martedì 6 aprile 2010

Agenzia Radicale 5.4.10
Da Roma può partire la riscossa di una sinistra socialista-liberale
di Carlo Patrignani

Non sono d'accordo con quanti - da Ceronetti a Scalfari a Ricolfi - sminuiscono, sviliscono, celano il risultato che ritengo ‘eccezionale' - per il fuoco di sbarramento ‘clerico-fascista' che non si vedeva dai tempi del referendum sul divorzio del 1974 - conseguito nelle recenti elezioni regionali da Emma Bonino nel Lazio ed in particolare a Roma, dove ha stravinto il duello con Renata Polverini. Che da modesta sindacalista dell'Ugl (a proposito nessuno parla più delle tessere gonfiate?) sia assurta a personaggio politico, lo deve più che a meriti personali, alle disinteressate continue cure di Ballarò e Annozero! Trasmissioni che si ben guardate dall'invitare la Bonino. Al tempo stesso, non posso condividere assolutamente analisi superficiali comparse, con gran stupore, sul quotidiano ‘Terra' circa la sconfitta di Emma perche' avrebbe ‘irritato' gli elettori per la sua storia radicale e libertaria (?) per il modo pacato e fermo con cui ha condotto la sua campagna elettorale all'insegna dell'onesta' e trasparenza (?) per aver risposto all'anatema del signor (monsignor come ha tenuto a precisare la Polverini) Bagnasco a non votare per chi vorrebbe la morte per difendere la legge sull'aborto approvata dal referendum del 1981 anche da credenti (?). "A chi, come il quotidiano 'Terra', ci rimprovera di aver fatto irritare tutti, rispondo che evidentemente si sono irritati solo a Frosinone o Latina, dove abbiamo perso, e non a Roma, dove abbiamo stravinto", ha ribattuto la stessa Bonino. "E' ovvio che la tesi non stia molto in piedi, e io sono ancora convinta dell'analisi fatta all'indomani del voto: l'insieme di questo processo elettorale e' stato illegale, e l'esito finale e' stato dovuto - ha sottolineato la Bonino - alla irruzione manu militari di Berlusconi in persona, alla sua occupazione di tutti gli spazi televisivi, radiofonici, telefonici, citofonici". C'e' in questo modo superficiale e sbrigativo di trattare i risultati elettorali piu' malafede che altro. Così come non mi ritrovo affatto nella ‘deriva distruttiva' che tende a colpevolizzare il numero uno del Pd, Pier Luigi Bersani, annoverandolo tra gli sconfitti o i bolliti, al pari di chi ‘disastri' ne ha fatti ed enormi a partire dal 14 ottobre 2007 (le primarie del Pd vinte da Valter Veltroni) passando per la messa in crisi (Fausto Bertinotti) del Governo di centro-sinistra "bisogna prenderne atto: questo centrosinistra ha fallito, una stagione si e' chiusa, abbiamo un governo che sopravvive ma che ha alimentato tensioni e accresciuto le distanze dal popolo e dalle forze della sinistra", guidato da Romano Prodi definito, "il piu' grande poeta morente", fino al tracollo elettorale del 13-14 aprile 2008.
Allora dopo più di vent'anni, Roma è stata regalata al centro-destra, a Gianni Alemanno: nei due turni Francesco Rutelli, candidato del centro-sinistra, perse 150 mila voti, i 50 mila con cui al primo turno aveva superato Alemanno e i 100 mila con cui nel secondo turno perse. E il voto di quelle elezioni era annunciato da settimane.
Per non dire, ancora, di quel che resta di ‘SeL' e della Federazione della Sinistra, entrambe superate da un redivivo Partito Socialista che ottiene piu' consiglieri regionali (14) rispetto ai 13 della prima e agli 8 della seconda. E qui non posso non inserire un secondo fenomeno mediatico: Niki Vendola, il ‘poeta' catto-comunista. Se qualcuno ha l'accortezza di confrontare i voti delle regionali del 2005 con quelli del 2010, si accorgerebbe che Vendola nel 2005 ha preso 1.165.536 voti e Fitto, candidato del centro-destra 1.151.405: oggi nel 2010 Vendola ottiene 1.036.638 voti, contro 1.084.960 voti di Polese (Pdl) e Poli Bortone (Udc).
Vendola dunque non ha vinto: ha perso (per 50.000 voti) nello scontro con la destra e ha perso per strada 130.000 voti rispetto al 2005, è diventato presidente della Puglia grazie, si può dire, alla scempiaggine o complcità della destra. E poi non mi pare proprio che abbia dovuto controbattere all'offensiva ‘clerico-fascista', agli anatemi di Bagnasco, alle prediche dei
tanti parrocci spari nelle parrocchie di provincia!!
Orbene, Emma Bonino a Roma è stata la più votata: non solo ha preso 1.012.542 voti (54%) contro i 931.218 (47,63%) della Polverini, e rispetto alla somma dei voti dei partiti facenti parte della coalizione di centro-sinistra (897.264), ha avuto 115.278 consensi in più: ma ha riportato più di 10 mila voti di preferenza con la lista ‘Bonino-Pannella' arrivata, caso unico in Italia, a 64.678 voti per al 3,76%, che ne fanno il terzo partito a Roma.
Inoltre, se il Pd a livello nazionale, rispetto al 2005, perse 2 milioni di voti, cioè il 26% a Roma contiene la perdita al 14%: come dire la candidatura della Bonino ha fatto guadagnare al Pd, nel Lazio, un 12%. Ergo, Bersani aveva visto giusto ad appoggiare Emma, ‘la fuoriclasse'. Certo, si dirà ma nel Lazio Emma ha perso: è vero, ha perso nelle quattro province. Ma ciò non sminuisce il dato di Roma perché esso dice che Roma non è di destra e non è fascista, non è ‘clerico-fascista'. E non è neanche ‘catto-comunista'! Dunque si puo' dire ‘Grazie Roma!' per averci lasciata accesa una speranza. Su questa lunghezza d'onda, si puo' ascrivere la Capitale, e questo è il ‘dato politico' che disturba moltissimo il Vaticano e Berlusconi, ma anche l'intellighentia di sinistra cresciuta e vissuta nel mito di Togliatti, ad un certo ‘azionismo' di ritorno! A quella nobile cultura liberal-socialista, o socialista-liberale, ‘giellista', che aveva ampiamente previsto sin dal 1946 (si rileggano le proposte illuminanti di Piero Calamandrei, di Riccardo Lombardi, Ernesto Rossi) i disastri (la partitocrazia, l'occupazione delle Istituzioni da parte dei partiti) di una Costituzione fondata sul regime parlamentare e non sul presidenzialismo anglo-sassone. "Abbiamo lavorato tanto per partorire un mostro", disse Emilio Lussu. La partita dunque non è affatto chiusa, anzi la si comincia a giocare proprio ora e nel nome di Emma Bonino la cui storia radicale, i cui sentimenti, onestà pulizia e trasparenza, le cui sensibilità, la difesa dei diritti umani, ne fanno una leader di livello non solo nazionale ma internazionale.

Repubblica 31.3.10
Vendola avvisa gli alleati. Non c'è futuro per i partiti io punto sulle virtù civiche
intervista di Antonello Caporale

BARI - «I morti seppelliscono i morti. Concentriamoci sui vivi». Nichi Vendola dà già per stecchito Bersani. «Io penso invece che siano finiti i partiti. Consumati, inadeguati, fuori dalle virtù civiche. Non voglio più essere scambiato per uno degli esorcisti che tentano di far vivere chi è defunto». Bersani, invece... «Non commento i destini personali. Penso a quel che dovrà succedere». Succederà che porterà le sue poesie a Roma. «Anche la poesia, sì. "La poesia è nei fatti" è stato il mio slogan elettorale. Porterò l'esperienza delle fabbriche». Sembra che la Puglia sia piena di operai. Invece lei fabbrica parole. «Sono luoghi in cui le esperienze si coagulano, la gente si ritrova insieme e resta insieme. Sono posti in cui si coopera per un' idea di governo. Cooperazione: l' uno a fianco all' altro. Invece mi dica lei cosa sono i partiti». Dica lei. «Aree delimitate da una specie di filo spinato in cui la competizione è sfacciata, ossi di seppia, luoghi pieni di detriti, posti senza anima. I partiti sono fuori dal popolo, oltre la gente. A volte contro di essa. Una catena, una rete oligarchica e distante». Nelle sue fabbriche invece c' è piena occupazione «Ha visto quanta gente? Centoquaranta sono le fabbriche. E fabbricano speranze, sono connesse alle piazze, alle vite degli ultimi. Altrimenti io come avrei fatto, come avrei potuto vincere?». In effetti D' Alema aveva garantito che avrebbe perso. «Quando le differenze sono politiche è inutile commentare con parole senza riguardo». La suaè sempre una costruzione innocentista, anche se parecchio sanguinante della realtà. Però se annusa le liste che l' hanno sostenuta troverà qualche brigante. «È il frutto di questo sistema, siamo figli di questi partiti. La ragione per cui le ho detto che la loro vita naturale si deve considerare conclusa». Per esempio: l' ex segretario del Pd pugliese, inquisito, annuncia il ritiro dalla politica. Però giacché è già candidato aspetta di vedere i risultati. Eletto. Finita la festa, gabbato il santo. «Aveva detto che lasciava ed è assai opportuno che tenga fede all' impegno». La moralità. «La moralità dobbiamo ritrovare, sì. La vita sobria, anche umile. Io non ho partecipato a una sola festa, e sa che Bari è piuttosto generosa nell' offerta, perché mi sembrava utile non apparire. Io devo difendere la mia persona dal rischio di divenire solo un personaggio e mi produco in periodi di astinenza: dalla tv e dal potere. Voglio riuscire a non farmi mangiare dal potere». A lei si rivolgono con devozione di stampo berlusconiano. «Quale Berlusconi! Qui in Puglia c' è stata semina. Ed ora c' è raccolto. Nell' innovazione abbiamo investito un miliardo e 700 milioni di euro. Il budget della giunta precedente era di 80 milioni di euro. Innovazione. Cioè ricerca, nuove competenze, apertura di carriere per chi inizia il lavoro. Cultura. Abbiamo la più possente e tecnologica macchina di Protezione civile, un sistema unico di telecontrollo del territorio. E quando ripartirà l' economia vedrà la Puglia come correrà. Altrove forse il raccolto non c' è stato perché nessuno ha pensato di seminare». Berlusconi ha seminato? «Lui è riuscito nel miracolo di separare il concetto della libertà dal lavoro. Il lavoro è scomparso. La sinistra nemmeno se neè accorta. Lui ha cancellato l' articolo 18 e l' opposizione quasi non s' è destata dal torpore. Questo è il centrosinistra delle allusioni, perciò diviene il centrosinistra delle illusioni. Ed ecco qui il risultato». Il partito che non c' è più. «Partito: participio passato. Cioè e anche: fuggito, sparito. Scomparso». Il partito democratico. «Il fuggito democratico». Poesia pura. «Berlusconi lascia solo solitudini. E noi che stiamo dall' altra parte non abbiamo strumenti, non capiamo, non agiamo. Competiamo. Sappiamo unicamente competere tra noi». Sapete solo scannarvi. «È il frutto della formula sbagliata. Non sono gli uomini. La leadership è una funzione non una finalità. Non ho la forza di connettere quello con l' altro, l' operaio e il borghese, il giovane e l' anziano, il diversamente abile, colui che è fragile. E provo a vincere da solo, corro per dominare». Dunque: bisogna buttare giù il partito democratico e tutto l' edificato urbano delle periferie di sinistra e costruire la nuova fabbrica del consenso. «Rischio di ficcarmi nel buco nero del nuovismo, una moda nefasta. Ma osservo la realtà: ossi di seppia sono divenuti i partiti. Io porto le fabbriche, un segno nella costellazione. Contribuisco così. A fine aprile avremo gli stati generali delle fabbriche. Tutta Italia». Tutta l' Italia di centrosinistra in Puglia, per uno stage formativo. «Da quel punto di vista sì. Siamo imbattibili a utilizzare al meglio gli strumenti e le parole: connettere, coinvolgere, gratificare. Vede la meraviglia del volontariato, vede la forza oscura dell' anima, il piacere di costruire qualcosa di nuovo. Quanti soldi sarebbero serviti? E con quei soldi cosa mai avremmo ottenuto?».

il Fatto 6.4.10
Vaticano. La ricerca riguarda solo gli episodi riportati da stampa e tv
Strage dell’innocenza in Italia
Preti pedofili: 131 casi in 2 anni
La dinamica degli abusi descritta dalle vittime, tutti maschi al di sotto di 14 anni, è quasi sempre la stessa. Dopo le denunce, le autorità religiose si limitano a trasferire i colpevoli che, di solito, ripetono la violenza
Secondo gli avvocati che seguono i casi è solo “la punta dell’iceberg”
di Vania Lucia Gaito

