi ascolta? Nella Pasqua del quinto anno di pontificato la Chiesa sprofonda in una crisi devastante e non si intravvede ancora il cammino verso la resurrezione. Al contrario, le nubi si fanno più nere. Arrivano rivelazioni sempre più pesanti

Con chi parla Joseph Ratzinger? Chi ascolta? Nella Pasqua del quinto anno di pontificato la Chiesa sprofonda in una crisi devastante e non si intravvede ancora il cammino verso la resurrezione. Al contrario, le nubi si fanno più nere. Arrivano rivelazioni sempre più pesanti. In Inghilterra, dove il pontefice andrà in settembre, si preannunciano accese manifestazioni. Negli Usa (sondaggio Cbs) solo il 20 per cento approva il suo operato nella crisi. Mentre il Primate anglicano Williams attacca frontalmente la gerarchia cattolica per gli abusi in Irlanda. È una “passione” angosciante per la Chiesa cattolica. Non se ne esce, se non farà luce su tutti i crimini con un rigoroso esame di coscienza, che porti alla superficie omertà, errori, insabbiamenti e ritardi. Servono altri passi di Benedetto XVI. Si chiedono in America cosa faccia in queste ore l’inner circle del pontefice, la sua cerchia più stretta di collaboratori. Laggiù pensano che vi sia – come a Washington – uno staff di fidati consiglieri con cui il pontefice si consigli, analizzi la situazione, valuti le reazioni dell’opinione pubblica. Non è così. Papa Ratzinger opera in una solitudine monacale e imperiale. Gli è vicino il cardinale Bertone, segretario di Stato, gli è accanto il fedele segretario Gaenswein, ma sostiene un vecchio cardinale: “Il problema di Benedetto XVI è che non si lascia consigliare”. Soprattutto gli sembra estranea la concezione che l’opinione pubblica non sia una mera platea cui rivolgere discorsi, encicliche o ammaestramenti, bensì un interlocutore attivo che pone domande ed esige risposte. In Vaticano regna un clima da stato d’assedio. Fra gli intimi del pontefice corre la convinzione che sulla stampa riecheggino le tirate di Goebbels contro la Chiesa cattolica, quando i nazisti cercavano di screditarla agitando le malefatte sessuali del clero. “Vogliono criminalizzarci in toto”, ha esclamato un prelato. “Vogliono distruggere la Chiesa”, insistono altri. L’Avvenire di venerdì portava otto lettere di lettori indignati per i cosiddetti attacchi al Papa: “Volontà di eliminare l’ultima voce di moralità... Campagna di stampa piena di disprezzo... Ipocrisia dei laicisti”. Per l’Osservatore Romano è in atto contro il pontefice un’ “ignobile azione diffamatoria”.
In questo clima è nato l’ennesimo incidente tra Vaticano e comunità ebraica con la lettura del predicatore papale Cantalamessa di una “lettera di un amico ebreo”, che paragonava gli attacchi al pontefice alle persecuzioni antisemite dei nazisti. “Paragone ripugnante”, è stata la dura reazione degli ebrei tedeschi. Infuriato l’ebraismo internazionale. Il portavoce papale Lombardi ha dovuto smentire: “Non esprime la linea del Vaticano”. Intanto fioriscono le attestazioni di solidarietà a Benedetto XVI, provenienti dagli episcopati e da esponenti più vari. Ma ciò non sminuisce una crisi, che scuote alle fondamenta credibilità e immagine della Chiesa cattolica, mentre la valanga delle rivelazioni è destinata a crescere. Nel palazzo apostolico non sembrano rendersi conto che di fronte alle testimonianze di centinaia e centinaia di abusi il vittimismo non è una via di uscita.
Ci sono fatti ormai accertati, che indicano la responsabilità diretta della Santa Sede nei decenni trascorsi. Lettere di denuncia a Paolo VI smarritesi chissà dove. Lentezze ed esitazioni che hanno permesso al violentatore di duecento bambini sordomuti di chiudere i suoi giorni, indossando la tonaca sacerdotale. Insabbiamenti di dossier pesanti, come quello del fondatore dei Legionari di Cristo Macial, nei cui riguardi soltanto nel 2004 il cardinale Ratzinger ha potuto aprire un procedimento d’inchiesta. Infatti all’interno della Curia di papa Wojtyla c’erano forti opposizioni.
Ci vollero anni e anni, nonostante le sollecitazioni del vescovo locale, perché un prete violentatore fosse condannato alla riduzione allo stato laicale dopo il suo appello alla Congregazione per la Dottrina della fede. C’era in Vaticano, dinanzi alle notizie di abuso, chi tendeva a troncare e sopire. E’ stato il cardinale Schoenborn di Vienna a raccontare pubblicamente che quando a metà degli anni Novanta scoppiò in Austria lo scandalo dell’allora arcivescovo di Vienna cardinale Groer (accusato di pedofilia e poi costretto alle dimissioni), il cardinale Ratzinger “non riuscì” a far partire un’inchiesta per accertare gli abusi.
Abbiamo la testimonianza diretta di una conversazione di Schoenborn con Ratzinger nell’anno 1995: “Mi disse con tristezza: l’altro Partito l’ha avuta vinta”. Cioè il partito della Segreteria di Stato. Dalle parole di Schoenborn si capisce come potevano andare le cose in Vaticano. “Esponenti della Curia persuasero Giovanni Paolo II che i media avevano esagerato la questione e che un’inchiesta avrebbe soltanto creato cattiva pubblicità”.
Cattiva pubblicità... Ecco la parola chiave per spiegare decenni di omertà, inerzie, colpevoli lentezze, di cui le gerarchie ecclesiastiche in tante parti del mondo portano responsabilità. Esattamente ciò che Benedetto XVI ha stigmatizzato nella sua Lettera ai cattolici irlandesi: “Preoccupazione fuori luogo per la reputazione della Chiesa e per evitare scandali”. Ma seppure nella lettera papa Ratzinger è stato coraggioso e rigoroso nell’indicare la strategia per combattere gli abusi, ora nessuno può credere che la Chiesa cattolica possa risorgere dalla crisi senza aprire gli archivi, senza fare piena luce sulle segnalazioni pervenute in Vaticano nei passati decenni, senza confessare apertamente ciò che è stato fatto e non fatto. “Rendere conto dei misfatti senza tentennamenti e minimizzazioni”, ha sintetizzato il cardinale Scola di Venezia.
E l’iniziativa tocca al pontefice. Papa Ratzinger, più lucido di molti suoi difensori, deve evitare di farsi soffocare dal professor Ratzinger. Dalla sua tendenza a considerare le questioni in astratto, dal credere che basti intervenire autorevolmente una sola volta perché tutto sia chiarito, dal suo atteggiamento di chiusura verso le domande scomode dei mass media.
È stato un errore non dire una parola sugli scandali il Giovedì Santo. È stato sconsolante vedere che il cardinale Ruini alla Via crucis ha by-passato il tema della “sporcizia nella Chiesa”, che il cardinale Ratzinger aveva sollevato a voce alta nel 2005. Questa Pasqua è per la Chiesa una traversata del deserto. Ma senza un rigoroso esame di coscienza e una piena confessione dei fatti oscuri del passato, non arriverà alla pace.

il Fatto 4.4.10
La valanga vaticana
La stampa Usa moltiplica le accuse sugli insabbiamenti dei casi di pedofilia nella Chiesa: ultimo caso a Tucson
di Angela Vitaliano

Il futuro Pontefice fece passare 12 anni prima di cacciare il reverendo dell’Arizona Teta

In una domenica di Pasqua assolata e primaverile, molti cattolici, da questa parte dell’oceano, si recheranno in Chiesa augurandosi, silenziosamente, pace prima di tutto per sé stessi, da settimane sotto il fuoco incrociato di tutta la stampa, a partire dal New York Times, per gli scandali legati alla pedofilia e “coperti” da chi aveva il compito di intervenire e punire. Una situazione estremamente difficile, aggravata, ieri, da due nuovi cicloni che hanno travolto il Vaticano e inasprito il disappunto di molti fedeli e, questa volta, anche dell’intera comunità ebraica offesa per il paragone, avanzato durante la messa del venerdì Santo, dal predicatore papale Rainero Cantalamessa che ha messo sullo stesso piano gli “attacchi” a papa Ratzinger alle persecuzioni contro gli ebrei. Un intervento che il portavoce Vaticano, padre Federico Lombardi, ha definito “non in linea con la posizione della Chiesa” ma che qui, negli Stati Uniti, è stato recepito come un vero e proprio oltraggio, soprattutto nella settimana in cui gli ebrei celebrano il Passover (per commemorare la fuga dall’Egitto e la fine della loro schiavitù).
Alan Elsner, giornalista che ha dedicato parte della sua carriera alla ricerca delle storie delle persecuzioni naziste sugli ebrei, scriveva ieri nel suo blog “per favore lasciate gli ebrei fuori dalle storie di abusi sui bambini dei cattolici”. Insomma, un autogol non da poco che diventa una vera e propria goleada se si considera che nelle stesse ore, l’Associated Press, riferisce, documenti alla mano, di due casi di abusi, avvenuti in Arizona e che, l’allora cardinale Joseph Ratzinger avrebbe fatto scivolare nel dimenticatoio per un decennio. La storia riportata dall’Ap, si riferisce all’episodio avvenuto a Tucson e riguardante l’allora reverendo Michael Teta, responsabile di abusi sessuali su due bambini di 7 e 9 anni che frequentavano la diocesi per prepararsi alla prima comunione. Nel 1990, un tribunale ecclesiastico aveva riscontrato la responsabilità di Teta, descritto come un uomo “con qualità sataniche nel suo agire nei confronti di ragazzi e bambini”. Il tribunale riferì dell’accaduto all’allora responsabile della Congregazione della Dottrina della Fede, cardinal Ratzinger, futuro papa che, però, impiegò 12 anni per intervenire con la scomunica ufficiale di Teta, passo che solo il Vaticano può compiere. Nonostante una lettera datata 8 giugno 1992, fornita all’Associated Press dall’avvocato delle due vittime di abusi Lynne Cardigan, in cui Ratzinger, informava l’allora vescovo di Tucson, Manuel Moreno, che premeva per la risoluzione del caso, che si sarebbe occupato rapidamente della questione, nessun passo venne compiuto e Teta, sebbene sospeso dalle sue funzioni dal vescovo, continuò per anni a essere retribuito e a occuparsi di ragazzi, fuori dalla chiesa. Moreno, continuò a scrivere periodicamente chiedendo l’intervento di Ratzinger; in una lettera del 10 febbraio 2003, facendo riferimento ad un articolo dell’Arizona Daily Star in cui si descriveva Teta alla guida di una Mercedes con interni in pelle e un rosario appeso allo specchietto retrovisore, implorò l’intervento del Vaticano così come, dopo il suo pensionamento per cause di salute, fece il suo successore Girald Kicanas. La laicizzazione di Teta avvenne solo nel 2004.
Quello di Tucson, tuttavia, è solo l’ultimo di una serie di casi denunciati, in prima istanza dal New York Times che in un’inchiesta a firma di Laurie Goodstein, ha portato alla luce lo scandalo dei 200 bambini sordi molestati alla St. John School nel Wisconsin. Le molestie furono tutte perpetrate dall’allora reverendo Lawrence C. Murphy che, come raccontato da una delle vittime, Steven Geier, diceva ai bambini che provavano a ribellarsi di “essere stato mandato da Dio”. Le molestie, avvenute fra il 1950 e il 1974 (e, secondo il New York Times di ieri proseguite anche dopo l’esilio in cui fu mandato), furono denunciate, come per il caso di Tucson, al cardinale Ratzinger, sempre in virtù del suo ruolo di capo della Congregazione per la dottrina della fede. Ancora una volta, però, le segnalazioni giunte sulla scrivania del cardinale nel 1996 restarono lettera morta per almeno 8 mesi fino a quando, cioé il cardinale Tarcisio Bertone, oggi segretario vaticano, diede indicazioni al vescovo del Wisconsin d’iniziare un processo canonico interno riservato, che venne poi bloccato dallo stesso Bertone a seguito d’una lettera che Murphy scrisse personalmente a Ratzinger pregandolo, per rispetto della sua salute precaria di “lasciargli vivere dignitosamente i suoi ultimi anni di vita”. Sebbene non ci siano tracce di risposta da parte di Ratzinger, il caso venne lasciato languire e nessun procedimento venne intrapreso nei confronti del prete.
Sin dalla prima denuncia del New York Times, fino a quella di ieri dell’Associated Press, passando per il botta e risposta con il Vaticano, ciò che appare evidente, qui negli Stati Uniti, è che ci sia una debolezza da parte dei vertici vaticani che rischia di gettare discredito sulla sacralità della Chiesa cattolica e la sua stessa istituzione.
Le responsabilità di Ratzinger e degli altri dirigenti sono sì legate al mancato intervento in casi gravissimi che richiedevano procedimenti esemplari ma sono anche, e soprattutto, connesse al fatto che una leadership che copre misfatti o se ne rende protagonista non può che indebolire l’istituzione stessa che rappresenta.
Per questo, la Chiesa cattolica americana sta chiedendo, in maniera pressante, una revisione della legge canonica che possa portare ad una severità pari a quella attuata, a livello locale, dopo lo scandalo del 2002 che travolse la chiesa di Boston nel Massachusetts e costò cifre astronomiche in risarcimenti alle vittime.

l’Unità 4.4.10
Sul sito del premier britannico: «Pedofilia, il governo si dissoci dai silenzi del Pontefice»
No alla visita del Papa a Londra. 13.000 firme a Downing Street
di Marina Mastroluca

Per capire l’aria che tira, il Times rispolvera, come fosse un vecchio album di famiglia, le immagini impresse nella memoria dell’ultima visita in Inghilterra di Giovanni Paolo II. Profumo di incenso, gioia ecumenica, il Papa e l’arcivescovo di Canterbury fianco a fianco in un tripudio di folla e rispetto reciproco. Non bisogna essere degli indovini per capire che non sarà così questa volta, quando il prossimo settembre Benedetto XVI sbarcherà a Londra. Sul sito di Downing Street fioriscono petizioni per protestare contro la visita di Ratzinger e i nomi in calce continuano ad aumentare. Ieri l’elenco dei «Protest the pope» people era arrivato a 13.424 firme, tutti cittadini britannici come richiesto espressamente dal sito. Non le poche decine che la settimana scorsa avevano protestato a Westminster. E un’aria gelida soffia anche nella Chiesa anglicana. L’arcivescovo di Canterbury nel clima penitenziale della sabato santo ha colto l’occasione per un appunto del tutto irrituale sui vicini di casa cattolici. La Chiesa irlandese, ha detto intervistato dalla Bbc, ha perso «tutta la sua credibilità» con lo scandalo pedofilia.
Lo scandalo appunto. La sua eco risuona tra le ragioni elencate nella più firmata petizione anti-papa rivolta al premier britannico, perché dica chiaramente che non condivide il punto di vista papale su diritti riproduttivi delle donne, cellule staminali, preservativi, senza tralasciare la riabilitazione del vescovo negazionista Williamson e la procedura per la beatificazione di Pio XII a dispetto della sua inerzia di fronte all’Olocausto. «Chiediamo al primo ministro di esprimere il suo disaccordo sul ruolo del Papa nel coprire gli abusi sessuali dei preti sui bambini», recita la petizione. Altri chiedono di lasciare che sia la Chiesa cattolica a sborsare i 20 milioni di sterline necessari per il tour del Papa in Inghilterra. O semplicemente di cancellare la visita di Stato.
«DRAMMA COLOSSALE»
Non sembra entusiasta nemmeno l’arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams. Prende una via traversa, parlando della Chiesa d’Irlanda e di amici del posto «che mi hanno detto che è particolarmente difficile in molte parti del Paese scendere in strada con la veste clericale». Parla di «dramma colossale», scatenando lo sconcerto delle gerarchie cattoliche d’Irlanda, «sconfortate» dalla stilettata così poco diplomatica. Ma anche quella di Williams non è una voce isolata, a dar retta ai commenti che si tira dietro, anche da esponenti cattolici: l’arcivescovo di Canterbury, questo è il filo rosso, ha dato voce a quanti credono che il Vaticano non abbia davvero capito la portata dello scandalo né delle sue stesse responsabilità.
Certo da parte anglicana sanguina anche la ferita recente delle aperture di Benedetto XVI ai tradizionalisti anglicani, autorizzati a rientrare nelle file cattoliche con moglie al seguito pur di fuggire ad una chiesa che ammette donne e gay all’altare. «Che Dio li benedica. Io non lo farò», ha detto acido l’arcivescovo Williams, preannunciando comunque un esodo molto limitato dalle file anglicane. E le polemiche di queste settimane dai tentativi di citare il papa in giudizio al singolare parallelismo di padre Cantalamessa tra antisemitismo e accuse di pedofilia è probabile che finiranno per dargli ragione.
La settimana di passione insomma non poteva essere più dolorosa. Eppure la Chiesa cattolica, è questa la critica, non sembra essersi spinta oltre un generico, quasi convenzionale, pentimento per i propri peccati. Si distingue la Chiesa di Scozia. Alla messa solenne di oggi il cardinale O’Brien parlerà delle vittime degli abusi. Vittime che la Chiesa ha a lungo finto di non vedere.

