venerdì 9 aprile 2010

l’Unità 9.4.10
Primo Piano. La Chiesa nella bufera
Da predicatore vaticano a supporter di Arkeon l’associazione accusata di violenze sui minori
Padre Cantalamessa, il frate che ha accostato lo scandalo pedofilia con l’antisemitismo, è tra i sostenitori del leader del gruppo Sacred Path, Vito Carlo Moccia, a giudizio a Bari per associazione a delinquere. E non solo
di Giovanni Maria Bellu

l processo è in corso a Bari. Gli imputati sono undici, accusati di reati quali associazione a delinquere, truffa, violenza privata, maltrattamento di minori. Il decreto che dispone il giudizio di Vito Carlo Moccia, inventore del metodo Arkeon, e presidente dell’associazione “Sacred Path”, è un repertorio di violenze psicologiche atroci. La più perfida consisteva nel fare credere agli adepti di aver subito nell’infanzia una violenza sessuale. Per questo si resta di stucco quando, nel leggere l’enorme materiale di documentazione sul “caso Arkeon”, si scopre che il più autorevole sostenitore di questa organizzazione è stato padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa pontificia, il frate cappuccino che lo scorso 2 aprile, parlando in presenza di Benedetto XVI, ha scatenato uno scandalo planetario paragonando la campagna di stampa sulla pedofilia nella Chiesa con «gli aspetti più vergognosi dell’antisemitismo».
È una storia complicata che si sviluppa in un lungo arco di tempo. Conviene, dunque, andare con ordine. Fondata da Vito Carlo Moccia nel 1999, l’associazione “Sacred Path” (cioè “il sentiero sacro”) nel Duemila, con l’invenzione del metodo Arkeon, assume la natura che l’ha portata in tribunale. Ma in quei primi anni opera con discrezione, aumentando proseliti e profitti attraverso un discreto passaparola. Ha anche una buona stampa. La popolarità televisiva arriva l’11 settembre del 2004. E quel giorno che il nome di padre Raniero Cantalamessa compare per la prima volta accanto a quello di Vito Carlo Moccia. Il predicatore dedica una puntata della sua rubrica televisiva “A sua immagine, le ragioni della speranza”, che va in onda tutti i pomeriggi del sabato su RaiUno, al metodo Arkeon e conduce un'intervista encomiastica a Moccia sul rapporto padre-figlio.
Ancora del lato oscuro di Arkeon non si è parlato. Cantalamessa, dunque, potrebbe essere ignaro di tutto. Deve infatti passare un altro anno e mezzo prima che lo scandalo esploda. Il 20 gennaio del 2006, Maurizio Costanzo ospita nel suo “Tutte le mattine”, che va in onda su Canale5, la psicologa Lorita Tinelli, presidente del Cesap (Centro studi sugli abusi psicologici) e due ex adepti di Arkeon: un “maestro” e una “allieva”. La denuncia dei metodi di Moccia è precisa e circostanziata: le accuse che sono alla base del processo in corso a Bari per la prima volta diventano pubbliche.
Ma Padre Cantalamessa non cambia idea. Al contrario. Un mese dopo a Milano, nella chiesa di S. Eustorgio, celebra una messa alla quale assistono Vito Carlo Moccia e centinaia di suoi discepoli. La cosa colpisce e sorprende quelli che già nutrono molti dubbi sulla vera natura di “Sacred path”. Perché il presentarsi come associazione non solo tollerata ma addirittura approvata dalla Chiesa è uno degli argomenti più forti di una campagna di proselitismo sempre più intensa: il numero degli adepti arriverà a sfiorare la ragguardevole cifra di ventimila.
L'Unità è in grado di raccontare quale fu il comportamento di padre Cantalamessa quando alcune persone si rivolsero a lui per segnalargli specifiche tragedie familiari prodotte dal metodo Arkeon. L’autenticità di questi documenti che aiutano a ricostruire quale retroterra culturale e anche spirituale ci sia dietro la clamorosa gaffe su pedofilia e antisemiti-
smo è certificata. Sono stati, infatti, prodotti dai legali di Vito Carlo Moccia a sostegno di un atto di citazione contro il Centro studi sugli abusi psicologici. In sostanza Moccia, per difendersi, ha chiamato in causa e difficilmente può averlo fatto senza esserne stato autorizzato il predicatore della Casa pontificia.
