giovedì 8 aprile 2010

l’Unità 8.4.10
«Le nostre conquiste sono ancora a rischio Serve una grande mobilitazione»
Emma Bonino critica la Lega, gli appelli anti-abortisti, ma il vero problema dice è «che loro prendono peso perché da questa parte non c’è una vera resistenza». E avverte: «Quello che ci siamo guadagnati, oggi è in gioco»
di Mariagrazia Gerina

Ne abbiamo viste di peggio ma le abbiamo vinte perché lo volevamo al di là delle prudenze dei partiti», dice Emma Bonino alle donne che nel 2010, quando decidono di ricorrere all’aborto, si ritrovano ancora a combattere con obiettori di coscienza, rinati picchetti anti-abortisti (anche se sparuti e scarsi), ospedali che, nonostante il via libera dell’Aifa, ritardano a far partire gli ordinativi per la Ru486 che da decenni consente di abortire senza ricorrere all’intervento chirurgico. Non siamo agli anni Settanta: «Ma stanno facendo una battaglia ideologica contro un farmaco, dicono che non si deve banalizzare l’aborto, ovvero vogliono ancora che si partorisca nel dolore e si abortisca sotto tortura».
La “ricetta” di Emma Bonino, di fronte a tutto questo, è in un certo senso antica. «Ci vuole una grande mobilitazione nel paese». Una mobilitazione delle donne, prima di tutto. Ma non solo. «Bisogna rilanciare un dibattito aperto sui valori, sulla libertà di scelta della donna di fronte alla maternità, sulla libertà di cura, sui diritti civili», dice la vicepresidente del senato. Lei che, nel 1975, pagò con il carcere la disobbedienza alla legge che allora vietava l’aborto. Storia di trentacinque anni fa. Tornata d’attualità, in campagna elettorale, quando Libero, fiutata l’aria, ha ripubblicato le foto della candidata del centrosinistra che nel ‘75 aiutava contra legem le donne ad abortire. Anacronistico? Certo. Oggi il diritto delle donne ad abortire è legge. Ma la lezione di queste ore e non solo dice anche che: «Le conquiste fatte non sono per sempre, se non le si difende, ci si sveglia una bella mattina e quelle cose che hai conquistato non ce le hai più», scandisce la leader radicale, invocando una «manifestazione, una mozione in parlamento», qualunque cosa segnali una reazione. E non serviva nemmeno vedere «tutta questa mobilitazione contro la Ru486» per capire l’urgenza: «Basta guardare a cosa succede negli ospedali della Lombardia dove non si fanno più aborti perché sono tutti obiettori».
«Perché non oggi?», quindi. Questo è l’appello che la vicepresidente del Senato rivolge alle donne, adesso che si tratta di non perdere le conquiste costate anni di lotte. «Facciamo qualcosa, ricominciamo dal paese», dice. L’idea che di queste cose ormai se ne debbano occupare solo le istituzioni mai così fragili, per giunta non regge. Che si tratti del parlamento dove si legifera («e dove peraltro non siamo maggioranza») o di uno degli ospedali a cui le donne si rivolgono per abortire, di fronte alle pressioni crescenti della Chiesa e non solo, «le istituzioni vanno rafforzate e dare vita a un movimento nel paese servirebbe anche a questo», avverte Bonino. Critica, certo, con la Lega, con gli appelli anti-abortisti della Chiesa. Ma anche con la sinistra: «Se certa destra ne fa una battaglia ideologica è anche perché dall’altra parte non c’è una mobilitazione progressista, o come la vuoi chiamare (io suggerirei normale) a favore della libera maternità, una resistenza vera, una contrapposizione di valori».
La marcia indietro a cui sono stati costretti Cota e Zaia dice che di margine ce n’è: «Ma se uno vuole far crescere la contraddizione nel campo dell’avversario deve costruire una mobilitazione della sua parte». E invece: «Certi argomenti attacca Emma Bonino sono rimasti abbastanza nascosti in questi anni, per ragioni politicanti». Un j’accuse molto duro: «L’ultima manifestazione s’è vista dopo il referendum sulla legge 40, ma stiamo parlando del 2005». La risposta migliore? «Mobilitarsi, meglio tardi che mai». «Corrente Rosa una settimana fa ha proposto una manifestazione, finora le adesioni scarseggiano». ❖

l’Unità 8.4.10
Intervista a Ignazio Marino
«Decide la donna con il medico, non i politici»
Il senatore Pd: Cota voleva bloccare l’uso del farmaco perché ha vinto le elezioni. La destra ha fatto ritardare di anni l’arrivo della Ru486. E su biotestamento il Pd sia compatto
di Natalia Lombardo

Abortire per una donna è sempre una sconfitta ma la scelta su quale metodo usare nasce solo dal dialogo intimo fra la donna e il medico, non può essere un presidente di Regione, un ministro o una commissione parlamentare a imporla». Ignazio Marino, cattolico del Pd, è nel suo studio al Senato; oggi si riunisce la sua componente «Cambia l’Italia». Ieri si è insediata la commissione del ministero della Salute per monitorare l’uso della pillola e capire, dicono, se c’è il rischio che si effettuino «aborti a domicilio». Una forma di controllo? «Si sta confondendo tra problemi etici e clinici. Quando una donna ha preso la drammatica decisione di interrompere una gravidanza, ha già affrontato la questione etica. Il medico decide con la donna quale sia il percorso migliore, che sia chirurgico o farmacologico, spiegando i rischi di entrambi. Magari ci sono donne che hanno paura di un’anestesia totale per una brutta esperienza avuta prima. Il ginecologo, oggi, 7 aprile 2010, deve dire che esistono diversi tipi di aborto, uno dei quali con il farmaco Ru486. Poi la scelta nasce solo dal suo dialogo intimo con la donna».
I detrattori della Ru486 reclamano il ricovero ospedaliero obbligatorio, anche se la pillola viene somministrata in due tempi. Un’ambiguità voluta? «Può esistere un rischio concreto se una donna assume il farmaco e poi resta separata dal contatto immediato con una struttura sanitaria. Ma è difficile che accada in Italia. Occorre un monitoraggio di tutto il percorso, o col ricovero finché l’aborto non è completato, o un day hospital con assoluto controllo fino alla fine. Ma tutto ciò si muove nel binario delle raccomandazioni scientifiche e del rispetto della legge 194. E poi esiste la libertà della donna di firmare la cartella clinica e uscire dall’ospedale».
Tra leghisti o politici del Pdl, maschi, c’è l’idea sprezzante che la pillola possa essere usata con leggerezza. «Nasce il sospetto che i politici di destra abbiano ritardato l’uso della Ru486 di due anni, dopo che era stato autorizzato dalla Agenzia Europea del Farmaco e la stessa Aifa ha tardato molto a dare il via. Poi con l’indagine della commissione Sanità la destra ha ritardato di alcuni mesi l’uso della pillola in Italia, convinti che il solo aborto chirurgico fosse un deterrente. Un discorso né sensato, né rispettoso per la donna. Si tratta, semmai, di prevenire l’aborto con più informazione sulla contraccezione, soprattutto fra le donne immigrate».
Il sottosegretario Mantovano non lo nega: «Si cambia la Costituzione, perché non si può toccare la 194?». L’obiettivo è questo?
«Da trent’anni c’è la 194 e gli aborti sono dimezzati. È una delle leggi più equilibrate. Uno Stato laico deve avere una legge sull’aborto. Ricordo negli anni 70 a Roma arrivare al pronto soccorso donne sanguinanti per gli aghi da calza infilati dalle mammane nell’utero, altre che andavano nelle cliniche dove si effettuavano gli aborti clandestini; chi se lo poteva permettere volava a Londra, dove era libero. Ecco, non voglio tornare a questo».
I proclami di Cota e di Zaia hanno bloccato la partenza della Ru486 negli ospedali? «Il ministro Fazio li ha fermati con un linguaggio disarmante: c’è la legge, leggetela e rispettatela. Il ritardo c’è stato, ma l’intervento del ministro ha impedito che si propagasse in altre regioni».
Per Livia Turco è «federalismo etico» illegale e ingiusto e chiama Fazio a riferire in Parlamento. «Cota ha deciso che questo farmaco non si sarebbe dovuto usare solo perché ha vinto le elezioni. Questa destra pensa di avere potere su tutto perché ha vinto. Sul testamento biologico, che riprende in commissione: l’articolo 3 obbliga all’alimentazione e all’idratazione forzata, a introdurre un tubo nell’intestino anche a chi non lo voleva. Va contro la Costituzione».
I dissidenti nel centrodestra riusciranno a modificare il testo? «Con Fini condividiamo l’idea che i familiari possano scegliere se usare o no quelle terapie. Il Pd dev’essere compatto con un voto unico. Spero che Bersani non lasci libertà di coscienza: l’obbligo di cura non è libertà, ma sopraffazione». ❖

l’Unità 8.4.10
Se la verità diventa un optional
L’uso politico della menzogna
di Francesca Rigotti

La libertà – scriveva Albert Camus – consiste in primo luogo nel non mentire». Proviamo a pensarci su perché qui si tratta di cose serie, mica di canzonette. Qui sono in gioco termini/concetti come libertà e verità. E la libertà è, insieme alla giustizia, una delle grandi virtù delle istituzioni politiche, come la verità è la virtù principale dei sistemi di pensiero, e chi viola il principio di verità lede anche quello di libertà.
Ora, l’uso politico della menzogna viene parzialmente accettato dalla filosofia politica, per esempio da Hannah Arendt, che la giustifica nel caso di delicate operazioni di segretezza.
A una corretta pratica democratica non è invece perdonata né la torbidezza né la menzogna e tantomeno il falsificare i fatti per ragioni di immagine, quando queste attività – sempre Arendt – vengano praticate nei confronti dei concittadini e non del nemico in guerra. Se in politica, il luogo delle scelte collettive e che interessano la collettività, si può mentire, non si deve per questo farlo, né la pratica del mentire deve essere, in politica, tollerata e perdonata, o addirittura incoraggiata.
La verità è infatti una virtù preziosa – come spiega Franca D’Agostini nel dotto quanto affascinante saggio «Verità avvelenata. Buoni e cattivi argomenti nel dibattito pubblico» (Bollati Boringhieri). La verità del nostro mondo, che vive nella legge della terra e nella radicale pluralità degli uomini da tale legge contemplata, è la verità che percepiamo con le nostre facoltà logiche.
Poi c’è la «verità» riferita da una parte politica e magari accettata da un gruppo di persone che non hanno la coscienza attiva di partecipare a un inganno. Questa è una «verità» allestita a fini di opportunità ma lesiva della libertà dei cittadini, anche di quelli che si lasciano volentieri ingannare, per il semplice motivo che la menzogna distrugge la fiducia, anche questa una delle grandi e dimenticate virtù della vita sociale democratica.
Un punto in più per la tesi che sostiene che la destra italiana che ci malgoverna non partecipa dei principi del pensiero liberale – quelli socialisti, poi, non sa neanche dove stiano di casa – benché proclami gli uni e gli altri.
Questo perché un pensiero fondativo non ce l’ha e può perciò praticare la menzogna e il mendacio pensando che chi caninamente latra più forte e in numero più alto riesca a sopraffare anche la verità.
Ma questo non è vero e mentire per non voler riconoscere l’errore può costare caro, molto più caro che dover ricorrere al trapianto di capelli per aver commesso l’errore di non aver mai usato la brillantina Linetti.❖

l’Unità 8.4.10
Lo scandalo dilaga Dimissioni di Mueller in Norvegia. Cento casi in Messico. Allarme in Africa
Critiche al Vaticano per aver detto che Ratzinger è attaccato come lo fu Papa Pacelli
Vescovo ammette gli abusi Gli ebrei: errore citare Pio XII
Anche un vescovo in Norvegia abusò di un minore. Gattegna (Ucei) protesta per il parallelo di Sodano tra Ratzinger e Pio XII. La protezione dell’ex segretario di Stato al fondatore dei Legionari di Cristo.
di Roberto Monteforte