Tra arrestati, indagati e condannati sono circa i casi di sacerdoti coinvolti in reati legati alla pedofilia e venuti alla ribalta delle cronache, soprattutto locali, negli ultimi due anni. Da Bolzano a Trapani, nelle città così come nei piccoli borghi, le procure italiane si sono ritrovate spesso a dover intraprendere indagini in cui erano coinvolti ecclesiastici e in cui le vittime erano giovani, spesso giovanissime. Un dato allarmante, se si tiene conto che è “solo la punta dell’iceberg”, come afferma l’avvocato Sergio Cavaliere, che ha documentato i 130 casi di pedofilia clericale. E ancor più allarmante se si pensa a quanto può essere stimato il “sommerso”, ovvero tutti i casi che non hanno avuto una eco mediatica ma soprattutto i casi che non sfociano in denuncia. Molte vittime sono riluttanti ad uscire allo scoperto, spesso non parlano neppure ai familiari dell’abuso subito, oppure denunciano il sacerdote all’autorità ecclesiastica ma non alle procure.
“In nessuno dei casi il vescovo locale ha avvisato la polizia del sospetto abuso” sostiene l’avvocato Cavaliere. Tesi che si coniuga con quanto affermato dal procuratore aggiunto Di Milano, Pietro Forno, che ha condotto molti procedimenti a carico di sacerdoti accusati di abusi sessuali su minori, dieci dei quali conclusi con la condanna degli ecclesiastici: in tutti i casi trattati le denunce non sono mai partite da vescovi o altri sacerdoti ma sempre dalle famiglie delle vittime, dopo che si erano rivolte alle autorità ecclesiastiche senza risultato. “Scopriremo presumibilmente che il Vaticano ha lavorato in Italia ancor più alacremente con i vescovi per nascondere i casi, rispetto all’estero, semplicemente perché il contatto era più vicino e la chiesa è così potente in Italia”, ha affermato Roberto Mirabile, responsabile della Caramella Buona, l’associazione antipedofilia che si è costituita parte civile nel processo contro don Ruggero Conti, ex parroco della chiesa della Natività di Maria Santissima a Roma. Il sacerdote fu arrestato il 30 giugno 2009 con l’accusa di abusi sessuali a danno di minori e prostituzione minorile aggravata. Su istanza dei suoi legali gli furono concessi gli arresti domiciliari, ma fu nuovamente arrestato pochi giorni prima che partisse per Sidney con alcuni ragazzi della parrocchia per partecipare alla Giornata mondiale della gioventù.
La dinamica degli abusi descritta dalle vittime, tutti maschi e al di sotto dei 14 anni, è quasi sempre la stessa: il ragazzo che frequentava i locali della parrocchia veniva attirato in altre stanze e qui costretto a soggiacere ai desideri del sacerdote. In cambio alcuni potevano avere piccole somme, dai 10 ai 30 euro, o anche altro, come capi d’abbigliamento. Nel corso del processo, sono stati ripetutamente chiamati in causa Monsignor Carlo Galli di Legnano e il Vescovo Gino Reali di Roma, come prelati che sapevano da anni dei fatti senza prendere alcuna posizione concreta. Anche quando i sacerdoti sono stati arrestati in flagranza di reato, le Curie sono sempre rimaste fedeli alla difesa dei loro parroci. Come nel caso di don Marco Cerullo, arrestato nelle campagne tra Villa Literno e Casal di Principe nel dicembre del 2007, mentre era in macchina con un bambino di 11 anni e lo costringeva a un rapporto orale. Informato dell’arresto del sacerdote, il vescovo di Aversa, Mario Milano, non volle pronunciarsi e la diocesi non prese alcun provvedimento nei confronti del prete fino alla sua condanna a sei anni e otto mesi sia in prima istanza che in appello. Solo in seguito è stata aperta un’indagine sui fatti contestati al giovane sacerdote anche da parte della Congregazione per la Dottrina della Fede. In alcuni casi non solo le diocesi non hanno preso provvedimenti di fronte alle accuse ai sacerdoti pedofili, ma hanno addirittura continuato a mantenere in servizio e a contatto con i bambini anche preti già condannati dai tribunali italiani per gli stessi reati. É il caso di don Roberto Mornati, sul quale già pesava una condanna per pedofilia inflittagli all' inizio degli anni ‘90 dal Tribunale di Lecco, in seguito alla quale la Curia lo aveva trasferito a Gavirate, dove gli abusi sono ricominciati. E di don Claudio Ballerini, arrestato a Perugia perché si masturbava in piazza davanti a minori. Era stato già condannato ben due volte, ma nei suoi confronti non erano mai stati presi provvedimenti dalla Curia. Ma anche don Antonio Di Maggio, trasferito dalla Sicilia a Roma dopo una condanna per abusi sessuali ai danni di una ragazza disabile a lui affidata, fu lasciato a contatto con bambini e ragazzi, permettendogli di insegnare e di gestire l’oratorio. Naturalmente, ricominciò con gli abusi e fu nuovamente condannato a 4 anni e 2 mesi.
In alcuni casi, poi, nonostante le condanne, alcuni sacerdoti vengono addirittura promossi. É il caso di G.S., sacerdote del salernitano, condannato in via definitiva per atti di libidine violenta nei confronti di due bambine di 12 anni. Il prete insegnava in una scuola media di Pontecagnano Faiano e gli abusi avvenivano in classe, sotto gli occhi degli altri ragazzi, intimoriti dalla natura aggressiva del religioso. Oggi don G.S. non insegna più, è consigliere dell’Istituto interdiocesano per il sostentamento del clero e membro del collegio presbiterale, nominato direttamente dall’arcivescovo. Molti anche i sacerdoti che hanno “patteggiato” e sui quali non è mai stata aperta una indagine da parte delle gerarchie ecclesiastiche. Spesso la condanna era di pochi mesi, con la sospensione della pena, e l’immediato ritorno nelle parrocchie, in mezzo ai bambini. In alcuni casi, specialmente quando l’accusa riguardava la detenzione e la divulgazione di materiale pedopornografico, la condanna è stata commutata in una pena pecuniaria. Ma anche don Renato Giaccardi, che ha patteggiato appena 4 mesi per i reati di induzione alla prostituzione, favoreggiamento e sfruttamento di almeno 40 ragazzini ha potuto usufruire di questa “commutazione della pena”. I quattro mesi di reclusione si sono così trasformati in una penale di 4000 euro e non si hanno notizie di eventuali provvedimenti a suo carico da parte delle gerarchie ecclesiastiche. Sembra inoltre prendere sempre più corpo l’ipotesi di una rete tra sacerdoti con la passione per i minorenni. In più di un caso gli investigatori hanno accertato che il sacerdote che compiva abusi sessuali su minori condivideva questa sua deviazione con altri confratelli. Un’intercettazione della Squadra mobile di Cuneo che stava indagando su don Renato Giaccardi, colse il sacerdote al telefono con un prelato romano, mentre si scambiavano commenti sulle qualità fisiche di un bambino. É questo quello che monsignor Sodano definisce “chiacchiericcio”?

il Fatto 6.4.10
Per una rivolta laica
di Paolo Flores d’Arcais

L a Chiesa gerarchica ha dichiarato guerra alle libertà repubblicane (la Chiesa dei fedeli è ovviamente altra cosa). Ha presentato il conto. E la Lega celta e pagana, improvvisamente convertita sulla via di Damasco dai voti decisivi di Ruini e Bagnasco, ha pagato pronto cassa. La pillola RU 486 deve restare nei magazzini, a dissipazione dei soldi del contribuente, ma soprattutto perché la donna snaturata impari almeno che “abortirà con dolore”.
Il male dei cittadini (o almeno delle cittadine) è, alla lettera, il vero programma del “partito dell’amore”.
Questa politica della malvagità conosce però un punto debole. L’aborto è un diritto (doloroso, ma un diritto), nei tempi e nei limiti stabili dall’attuale legge. Entro i 90 giorni dal concepimento la donna può abortire qualora sussista “un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica” (art. 4), motivato anche dalla “incidenza delle condizioni economiche, o sociali, o familiari” (art.5). Dopo i 90 giorni, “l’interruzione volontaria della gravidanza può essere praticata: a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro” (art. 6). L’aborto può essere compiuto in entrambi i casi fino a che non sopraggiunga la “possibilità di vita autonoma del feto” (art. 7. Autonoma significa autonoma, non attraverso macchinari) e nel caso a) senza neppure questa limitazione.
E quanto all’obiezione di coscienza, l’articolo 9 è tassativo: gli enti ospedalieri e le case di cura sono tenuti in ogni caso ad assicurare l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza. La regione ne controlla e garantisce l'attuazione anche attraverso la mobilità del personale.
REGOLE E LEGGI. La legge non pone limiti a tecniche che rendano l’aborto meno pericoloso e/o doloroso. La pillola Ru486 fa ormai parte del prontuario farmaceutico autorizzato negli ospedali (del resto in Europa è di uso corrente da circa un ventennio). La sua fruizione è un diritto della donna. Come è un diritto (di ogni paziente) farsi dimettere dall’ospedale sotto propria responsabilità, anche a terapia non conclusa. Tutto il resto è prevaricazione e illegalità. Se il kombinat clerical-berlusconian-leghista vuole fare esperimenti “in corpore vili” contro le donne, faccia una legge che proibisce e punisce l’aborto. E andremo a un nuovo referendum. E l’opposizione (“se ci sei batti un colpo”) dimostri di non essere prona nel bacio della pantofola, ma faccia propria la bandiera dell’autodeterminazione delle donne. Oltretutto avrebbe la schiacciante maggioranza del paese con sé.
Il fatto che i governatori teo-leghisti abbiano già abbozzato un passo indietro ne è la riprova lampante.
LA CROCIATA. Tuttavia è evidente che la crociata clericale per trasformare il peccato in reato continuerà. Ma questo, paradossalmente, offre ai cittadini democratici e ad un’ipotetica opposizione parlamentare chance nuove e straordinarie per mettere alle corde il regime del ducetto di Arcore. Tutti i provvedimenti clericali in cantiere, non diversamente da quelli già realizzati, sono infatti altamente impopolari, e se contrastati con energia e coerenza possono fruttare alle opposizioni fortissimi consensi, e conflitti interni e tracollo di simpatie sul versante governativo. La questione dell’aborto è la più importante, perché tocca ogni donna in ciò che più le è intimo e insindacabile, la volontà o meno di maternità (e tocca di riflesso i tantissimi uomini che sentono questa libertà delle donne come irrinunciabile per ogni coppia). L’aggressione clericale contro tale libertà gioca sulla tastiera più ignobile: quella della criminalizzazione etico-psicologica ancor prima che giuridica, con accenti talmente indecenti da provocare rivolta e disgusto. Cos’altro vuol dire, infatti, la campagna contro la pillola RU486 all’insegna del “non è lecito banalizzare l’aborto”, se non che l’aborto, fino a che non sarà possibile delegittimarlo del tutto (tornando ai bei tempi delle mammane e del ferro da calza, e della galera), deve essere vissuto dalla donna con il massimo di ansietà, senso di colpa, tormento psicologico e malessere fisico?
Di fronte all’alleanza di inciviltà Bagnasco-Zaia e Ruini-Cota (cioè Ratzinger-Berlusconi, non nascondiamoci dietro un dito), si apre perciò doverosa, e facile di consensi popolari altissimi, la strada maestra del conflitto campale, che rivendichi il diritto della donna all’autodeterminazione, ed esiga che la sua scelta venga accolta da strutture pubbliche impegnate a garantirle tutta la serenità psicologica possibile e il minimo di dolore e disagio fisico. E se questo dovere di rendere minime (e tendenzialmente nulle) le sofferenze fisiche e psichiche della donna, ai truci pasdaran dell’ “abortirai con dolore” suonano come la “banalizzazione” dell’interruzione di maternità, tanto peggio per loro, rivendichiamolo senza complessi il diritto a tanta “banalizzazione”. E vedremo quanti italiani (e non solo italiane) seguiranno i nuovi sanfedisti nell’esaltazione della sofferenza come valore coatto, da imporre per legge.
PARLA IL REGIME. Il terreno del nuovo clericalismo, che il regime berlusconian-leghista, nella sua irrefrenabile pulsione di onnipotenza, ha ormai deciso di percorrere in lungo e in largo, offre anzi l’occasione di passare all’offensiva. Di rilanciare a 360 gradi, o se si preferisce ad alzo zero, la battaglia per la laicità in tutte le sue articolazioni, anziché ridursi sulla difensiva, tema per tema, solo quando il tetro connubio di trono e altare scatena il suo attacco. Perché non c’è una sola questione attinente alla laicità sulla quale i (dis)valori teo-berlusconiani non siano in abissale minoranza nella società italiana, dai costumi radicatamente e irreversibilmente secolarizzati. Sarebbe davvero un errore clamoroso credere diversamente, come due generazioni fa temeva il Pci, ai tempi dei referendum su divorzio e aborto.
Basta avere il coraggio di rilanciarla, la rivolta della laicità. Denunciando (anche in senso tecnico) l’abiezione per cui ci sono farmacie “cattoliche” che ormai si rifiutano di vendere i preservativi, e l’uso dell’obiezione (anch’essa trasformata in abiezione) di coscienza di medici e infermieri per vanificare il diritto della donna (mentre l’articolo 9, abbiamo visto, impone rotazione e spostamenti del personale sanitario per garantirlo). Denunciando il fiume di danaro alle scuole private, malgrado il tassativo divieto costituzionale e mentre quelle pubbliche vengono lasciate cadere a pezzi (alla lettera), e l’assurdo privilegio delle migliaia di insegnati di religione nominati dalla Cei e divenuti di ruolo senza concorso (e che potranno passare a insegnare altre materie, con buona pace di “precari” a vita scavalcati dalla iattanza papista), e della stessa ora di religione confessionale, relitto dei tempi bui di una “religione di Stato”.
Tutte cose di cui una campagna d’opposizione dovrebbe porre all’ordine del giorno la pura e semplice abrogazione. Esattamente come l’abrogazione dell’8 per mille, o almeno una sua radicale revisione, che consenta al contribuente di scegliere davvero se darlo alla Chiesa della Cei (preti pedofili compresi e sempre scrupolosamente coperti) oppure alla ricerca contro il cancro (che Berlusconi ha garantito sarà debellato entro fine legislatura), anziché a quel generico “Stato” che per i cittadini (e anche nella realtà effettuale, ahimè) equivale al “magna magna” dei partiti. Per non parlare del diritto a morire secondo la propria etica, anziché subire la tortura che Chiesa e Stato vogliono obbligatoria per tutti i malati terminali.
Tutte battaglie da “vocazione maggioritaria”. Vinte in partenza. Purché si abbia il coraggio di lanciarle.