l’Unità 4.4.10
New York Times
Padre Murphy continuò negli abusi anche «in esilio»
Padre Lawrence Murphy, accusato di aver abusato sessualmente di almeno 200 ragazzini sordomuti quando lavorava alla St. John School di Milwaukee, avrebbe proseguito con le sue violenze sino alla sua morte, quindi anche dopo essere stato mandato «in esilio» nel 1974, in un cottage in Wisconsin. Lo scrive il New York Times citando le testimonianze di diverse vittime. Il sacerdote pedofilo fu libero di fare il catechismo ai cresimandi di una scuola religiosa della zona, ospitarli a casa sua e organizzare delle gite. Inoltre ha potuto frequentare i ragazzi di un riformatorio vicino, il Lincoln Hills School for Boys. Nonostante le accuse. gli abusi sono continuati.

l’Unità 4.4.10
Ebrei indignati per il paragone di Cantalamessa «Ratzinger si scusi»
Sono indignati gli ebrei di tutto il mondo per il paragone con l'antisemitismo fatto da padre Cantalamessa. Anche se i più ortodossi ieri, rispettando lo shabbat, il giorno di silenzio dedicato alla preghiera e al riposo, si sono astenuti dal fare dichiarazioni. Non è il caso del rabbino Marvin Haier, fondatore e decano del Centro Simon Wiesenthal di Los Angeles, che ha preso la parola per chiedere formali scuse da parte del capo della Chiesa Cattolica. «Si tratta di parole ingiuriose», ha detto. «Il fatto che abbia citato una lettera di un ebreo non giustifica la sua ignoranza». Elan Steinberg, vice presidente dell'Associazione americana di sopravvissuti all'Olocausto ha invitato Cantalamessa a «provare vergona». «Il paragone è offensivo e insostenibile», ha detto. Ma anche il Centro Simon Wiesenthal puntato il dito direttamente su Joseph Ratzinger: «Queste affermazioni ingiuriose sono state fatte in presenza del Papa e il Papa stesso deve chiedere scusa». Il Consiglio ebraico della Germania ha trovato il sermone di Cantalamessa «insolente, osceno e offensivo verso le vittime degli abusi e verso le vittime dell'Olocausto». «Il Vaticano ha detto il segretario generale Stephan Kramer -tenta di trasformare in vittime coloro che hanno perpetrato gli abusi».
In Italia a caldo avevano già protestato il presidente dell’Unione comunità ebraiche Amos Luzzatto (su l’Unità ieri) e il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, che hanno avuto risalto sulla radio israeliana. Il Jerusalem Post, disponibile solo in versione online, ha detto che «i commenti del predicatore del Papa hanno fatto infuriare gruppi ebraici e le vittime degli abusi sessuali».

l’Unità 4.4.10
«Oltraggioso legare Shoah e vicende vaticane
L’intellettuale: l’antisemitismo nazifascista portò alla morte 6 milioni di persone La Chiesa s’interroghi sulle cause della pedofilia nel clero e sul senso del celibato
di Umberto De Giovannangeli

TULLIA ZEVI, PRESIDENTE DELL’UCOI
Esule a Parigi e poi a New York fin dalla promulgazione delle leggi razziali, dopo la guerra è tornata in Italia. Giornalista, dal 1960 1l ‘93 è stata corrispondente del Maariv.
Vicepresidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane nel 1978, cinque anni dopo ne è diventata Presidente, la prima donna presidente dell’Ucoi. Ha scritto diversi libri, tra cui «Ti racconto la mia storia. Dialogo tra nonna e nipote sull'ebraismo», Rizzoli 2007.

Questo accostamento non è solo oltraggioso ma è anche privo di senso. Il reverendo Cantalamessa confonde causa ed effetto. Le critiche sulle coperture o la reticenza dei vertici della Chiesa cattolica nel contrastare la pedofilia nelle sue fila, sono la causa delle critiche a Benedetto XVI. Critiche che non possono essere liquidate come una “campagna di odio” contro la Chiesa ed ancor meno equiparate alle campagne antisemite contro gli ebrei». A sostenerlo è una delle figure più autorevoli dell' ebraismo italiano: Tullia Zevi. Come valute le affermazioni del predicatore della Casa Pontificia, Padre Raniero Cantalamessa?
«Sono affermazioni gravi, oltraggiose, prive di senso. Il reverendo Cantalamessa dovrebbe prestare più attenzione ai numeri, se non alla verità storica. L'antisemitismo nazifascista portò alla morte di oltre 6 milioni di innocenti, e tra questi di un milione e mezzo di bambini. Se ne rende conto il reverendo Cantalamessa? Ha preso coscienza dell'enormità delle sue affermazioni? Il paragone non regge nel modo più assoluto. Il solo pensarlo mi fa star male... Ma come è possibile equiparare le accuse su coperture, vere o presunte tali, di cui avrebbero goduto preti pedofili, con la certezza dei crimini che portarono alla morte sei milioni di esseri umani! E poi c'è un'altra cosa...».
Quale, signora Zevi?
«Qui non parla un prelato marginale. Padre Cantalamessa è il predicatore della Casa Pontificia. Non sono esperta di cose religiose, ma penso che non si ricopra a caso o per sorteggio quella funzione. L'importanza della funzione dovrebbe essere
accompagnata dalla cautela nelle esternazioni. Cautela di cui padre Cantalamessa non ha dato prova. Semmai il contrario...»
Che idea si è fatta delle polemiche attorno alla vicenda dei preti pedofili?
«Vede, tanti anni fa come giornalista seguìi il Concilio Vaticano II. Eravamo tantissimi giornalisti, diversi dei quali erano religiosi che seguivano i lavori del Concilio per conto di testate cattoliche. Ricordo con quale intensità seguivano il dibattito sul riesame della condizione dei preti in rapporto all'imposizione del celibato. E ricordo la loro delusione quando il Concilio ribadì il celibato. Il tema era fortemente sentito, vissuto. D'altro canto, in quale altra religione, anche restando nell'ambito delle Chiese cristiane, è imposto il celibato ai religiosi? Dico questo perché sono convinta che abusi sessuali, violenze, deviazioni sono in qualche modo riconducibili anche alla sfera di una sessualità repressa, coartata... Non che si sia un rapporto meccanico causa-effetto, certo è che il tema del celibato e della castità imposta per i preti è ineludibile». Restano le accuse lanciate contro giornali, come il New York Times, che hanno sottolineato l’omertà dei vertici della Chiesa, coinvolgendo il Papa.
«Ogni accusa, contro chiunque, deve essere supportata da prove. È l'abc di uno Stato di diritto e di una avanzata civiltà giuridica. Ma anche qui non è accettabile confondere causa ed effetto. La Chiesa dovrebbe interrogarsi sulle cause che hanno portato a tanti casi di pedofilia al proprio interno, invece di pensare di liquidare il tutto come una campagna di odio... Così chiude gli occhi di fronte alla realtà».
Di chiuderli o di accostare questa “campagna di odio” all'antisemitismo contro gli ebrei...
«Spero che Padre Cantalamessa si sia pentito di questo vergognoso accostamento. Lo spero per lui, innanzitutto. E per il bene del dialogo interreligioso. Ad Auschwitz era chiaro chi fossero le vittime e chi i persecutori. Nella storia dei pedofili dovrebbe essere altrettanto chiaro. Sta alla Chiesa rendersene conto».

Repubblica 4.4.10
Gli ebrei contro il Vaticano "Ratzinger deve scusarsi"
Nel mirino il paragone con l'Olocausto. E negli Usa, sotto accusa un altro sacerdote
di Marco Ansaldo

CITTÀ DEL VATICANO - Al sabato di Pasqua, vigilia della Resurrezione, l´imbarazzo del Vaticano è palpabile. «Avvicinare gli attacchi al Papa per lo scandalo pedofilia all´antisemitismo non è la linea seguita dalla Santa Sede - dice al sito della Radio Vaticana il portavoce Federico Lombardi, gettando ondate di acqua sul fuoco - padre Cantalamessa ha solo voluto rendere nota la solidarietà al Pontefice espressa da un ebreo. Ma - ammette - è stata una citazione che poteva dare adito a malintesi».
Il sermone fatale di Cantalamessa che, citando la lettera di un amico ebreo, paragonava gli articoli di quotidiani internazionali contenenti accuse a Joseph Ratzinger alla Shoah, ha finito per scatenare reazioni indignate nelle comunità ebraiche. E il nuovo caso che agita il mondo della Chiesa ha portato all´ennesimo scontro fra Santa Sede e mondo ebraico, nel venerdì in cui, oltretutto, la liturgia in latino reintrodotta da Papa Ratzinger ripeteva la preghiera per la "conversione degli ebrei".
Troppo, per le vittime dell´Olocausto, e anche per le vittime degli abusi sessuali commessi dai sacerdoti. Già venerdì notte le reazioni da parte di molti siti, per non parlare di quotidiani come Haaretz e Jerusalem Post, erano veementi. Una «furia» li ha definiti la Bbc. Ieri nuovi commenti si sono aggiunti. Il Consiglio degli Ebrei in Germania ha giudicato come un «insulto» le parole «irriguardose» di Cantalamessa. Il rabbino Marvin Haier, fondatore del Centro Simon Wiesenthal di Los Angeles, ha chiesto le scuse del Pontefice, visto che il discorso era avvenuto in sua presenza. Duro il giudizio di Abraham Foxman, direttore della Anti-Defamation League: «Mi sarei aspettato che un sacerdote così esperto come padre Cantalamessa avesse una conoscenza un po´ più approfondita dell´antisemitismo, un fenomeno che ha prodotto pogrom, espulsioni di massa e condanne a morte, e evitasse un paragone così mostruoso».
Di segno contrario l´opinione di monsignor Michele De Rosa, vescovo di Cerreto Sannita e membro della Commissione Cei per l´ecumenismo e il dialogo: «Di questi tempi - ha detto - ho l´impressione che questi ebrei siano sempre così permalosi, che subito si impennano, stanno sempre chiusi come ricci. Padre Cantalamessa ha solo letto la lettera di un amico ebreo, che ha espresso il parere che nei sintomi gli attacchi al Papa e l´antisemitismo possano rassomigliarsi. E invece, qualsiasi cosa accada, subito si accusa la Chiesa».
Un commento solo in parte condiviso, mentre altri hanno preso le distanze dal sermone. «Spero che tutti comprendano che quanto è stato detto da Cantalamessa - ha osservato il reverendo James Massa, responsabile alla Conferenza dei vescovi americani dei rapporti interreligiosi - sia il giudizio di un singolo prete e non riflette l´opinione del Papa e della Chiesa. Tuttavia si tratta di un paragone non solo infelice ma inopportuno, che non avrebbe dovuto trovare spazio in una preghiera del Venerdì Santo».
Il caso pedofilia continua a tenere banco. L´Osservatore Romano ha titolato "Una propaganda grossolana contro il Papa e contro i cattolici" un lungo articolo in cui ha dato conto della solidarietà espressa da vescovi di tutto il mondo a Benedetto XVI, «per gli attacchi calunniosi e la campagna diffamatoria».
Negli Stati Uniti lo scandalo non dà segni di calo. Un caso è emerso in Arizona, dove un sacerdote accusato di molestie, Michael Teta, fu denunciato nel 1992 all´allora cardinale Ratzinger. «Una cosa assolutamente infondata», ha risposto seccamente Lombardi. E il New York Times ha scritto che padre Lawrence Murphy, il prete accusato di aver abusato di 200 ragazzini sordomuti, avrebbe proseguito con le sue violenze sino alla sua morte, quindi anche dopo essere stato mandato "in esilio" in un cottage.

l’Unità 4.4.10
Anche a Washington vittime in piazza davanti all’ambasciata
Non solo le iniziative della Snap. Negli Stati Uniti scende il gradimento di Benedetto XVI. Lo criticano due americani su tre, lo apprezza solo 1 cattolico su 5
di Rachele Gonnelli

I cattolici statunitensi cominciano a non credere più all’infallibilità del Papa. Di questo papa Benedetto XVI, in rapporto al suo operato di fronte al fenomeno dei preti pedofili. Soltanto un cattolico su cinque giudica bene l’atteggiamento preso a questo riguardo dal pontefice arrivato al Sacro Soglio nell’aprile di cinque anni fa. Due americani su tre, incluso la maggioranza di quelli di religione cattolica, ne dà addirittura un cattivo giudizio. Il sondaggio è stato realizzato dalla Cbs, uno dei maggiori network televisivi, e realizzato tramite interviste telefoniche su un campione selezionato di 858 cittadini Usa tra il 29 marzo e il 1 aprile. Ciò che impressiona di più è però il confronto con i risultati delle interviste realizzate nel 2006.
In quattro anni quelli che si esprimono con un police verso nei confronti di papa Ratzinger sono passati dal 4 al 24%, aumentando di 10 punti anche tra i cattolici. Sempre tra i cattolici chi si definisce «indeciso», non condanna ma neanche si sente di assolvere il papa, è il 36%, venti punti in più di quattro anni fa. I consensi nell’operato di Ratzinger, di cattolici e non, sono crollati del 13 percento. E tutto ciò è successo prima delle ultime polemiche sulle parole del predicatore della Casa Pontificia, Raniero Cantalamessa che ha paragonato le accuse alla Chiesa di Roma per pedofilia all’antisemitismo. Parole che hanno sollevato un coro di sdegno nelle comunità ebraiche di mezzo mondo ma che hanno indignato anche una non trascurabile parte dei cattolici.
Sotto l’ambasciata vaticana a Washington Dc, ieri mattina si è svolta una piccola manifestazione di protesta nei confronti dell’incauto paragone di Cantalamessa. Ad organizzarla era ancora una volta la signora dai capelli rossi che tanti incubi sta causando alle alte gerarchie della Santa Sede: la signora Barbara Blaine, presidente e fondatrice dell’organizzazione cattolica Snap, acronimo di Survivors Network of Those Abused by Priest, la rete dei sopravvissuti agli abusi sessuali dei sacerdoti. È lei stessa stata vittima di violenza sessuale da parte di un prete, dal 1969 al 1974, e a partire dal 1988 ha iniziato a raccogliere testimonianze e prove di colpevolezza e ad aiutare le altre vittime con cui veniva a contatto, prima a Chicago, la sua città, poi nel resto degli Usa e in Canada. Oggi ne rappresenta 9mila, la rete Snap ha aperto uffici in Europa e «stanato» una quarantina di prelati che, in fuga dagli Usa, si erano rifugiati in Messico, la nazione con la più alta concentrazione di fedeli cattolici del mondo dopo il Brasile. La signora Blaine li ha scovati anche lì, seguendone le tracce sulla scia di quello che faceva il Centro Wiesenthal. Non solo. È ancora lo Snap, nella persona di un altro dei cinque soci fondatori, Peter Isely, ad aver spinto a parlare con la stampa una delle vittime di Lawrence Murphy, violentatore di bambini sordi in una scuola del Wisconsin. Quelle denunce sono alla base dei dossier del New York Times. La signora rossa non perdona.

l’Unità 4.4.10
Quella grande lobby chiamata chiesa
di Andrea Boraschi

Anche oggi è importante per i cristiani non accettare un’ingiustizia che venga elevata a diritto, per esempio quando si tratta dell’uccisione di bambini innocenti non ancora nati». Così Benedetto XVI, pochi giorni addietro, parlando di aborto.
Or dunque sappiamo, in virtù di una malintesa attitudine “riformista”, che ogni espressione “radicale” (ovvero non “estremista”, ma più semplicemente “ultima”) è, al giorno d’oggi, quanto meno inelegante; perciò non sta bene parlare di “ingerenza” della Chiesa negli affari di Stato italiani. Eppure si dovrà, prima o poi, affrontare apertamente la sostanza elementare di alcune questioni e tornare a definire reciprocità di ruoli, funzioni, prerogative. Quindi spiegare, molto banalmente, che se nessuno intende inibire la gerarchia cattolica dalla partecipazione al dibattito pubblico, parimenti nessuno dovrebbe misconoscere la gravità dell’invito rivolto a parte consistente della popolazione italiana, da parte di un capo di Stato straniero, a non riconoscere la legge e a disubbidirla.
Che al fondo di quell’invito, poi, vi sia una questione morale del massimo rilievo (la “salvaguardia della vita”) non cambia – ahinoi – i termini della questione. Perché appare sempre più evidente come il passaggio da una Chiesa con appendice partitica a una Chiesa con apparati e prassi lobbistiche non abbia giovato granché alla nostra democrazia. L’azione del Vaticano s’è fatta, negli anni, tanto dirompente quanto strisciante, tanto intensa quanto accerchiante. Se partecipare da soggetti organizzati al confronto civile vuol dire lanciare scomuniche antiabortiste alla vigilia delle elezioni e passare all’incasso all’indomani del voto, ebbene, qualche obiezione merita d’essere mossa.
Le campagne “pro life” della Santa Sede non sono mera espressione di un credo o di un diritto al dissenso: aggrediscono direttamente il piano giuridico e quello sanitario e, ancor più, misconoscono la principale forma di democrazia diretta garantita dalla nostra Costituzione, negando la volontà democratica espressa con il referendum sull’aborto del 1981. Che oggi la Cei usi strumentalmente la Lega, un partito xenofobo e fino a poco tempo fa fieramente pagano, per avversare il diritto all’interruzione di gravidanza, è cosa amara. Ma facciano qualcosa di più coraggioso: provino a misurare il consenso di cui godono i loro convincimenti. Chiedano ai padani di raccogliere le firme per un nuovo referendum. E coloro, poi, che intendono seguire la pastorale e disobbedire la legge (ostacolando o rifiutando trattamenti previsti per norma dal Servizio Sanitario Nazionale) facciano come i radicali degli anni ’70, che aiutavano le donne ad abortire in situazioni medicalmente protette: si autodenuncino.