Come uno tsunami lo scandalo della pedofilia rischia di colpire la Chiesa cattolica e il Papa, minandone sempre più credibilità e prestigio. Aumentano pure gli attestati di solidarietà a Benedetto XVI. Alcuni, però, hanno finito per alimentare altre polemiche. Quel parallelismo richiamato dal decano del collegio cardinalizio, Angelo Sodano, tra la campagna mediatica sulla pedofilia contro il pontefice e gli attacchi rivolti a Pio XII per la sua condotta durante la secondo guerra mondiale e in particolare per i suoi silenzi sulla persecuzione antisemita, ha scatenato le proteste del mondo ebraico. Ieri si è fatto sentire il presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane (Ucei) Renzo Gattegna. «Alcuni interventi e alcuni paragoni inappropriati e inopportuni ha osservato rischiano di creare pericolosi e fuorvianti paralleli storici». Tanto più ha aggiunto se provenienti «da autorevoli esponenti della Chiesa cattolica».
Lo scandalo pedofilia continua e chiama in causa lo stesso Sodano, quando era segretario di Stato di Papa Giovanni Paolo II. Il «National Catholic Reporter» lo indica come uno dei tre protettori in Vaticano del fondatore dei Legionari di Cristo, padre Marcial Maciel Degollado (1920-2008). Sarebbero state sue le pressioni rivolte, invano, sull’allora prefetto dell’ex sant’Uffizio, cardinale Ratzinger perché fermasse l’istruttoria contro padre Marciel, accusato di aver abusato sessualmente di seminaristi minorenni e per aver concepito figli illegittimi. Per il NCR padre Marciel «inviava flussi di denaro ai funzionari della Curia romana» con lo scopo di «comprare il sostegno per il suo gruppo e la difesa per sé». Gli altri «riferimenti» del fondatore dei Legionari sarebbero stati il cardinale Eduardo Martinez Somalo, allora prefetto della Congregazione per i religiosi e monsignor Stanislaw Dziwisz, allora segretario personale di Giovanni Paolo II.
IL CASO DEL VESCOVO
Un altro caso di pedofilia nella Chiesa, questa volta, è stato segnalato in Norvegia. È un vescovo ad essere coinvolto. Si tratta di monsignor George Mueller che dal 1997 al 2009 è stato titolare della diocesi di Trondheim. Nel 2009 ha ammesso la sua responsabilità. All’inizio degli anni ‘90, quando era un giovane prete, ha abusato di un minore. Il caso è stato segnalato alla Santa Sede nel 2009.
Le sue «dimissioni» sono state presentate a maggio e il mese successivo raccolte dal pontefice. «La Santa Sede ha agito rapidamente» è stato il commento di monsignor Eidsvig, amministratore apostolico della diocesi di Trondheim e successore di Mueller. Lo spiega sul sito della Chiesa cattolica di Norvegia, dando conto del succedersi dei fatti. Emerge anche l’indicazione giunta d’Oltretevere di collaborare con la giustizia penale norvegese. «Quando Mueller, al confronto con l'accusa, ha ammesso la sua responsabilità, subito è stato dimesso». Malgrado il crimine sarebbe risultato prescritto secondo la legislazione norvegese, ma non si è fermata «la giustizia interna ecclesiastica». L’ex vescovo che si sottopone a terapia, «non ha avuto alcun compito pastorale o vescovile». La vittima che sarebbe stata risarcita con 60mila euro, avrebbe chiesto l’anonimato.
L’ALLARME DALL’AFRICA
È solo un caso. Lo scandalo si allarga. Ieri è arrivato l’allarme dall’Africa. «Anche la nostra Chiesa non è sente da scandali» ha ammesso il responsabile della Conferenza dei vescovi dell'Africa australe e arcivescovo di Johannesburg, Buti Tlhagale. Mentre la stampa messicana assicura che nel corso dell'ultimo decennio, presso l’ex Sant’Uffizio sarebbero stati aperti circa 100 processi canonici nei confronti di accusati di abusi sessuali contro minori. Ammissioni a cui si aggiungono gli attestati di solidarietà al Pontefice. Ieri l'arcivescovo di Bombay, cardinale Oswald Gracias, presidente dell'Episcopato Indiano, ha testimoniato del suo impegno costante contro la pedofilia. Solidale con il Papa anche la Chiesa del Cile visitata in questi giorni dal segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone.❖

l’Unità 8.4.10
Intervista a Dacia Maraini
«Nessun complotto. Sulla pedofilia la Chiesa dica la verità»
La scrittrice: «Portare alla luce lo scandalo non significa attaccare il Papa. Alla base di tutto c’è un tabù sessuale, proibire nasconde il problema»
di Umberto De Giovannangeli

L’idea che portando alla luce i casi di pedofilia si voglia attaccare il Papa, questo Papa, è un automatismo che trovo sbagliato. Quello della Chiesa è un eccesso di difesa, una cattiva difesa». A sostenerlo è una delle più affermate e impegnate scrittrici italiane: Dacia Maraini. «Non vi è dubbio rileva Maraini che uno dei problemi della Chiesa sia il tabù sessuale. La proibizione non elimina un problema, lo sposta, lo nasconde». «A nessuno riflette la scrittrice fa piacere veder esplodere scandali in casa propria. Ma se succede bisogna prendere le distanze, contribuendo all’accertamento della verità, anche la più dolorosa. Altrimenti si diventa complici».
Quale idea si è fatta di quello che negli Stati Uniti hanno definito l’Altargate»? «Penso che ci sia una verità che da buoni cristiani andrebbe affrontata con coraggio. L’idea che portando alla luce quest casi di pedofilia si voglia attaccare il Papa, questo Papa, mi pare francamente una forzatura, un automatismo che trovo sbagliato. Diciamo che si tratta di un eccesso di difesa. Non penso che sia arroccandosi e gridando al complotto che la Chiesa riesca a difendere il suo buon nome. Ben altre strade dovrebbe percorrere...».
Quale, ad esempio?
«L’unico modo di contrastare questo scandalo da parte della Chiesa è quello di portare degli esempi di preti virtuosi, ma non dal punto di vista sessuale. Virtuosi per il loro impegno civile, per il coraggio di scelte che educano i parrocchiani. Penso al parroco di Sant’Onofrio. Michele Virdò, che ha saputo dire no ai tentativi delle cosche calabresi di infiltrarsi nella processione. Questo è un caso straordinario di coraggio che la Chiesa dovrebbe esaltare, portandolo ad esempio. La Chiesa dovrebbe dire con orgoglio: questi sono i nostri parroci, che fanno cose ammirevoli, e in questo si esprime una beatitudine...».
Invece?
«Invece si grida al complotto come se così facendo si intenda esorcizzare una realtà che certo non deve essere generalizzata, ma neanche taciuta. A nessuno fa piacere che esplodano scandali in casa propria. Ma se succede bisogna prendere le distanze, altrimenti si diviene complici».
C’è chi sostiene che la Chiesa farebbe bene a riflettere sulle conseguenze dell’imposizione del celibato. «Non è da oggi che sostengo che uno dei problemi della Chiesa è il tabù sessuale. Perché la castità che in sé può essere una scelta sublime non può per nessuna ragione essere imposta dall’alto. Una castità imposta porta a delle storture. La sessualità deve avere una qualche forma di espressione. Questa totale negazione da parte della Chiesa porta al sesso clandestino. La proibizione non elimina il problema, lo sposta, lo nasconde...». Cosa si sentirebbe di consigliare alla gerarchia ecclesiastica?
«Direi loro di affrontare questo problema con un po' più di larghezza di vedute e di modernità. Ho letto in questi giorni che nella Chiesa protestante, che non ha imposto ai suoi preti il celibato, i casi di abusi sessuali sono di molto inferiori a quelli denunciati nella Chiesa cattolica: non credo che sia un caso. Penso anche che questa negazione della sessualità abbia una qualche incidenza sullo stesso calo delle vocazioni».
Di fronte all’Altargate c’è chi invoca una Chiesa in mano alle donne... «Ritengo che sia molto negativo che le donne non possano officiare la Messa. È una forma di razzismo che oggi risulta davvero intollerabile. In questo modo, peraltro, la Chiesa nega una parte di se stessa, mostrando mancanza di fiducia e di stima».
In questi giorni diversi esponenti della Chiesa hanno accostato la campagna che punterebbe a Benedetto XVI con l’antisemitismo contro gli ebrei...
«Sono perfettamente d’accordo con le comunità ebraiche. Questo accostamento è offensivo verso gli ebrei che a milioni furono sterminati nelle camere a gas dei lager nazisti. L’averlo solo pensato è un insulto alla loro memoria. L’Olocausto è stato una tragedia che non può essere accostata a nessun altro evento, tanto meno alla vicenda in questione. Chi lo ha fatto dovrebbe vergognarsi».

il Fatto 8.4.10
Noi, sordi vittime dei nostri educatori
Gli ex allievi del Provolo non vedranno mai giustizia
di Vania Lucia Gaito

Mi chiamo Gianni Bisoli, sono nato a Sirmione il 15 settembre 1948. Sono diventato sordo a otto anni circa. Ho cominciato a frequentare l’Istituto Antonio Provolo di Verona all’età di nove anni. Tre mesi dopo la mia entrata in istituto e fino al quindicesimo sono stato fatto oggetto di attenzioni sessuali. Sono stato sodomizzato e costretto a rapporti orali e masturbazioni dai seguenti frati e fratelli laici: don Giuseppe, don Arrigo, don Aleardo, don Giovanni, don Alcide, don Luigi, don Rino e don Danilo, don Nicola, don Giovanni, don Basco, don Agostino, don Giuseppe, fratello Erminio. Devo ancora dichiarare che, dall’età di 11 anni fino ai 13 anni, sono stato più volte accompagnato nell’appartamento del vescovo di Verona, monsignor Giuseppe Carraro, dove il vescovo stesso mi ha sodomizzato e preteso altri giochi sessuali”.
E’ solo una delle tante testimonianze degli ex studenti dell’Istituto Provolo di Verona, uno fra gli scandali che sta investendo la Chiesa cattolica italiana. Violenze protrattesi dagli anni ’50 fino al 1984, avvenute sia all’interno dell’istituto sia nella colonia estiva Villa Cervi, a San Zeno di Montagna.
Oggi l’Istituto Provolo ha tre sedi tra Verona, Villafranca e San Michele Extra e offre corsi di formazione professionale anche a giovani in obbligo formativo tra i 14 e i 18 anni. Vanta, tra i propri clienti e partners, comuni, province e regioni e riceve anche finanziamenti pubblici, oltre alle donazioni attraverso il meccanismo del 5 per mille. E annovera tra i suoi religiosi sette dei 25 sacerdoti accusati da 67 ex studenti.
Le prime denunce da parte dell’associazione degli ex allievi dell’Istituto Provolo risalgono al 2006, quando si rivolsero al vescovo di Verona perché i sacerdoti ancora all’istituto venissero trasferiti.
La molla della denuncia era scattata alla notizia dell’apertura di una casa-famiglia per bambini sordi con difficoltà familiari, gestita dagli stessi religiosi della Congregazione della Compagnia di Maria del Provolo.
Non ottenendo nulla, nel gennaio 2009 gli ex studenti decisero di rendere pubblico il caso. Tuttavia il ricorso alla magistratura era inutile, perché nel frattempo era intervenuta la prescrizione.
“Il 23 gennaio dello scorso anno, nel corso di una conferenza stampa alla Camera dei deputati, abbiamo chiesto che il vescovo Zenti intervenisse affinché i sacerdoti accusati e ancora in vita rinuncino alla prescrizione, così la magistratura potrà fare le indagini necessarie” afferma Marco Lodi Rizzini, portavoce dell’associazione degli ex studenti. Un appello caduto nel vuoto, perché monsignor Zenti ha preferito strade diverse, una linea dura di contrattacco: in una conferenza stampa affermò di essere convinto che si trattasse “di una montatura, di menzogne”, e accusò Dalla Bernardina, presidente dell’associazione, di aver strumentalizzato i sordi: “Venne da me non a denunciare fatti di pedofilia, sia ben chiaro, ma ad accampare pretese sui beni immobili dell’Istituto”. Parole che sono valse al vescovo una querela che, nel luglio scorso, ha rischiato di essere archiviata. L’associazione ha proposto ricorso contro l’archiviazione e il prossimo 9 giugno il gip dovrà prendere una decisione. “L’affitto che ci viene richiesto per l’immobile su cui si dice che accampiamo pretese è di 200 euro” spiega Lodi Rizzini. “Se considera che siamo 420 soci, oltre il 90% dei sordi di Verona e provincia, bastano meno di venti centesimi ciascuno a pagare l’affitto. Quelle del vescovo Zenti sono accuse assurde. Continuano a parlare di pretese patrimoniali, ma noi non abbiamo mai chiesto soldi. Vorrei che specificassero di quali pretese patrimoniali si tratta”.
Una parziale marcia indietro, una parziale ammissione c’è stata dopo un’indagine della Curia che ha acclarato alcune responsabilità. Poi, a metà di febbraio di quest’anno è stato reso noto che i casi di abusi saranno analizzati dalla Congregazione per la dottrina della fede, ma nessuno dei 67 ex studenti che hanno denunciato è stata sentito o contattato dai prelati del Vaticano.
Sulle vicende del Provolo, un cupo silenzio anche da parte dei politici italiani, fatta eccezione per i Radicali che, nel luglio scorso, presero anche parte ad una manifestazione organizzata a Verona dall’associazione. Un lungo corteo muto lungo corso Cavour, corso Portoni Borsari e piazza Bra, per chiedere che venisse fatta chiarezza. E giustizia.
“Negli Stati Uniti è stato aperto un anno ‘finestra’ per denunciare anche abusi subiti molti anni prima. In Irlanda è stato il governo a commissionare le inchieste che hanno svelato migliaia di abusi. In Germania il cancelliere Angela Merkel è intervenuta in maniera netta e decisa” prosegue Lodi Rizzini. “Occorrerebbe maggiore determinazione nel fare chiarezza anche in Italia.”