il Fatto 6.4.10
Legionari di Cristo, fondati da un pedofilo
La congregazione che disconsce il suo “creatore”
di Maurizio Chierici

Nessuno ricorda le disavventure pedofile dei Legionari di Cristo, ma qualche giorno fa, con discrezione rispettata dal silenzio dai media italiani (unica eccezione, Il Fatto quotidiano) i Legionari hanno chiesto perdono. E i commenti sulle ombre di questa “macchina da guerra” sono fioriti su giornali e tv delle due americhe e della Spagna. Perché coinvolge una congregazione che ha potere, capitali e un’influenza in frenetica espansione: 800 sacerdoti, 2.500 seminaristi. Università e seminari a Roma, Monterrey, Connecticut, New York, Salamanca, Brasile e America Latina. Della congregazione religiosa (approvata da Giovanni Paolo II nel 1983) non viene ricordata mai la figura del fondatore, venerata nei secoli da ogni altra congregazione con l’orgoglio ricordare chi ha raccolto i fedeli nel segno della fede. Della smemoratezza si capisce perché.
Il fondatore Marcial Maciel era pedofilo e pederasta. Ha vissuto una doppia vita: la vita di un sacerdote cattolico “ispirato dalla grazia divina”, la vita di un orco che approfittava dei ragazzi in seminario. “Siamo profondamente costernati e confermiamo che le accuse contro Maciel sono vere”. Poche parole di imbarazzo. Nel tormento che fa tremare la Chiesa, impossibile ormai nascondere le verità sepolte sotto l’ipocrisia. “E non guardiamo più alla sua figura come modello di vita cristiana e sacerdotale”. Che non fosse un esempio da seguire lo si sapeva da tempo, ma Maciel respingeva “sorpreso e indignato” le accuse di ex seminaristi ormai adulti ma con ferite che non rimarginavano. I Legionari inorridivano “per le falsità” che il loro padre morale allontanava con sdegno: invidia, manovre comuniste, marciume dei protestanti dell’altra America i quali non sopportavano l’onda irresistibile dei nuovi testimoni di Roma. Maciel poteva contare sulla solidarietà dell’economia e della politica, ma anche del Vaticano. Ma le denunce escono dai sacri corridoi dei poteri, allarmati dalle cronache di giornalisti che avevano raccolto il dolore delle vittime. Non voce di tutti; solo la voce di chi aveva trovato il coraggio di raccontare le violenze. Maciel protestava; gli amici che contavano provvedevano. Un canale televisivo messicano, il solo ad aver raccolto le testimonianze sull’infanzia rubata, viene asfissiato da blocco della pubblicità. E chiude.
Marcial Maciel, monsignore messicano è morto a fine secolo quando aveva a 87 anni ma era stato ridotto allo stato laicale a 84: per la prima volta nella storia recente della Chiesa, un Papa (Giovanni Paolo II) aveva privato della messa ad un sacerdote accusato di pederastia. La tenacia del cardinale Ratzinger lo aveva preteso per rispondere alle denunce accumulate in quarant’anni di istruttorie che si erano perdute nei corridoi vaticani. Distrazioni consuete a tante istituzioni e le vittime accusavano la Chiesa di coprire e tacere mentre le rivelazioni si moltiplicavano dal New York Times alle televisioni della costa pacifica. Alla fine la condanna si abbatte su un protagonista che aveva inorgoglito pontefici e burocrazie di Roma. Le quali salvano la grande opera realizzata da Maciel ma non nascondono il peccato. Marcial Maciel aveva fondato i Legionari di Cristo nel 1941. Li ha governati fino a quando l’interminabile inchiesta delineava le conclusioni. Per un tempo troppo lungo ha salvato il potere nel quale era riuscito ad aggregare politici e soldi. Lo avevano battezzato “parroco dei miliardari”. Un seminarista, sette anni fa aggiunge qualcosa: “Soldi e politica riguardano altre chiese dell’America Latina”. Quando Maciel inventa i Legionari di Cristo, il Messico è convalescente dalle guerre cristologiche nelle quali la persecuzione isterica di Benito Juarez e dei laici al potere non distinguevano tra il clero che si mescolava alla gente e i vescovi legati alle oligarchie agrarie e militari combattuto dalla loro rivoluzione. Maciel ha attraversato l’angoscia di quegli anni progettando una compagnia di preti legionari, strutture meno culturalizzate dei gesuiti, ma politicamente più intransigenti dell’Opus Dei. Pio XII ha riconosciuto il valore di “un’armata pronta alla battaglia”.
Passa il tempo e diventano le “pupille degli occhi” di Giovanni Paolo II che si lascia affascinare dall’ipotesi di una diga integralista nell’America Latina animata dalle filosofie mercantili del neo liberismo, anche se la novità alla quale Marcial Maciel affida l’impegno di contenere il flusso popolare della teologia della liberazione, sceglie una definizione che suscita sospetti nel continente dove metà della gente resta sull’orlo della fame. I Legionari predicano la Teoria della Prosperità con una determinazione che sfiora il militarismo. Nel 1962 (racconto di un ex legionario uscito dall’ordine) nel cortile del collegio universitario di Anhaus, il più elegante e informatizzato del Messico – studi televisivi e postazioni radio uniche nel paese – gli studenti del seminario aprivano l’adunata del mattino alzando la mano destra per gridare felici “Heil Christus”. Brivido che riporta al delirio degli anni di Hitler. Ma ai Legionari serviva una scossa per contendere all’Opus Dei latina la formazione dei “leader dall’azione positiva”. Escono dal grembo dei Legionari ministri del governo del presidente messicano Fox (decaduto tre anni fa). Legionaria anche la moglie, Legionario Emilio Atzcarraga, proprietario di Televisa, la più importante holding in lingua spagnola del mondo. Legionaria la reginetta messicana della birra maritata con l’ambasciatore americano in Messico, compagno di scuola e amico del cuore dell’ex presidente Bush. Insomma, Lopez Obrador, candidato dalla sinistra alla poltrona di presidente, si era scontrato con ostacoli da scalare come montagne. E ha vinto l’avversario che i Legionari spingevano: Calderon, ombra di Fox. Intanto l’internazionale dei Legionari usciva da Città del Messico per aprire università e seminari in 18 paesi.
L’università romana accoglie i visitatori nei tavoli di un ristorante raffinato, mobili e quadri di antiquariato; pietanze e vini della grande cucina serviti da novizi in divisa con sottana. Qui è invecchiato fra gli onori Marcial Maciel. Fino alla “scomunica del Papa” i suoi Legionari non abbandonavano il sogno di vederlo fra i beati per pareggiare la concorrenza col Balaguer dell’Opus Dei.
Lo scontro più duro tra Opus Dei e Legionari si è consumato in Messico attorno al santuario della Vergine di Guadalupe, Lourdes dei due continenti. Dove miliardari di ogni America continuano ad assicurare l’eternità alle loro spoglie nei loculi scavati sotto l’altare, piccole tombe che costano più di una barca di sessanta metri o di un jet per dieci persone ma vengono considerate “buoni investimenti perché accorciano la strada verso il paradiso”. Alla fine l’Opus Dei ha vinto. E il santuario dei loculi d’oro è nelle mani del vincitore.

il Fatto 6.4.10
Rivelazioni
“Così proteggevano gli indesiderati”

“All'epoca la Chiesa funzionava così. Prestavamo servizio. Se ci veniva chiesto di accogliere un prete indesiderabile, lo accettavamo. Era così vent'anni fa. Ed era un errore”. Sono parole di Monsignor Jacques Gaillot, ex vescovo di Evreux (un centinaio di km a ovest di Parigi) destituito dal Vaticano nel 1995 per dichiarazioni troppo esplicite contro le leggi anti-immigrazione e inviato in Algeria, che racconta al quotidiano francese “Le Parisien” come fu costretto, nel 1987, ad accettare nella propria diocesi un prete canadese condannato per pedofilia. “Non avevo molta voglia di farlo esercitare nella mia diocesi”, ricorda Mons. Gaillot. Che dice anche di rimpiangere la decisione. “Non avrei mai dovuto accoglierlo. Non me lo avrebbero dovuto proporre – dichiara – non si sarebbe mai dovuto farlo curato”.

l’Unità 6.4.10
Pedofilia, per Sodano è «chiacchiericcio»
E il Vaticano ora dice «Campagna d’odio»
Mentre la stampa internazionale sottolinea il silenzio di Ratzinger, la Santa Sede lancia la teoria del complotto Ma i vescovi irlandesi e francesi ammettono: sbagliammo
di roberto Monteforte

L’armata cattolica: «Con il Pontefice i cardinali, i vescovi delle 3.000 circoscrizioni ecclesiastiche e 400 mila sacerdoti»

Papa Benedetto XVI tira dritto. Con il Regina Coeli recitato ieri a Castel Gandolfo ha concluso il Triduo pasquale senza fare mai alcun cenno allo scandalo dei preti pedofili. Ha parlato di cristiani perseguitati, di «esodo» dal male e dalla violenza, di giustizia, di speranza e di amore. Ma ha taciuto sulle violenze subite dai minori che hanno subito abusi da parte del clero. Malgrado le inchieste della stampa e le denunce delle stesse vittime che chiamano direttamente in causa il Vaticano e la gerarchia ecclesiastica, responsabile almeno di avere sottovalutato il fenomeno. Un silenzio, quella di Papa Ratzinger, sottolineato criticamente dalla stampa internazionale dal The Times, a El Pais, dal Figarò a Le Monde, dal Der Spieghel, al Guardian, al Washigton Post, al New York Times che parlano apertamente «di crisi della Chiesa».
Al contrario, vi è stato l’esplicito e contrito «mea culpa» di vescovi che hanno riconosciuta la colpa di aver privilegiato alla denuncia la preoccupazione «fuori luogo» come ha sottolineato lo stesso pontefice nella sua lettera ai cattolici d’Irlanda «per la difesa del buon nome della Chiesa». È il caso del primate d’Irlanda, il cardinale Sean Brady, mentre quello della Gran Bretagna e del Galles, l’arcivescovo Vincent Nichols ha ammesso i «gravi errori commessi dalla Chiesa», ha parlato di «pentimento», di «riconoscimento delle proprie colpe» e di «bisogno di perdono». Dello stesso tono le dichiarazioni del capo della Chiesa di Scozia, cardinale Keith ÒBrien. Denuncia il clima di sottovalutazione del problema e della troppo facile accoglienza per i preti sospettati di pedofilia registratosi in passato il vescovo francese, monsignor Jacques Gaillot. Le colpe, quindi, ci sono state. Non si tratta di volgare «chiacchiericcio», come lo ha definito Papa Ratzinger nell’omelia di Domenica delle palme, invitando i fedeli a non lasciarsi intimidire. Che non si riferisse soltanto alle logiche mondane e consumistiche, ma proprio alla campagna mediatica che lo chiama direttamente in causa, lo ha chiarito il cardinale Angelo Sodano.
«Il chiacchericcio non ci intimidirà» ha affermato, infatti, il decano del collegio cardinalizio nel suo messaggio di ringraziamento al pontefice, immediatamente prima la solenne benedizione Urbi et Orbi della domenica di Pasqua. Il porporato, in modo inusuale, ha voluto far sentire al Papa la vicinanza di tutta la Chiesa. «Con lei sono i cardinali suoi collaboratori della curia romana, con lei i vescovi che guidano le 3 mila circoscrizioni ecclesiastiche e quei 400 mila sacerdoti che servono generosamente il popolo di Dio che ha proseguito non si lascia impressionare dal chiacchiericcio». Parole che sono parse voler mostrare, di fronte all’incalzare delle critiche, la compattezza e la forza della Chiesa universale stretta attorno al suo pastore. Una prova di forza che avrebbe forse l’ambizione di cancellare tali accuse. Come se l’oggetto fossero la Chiesa intera e il Papa e non chi l’ha infangata.
Pare il cliché sperimentato da Silvio Berlusconi. Presentarsi come vittima di campagne ingiuste e ingiustificate per cercare di sfuggire il confronto sul merito dei fatti. Come se tutto fosse pretestuoso. Anche se nel merito, le accuse sono state confutate dal direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi che anche ieri ha ribadito «l’estraneità della sede di Roma dalle responsabilità concrete delle autorità locali», visto che la Chiesa «non è una multinazionale». Insistendo pure sulla strumentalità degli attacchi al Papa, fautore della massima «trasparenza». «Si riparino i danni degli abusi verificando caso per caso» afferma il cardinale Lajolo, che riconosce l’esigenza di assicurare giustizia alle vittime. Ma guai a chiamare in causa Benedetto XVI. «Si ha in odio contro la Chiesa e il Papa. Si vuole umiliarla a tutti i costi».