Osservatore Romano 4.4.10
Vescovi di tutto il mondo vicini a Benedetto XVI bersaglio di un'ignobile operazione diffamatoria
Una propaganda grossolana contro il Papa e contro i cattoliciIl cardinale Vingt-Trois rileva l'offensiva dei media concentrata nella Settimana Santa

Arrivano da tutto il mondo messaggi di solidarietà a Benedetto XVI per gli attacchi calunniosi e la campagna diffamatoria costruita attorno al dramma degli abusi sessuali commessi da sacerdoti. Molti vescovi stanno esprimendo al Papa la loro vicinanza anche per l'azione risoluta a favore della verità e per le misure assunte per prevenire il possibile ripetersi di tali crimini. Accanto ai messaggi, dalla Chiesa giunge anche la dolorosa ammissione delle colpe del passato, a dimostrazione che nessun tentativo intimidatorio potrà comunque distogliere dal dovere di fare chiarezza.

In Europa, il cardinale André Vingt-Trois, arcivescovo di Parigi, nel corso dell'omelia per la messa crismale celebrata in cattedrale, ha osservato che "l'offensiva che mira a destabilizzare il Papa, e attraverso lui la Chiesa, non deve mascherare nostre manchevolezze e i nostri eventuali errori. La nostra società, che vive nell'esibizione del sesso senza limite, ci obbliga a essere più che mai vigilanti e sobri nel nostro stile di vita. Cari fratelli e sorelle, sacerdoti, diaconi, religiosi, religiose e laici, noi non siamo altro che degli esseri umani e non dobbiamo mai vivere nella presunzione di essere al di sopra" dei peccati. Ma tale prudenza - aggiunge - "non può trasformarci in potenziali colpevoli in ogni nostra relazione". Fra le prove - ha continuato il cardinale - "che stiamo attraversando, dobbiamo anche rilevare l'offensiva dei media audiovisivi che celebrano la Pasqua a loro maniera concentrando nella Settimana Santa le loro critiche alla Chiesa e alla fede cristiana. Quanti celebrano le liturgie all'interno delle loro comunità non ne saranno influenzati. Ma chi è meno informato e meno coinvolto nella vita della Chiesa sarà bombardato da messaggi che si presentano come critiche ma che non sono altro che operazioni di propaganda, e anche di propaganda grossolana. Nei nostri Paesi democratici, i cristiani sono ancora cittadini al pari di tutti gli altri ma certamente non lo sono nel trattamento ricevuto dai mezzi d'informazione". 
Anche il presidente della Conferenza episcopale spagnola, il cardinale Antonio María Rouco Varela, ha espresso nella messa crismale celebrata nella cattedrale di Madrid la vicinanza al Papa "proprio in questi giorni in cui è tanto offeso e attaccato". 
In Scozia, il cardinale Keith O'Brien, nel corso dell'omelia per la messa di Pasqua, parlerà dei "molti mali" che sono stato compiuti con l'abuso sessuale su bambini e giovani. Il porporato rivolgerà inoltre pubbliche scuse a tutti quelli che "hanno sofferto per abusi commessi dalla mano di rappresentanti della Chiesa": "I crimini contro i bambini - si legge nell'omelia del cardinale - sono stati in effetti commessi e ogni cattolico che ne era consapevole e che non ha fatto nulla per rivelarlo ha portato vergogna su tutti noi. Non possiamo consolarci con il fatto che solo una piccola percentuale di sacerdoti ha commesso tali crimini: l'impatto delle loro azioni peccaminose è molto grande, le loro azioni hanno danneggiato la vita delle loro vittime, provocando una grande rabbia che si rivolge anche nei confronti dei loro fratelli sacerdoti innocenti e lasciando i comuni fedeli cattolici demoralizzati e confusi". 
In America Latina, il cardinale arcivescovo di Città del Messico, Norberto Rivera Carrera, ha detto che la Chiesa non tollererà, né difenderà, nessun atto di pedofilia. Benedetto XVI - ha spiegato - ha dovuto affrontare "la diffamazione e attacchi a colpi di bugie e viltà a causa di alcuni sacerdoti disonesti e criminali". Se qualcuno dei sacerdoti messicani si rende responsabile "di atti abominevoli", da parte dell'arcidiocesi "non ci sarà alcuna difesa né tolleranza nei confronti del delinquente". Anzi, ha assicurato il cardinale, "verranno promosse" le azioni da parte "delle autorità civili, affinché intervenga con tutto il rigore della legge". Il porporato ha anche rivolto un appello ai vescovi ausiliari affinché compiano un'esaustiva indagine al fine di assicurarsi che non ci siano casi di abusi da affrontare. Sempre domenica, il vescovo di San Cristóbal de Las Casas, monsignor Felipe Arizmendi Esquivel, ha ricordato come Benedetto XVI abbia sempre agito in modo responsabile di fronte a questo problema: "Stiamo soffrendo per i peccati interni che sono innegabili, come lo sono anche il tradimento di Giuda, il rinnegamento di Pietro e l'allontanamento degli apostoli che hanno lasciato solo Gesù", ha detto. "Si è voluto anche infangare Papa Benedetto XVI - ha continuato - mentre da quando era arcivescovo di Monaco e poi responsabile della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha sempre trattato questi casi con estrema delicatezza e somma responsabilità". 
Il cardinale Juan Luis Cipriani, arcivescovo di Lima, nell'omelia per la messa crismale ha affermato che "il capo visibile del Corpo mistico di Cristo è stato maltrattato dai nemici della Chiesa, con un'inusitata mancanza di rispetto per la verità e un'incredibile ostentazione di cinismo; si vede, dietro a ciò, un attacco alla Chiesa per danneggiarla. Noi, suoi figli - ha sottolineato - non possiamo restare in silenzio. La preghiera è l'arma principale che lo Spirito Santo mette a disposizione. Preghiamo per il Papa, per la Chiesa, per i vescovi, per i sacerdoti e per la vita consacrata. Cerchiamo con più forza la santità personale". 
A Santiago del Cile, domenica scorsa, il cardinale Francisco Javier Errázuriz Ossa ha osservato che "alcuni mezzi di comunicazione cercano di colpire il buon nome del Papa accusandolo di cose nelle quali il Santo Padre non ha avuto alcuna responsabilità". Nella Repubblica Dominicana, l'arcivescovo di Santo Domingo, il cardinale Nicolás de Jesús López Rodríguez, ha sottolineato i criteri di fermezza, trasparenza e severità con cui Benedetto XVI ha trattato e tratta i casi di abusi sui minori. Il porporato ha affermato nel corso di una conferenza stampa a Santo Domingo che alcuni mezzi di comunicazione cercano di "sottovalutare i fatti e forzare le interpretazioni". Il porporato ha chiamato in causa chi in Europa e negli Stati Uniti non perdona "al Papa o alla Chiesa la sua ferma posizione in difesa della vita e il suo rifiuto del crimine dell'aborto".

Repubblica 4.4.10
Ossessione Salomè
L´angelo degli abissi che parlò a Zarathustra
di Pietro Citati

Nietzsche impazzì di sofferenza, Hauptmann la invocò invano, Wedekind fu rifiutato, Rilke era folle d´amore. Solo Tolstoj riuscì a resistere al fascino di Lou Andreas, donna eternamente giovane, di intelligenza non comune, che voleva "diventare se stessa". Anche Freud nel carteggio che ora viene ripubblicato scrive "della sua superiorità su noi tutti"