il Fatto 8.4.10
Norvegia
Si dimette il primo vescovo, la Chiesa fa quadrato

Il primo caso di pedofilia in Norvegia riguarda Georg Mueller, vescovo della diocesi di Trondheim, un norvegese di origine tedesca che, quando era ancora semplice sacerdote, abusò di un chierichetto. Mueller ha confessato l’abuso, si è dimesso nel maggio del 2009, ha lasciato la diocesi, si è sottoposto a terapia e da allora non ha alcun incarico pastorale. La versione ufficiale della Santa Sede è stata prontamente fornita dal portavoce vaticano padre Federico Lombardi. E intanto dal Sudafrica, Buti Thlagale, vescovo, ha denunciato che nemmeno la Chiesa cattolica africana è “esente dagli scandali”, anzi “soffre gli stessi mali”. Un’apertura preventiva che, indirettamente, dice molto della strategia della Santa Sede sulla pedofilia. Rispondere tempestivamente, ma anche prevenire. Così, le rivelazioni dell’abuso di Mueller, comparse ieri sulla home page della tv norvegese Nrk, hanno pronto riscontro nella replica del portavoce vaticano. La tv ricordava le dimissioni “improvvise” del vescovo Mueller lo scorso anno, e spiegava che “è stato un abuso sessuale a spingerlo alle dimissioni”. Altri dettagli: la Chiesa avrebbe pagato “tra le 400 e le 500 mila corone” come risarcimento; Mueller scelse di dare immediatamente le dimissioni quando venne informato delle accuse che lo riguardavano; la vittima, secondo il quotidiano norvegese Adresseavisen, era un chierichetto che ha mantenuto il segreto per circa 20 anni. Nrk riporta che il caso è stato inviato al Vaticano, dove è stato valutato arrivando alla conclusione che Mueller, in quel momento vescovo di Trondheim, doveva dimettersi. Nessuna conseguenza penale per Mueller perché, al momento in cui sono state formulate le accuse, il reato era prescritto. La versione ufficiale viene data praticamente subito dalla Sala Stampa Vaticana. Che conferma nei dettagli la storia, e precisa che la vittima “prescritta, ha sempre voluto mantenere l’anonimato”. La Chiesa ha deciso di fare quadrato. È in questa logica che si è inserito l’intervento del cardinal Sodano, segretario di Stato emerito, che ha sostenuto che gli attacchi all’attuale Papa ricordano quelli a Pio XII. Un paragone che non è piaciuto alla Comunità ebraica italiana, già in polemica con le frasi del Venerdì Santo di padre Cantalamessa, predicatore pontificio. Renzo Gattegna, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche, sottolinea che “alcuni interventi e alcuni paragoni inappropriati e inopportuni rischiano di creare pericolosi e fuorvianti paralleli storici”. E l’ex presidente dell’Ucei Tullia Zevi dice di trovare questi paragoni “più dannosi che inutili”. (andrea gagliarducci)

il Fatto 8.4.10
Condannato (per pedofilia) il prete anti-pedofili Aveva inventato un filtro Internet per i minori
di Giorgio Mazzola

L’acqua è buona, ma se non è pura va filtrata. Come Internet”. Con questo slogan il sito www.davide.it presenta il suo filtro “Davide 2.0”, software in grado di proteggere l’utente dalla visione di siti “inadatti ai minori” con contenuti pornografici, pedo-pornografici, violenza, satanismo e via dicendo. Lo ha inventato, nel 2000, un sacerdote piemontese, don Ilario Rolle, 59 anni, fino a pochi mesi fa parroco della chiesa di Santa Gianna Beretta Molla a Venaria Reale, a nord di Torino. Un impegno a favore dei minori che nel 2003 (come scrive egli stesso nella sua pagina personale in rete) gli valse il “mandato” da parte della Curia di Torino “a lavorare sulla rete internet”. L’attività del parroco antipedofilia si è però interrotta; don Rolle, infatti, è stato esonerato – su sua richiesta – dal servizio parrocchiale lo scorso dicembre. Motivo, una sentenza di condanna a 3 anni e 8 mesi per pedofilia emessa con rito abbreviato dal gip di Torino Cristiano Trevisan, di cui ieri sono state rese note le motivazioni. L’uomo, nel 2007, avrebbe abusato di un dodicenne durante un campo estivo ad Ala di Stura, accogliendolo nottetempo nel suo letto e lasciandosi andare “ad atteggiamenti – si legge nella motivazione – in cui non è possibile cogliere i tratti di alcuna innocente manifestazione di affetto, bensì elementi tipici ed evidenti di un abuso sessuale”. In poche parole, carezze e baci sulle labbra non esattamente convenienti. Dunque la decisione della Curia torinese di affidare al parroco di Venaria un incarico tanto importante e delicato è stata una scelta sfortunata? Non esattamente, diciamo pure che è stata incauta. Don Ilario, infatti, era già incappato in disavventure simili. Nel 1990, quando ancora era parroco di Vallongo, piccola frazione di Carmagnola (dove il sacerdote aveva creato un “Pronto soccorso sociale” per l’ospitalità di minori e giovani in situazioni di disagio), fu rinviato a giudizio, insieme ad altri imputati, proprio per pedofilia. Ne uscì con una sentenza di non luogo a procedere grazie a un vizio di forma: la denuncia della madre del minore, vittima degli abusi, non era stata presentata nei termini di legge. Sulla base delle testimonianze di quel ragazzo – definito dal Tribunale “pienamente credibile” – fu però condannato il principale coimputato, un avvocato torinese di 35 anni. Il racconto della vittima coinvolgeva anche il sacerdote e il suo contenuto, allegato agli atti del processo di primo grado da poco concluso, sembra andare ben al di là di equivoche manifestazioni di “affetto”. E non solo, sempre nel 2007, don Ilario denunciò per estorsione un giovane rumeno che minacciava di rendere note le particolari “attenzioni” che il ragazzo avrebbe ricevuto dal parroco di Vallongo. Insomma, la fama di padre Rolle (che, va da sé, ha diritto alla presunzione di non colpevolezza fino al giudizio definitivo) non era esattamente limpida; eppure in Piemonte godeva di un’investitura istituzionale come prete anti-pedofilia. La Curia ribadisce quanto comunicato in una nota lo scorso dicembre: “Profondamente meravigliati e amareggiati per la sentenza di condanna inflitta a don Ilario Rolle – si legge – affermiamo il nostro rispetto per il lavoro della magistratura e nello stesso tempo confermiamo la stima e la fiducia nei confronti del sacerdote, riconoscendo il valore positivo del serio lavoro educativo svolto da anni a tutela dei minori”. E dello stesso avviso sembrano essere i 385 membri del gruppo “Grazie don Ilario Rolle” su Facebook.

Repubblica 8.4.10
Il Vangelo della giustizia
di Vito Mancuso

Quando si parla di «preti pedofili» si toccano due ordini di problemi che occorre tenere rigorosamente distinti: il reato di pedofilia commesso da alcuni esseri umani e la vita delle comunità ecclesiali dentro le quali questi reati sono avvenuti – e forse ancora avvengono. Il primo aspetto si occupa dei preti pedofili in quanto «pedofili» e come tale ha anzitutto un risvolto giuridico, per la precisione penale, consistente nel difendere i nostri figli da chi commette simili mostruosità, senza alcuna distinzione sull´identità dei colpevoli, siano essi preti, suore, vescovi, laici o che altro.
Un pedofilo è prima di tutto un criminale che va isolato e punito. Sempre al primo aspetto del problema pertiene il risvolto antropologico e psicologico che affronta la questione di come sia possibile una tale sconcertante aberrazione, a cui, per quanto ne so, solo gli umani tra tutti gli esseri viventi possono arrivare: capire la causa di un male è il primo fondamentale passo per estirparlo. Questo primo ordine di problemi riguarda la società nel suo insieme, credenti e non credenti, soprattutto alla luce della terribile verità secondo cui la gran parte degli atti di pedofilia avviene tra le mura domestiche.
Il secondo ordine di problemi scaturisce dal fatto che i pedofili in questione sono «preti» e in questa prospettiva i problemi riguardano in particolare la coscienza credente. Sono convinto che tutto dipenda dal chiarire che cosa significa credere in Dio. Intendo dire crederci realmente, non come una specie di condizione preliminare della mente per far parte di una grande associazione umana qual è (anche) la Chiesa cattolica, con la sua bella porzione di potere e di interessi nel mondo. Crederci come qualcosa di vitale, di esistenzialmente decisivo, oserei dire di bruciante. Che cosa significa credere in questo modo nel Dio vivente? Io penso che tale fede in Dio equivalga al credere nella giustizia quale dimensione suprema dell´essere. Giustizia e verità. Di fronte alla storia col suo inestricabile impasto di bene e di male, la vera fede sa che il bene è la realtà definitiva, ultima, assoluta, e come tale giudicante la storia e chi la vive. Il Cristo giudice di Michelangelo che troneggia nella Cappella Sistina alza il suo braccio non solo alla fine, ma anche in ogni momento della storia. E se c´è una qualità che caratterizza il Dio biblico, essa consiste nel diritto e nella giustizia perché «egli ama il diritto e la giustizia» (Salmo 32,5) e «diritto e giustizia sono la base del suo trono» (Salmo 88,15). Non a caso, tra le otto beatitudini di Gesù, solo la giustizia viene ripetuta due volte quale causa di beatitudine: «beati quelli che hanno fame e sete della giustizia», «beati i perseguitati per causa della giustizia». Ne viene che esercitare la giustizia è la prima fondamentale caratteristica del vero credente perché tale esercizio equivale a onorare il primo comandamento, non essendo «non avrai altro Dio all´infuori di me» nient´altro che il supporto teorico della prassi «non ti comporterai in altro modo all´infuori della giustizia». Non in modo tattico, accorto, prudente, diplomatico (strategie molto in uso nei palazzi del potere di ogni tempo); ma solo e semplicemente in modo giusto.
La giustizia è rappresentata al meglio dall´immagine della bilancia. Oggi su un piatto ci sono le esistenze di migliaia di bambini in tutto il mondo (America, Australia, Europa) irreversibilmente devastate a un triplice livello: fisico, psicologico e spirituale. Che cosa è disposta a mettere sull´altro piatto la Chiesa cattolica perché la bilancia possa essere in equilibrio e quindi rappresentare al meglio la giustizia, umana e divina al contempo? Non penso che abbiano peso alcuno le dichiarazioni che gridano al complotto, agli attacchi, all´assedio, esercitando la medesima tattica disorientante spesso utilizzata dai potenti della politica. Occorre piuttosto guardare in faccia la terribile verità e trarne le giuste conseguenze. Torno quindi a chiedere: che cosa mettete sul piatto della bilancia, voi pastori della Chiesa, quando dall´altra parte ci sono l´innocenza e la fiducia di giovani vite che mai potranno più essere come prima? Non si tratta di difendersi davanti agli uomini come una qualunque associazione umana, si tratta di rispondere davanti a Dio. Sapendo peraltro che il mondo intero vi guarda, e che da come risponderete – cercando giustizia e verità, oppure no – si misurerà l´autenticità della vostra fede. E che dall´autenticità della vostra fede in questo terribile frangente dipenderanno per gran parte le sorti del cristianesimo in occidente.
La peculiarità di questo scandalo non sta infatti nella pedofilia, forse neppure nel fatto che i pedofili in questione siano preti, quanto piuttosto nel fatto che voi gerarchie sapevate di questi crimini e che, per non indebolire il potere della struttura politica della Chiesa nel mondo, tacevate e insabbiavate. Non sto forzando i toni, è stato mons. Stephan Ackermann, vescovo di Treviri e incaricato della Conferenza episcopale tedesca per la questione abusi, a parlare di «insabbiamento» e di «occultamento» (Rhein Zeitung del 16 marzo scorso). Per interi decenni avete preferito l´onorabilità della struttura politica della Chiesa rispetto alla giustizia verso le vittime, e quindi verso Dio. Purtroppo le dichiarazioni di molti zelanti apologeti in questi giorni, comprese quelle del cardinal Sodano, appaiono esattamente in linea con la politica degli anni passati all´insegna dell´insabbiare e dell´occultare.
Ancora una volta, non ci si preoccupa di essere all´altezza della giustizia divina e delle anime delle vittime, ma dell´onorabilità del papa, o per meglio dire dei papi (perché una cosa deve essere chiara: se Benedetto XVI viene descritto come il più solerte nemico della sporcizia della pedofilia, ciò non può non gettare un´ombra abbastanza cupa sui ventisette anni di pontificato di Giovanni Paolo II). Gli zelanti apologeti agiscono come se il papa avesse qualcosa da perdere a seguire semplicemente le parole di Gesù nel Vangelo: «È inevitabile che avvengono scandali ma guai a colui per cui avvengono. È meglio per lui che gli sia messa al collo una pietra da mulino e venga gettato nel mare piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli». Vogliono salvare la Chiesa, ma non capiscono che è proprio il loro atteggiamento a renderla sempre più distante dalla sete di giustizia che pervade il nostro tempo.