Repubblica 6.4.10
La stampa estera contro il Papa "A Pasqua silenzio sulla pedofilia"
Il Vaticano: "È solo una campagna diffamatoria"
Dal Pais a Le Monde: "Nessuna parola sulle violenze dei sacerdoti"
Pedofilia, il Papa criticato per il silenzio di Pasqua

ROMA - La stampa estera attacca Benedetto XVI per il silenzio che il Papa ha osservato sullo scandalo pedofilia durante le celebrazioni della Pasqua. E Die Zeit lancia nuove accuse verso il Vaticano: il settimanale tedesco ricostruisce una riunione tenutasi in San Pietro all´inizio del 1998 in cui il cardinale Tracisio Bertone, attuale segretario di Stato, avrebbe cercato di fermare il processo contro padre Murphy, sacerdote accusato di aver abusato di oltre 200 bambini negli Stati Uniti e morto nell´agosto del ´98.

CITTÀ DEL VATICANO - L´orgoglio cattolico in difesa del Papa si materializza - a sorpresa - prima della solenne Messa di Pasqua nella persona del cardinale decano Angelo Sodano. Vera e propria alzata di scudi per difendere il Pontefice dalle critiche per lo scandalo della pedofilia nella Chiesa.
Critiche apparse ancora ieri sui maggiori giornali europei e statunitensi, con qualche autorevole testata - come il Washington Post - che chiede persino le dimissioni di Benedetto XVI. «Santità, tutta la Chiesa le è vicino ed il popolo di Dio non si lascerà impressionare dal chiacchiericcio del momento», declama Sodano davanti a Benedetto XVI. Un fuori programma inedito destinato a sollevare anche interrogativi e polemiche là dove il cardinale Sodano dà l´impressione di voler derubricare lo scandalo della pedofilia tra i preti a un banale «chiacchiericcio». Come, in effetti, avviene ieri negli editoriali dei più importanti quotidiani internazionali che quasi all´unanimità mettono l´accento sui «silenzi» che il Pontefice ha osservato sui preti pedofili durante la Settimana Santa e nella omelia di Pasqua tenuta dalla Loggia della Benedizione della basilica vaticana. Come, ad esempio, scrivono El Pais in Spagna, il Times e il Guardian nel Regno Unito, Le Monde in Francia, che nelle edizioni di ieri hanno puntano il dito contro «le mancanze» di Benedetto XVI sulla pedofilia nella Chiesa. «Il Papa ha terminato la Settimana Santa così come l´aveva iniziata - scrive, tra l´altro, El Pais - , senza pronunciare una sola parola sui casi di abusi sui minori».
Il Times di Londra riporta invece le proteste che hanno segnato la messa pasquale nella cattedrale di Dublino, in Irlanda, con un gruppo di fedeli che ha tentato di portare fin sull´altare delle scarpe da bambino per ricordare le vittime degli abusi al grido di "vergogna" rivolto all´arcivescovo Diarmuid Martin. Negli Usa, critiche dal New York Times - che con Maureen Dowd ha suggerito polemicamente alla Chiesa di servirsi di «sessorcisti» più che di esorcisti - e dal Washington Post, che paragona la crisi del clero cattolico allo scandalo Watergate degli anni ‘70 che costrinse il presidente Nixon alle dimissioni. Attacchi anche dal settimanale tedesco Der Spiegel che accusa il Papa di aver «guastato i rapporti con ebrei e musulmani, con molti cattolici, e anche con i tedeschi che, al momento della sua elezione erano tanto fieri di lui».
È solo «un´eclatante campagna diffamatoria» che mira a colpire non i preti pedofili ma direttamente il Papa», controbatte la Radio Vaticana, che cita un rapporto governativo Usa del 2008 secondo cui i sacerdoti cattolici coinvolti in casi di abusi sarebbero meno dello 0,03%. Mentre oltre il 64 per cento dei casi di abusi sono commessi da genitori, parenti o conviventi, dunque all´interno delle relazioni familiari. «La Chiesa - ricorda la nota trasmessa nel radiogiornale internazionale - difende la giustizia, e la prima giustizia è il diritto alla vita, difende la famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna».
Così c´è chi vede nelle critiche l´obiettivo di escludere la Chiesa dal dibattito pubblico su temi cruciali; per non parlare poi di «avvocati senza scrupoli che tentano di mettere le risorse del Vaticano alla portata dei tribunali».
Papa Ratzinger, intanto, tornato a parlare in pubblico ieri, lunedì di Pasquetta, da Castel Gandolfo ha ricordato ai sacerdoti di essere «come gli angeli». Una esortazione fatta forse per indicare, indirettamente, la strada da seguire per «pulire» la Chiesa da quella parte del clero che si è macchiata di peccati imperdonabili come le violenze sessuali su minori.
(o. l. r.)

Repubblica 6.4.10
Il cardinale Erranz: "Per Benedetto XVI il no all'aborto è un valore irrinunciabile"
"Ratzinger preso di mira perché difende la vita"
Il Pontefice sta offrendo al mondo intero un grande esempio di fermezza nella ricerca della verità
di Orazio La Rocca

CITTÀ DEL VATICANO - «C´è una profonda continuità tra i pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Una continuità nel nome di Cristo e della sua verità evangelica che non viene meno nemmeno nei momenti di grande difficoltà come quelli attuali, con la Chiesa ed il Papa presi di mira, anche dai mass media internazionali, per i preti pedofili o per la difesa dei valori etici, a partire dal "no" all´aborto». La difficile Pasqua di papa Ratzinger secondo il cardinale spagnolo Julian Herranz, presidente della Commissione disciplinare della Santa Sede, ex «ministro» della Giustizia vaticano, vicino all´Opus Dei. Domenica mattina, sul sagrato di piazza San Pietro, anche Herranz era insieme agli altri porporati che si sono uniti al decano del collegio cardinalizio Angelo Sodano per esprimere la solidarietà di «tutta la Chiesa» a Benedetto XVI per gli attacchi che gli stanno arrivando da tutto il mondo a causa dei preti pedofili. «Ma io ora non voglio continuare a parlare di queste cose - puntualizza Herranz - perché lo hanno già fatto il Santo Padre e il suo portavoce, padre Federico Lombardi. Siamo tutti vicini al Papa in questo momento ed ogni altra parola può apparire inutile».
Eminenza, è comunque innegabile che Benedetto XVI e la Chiesa tutta hanno vissuto una delle Pasque più difficili degli ultimi anni.
«Certamente è stata una Settimana Santa molto sofferta. Ma il Santo Padre l´ha vissuta con grande fermezza, sorretto da una fede fuori dal comune. Ma al di là delle tensioni, mi piace sottolineare la coincidenza di queste festività pasquali con il quinto anniversario della morte di Giovanni Paolo II. Sarà stato un caso, ma io ci ho visto il sigillo della continuità che c´è tra Wojtyla e Ratzinger».
Quali sarebbero i segni di questa continuità?
«Prima di tutto, entrambi i pontefici hanno impostato i loro pontificati nel nome di Cristo e della verità evangelica. Giovanni Paolo II lo ha fatto per circa 27 anni, avendo a fianco proprio il cardinale Ratzinger, sulla scia di quanto esortò all´inizio del papato dicendo "Non abbiate paura, aprite, spalancate le porte a Cristo!". Wojtyla lo ha predicato con coerenza fino alla fine, in ogni angolo della terra, incurante delle incomprensioni, delle mode correnti e delle ideologie anticristiane. Benedetto XVI sta seguendo la stessa strada con altrettanta fermezza».
Una strada, però, lastricata da ostacoli nuovi. Basti pensare allo scandalo della pedofilia.
«Ogni pontificato ha le sue difficoltà. Papa Wojtyla vi fece fronte con forza e coerenza nel nome di Cristo e della verità. Così pure l´attuale Pontefice costantemente impegnato a diffondere la conoscenza di Cristo al mondo con la sua sapienza teologica, con le sue omelie e con i suoi libri, l´ultimo dei quali dedicato alla passione, morte e resurrezione di Gesù, che dovrebbe essere pubblicato quanto prima. Quanto alla scandalo della pedofilia da parte di alcuni sacerdoti che hanno tradito la loro promessa sacerdotale, è innegabile che per Benedetto XVI si tratta di una sofferenza indicibile, atroce, profonda. Ma proprio di fronte a questa sofferenza, il Papa sta offrendo al mondo intero un grande esempio di fermezza e coerenza nella ricerca della verità».
Ma lei, in concreto, cosa intende per verità?
«È Cristo che nel Vangelo ci insegna che la "verità vi farà liberi". E Benedetto XVI ce lo ricorda continuamente, avvertendoci, ad esempio, che il cristiano, senza mai cadere nella dittatura del relativismo, deve essere sempre fedele alle verità evangeliche che quando vengono tradotte in azioni sociali significano, tra l´altro, sempre difesa della vita fin dal primo concepimento, col conseguente "no" all´aborto; difesa della dignità della persona umana, specialmente quella più povera ed indifesa; promozione della famiglia fondata sul matrimonio da un uomo e una donna; educazione all´amore da non ridurre alla sola pratica sessuale; ma anche dialogo tra le religioni e le culture; "no" alla guerra e a qualsiasi forma di ingiustizia sociale. Papa Ratzinger ce ne parla instancabilmente, anche nei momenti di profonda tristezza».

Repubblica 6.4.10
Rivelazioni su "Die Zeit" con il verbale di una riunione segreta in Vaticano nel 1998
Dalla Germania nuove accuse "Bertone coprì gli abusi di Murphy"
di Andrea Tarquini

Un vertice della Congregazione per la dottrina della fede per mettere a tacere le voci
Venne sottolineata la difficoltà "a raccogliere prove senza ingrandire lo scandalo"

BERLINO - I media tedeschi lanciano nuove, gravi accuse al cardinale Tarcisio Bertone. Zeit online, l´edizione web dell´autorevole settimanale di Amburgo Die Zeit, sostiene di aver ricevuto dai legali delle vittime di padre Murphy (il sacerdote che abusò di circa 200 bambini handicappati negli Usa) un protocollo segreto su una riunione confidenziale alla Congregazione per la Dottrina della Fede, che si sarebbe tenuta in Vaticano il 30 maggio 1998. Il protocollo, scrive Zeit online, proverebbe che Bertone voleva ad ogni costo frenare per evitare di ingigantire lo scandalo.
Secondo quanto già si sapeva dal New York Times, padre Murphy chiese di poter finire i suoi giorni in pace da sacerdote. Morì il 21 agosto 1998. Il protocollo vaticano che Zeit online sostiene di avere in possesso (il testo non è mostrato nel sito) riferisce, sempre secondo la testata tedesca, di una riunione del 30 maggio 1998. Padre Murphy quindi era ancora vivo.
Bertone, allora segretario della Congregazione della Dottrina della fede, secondo le citazioni del protocollo messe in rete ieri da Zeit online «chiese l´attenzione ad alcuni problemi che un procedimento, come un processo di diritto canonico (a carico di padre Murphy, si deduce, ndr) aprirebbe». Egli inoltre avvertì i vescovi venuti dagli Usa per discutere del caso delle «immanenti difficoltà di esaminare un simile delitto in un procedimento che debba svolgersi nel più assoluto riserbo». E sottolineò anche «la difficoltà di trovare testimoni e raccogliere prove, senza ingrandire lo scandalo». Inoltre Bertone, continua il protocollo della riunione in Vaticano ricordò «gli ampi diritti della Difesa nel Diritto degli Stati Uniti, e le difficoltà che emergerebbero da un procedimento sul caso».
Il protocollo si conclude con un appunto sulla reazione dell´arcivescovo di Milwaukee, Rembert Weakland, che come superiore di Murphy aveva chiesto la sospensione di quest´ultimo dal sacerdozio. «Prima della conclusione della riunione monsignor Weakland ha rappresentato le difficoltà che egli avrebbe incontrato nello spiegare queste decisioni (cioè in sostanza la richiesta di non procedere) alla comunità degli handicappati e dei privi dell´udito».
In un appunto interno dell´arcidiocesi di Milwaukee, scritto secondo Zeit online dopo il vertice segreto di crisi in Vaticano, si legge: «E´ chiaro che la Congregazione non ci incoraggia a procedere con una formale sospensione…e inoltre siamo stati avvertiti delle difficoltà». Zeit online sottolinea poi che Bertone, e non già l´allora cardinale Ratzinger, apparirebbe dai documenti come il responsabile del silenzio su Murphy. Giorni fa il cardinale di Vienna Schoenborn aveva detto, difendendo il Papa, che egli era sempre stato per la tolleranza zero contro abusi e pedofilia, ma quando guidava la Congregazione, sul tema fu messo in minoranza.