Quando aveva vent´anni Lou Salomé, nata a Pietroburgo nel 1861, affascinava qualsiasi essere umano: Nietzsche, Paul Rée, scrupolosi professori, anziani teologi svizzeri, giovani studenti che le scrivevano lettere innamorate, anziane signore; incarnava in maniera diversa i sogni di ciascuno, come se fosse la proiezione di tutti coloro che la incontravano. Attraeva e respingeva. Se lo avesse desiderato, avrebbe incantato un gatto, una rosa o una pietra, che si sarebbero precipitati estatici ai suoi piedi. Quando diventò adulta, poeti, sociologi, orientalisti, psicologi, uomini politici, drammaturghi, giornalisti, economisti, medici illustri la corteggiarono disperatamente: quasi sempre invano. Ferdinand Tönnies la circuì, Gerhart Hauptmann la invocò, Franz Wedekind penetrò inutilmente nella sua stanza d´albergo, due uomini si uccisero per lei.
A vent´anni, Lou rinchiudeva il suo corpo alto e sottile in un abito scuro di taglio severo, abbottonato fino al collo, con una guarnizione di pizzo al collo e ai polsi. Gli occhi profondamente infossati guardavano senza paura lo spettacolo delle cose e degli uomini. Era infantile: si presentava a ciascuno come la figlia sognata o perduta, sulla quale ciascuno riversava il suo nascosto sentimento incestuoso. «Mia cara bambina», le dicevano tutti. Ma questa cara bambina credeva ciecamente in se stessa: aveva una disumana o sovrumana energia: una durezza da generale prussiano; un coraggio adamantino. Voleva «diventare se stessa», come le prescrivevano Nietzsche e Pindaro: dominare se stessa, dominare gli altri, dominare la vita - fino a quando la vita le offrisse come un dono ciò che lei desiderava con tanta forza. Capiva gli altri meglio di quanto gli altri si capissero; rapidissimamente diventava gli altri, assumeva i loro colori e le loro ombre - ombre dei pensieri di Rée, ombre delle scintillanti sentenze di Nietzsche nella Gaia scienza, o nella futura estasi di Così parlò Zarathustra. «Io vorrei essere stata - diceva - nella pelle di tutti gli uomini».
Nel marzo 1882, Paul Rée, un filosofo di qualche anno più giovane di Nietzsche, giunse a Roma. Era delicato, scrupoloso, femmineo, incerto: celava una grande bontà d´animo dietro una specie di odio verso se stesso; amava e venerava Nietzsche e voleva esserne riamato. Presto Paul Rée conobbe Lou; e la conduceva a passeggiare sotto il chiaro di luna, tra le rovine verso la via Appia, come nei libri di Chateaubriand, parlando appassionatamente di vita, di filosofia, di letteratura - e di Nietzsche, l´affascinante amico lontano.
Verso la fine di aprile, giunse a Roma Nietzsche, stravolto ed ebbro di solitudine. Nessuno, forse, aveva sofferto la solitudine come lui in quegli anni. Era quasi cieco. Aveva continue emicranie. Abitava in camere ammobiliate e modeste pensioni. Ma la sosta non era mai lunga. Più oltre lo aspettava un´altra camera, un´altra città - Sorrento, poi Ragaz e Grindelwald e Sankt Moritz e Venezia e Stresa e Genova e Recoaro e Sils-Maria e ancora Genova e poi Messina, dove, unico passeggero, era arrivato a bordo di un veliero siciliano, con i suoi centoquattro chili di libri. Non c´era sosta. Non poteva esserci sosta.
Appena a Roma, Nietzsche sembrò lietissimo. Di colpo, con un gesto, si liberò dalla stretta e dalla protezione della solitudine: la sua conversazione era fresca, piacevole, spumeggiante e piena di bellissime invenzioni: un gioco con suole d´aria. Andò a San Pietro, dove Paul Rée scriveva il suo nuovo libro seduto in un confessionale pieno di luce. Vide Lou, e le disse solennemente, con parole goethiane: «Cadendo da quali stelle siamo stati spinti qui l´uno verso l´altra?» Pochi giorni dopo Nietzsche chiese a Rée di presentare a Lou la sua domanda di matrimonio.
Lou Salomé non aveva nessuna intenzione di sposarsi. Secondo le parole di Pindaro-Nietzsche, voleva «diventare chi era»: seguire coraggiosamente, spietatamente, crudelmente la propria strada, fino a cogliere tutti i doni che la vita, di nascosto, aveva preparato per lei. Ebbe un sogno notturno. Vide uno studio-biblioteca, pieno di libri e di fiori: vicino allo studio si aprivano tre stanze da letto, dove dormivano lei, Rée e Nietzsche. Era il sogno della Trinità, una contraffazione della Trinità cristiana. Fra i tre amici non dovevano correre rapporti erotici: soltanto letture e discussioni; ma l´eros, che Lou aveva represso, si irradiava attorno a lei e teneva incatenati a lei i due uomini che la amavano. Quando raccontò il suo progetto a una vecchia amica, questa la sgridò: «L´esperienza di una lunga vita e la conoscenza della natura umana mi dice che inevitabilmente, nel migliore dei casi, un cuore ne avrà orribilmente a soffrire e nel peggiore dei casi un vincolo d´amicizia ne verrà distrutto». Ma Nietzsche e Rée, i fratelli incauti, accettarono entusiasticamente il progetto della Trinità amorosa.
Pochissimi giorni dopo, la Trinità amorosa partì per i laghi della Lombardia, con il consueto accompagnamento della madre di Lou. Nei primi giorni del maggio 1882 giunsero al lago d´Orta. Visitarono l´isola san Giulio, e poi salirono verso il Sacro Monte - un bosco, una chiesa e cappelle dipinte dalla pietà popolare della Controriforma, come nel più famoso Sacro Monte di Varallo. Qualche mese più tardi, Nietzsche disse a Lou a bassa voce: «Sacro Monte - il più affascinante sogno della mia vita lo debbo a Lei». Non sappiamo cosa accadde, sebbene quelle poche ore rimanessero per sempre fisse nella memoria di Nietzsche, come un lampo irripetibile e tragico. Con ogni probabilità, egli rivelò a Lou la luce nascosta della sua filosofia, che l´aveva abbagliato l´anno prima a Silvaplana: l´eterno ritorno. Nietzsche le confidò quel pensiero come un segreto, che lo riempiva di un´indicibile orrore: ne parlò soltanto a bassa voce, «e con tutti i segni del più profondo spavento». Era stanco, malato: non aveva più forze per sviluppare il tema dell´eterno ritorno; e lo affidava proprio a lei, unica erede, perché lo rivelasse agli uomini, così da spezzare in due la storia del mondo.
Era l´agosto del 1882. Nietzsche aveva invitato Lou Salomé a Tautenburg, in boschi dove il vecchio Goethe aveva abitato. Tutto era pronto per attendere Lou: Lou avrebbe abitato la casa del pastore insieme alla sorella di Nietzsche, mentre Nietzsche avrebbe dormito nella casa di un contadino. I sentieri dei boschi vennero ripuliti dagli spazzini: cinque panchine adornarono i luoghi di sosta; e una di esse, la più bella, sistemata presso un faggio, portava il nome di La gaia scienza, come un recente libro di Nietzsche. Il tempo passava: sembrava che Lou non dovesse giungere mai: Nietzsche era inquieto, non aveva più fiducia nella ragazza, passava le notti insonne. Finché, un giorno, il gioco di dadi portò un´altra volta un numero fortunato. Il 7 agosto Lou von Salomé e la signorina Elizabeth Nietzsche raggiunsero la casa pastorale di Tautenburg.
Così cominciarono i diciannove giorni che Nietzsche distinse sempre colla più preziosa delle pietre bianche. All´inizio ci furono «discussioni violente», causate dalla gelosia di Elizabeth Nietzsche: poi, ogni cinque giorni, scoppiava «una piccola scena di tragedia», tanta era la tensione tra quelle due personalità insaziabili, che volevano sopraffarsi a vicenda. Lou chiosava: «Essere amici significa poter essere nemici. Essere nemici significa poter essere amici». Una sera Nietzsche le prese la mano, la baciò due volte, e cominciò a dire «qualcosa che non giunse ad essere pronunciato». Non ci furono altri gesti d´amore.
Parlavano sempre, inesauribilmente: talvolta anche dieci ore al giorno, perché i pensieri si intrecciavano e si moltiplicavano come gli alberi della foresta di Tautenburg: talvolta la conversazione continuava dopo cena, al capezzale di Lou; entrambi si sentivano felici di aver appreso tanto l´uno dell´altro. Lou cominciò un diario e un Libro domestico dove, col suo mimetismo poroso, scriveva massime, ora imitando Nietzsche ora Rée, e Nietzsche le annotava e le correggeva e vi aggiungeva le sue. A volte, Lou credeva di essere innamorata del suo vicino: «Due persone si innamorano perché l´intimo di una è la cassa di risonanza in cui riecheggia ogni suono intonato nel petto dell´altro». Poi si chiedeva; «Ma siamo veramente vicini? No, malgrado tutto non lo siamo».
In quei giorni di Tautenburg, Nietzsche avvertì, come mai nella sua vita, la presenza del destino alle sue spalle, che lo spingeva «verso la felicità». Cosa poteva fare se non abbandonarsi a quella figura radiosa, col suo consueto amor fati? Da quando aveva conosciuto Lou, non era più solo: ora voleva reimparare a essere un uomo, entrando ardentemente nella vita. Pieno di speranze, si proiettava verso il futuro, che aveva preso per lui i lineamenti di una ragazza ventenne. «Quello che non speravo più, di trovare un compagno della mia suprema felicità e sofferenza, mi appare ora possibile - come aurea possibilità sull´orizzonte di tutta la mia vita futura». C´era in lui, a tratti, una paurosa esaltazione: un senso di euforia, trionfo e vittoria, che avevano già il suono tremendo di Così parlò Zarathustra.
Lou era un angelo, uno strano angelo bizantino, che il destino gli aveva inviato. «Quando tornai a avvolgermi verso gli uomini e la vita, credetti che mi fosse stato mandato un angelo - un angelo che mitigasse tante cose che il dolore e la solitudine avevano troppo indurito in me, e soprattutto un angelo del coraggio e della speranza». O forse era qualcosa di molto più profondo: una figura che aveva abitato dentro di lui, nella sua anima e nei suoi scritti; con un gesto di giocoliere sovrano, egli l´aveva tratta alla luce - e ora, lì fuori, c´era lei con la sua crudeltà e il suo splendore, identica alla visione interna. Non gli restava che educarla, curarla, perfezionarla, esaltarla, venerarla, adattarla alla sua anima, come se fosse il più fedele dei doppi.
Non so se Lou Salomé abbia mai visto Nietzsche come l´incarnazione di un dio: uno di quegli dei terribili e venerati, ai quali era impossibile concedersi. Nietzsche amava l´abisso: il proprio, e tutti gli abissi. Anche Lou li amava: aveva in comune con lui l´inclinazione per tutto ciò che è nascosto: era affascinata dalla sua solitudine; e insieme provava una specie di reverente e impaurita resistenza verso i suoi sotterranei misteriosi. Lo criticava. Secondo Lou, malgrado la sua ribellione anticristiana, Nietzsche era un uomo religioso: anzi un eroe religioso. «Non c´è nulla di male a essere senza Dio, purché ci si sia veramente liberati da Dio»: «L´odio di Dio è l´ultima eco dell´amore di Dio». Con la sua acutissima intelligenza, Lou aveva ancora una volta colto nel segno.
Furono mesi di tremenda disperazione e di orribile odio. Nietzsche non faceva che camminare per giornate intere, prendere oppio, passare notti insonni, scrivere decine e decine di abbozzi di lettere a Lou e a Rée, che non osava spedire. «Le passioni mi divorano. Un´orribile compassione, un orribile delusione, un´orribile sensazione di orgoglio ferito - come resistere... Che debbo fare? Ogni mattina dubito di arrivare alla fine della giornata. Non dormo più: a che serve camminare per otto ore?... questa sera prenderò tanto oppio da perdere la ragione». Gli sembrava che un coltello lo colpisse e lo lacerasse contemporaneamente in tutti i punti vulnerabili. Si torturava e aveva bisogno di torturarsi e di venire torturato. «La natura mi ha spaventosamente dotato per essere uno che tormenta se stesso». Aveva avuto nell´anima tre o quattro desideri di felicità; e ora se li strappava sanguinosamente dal cuore. Aveva l´impressione che, in quei mesi, una maschera col nome di Nietzsche avesse amato, agito, scritto lettere, detto parole di cui ora si vergognava. Lui stava dietro quella maschera: in silenzio, «condannato a un´esistenza completamente segreta». Non apparteneva alla realtà a cui appartenevano gli altri: ma a chissà quale mondo. Era un morto: soltanto un morto; «un´ombra che non sa decidersi a entrare definitivamente negli Inferi». Adesso era il tempo di scomparire, lasciando questa terra - anche le montagne di Sils-Maria e il lago di Silvaplana, i boschi di Tautenburg e l´azzurro del Mare Ligure - e le piccole strisce di cielo sereno che aveva dipinto con le parole. Poi si arrestava, per gridare aiuto, semplicemente aiuto. «Pensa, mio caro Overbeck, a trovare qualcosa che mi tiri fuori una volta per sempre. Secondo i miei conti è NECESSARIO che io resti in vita fino all´anno prossimo - aiutami a resistere ancora quindici mesi».
Odiava con tutte le forze del suo abietto rancore, che dedicò sempre alle persone che aveva più amato. Era l´odio del debole, del ferito, del sofferente, dell´indifeso. Ascoltava le menzogne della sorella: le ascoltava per il piacere di torturarsi; e scatenava la paranoia del suo complesso di persecuzione, che ingigantiva e deformava i minimi particolari del passato. Ora aveva il tono di un virtuoso borghese: ora quello di un professore tedesco; ora il tono solenne e sacerdotale di un profeta offeso. Capiva l´anima di Lou con la più straordinaria intuizione: la malediva; e infine la offendeva sanguinosamente, come se volesse calpestarla e schiacciarla col piede, - infimo e infido verme.
Come Baudelaire, Nietzsche aveva sempre affermato che il senso della sua opera era simile a quello dell´operazione alchemica: trasformare il fango in oro; la passione, la lacerazione dell´odio nella bellezza della frase e nella velocità del ritmo. Negli stessi giorni, Nietzsche compose la prima parte di Così parlò Zarathustra: fu una rivelazione luminosa, il balenio di un fulmine, un´esplosione improvvisa. Ma davvero riuscì a trasformare il fango in oro? Oppure la lacerazione e l´odio stridevano nell´euforia della rivelazione? Qualche tempo dopo, confessò che avrebbe voluto rivedere Lou. Poi rinunciò: si sentiva troppo colpevole.
Tutto cambiò. Alla fine del 1888, nei dolcissimi tramonti dell´autunno di Torino, Nietzsche impazzì: venne trasportato in Germania dal vecchio amico Overbeck: rinchiuso dalla sorella in una specie di sacrario; e il 25 agosto 1900 morì, a Weimar, chi aveva cercato, a Silvaplana, di trovare l´eterno ritorno. Lou Salomé continuò ad affascinare altri esseri umani, che persero per lei la mente e la vita. Ci fu una sola eccezione: il vecchio, iracondo Tolstoj, che aveva accolto Lou a Jasnaja Poljana, insieme a Rainer Maria Rilke. Non la tollerava: non sopportava, specialmente, la sua abitudine di correre ogni mattina, a piedi nudi, nell´erba umidissima dei boschi.
Nel settembre 1912, quando ogni ricordo di Zarathustra era scomparso, Lou Salomé conobbe Freud, frequentò il suo corso di psicanalisi, e partecipò, insieme agli altri allievi, alle famose riunioni del mercoledì. Dopo di allora, dal novembre 1912 al maggio 1936, Freud e Lou si scrissero centinaia di lunghe lettere, che Bollati-Boringhieri pubblica a cura di Ernst Pfeiffer e Mazzino Montinari (Eros e conoscenza. Lettere 1912 - 1936). Qualche volta, queste lettere sono comicissime: «l´organizzazione sadico-anale», «la regressione sadico-anale», «il complesso di mascolinità», «l´isteria d´angoscia», la «libido genitale», «la nevrosi ossessiva», «l´analità non sublimata», le «esperienze genitali latenti», la «rimozione precoce dell´onanismo», che ricamano un fantastico trionfo di parole. Non vorrei mancare di rispetto a Freud. Ma la psicanalisi, intenzionalmente o senza volerlo, è stata una fra le massime fonti di comicità, diffuse nel secolo scorso.
I rapporti tra Freud e Lou Salomé furono sempre molto affettuosi. «Tutti i giorni - scriveva Lou - ci alziamo con lo stesso dovere: comprendere l´incomprensibile»: mentre Freud le rispondeva da Vienna: «Posseggo un coraggio ostinato nella ricerca della verità». Lou era soddisfatta della propria vita: con una specie di orgoglio e di vanità borghese, che non ricordavano in nulla gli anni giovanili di Roma e di Sils-Maria, quando Nietzsche voleva trascinarla nell´incomprensibile. Verso Freud nutriva una specie di venerazione; e Freud ricambiava questa venerazione, portandola fino all´esaltazione, come se vedesse in lei una creatura soprannaturale, superiore a tutti gli altri esseri umani, e soprattutto agli psicoanalisti.
Un giorno le scrisse: «Io intono una melodia - di solito assai semplice, e Lei vi aggiunge le ottave più alte; io separo le cose, e Lei le riunisce in un´unità superiore a ciò che è stato separato». Oppure: «Il testo che Lei ha scritto è la cosa più bella che abbia mai letto di Lei: una prova involontaria della Sua superiorità su noi tutti, conforme alle altezze dalle quali Lei è discesa tra noi». Ignoro quali altezze Lou Salomé abbia abitato: tutto il suo genio discendeva dal mito del grande ritorno, dalla grazia e dai riflessi della Gaia scienza, dall´estasi disperata di Zarathustra e dal sovrano gioco delle illusioni. Con sé, attraverso gli anni e le figure di uomini che aveva percorso, Lou Salomé non aveva portato molto d´altro, tranne l´intollerabile fioritura del fascino.

l’Unità 4.4.10
«I coloni più oltranzisti picconano la base della democrazia»
Intervista a Zeev Sternhell
Lo storico: Purtroppo il governo offre indulgenza e connivenza a chi calpesta la legge e disprezza lo Stato. La sinistra però non è un’alternativa credibile
di Umberto De Giovannangeli

Storico del pensiero politico minacciato dagli estremisti
Tra i maggiori storici del pensiero politico moderno, insegna all' Università Ebraica di Gerusalemme. È autore di opere che hanno fatto molto discutere, sull'ideologia fascista e il sionismo («Nascita dell'ideologia fascista. Né destra né sinistra», «Nascita di Israele» editore Bcd.
Il sondaggio dell'Università Ebraica di Gerusalemme ha il merito di quantizzare un fenomeno quello dei coloni oltranzisti che sta minando le basi stesse della nostra democrazia». A parlare è il più autorevole storico israeliano: Zeev Sternhell. Per il suo impegno civile e per le sue idee, Sternhell ha subito un attentato nell'ottobre 2008 di chiara matrice oltranzista. Un avvertimento che non ha chiusa lo bocca allo storico: «Se pensavano di intimidirmi hanno proprio fatto male i conti: da parte mia, continuerò a dire e a sostenere che nei Territori c'è una forma di regime coloniale che va abbattuto. L'inizio di questo è l'applicazione della legge anche ai coloni». Sul primo ministro Benjamin Netanyahu, Sternhell osserva: «C'è chi sostiene che sia ostaggio della destra religiosa. Così si fa torto a “Bibi”: lui è la versione più moderna, americanizzata, di quel revisionismo sionista che ha rappresentato il tratto distintivo della destra israeliana negli anni». Sternhell non risparmia neanche la sinistra: «Il suo radicamento sociale si è progressivamente indebolito fin quasi a sparire. Sul piano dei valori ha rinunciato a rappresentare una vera alternativa alla destra. La sinistra ha quasi paura a definirsi tale, come se considerasse archeologia politica o ideale il riferirsi, attualizzandoli, ai principi di giustizia sociale, di uguaglianza, che l'hanno connotata. Ma questo non mi pare un problema solo in Israele...».
Professor Sternhell, da un recente sondaggio dell'Università Ebraica di Gerusalemme, dove lei insegna, emerge che il 21% dei coloni insediati in Cisgiordania è disposto a tutto, anche all'uso delle armi, per impedire lo smantellamento delle colonie. Come valuta questo dato?
«Ciò che mi sorprende e mi preoccupa non è l'esistenza di questo fenomeno degenerativo ma le sue dimensioni. Decine di migliaia di persone manifestano un orientamento potenzialmente eversivo; persone che si concepiscono come contropotere, una sorta di Stato nello Stato...».
Si rischia una sottovalutazione?
«Vede, quando si banalizza il fenomeno o peggio ancora si giustificano i “patrioti”, si è di fronte all'inizio dello sfaldamento della democrazia che è una forma fragilissima di regime, da tenere continuamente sotto protezione. Se si ledono le fondamenta di questa struttura, tutto l'edificio può crollare».
Lei ha più volte affermato che i coloni oltranzisti rappresentano una minaccia per la democrazia israeliana. «Ho sempre fatto riferimento alle frange più estreme dei coloni. Guai a generalizzare. Le frange estreme non riconoscono nessun potere costituito, nemmeno la loro leadership il Consiglio di Giudea e Samaria visto come un manipolo di traditori che dialoga con "il nemico", lo Stato ebraico. Queste persone calpestano la legge e fanno uso di violenza contro i palestinesi come contro i rappresentanti del potere ebraico soldati, poliziotti, funzionari che sono lì solo per proteggerli».
Guardando alle frange estremiste, qual è l'atteggiamento da evitare nei loro confronti? «L'indulgenza. L'indulgenza nei loro confronti ha portato ad una situazione degenerativa che non si ferma ai Territori. L'aggressività, la violenza, il concepire chi la pensa diversamente come un “traditore”: al di qua della Linea Verde è stato esportato un metodo di comportamento che quando viene compiuto contro palestinesi nei Territori, viene tollerato, spesso neppure indagato e comunque non approfondito».
L'indulgenza. E poi cosa teme, professor Sterhnell? «La connivenza. Quella che porta ministri dell'attuale governo a flirtare con le ali estreme del movimento dei coloni. Quei ministri o leader di partito che fanno a gara a rassicurare che gli insediamenti non saranno mai smantellati, infischiandosene dei richiami di Obama, dell'Europa, di mezzo mondo... Chi oggi guida Israele sembra prigioniero del passato, di certezze che non esistono più, mentre l'America è cambiata, il mondo sta cambiando. Chi governa oggi Israele coltiva l'illusione di poter fermare le lancette del tempo. Un’illusione che può sfociare in tragedia». L'estrema destra israeliana considera Obama un nemico.
«Il dramma è che a pensarlo sono anche persone che siedono nel governo. È una posizione ottusa, un azzardo che Israele rischia di pagare a caro prezzo».
C'è chi imputa questo irrigidimento a ragioni ideologiche... «Non sono di questo avviso. Certo, l'ideologia del Grande Israele che permea la destra ultranazionalista può aver pesato, ma il punto è un altro: Netanyahu non ha creduto nella decisione di Obama nel voler imporre una svolta nella politica statunitense in Medio Oriente. Netanyahu è stato spiazzato dal “Nuovo Inizio” di Obama e quando se ne è reso conto ha commesso un altro errore gravissimo...».
Quale errore, professor Sternhell?
«Aver pensato di portare la “guerra” in casa di Obama, puntando sul condizionamento delle lobby e non tenendo conto che la questione cruciale per gli Usa oggi è che le chiusure del governo di Netanyahu mettono a repentaglio gli interessi nazionali dell'America in Medio Oriente e oltre».
Sembra un vicolo cieco. Chissà se Obama ritiene Netanyahu ancora un interlocutore affidabile. «Forse sul primo ministro il giudizio è ancora sospeso, ma non quello sulla sua coalizione. La forzatura su Gerusalemme Est non è un incidente: Obama, e anche Hillary Clinton, si sono resi conto che un governo condizionato pesantemente dalla destra ultranazionalista e religiosa di “Israel Beitenu” e “Shas” non può negoziare un serio accordo di pace. E allora si punta a una nuova maggioranza con Kadima di Tzipi Livni. Ma questa è una ipotesi. Che non cancella i guasti del presente. Il presente d'Israele è segnato dall'incedere di una destra aggressiva e dall'assenza di un'alternativa credibile. La sinistra è ridotta a testimonianza o si è piegata a una mera logica di potere. Tragedia nella tragedia».

l’Unità 4.4.10
Intervista a Dario Fo
“Ricordiamocelo, Gesù era un immigrato”
di Stefano Miliani

A teatro Giovedì al Carcano di Milano l’attore e drammaturgo racconterà «miracoli» del piccolo Cristo e altre storie in una serata insieme ai migranti «L’idea dello spettacolo nasce dalle loro esperienze e dalle loro narrazioni»