Repubblica 8.4.10
Si prepara una grande manifestazione per chiedere una riforma
Le vittime Usa degli abusi "Tutti a S. Pietro il 31 ottobre"
La data è simbolica: in quel giorno del 1517 Lutero affisse le sue 95 Tesi
di Arturo Zampaglione

NEW YORK - Due anni fa, in occasione del primo viaggio ufficiale di Benedetto XVI negli Stati Uniti, le vittime dei preti pedofili decisero di mobilitarsi: scesero in piazza, organizzarono manifestazioni di protesta e riuscirono, alla fine, a ottenere un incontro riservato con il Papa. Adesso, con il riesplodere dello scandalo a livello internazionale, gli stessi protagonisti della mobilitazione hanno deciso di rilanciare la lotta promuovendo una "giornata di riforma" della Chiesa cattolica che si terrà a fine ottobre a piazza San Pietro.
«Le vittime di quei reati non potranno superare i loro traumi fino a quando la chiesa non sarà chiamata a rispondere», hanno spiegato al National Catholic Reporter Bernie McDeid e Olan Horne, due delle cinque vittime degli abusi dei sacerdoti della diocesi di Boston presenti al colloquio con il Pontefice il 17 aprile 2008. L´obiettivo è raccogliere almeno 50mila persone nel cuore del Vaticano: non solo vittime, ma anche attivisti per la riforma e normali fedeli. Chiederanno un intervento del Papa. Lanceranno quattro proposte per rendere più trasparente la Chiesa, a cominciare da indagini periodiche, indipendenti e obbligatorie sulle istituzioni ecclesiastiche. Anche la data prescelta - il 31 ottobre - ha un aspetto simbolico: in quel giorno del 1517 Martin Lutero pubblicò le 95 Tesi dando il via alla riforma protestante.
«La nostra mobilitazione andrà avanti a prescindere dalla partecipazione del Santo Padre», chiariscono McDeid e Horne. Come dire: non si aspettano che il Vaticano accolga l´invito, ma non hanno dubbi sulla importanza della loro azione per i destini stessi della Chiesa. McDeid, che definì "storico" il suo incontro con il Papa, ha molti ripensamenti: adesso non crede più che Benedetto XVI abbia capito fino in fondo la drammaticità della questione e ritiene che solo un´azione esterna possa rimettere in carreggiata la vita dei cattolici.
L´annuncio della marcia su San Pietro conferma l´estremo malessere di ampi settori della Chiesa americana. Il tema è in primo piano su tv e giornali: dopo gli attacchi del New York Times e le difese del Papa da parte del Wall Street Journal, il quotidiano conservatore di Murdoch, è stato il Washington Post a ricordare ieri, attraverso il suo esperto di media Howard Kurtz, che il Times ha fatto il suo lavoro giornalistico sui preti pedofili con professionalità.

l’Unità 8.4.10
Dall’elettroshock al supermarket Sul set con Ascanio Celestini
Un cast notevolissimo per il primo film di Ascanio: ci sono Giorgio Tirabassi, Maya Sansa, Barbara Valmorin. Direttore della fotografia: Daniele Ciprì (senza Maresco). Questo per portarci dritti dentro un manicomio...
di Gabriella Gallozzi

Immaginate un manicomio prima della rivoluzione Basaglia. La contenzione, i muri, le chiavi, l’elettroshock. Pensate, invece al presente. O almeno ad un passato vicino che ha visto l'apertura
di quei cancelli: una folla di gente che viene fuori e s'infila in un supermercato. Tutti in silenzio a fare acquisti. «Un acquario alienante in cui spendi soldi virtuali e sei pure contento».
È su questo doppio binario tra passato e presente, tra gli anni settanta e il 2005, che si muove La pecora nera, la pièce che Ascanio Celestini ha deciso di portare al cinema come regista e interprete (producono Raicinema e Bim), dopo essere già stato dietro la macchina da presa per il documentario Parole Sante, sul call center dell'Atesia. E come in tutti i suoi lavori, anche qui punta sulla qualità. A comincia-
re da un grande cast: Giorgio Tirabassi, Maya Sansa, Barbara Valmorin, Luisa De Santis e lui stesso. Come direttore della fotografia ha chiamato Daniele Ciprì (stavolta senza Franco Maresco) e come aiuto regista Valia Santella, della «scuderia» Moretti , autrice di Te lo leggo negli occhi.
LA STORIA DI ALBERTO
Le riprese sono in corso da una decina di giorni a Roma. E ieri la stampa è stata accolta sul set ricostruito in uno dei luoghi simbolo dell'istituzione manicomiale capitolina: Santa Maria della Pietà. È qui che Ascanio ha ricondotto la
storia di Alberto Paolini, uno dei veri testimoni da cui ha tratto in origine la sua pièce, raccogliendo le interviste di chi il manicomio l'ha vissuto sulla propria pelle.
Quella di Alberto è la storia di un uomo che chiuso tra queste mura c'è stato quasi quarant'anni, «quarant'anni di manicomio elettrico». A lui è ispirato il personaggio di Nicola, interpretato da Tirabassi, al quale si affianca lo stesso Ascanio che vediamo anche da bambino, col volto del piccolo Luigi Fedele. «Sarà come sfogliare un libro di fo- to – dice Celestini – attraverso un personaggio che ci racconta lì cos'è successo, seguendo le imma- gini che poi sono quelle che evoca- no le parole e che fanno il cine- ma».
E che sono il suo modo di raccon- tare, evocativo, ipnotico da gran- de affabulatore che usa pure nel corso della conferenza stampa pie- na di aneddoti, storie e persino bar- zellette sul manicomio.
COMICITÀ GROTTESCA
È la sua comicità grottesca, per cui il pubblico è abituato nei suoi spet- tacoli a «ridere nei momenti più terrificanti», dice lui stesso, «e non so perché». Sarà così anche ne La pecora nera film, suggerisce. Un ve- ro atto di accusa contro il manico- mio certamente, ma anche contro tutte le istituzioni. E il loro potere. «La scuola, la chiesa, il carcere, i lager come il manicomio – sottolinea Ascanio – sono le istituzioni che decidono chi è la pecora nera, che attribuiscono lo stigma, divi- dendo in buoni e cattivi. Così co- me avveniva ad Auschwitz quan- do si formavano le file: quella di chi andava a lavorare e quella di chi finiva nella camera a gas».
Sono le istituzioni dunque da sovvertire, da scardinare, prose- gue Celestini: «Come è avvenuto con la 180 così si deve fare per tut- to il resto: scardinare».
Nella realtà, però, le chiavi e i muri di contenzione sono ancora molti. «Del manicomio – conclude Ascanio – restano infatti troppe co- se. Intanto si è passati dalla conten- zione fisica a quella chimica che fa arricchire le multinazionali. Resta- no i manicomi privati, le cliniche le chiamano. Resta l'elettroshock. Re- stano i manicomi criminali. Ma soprattutto resta l'ideologia». Come diceva Basaglia, termina Celestini, «dal carcere alla caserma, dalla scuola al lager il meccanismo è sempre lo stesso. Chi gestisce le istituzioni ne gestisce anche la par- te violenta». E contro tutto questo è la sua Pecora nera.❖

mercoledì 7 aprile 2010

l’Unità 7.4.10
Ru486, tutto quello che non si dice del farmaco e del ricovero
La degenza? Inutile, non necessaria, inapplicabile, svantaggiosa per le donne. La stessa legge 194 parla di eventualità. Elaborare linee guida per fare un «favore» al Vaticano e un dispetto alle donne è controproducente
di Carlo Flamigni

Le dichiarazioni dei due Governatori leghisti che hanno affermato di non voler consentire l’uso della pillola abortiva Ru486, come del resto le esternazioni di alcuni vescovi in loro appoggio, fanno parte della quota di sciocchezze che siamo ormai abituati ad attenderci dai dirigenti della Lega (e, purtroppo, anche da alcuni esponenti della Chiesa Cattolica), persone altrettanto improvvide quanto rapide nella ritrattazione, e non mi pare che meritino particolare attenzione, la legge non dà loro alcun potere del genere e l’elettorato leghista non merita dirigenti così poco assennati. Di ben diverso rilievo è l’intervento del Consiglio Superiore di Sanità (Css), che ha approvato un documento inusuale (ad esempio, riporta complessivamente 170 voci bibliografiche che non sono mai citate nel testo e che contengono, diciamo per il 90%, opinioni completamente difformi dalle conclusioni del Css) che prevede il ricovero ordinario per tutte le donne che sceglieranno di abortire con il metodo farmacologico. Per capirci, si tratta di un tentativo di rendere poco applicabile l’aborto farmacologico costringendo le donne a un lungo, inutile e fastidioso soggiorno in Ospedale. Non mi dispiacerebbe che il Consiglio Superiore di Sanità, che se non sbaglio non è organo di una Loggia Massonica ma, più modestamente, una Istituzione dello Stato, rinunciasse a vietare la diffusione dei verbali delle riunioni e dei documenti interni. Voci di corridoio (voci femminili di corridoio) riferiscono che il Presidente del Css ( Il professor Garaci, Presidente anche dell’Istituto Superiore di Sanità) ha inviato a tutti i membri una lettera nella quale chiedeva (esigeva?) che il documento fosse approvato all’unanimità; le stesse voci riferiscono che l’unanimità non c’è stata e che al contrario ci sono state voci di protesta. Basterebbe un po’ di trasparenza per evitare la diffusione di queste chiacchiere (calunnie?).
Ma parliamo dell’obbligo di ricovero ordinario, una scelta che certamente sarà causa di un contenzioso, almeno con alcune Regioni. La prima cosa da rilevare è che un ricovero ordinario non è necessario, la maggior parte dei Paesi che utilizzano l’Ru486 preferisce il ricovero in Day Hospital e molti altri non ricoverano e lasciano che tutto si svolga a domicilio. Ci sono esperienze amplissime che lo dimostrano e le stesse esperienze italiane lo confermano. Il secondo rilievo è che si tratta di un ricovero inutile, che viene proposto, almeno in teoria, per evitare possibili complicazioni senza tener conto del fatto che, se complicazioni si verificano, sono sempre molto tardive e si manifestano giorni dopo che il ricovero è finito. Terza cosa, si tratta di una scelta in gran parte inapplicabile, la nostra Costituzione ci consente di rifiutare i ricoveri obbligatori, salvo casi che non hanno niente a che fare con questo. Poi è una scelta che va tutta a sfavore delle donne che, quando avranno deciso di firmare la cartella e di tornarsene a casa, cosa che faranno in molte, saranno veramente sole perché la responsabilità delle strutture sanitarie cesserà di esistere. E ancora, è una cosa che va contro il buonsenso clinico e l’esperienza dei medici, l’aborto farmacologico riproduce una situazione frequente nella patologia ostetrica spontanea, l’aborto interno, che nessun medico, nelle stesse iniziali settimane di gravidanza, si sognerebbe mai di ricoverare.
Andiamo avanti. La nostra Costituzione stabilisce l’esistenza di notevoli limiti per tutti i legislatori – e quindi sia per quelli statali che per quelli regionali – per tutto quanto ha a che fare con le modalità di cura e i trattamenti sanitari e non credo che possa essere il Ministro della Salute a poter intervenire nei problemi che riguardano la libertà professionale del medico e il rapporto tra costui e i suoi pazienti, anche tenuto conto del fatto che in questa materia esiste un unico possibile limite, che ha a che fare con la tutela della salute del cittadino-paziente. Ancora: la legge 194, che regolamenta le interruzioni volontarie della gravidanza,non fa mai riferimento a un ricovero ordinario, descrive la degenza come “eventuale”, consente l’esecuzione degli interventi chirurgici negli ambulatori (che non hanno possibilità di ricoverare pazienti). La stessa legge lascia inoltre aperta una strada alla innovazione, quando affida alle Regioni il compito di promuovere l’impiego di tecniche più moderne e più rispettose della integrità fisica della donna (e questo è esattamente il caso). E ancora. Stiamo parlando di trattamenti che appartengono alla categoria dei livelli essenziali di assistenza, cioè di cure che ammettono l’intervento del Ministero solo per quanto riguarda l’idoneità delle strutture, non la modalità con la quale debbono essere erogate. E stiamo parlando del Css, che è autorizzato a dare pareri privi di conseguenze giuridiche specifiche. Insomma saranno le Regioni, molte delle quali hanno già istituito gruppi di esperti capaci di preparare specifiche linee guida, a decidere i comportamenti che sarà saggio adottare. Elaborare linee guida generali basate sul desiderio di fare un dispetto alle donne e un favore al Vaticano non è solo sbagliato, è controproducente. Temo, per concludere, che molte brave persone si siano lasciare confondere da un libro recentemente pubblicato da due gentili signore, nel quale erano contenuti dati peculiari e altrettanto poco credibili suidrammichepotrebberoconseguire all’impiego del farmaco in questione. Il medesimo testo afferma che l’aborto farmacologico determinerà un aumento delle richieste di interruzione della gravidanza, affermazione lesiva della intelligenza delle nostre donne e comunque contraddetta dalle esperienze di tutto il mondo. Secondo questo testo, infine, la totalità di coloro che sostengono che si tratta di un metodo con vantaggi e svantaggi ma che è comunque conveniente utilizzare anche nel nostro Paese, avrebbe venduto l’anima all’Industria Farmaceutica. Poiché personalmente nutro, per l’Industria Farmaceutica, la stessa fondamentale antipatia che provo per le due suddette signore, credo di poter essere assolto da questa accusa. E a proposito del libro in questione, userei una espressione cara agli spagnoli: corramos tupido velo, meglio lasciar perdere. ❖