Repubblica 6.4.10
Parla Timothy Shriver, opinionista del Washington Post
"Uno scandalo enorme mi ricorda il Watergate"
Se la Chiesa non confessa le proprie colpe, noi cattolici dovremo cercare altrove una guida spirituale
di Alix van Buren

«Se questa Chiesa, con la sua attuale gerarchia, col suo Papa e i suoi vescovi, non saprà confessare la Verità; se continuerà a nascondere le proprie colpe, come Nixon lo scandalo Watergate; se si dimostrerà più votata al potere che a Dio, allora noi cattolici dovremo cercare altrove una guida spirituale». Sono parole di piombo quelle che scaglia Timothy Shriver, erede dei Kennedy, il clan più cattolico d´America, figlio di Eunice, di cui ha ripreso la missione: battersi a favore dei "diversamente abili" in qualità di presidente delle Special Olympics fondate dalla madre. La sua invettiva ieri è apparsa sotto forma di un appello sul Washington Post. E subito ha avuto risonanza mondiale.
Timothy Shriver, lei è cresciuto all´interno di un bastione del cattolicesimo, legato alla Chiesa d´Irlanda. Eppure uno dei suoi fendenti più duri è riservato al Cardinale Arcivescovo d´Irlanda. Perché?
«Perché lui, come molti altri vescovi nel mondo, non solo non è intervenuto contro gli abusi, ma a quanto pare si è prodigato nell´insabbiare lo scandalo. E la pista non si ferma lì: sembra condurre più in alto, allo stesso Papa, che da arcivescovo di Monaco forse ha avuto una parte nel rinviare il problema senza affrontarlo. Tutto questo mi ricorda lo scandalo Watergate».
Lei traccia, nientemeno, un parallelo fra il Vaticano e l´Amministrazione Nixon?
«Le similitudini sono molte. Ciò che sembrava un´infrazione di poco conto, l´irruzione di un paio di ladruncoli nelle stanze del Watergate, finì per scoperchiare la corruzione ai più alti gradi del potere. Risultò coinvolto il presidente, costretto alle dimissioni».
Lei vuole dire che Ratzinger dovrebbe dimettersi?
«No, non dico questo. La vita del Papa è segnata dalla devozione, dobbiamo confidare che lo Spirito Santo operi attraverso di lui. Però lui deve dimostrare, con urgenza, la leadership spirituale e morale cui noi cattolici agogniamo».
E se non lo facesse?
«Allora dovremo rivolgerci altrove. Il mondo è pieno di uomini e donne santi, leader monastici, laici, dedicati alla missione di Dio: leggeremo i loro libri, ascolteremo le loro parole, per tornare alla fede che noi professiamo, che è fede in Dio, e non in una gerarchia che ha perso credibilità, e pare più votata a conservare il potere che a vivere nello spirito del Vangelo».

Repubblica 6.4.10
La Chiesa e quel paragone impossibile
risponde Corrado Augias

Signor Augias, mi aspettavo una dichiarazione di colpa e una richiesta di perdono per questa vergogna. La Chiesa si proclama seguace di quel Gesù che amava i bambini («lasciate che vengano a me») ed era così duro con chi li avesse scandalizzati da augurarsi che si gettasse a mare con una macina al collo. Invece la Chiesa e il papa sono stati indicati come vittime di un «attacco violento» pari all'antisemitismo. Il papa come gli Ebrei al tempo del nazismo, paragone offensivo per i milioni di Ebrei sterminati, catturati a centinaia anche sotto le finestre del papa e mai più tornati. Non basta. Il braccio secolare, nelle vesti del ministro Alfano, invia gli ispettori per ammonire un magistrato che ha detto, come tutti sanno, che la Chiesa non ha mai denunciato i colpevoli, che ha difeso dallo scandalo non i bambini, ma l'istituzione, trasferendo i colpevoli. Se queste sono le reazioni della Chiesa sotto i riflettori del mondo, si può immaginare quale speranza avessero di chiedere giustizia i bambini abusati e le loro famiglie al tempo dell'omertà.
Ezio Pelino pelinoezio@tiscali. it

L' uscita del predicatore del papa è stata infelice anche se poi frate Cantalamessa ha cercato di correggere il tiro, di smentire o attenuare le sue parole, s'è rammaricato, ha chiesto scusa. Tra l'altro precisando che il papa non conosceva ciò che avrebbe detto addossandosi dunque per intero la responsabilità della sua perorazione. E' possibile che il papa non sapesse. E' noto però che il testo della predica era stato distribuito in varie copie per le traduzioni in altre lingue e che dunque un certo numero di persone ne erano a conoscenza. Segno che il paragone tra "attacchi al papa" e Shoah non ha colpito nessuno il che è un brutto segnale. Le infelici espressioni di Cantalamessa non sarebbero passate inosservate in una diversa atmosfera, avrebbero comunque avuto un significato meno pesante se l'attuale pontefice non avesse attenuato la linea amichevole e soprattutto paritaria sul piano teologico che due suoi predecessori (Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II) hanno tenuto verso l'ebraismo. Ha addolorato per esempio che nella liturgia pasquale Ratzinger abbia voluto reintrodurre la formula tridentina per «la conversione degli Ebrei», altro gesto che non facilita le cose. Di espressioni infelici in questa storia ce ne sono state anche altre. Durante i riti pasquali il cardinale Sodano ha detto che «Il popolo di Dio non si lascia impressionare dal chiacchiericcio del momento». La Shoah e il chiacchiericcio, due estremi entrambi sbagliati. Mi ha scritto Carla Forcolin (carla. forcolin@lagabbianella. org) : « Non sarebbe stato più opportuno recitare il «Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa» e chiedere perdono a Dio?». Infatti.

l’Unità 6.4.10
Il coraggio della tenacia
S’incontrano le donne del Mediterraneo
Convegno a Essaouira, in Marocco. Una tappa della costruzione di connessioni al femminile. Tra loro Ségolène Royal e Nouza Skulli ministro del Marocco. Ce lo narra l’autrice de «Il corpo delle donne»
di Lorella Zanardo

Ringrazio Fathia Bennis, organizzatrice di questo convegno, e il Re Mohammed VI per la visione luminosa che ha delle donne». Inzio così la presentazione «Per una Nuova Rappresentazione delle donne nei Media» al congresso “Women’s Tribune” a Essaouira, Marocco, che promuove l’incontro di donne per lo più attive politicamente, sulle due sponde del Mediterraneo.
La presenza marocchina e francese è cospicua. Ci sono anche molte donne provenienti da altri Stati africani. Oltre a me l’unica italiana è Serena Romano, presidente di Corrente Rosa e promotrice di efficaci connessioni tra donne.
Nouza Skalli, Ministra dello Sviluppo Sociale, della Famiglia e della solidarietà è una delle cinque ministre marocchine tutte con portafoglio. Nel giro di pochissimi anni, ci racconta, il numero delle donne nelle amministrazioni in Marocco è aumentato in maniera vertiginoso passando da 127 a 3428, cambiando radicalmente il modo di fare politica e incrementando azioni di economia agevolata per le donne e programmi di microcredito per lo sviluppo di attività commerciali. Qui le quote sono state adottate con successo «per avere più donne in poco tempo e avere così più fiducia in una democrazia realmente partecipativa».
Colpisce la tenacia di Skalli e l’entusiasmo. Si direbbe da noi che «non sembra un politico» intendendo che ha conservato una freschezza nella comunicazione, una capacità di entrare in relazione tipica di chi sta sul territorio tutto l’anno e si occupa di aprire scuole in aggiunta alle oltre 350 unità di accoglienza per proteggere chi subisce violenze sessuali.
Nata a Dakar, ma cresciuta in Francia, Ségolène Royal, 3 volte Ministra, più volte Deputata, ex consigliera di Mitterand , è a mio avviso, la migliore rappresentante di quella “nouvelle vague” di donne di potere che mantengono un fortissimo legame con il proprio Femminile. Non nasconde il suo evidente fascino né lo ostenta. Sorride e sta al centro dell’attenzione con grande naturalezza senza ricorrere mai a modelli di comportamento maschili. Ma la cosa che colpisce di più è che Ségolène Royal ha un corpo consapevole. Come Barack Obama comunica non dimenticando che la comunicazione ha nella parola solo uno dei suoi mezzi di trasmissione; e questo le dà un gran vantaggio verso le giovani che, come sappiamo, chiedono a gran voce di potere esprimersi anche e soprattutto con il proprio corpo. «I media non mi perdonavamo mai un errore durante la campagna presidenziale, cosa che invece facevano regolarmente con Sarkozy»: ecco perché Royal è diventata come Obama una grande e sapiente utilizzatrice della rete; il suo www.desirdavenir.org è un interessante think tank per molti progetti al femminile. E ci conquista quando al giornalista che le chiede perché all’interno del partito la lotta intorno a lei è stata più dura che verso altre donne, risponde. «Forse perché sono diversa».
Diversa mi sento anch’io quando salgo sul palco. Poco prima ho deciso di mostrare solo alcuni spezzoni del mio documentario. Non voglio offendere la sensibilità delle donne, non solo di quelle musulmane, che d’altronde viaggiano e sanno bene cosa viene mandato in onda all’estero. Sono però stanca di sentirmi compatita, senza nemmeno potere dire che la situazione dei media da noi evolverà.
Scelgo con il tecnico i brani da mandare in onda. È giovane, simpatico. Io sono a disagio per le immagini che scorrono davanti al pc. Cerco di spiegargli perché la tv da noi è così. Sorride: «Non si preoccupi, lo sappiamo com’è la tv italiana.... è quella delle donne nude. Lo sanno tutti».
Sì, lo sanno tutti. Tunisine, marocchine, algerine, e tutti gli ospiti francesi, conduttori di importanti tg, scrittrici, giornalisti, prefetti: tutti conoscono la nostra tv e l’uso del corpo della donna che ne fa. Le immagini che scorrono sullo schermo sono rivoltanti e la reazione è di deplorazione senza appello da tutte e di tutti.
Sarebbe interessante che in uno dei tanti programmi di approfondimento che vanno in onda da noi si invitassero solo ed esclusivamente ospiti stranieri a parlare dell’uso dell’immagine della donna nella nostra tv: sarebbe finalmente e definitivamente metterci di fronte ad una realtà sgradevole che molti tentano ancora di negare, forse per non ammettere di avere sottovalutato i danni enormi i cui effetti cominciamo a vedere.
E si spegnerebbero finalmente anche le poche sterili discussioni di intellettuali in disarmo che discettano intorno al tema se la tv abbia o no influenza sui giovani, se questa mortificazione dei corpi femminili crei o noi dei modelli, se cio’ che vediamo in tv sia o no uno specchio del paese: come ha ben riassunto una giornalista alla fine della proiezione: «Al di là di tutto, questa tv è bruttissima, cos’altro c’è da dire?».
Dico che si può reagire, che non bisogna abbattersi, che ci vuole perseveranza. E che anche per noi «tout commence a l’école», tutti i cambiamenti duraturi cominciano a scuola come raccontano donne coraggiose dall’Etiopia e dalla Colombia e come racconto anch’io portando l’esperienza di Nuovi Occhi per la tv, il progetto di formazione per le scuole avviato con successo e che consente agli studenti di guardare la tv con uno sguardo consapevole.
«Bisogna avere il coraggio dei tempi lunghi, di non mollare. Lavorare per chi è bambino oggi», mi dice stringendomi le mani Maha Akeel, giornalista dell’Arabia Saudita che lotta ogni giorno per tutelare i suoi pochi diritti.