«Reverendo Padre», comincia così la lettera di un “musicista e studioso cattolico” di Rovereto (abbiamo i nomi degli autori di tutte le missive citate, ma li omettiamo per evidenti ragioni di discrezione, nda), il quale segnala a Cantalamessa il caso di una sua conoscente madre di un ragazzo che «da qualche tempo frequenta il movimento». «È preoccupata scrive perché il figlio «crede ciecamente ai poteri di Moccia, è aggressivo, ha abbandonato la fede e la parrocchia, sostiene la non divinità di Cristo e la sua equiparabilità ai vari profeti e santoni della storia. Sostiene, e qui sta il problema, che il movimento e il Moccia sono “benedetti” da lei padre Cantalamessa che di recente avrebbe celebrato una Santa messa con i diaconi di S. Eustorgio in Milano con il gruppo condividendone gli intenti». Quindi l’autore della lettera chiede al predicatore della Casa pontificia «il giusto consiglio da dare a quella mamma che da poco ha perso il marito e che, da buona cristiana, vorrebbe aiutare il figlio a recuperare la Verità e la Vita».
La risposta arriva poco più di due settimane dopo, il 24 marzo 2006. È una difesa accorata di Moccia e dei suoi metodi. C’è solo una vaghissima, e reticente, presa di distanze; «Non ho celebrato la messa per loro. Hanno chiesto di partecipare a una messa da me celebrata per la parrocchia di S. Eustorgio e sono stati accolti da me e dal parroco. Erano in 400 e hanno edificato tutti: molti si sono confessati e moltissimi hanno fatto la comunione». È vero. Cantalamessa, però, non dice che l’incontro con Moccia si protrasse oltre la celebrazione, proseguì nella sacrestia. Forse non sapeva, né immaginava, che quei momenti erano stati filmati e trasferiti in un Cd promozionale poi diffuso da “Sacred path”.
Il successivo capoverso della lettera è significativo per le analogie che presenta con gli argomenti utilizzati da chi, all’interno della Chiesa, vorrebbe negare il problema della pedofilia. È la tesi del “caso singolo”. «Il campo in cui opera Vito scrive Cantalamessa chiamando confidenzialmente per nome il capo di Arkeon è delicato e non meraviglia che ogni tanto ci sia qualcuno che, per motivi umani spesso complessi e talvolta inconfessati, sparga sul suo conto le voci più allarmanti, giudicando da un caso singolo tutto il complesso dell’opera». Ma la vera sorpresa è alla fine: il predicatore della Casa pontificia non si limita a difendere il capo di “Sacred path” ma si premura di informarlo della denuncia che gli è stata confidenzialmente rivolta. In calce alla lettera c’è, infatti, una nota manoscritta: «Caro Vito, ti invio una lettera che ho ricevuto e la mia risposta, perché, penso, è giusto che sia informato. Con affetto ti abbraccio e ti benedico. P. Raniero».
Qualche tempo dopo, a Cantalamessa giunge un’altra segnalazione allarmata. A inviargliela, il 5 aprile del 2006, è una signora di Magenta: «Molto reverendo padre, mi rivolgo a lei per chiederle aiuto. Una mia cara amica è disperata perché i suoi due figli, entrambi laureati e coniugati, con le loro rispettive famiglia hanno da tempo aderito ad una organizzazione che ha completamente stravolto in senso negativo la loro mente, il loro comportamento e il loro modo di vivere. Essi dicono di dover obbedire ad un certo “maestro”, fondatore e capo, rifiutano i contatti con la loro madre, non le lasciano avvicinare i nipoti. Seguono riti strani e pericolosi ... L’organizzazione si chiama Arkeon».
Il comportamento di padre Cantalamessa è sbalorditivo. Nella documentazione non c’è, come ci si aspetterebbe, la sua risposta. C’è invece (datata 19 aprile 2006) una lettera, scritta dalla stessa città, di un signore che poi è il marito dell’amica disperata della signora di Magenta. Questo signore, al pari dei due figli, ha aderito ad Arkeon o, almeno, ce l’ha in grande simpatia. E fa riferimento al contenuto della lettera inviata a Cantalamessa dall’amica della moglie. Come è potuto succedere? L’unica spiegazione è che anche questa volta Moccia sia stato informato e che abbia chiesto all’adepto di Magenta di scrivere qualcosa di rassicurante all’autorevole sponsor cattolico.