Repubblica 7.4.10
Ru486. Il turismo dei diritti
di Stefano Rodotà

Strane parole percorrono l´Italia. "Federalismo etico" è una formula che descrive bene non solo un clima, ma una deriva istituzionale già avviata e che può dare il vero tono all´annunciata stagione delle riforme. Quando il neopresidente del Piemonte ha parlato di pillole RU 486 che sarebbero "rimaste in magazzino", si è materializzata davanti ai nostri occhi un´Italia nella quale i diritti fondamentali non sono più un patrimonio che accompagna ogni persona, quale che sia il luogo in cui si trova.
Ma dipendono dalla regione in cui vive, dai capricci della maggioranza d´un momento. Non è una novità in assoluto. Ricordate le ultime fasi della drammatica vicenda Englaro, quando i suoi familiari erano alla ricerca di una struttura ospedaliera dove Eluana potesse trovare quella morte dignitosa che i giudici avevano riconosciuto essere un suo diritto? Il presidente della Lombardia levò alte mura intorno alla sua regione, mentre la presidente del Piemonte correttamente disse che non si sarebbe opposta al ricovero. I giudici amministrativi ritennero illegittima la decisione di Formigoni, ma una rottura si era già consumata e una autorità istituzionale aveva detto ai cittadini che i diritti non erano più diritti, ma l´esito incerto di un peregrinare da regione a regione, di un inedito "turismo dei diritti" non più verso paesi più liberali, ma all´interno dello stesso territorio nazionale.
Vale la pena di aggiungere che assume un bel valore simbolico il fatto che il nuovo annuncio sia venuto proprio da quel Piemonte dove Mercedes Bresso aveva mostrato come le istituzioni debbano rispettare legalità e diritti e che oggi, invece, si allinea su ben altre posizioni (si può suggerire una onesta riflessione agli intelligentissimi politici che continuano a trincerarsi dietro lo schema che vuole sostanzialmente identici i candidati di destra e di sinistra?).
Vero è che la stessa maggioranza ha reagito alle parole di Roberto Cota, e che questi si è prevedibilmente affrettato a dire d´essere stato male interpretato. Ma quelle parole sono comunque rivelatrici di un profondo "spirito di governo", tanto che avevano trovato eco immediata in dichiarazioni dei presidenti di Lombardia e Veneto, così mostrando di quale pasta rischi d´essere fatto il nuovo "vento del nord" che comincia a spirare dopo l´annessione del Piemonte al Lombardo-Veneto.
Mentre, infatti, si discuteva intorno alla pillola RU 486, sono tornate con forza le proposte di riservare l´insegnamento nelle scuole pubbliche a professori autoctoni, che sarebbero gli unici in grado di trasmettere agli studenti "i valori del territorio". Questo è solo un esempio dei molti tentativi di localizzare, di riservare ai nativi quel che dovrebbe appartenere a ogni cittadino, tentativi che sicuramente si intensificheranno dopo l´esito elettorale.
Un´Italia di "gabbie" ben più discriminanti delle vecchie gabbie salariali? Un´Italia in cui si passa dall´inclusione di tutti all´esclusione selettiva basata sulla nascita o sulla residenza? Quando si riformò frettolosamente il titolo V della Costituzione per introdurre elementi di federalismo, si era comunque consapevoli dei problemi che potevano nascere proprio per il rispetto dei diritti. Si stabilì che la potestà legislativa delle regioni deve essere esercitata "nel rispetto della Costituzione"; che spetta allo Stato determinare i "livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale" e assicurare che ciò avvenga "prescindendo dai confini territoriali dei governi locali"; che le regioni non possono adottare "provvedimenti che ostacolino in qualsiasi modo la libera circolazione delle persone tra le regioni, né limitare l´esercizio del diritto al lavoro in qualsiasi parte del territorio nazionale".
Mai come in questo momento, e non solo in Italia, il rispetto dei principi costituzionali, delle libertà e dei diritti delle persone si presenta come il criterio di base per valutare la legittimità di qualsiasi azione politica. I casi ricordati prima ci parlano di un principio d´eguaglianza sempre più respinto sul fondo, e della consapevole creazione di nuove diseguaglianze; della trasformazione di diritti fondamentali, come quello alla salute, in situazioni precarie, affidate alla discrezionalità politica; di una cittadinanza che, invece di essere proiettata al di là d´ogni confine, viene rimpicciolita nelle "piccole patrie". A tutto questo dobbiamo prestare attenzione, perché qui si realizza una riforma costituzionale strisciante, una manomissione di quella prima parte della Costituzione definita, a parole, intoccabile. Qui si contribuisce a determinare una agenda politica che integra quella dettata dal presidente del Consiglio.
Berlusconi ha detto che i prossimi mesi dovranno essere dedicati alla riforma della giustizia e delle intercettazioni, alla riforma fiscale e a quella costituzionale, al presidenzialismo in primo luogo. E a questo si deve aggiungere la ripresa della discussione sulla legge sul testamento biologico. Sono tutte questioni che si prestano assai ad essere valutate proprio con il metro dei diritti fondamentali. Parto da un esempio concreto. L´articolo 13 della Costituzione dice che la libertà personale è inviolabile, ma può essere limitata "per atto motivato dell´autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge". Ma che cosa accade quando il Parlamento è ridotto al silenzio, obbligato a mettere un timbro su leggi in contrasto con i principi costituzionali, e si annunciano riforme che incideranno sull´autonomia della magistratura? Nelle apparenze la garanzia della libertà personale non è toccata, nella sostanza è svuotata.
La distorsione delle garanzie costituzionali è davanti a noi, e rischia di trovare gravi manifestazioni in due leggi che dovrebbero essere approvate in breve tempo. Quella sulle intercettazioni viene giustificata con la necessità di rispettare la libertà e la segretezza delle comunicazioni: ma questo giusto obiettivo può essere realizzato vietando la diffusione di quel che è estraneo alle indagini, senza limitare i poteri della magistratura e il diritto d´informazione. Il testo sul testamento biologico, all´esame della Camera, travolgerebbe il diritto all´autodeterminazione delle persone fondato sull´articolo 32 della Costituzione e ribadito con chiarezza dalla Corte costituzionale. E temo che, dopo le prove generali di reciproco consenso tra maggioranza e Vaticano intorno alla pillola RU 486, proprio la legge sul testamento biologico possa rappresentare il dono che governo e maggioranza intendono fare alla Chiesa, per cementare una alleanza (e accettare una sottomissione).
Che la bussola dei diritti fondamentali non debba mai essere perduta ce lo ha ricordato il presidente della Repubblica non firmando una legge che fa venir meno garanzie essenziali per i lavoratori. L´identità costituzionale si costruisce in primo luogo intorno al rispetto di libertà e diritti, indispensabile non solo per la tutela dei singoli, ma per evitare ogni slittamento verso forme di autoritarismo. Ricordiamolo nel momento in cui questo è lo spirito con il quale gran parte della maggioranza propone un mutamento di regime, abbandonando quello parlamentare per approdare frettolosamente al presidenzialismo.
Una domanda, a questo punto, nello spirito di quelle poste da Ezio Mauro a conclusione del suo ultimo editoriale. L´agenda politica è monopolio della maggioranza, l´opposizione è obbligata a giocare solo in contropiede o può dire la sua, come fece Berlusconi ai tempi dei governi di centrosinistra? Per cambiare l´agenda politica non basta suggerire temi importanti. Indico tre vie possibili. L´uso intelligente del referendum, ma non nella forma che chiamerei, con tutto il rispetto, del referendum-ripicca, per reagire sempre in contropiede a leggi magari indecenti, ma per porre grandi questioni collettive, come sta accadendo con il referendum sull´acqua come bene comune. L´uso intelligente di Internet come strumento di mobilitazione continua, per sollecitare e accompagnare discussioni e iniziative legislative, cercando così di rivitalizzare anche il rapporto tra Parlamento e cittadini. L´uso intelligente dei regolamenti parlamentari che riservano all´opposizione tempi per la discussione di loro proposte: meglio farsi dire di no dopo aver creato attenzione nell´opinione pubblica che farsi poi accusare di non aver fatto nulla.

Repubblica 7.4.10
Il Wall Street Journal rompe il fronte della stampa americana e critica gli attacchi del NYT
Usa, prete indiano accusato di abusi ora la Chiesa collabora alle indagini
Ma l´avvocato antipedofili va avanti e minaccia di promuovere una causa contro la Santa Sede, mentre il sacerdote nega ogni addebito
di Arturo Zampaglione