Repubblica 6.4.10
Colleghi scienziati non sparate su Darwin
Perché non c’è biologia senza selezione naturale
di Luigi e Luca Cavalli-Sforza

Il genetista replica alle critiche che Piattelli Palmarini ha mosso al padre dell´evoluzione
Nonostante certi divulgatori, non si può negare l´importanza di un meccanismo determinante per l´adattamento
Sono il primo a dire che esistono anche altri fattori e l´ho anche scritto in uno studio sul Dna
La triade Dennett, Dawkins e Pinker non è sacra: spesso fa affermazioni molto irritanti

Caro Massimo Piattelli Palmarini, leggo la tua intervista comparsa su Repubblica il 29 marzo e sono un po´ meravigliato, perché mi è difficile accettare varie tue affermazioni. Ti conosco come persona molto intelligente, e colta (ma forse meno sulla genetica, che è la mia materia). Ci sono alcune tue affermazioni con le quali non posso andare d´accordo e mi sento in dovere di dirlo. Esempi: «i geni sono quasi sempre gli stessi da centinaia di milioni di anni» (una scoperta attribuita all´evo-devo). «La selezione non è il motore della speciazione, della creazione di specie nuove» e inoltre «Non spiega l´evoluzione biologica». Devo aggiungere che la "sacra triade" che tu nomini: Daniel Dennett, Richard Dawkins, Steven Pinker non è affatto sacra, e sono d´accordo che può essere irritante. Si tratta di divulgatori più attivi di molti altri che hanno senza dubbio anche la tendenza a fare affermazioni estreme, un difetto che non è raro tra i divulgatori che vogliono, fortemente vogliono essere molto letti. Ma condannare Darwin così violentemente non è giusto. Posso condividere la tua irritazione per l´invasione della psicologia e sociologia da parte di quello che tu chiami neodarwinismo ma a me sembra vi sia una confusione.

Gli autori sono piuttosto responsabili di una valutazione grossolanamente erronea del contributo relativo di fattori genetici e ambientali alla determinazione dei comportamenti umani. Darwin non c´entra per niente; tutt´al più è stato molto moderno tentando di dare una spiegazione di come qualche comportamento appreso possa divenire biologicamente ereditario, un argomento tuttora aperto e considerato nella evo-devo. Comunque, la selezione naturale favorisce anche quegli adattamenti che non sono trasmessi geneticamente ma per via culturale. E la difficoltà di accettare la tua critica come essa è formulata nella intervista è che l´unico fattore evolutivo che dirige l´evoluzione verso un maggiore adattamento all´ambiente, e pertanto favorisce la crescita numerica relativa di certi tipi genetici e certe specie, è proprio la selezione naturale. Non c´è biologia senza selezione naturale, non c´è evoluzione senza selezione naturale. Il merito di aver capito che la forza di adattamento è più importante, e più necessaria per generare gli esseri viventi e la loro evoluzione non può essere negato a Darwin (e a Wallace, che ebbe la stessa idea allo stesso tempo).
Sono il primo a dire che vi sono altri fattori di evoluzione. Anzi, in uno studio del Dna di oltre cinquanta popolazioni umane aborigene pubblicato con altri colleghi nel 2005 (sulla rivista dell´Accademia Nazionale delle scienze Usa), abbiamo scritto che la selezione naturale è responsabile di meno del 20% delle differenze di Dna osservate fra le popolazioni della nostra specie. Degli altri fattori responsabili dell´80% o più, i più importanti sono il fatto che le mutazioni genetiche sono casuali (e non dirette necessariamente a migliorare l´adattamento); le migrazioni di tutti i tipi; e i fattori statistici che determinano variazioni di ordine casuale nelle frequenze dei tipi genetici e chiamiamo deriva genetica o drift. Ma nessuno di questi fattori sono quelli che strettamente dirigono l´adattamento all´ambiente di vita, anche se sono importanti nel determinare le variazioni fra specie (almeno a livello di Dna). Per rendercene meglio conto è necessario chiarire quello che misuriamo quando parliamo di selezione naturale e quello che chiamiamo "adattamento" nell´evoluzione. Può sembrare automatico che un individuo forte, sano e resistente alle malattie sia più "adatto all´ambiente" di un tipo deboluccio e malaticcio. Ma sul piano evolutivo non basta, bisogna che possa avere dei figli; se è sterile il suo buon adattamento fisiologico e la muscolosità non gli permettono di contribuire alla prossima generazione. In realtà l´adattamento di un individuo (o specie) che conta nell´evoluzione è la capacità relativa di lasciare discendenti che portano i caratteri che lo rendono più "adatto all´ambiente" rispetto agli altri membri della popolazione. La misura della "fitness darwiniana", cioè dell´adattamento dei tipi genetici che compongono una popolazione, permette di prevedere come essa evolverà in termini di aumento o diminuzione degli individui che la compongono a confronto con altre popolazioni e specie, ed anche in termini della sua struttura in termini di tipi genetici. La si calcola per intero in base a due misure di natura demografica: la probabilità di sopravvivere fino alle età di avere figli, e la fecondità che determina il numero di figli, cui trasmettere i caratteri ereditari che rendono l´individuo più adatto all´ambiente. Queste quantità si possono misurare, determinano la fitness dei tipi genetici, e in base ad essa si può calcolare la velocità dell´evoluzione di tipi genetici o di specie.
È difficile accettare altre affermazioni, quale quella che i geni sono quasi eguali in tutti gli organismi e non sono cambiati – nei quattro o cinque miliardi di anni della comparsa di esseri viventi. Tutti gli esseri viventi hanno Dna (e un altro acido nucleico chiamato Rna più antico ma molto simile al Dna) che è organizzato in "geni", segmenti di Dna ciascuno dei quali ha la capacità di generare una sostanza chimica complessa, una "proteina". Una proteina può avere funzioni meccaniche, o produrre energia, o effettuare una specifica trasformazione chimica necessarie per fare cibo partendo direttamente dalla materia inanimata che ci circonda, o mangiando altri esseri viventi. Tutto ciò sembrerà molto misterioso ma non lo è più. Qualunque essere vivente è un organismo di qualche complessità, dai più semplici come i batteri a noi che siamo migliaia di volte più grossi in termini di Dna e impieghiamo molto più tempo a fare un individuo come noi, che ha una caratteristica unica: è un organismo complesso capace di produrre altri individui estremamente simili a sé stesso. Questa è l´auto-riproduzione, la proprietà che definisce la vita. Può farlo perché ha un programma molto dettagliato, il Dna, che contiene istruzioni specifiche per generare quanto è necessario, in pratica creare il macchinario fatto di Rna e proteine per creare cellule e individui nuovi. Questo macchinario genera tutte le proteine capaci di soddisfare ai numerosi compiti che permettono di mantenere e creare nuovi individui, alla stregua di operai specializzati ciascuno dei quali fa uno dei tanti mestieri necessari per generare e mantenere un essere vivente, compreso anche quello di fare copie del Dna che lo ha generato e passarle ai figli per generare altri individui come sé stesso.
Naturalmente organismi più complessi come noi o altri mammiferi abbiamo bisogno di fare molte più cose che i batteri, come mostra anche la differenza del numero di geni. Ma vi sono molte attività in comune, come quella fondamentale dell´auto-riproduzione, che richiede funzioni molto speciali e comuni a tutti gli essere viventi, come duplicare il Dna e fare le proteine. Non c´è perciò da stupirsi se molti geni sono comuni a batteri, animali e piante, almeno come funzione, e inevitabilmente non possono essere cambiati troppo grossolanamente nella loro struttura, almeno nelle parti fondamentali per la loro funzione, che ci permette di riconoscere la lontana origine comune. Qui c´entra di nuovo la selezione naturale. Se consideriamo una particolare proteina molto importante, come ad esempio l´emoglobina, responsabile del colore rosso del nostro sangue, che esiste in moltissimi animali, è praticamente identica in quasi tutti gli individui, e molto simile in specie assai diverse. Perché si è conservata così bene? Perché è troppo importante: come tutte le proteine è fatta di molte unità, gli aminoacidi, quasi trecento nel caso dell´emoglobina. Ve ne sono molti in posizioni critiche: se cambiano per mutazione genetica, cioè un errore di copia nel produrre il Dna finito nello spermatozoo o nella cellula ovo che ha dato origine a un individuo, il portatore della mutazione nell´emoglobina può avere un´anemia grave, e quindi la mutazione viene eliminata (dalla selezione naturale) col suo portatore, che non potrà diffonderla specie se muore presto. La genetica medica ha scoperto moltissime malattie genetiche gravi, tutte rare o rarissime perché la selezione naturale ne mantiene bassa la frequenza. Il trenta percento circa degli aborti nei primi tre mesi sono dovuti a mutazioni gravi: non è vero che la selezione non fa nulla o quasi. Quando conosceremo meglio il Dna degli scimpanzé e altri Primati potremo capire quali sono le mutazioni che sono state selezionate per darci la bipedalità, il linguaggio, e le altre differenze tra la nostra specie e le scimmie. Anche se Lewontin ha detto che l´acquisizione delle ali negli uccelli è probabilmente passata per uno stadio intermedio che non aveva rapporti con il volo non credo possa pensare che la selezione naturale ha poca, o addirittura nessuna importanza nel creare differenze tra specie. Ma ha pensato che l´idea che esista un fenomeno del genere fosse abbastanza interessante e comune da dargli un nome (exaptation). Comunque, sono altri fenomeni di selezione naturale molto importanti che hanno creato non una specie diversa, ma addirittura la classe degli "Uccelli".
Non vi sono studi su altre specie come il nostro citato sopra sull´effetto della selezione naturale nel creare differenze a livello di Dna popolazioni rappresentative della specie. Vi sono due ordini di motivi che fanno pensare che altre specie mostreranno assai maggiore diversità fra popolazioni. La prima è che la nostra dispersione sul globo a partire da una piccola popolazione dell´Africa orientale è stata particolarmente rapida (meno di 60.000 anni) e l´evoluzione biologica è molto lenta: non c´è stato il tempo di creare grandi differenze. La seconda è che la nostra specie non aspetta le mutazioni genetiche per adattarsi: si adatta per meccanismi culturali. Quando 30.000 anni fa i primi uomini moderni sono arrivati in regioni Siberiane molto fredde, non avevano bisogno di aspettare il molto tempo necessario per farsi ricrescere il pelo: avevano ago e filo, e si sono tagliati e cuciti pelli di animali per coprirsi dal freddo. E hanno costruito vari tipi di case con pareti spesse, molto resistenti al freddo. Questa è evoluzione culturale, e siamo la specie che l´ha usata di più ad adattarsi nel modo più rapido e soddisfacente per i nostri gusti.
Fenomeni simili avvengono anche in linguistica. I cambiamenti subiti dalle parole che vengono accettati e trasmessi sono come mutazioni genetiche. La maggioranza di questi cambiamenti sono anch´essi casuali ma qualche volta hanno vantaggi che fanno preferire la parola nuova a quella vecchia, per esempio perché è più breve, semplice o chiara. C´è un esempio di mutazione linguistica dovuta a un errore casuale che sembra addirittura vantaggiosa: un errore di stampa in una poesia di Ronsard ha migliorato la qualità poetica di un verso. Nella poesia per la morte di una bambina appena nata, figlia di un amico, di nome Roselle, nella stampa è stata sostituita la parola Roselle come segue: «et, rose, elle a vécu comme vivent les roses, l´espace d´un matin».
Ci sono poi parole come i cognomi che si trasmettono un po´ come cromosomi (letteralmente come il cromosoma Y che determina il sesso maschile). Il cognome Piattelli Palmarini è un po´ lungo e può essere che qualcuno dei tuoi discendenti decida di semplificarlo in Piattelli, e come tale sarà ereditato (in biologia questo tipo di mutazione si chiama delezione). Se il discendente è proprio deciso può iniziare la lunga procedura burocratica che lo rende legale. Dopo molte generazioni potrebbe restare solo la forma semplificata. Anche a me, naturalmente, potrebbe succedere lo stesso.