Se c’è qualcuno che oggi in Italia interpreta a fondo quello che era il messaggio cristiano originario, lo stare dalla parte di chi ha meno per combattere il potere e le sue ingiustizie, questo è Dario Fo insieme a Franca Rame. Ha appena dato dalle stampe per Guanda, illustrata da 68 suoi disegni, La Bibbia dei villani, dove «aggiorna» narrazioni bibliche ed evangeliche rilette dai ceti popolari delle regioni d’Italia, dove Dio e santi sono alla portata degli umani. E ora il drammaturgo-attore e fabulatore si cimenta d’impulso in una battaglia a lui cara: con gli immigrati e con le loro storie di vita. Portandole a teatro insieme ai diretti interessati. C’è uno spettacolo in cantiere?
«Sì, va l’8 aprile al Teatro Carcano di Milano alle 20.30. Io racconterò alcune storie ma non sarò solo, ci saranno ragazzi e ragazze che racconteranno le loro esperienze e cosa pensano del nostro paese».
Da dove nasce la serata?
«Dalla manifestazione del primo marzo: è il loro comitato che organizzata la serata. Quel giorno, ricordate?, gli immigrati hanno scioperato, a Milano c’è stata una risposta straordinaria, nessuno si aspettava di vederne così tanti; c’erano anche gli “invisibili” e con il coraggio di mettersi nella luce e di coinvolgere la popolazione. Siamo partiti da piazza della Scala per arrivare al Castello Sforzesco con un corteo molto affollato».
E com’è maturata l’urgenza dell’8 aprile? «Dalle loro storie. Narrate oltre tutto con una proprietà di linguaggio impressionante, con idee chiare e dialettica, con una cultura notevole da persone che non pensano solo al loro problema particolare ma in modo più vasto, che conoscono il luogo e lo spazio in cui si trovano. Sono italiani. Un nero ha citato a memoria Gramsci».
Come sarà impostato lo spettacolo?
«Parlerò senza scenografie, com’era Mistero buffo alle origini. Racconterò la tradizione lombarda del medioevo e i legami di quella tradizione con coloro che venivano aggrediti dal potere, citerò Sant’Ambrogio, avrò brani nuovi e altri presentati solo in luoghi come le università. Dopo questa esperienza intendo farne altre».
Una volta paragonò la fuga in Egitto della Madonna, di Giuseppe e Gesù alla situazione degli immigrati di oggi.
«Infatti e il papa mi ha copiato l’idea quando ha ripetuto che Gesù era un emigrato finito con la famiglia in Egitto. Scherzo, certo, però reciterò proprio un brano su Gesù, racconterò il suo primo miracolo».
Che è stato?
«È quando modella dei piccoli uccelli di terracotta, ci soffia su e quelli volano. I bambini del villaggio impazziscono dalla gioia, li vogliono anche loro, Gesù soffia sui loro uccellini di terracotta che spiccano il volo. Finché non arriva a cavallo con gli sbirri il figlio del padrone: vuole giocare, i ragazzini che lui ha sempre cacciato non lo vogliono, allora quel ragazzo spacca con la spada le statuette e terrorizza tutti. Il piccolo Gesù chiama il padreterno, fatica a parlare, singhiozza perché ha scoperto la violenza di chi ha il potere e chiede che vada punita. E implora il padre di ammazzare il ragazzo ricco».
Il Museo archeologico nazionale di Parma espone i 429 scarabei sigillo egizi della Collezione Magnarini, dati in comodato alla galleria statale. Accanto alle piccole sculture c’è un «totem» con navigazione digitale a touchscreen per curiosare in modo più o meno approfondito intorno a queste piccole sculture che vanno dal 2.100 a.C. al VI secolo a.C.
E Dio cosa risponde?
«Gli dice: ma bravo, ti ho mandato a portare la buona novella e l’amore e adesso tu bruci tutto il programma perché ti sei stizzito con uno che ti ha rotto il gioco. Non chiamarmi più, sei un piccolo Dio e fatti da te le tue punizioni. Gesù prima avverte il ragazzino che lo brucerà, il quale se la ride, e dunque con una sbuffata di fuoco spaventosa lo brucia per davvero e lo trasforma in una statuetta. Arriva la Madonna e chiede al figlio cos’ha fatto. “Niente un miracolo”, risponde lui. Al che la Madonna gli spiega cosa proverà la madre del bambino quando le porteranno la statua e gli impone di restituirgli la vita. “Ma non si può mai fare niente”, sbuffa Gesù e con un calcio ridà la vita al ragazzino».
Tornando alla cronaca spicciola. Nelle tante discussioni dei giornali sul voto del nord passato dalla sinistra alla Lega qualche elettore ha detto che la sinistra si occupa degli ultimi, ma non dei penultimi, e che qualcosa a sinistra che prima c’era oggi non c’è: è così?
«Il guaio è che abbiamo dimenticato la nostra storia. A Milano nel dopoguerra nacquero sulle rovine della memoria, nelle strutture che esistevano prima del fascismo, centri culturali, luoghi fondati sul fatto del prendere coscienza. Oggi negli spazi che nella città erano della sinistra al massimo si gioca a carte tra anziani, non c’è più il rapporto con i giovani, è un disastro».

l’Unità Firenze 4.4.10
La provocazione
Neofascisti a Firenze
Anpi, Pd, Cgil e Arci non ci stanno
Gli estremisti neri Freda e Delle Chiaie al congresso della Nuova Destra Sociale. A pochi giorni dal 25 aprile
di Tommaso Galgani

La Firenze antifascista, sotto la guida dei partigiani dell’Anpi, non ci sta e si mobilita in vista di domenica prossima.
Quando, all’hotel Mediterraneo, si celebrerà il primo congresso del partito di estrema destra Nuova Destra Sociale. Vi interverrà un “parterre de roi” di netta matrice estremista nera. Tra gli altri ci sarà Gianfranco Freda, storico neofascista, coinvolto e poi assolto nel processo di piazza Fontana, autore del “Manifesto del gruppo di aristocrazia ariana”. Gli farà compagnia Stefano Delle Chiaie, vicino a Pinochet e Franco, collaboratore di quello Stefano Tilgher di Avanguardia Nazionale che si alleò con Berlusconi alle politiche del 2006. Nel suo curriculum, l’accusa di aver partecipato al Golpe Borghese del 1970 e un’indagine per Piazza Fontana e la strage di Bologna. Non invitati al congresso Lega Nord e Pdl, a differenza del sindaco Matteo Renzi e Vittorio Sgarbi. Ma Renzi, che ha regalato a tutti gli assessori della sua giunta la tessera dell’Anpi, non ci andrà.
Il fronte antifascista (Anpi, Cgil, Pd, Arci) intanto si muove e studia forme di protesta comuni. Silvano Sarti, presidente dell’Anpi fiorentino (da partigiano il suo nome di battaglia era “Pillo”), sul congresso di domenica parla di «provocazione»: «Arrivano qui in una città medaglia d’oro della Resistenza e a pochi giorni dal 25 aprile. Le forze democratiche si mobilitino. Noi lo faremo». Mauro Fuso, segretario della Cgil, risponde presente: «A quel congresso c’è una lista di relatori agghiacciante. Sul valore dell’antifascismo dobbiamo essere fermi e decisi». Un concetto condiviso da Francesca Chiavacci, presidente dell’Arci, Francesco Bonifazi, capogruppo del Pd in Comune, ed Eros Cruccolini per Sinistra Ecologia e Libertà. Mentre la rete Firenze Antifascista si prepara a un presidio contro «un congresso di provocatori di ispirazione fascista, razzista e nazista», Patrizio Mecacci, responsabile lavoro del Pd, fa notare: «Il sito della Nuova Destra Sociale è registrato da Nicola Bizzi, che nel 2004 si candidò a sindaco di Firenze per la lista Toscana Granducale Federalista: trovo singolare passare dal federalismo al neofascismo». Batte un colpo anche il segretario del Pd toscano Andrea Manciulli: «La Toscana ha i valori dell’antifascismo, della Resistenza, della tolleranza. Provocazioni come quella del congresso della Nuova Destra Sociale sono contro questi principi».

Repubblica 30.3.10
Lo straniero Nichi
di Curzio Maltese

CHE cosa accadrebbe se alle prossime primarie del Pd fosse candidato il «Papa straniero», Nichi Vendola? È la domanda da un milione di dollari che circola da ieri notte nei quartier generali dell' opposizione.

PER il ciclone Vendola, con la vittoria, è sicuro un futuro da aspirante leader del centrosinistra. Per la Bonino bisognerà aspettare l' ultimo voto dell' ultimo seggio. Ma già così un ticket fra i due, Nichi ed Emma, sarebbe in grado di fare una rivoluzione nel campo del centrosinistra. E' difficile immaginare due outsider più outsider di questi due. Poche settimane fa nessuno avrebbe scommesso un centesimo sulla vittoria di Nichi Vendola. Massimo D' Alema era calato a Bari con l' aria del facile profeta e un foglietto fitto di cifre di sondaggi, per dire che «con Nichi non abbiamo una speranza di vincere». Non era un suggerimento, era un ordine. Ma in due mesi di battaglie contro tutti, prima gli alleati e poi gli avversari, Vendola ha rovesciato la profezia, inflitto agli strateghi eternamente perdenti del centrosinistra la più sonora batosta degli ultimi vent' anni, riconquistato al centrosinistra una regione che in teoria è fra le più destrorse d' Italia. Per Emma è stato più facile, ma soltanto in apparenza. Si è candidata da sola, nel vuoto, per una missione in teoria impossibile come riprendersi il Lazio, dopo il pasticciaccio di Marrazzo. È difficile immaginare due personalità così distanti. Nichi, comunista cresciuto in federazione, omosessuale dichiarato, ma cattolico fervente e praticante. Emma, radicale, quasi altrettanto anticomunista che anticlericale, paladina del libero mercato al punto da allearsi in un passato recente, anche troppo, con Berlusconi, infischiandosene del conflitto d' interessi e del resto. Eppure per entrambi le chiavi della popolarità sono le stesse. Anzitutto una qualità così poco diffusa nel partitone di Bersani: il coraggio. Il coraggio di Nichi Vendola nel mantenere la barra dritta quando tutti erano contro. Il coraggio di presentarsi sempre per quello che si è, senza giravolte opportunistiche. Il coraggio soprattutto di sfidare da solo il partito trasversale degli affari che in Puglia voleva privatizzare l' acquedotto. Il più grande d' Europa, anzi del mondo. Un affare da molti miliardi sul quale, con sfumature diverse, erano d' accordo proprio tutti, tranne appunto lui solo. Così come c' è voluto un gran coraggio a Emma Bonino per opporsi, con la sua stessa biografia prima ancora che con i programmi, al grande business laziale: la sanità. Tutta nelle salde mani di imprenditori cattolici se non addirittura, in buona parte, della Chiesa stessa. Emma era due volte straniera, anzi tre. Non è del Pd, non è cattolica ed è pure piemontese. Quella di Vendola in Puglia è la vittoria di una sinistra sincera, popolare, anticonformista, davvero moderna. Dove la modernità non consiste nell' inseguire il vento di destra, mascherandosi da moderati nei talk show. Ma al contrario nel difendere con orgoglio i valori alternativi della sinistra e nella capacità di immergersi in un mondo post televisivo, nel mescolare l' antica arte del comizio in piazza con il nuovissimo talento di saper cogliere la natura politica di Internet. Qui probabilmente si è creata la distanza e la differenza finale di risultato fra Vendola e la Bonino, ancora prigioniera di stilemi da radicali anni Settanta e Ottanta, compreso il rito stanco dello sciopero della fame. È in ogni caso evidente che dove il Pd ha voluto a tutti i costi cercare il «candidato giusto», quello «in grado di spostare il voto moderato», si trattasse di sceriffi di sinistra come Penati o De Luca, o di democristiani progressisti come Bortolussi e Loiero, sono arrivate catastrofiche sconfitte. Dove la sinistra cerca di assomigliare alla destra, alla fine perde e perde male. Il Pd sconta la presuntuosa pochezza dei propri strateghi, l' incapacità di capire davvero il sentimento popolare, l' incredibile errore di scambiare la Binetti per il mondo cattolico.

sabato 3 aprile 2010

il Fatto 3.4.10
Regione Lazio. Dietro l’ipotesi di Ceronetti
Ma davvero la Bonino non voleva vincere?
Il mistero di Emma
Ceronetti: “La Bonino voleva perdere” Pannella: “Doveva essere più radicale”
Boicottaggio Pd o altro? Pannella: “Abbiamo sbagliato tutto, Emma doveva essere più radicale”
di LucaTelese

Emma avrebbe dovuto essere ancora più radicale”, Marco Pannella risponde a Guido Ceronetti che sulla Stampa ipotizzava: “La Bonino non voleva vincere”.

“A Latina chiediamo al Pd i manifesti che pagavano loro. Rispondono che sono tutti presi dal centrodestra”

“Emma non voleva vincere”, scrive su La Stampa Guido Ceronetti. E siccome a dirlo è un fine editorialista, che è anche uno storico amico dei Radicali, la domanda non è peregrina, e accende i riflettori su un piccolo giallo elettorale: la sconfitta inspiegabile di Emma Bonino, dopo la cancellazione della lista del Pdl. Il rigore sbagliato a porta vuota.
Un giallo elettorale. Dal giorno successivo alla notte dello spoglio all’ultimo voto, quei 50 mila di distacco sono già oggetto di leggenda, il perno di alcune domande ricorrenti. Era il Pd che voleva perdere? O erano i Radicali che non volevano vincere? O è stato tutto il centrosinistra che per motivi diversi ha fatto “desistenza” contro i proclami di Bagnasco, per non entrare in conflitto con le gerarchie ecclesiastiche? Entri nella storica sede del Partito radicale per cercare risposte e resti stupito. Nell’ingresso, un tempo popolatissimo, non ci sono più le efficienti centraliniste che un tempo accoglievano i visitatori. Nel salone che è stato il campo di Marte di cento battaglie non c’è nessuno, luci spente. Sergio Stanzani, in stampelle, si aggira nei corridoi: “Devo essere sincero. Sono affranto”. Unica presenza agguerrita: quella di Valeria Manieri, giovane giornalista brillante voce di Radioradicale, candidata “di servizio”: “Ho preso 300 voti, amici e parenti. Ma è stata una débâcle anche per chi avrebbe dovuto trainare le liste. Perché abbiamo perso? Vorrei capirlo pure io. Andiamo da Marco”, mi dice. E così, percorrendo il dedalo dei corridoi, si arriva all’ultima stanza, quella dell’eterno leader nonviolento. Lui c’è, come sempre. Sigaro toscano, codino di capelli raccolto sulla schiena con un nastrino. Pannella è il Kurtz di Apocalypse Now radicale, ma nulla può demoralizzarlo. Sentire per credere: “Abbiamo perso? Certo. Ma la sconfitta nel Lazio si associa a una bellissima vittoria a Roma, perché nessuno lo scrive? L’avevo detto, ai nostri compagni confusi del Pd: dobbiamo fare un manifesto con una scritta cubitale: ‘Grazie Roma’!”. E loro? “Non hanno voluto, capisci? Dicono che a Roma non ci avrebbero capito, e che in provincia si sarebbero risentiti. Ma si può?”. Scrive Ceronetti, con il suo piglio visionario, ma anche con la capacità analistica di un retroscenista di Montecitorio: “Emma sapeva che avrebbe perso. Voleva correre senza mirare al traguardo. Questa è la follia radicale. Ai suoi vertici (Pannella per primo) è un principio dottrinale segreto”. “Campagna sbagliata”. L’interessato è spiazzante, come sempre, allarga un sorriso dei suoi, sgrana gli occhi celesti: “Il pezzo di Ceronetti è fantastico, sublime!”. Ma come? dice che volevate perdere! “Quella è una licenza poetica. Però è vero che abbiamo sbagliato campagna”. Metto in riga su un quaderno gli elementi a favore della tesi Ceronetti. Il digiuno in campagna elettorale (“Si è diminuita le forze per ridurre la sua possibilità di vincere”). E poi la rarefazione degli impegni in provincia (in tutta l’agenda, ancora su Internet, fuori Roma ci sono solo un giro in provincia di Frosinone, una tappa ai Castelli e una a Guidonia). Altri elementi: nell’ultimo mese Emma dice no agli inviti in diversi talk-show (Tetris, L’ultima parola); e poi nei temi cardine prevalevano i chiodi di politica generale, gli appelli al voto dei vip (Vasco Rossi) erano per la lista Bonino e non per la coalizione). Dulcis in fundo: la Bonino era candidata contro il centrosinistra in Lombardia. Come farlo accettare agli elettori del Pd? Pannella ti guarda negli occhi e ti spiazza ancora una volta: “E’ il contrario di quello che dici. Emma avrebbe dovuto essere ancora più radicale. E ancora più nazionale. Avrebbe dovuto andare a comiziare in piazza del Duomo a Milano due, tre volte, creare lo scandalo, catalizzare l’attenzione e il dibattito sulla sua diversità, puntare tutto sui temi della laicità”. Per vincere, o per portare voti alle liste radicali? Pannella sogghigna e allarga le mani: “Entrambe le cose”. E le invettive di Bagnasco? “Mavalà... Conta il Vaticano a Roma? E allora spiegatemi dati alla mano, perché vinciamo in diciotto municipi! Ci hanno fatto guadagnare voti, non ce li hanno mica tolti!”. Nella stanza entra Rita Bernardini, segretaria dal piglio pragmatico: “Venite a chiedere a noi se non volevamo vincere? Chiedete a quelli del Pd che sono fermi alla cultura del manifesto... Noi gli segnalavamo l’alluvione di Berlusconi in tv, nell’ultima settimana, e loro ci rispondevano che non conta”. Manifesti non prenotati. Ma poi, parlando con la Manieri si scopre che persino sui manifesti il centrosinistra era indietro: “Nella prima fase ho seguito la questione delle affissioni. Chiamiamo quelli del Pd per chiedergli dei 6X3, che pagavano loro, a Latina. Sai cosa ci rispondono?”. Cosa? “Che non ce n’era più libero nemmeno uno. Tutti presi dal centrodestra”. Indizio decisivo. L’assassino è il partito di Bersani? Molto probabilmente il centrosinistra dava già per scontata la sconfitta, e solo il gesto eroico del “radicale ignoto”, Diego Sabatinelli, aveva riaperto la partita. E qui Pannella ulula: “Magari! Magari! Quelli purtroppo sono pippe! Delle grandissime pippe”.
Come nei gialli di Agatha Cristie, cerchi un colpevole, e ne trovi più d’uno. Coalizione demotivata, le eterne divergenze sulla linea tra Marco ed Emma, le guerre di preferenze tra candidati coscioniani e non coscioniani. Torno a provocare Pannella: “Non mi hai convinto, la tesi Ceronetti è sensata”.
L’ultimo sorriso è sarcastico: “Come al solito non capisci nulla. Per noi l’unico modo per vincere è vincere da radicali”.