NEWYORK - Duro e implacabile, l´avvocato Jeff Anderson, che da tempo guida l´offensiva delle vittime americane contro i sacerdoti pedofili, ha aperto un altro fronte. Dopo aver ottenuto decine di milioni di dollari di risarcimento danni e dopo aver denunciato gli abusi di padre Lawrence Murphy sui bambini sordomuti di Milwaukee, il legale ha sollevato il caso di Joseph Jeyapaul, prete indiano che, durante una permanenza nel Minnesota dove era andato ad aiutare la chiesa locale, avrebbe costretto una ragazza di quattordici anni a fare sesso orale.
Tornato nella diocesi di Ootacamund, in India, Padre Jeyapaul, 55 anni, nega ogni addebito. Ma di fronte ai due capi di imputazione dei magistrati della contea di Roseau, nel Minnesota, e alle loro richieste di estradizione, il Vaticano per la prima volta sta collaborando attivamente alle indagini delle autorità americane e ha fornito le informazioni necessarie per rintracciare il prete. Un avvocato californiano della Santa Sede, Jeffrey Lena, ha anche ricordato che la Congregazione per la dottrina della fede, che è l´organismo di vigilanza della Curia romana, aveva già proposto che Jeyapaul venisse spretato, affidando la decisione finale al vescovo locale.
Jeff Anderson, ovviamente, non si accontenta di queste spiegazioni. E già tenta di puntare più in alto, promuovendo una causa nei tribunali americani contro la Santa Sede in quanto responsabile civilmente dei reati commessi dai suoi sacerdoti. Un´ipotesi, questa, che spaventa l´entourage del Papa e che conferma la delicatezza della questione. Non c´è dubbio, infatti, che la moltiplicazione dei casi di preti pedofili, dagli Usa alla Germania, metta in difficoltà la Chiesa e soprattutto Benedetto XVI per il suo ruolo prima nell´arcidiocesi di Monaco, poi come responsabile della Congregazione per la dottrina della fede. Di qui gli sforzi del Vaticano di reagire alle polemiche e il recente intervento dell´arcivescovo di Washington in difesa del Papa.
Intanto la stampa americana, che all´inizio sembrava compatta nel denunciare i tentennamenti e le ambiguità della chiesa cattolica, comincia ad avere posizioni più articolate. A rompere il fronte è stato il Wall Street Journal: a pochi giorni del lancio della cronaca newyorkese, nuova arma di Rupert Murdoch per contrastare il New York Times, il quotidiano finanziario (e conservatore) pubblica un lungo editoriale di William McGurn in cui viene attaccato il giornale rivale. Il Journal accusa il Times di aver sottaciuto il vero ruolo dell´avvocato Anderson nella sua guerra contro i cattolici. «Quando si tratta di fare causa alla Chiesa - scrive McGurn - Anderson è il primo avvocato d´America». Come dire: agisce per interesse privato e con una violenza viscerale. L´editoriale del WSJ si riferisce soprattutto alla vicenda di padre Lawrence Murphy nella scuola dei sordomuti di Milwaukee, ma le stesse considerazioni potrebbero valere per il caso del prete indiano.
Spedito nell´ottobre 2004 nella diocesi di Crookston, nel Wisconsin, per sopperire alla penuria di vocazioni, padre Jeyapaul vi rimase fino al settembre del 2005. Poco dopo il suo arrivo - secondo la denuncia presentata dalla vittima, il cui nome è tenuto segreto - il sacerdote indiano avrebbe chiesto alla ragazza, che aveva appena di 14 anni, di seguirlo nella sagrestia e lì avrebbe minacciato di ucciderla se non avesse obbedito alla sua richiesta di sesso orale. «Tutto falso», protesta Jeyapaul dall´India, ricordando che la sua diocesi indiana ha condotto una inchiesta sul suo conto in cui non è emerso alcun episodio di molestie sessuali. Ma i magistrati del Wisconsin continuano imperterriti per la loro strada, mentre Anderson promette che andrà fino in fondo.

il Fatto 7.4.10
Gli abusi dei sacerdoti sui sordi
Prescrizione colpevole
25 sacerdoti e un vescovo accusati a Verona di violenze su ex allievi sordi, ma i reati non sono più perseguibili
di Vania Lucia Gaito

L’ agghiacciante vicenda dell’Istituto Provolo per sordi, di Verona, sfociata nella testimonianza pubblica di 67 ex allievi che denunciano le violenze sessuali subite, rievoca il caso americano di padre Murphy, venuto recentemente alla ribalta delle cronache.
Testimonianze precise, che coinvolgono 25 sacerdoti e un vescovo, tutti citati per nome. Il vescovo è monsignor Giuseppe Carraro, vescovo di Verona morto nel 1981, per il quale è in corso un processo di beatificazione. Dagli anni ’50 fino al 1984, una sequenza di orrori. Eppure non ci saranno indagini e processi per i sacerdoti coinvolti, neppure per quelli ancora in vita: è intervenuta la prescrizione e i reati non sono più perseguibili.
La legge italiana prevede infatti tempi precisi entro i quali i procedimenti per abusi sessuali ai danni di minori possono essere perseguiti: 10 anni.
“La prescrizione decorre dalla data in cui viene consumato il reato”, afferma l’avvocato Paola Rubino, difensore di parte civile nel processo a carico di padre Turturro (sacerdote antimafia di Palermo, accusato nel 2003 di aver compiuto abusi sessuali ai danni di alcuni bambini della sua parrocchia), conclusosi con la condanna in primo grado a sei anni e mezzo. “Quella della prescrizione è una problematica legata a tutti i tipi di reato, in particolar modo i tempi diventano problematici quando si parla di abusi sessuali. Si tratta di reati consumati con modalità particolari, spesso la vittima è già di suo psicologicamente debole, perché viene da situazioni personali o familiari problematiche. Si instaura poi tra abusante e abusato un meccanismo simile a quello del plagio. Non di rado occorre parecchio tempo, anche anni, prima che la persona offesa sia capace di denunciare l’abuso.”
Come nel caso dei bambini sordi dell’istituto Provolo, come per i bambini delle scuole irlandesi del rapporto Ryan, come per i casi americani, trascorrono spesso anni. Molto però dipende dalla volontà politica di perseguire realmente certi crimini. Negli Stati Uniti, per esempio, lo stato della California approvò una legge che creava una finestra di un anno durante la quale potevano essere presentate denunce senza limiti retroattivi di tempo, in modo che anche abusi commessi decenni prima potessero essere perseguiti e risarciti. In Italia, al contrario, spesso non si riesce ad arrivare a sentenza definitiva prima che siano trascorsi i fatidici dieci anni della prescrizione. Come nel caso di don Giorgio Carli che, condannato in appello a sette anni e mezzo, ha visto prescriversi il reato prima della fine del processo in Cassazione.
“Non è soltanto un problema legato alla tardività delle denunce” prosegue l’avvocato Rubino. “I fattori concomitanti sono molti, le indagini che si dispiegano in lunghi archi temporali, il fatto che molti magistrati siano oberati di lavoro, e poi ovviamente i tempi tecnici tra l’avviso di conclusione delle indagini, il rinvio a giudizio, l’udienza preliminare e tutti quei passaggi previsti dalla procedura. Ovviamente si tratta di un problema che investe sia il denunciante che il denunciato: nel primo caso perché potrebbe intervenire la prescrizione e il reato non sarebbe più punito, nel secondo perché se l’imputato non è colpevole dei reati a lui ascritti la sua innocenza dovrebbe essere riconosciuta il prima possibile.” Spesso le vittime non denunciano perché non hanno la certezza che un eventuale processo si concluda nei termini previsti dalla legge, quindi, ma anche perché temono il giudizio sociale. “Gran parte della società è impreparata, incapace di fronteggiare l’abisso oscuro della pedofilia. Certo, si affronta come tematica astratta, ma quando si ‘incarna’ nel vicino di casa, nel collega di lavoro o nel proprio parroco non si riesce più a coniugare l’immagine pubblica di quella persona con le accuse. E’ uno dei motivi per cui la società si schiera spesso al fianco dell’accusato, non della vittima, emarginando chi, con grande difficoltà, è riuscito a denunciare quanto subito” afferma Massimiliano Frassi, presidente dell’associazione antipedofilia “Prometeo”, che da anni chiede l’allungamento dei tempi di prescrizione del reato, se non che la prescrizione sia del tutto abolita. Frassi è stato fra i primi a schierarsi a sostegno delle vittime della pedofilia clericale e a rompere il muro del silenzio, organizzando già nel 2001 una conferenza con l’associazione “Snap”, che riunisce le vittime statunitensi dei preti pedofili. “Come altre associazioni, anche noi abbiamo ricevuto diverse segnalazioni di vittime di abusi da parte di religiosi, ma in particolare in questi casi ci viene chiesto di aiutare la vittima ma non si vuole sporgere denuncia. Quando si tratta di preti accusati di abusi sessuali, si arriva a situa-
zioni veramente difficili, per la tendenza delle realtà locali a chiudersi in difesa dei propri sacerdoti.”
Resta però aperta la possibilità di un risarcimento dei danni attraverso una causa civile: un danno infatti può manifestarsi anche parecchio tempo dopo, soprattutto laddove risulti di ordine soggettivo. Ma non serve assolutamente a condannare i colpevoli e, soprattutto, a tenerli lontani dai bambini.

il Fatto 7.4.10
Radio Vaticana contro la stampa: “giornalismo senza notizia”

Alla crociata a sostegno del Papa partecipa anche Radio Vaticana, secondo cui gli attacchi del New York Times e dello Spiegel sono un esempio di “giornalismo senza notizia”. Ieri l’emittente ha ricordato che “la notizia è un’altra: Benedetto XVI non ha né approvato né coperto i casi di pedofilia” e ha ospitato un commento del politologo Antonio Baggio, docente dell’Università Sophia di Loppiano, per il quale dietro questi attacchi mediatici “certamente c’è una irresponsabilità etica, perché ci si trova di fronte non tanto ad un lavoro giornalistico di inchiesta ma alla difesa di una tesi precostituita”. “Attaccare il Papa ha proseguito Baggio significa andare ad attaccare il frutto più visibile e migliore di una Chiesa che, peraltro, è ricca di molte altre cose: in questi interventi dunque non c’è soltanto irresponsabilità etica, c’è anche l’ideologia! Cioè un progetto di attacco alla Chiesa nella persona del Papa”. “Il problema ha concluso il politologo è che questo si traduce in una incapacità professionale, cioè non è giornalistico fare queste cose: New York Times, Spiegel e gli altri che li hanno imitati fanno giornalismo nonostante la notizia”.

il Fatto 7.4.10
Da New York a Berlino, la stampa contro il Vaticano
Continua lo scambio di accuse tra New York Times e Vaticano sullo scivolone di Cantalamessa
Nessuno chiede le dimissioni del pontefice, ma si chiede una riflessione e si mette in discussione il celibato dei preti
di Angela Vitaliano

Ci sono, in questi giorni, almeno a partire dallo scorso venerdì, due correnti di opinioni, entrambe critiche e severe nei confronti del Vaticano, che continuano a muoversi incessantemente e non accennano a voler toccare lidi più tranquilli. Da un lato, soprattutto negli Stati Uniti, c’è il senso di offesa che gli ebrei continuano a lamentare per il paragone fatto dal predicatore papale Cantalamessa, fra le persecuzioni naziste di cui furono vittime e gli attacchi al Papa per gli scandali della pedofilia. Non sono bastate le scuse nè le sottolineature da parte di Roma a sostegno del fatto che la posizione di Cantalamessa non coincida con quella della Chiesa: se da un lato i vertici ecclesiastici interpretano ciò che accade in questo periodo come una minaccia alla fede cattolica, dall’altra gli ebrei giungono esattamente alla stessa conclusione, considerando lo “scivolone” del Vaticano come un attacco all’ebraismo. Nè giova il reiterato atteggiamento di accusa della Chiesa nei confronti della stampa e, in particolare, del New York Times, additato, senza nemmeno tanti giri di parole, come centro di potere degli ebrei americani. Il rigore e la serietà di un giornale che a New York è come una Bibbia e fuori poco meno, non sono mai state messe in dubbio dai lettori, soprattutto per ragioni di ordine “religioso”. Se un cattolico newyorchese, insomma, legge il NYT si aspetta una reazione più strutturata di una semplice difesa basata sull’insinuazione che il giornale voglia deliberatamente gettare discredito sulla Chiesa. Ed è chiaro, più di tutto,
in questi giorni, che al di là degli scandali che continuano a moltiplicarsi, ciò che lascia particolarmente perplessi gli americani è la debolezza della difesa e l’assenza di un atteggiamento risolutivo di cambiamento che ridia spessore e forza alla sacralità del cattolicesimo di cui il Vaticano è Stato e dirigenza.
Se, dunque, la difesa della Chiesa passa, particolarmente, attraverso il silenzio o lo sdegno verso la stampa, quest’ultima non tiene il colpo e risponde punto per punto con un’eco che attraversa l’Europa, fino a qui, negli Stati Uniti, dove tutto è, in un certo senso, iniziato. E sebbene nessuno suggerisca la scelta delle dimissioni del Papa, da tutte le parti arriva chiaramente la richiesta di una riflessione profonda e di un mea culpa che possa
consentire di superare la crisi, magari aprendo una discussione su temi “scottanti” come quello del celibato dei preti e dell’impossibiità per le donne di servire messa. Proprio sul tema del celibato, interviene la Tribune de Geneve in un articolo/intervista con un prete che denuncia il divieto fatto ai preti di contrarre matrimonio come una delle cause principali delle pratiche pedofile. Il prete, che parla sotto anonimato, rivela di aver scelto di vivere con la compagna con la quale condivide un “profondo senso di disgusto per l’ipocrisia”.
Un punto sul quale sembra essere d’accordo anche la chiesa belga che, come riportato dal quotidiano Le Soir, ritiene utile l’istituzione di una commissione d’inchiesta per indagare in maniera seria sul problema della pedofilia e sulle strategie per estirparlo dall’istituzione ecclesiastica. Durante l’omelia pasquale, Monsignor Leonard ha pronunciato parole precise al riguardo sottolineando la necessità improcrastinabile di “restituire la dignità a coloro che furono ignobilmente abusati”. In un intervento molto meno criptico di quelli arrivati dal Vaticano, monsignor Leonard ha convenuto che “con un silenzio colpevole, si è scelto troppo spesso di proteggere la reputazione di alcuni uomini di chiesa piuttosto che l’onore dei bambini abusati”. Intanto, il quotidiano tedesco Die Zeit sposta l’attenzione dalle responsabilità’ di Ratzinger, facendole pesare particolarmente sull’attuale numero due del Vaticano, Tarcisio Bertone, giudicato il vero responsabile dell’insabbiamento della storia degli abusi sessuali sui duecento bambini sordi per opera di padre Lawrence Murphy.