Nel giugno del 2006 viene avviata l’inchiesta giudiziaria. E a ottobre di quello stesso anno, il “caso Arkeon”, come ormai si chiama, riesplode sugli schermi. Questa volta in una puntata di “Mi manda Rai 3” dove sono presenti gli accusatori (tra i quali la psicologa Lorita Tinelli) e il leader degli accusati, Vito Carlo Moccia. C’è anche un ragazzo che racconta di essere stato obbligato a chiedere l’elemosina con appeso al collo un cartello con su scritto «sono schizofrenico». Sua madre in seguito racconterà di aver segnalato il dramma del figlio a padre Cantalamessa fin dal 2004, dopo aver assistito sgomenta all’intervista di Moccia nella rubrica del predicatore, e di non aver mai avuto risposta. L’immagine dell’associazione ne esce a pezzi davanti all’opinione pubblica. Ma, ancora una volta non davanti al predicatore della Casa pontificia.
Ecco come risponde a una lettera inviatagli qualche giorno dopo da un’aderente al Cesap: «Ho visto la trasmissione e mi ha dato l’impressione di un penoso linciaggio. Agli accusati non è stato permesso di terminare una sola frase. C’è stato, mi sembra di capire, un caso di un operatore che ha effettivamente abusato della propria posizione che, però, è stato per questo sospeso (...) Non si dovrebbe fare di ogni erba un fascio. Chi si sognerebbe di voler mettere fuori legge la Chiesa cattolica o l’associazione degli psichiatri perché qualche loro membro ha abusato del suo ufficio?».
Due mesi dopo, il 30 dicembre 2006, si verifica l’evento televisivo più importante. E anche più significativo rispetto ai rapporti tra Cantalamessa e “Sacred path”. Nella settimanale puntata della sua rubrica, il predicatore pontificio manda in onda la registrazione di un’intervista. Nello schermo appare una giovane coppia con un bambino di circa tre anni tenuto in braccio dal padre. Il padre dice di chiamarsi Luca, afferma di «essere stato» omosessuale e di essere «guarito» grazie ad Arkeon. Curiosamente, nel presentare il filmato, Cantalamessa non nomina l’organizzazione ma la definisce semplicemente «gruppo di sostegno». Né, naturalmente, dice chi ha realizzato il filmato, né di chi è la voce fuori campo che pone a Luca domande sul suo percorso. Eppure lo conosce benissimo: è, infatti, Vito Carlo Moccia.
La puntata non passa inosservata. E non solo perché, in seguito, molti riconosceranno in quel Luca il «Luca era gay» della canzone di Povia. Interviene il garante della privacy che rivolge alla Rai e al conduttore un ammonimento per aver violato le regole deontologiche che tutelano i minori. Il bambino di Luca non solo era perfettamente riconoscibile ma, osserva il garante, ha dovuto assistere a un’intervista che riguardava «anche aspetti estremamente delicati relativi a vissuti dolorosi di uno dei genitori: gli abusi sessuali subiti da parte di un familiare».
Se potevano esserci ancora dei dubbi sulla gravità e sulla serietà delle accuse a “Sacred path”, essi vengono a cadere il 10 ottobre del 2007 quando a Moccia e agli altri dirigenti vengono notificati gli avvisi di garanzia. La notizia fa clamore e la tv torna ad occuparsene. Questa volta è Striscia la notizia che scopre e manda in onda spezzoni dell’intervista-spot a Moccia andata in onda nel 2004. L’effetto è sconvolgente per il contrasto tra la figura del predicatore e i fatti raccontati dai testimoni. Cantalamessa è costretto a intervenire.
È una presa di distanze imbarazzata e tardiva, come le scuse alla comunità ebraiche dopo la gaffe sull’antisemitismo. Scrive il predicatore: «Personalmente io non sono venuto a conoscenza di nessun abuso, che altrimenti sarei stato il primo a denunciare e condannare».
È falso. Padre Raniero Cantalamessa fu informato dei comportamenti di “Sacred path” sicuramente nelle due lettere che abbiamo riportato. Non solo non fece alcuna denuncia ma, come abbiamo visto, informò il capo dell’organizzazione. Proprio come quei prelati che, davanti alle denunce di casi di pedofilia, non si rivolsero alla magistratura ma alle autorità ecclesiastiche gerarchicamente superiori.