il Fatto 3.4.10
Bonino KO, colpa del Pd
di Michele Meta

Alla fine dal Partito democratico arrivano le prime ammissioni. Come quella del deputato Pd Michele Meta, secondo cui la candidata alla presidenza della Regione Lazio Emma Bonino ha perso anche a causa di tensioni intestine: “Ritengo che la competizione interna, concentrata esclusivamente sulle preferenze, ha provocato l’occultamento della proposta politica e della credibilità che il Pd avrebbe dovuto offrire agli elettori di Roma e delle province. È mancato, dopo che la candidatura della Bonino aveva ridato fiato e speranza al Pd laziale, un lavoro di espansione dei consensi che doveva necessariamente partire dai territori e dal rinnovamento della classe dirigente del partito”. Meta, coordinatore nazionale dell’area Marino, aggiunge: “Nel Lazio la stessa lista dei candidati Pd non ha avuto quell’importante funzione di espansione dei consensi, perché costruita con l’assillo di non disturbare l’area degli eleggibili”.

l’Unità 3.4.10
Iniziativa contro il magistrato milanese Pietro Forno, che indaga sui casi di molestie
La denuncia dell’omertà dei sacerdoti raccolta dal “Giornale”. Per il Guardasigilli è diffamazione
La denuncia: «Mai una segnalazione dalla Chiesa, solo dai familiari delle vittime»
Come i leghisti anti-pillola. Anche il ministro tenta di ingraziarsi le gerarchie vaticane
Pedofili, pm: Chiesa omertosa
E Alfano manda gli ispettori
La solita storia: o l’inchiesta piace al governo, e ai suoi sponsor, oppure il ministro Alfano manda gli ispettori. E così il guardasigilli paga la cambiale alla chiesa dopo l’appello al voto contro Bresso e Bonino.
di Oreste Pivetta

Il ministro Angelino Alfano si sta inventando un nuovo modo di far giustizia, senza aspettare le riforme di Berlusconi. La sua idea è che un’inchiesta giudiziaria si possa fare, ma solo con il suo nihil obstat governativo. Procede con giudizio, per il momento solo inviando i suoi ispettori dove qualcosa non gli garba o non garba al suo padrone. In Puglia piuttosto che a Milano. Il ministro non si scandalizza per i colpi di Cota o di Zaia contro una legge della Repubblica. Se la prende con un magistrato che indaga su casi di pedofilia e che chiama in causa le gerarchie della Chiesa. Il caso è ben raccontato dal Giornale della famiglia Berlusconi: l’altro ieri in un’intervista con il magistrato, il procuratore aggiunto Pietro Forno, cattolico, capo del pool specializzato in molestie e stupri, ieri dando la parola addirittura al padre, il signor G., di una piccola vittima. Spiegava Forno che certi vescovi coprivano quanto avveniva nella loro diocesi: «Nei tanti anni in cui ho trattato l’argomento non mi è mai, e sottolineo mai, arrivata una sola denuncia nè da parte dei vescovi nè da parte dei singoli preti. Le indagini sono sempre partite da denunce dei familiari delle vittime che si rivolgono all’autorità giudiziaria dopo che si sono rivolti all’autorità religiosa, e questa non ha fatto assolutamente niente». E ancora: «Si creano legami di difesa, di protezione. E c’è soprattutto la paura dello scandalo». Raccontava il padre che la bimba frequentava un oratorio dei salesiani, che la bimba era stata oggetto di attenzioni poco simpatiche, che lui stesso ne aveva parlato con i religiosi, che aveva atteso per mesi una reazione, di aver subìto per ripicca ogni genere di angherie, di essersi alla fine deciso alla denuncia. Leggiamo: «...a parlare con il signor G. si direbbe che Forno sia stato fin troppo cauto. Perché in questo caso i superiori del prete sotto accusa non si sono limitati a insabbiare. Hanno reagito ribaltando le parti, trasformando la vittima in colpevole, isolando lei e la sua famiglia...». «Mi aizzarono contro gli altri parrocchiani – queste son parole del signor G. – Ordinarono a tutti di chiudermi le porte in faccia». Nel frattempo le indagini proseguono. La Procura mette sotto controllo alcuni telefoni. Intercettazioni. Qui già si immagina Alfano inorridire. Il parroco, riferisce ancora il Giornale di Feltri, che avrebbe dovuto vigilare sul prete in sospetto di pedofilia, viene intercettato mentre fa sesso al telefono. L’ispettore dei salesiani, che avrebbe dovuto governare le indagini, viene ascoltato mentre orchestra
le testimonianze «per addomesticare» quelle indagini. Sembra Il nome della rosa. Sembra una mafia, commenta il signor G. , che poi riferisce altri particolari della brutta storia, ormai riassunta in un processo che andrà presto a sentenza. Il Giornale, con un sorprendente senso della par condicio, cita le reazioni del solito cardinal Bagnasco: «Le ombre non cancellano i meriti della Chiesa». Nessuno si sognerebbe di negare i meriti di Tettamanzi (delle diocesi di Milano, appunto, si parla) e di tanti preti. Il Giornale intervista pure monsignor Girolamo Grillo, vescovo di Civitavecchia, che critica le generalizzazioni
ma denuncia l’omertà: «Da me sono venute persone che sapevano... Ma mai queste persone hanno accettato di firmare una testimonianza e, lasciandomela, di permettermi di intervenire nelle sedi opportune...».
Il ministro non attende il processo, l’unico antidoto alle generalizzazioni, ma ordina l’inchiesta, «lette le dichiarazioni rese... alla stampa dal Procuratore aggiunto di Milano dott. Forno... considerato il carattere potenzialmente diffamatorio di tali dichiarazioni». L’accusa: violazione dei doveri di correttezza, equilibrio e riserbo...
Corrono a dar man forte ad Alfano, Formigoni, Lupi e vari altri del centrodestra, gli stessi pronti a rimbrottare il cardinale Dionigi Tettamanzi quando parla di poveri e di immigrati.
Alfano, senza un attimo di esitazione, è salito sul carro dell’opportunismo clericaloide. Preceduto in volata dagli zelanti governatori del Piemonte e del Veneto, dimentichi delle sparate di Bossi contro i «vescovoni» di Roma (ma se n’è dimenticato anche Bagnasco), ha voluto far la sua comparsata nella corsa a ingraziarsi i potenti del Vaticano. Ovviamente a proposito delle vittime non s’è lasciato sfuggire una parola di giustizia o almeno di pena. Neppure un amen per la laicità dello Stato.

l’Unità 3.4.10
Il Vaticano:«L’attacco al Papa è come l’antisemitismo»
Il predicatore della Curia cita un anonimo ebreo Leonardo Boff: tutti sapevano tutti hanno taciuto
Doloroso fallimento, dice il vescovo di Friburgo
Gli ebrei tedeschi: «Ripugnante, osceno, offensivo. Non vedo s.Pietro bruciare...»
di Roberto Monteforte

L’attacco mediatico al Papa e alla Chiesa per lo scandalo della pedofilia «ricorda gli aspetti più vergognosi dell’antisemitismo». Lo ha affermato il predicatore pontificio, il padre cappuccino Raniero Cantalamessa che nell’omelia pronunciata nella basilica di San Pietro, durante la solenne celebrazione della Passione del Signore presieduta da Benedetto XVI, ha citato una lettera di un suo amico ebreo. «L'uso dello stereotipo, il passaggio dalla responsabilità e colpa personale a quella collettiva mi ricordano gli aspetti più vergognosi dell'antisemitismo» gli ha scritto il suo amico, impegnato nel dialogo con la Chiesa cattolica, esprimendo il suo «disgusto per l’attacco violento e concentrico» subito dal Papa, dalla Chiesa e da tutti i fedeli del mondo intero». Aggiunge la sua solidarietà. Ma con quell’accostamento all’antisemitismo, rilanciato senza commento dal predicatore pontificio, la Chiesa alza di molto i toni della polemica con il mondo mediatico. Nella sua omelia padre Cantalamessa non affronta direttamente «della violenza sui bambini di cui si sono macchiati sciaguratamente anche elementi del clero». «Di essa afferma si parla già abbastanza fuori di qui». Affronta e denuncia un’altra violenza, quella esercitata in ogni ambiente e in particolare quello domestico, contro le donne. È alla fine della sua omelia, con il permesso del Papa, che legge la lettera del suo amico ebreo. Pronta la reazione da parte ebraica. «È ripugnante, osceno e soprattutto offensivo nei confronti di tutte le vittime degli abusi così come nei confronti di tutte le vittime dell'Olocausto», ha commentato con l’Associtated press il segretario generale del consiglio centrale degli ebrei tedeschi, Stephan Kramer. «Sinora non ho visto San Pietro bruciare né ci sono stati scoppi di violenza contro preti cattolici. Sono senza parole. Il Vaticano sta tentando di trasformare i persecutori in vittime». Il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Lombardi prende le distanze dal predicatore della Casa pontificia: «Smentisco nel modo più assoluto che ci sia un paragone di iniziativa vaticana tra l'antisemitismo e la situazione attuale relativa alla pedofilia». Resta la citazione di padre Cantalamessa.
Così, dopo l’accusa di «falsi scoop» e delle ricostruzioni arbitrarie rivolta in particolare al New York Times, della sottovalutazione del fenomeno pedofilia negli altri ambienti e di «accanimento» verso l’unica realtà, la Chiesa cattolica, impegnata ad affrontarla grazie proprio all’impegno di Papa Ratzinger, ora si arriva a presentare una Chiesa perseguitata. L’Osservatore Romano continua a dare conto della solidarietà al Papa. Diffonde un appello di un gruppo di intellettuali francesi che chiedono ai media di «discernere la verità dalla diffamazione, la calunnia dal legittimo desiderio di giustizia» ed esprimono «solidarietà con le vittime degli abusi “senza se e senza ma”, ma anche con tutti i fedeli cattolici, i loro sacerdoti e il loro Papa». Vi è anche, però, chi riconosce le responsabilità della Chiesa e delle sue gerarchie nell’aver sottovalutato il fenomeno e aver «aiutato poco le vittime degli abusi».
In una lettera inviata ai suoi fedeli il presidente della conferenza episcopale tedesca, il vescovo di Friburgo monsignor Zollitsch. «Abbiamo commesso errori nei confronti delle vittime di abusi in istituzioni religiose» ammette, assicurando che la Chiesa ora intende prestare «l'attenzione principale alle vittime». Nella Chiesa cattolica «tutti sapevano e tutti occultavano» i casi di pedofilia: non ha peli sulla lingua il teologo brasiliano Leonardo Boff per il quale nell'affrontare tali casi «il Vaticano non è stato negligente, bensì prigioniero della propria logica». Tale logica ha precisato porta la Santa Sede a «nascondere i propri limiti, ad esaltare la figura del Papa». La sua conclusione è l’abolizione del celibato obbligatorio.
Ieri sera Benedetto XVI ha presieduto al Colosseo il rito della via Crucis. L’autore delle meditazioni alla 14 stazioni è stato il cardinale Ruini. Ma cinque anni fa fu l'allora cardinale Ratzinger a prepararle. Fece scalpore la sua denuncia per la «sporcizia» della Chiesa. Fu interpretata come un'accusa dei casi di pedofilia e come un impegno preciso a fare pulizia.

l’Unità 3.4.10
Intervista con Amos Luzzatto
«È un accostamento a dir poco assurdo È più che sbagliato. È una vera follia»
«Tutti dovrebbero andare molto cauti su questi temi»
È sbagliato: «Non si profila alcuna minaccia di sterminio».
di Umberto De Giovannangeli

C osa dire... Sono esterrefatto. Questo accostamento più che un azzardo mi pare una follia... L’antisemitismo, per come la mia generazione l’ha conosciuto, è stata una dottrina che ha condotto allo sterminio. Per cui tutti ma proprio tutti dovrebbero andare molto cauti quando attribuiscono questa qualifica a situazioni nelle quali gli ebrei non c’entrano, situazioni in cui non si profila alcuna minaccia di sterminio. E poi trovo scorretto liquidare le polemiche che hanno investito Benedetto XVI come una “campagna d’odio” orchestrata per fini oscuri...». A sostenerlo è una delle figure più autorevoli dell’ebraismo italiano: il professor Amos Luzzatto.
Il predicatore della Casa pontificia, padre Raniero Cantalamessa ha accostato la “campagna di odio” contro Papa Ratzinger all’antisemitismo contro gli ebrei.
«È un accostamento che respingo con forza. Non esiste, è una follia... Non c’è dubbio che Benedetto XVI sia coinvolto in una polemica su alcuni problemi di principio con riflessi inquietanti sul presente. Ma francamente non credo che sia corretto identificare la polemica con una campagna di odio. Perché se così fosse non ci sarebbe più possibilità non soltanto di polemica ma addirittura di dialettica. Paragonare questa serie di polemiche con le campagne antisemitiche potrebbe portare a considerare questo accostamento come una totale sproporzione tra i fatti e i giudizi sui fatti stessi. Ma c’è di più...». Cos’altro ancora, professor Luzzatto? «In questo frangente si potrebbe anche parlare di una demonizzazione di una polemica o di un dibattito non solo da parte di padre Cantalamessa. Le sue affermazioni, il suo accostamento, hanno qualche somiglianza con vecchie campagne antisemite, più che le posizioni espresse contrastanti quelle del Papa».
Un giudizio forte, impegnativo. Da sviluppare... «Le campagne antisemitiche erano e sono dei tentativi di spostare il centro delle polemiche da una questione di merito alla identificazione di una volontà di colpire e denigrare l'immagine della controparte: esattamente quello che per secoli è stato fatto presentando gli ebrei non per quello che dicevano, facevano o in cui credevano, ma per una ispirazione comunque perfida e ostile che andava denunciata e combattuta per i soggetti che la sostenevano e non per il contenuto di quello che dicevano. Tornando alle polemiche che hanno coinvolto Benedetto XVI, credo che le posizioni ostili vadano affrontate e contestate nel merito e non imbastendoci sopra dei processi alle intenzioni. E poi c'è un'altra cosa da dire...».
Quale?
«Ma padre Cantalamessa si rende conto dell’enormità dell’accostamento fatto? L’antisemitismo per come la mia generazione l'ha vissuto, per ciò che la Storia lo ha riconosciuto, è stata una dottrina che ha condotto allo sterminio, alla immane tragedia della Shoah. Per questo occorre grande cautela quando attribuiamo questa qualifica a situazioni nelle quali gli ebrei non c’entrano e nelle quali non si profila alcuna minaccia di sterminio». Come spiegare dunque questa uscita?
«Si gioca di rimessa. Siccome l’antisemitismo è considerato una ideologia e un'azione incivile ed esecrabile, si cerca di trovare analogie con esso in qualsiasi polemica scomoda. Ma questo “gioco” va rifiutato. Perché scorretto. Sbagliato. Ingiusto. Esecrabile».