Repubblica 6.4.10
Ru486, il silenzio dei camici bianchi
di Guglielmo Pepe

Che federalismo è questo se due presidenti regionali appena eletti dicono di non volere applicare le norme sulla RU486? D´accordo, il piemontese Cota e il veneto Zaia hanno poi fatto marcia indietro. Intanto però la provocazione ha raggiunto l´obiettivo: intimidire, soprattutto chi sceglie di abortire. Ma verso le donne che prendono questa dolorosa decisione è stata anche una canagliata. I due non hanno solo sbagliato tempi e modi per esprimere dissenso sulla pillola: sono stati senza umanità. Non sanno che l´aborto è una ferita dell´anima che resta aperta per sempre? (Zaia da ministro dell´agricoltura era più sensibile con gli animali: memorabili le sue foto con in braccio una capretta). Adesso cosa accadrà? E´ vero che il ministro Fazio e altri esponenti della maggioranza hanno detto che va rispettata la legge 194. E dalla società civile e politica si sono levate tante voci indignate. Tuttavia il ricorso alla RU486 sarà problematico. In particolare se i medici non si faranno sentire. Finora, tranne la reazione del presidente dell´Ordine, Bianco, si registra un silenzio imbarazzante. Eppure come parlano i camici bianchi quando si tratta di soldi, carriera, potere...
g.peperepubblica.it

Repubblica 6.4.10
Perché non c'è stato l'effetto Sarkozy
di Marc Lazar

Le elezioni italiane, a meno di una settimana dal secondo turno di quelle francesi, aveva indotto i commentatori a tentare accostamenti tra questi due scrutini regionali. L´intento era di verificare se in anche Italia – fermo restando il valore relativo di ogni confronto – fossero riscontrabili i tre dati salienti del voto francese: bassa affluenza alle urne, voto nettamente punitivo per il presidente Sarkozy, ampia vittoria della sinistra. I dirigenti del Pd speravano che il vento di sinistra d´Oltralpe soffiasse anche sulla Penisola; e la stessa cosa temevano i responsabili del centro-destra.
L´osservazione dei risultati del voto regionale italiano e di quello francese presenta un grande interesse, in quanto pone in evidenza da un lato un punto in comune, e dall´altro due differenze di rilievo.
La Francia e l´Italia hanno registrato un forte astensionismo, ancorché modulato dalla storia e dalle tradizioni elettorali dei due Paesi. In Francia la percentuale degli astenuti ha raggiunto il 53% al primo e il 48,7% al secondo turno, mentre in Italia è stata del 35,9%. Questi dati, oltre a dimostrare che molti elettori non si riconoscono nei partiti in lizza, sono anche il segno di una crisi del rapporto di fiducia tra i cittadini e i loro rappresentanti. In questo campo non si può parlare né di «eccezione francese» né di «anomalia italiana», bensì di una nuova espressione del profondo disagio politico comune a entrambi i Paesi, al di là delle differenze storiche e istituzionali.
D´altra parte, in Italia non c´è stato, in occasione di queste elezioni intermedie, l´effetto Sarkozy, o in altri termini, un voto ostile alla squadra al potere, e in primis a chi lo incarna e lo dirige. Come si spiega questa divergenza? In primo luogo, il centro-destra non deve il suo successo al Pdl (i cui elettori sono in calo), bensì alla Lega Nord, che ha ottenuto un raddoppio rispetto alle regionali del 2005, conquistando oltre 1.350.000 nuovi voti. Di fatto la Lega, ingombrante alleata di Berlusconi, esercita una funzione sorprendente: quella di canalizzare all´interno stesso della coalizione di centro-destra un voto critico rispetto alla politica del governo al quale è associata. In Francia il partito del presidente Sarkozy, l´Ump (Unione per un Movimento Popolare) che ingloba il grosso delle sensibilità di destra, si ritrova solo e senza una riserva di voti; non può allearsi col Fronte Nazionale, il partito di estrema destra che attira gli elettori desiderosi di esprimere una protesta oggi probabilmente difficile da ricuperare - a differenza del 2007 – per Nicolas Sarkozy. In secondo luogo, Silvio Berlusconi si è impegnato nella campagna elettorale, occupando impudentemente la scena mediatica e trasformando lo scrutinio in un plebiscito personale, a differenza del presidente francese. Sarkozy ha rinunciato comportarsi in maniera analoga non solo in quanto sa di essere attualmente impopolare, ma anche perché un presidente della V Repubblica non può impegnarsi in una consultazione regionale, che per definizione ha dunque una valenza solo regionale.
Il Cavaliere si è nuovamente dimostrato capace di mobilitare una parte del suo elettorato (anche se l´astensionismo ha penalizzato il suo partito) e può legittimamente proclamarsi vincitore di queste elezioni. Il suo successo rilancia l´interrogativo sulla sua popolarità - sia pure in declino rispetto al passato - a confronto con quella del presidente francese, che dopo aver vinto largamente le presidenziali del 2007 e iniziato il suo quinquennato con un appoggio popolare molto alto, vede oggi ridursi come una pelle di zigrino la platea dei suoi sostenitori. Berlusconi e Sarkozy hanno in comune il fatto di non essere ancora riusciti a costruire in maniera completa i rispettivi partiti. D´altra parte, il premier italiano ha senza dubbio eretto con maggior forza la propria leadership, ha accorpato nel «berlusconismo» un insieme eterogeneo di valori, e ha consolidato il suo elettorato, segnatamente nel Sud del Paese.
Inoltre Berlusconi trae vantaggio dall´idea, largamente diffusa in una parte dell´Italia, che la crisi economica appartenga al passato, o si possa comunque affrontare agevolmente grazie ai tradizionali ammortizzatori sociali all´italiana (lavoro nero e famiglia); mentre questa stessa crisi ha sprofondato ancora una volta i francesi in una depressione collettiva.
Infine i francesi sono probabilmente più delusi dei loro responsabili politici, prodighi di promesse, perché credono nel potere della politica e si aspettano molto dallo Stato; mentre gli italiani sanno di dover contare soprattutto su se stessi. Di conseguenza, Sarkozy è giudicato in base al suo consuntivo, come era accaduto in passato, ad esempio, a Mitterrand o a Chirac; mentre Berlusconi è valutato innanzitutto per la sua personalità, che riesce a far passare come del tutto diversa da quella di qualunque altro responsabile politico.
In definitiva, il Pd non ha «tenuto», contrariamente a quanto sostiene nel suo politichese Pier Luigi Bersani, che rifiuta di parlare di sconfitta, dando in questi giorni il peggior esempio di negazione della realtà: secondo il calcoli dell´istituto Cattaneo, il confronto tra i risultati di Ds e Margherita nel 2005 con quelli del Pd nel 2010 fa registrare un calo di 2 milioni di voti.
In Francia, il successo del Partito socialista si spiega con l´avversione per Sarkozy, il forte astensionismo tra gli elettori di destra, i buoni risultati dei presidenti uscenti delle regioni a guida socialista, il grave disagio sociale, un´efficace strategia di alleanze al secondo turno tra il Ps, gli ecologisti e il Fronte della sinistra (che comprende Pcf, ex socialisti ed ex trotzkisti). Il Pd, non potendo approfittare delle debolezze del suo avversario, non ha saputo tradurre in politica il disagio sociale che pure esiste in una parte dell´Italia; e non è riuscito a convincere, a mostrarsi credibile con la sua strategia, le sue proposte, i suoi candidati. Detto questo, per il Pd come per il Ps la «partita da giocare», per riprendere l´espressione di Ezio Mauro, è comparabile: proporre un progetto all´altezza delle sfide del presente e del futuro, stabilire un programma preciso, comprendere le complesse mutazioni della società, fornire una visione del mondo e degli individui, consolidare le alleanze, rinnovare la democrazia, risolvere la questione della leadership, saper presentare una narrativa.
Un programma senza dubbio imponente. Ma con una certezza: in entrambi i casi, il dominio della destra non ha nulla di ineluttabile. Molto – se non l´essenziale – dipenderà dall´offerta politica.
Traduzione di Elisabetta Horvat

Repubblica 6.4.10
Potrebbe rivoluzionare la storia dell'evoluzione dalla scimmia all'uomo Lo scheletro è quasi intatto. Ma gli esperti frenano: troppi punti interrogativi
Il mito dell'anello mancante scoperto in Sudafrica ominide di 2 milioni di anni
di Cristina Nadotti

LONDRA. Nascosto per due milioni di anni in una caverna in Sudafrica e ora in un laboratorio del sincrotrone europeo di Grenoble, l´ominide che potrebbe dirci molto sull´evoluzione umana è un caso poliziesco. Domenica il quotidiano britannico Sunday Telegraph svela al mondo che il paleontologo Lee Berger, dell´università sudafricana di Witwatersrand, ha trovato "lo scheletro quasi completo e fossilizzato di un antenato umano finora sconosciuto". L´ominide, secondo il quotidiano, potrebbe essere l´esemplare di una specie collocabile in uno stadio intermedio tra gli uomini-scimmia e il primo uomo evoluto, cioè l´homo habilis.
Le agenzie di stampa si scatenano, e così i siti web di tutto il mondo, salutando la scoperta come il tassello che mancava alla comprensione della intricata ramificazione dell´albero genealogico dell´umanità. Dell´ominide in questione, però, non si riesce a sapere di più, neanche il suo nome. E non è un particolare da poco. Qui non si tratta di dire se, come nel caso di Lucy - l´australopithecus afarensis datato 3,4 milioni di anni fa e trovato nella regione di Afar in Etiopia nel 1974 - chi è entrato nella caverna Malapa a Sterkfontein stava ascoltando musica e darà all´ominide un nome ispirato da una canzone. Qui si tratta di usare una tassonomia capace di indicare qualcosa di più sul reale peso scientifico di questa nuova scoperta, al di là del fascino che essa può suscitare nel grande pubblico. Il professor Lee Berger non risponde a telefono né alle mail, i paleontologi preferiscono non pronunciarsi finché non ci saranno maggiori dettagli, e dal sincrotrone di Grenoble, pensato anche per ricerche di precisione sulla struttura atomica dei materiali e del quale è partner il Cnr italiano, confermano la presenza del fossile ma tengono la bocca ben chiusa, in osservanza di un embargo fino a dopodomani. Non altrettanto silenziosi sono i blog scientifici, ricchi di frasi sprezzanti per chi saluta "l´ennesimo anello mancante" di una catena inesistente, visto che l´evoluzione umana è tutt´altro che regolare e non si può tracciare una linea di successione diretta tra australopitecus, più simile alla scimmia e risalente circa a 4 milioni di anni fa e l´homo habilis, di circa 2,5 milioni di anni fa. Dell´ominide non si sa il nome, ma ha già fama sufficiente per essere il protagonista di una serie di documentari programmati dal professor Berger per il National Geographic. Secondo i blogger più esperti, per la paleontologia il fossile in questione potrebbe non avere tutta la rilevanza che la pubblicità gli attribuisce. Di sicuro, trovare uno scheletro intero sarebbe utile a capire meglio come si sono evolute la deambulazione e la manualità ma, questo è l´altro particolare interessante che viene dai blog, Berger non avrebbe trovato uno scheletro intero, ma più parti di scheletri appartenenti tutti a uno stesso gruppo, che possono essere riassemblate in una stessa struttura scheletrica.
Al momento paleontologi e antropologi si barcamenano tra resti di ominidi molto più vecchi del più giovane tra i nostri comuni antenati scimmieschi e le prove della genetica, capaci di fornire datazioni ancora diverse. La scienza è fatta proprio di dibattiti, di "falsificabilità", per citare Karl Popper, e quindi ben venga anche l´ultima diatriba sulla nuova scoperta, ma bisognerà aspettare giovedì per sapere se "l´ominide televisivo" è davvero tanto eccezionale da togliere magari fama a Lucy.

Repubblica 6.4.10
Vasilj Grossman
Così la guerra lo fece diventare anti-stalinista
Libri e biografie: storia di uno scrittore che scoprì il coraggio
di Bernardo Valli

Se si salda "Vita e Destino" con l´opera di Stefan Zweig si ha un ritratto del secolo
Fino a Stalingrado era stato un docile autore sovietico, al fronte trova la libertà delle trincee