il Fatto 7.4.10
I misteri irrisolti dell’era Sodano
Bertone: “Il papa è forte e lo sosteniamo”
di Marco Politi

Il Vaticano fa quadrato intorno a Benedetto XVI. Dice “basta” il cardinale Bertone, affermando che “è un Papa forte, il Papa del Terzo millennio, lo sostiene tutta la Chiesa”. Mentre il cardinal Sodano considera il Papa “perseguitato come Pio XII”. Ma gli insabbiamenti sono provati e il mondo attende r isposte.
WATERGATE. In America il Washington Post giudica la crisi un Watergate per la Santa Sede. In Francia Libération chiede: “Bisogna cambiare Papa?”. Non c’è bisogno di scoop per documentare che negli ultimi decenni del secolo scorso in Vaticano certi crimini non si sono voluti vedere. Un caso di insabbiamento da manuale è sotto gli occhi di tutti. Riguarda il fondatore dei Legionari di Cristo: Marcial Maciel Degollado. Le vicende del pedofilo Maciel Il Fatto le ha già riportate. Ma ci sono interrogativi che riguardano direttamente il cardinale Sodano e la gestio-
ne del potere in Curia durante il pontificato di Giovanni Paolo II e le informazioni che venivano trasmesse allo stesso papa Wojtyla. Le date sono importanti. Maciel si trascina delle accuse già dal 1948. Nel 1978 lo accusa di abusi con una lettera a Giovanni Paolo II l’ex presidente dei Legionari di Cristo negli Usa: Juan Vaca. Non succede niente. Nel 1989 Vaca ritenta. Invano.
Finché nel 1997 viene lanciata sui mass media una denuncia pubblica di abusi firmata da otto ex legionari di rilievo. All’epoca papa Wojtyla è già malato, si occupa delle strategia geo-politiche e lascia ai suoi fedelissimi l’“amministrazione”. Al vertice del potere curiale ci sono tre personalità: il Segretario di Stato Sodano, il segretario personale del pontefice Dziwisz, il cardinale Ratzinger per quanto riguarda l’ortodossia della Dottrina.
Le norme ecclesiastiche sono state fondamentali nel creare una “cultura dell’omertà”
Il 17 ottobre 1998 due degli accusatori, Arturo Jurado Guzman e José Barba Martin, vanno direttamente alla Congregazione per la Dottrina della Fede, guidata dal cardinale Ratzinger. Incontrano il sottosegretario padre Gianfranco Girotti, domandano formale apertura di un processo canonico nei confronti di Maciel. Li accompagna l’avvocato Martha Wegan, giurista serissima, ben nota in Vaticano e a Ratzinger.
Aver potuto presentare l’accusa appare incoraggiante agli otto firmatari. Ma il 24 dicembre 1999 l’avvocato Wegan scrive ai suoi assistiti: “ Diciassette mesi sono passati e l’unica notizia, comunicata dal vostro legale, è che il caso è estremamente delicato e ci sono altre denunce correlate”. Il 31 luglio 2000 Barba Martin incontra nuovamente in Vaticano padre Girotti. Niente. L’avvocato Wegan informa per lettera i suoi assistiti che “per il momento il caso è chiuso”.
SILENZIO. Ancora nel 2002 – a proposito del documento ratzingeriano De delictis gravioribus scritto per sottoporre a veloce e rigoroso processo nel Sant’Uffizio i sacerdoti che abbiano commesso abusi sessuali su minori di 18 anni, anche approfittando della confessione e persino assolvendoli – un esperto di cose vaticane come Sandro Magister scriverà: “Intanto, però, il Vaticano tiene bloccata da due anni una causa canonica contro un prete famosissimo e potentissimo, pluriaccusato proprio di questi ultimi peccati”. Solo nel 2004 a pochi mesi dalla morte di papa Wojtyla il cardinale Ratzinger riuscirà ad aprire l’inchiesta sul fondatore dei Legionari. Lui sa chi e che cosa lo hanno frenato fino a quel momento. E il cardinal Sodano potrebbe spiegare per quali motivazioni in Curia le accuse contro Maciel non furono prese in considerazione.
Ciò che è successo per anni e le domande odierne della stampa internazionale sono tutto fuorché un “chiacchiericcio”, come si è espresso a Pasqua davanti al Papa lo stesso Sodano, oggi decano del collegio cardinalizio. Fondamentali nel creare una “cultura dell’omertà”, portando in un modo o nell’altro a degli insabbiamenti sono state le norme ecclesiastiche fino al 2001. A rileggerle si capisce quanto hanno contribuito a creare il “muro del silenzio” dietro il quale tutto poteva continuare ad accadere.
Il Cr imen sollicitationis (r ielaborazione del 1962 di un testo del 1922) tratta proprio dell’“adescamento” di un penitente prima, dopo o con il pretesto della confessione. Punto debole basilare: l’ordine ai vescovi del mondo che il testo sia da “archiviare diligentemente negli archivi segreti della curia come strettamente confidenziale. Non deve essere reso pubblico né corredato da commenti”. Tutti gli attori processuali sono obbligati al “silenzio perpetuo” sotto pena di scomunica automatica. Il voto di segretezza deve essere dato anche dagli accusatori, da chi denuncia e da chi testimonia. (E’ chiaro che un conto è la segretezza dell’istruttoria per non esporre al ludibrio sia la vittima sia l’accusato, che può anche rivelarsi innocente, e un conto è il “silenzio perpetuo” che in pratica ha favorito i predatori seriali). La gamma delle pene è ampia. Si va dalle “salutari penitenze” alle “ammonizioni” e “correzioni”. Solo per ultimo è prevista la rimozione dall’incarico, “se il caso lo richiede”. (Un’elasticità fatale, che ha danneggiato le vittime). Deleteria per gli effetti provocati è la disposizione che i vescovi “potranno pure trasferire (ad altro incarico)” il prete, definito “inadempiente”. Anche il codice di diritto canonico, canone 1395, prevede “giuste pene” per chi abusa di un minore di sedici anni “fino alla dimissione dallo stato clericale”. (Ancora una volta è l’ultima ratio. I vescovi americani dopo l’esplosione degli scandali potranno varare la tolleranza zero solo con il nuovo millennio).
Con il documento del 2001 De delictis gravioribus, voluto dal cardinale Ratzinger si avverte che il clima è cambiato. Ratzinger vuole che tutto passi al Sant’Uffizio. Fra i delitti “più gravi” vengo elencati la sollecitazione sessuale del penitente con il pretesto della confessione e specialmente il “delitto contro il sesto comandamento commesso da un chierico con un minore di diciotto anni”. La prescrizione di dieci anni parte solo dopo il compimento dei diciotto anni della vittima. I vescovi devono segnalare subito i casi al Sant’Uffizio, appena appurato che la notizia del delitto sia “verosimile”. Resta però il precetto che “le cause di questo genere sono soggette al segreto pontificio” e soprattutto non appare ancora nel documento la centralità dell’ascolto e della cura da riservarsi alla vittima. C’è un passato che pesa. Non basterà che sull’Osservatore Romano il cardinale Sodano evochi un secolo di attacchi alla Chiesa.

il Fatto 7.4.10
De Delictis Gravioribus

I DELITTI PIÙ GRAVI RISERVATI ALLA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE: Contro la santità dell’augustissimo sacramento e sacrificio dell’eucaristia:
1° l’asportazione o la conservazione a scopo sacrilego, o la profanazione delle specie consacrate; 2° l’attentata azione liturgica del sacrificio eucaristico o la simulazione della medesima;
3° la concelebrazione vietata del sacrificio eucaristico assieme a ministri di comunità ecclesiali, che non hanno la successione apostolica ne riconoscono la dignità sacramentale dell’ordinazione sacerdotale;
4° la consacrazione a scopo sacrilego di una materia senza l’altra nella celebrazione eucaristica, o anche di entrambe fuori della celebrazione eucaristica; Contro la santità
del sacramento della penitenza:
1° l’assoluzione del complice nel peccato contro il sesto comandamento del Decalogo; 2° la sollecitazione, nell’atto o in occasione o con il pretesto della confessione, al peccato contro il sesto comandamento del Decalogo, se è finalizzata a peccare con il confessore stesso;
3° la violazione diretta del sigillo sacramentale; Contro la morale: il delitto contro il sesto comandamento del Decalogo commesso da un chierico con un minore al di sotto dei 18 anni di età.

il Fatto 7.4.10
Il reverendo Jeypau accusato di abusi da una quattordicenne è pronto a farsi giudicare

Sarebbe pronto a fare piena chiarezza di fronte a una corte di Giustizia il reverendo Joseph Palanivel Jeypaul, accusato di abusi sessuali da una ragazza quattordicenne in Minnesota. E questo contrariamente alle prime corrispondenze giornalistiche, che raccontavano delle resistenze del sacerdote indiano a tornare negli Stati Uniti per affrontare un processo. La quattordicenne avrebbe accusato Jeypaul di averla minacciata di uccidere la sua famiglia se lei non fosse andata con lui nel rettorato, dove l’ha poi forzata ad avere un rapporto orale. Il Vaticano, informato delle accuse, si sarebbe limitato a rispedirlo nella sua diocesi di origine. Monsignor Almaraj, il vescovo che ha sotto la sua giurisdizione Jeypaul, ha dichiarato che questi lavora nel suo ufficio e che non si occupa di bambini. L’allerta in Vaticano è altissima, e la linea è quella di cercare di fare chiarezza e parare ogni nuovo colpo. Scende in campo per difendere il Papa Donald Wuerl, arcivescovo di Washington, che scrive in una lettera
aperta ai fedeli l’impegno di Ratzinger sulla pedofilia. L’attuale Papa – scrive Wuerl – è stato fermo nel suo aiuto a tutti i vescovi americani quando abbiamo chiesto dei cambiamenti nelle norme canoniche in modo da rendere più celere ed efficace la rimozione di sacerdoti coinvolti in abusi sessuali su minori. Ed è profonda la sua preoccupazione per chi è stato oggetto di abusi sessuali”.
Intanto una petizione sul sito ufficiale del governo britannico chiede che il Primo Ministro “dissoci il governo britannico dalle visioni intolleranti del Papa prima della sua visita in Inghilterra del Settembre del 2010”. Il documento – on line da un po’ di tempo – è stato postato da Peter Thatchell, attivista dei diritti umani, fondatore dell’ala sinistra del Green Party inglese. La petizione ha raccolto già 12245 firme. E torna d’attualità per una delle (tante) accuse rivolte al Papa nel testo: “Chiediamo al Primo Ministro di esprimere il suo disaccordo con il ruolo del Papa nella copertura degli abusi sessuali da parte del
clero”. Subito, per contraltare, i cattolici inglesi hanno creato un altro sito: Support the Pope, nel quale si raccolgono espressioni di amore al Pontefice. La stampa anglosassone aspettava al varco Benedetto XVI: si attendeva, per Pasqua, una presa di posizione netta del Papa riguardo lo scandalo degli abusi. Ogni singolo passo è sotto la lente di ingrandimento, a cominciare dal prossimo viaggio a Malta, dove sono 45 i sacerdoti accusati di abuso sessuale.
Negli Stati Uniti, è il blog di Usa Today – uno dei più diffusi quotidiani tabloid americani – a riprendere il dibattito, con un post dal titolo eloquente: “La crisi della Chiesa riguarda gli abusi sessuali ... o la leadership?” E Bob Schieffer, nella trasmissione televisiva Face the Nation della Cbs, ha sostenuto che la Chiesa dovrebbe sistemare il suo reparto di pubbliche relazioni, dato che prominenti voci Vaticane hanno fatto le maggiori gaffes durante la Settimana Santa.
Andrea Gagliarducci