Repubblica 3.4.10
Alla vigilia della visita del pontefice, la rabbia delle vittime: "Benedetto XVI ci chieda scusa"
Malta, gli orrori nell'orfanotrofio "E i preti pedofili sono ancora qui"
Lawrence Grech ha implorato aiuto al Vaticano: "Nell´isola non ci hanno mai voluto ascoltare"
Tra il 2001 e il 2009 ben 845 i casi di abusi su minori E almeno undici religiosi coinvolti
di Davide Carlucci

LA VALLETTA - Due settimane fa Lawrence Grech ha implorato aiuto al Vaticano. «Sono cresciuto per vent´anni in un orfanotrofio a Malta. Voglio raccontarvi la mia storia e quella di altre nove vittime di abusi sessuali come me. Lo abbiamo già fatto con le autorità ecclesiastiche maltesi, non è servito a niente». Gli autori delle violenze, spiega, sono quattro. «Uno è fuggito in Italia, gli altri tre hanno ammesso le loro responsabilità alla polizia. Ma la Chiesa qui è molto potente, hanno i migliori avvocati…». Finora Grech non ha ricevuto risposte alla sua mail. Ma continua a sperare: la sua grande occasione è la prima visita di Benedetto XVI nell´arcipelago, prevista per il 17 e il 18 aprile. «Vorrei che prima del suo arrivo il papa riflettesse e chiedesse scusa».
L´appello di Grech, costretto, tredicenne, a farsi toccare dai frati dell´orfanotrofio di Santa Venera o a vestirsi da donna - per non dire dei veri e propri stupri denunciati da altri suoi compagni - arriva dopo i continui rinvii di un processo che si trascina ormai da sette anni. La pedofilia tra i sacerdoti a Malta non è purtroppo una novità: una commissione d´indagine diocesana sul fenomeno calcola che siano 45 i religiosi coinvolti negli ultimi undici anni. Nessuno di loro, però, è stato mai condannato né ha mai scontato un giorno di carcere. E il giudice che presiede la commissione, Victor Colombo Caruana, in un´intervista al Times of Malta ha difeso la linea della Chiesa: «Denunciare i casi alla polizia sarebbe inutile, senza il consenso delle vittime».
Ma quando nel 2003 un assistente sociale scoprì gli orrori nell´orfanotrofio di Grech, la Chiesa maltese tentò di bloccare l´inchiesta, appellandosi a un concordato con il governo che sottrarrebbe i preti alla giurisdizione ordinaria. Il tribunale respinse il ricorso ma assicurò che gli atti sarebbero rimasti segreti. Nessuno ha potuto così leggere i verbali con le confessioni di uno dei frati, Joseph Bonnet: «A Leonard (una delle vittime, ndr) piaceva stare sulle mie gambe… Un giorno eravamo tutti e due nudi… Può darsi che in quel momento io mi sia toccato davanti a lui…». O l´ammissione di Charles Pulis: «La mia camera era come un club, tutti i ragazzini venivano a stare sul mio letto. E da allora è cominciata tra il 1982 e il 1983, la mia debolezza. Questi abusi sessuali sfortunatamente erano molto frequenti». Pulis dice di aver cercato di contenere i suoi impulsi. «Volevo uscirne. Così sono andato a Roma a visitare la Casa dei bambini. E lì mi hanno suggerito di seguire un programma di recupero. La terapia mi ha fatto molto bene, sono diventato sensibile ai bambini vittime di abusi».
Tra gli imputati c´è anche padre Godwin Scelli, sfuggito a un arresto in Canada per altri abusi. Scelli trovò facilmente riparo a Roma e a Malta: l´arcivescovo dell´epoca, pur essendo a conoscenza dei suoi precedenti, lo aveva accolto nella sua diocesi, bollando le notizie su Scelli come «indiscrezioni giornalistiche».
L´agenzia Appogg si è occupata, tra il 2001 e il 2009, di ben 845 casi di abusi, sessuali e non, su minorenni. «Ma se a commetterli sono preti e suore, quasi sempre le denunce restano in parrocchia», accusa Grech. A Gozo, nel villaggio contadino di Nadur, incontriamo un sacerdote sospeso dalla Curia: non può recitare messa in pubblico ma continua a farlo in privato. «Fu la madre di un ragazzo a denunciarmi. Aveva avuto un esaurimento, povera donna…». La gente del paese è con lui: «E´ innocente - assicura una fedele - e comunque, chi siamo noi per giudicare?».
È finita con le scuse dell´arcivescovo di Gozo - ma senza nessuna conseguenza penale - anche l´inchiesta interna sul convento di Ghajnsielem, che nel 2008 confermò le accuse sulle sevizie alle quali erano sottoposte le bambine, costrette a ingoiare il loro vomito e frustate con la cinghia sin dagli anni Settanta.
A Gozo, nel capoluogo Victoria, vive anche padre Anthony Mercieca, divenuto famoso, nel 2006 per aver molestato il deputato repubblicano Mark Foley quando era ancora tredicenne. Fu Foley a fare il suo nome dopo essersi dimesso perché accusato, a sua volta, di aver importunato i suoi giovani collaboratori. «Facevamo il bagno nudi e forse una volta lo toccai…», ammise poi Mercieca in un´intervista. Poi si fecero avanti altre due presunte vittime, una delle quali raccontò di essere stato costretto anche a rapporti orali. «Ho negato tutto. E non ho voglia più di resuscitare questi fantasmi, ormai è acqua passata: ho già sofferto molto», taglia corto ora Mercieca, che a Victoria è ancora molto rispettato: una foto che lo ritrae da giovane è in bell´evidenza nella fornitissima - grazie alle sue donazioni - biblioteca della Cattedrale.
In questi giorni molti, a Malta, chiedono verità. Nei forum e nei gruppi Facebook che da tempo chiedono l´istituzione di un registro dei pedofili - da poco approvato dal parlamento maltese - si parla apertamente di «omertà» e si propone una commissione d´indagine come in Irlanda. Ma dal governo fanno sapere: «Non è nella nostra agenda».

Repubblica 3.4.10
Un’inutile punizione
Il diritto al farmaco è garantito dalla Costituzione Serve più rispetto per le donne
di Umberto Veronesi

Le dichiarazioni dei neo governatori del Piemonte e del Veneto sull´intenzione di non distribuire la pillola Ru486 sono anticostituzionali. Se un organismo nazionale, rigorosamente scientifico e riconosciuto in Europa, quale è l´Aifa, dichiara un farmaco innocuo e disponibile per la popolazione, è un diritto di tutti poterlo utilizzare, in base all´articolo 32 della Costituzione che sancisce il diritto alle cure. Molti credono che la Ru486 faciliti l´aborto e dunque possa indurre le donne a praticarlo a cuor leggero. In realtà le esperienze dei Paesi (la maggior parte di quelli europei e gli Stati Uniti) che da diversi anni hanno introdotto la pillola abortiva, provano che non è vero: in nessuno di essi si è verificato un aumento degli aborti. Del resto chi ha che fare con il mondo femminile negli ospedali, sa bene che la scelta di abortire per una donna è sempre risultato di una situazione disperata e si traduce in una forza disperata. Nulla e nessuno può indurre una madre a rinunciare a un figlio, ma se la decisione è presa, nulla e nessuno la fermerà. Togliere a una donna la possibilità di interrompere la gravidanza farmacologicamente, invece che chirurgicamente, è solo una inutile punizione fisica.
Il quadro che ne deriverebbe è che le donne meno informate, meno abbienti e che si ritrovano nelle situazioni più tragiche (pensiamo a chi è vittima di violenza sessuale) subiranno un intervento chirurgico evitabile, mentre quelle più colte e con maggiori mezzi finanziari si rivolgeranno ad altre regioni o alle cliniche private, magari all´estero. Il rischio è inoltre che si crei un "mercato nero" della pillola. Rinunciare alla maternità è una scelta non solo drammatica, ma che fa paura e la paura ci fa facilmente cadere in balìa di chiunque ci prometta di liberarci in fretta dai nostri spettri. Quando si parla di aborto, ci si dimentica che nessuno vuole l´aborto, e le prime a non volerlo sono le donne, per le quali è un atto che va contro l´imperativo del loro Dna alla riproduzione. Nel momento in cui si trovano nella condizione di dover agire contro la loro fortissima pulsione alla maternità, cadono in una situazione di panico e devono essere protette, aiutate, ma non abbandonate. E tantomeno punite. Se davvero si vuole fare qualcosa di efficace per evitare gli aborti bisogna agire prima che la decisione venga presa. Bisogna combattere ignoranza e disinformazione, preparare le ragazze a una maternità responsabile, promuovere l´educazione sessuale nelle scuole, diffondere la conoscenza dei metodi anticoncezionali, dare informazioni complete e corrette sulla pillola anticoncezionale. È importante creare un senso di responsabilità anche nei maschi, che comunque non vengono mai colpevolizzati (e men che meno puniti) in caso di maternità indesiderata. L´aborto è un problema culturale. Sarebbe troppo facile risolverlo dicendo no alla pillola Ru486, che non è che una modalità diversa di compiere lo stesso atto. Una diversità che sta esclusivamente nella maggiore attenzione alla salute e alla psicologia femminile.

Repubblica 3.4.10
La crociata contro la Ru486
risponde Corrado Augias

Caro Augias, papa Ratzinger durante la Messa del Crisma ha detto: i cattolici non possono accettare le ingiustizie elevate a «diritto» e a leggi, prima fra tutte «l'uccisione di bambini innocenti non ancora nati». Piccole furbizie linguistiche per dare risalto alla gravità del «delitto». L'embrione non è un bambino. L'aggettivo «innocente» è superfluo: non esistono embrioni colpevoli. La Chiesa non si accorge che così facendo, si allontana sempre più dal Vangelo e dalla gente, e soprattutto dalle donne, che definisce assassine se abortiscono anche per estrema necessità. Gesù predicava l'amore per le persone, la Chiesa predica l'amore per l'embrione, e se n'è fatta un'ossessione, così come della procreazione artificiale, delle unioni omosessuali, del testamento biologico, e via di seguito. C'è proporzione tra questo fiume di parole e quelle a favore dei 100 milioni di bambine costrette a lavorare, o sfruttate nel commercio sessuale? C'è proporzione tra il parlare a favore dell'embrione, e il parlare a favore delle donne che in molti paesi sono maltrattate, ferite, e uccise dagli uomini?
Attilio Doni Genova attiliodoni@tiscali.it

La Chiesa cattolica è libera di predicare le sue preferenze (le sue 'ossessioni') come meglio crede. Nel riservare però le sue campagne quasi solo all'Italia, segue una logica politica (o militare): colpisce dove trova minore resistenza. Ancorché tedesco, Ratzinger non farebbe mai una campagna del genere nel suo Paese. Non parliamo della Francia, o della Gran Bretagna. Le autorità civili farebbero capire con il fermo linguaggio della diplomazia l'inopportunità della cosa. In Italia non avviene perché la Santa Sede è un'enclave nel territorio della Repubblica, e perché uomini politici dimentichi della loro funzione, si mostrano docili in cambio dei voti che la Chiesa elargisce. Le ultime elezioni lo hanno confermato. Mi ha scritto Stefania Cortese dal Lussemburgo (rmarta@internet.lu): «Leggo che il neo governatore del Piemonte Cota farà marcire nei magazzini le pillole Ru486 perché è un sostenitore della vita. Crede forse che chi decide di abortire sia a favore della morte?». Scrive Iolanda Lippolis (lippolis-iole@alice.it): «Se bloccheranno la RU, l'aborto ci sarà lo stesso; se la donna "sola", se la "coppia" ha scelto, i motivi non verranno meno per la mancanza di un farmaco. Prima della 194 chi praticava l'aborto era chiamato il "Cucchiaio d'oro" perché l'aborto rendeva bene, anche in termini di sofferenza». Scrive Luigi Sala (lui. sa54 @alice.it): « Per la chiesa conta solo essere a favore dell'aborto o legalizzare l'unione di coppie omosessuali. Sul resto silenzio. Dei valori del Vangelo importa poco ciò che conta è che la moralità sessuale sia salva. Tutto il resto è trattabile».

il Fatto 3.4.10
Gran bazaar delle armi per regimi teocratici e dittature
Nell’Italia della crisi un settore continua a volare
Da 2 anni silenzio assoluto sulle banche usate per le operazioni
di Stefano Vergine

C’è un settore in Italia che non ha risentito della crisi: quello delle armi. Osservando i numeri, l’impressione è quella di essere capitati sulla pagina del ministero dell’Economia cinese. Perché la crescita è a doppia cifra, tipica di un Paese emergente. Siamo invece proprio in Italia, dove nel 2009 le esportazioni sono crollate del 20,4% rispetto all’anno precedente, il calo maggiore dal 1970. Vendiamo le “nostre” armi a Paesi dai regimi discussi come l’Arabia Saudita e la Libia di Gheddafi. Nell’anno appena trascorso l’industria militare italiana si è superata. Mentre il tessile arrancava sotto i colpi della concorrenza straniera (-23%) e il mercato dell’auto subiva gli effetti della recessione (34%), le società italiane attive nella produzione di armi hanno visto aumentare del 61% gli ordini in arrivo dall’estero. Performance di gran lunga migliore rispetto ai più noti simboli del made in Italy, dal prosciutto San Daniele al Parmigiano Reggiano. Per capire quanto vale il mercato militare basta una cifra: nel 2009 il governo ha rilasciato autorizzazioni per esportare armamenti del valore totale di 4,9 miliardi di euro. Tutto questo senza contare gli 1,8 miliardi dei programmi intergovernativi, cioè i progetti fra più stati che hanno come destinatari i governi europei. I dati arrivano dalla Presidenza del Consiglio, che ha pubblicato il rapporto sull’esportazione di materiali militari. Dai documenti emerge che il principale destinatario di armi italiane nel 2009 è stata l’Arabia Saudita, monarchia teocratica retta sui proventi del petrolio e sullo scarso rispetto dei diritti umani, come rilevato più volte da Amnesty International. Il primato dell’Arabia Saudita riguarda una commessa da oltre 1,1 miliardi di euro da parte della Reale Aeronautica Saudita per 72 caccia multiruolo Eurofighter Typhoon. Il committente generale è la britannica Bae System, già punita dal ministero della giustizia americano con una multa da 400 milioni di dollari per aver corrotto alcuni dignitari del re Abdullah. Che c’entra l’Italia con la multa? Niente, ufficialmente. La partecipazione italiana riguarda la fornitura dei 72 caccia, per i quali Alenia Aereonautica (gruppo Finmeccanica, controllato dal ministero dell’Economia) fornisce alcuni componenti che valgono, al momento, 1,1 miliardi di euro. Una commessa che ha permesso ad Alenia di guadagnarsi il primo posto nella classifica degli esportatori, seguita da Agusta Westaland (gruppo Finmeccanica), Avio (partecipata da Finmeccanica), Fincantieri (controllata dal ministero dell’Economia) e Selex Galileo (gruppo Finmeccanica). I principali clienti dell’industria militare italiana, fatta eccezione per Germania e Stati Uniti, si concentrano proprio tra Medio Oriente e nord Africa. Il valore dell’export verso quest'area corrisponde a quasi il 40% del totale. Tra i maggiori acquirenti, oltre all’Arabia Saudita, spiccano Qatar, Emirati Arabi Uniti, Marocco e la Libia di Gheddafi, diventato un partner privilegiato dell’Italia non solo in materia di immigrazione, come piace ricordare al governo. Dei quasi 5 miliardi totali di autorizzazioni all’esportazioni di armi, più della metà (2,6 miliardi) riguardano i Paesi del sud del mondo. Una tendenza preoccupante, secondo Gianni Alioti, sindacalista della Fim Cisl e attento osservatore delle dinamiche del mercato militare: “Fino all’inizio degli anni 2000 l’export italiano era diretto soprattutto verso i Paesi Nato. Da allora si è invece iniziato a vendere soprattutto ai Paesi del sud del mondo, dove spesso si combattono guerre per l’accaparramento delle materie prime”. E’ il caso della Nigeria, ad esempio, dove da anni i guerriglieri del Mend combattono contro l’esercito regolare per i pozzi petroliferi sfruttati da diverse compagnie petrolifere occidentali, tra cui l’italiana Eni. E proprio la Nigeria, tra i paesi dell’Africa centro-meridionale, nel 2009 è stata la principale acquirente di nostri sistemi militari. Nel rapporto della presidenza del Consiglio è tutto chiaro: ci sono decine di tabelle che mostrano autorizzazioni, destinatari e committenti. Proprio come previsto dalla legge 185. Ne manca solo una: la tabella che riporta l’elenco dettagliato delle banche attraverso cui sono state realizzate le operazioni. Quella lista manca dal 2008, anno dell’entrata in carica dell’attuale governo. Spiega Giorgio Beretta, rappresentante della Rete Italiana Disarmo: “Lì c’era il nome della banca, il valore delle commessa e il paese destinatario. Incrociando quei dati con quelli del ministero degli Esteri si poteva capire che tipo di arma era stata fornita. Eliminando quella tabella il nostro lavoro è stato reso impossibile, sottraendo ai correntisti la possibilità di monitorare il comportamento della propria banca”. Un’idea ce la si può comunque fare. Secondo Ires Toscana, un ente di ricerca no profit, dal 2001 al 2008 più del 60% delle operazioni di incassi per esportazioni di armamenti italiani sono state effettuate da tre gruppi bancari: Bnp Paribas (2,3 miliardi), Intesa Sanpaolo (2,2 miliardi) e Unicredit (2 miliardi).