Un fedele lettore di Vasilij Grossman scopre un materiale prezioso nel libro di John e Carol Garrard (Le Ossa di Berdicev, Marietti, pagg.488, euro 25) in cui è raccontata la tormentata esistenza dell´autore di Vita e Destino e di Tutto scorre da poco ripubblicato da Adelphi. Due opere brillano come diamanti tra le testimonianze del ´900. Prima la nostalgica e tuttavia limpida autobiografia di Stefan Zweig, Il mondo di ieri-Memorie di un europeo, le cui pagine finali sono occupate dall´incontro londinese con l´amico Sigmund Freud, pure lui esule viennese, colpito a morte dal cancro alla gola, mentre sta per scoppiare la seconda guerra mondiale e imperversa già da tempo la sanguinosa rabbia antisemita di Hitler. Viene poi l´imponente romanzo tolstoiano di Vasilij Grossman, Vita e destino, con la decisiva battaglia di Stalingrado come epicentro; e gli illuminanti sguardi sui drammi collettivi e individuali in corso attorno a quel cratere in eruzione, dal quale dipende la sorte non solo dell´Europa.
Dalla Shoah si passa al gulag; dalla società nazista a quella sovietica. Se si saldano le due opere si ha un ritratto del secolo: malinconico, struggente sul lato Zweig; tragico, con effimere schiarite, sul lato Grossman.
Stefan Zweig è stato generoso nel raccontare se stesso. Ha motivato anche il suicidio avvenuto nel 1942, a Pétropolis, in Brasile. È raro che chi si toglie la vita lasci una convincente spiegazione del gesto che sta per compiere. Zweig ci ha provato, aprendo uno spiraglio nel mistero della sua fine volontaria: l´Europa assassinata dai nazisti e la discriminazione subita come ebreo nella sua patria austriaca ridotta a provincia tedesca l´avevano precipitato in un pessimismo invivibile.
Anche il personaggio di Vasilij Grossman può essere ricostruito attraverso i suoi numerosi scritti. Ma prima del paziente lavoro di John e Carol Garrard ci si smarriva facilmente nella tumultuosa realtà in cui l´autore di Vita e Destino ha vissuto. Sballottata tra guerra e stalinismo, tra dolorose vicende familiari e la non sempre agevole condizione di ebreo nella società sovietica, l´esistenza di Vasilij Grossman non era troppo decifrabile. Non lo era per il lettore comune, sia pure appassionato, che non fosse uno studioso delle sue opere. I coniugi americani, John e Carol Garrard, hanno reso tutto più facile. Grazie alla loro meticolosa ricostruzione del destino di Grossman, un lettore fedele anche a Zweig può adesso accostare le vite dei due grandi "cronisti" del secolo scorso. Non coetanei e immersi in due mondi diversi, ma con punti in comune che si è tentati di sottolineare.
Il mitteleuropeo (con madre italiana) Stefan Zweig parla del ´900 europeo fino al ´39, quando la Wermacht entra in Polonia e Francia e Inghilterra dichiarano la guerra al Terzo Reich. Zweig ferma l´autobiografia in quel momento, come se fosse arrivato sull´orlo di un baratro, nel quale si getterà, perdendo l´equilibrio, poco più di due anni dopo. Vasilij Grossman, nato a Berdicev, una delle capitali ebraiche dell´Ucraina, è già volontario nell´Armata rossa quando Zweig si imbottisce di Veronal, insieme alla moglie, nell´ultima dimora brasiliana. Zweig non sopravvive al pessimismo; Grossman è in preda a un´improvvisa euforia. La guerra cambia gli uomini. Lo si sa dai tempi di Tucidide.
Lo scrittore sovietico si getta nella guerra con sollievo. Diventa l´inviato speciale di Krasnaja Zvezda (Stella Rossa), il quotidiano dell´esercito, in quegli anni più diffuso della Pravda, il giornale del partito, e supera i traumi subiti durante il terrore stalinista degli anni Trenta. Pensa di trovare uno spazio di libertà nel patriottismo dei soldati sovietici che si battono a Stalingrado, dove non arriva sempre lo sguardo inquisitore dei commissari politici. Come scrive di uno dei personaggi di Vita e Destino, egli sentiva che, combattendo i tedeschi, combatteva per una vita più libera in Russia, e che la vittoria su Hitler sarebbe stata anche una vittoria sui campi di sterminio.
Quando la tragedia del ´900 è al culmine, Stefan Zweig ha sessantun anni, un´età in cui l´avvenire si restringe. È un intellettuale europeo cacciato dalla sua terra perché ebreo e la morte gli sembra l´unico rifugio. Vasilij Grossman ha trentasette anni quando, nello stesso anno in cui Zweig si uccide, scopre di avere uno straordinario, insospettato coraggio e diventa con le sue corrispondenze di guerra (forse le più forti, efficaci, tra tutte quelle scritte sui vari fronti del conflitto mondiale) un eccezionale testimone della decisiva battaglia di Stalingrado, che segna l´inizio della fine del Terzo Reich.
Eppure Grossman era stato fino allora un docile scrittore sovietico, rispettoso del potere e pronto a molti compromessi pur di non avere fastidi. Era un intellettuale che sgusciava, con il suo silenzio, tra le spesso mortali insidie staliniste. Sia pur in un contesto e in un modo del tutto diversi, che rendono in verità azzardato il paragone, il comportamento di Grossman in quel periodo può ricordare quello di Zweig nel 1933, così come lo riferisce il suo amico francese Romain Rolland. Il quale in una lettera rimprovera allo scrittore austriaco di «avere troppi riguardi» per il nazismo che debutta al potere. In realtà le illusioni di Zweig erano dovute al rifiuto di immaginare la perfidia hitleriana da parte di un uomo civile. Sfumeranno rapidamente. E molto presto egli sarà costretto all´esilio.
Essere uno scrittore nella società sovietica degli anni Trenta era tutt´altra cosa. Era al tempo stesso una posizione invidiabile e rischiosa. Senz´altro privilegiata perché i membri dell´Unione degli scrittori ricevevano compensi generosi, potevano soggiornare in case di riposo in riva al mare, erano rispettati e ossequiati. Questi privilegi avevano un prezzo: suscitavano invidie, gelosie, e quindi minacce. Gli scrittori erano vincolati a fornire opere utili al potere. Il loro talento doveva destreggiarsi tra le esigenze del partito e l´ispirazione letteraria. Per evitare le celle della Lubianka e il gulag, o addirittura il plotone di esecuzione, bisognava essere prudenti.
Grossman lo è prudente, al limite della viltà. Finge ad esempio di non accorgersi, quando, nel ´33, Nadja, l´influente cugina sindacalista che l´aveva aiutato nei suoi primi passi di scrittore e che l´ospitava a Mosca, viene arrestata per cospirazione trockista, accusa che può comportare la pena di morte. Nel ´37, uno degli anni più severi dello stalinismo, sono imprigionati due suoi amici romanzieri, e neppure allora Grossman alza un dito. Si muove soltanto per firmare una lettera collettiva in cui si chiede la pena di morte per i dirigenti bolscevichi accusati di tradimento (e tra loro c´è Bucharin). Ancora più grave è quando nel ´38 non usa, neppure tenta di usare, la sua relativa influenza (è già uno scrittore apprezzato dall´allora quasi onnipotente Massimo Gorki) per salvare lo zio, David Serencis, messo in prigione a Berdicev, dove muore, forse giustiziato, come ex membro della borghesia zarista. Non era facile comportarsi altrimenti. Era in gioco la vita. Non solo i privilegi. Grossman comunque si adegua.
La guerra fa di lui un altro uomo. Si dimostra temerario, spericolato. Il suo coraggio sotto il fuoco gli guadagna il rispetto di ufficiali e soldati, in particolare a Stalingrado. Scrive con onestà quel che vede con i propri occhi.
Racconta e scopre la "verità delle trincee". E quella verità non comprende soltanto lo straordinario patriottismo russo, al quale partecipa con slancio, ma anche una libertà di pensiero e di parola che consente ai combattenti, affrancati dalla vicinanza della morte, di criticare il sistema sovietico. Un atteggiamento impensabile fuori da quel campo di battaglia. Mentre ci si batte contro l´invasore nazista si condanna lo stalinismo che durante le repressioni dell´anno maledetto, il ´37, aveva massacrato decine di migliaia di innocenti. Lampi di libertà e di eroismo illuminano il campo di battaglia di Stalingrado, più tardi raccontato da Grossman in Vita e destino.
Il coraggio conquistato nelle trincee non abbandonerà mai del tutto Vasilij Grossman negli anni del dopoguerra, quando abbandonata la divisa ritorna ad essere uno scrittore, fino alla morte, per cancro, nel settembre del ´64. Con la scomparsa di Stalin finisce il terrore, ma non si spegne il sistema totalitario. Grossman dovrà accettare altri compromessi per sopravvivere come scrittore, ma resterà fedele sull´essenziale ai principi maturati durante la guerra. Un amico, autore di una sua biografia, Semion Lipkin, racconta che Grossman ripeteva spesso una frase dell´amato Cechov: «Era giunto il momento per ciascuno di noi di sbarazzarsi dello schiavo che avevamo dentro».
Vita e Destino è il frutto di dieci anni di lavoro. Grossman tenta di pubblicarlo senza successo. Anzi, gli sequestrano il manoscritto. Ma con l´aiuto di Andrei Sakharov, che riduce in microfilm una copia nascosta, il romanzo arriva in Occidente, dove sarà pubblicato nei primi anni Ottanta. Grossman è sfuggito alla prigione e al gulag, ma non vedrà la sua opera maggiore pubblicata. E negli ultimi anni della vita conoscerà frustrazioni e umiliazioni.
Né Stefan Zweig né Vasilij Grossman erano religiosi. Erano cresciuti in famiglie ebree non praticanti. Erano dei laici. Zweig era un europeista convinto, sognava una federazione europea. Grossman era un comunista, prima di arrivare col tempo a trovare una somiglianza tra il comunismo sovietico e il nazismo. Una soggettiva convinzione spiegabile, nel suo caso, con la realtà in cui aveva personalmente vissuto. L´ondata antisemita del ´900 ha ancorato entrambi, Zweig e Grossman, alle loro origini, come è accaduto ad altri milioni di esseri umani.
Zweig sfugge all´olocausto, ma esule in Inghilterra si scopre un "enemy alien", uno straniero nemico. Perché le autorità britanniche lo considerano paradossalmente un cittadino tedesco: cittadino della Germania che ha rapinato la sua Austria natale, e che l´ha espulso perché ebreo! Trova rifugio in Brasile, dove i tormenti lo spingono al suicidio.
I tormenti di Grossman sono dovuti anch´essi in gran parte alle sue origini, alle quali si sente sempre più legato e fedele. Ha il rimorso di non avere salvato la madre, uccisa dai nazisti a Berdicev. A questo rimorso si aggiunge la frustrazione di non poter raccontare lo sterminio degli ebrei nell´Unione Sovietica occupata dai tedeschi, perché il nazional-comunismo moscovita non vuole distinzioni: tutti i morti uccisi dai tedeschi erano, dovevano essere russi. Né si doveva dire che molti ucraini avevano partecipato all´eccidio degli ebrei. Questa la vita di due grandi "cronisti" del ´900.

Repubblica Roma 6.4.10
Martire del pensiero il ritorno di Ipazia sotto i riflettori
La filosofa del IV secolo torna alla ribalta Con un convegno alla Treccani il 14 la ripresa della pièce e l´uscita del film
di Maria Pia Fusco

La martire laica del pensiero sotto i riflettori dello spettacolo

Alla scoperta di Ipazia, la filosofa e scienziata di Alessandria, figlia di Teone, ultimo direttore della Biblioteca alessandrina, massacrata nel marzo del 415 perché era una donna che credeva nella libertà di pensiero e nel valore della ragione e che avrebbe voluto una vita dedita allo studio, alla scienza, all´insegnamento. E nel IV secolo il Potere - l´impero romano in decadenza legato al cristianesimo in ascesa – proibiva alle donne l´accesso alla scienza, all´arte, all´attività pubblica. Se al nome di Ipazia l´Unesco ha dedicato un progetto mondiale per favorire lo sviluppo scientifico al femminile, la sua figura ha ispirato il cinema e il teatro. Presentato al festival di Cannes, il film è Agora di Alejandro Amenabar, uscirà in Italia il 23 aprile, distribuito dalla Mikado e preceduto da due convegni: a Roma il 14 all´Istituto Treccani e a Milano il 20, presente il regista. Il sogno di Ipazia è il lavoro teatrale di Massimo Vincenzi, che torna per la quarta ripresa al teatro Belli da giovedì 8 aprile. «Il testo di Vincenzi sorvola sull´impegno scientifico di Ipazia per soffermarsi sui sentimenti e le riflessioni delle sue ultime ore di vita, con momenti molto commoventi. Ci sono voluti 1200 anni perché le donne conquistassero la libertà di pensiero di Ipazia», dice Francesca Bianco, protagonista della pièce. «L´ho scoperta grazie al teatro, mi stupisce che di una persona così importante nella storia dell´astronomia e della scienza non si parli nei libri di scuola. E mi colpiscono fortemente i personaggi dell´epoca, come il vescovo Cirillo che usava dire "Dio è con noi", la stessa frase di Hitler e dei nazisti».
L´attrice inglese Rachel Weisz è Ipazia in Agora, un film che, spiega il regista, «non è contro le religioni, ma contro i fondamentalismi che cancellano la tolleranza e il dialogo, si esprimono solo con distruzione e morte. Ci siamo resi conto che niente è cambiato, oggi come allora si uccide in nome di un dio». Il film racconta Ipazia che assorbe dal padre l´amore per la scienza, i tentativi disperati di salvare la Biblioteca alessandrina condannata dalla Chiesa, la passione con cui comunicava ai discepoli le sue scoperte astronomiche e matematiche, il rifiuto di convertirsi dal paganesimo al cristianesimo, perché significava "vendersi e perdere la libertà". E racconta la feroce repressione di pagani e di ebrei ad opera dei cristiani fanatici. A loro il vescovo Cirillo – poi diventato san Cirillo ed eletto tra i Padri della Chiesa – ordinò l´uccisione di Ipazia e la dispersione dei resti. Rachel Weisz ha scoperto Ipazia grazie al film e, dice, «è una donna meravigliosa e inusuale che ha dedicato la sua vita alle sue convinzioni. E pur essendo bellissima, ha rinunciato alla seduzione, all´amore, alla maternità. Mi sono chiesta perché il cinema non l´abbia scoperta prima, ma mi rendo conto che non è un personaggio facile, è più rassicurante Cleopatra che una donna come Ipazia. E ci vuole coraggio a parlarne, perché la condanna della Chiesa cattolica è ancora un peso molto forte».