il Fatto 7.4.10
Giustizia, idee per un check-up
di Gian Carlo Caselli

Si riparla di riforme. Riforme istituzionali e riforme della giustizia. Da più parti c’è un’apertura di credito ad una nuova fase della politica. Una fase cui si dice di voler guardare con serenità. Aderisco a questa prospettiva. Che è quella di cui il nostro Paese ha bisogno. Ma siamo reduci da una campagna elettorale che (persino nelle valutazioni di personaggi insospettabili di indulgenze partigiane) ha visto la maggioranza baldanzosamente imporre alla democrazia italiana pesanti limitazioni. Sarebbe interessante chiedersi quale sortilegio masochistico abbia spinto l’opposizione ad accettare con rassegnata passività una simile imposizione, ma non mi compete. Solo che, volendo parlare di riforme (comprese quelle relative alla giustizia) prescindere dal cosiddetto contesto è impossibile. Farlo sarebbe semplicemente fuorviante. Così, quando si tratta di riforme istituzionali, quel gran disquisire di “premier eletto dal popolo” piuttosto che di “semi-presidenzialismo alla francese”, oppure di “presidenzialismo Usa” preferibile al “modello Westminster”, rischia di essere appunto un dotto e gran bel disquisire: che però non tiene sufficiente conto del fatto che sullo sfondo, nella contingente realtà del nostro Paese, potrebbe anche esserci una certa insofferenza per le regole e per i controlli, che in ogni democrazia moderna devono potersi esplicare davvero e non solo per finta. E poiché tra questi controlli c’è, indiscutibilmente, anche quello di legalità, ecco che tutto finisce per tenersi: per cui parlare di riforma della giustizia in astratto, senza sporcarsi le mani facendosi carico di quel che concretamente offre il convento, sarebbe perlomeno da ingenui. Che cosa offre il convento, nell’Italia di oggi? Spiace doverlo rilevare, ma le strade della verità e di una certa politica non sempre coincidono. Così, si parla di riforma della Giustizia, ma spesso si deve leggere mortificazione della giurisdizione, in particolare dei pubblici ministeri. Il problema dei problemi della giustizia italiana (lo sanno tutti) è l’interminabile, vergognosa durata dei processi, civili e penali. Ciò significa – indiscutibilmente – che è su questo versante che occorre intervenire: altrimenti si mena il can per l’aia. Tante, e semplici, sono le cose che si possono fare – subito, senza spendere molto – per rimediare alla situazione di denegata giustizia che oggi affligge il nostro Paese. Partiamo dalle “procedure”, vale a dire dalle norme che tracciano il percorso che il processo deve seguire. Non bisogna essere giuristi per capire che questo percorso dovrebbe essere una linea dritta e piana che collega il fatto-reato alla individuazione del presunto colpevole. Se invece è un percorso a ostacoli, pieno di curve, controcurve e trabocchetti (spesso privilegi travestiti da garanzie), diventa purtroppo facile, e spesso inevitabile, che la fine non arrivi mai. Rendiamola finalmente possibile, una fine in tempi ragionevoli! Per esempio eliminando, fra i tanti gradi di giudizio in cui si articolano le “procedure”, l’appello. Troppo semplice? Allora cerchiamo almeno di introdurre qualche filtro, che impedisca di ricorrere sistematicamente in Appello e poi in Cassazione. Che è quel che oggi regolarmente succede e che la propaganda scrupolosamente nasconde. Anche quando la verità è che l’imputato confesso, condannato in primo grado al minimo dei minimi della pena, ricorre sempre e comunque. Prima o poi qualcosa potrebbe arrivare, indulto o amnistia, processo breve o prescrizione: si può sempre sperare che la condanna inflitta sarà cancellata, in un modo o nell’altro. E allora, mancando qualunque filtro, ricorsi su ricorsi: fondati su niente, ma capaci di inflazionare e intasare il sistema, facendolo implodere. Se si strilla che la giustizia non funziona, e poi non si fa niente di niente sul versante delle “procedure”, ecco uno scarto inaccettabile fra proclami e verità.
E semmai le “procedure” sembrassero roba per specialisti, possiamo provare a scendere un piano di sotto, ragionando in termini di uomini e risorse. Ormai da una quindicina di anni non si assumono più segretari e cancellieri, mentre molti (e sempre di più) fra quelli in servizio se ne vanno appena possibile, perché le croniche insufficienze di organico li costringono a ritmi e carichi di lavoro decisamente insopportabili. Risultato? La macchina – si fa per dire – della giustizia ha le ruote sgonfie: spesso è bloccata e quando riesce a muoversi lo fa perdendo colpi su colpi. Stupirsi dei tempi interminabili della giustizia, stando così le cose, equivale a stupirsi del fatto che la pioggia è bagnata. Dunque, per restare in argomento, non ci piove: se non si interviene prima di tutto sulle “procedure” e sulle risorse, tutto il resto è fuffa o specchietto per le allodole. Spiace dover ricorrere a queste metafore, ma non c’è altro modo per cogliere lo scarto rispetto alla verità. Modificare la legge elettorale e la composizione del Csm (che ha certo i suoi difetti, ma è comunque inviso agli ambienti che contano proprio perché lo si vorrebbe “più addomesticabile”: Antonella Mascali lo ha dimostrato sul Fatto di ieri) ; separare le carriere; rivedere il rapporto di dipendenza della Polizia giudiziaria dal pm; intaccare il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale: sono questi gli interventi che una robusta corrente di pensiero vorrebbe per il nostro Paese. Ma presentarli come pilastri della riforma della giustizia significa discostarsi dal vero. Perché nessuno di essi innalzerà anche di un solo millimetro il livello di efficienza del servizio o ridurrà di un solo nanosecondo l’interminabile durata dei processi. Tutto resterà come prima o peggio, nel senso che la giustizia continuerà ad andare a rotoli esattamente come prima. Una sola cosa cambierà: l’indipendenza della magistratura, che per effetto delle “riforme” in cantiere subirà inevitabilmente consistenti riduzioni. Conseguentemente (elementare, Watson...) sarà ridotta la possibilità della magistratura di esercitare il controllo di legalità anche sui pubblici poteri. Così il cerchio si chiude. A sigillarlo ermeticamente provvederà la riforma delle intercettazioni, che ridurrà massicciamente la possibilità degli inquirenti di utilizzare questo indispensabile strumento di scoperta della verità in un’infinità di casi delicati e gravi. Sacrificando sull’altare degli interessi di pochi la sicurezza di tutti i cittadini, che proprio nelle intercettazioni ha il suo più sicuro baluardo. E’ scontato che diminuendo le intercettazioni diminuirà il numero dei criminali e delinquenti assicurati alla giustizia. Ma quando i cittadini se ne accorgeranno, c’è da scommettere che i soliti noti, ancora una volta, ne addosseranno la colpa... alla magistratura.

l’Unità 7.4.10
Intervista a Salam Fayyad
«Guai a fare su Gerusalemme una guerra di religione»
Il primo ministro palestinese: la pace è possibile i compromessi necessari. Ma si fermino le colonie Su questo misureremo le intenzioni di Israele
di Umberto De Giovannangeli

La prima considerazione è una speranza e, al tempo stesso, una sfida: «Il 2011 sarà l’anno di nascita dello Stato indipendente di Palestina». La seconda affermazione è legata al presente: «Il primo ministro israeliano (Benjamin Netanyahu) dice di essere disposto a riprendere il negoziato senza pregiudiziali. Ma è lui a porle in atto nei fatti, proseguendo la colonizzazione in Cisgiordania, dichiarando che lo status di Gerusalemme non è materia di trattativa... In questo modo gioca con le parole e rende ancor più problematico il dialogo».
A parlare è Salam Fayyad, primo ministro palestinese. Il capo dello Stato israeliano, Shimon Peres, lo ha definito il «Ben Gurion palestinese», la Casa Bianca e le cancellerie europee lo considerano un politico accorto, capace, determinato. «So bene afferma Fayyad che un accordo di pace non può che nascere da un compromesso tra le rispettive ragioni e aspirazioni. Sono convinto che su ogni questione cruciale sia possibile raggiungere una intesa che permetta la nascita di uno Stato di Palestina che viva in armonia a fianco dello Stato d’Israele». Ma per dare corpo a questa speranza c’è da rimuovere l’ostacolo-insediamenti. Su questo punto, il premier dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) è perentorio: «Israele deve fermare ogni forma di insediamento, in Cisgiordania come a Gerusalemme Est, e non può continuare a insistere per la loro “crescita naturale”. Questo è un punto per noi dirimente su cui misurare le reali intenzioni del governo israeliano». Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu rivendica il diritto d’Israele a costruire a Gerusalemme Est e sostiene la “crescita naturale” degli attuali insediamenti. «Non c’è nulla di “naturale” in quella crescita. La colonizzazione dei territori occupati è stata una costante dei governi israeliani succedutisi in questi anni, quello attuale, nelle sue componenti più radicali, aggiunge una valenza ideologica alla colonizzazione. La novità politica, in positivo, semmai è un’altra...». Quale sarebbe? «Mi riferisco alla determinazione con cui il presidente degli Usa, Barack Obama, pone il blocco degli insediamenti come atto indispensabile per ridare slancio al processo di pace. Il presidente Obama, come peraltro la segretaria di Stato Hillary
Clinton hanno chiarito molto bene cosa intendano per blocco degli insediamenti, e lo stesso hanno fatto l’Unione Europea e il Quartetto (Usa, Onu, Ue, Russia, ndr): non solo la non costruzione di nuovi, ma anche lo stop alla crescita degli attuali. La nostra posizione coincide pienamente con quella del presidente Obama. Ciò che chiediamo a Stati Uniti ed Europa è di agire assieme per realizzare le condizioni minime per la riapertura di un tavolo di trattative, partendo dallo stop degli insediamenti».
Più in generale, qual è la richiesta che Lei avanza per riaprire un tavolo negoziale con Israele? «Una scrupolosa realizzazione della Road Map (il Tracciato di pace del Quartetto). Quando poniamo la questione degli insediamenti ci riferiamo proprio a questo».
Quando parla del popolo palestinese si riferisce anche alla diaspora? «Certo che sì. So a cosa vuole alludere: al diritto al ritorno. Su questo punto voglio essere molto chiaro: non è nostra intenzione usare i rifugiati per alterare gli equilibri interni a Israele. Un compromesso che contempli le rispettive necessità ed aspettative, è possibile, ed è già stato materia di discussione. E Benjamin Netanyahu lo sa bene. Noi vogliamo guardare al futuro e non restare prigionieri del passato. Per questo sosteniamo che tutti i palestinesi avranno il diritto di vivere nello Stato di Palestina».
Almeno sulla smilitarizzazione è possibile un’intesa? «Siamo disposti a discuterne senza pregiudiziali. Ma lo stesso deve fare Israele sugli altri punti chiave di un accordo di pace globale, a cominciare dagli insediamenti e dai confini. L’unilateralismo così come la politica dei fatti compiuti non aiutano certo il dialogo».
La pace passa per Gerusalemme. Netanyahu ha ribadito che Gerusalemme era, resta e sarà per sempre capitale unica e indivisibile d’Israele. Come risponde?
«Rispondo che nessun dirigente palestinese, neanche il più moderato e disposto al compromesso, potrebbe mai accettare questo assunto. Nessuno può rivendicare il possesso assoluto di Gerusalemme. Aggiungo anche che è stato uno sbaglio rinviare la discussione su Gerusalemme ad una seconda fase del negoziato. Il rinvio non è una buona politica. Va preso atto che la logica dei due tempi che sottintendeva gli accordi di Oslo-Washington non ha funzionato. La questione di Gerusalemme deve essere trattata subito e va sgomberato il campo da ogni implicazione ideologica o religiosa. Il problema è politico e come tale va affrontato e portato a soluzione. Guai a realizzare su Gerusalemme un conflitto di religione».
Signor primo ministro, Lei ha ribadito più volte in questi ultimi tempi il diritto dei palestinesi a opporsi all’occupazione. C’è chi l’ha accusato di deriva estremista.
«Se così fosse, sarebbero da considerare pericolosi estremisti anche Gandhi e Martin Luter King... Nessuno può chiedere ad un popolo oppresso di accettare in silenzio, passivamente la sua condizione. Abbiamo il diritto di dire: basta. Il punto cruciale sono gli strumenti della resistenza, il suo carattere popolare...». Lei ha avuto parole di apprezzamento per la resistenza non violenta condotta da palestinesi e pacifisti israeliani a Bil’in e Naa’lin...
«Quella è una strada da seguire. Perché dimostra che esiste un’alternativa vera, praticabile, tra rassegnazione e lotta armata...».
Signor primo ministro, Lei ritiene davvero che esistano ancora gli spazi e la volontà per giungere ad un accordo di pace?
«Ho ben presente gli ostacoli, le resistenze, la forza di quanti lavorano alacremente per sabotare sul nasce ogni sforzo diplomatico. Tuttavia resto convinto che la maggioranza dei due popoli desideri vivere in pace e chiedano alle loro leadership di avere il coraggio di “osare” la pace. Una pace tra eguali, non tra padroni e schiavi». ❖
(ha collaborato Osama Hamdan)