l’Unità 9.4.10
Il ruolo di Cantalamessa. È stato affidato fin dal 1743 ai frati dell’ordine dei cappuccini
Le funzioni solenni Tra gli altri, il compito di tenere l’omelia in occasione del venerdì santo
«Predicatore apostolico»: il frate che “parla” ai papi
Un ruolo chiave per la Chiesa quello ricoperto da Raniero Cantalamessa. Il «predicatore della Casa pontificia» è un interlocutore della curia e del papa, è il frate che stimola l’esame di coscienza sulla coerenza col Vangelo.
di Roberto Monteforte

Quella del predicatore della Casa pontificia è una funzione di grande prestigio e delicatezza. Egli è il frate che, proprio per la forza e la condizione del monaco, “parla” alla Curia e al Papa. Che aiuta il pontefice, i cardinali e i superiori degli ordini religiosi a meditare il Vangelo, sollecitando e stimolando la riflessione personale, l’esame di coscienza sulla coerenza con le verità evangeliche. È dal 1743, per volontà di Papa Benedetto XIV, che questo compito è assegnato ai padri cappuccini. In precedenza veniva svolto a turno dai Procuratori generali dei quattro ordini mendicanti (i Predicatori ossia i Domenicani, i Minori ossia i
Francescani, gli Eremitani di Sant’Agostino e i Carmelitani).
Le meditazioni del predicatore si tengono nella Cappella Redemptoris Mater nel Palazzo apostolico e avvengono in due momenti particolari dell’anno liturgico: tutti i venerdì di Quaresima e in quelli di Avvento. Spetta al predicatore della Casa pontificia tenere l’omelia il giorno del venerdì santo. Le riflessioni del predicatore apostolico sono le parole della Chiesa che giungono ai fedeli. Vengono, infatti, rilanciate dai media cattolici. Sono rivolte al Papa e alla curia, ma che hanno anche un preciso intento divulgativo.
L’esperienza di divulgatore della Parola padre Raniero Cantalamessa (che è predicatore apostolico dal 1980) l’ha maturata anche come conduttore televisivo. Per una decina d’anni, sino alla fine dello scorso anno, con la trasmissione di RaiUno “A sua immagine. Le ragioni della speranza” ogni sabato pomeriggio ha spiegato al grande pubblico il Vangelo della domenica.
Padre Cantalamessa è figura autorevole e stimata non solo Oltretevere. Non fu certo un caso se la congregazione generale dei cardinali, in occasione del conclave dell’aprile 2005 che portò all’elezione di Benedetto XVI come successore di Giovanni Paolo II, chiese a lui, oltre che al cardinale Špidlíkdi, di svolgere le «esortazioni» al collegio cardinalizio. ❖

l’Unità 9.4.10
I legali delle vittime di pedofilia chiamano in causa AgostinoVallini
La difesa: «Ho agito con rigore». L’Economist: Chiesa medievale
Roma, vittime accusano il cardinal vicario: non agì contro gli abusi
Vittime di un prete pedofilo morto suicida accusano il cardinale vicario del Papa, Vallini: quando era vescovo di Albano non intervenne. La replica: quel prete è stato subito sospeso a divinis. Si è scelto il rigore.
di Roberto Monteforte