Repubblica 3.4.10
Shtetl a Tel Aviv
Lizzie Doron "Israele? Un ospedale psichiatrico"
Yiddish, tedesco, ungherese, polacco... era una specie di Babele, isolata dal resto del paese
intervista di Susanna Nirenstein

Uno shtetl, un villaggio ebraico dell´Europa orientale prima della Shoah, nel cuore di Tel Aviv anni ‘50: con Srulik il sarto, Zaytshik il parrucchiere, il dottore, Mordechai il kibbutznik, Rosa Ornshteyn - che legge un libro dietro l´altro e sa dare ottimi consigli - Ruven il fruttivendolo, Dorka, Guta e Zila (tre donne sempre a chiacchiera), Yafa la bruttona, la cantante d´opera detta Madame Butterfly che, pazza, gorgheggia in mezzo alla strada; e soprattutto c´è Lèale, l´io narrante, iperfragile e per di più colpita da due specie di vedovanze, insieme a Eytan, figlio unico ben presto in fuga verso Manhattan. Ma non è un romanzo di Isaac Singer, né un racconto di Sholem Aleichem, anche se la gente parla yiddish, tedesco, polacco, ungherese e, come in Notte dopo notte di Appelfeld, guarda con diffidenza tanto l´ebraico quanto i sabra, i nati in Israele, così forti, protesi a costruire un paese nuovo popolato da uomini coraggiosi. I protagonisti di Giornate tranquille, ultimo memoir della scrittrice israeliana 55enne Lizzie Doron vengono tutti "di là", dall´Europa della Shoah, e non se la sono tolta di dosso. Nessuno racconta però cosa gli è successo. La regola su se stessi è il silenzio. Anche se, in questa bolla di passato, ognuno sa tutto di tutti, e la protezione reciproca è totale.
Lizzie Doron, lei è nata e cresciuta davvero in un posto così?
«Sì, i grandi erano tutti sopravvissuti, arrivati lì per forza, perché era l´unico rifugio possibile, non erano dei sionisti. Nonostante fosse in Israele, sembrava uno shtetl, o un campo profughi, dove la gente combatteva per vivere. Eravamo isolati dal resto del paese con cui non condividevamo né la lingua, né lo spirito. Era il massimo di una situazione post-traumatica, che non ti permette di spartire il dolore con gli altri. In qualche modo penso che mia madre e i suoi vicini sapessero di dover stare tra di loro, un passo indietro».
E voi bambini?
«I genitori ci proteggevano, e noi sentivamo la responsabilità di essere i loro unici tesori. Era difficile. Ma eravamo anche un gruppo fantastico. C´era un´intimità totale, nessuno era mai solo. Quando incontravamo il resto di Israele però, vedevamo un´alternativa emozionante, la promessa di essere determinati, kibbutznik, di costruire il domani, di guidare il sogno».
Appena adolescenti volevate fuggire.
«Certo, ci vergognavamo di quell´universo, non potevamo rimanere. Ma non avevamo un vero linguaggio per comunicare con i nostri genitori: mia madre non mi aveva mai raccontato di sé durante la persecuzione o di mio padre. Temevo la nostra confidenza. Quando decisi di andare in kibbutz lo discussi con i miei amici, non con lei».
Ha detto di aver sentito un vero ebraico solo a sei anni.
«Era una specie di babele, yiddish, tedesco, polacco, ungherese, e non c´era la tv ad amalgamarci col resto di Israele».
Nel romanzo lei è spesso ironica nel descrivere le ossessioni di quei sopravvissuti. Era legittimo riderne?
«Dovevamo riderne! C´era un gran sense of humour. Madame Butterfly era buffa, pazza e, come avviene dovunque, noi bambini ne sghignazzavamo. Era permesso scherzare sulla tragedia. Quando mia madre, una gran svagata, cucinava, bruciava spesso il mangiare ad esempio: e allora, nel servirci quelle cose semicarbonizzate diceva: «Stasera Buchenwald delikatessen!». Era più lecito giocare che fare domande serie, tipo: dove eri, che cosa ti è successo "di là"?»
Il più grande ospedale psichiatrico del mondo, ha definito così Israele.
«Esatto, lì vivono i post-traumatici dell´intero globo, sopravvissuti della Shoah, della cacciata dai paesi arabi, immigrati dal post-comunismo, palestinesi infelici. Non ci sono confini certi, la democrazia deve considerare anche la religione, il popolo si sente erede di Maimonide come di Einstein, dei talmudisti come di un paese combattente. Una miscela assurda!»
Cosa vuol dire per un ebreo figlio di sopravvissuti essere in una nazione sempre in guerra, in pericolo?
«È un incubo. Ho 55 anni, e, anche se a volte sono ottimista, ci sono momenti in cui sono depressa e penso che ci sia un destino sopra di noi, un karma. Ho paura. L´ho capito a 18 anni, quando durante la guerra del Kippur persi ben sette dei miei migliori amici. Non è normale vivere pensando alla possibilità prossima della propria morte. Ed è pesante anche avere sempre un nemico, ed essere sempre il nemico di qualcun altro: anche i bambini hanno prestissimo questa cognizione, ed è terribile».
Perché i suoi cinque romanzi, tutti di successo, parlano sempre dell´Israele postolocaustica, sofferente, e non di quella viva e vivace?
«Non so se sono una scrittrice, so di essere una buona story-teller, posso raccontare solo la mia storia. E poi questa gente che nella vita non ha avuto il meritato rispetto, questa gente meravigliosa che stava zitta e non chiedeva, corre il rischio di essere dimenticata».

Repubblica 3.4.10
Come cambia la felicità
Il diritto di essere felici
di Michela Marzano

Gli economisti la usano al posto del pil per misurare il benessere delle nazioni I filosofi si interrogano su come raggiungerla in un´epoca senza più grandi utopie. I politologi la considerano il compito principale delle democrazie contemporanee Perché oggi essere felici non è più solo un´aspirazione individuale Ma un dovere collettivo

Che cos´è oggi la felicità? A giudicare dal numero di libri pubblicati in questi ultimi anni e dal successo dei dibattiti organizzati sul tema, sono in molti a chiederselo. È anzi uno degli argomenti che appassiona di più. Forse perché nessuno sa esattamente cosa sia la felicità, ma, al tempo stesso, non ha alcuna intenzione di rinunciarci. Tutti desiderano essere felici.
L´oggetto del desiderio, però, è più che mai oscuro. Non siamo più all´epoca di Platone, quando la felicità non aveva misteri: era la conseguenza necessaria di una vita buona, una vita, cioè, passata a cercare la saggezza e la virtù. Come essere felici, infatti, quando il significato stesso del termine "virtù" è poco chiaro? Quando anche la soluzione epicurea - un uomo è felice quando riesce a soddisfare i propri bisogni naturali e necessari - non sembra più convincere nessuno? Le nozioni di virtù e di natura sono ormai divenute problematiche. Da un lato, ognuno ha una propria concezione del bene, che non coincide quasi mai con quella del proprio vicino di casa. Dall´altro, i progressi della medicina e della tecnica hanno frantumato la nozione classica di natura: il mondo contemporaneo è il regno della natura "artificiale". E non è tutto. Il vuoto lasciato dal crollo delle grandi utopie politiche del secolo scorso, infatti, è stato progressivamente riempito da un nuovo imperativo categorico: sii felici e approfitta dei piaceri della vita!

Ma che vuol dire "essere felici" quando la felicità non è più solo un´aspirazione individuale, ma un dovere collettivo?
In Francia, il 26 e il 27 marzo scorsi, una sessantina di filosofi, economisti, psicologi e uomini politici si sono incontrati a Rennes per discuterne. Invitati dal giornale Libération al Forum Le bonheur: une idée neuve, hanno cercato una soluzione al problema della felicità individuale e collettiva. Prendendo come spunto la famosa frase di Saint-Just – che in piena Rivoluzione francese dichiarava trionfante che "la felicità è un´idea nuova in Europa" – il forum ha avuto un grande successo: 19 mila spettatori hanno assistito ai dibattiti, curiosi e speranzosi di trovare finalmente la "formula magica" della felicità.
Il dialogo e "l´intelligenza collettiva" ha peraltro soddisfatto le attese: tutti sono tornati a casa pieni di idee. Sono emerse nuove utopie democratiche, responsabili e durabili. Si è parlato dell´importanza del "fare rete" per evitare che i cittadini non siano altro che semplici pedine sulla scacchiera del potere. Si è anche insistito sul fatto che la felicità non sia solo un diritto, ma anche un dovere: di fronte alla tragicità della vita, ci si deve impegnare per vivere pienamente ogni istante di serenità. Ma si può veramente pensare la felicità in termini sillogistici secondo lo schema: ogni uomo deve lottare per essere felice; anche io sono un uomo; anche io, quindi, devo lottare per essere felice? Le buone intenzioni a Rennes c´erano tutte. Ma le buone intenzioni non bastano. E nonostante tutti i libri di ricette per insegnare ad essere felici in dieci lezioni o poco più, la felicità non la si può "meritare", come i bambini si meritano un "bravo" a scuola quando fanno bene i compiti.
Il rischio di una società che si nutre di discorsi troppo volontaristici, e che celebra ogni giorno il trionfo delle terapie brevi capaci di educare alla fiducia in se stessi e al "pensare positivo", è di far credere alle persone che se non sono felici, in fondo, è colpa loro. Con questo non voglio dire che non si possa fare nulla per essere felici. Come spiega il filosofo Yves Michaud, siamo tutti responsabili delle nostre scelte e, sebbene la felicità non dipenda esclusivamente da noi, spetta a ognuno di noi scegliere come affrontare le gioie e i dolori che la vita ci riserva. La felicità non è più solo un problema personale. Ormai si tratta di una questione sociale. Perché meravigliarsi allora se ad occuparsene non ci sono più solo i filosofi, ma anche gli economisti? Perché non cercare un modo per "misurarne" qualità e quantità?
Sono sempre più numerosi coloro che pensano di risolvere il dilemma della felicità utilizzando la categoria di benessere. Un benessere non solo psicofisico, ma anche economico e sociale. Certo, quando si soffre di una malattia fisica o psichica, o quando non si hanno i mezzi materiali per il proprio sostentamento, è molto difficile essere felici. Ma gli essere umani sono anche, e forse soprattutto, caratterizzati dal desiderio. E il desiderio, nonostante tutto, è fatto di insoddisfazione. È grazie ai desideri e al tentativo di soddisfarli che si esprime la propria energia e la propria potenza, e che si attraversano momenti, se non di felicità, almeno di gioia. Spinoza, in questo, docet.
Nonostante tutti gli sforzi degli economisti, tuttavia, questa gioia è difficilmente quantificabile. Alcuni di loro hanno proposto addirittura di passare dal calcolo del prodotto interno lordo (PIL) alla misura del benessere globale di una società. Il famoso rapporto Stiglitz-Sen-Fitoussi, commissionato da Nicolas Sarkozy e reso pubblico nel settembre del 2009, sottolineava giustamente come il benessere collettivo non fosse solo materiale: oltre al consumo, sostenevano i tre economisti, si devono prendere in considerazione il tempo libero, le relazioni sociali, il sentimento di sicurezza… Ma la felicità può essere fatta solo di benessere?
Il saggio di Derek Bok, The Politics of Happiness, appena pubblicato negli Stati Uniti, lo pretende. Derek Bok sostiene addirittura che il compito principale delle democrazie contemporanee sia proprio quello di massimizzare la felicità collettiva, promuovendo l´uguaglianza, permettendo alle coppie e alle famiglie di stabilizzarsi, migliorando la salute pubblica. Su alcuni punti non si può non essere d´accordo con Bok. Ogni democrazia degna di questo nome deve non solo promuovere l´uguaglianza, ma anche creare le condizioni adeguate perché i singoli individui possano poi portare avanti i propri progetti e perseguire la propria felicità. La felicità, però, è individuale. E nessun governo, per quanto perfetto, potrà mai risolvere, al posto dei singoli, quello che resta un problema esistenziale centrale: capire, in modo autonomo, che cosa si desideri e che cosa si voglia. La felicità non è un assoluto. Non esiste una strada unica che ci porta verso la felicità. La felicità, come diceva Lao Tseu, consiste piuttosto nel cercare la propria strada, abbandonandosi, talvolta, anche al caso. Non è forse questo il motivo per cui molte persone – in Francia tantissime – cercano oggi nel confucianesimo e nel buddismo le indicazioni per imboccare questa famosa strada, senza cercare a tutti i costi di "meritare" la felicità?

Repubblica 3.4.10
Una ricerca eterna che riguarda tutti e che ognuno declina a modo suo Chi vuole il piacere momentaneo e chi preferisce la serenità duratura
Estasi, ebbrezza o Nirvana il catalogo è questo
di Stefano Bartezzaghi

Letizia, gioia, brio, gaudio, allegria parole che stanno a indicare tutte le possibili accezioni, varianti, declinazioni di qualcosa molto difficile da definire C´è la versione a basso dispendio energetico (pace, appagamento) e quella opposta che arriva al tripudio orgiastico

Nella ricerca della felicità non si cerca qualcosa per sapere dove si nasconda, ma per sapere cosa sia. O, meglio, quale sia, in quella gamma che va dalla beatitudine al sollucchero, passando per serenità, letizia e ridarella. Se la parola è una sola, le merci che vorremmo acquistare al grande magazzino della felicità sono diversissime: per fare un solo esempio, c´è da sospettare che Lev Tolstoj («Tutte le famiglie felici si assomigliano; ogni famiglia infelice lo è a modo suo») e Vladimir Nabokov («Tutte le famiglie infelici si somigliano»...) non si fermerebbero di fronte allo stesso scaffale a cui indugerebbe - per dire - Maria Vittoria Brambilla.
Felicità, letizia, gioia (molto impiegata dall´attuale Pontefice, che però la pronuncia con una C iniziale), gaiezza (parola le cui recenti traversie hanno reso meno frequente nel suo senso proprio), brio, gaudio, giocondità, ilarità, allegria, esultanza, giubilo, tripudio, delizia, estasi, godimento... Convivono in tutta promiscuità e sconfinano nelle reciproche pertinenze parole poco distinte, accomunate da quel tipico sorriso che tradisce la parentela anagrammatica tra il beato e il beota.
Molte le accezioni, le differenze, le varianti, le declinazioni: dal nucleo a basso dispendio energetico costituito da pace, serenità, soddisfazione, appagamento - confinanti un po´ pericolosamente con quiete e requie - («e vissero felici e contenti»: fine della storia, o della Storia), alla costellazione dei tripudi orgiastici e delle esultanze parossistiche, che fanno dire: «e vai!» e fanno fare smorfie e misteriosi gesti con gli avambracci mentre la regia manda «We are the champions».
Le offerte di marketing si attestano, saviamente, a un livello intermedio: promettere la felicità è una debolezza da Costituzioni entusiaste; promettere il «benessere» invece è compito della Realpolitik e anche di appositi Centri con saune e massaggi (nel logo di un albergo recente: «Convegni Cerimonie Benessere»).
Un criterio per orientarsi potrebbe essere quello della posizione della felicità rispetto a un dato evento: la felicità preventiva, che è quella di chi attende serenamente il passaggio a una vita migliore (beatitudine); la felicità consuntiva, di chi gode l´appagamento di un desiderio (soddisfazione); la felicità di chi si estrania dalla realtà mondana (l´atarassia filosofica, l´estasi mistica, il nirvana meditativo).
Ma tra le felicità si possono anche distinguere uno stato mediamente durevole e un climax (o un clima) passeggero, momento glorioso e raggio di sole. A questo criterio allude un recente schemino francese. Intensità massima, minima durata: è l´attimo fuggente, «quant´è bella giovinezza / che si fugge tuttavia»; ma è anche e soprattutto l´orgasmo, detto anche, et pour cause, «apice». Intensità minima, massima durata: il nirvana, l´atarassia, la contemplazione.
I Don Giovanni (da una parte) e i meditatori (dall´altra) sanno quel che vogliono. Sono però casi estremi, così come quello, pur rispettabilissimo, di chi ritiene che la felicità non sia cosa di questo mondo. Tutti gli altri si arrabattano, inseguendo gioie spesso idiosincratiche, dalla prima sorsata di birra al farsi una pera. «Felicità è un cucciolo caldo», disse Charlie Brown, e forse ispirò sia una martellante canzone di Al Bano e Romina Power sia la fioritura delle relative cover apocrife (spesso francamente pecorecce). Un autore come Primo Levi, invece, scriveva che amare il proprio lavoro «costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità in terra»: un´opinione che, essendo espressa in piena epoca di rifiuto del lavoro (fine anni Settanta), suonò assai provocatoria.
Avere le idee chiare è più facile nel campo avverso. Sarà perché gli stati di umore nero inclinano maggiormente all´autoanalisi e al rovello, ma l´irritato, l´arrabbiato, il furente non si confondono fra loro, né, a maggior ragione, con il malinconico, il depresso, il triste, l´ipocondriaco, l´afflitto, il cupo, il mesto, il tetro e il teterrimo. Solo un dilettante dell´atrabile farebbe confusione fra l´iroso e l´irato, l´iracondo e l´irascibile; un vero professionista conosce con esattezza persino la sfumatura che divide l´essere scontento dall´essere malcontento. Del resto Raymond Queneau sosteneva che il linguaggio si sia evoluto a partire dai lamenti degli uomini e che la Storia sia la scienza della loro infelicità.
Perché poi parlare di felicità, quando - se solo ci fosse - dovrebbe bastare a sé stessa? Perché poi, ed eternamente, le mancherà sempre quel «certo non so che» mutevole, come un buco che ne guasta la perfezione sferica. Venire a patti con quell´ineffabile particella che sfugge è un duro lavoro: ma forse è proprio questo il semplice, inaggirabile segreto della felicità.