Lo scandalo pedofilia rischia di colpire anche il vicario del Papa per la diocesi di Roma, cardinale Agostino Vallini. L’accusa è pesante. Riguarda il periodo in cui il porporato era vescovo di Albano. Nel 2006 avrebbe «coperto» un prete pedofilo, don Marco Agostini, ex parroco a Pomezia (Roma), poi arrestato e morto suicida. Nega ogni responsabilà o sottovalutazione il porporato, che anzi, sottolinea: «Ho agito con rigore».
«Quando alcuni anni fa ci rivolgemmo al vescovo di Albano di allora, ora cardinale vicario Agostino Vallini, per denunciare gli atti di pedofilia di don Marco, il vescovo ci disse che “al momento erano solo chiacchiere”. Poi ci spiegò che avrebbe preso provvedimenti, ma don Marco non fu denunciato alla polizia nè interdetto dal sacerdozio, fu solo trasferito ad Assisi, dove vedeva altri giovani». Parla così una delle presunte vittime dell'ex parroco coinvolto nell'aprile 2006 in un'indagine sulla pedofilia condotta dagli agenti della squadra mobile di Roma. Don Marco è morto suicida a Roma nell'agosto 2006 mentre era agli arresti domiciliari. Era stato arrestato il 5 aprile dello stesso anno dagli agenti che avevano fatto luce su una brutta storia di violenze e soprusi a danno di minori. L’arresto è avvenuto ad Assisi, dove il religioso era stato trasferito nel 2002. «Stiamo valutando un’azione civile autonoma nei confronti della curia di Albano afferma l’avvocato Romano, legale delle vittime perché all’epoca dei fatti non avrebbe fatto nulla per impedire gli abusi per cui è responsabile civile». La richiesta è di risarcimento dei danni morali.
LA VERITÀ DEL CARDINALE
Completamente diversa è la ricostruzione dei fatti fornita dal cardinale Vallini. Intanto si chiarisce che don Marco non era un prete della diocesi, ma apparteneva all’Ordine degli Oblati di San Francesco di Sales e che svolgeva il ministero pastorale nella parrocchia di San Benedetto a Pomezia affidata a quei religiosi. Quindi non dipendeva «direttamente» dal vescovo. Il quale però, informato dei fatti, intervenne tempestivamente. Il prete fu immediatamente sospeso «a divinis» e che ne fu chiesto al legittimo superiore (quindi al superiore del suo Ordine) «l’immediato trasferimento ad altra sede, senza l'esercizio del ministero». Nei fatti don Marco non avrebbe potuto più svolgere attività da sacerdote. Comunque non sarebbe stato l’allora monsignor Vallini a trasferirlo ad Assisi. In conclusione si sarebbe praticata la via del rigore e questo malgrado «le forti reazioni al trasferimento dell’ex parroco da parte della popolazione di Pomezia». Questo, ribadisce in una nota Vallini, ancora prima che venisse appurata la «veridicità dei fatti». Nessuna sottovalutazione, quindi. Due verità a confronto. Andrebbero meglio chiarite date e circostanze, azione canonica e collaborazione con la magistratura. Quello che emerge è che il bubbone pedofilia rischia di esplodere anche in Italia, anche nella diocesi del Papa. Proprio nel giorno in cui il segretario di Stato, cardinale Bertone parla del «profondo dolore di Papa» per «i sacerdoti infedeli» e rilancia la teoria del «complotto» evocata dal decano del collegio, cardinalizio Angelo Sodano. La curia fa muro proprio mentre lo scandalo cresce. Ieri vi è stato
il «mea culpa» dei vescovi di Malta.
IL COMPLOTTO TEORIA SBAGLIATA
Il gridare al «complotto», alla «cospirazione» e al «chiacchiericcio» danneggia, anziché aiutare, l'immagine del Vaticano. Lo scrive l’Economist che parla di Chiesa medievale. Mentre si hanno argomenti robusti da utilizzare, si preferisce seguire lo stile usato con successo da Berlusconi: «Gli accusati nei vari scandali che adottano il ruolo delle vittime». Sui buoni argomenti del Papa e della Chiesa, interviene anche Famiglia Cristiana. Titola: «Il Papa agisce, gli Stati no».

l’Unità 9.4.10
Le Iene mostrano in tv il «prete molestatore» durante ma anche dopo...
di Marzio Cencioni

Mercoledì la trasmissione di Italia1 ha mandato in onda un servizio realizzato con telecamera nascosta e audio alterato. Un sacerdote del Nord approfitta della confessione di un ragazzo per baciare, palpare ed essere toccato.

«Il Signore ci perdona». Così dice il sacerdote «X» al suo giovane interlocutore. Il programma è «Le Iene», Italia1, ore 23,30 di mercoledì, a metà tra l’informazione e lo spettacolo, infoentertainment dicono gli esperti. Un ragazzo in studio si rivolge a Matteo Viviani, una delle Iene, per rivelare che qualche tempo fa era stato baciato da un prete durante la
confessione. La «molla» che aveva scatenato le pulsioni del sacerdote era stata la frase: «Padre, sono omosessuale».
Le Iene decidono di tendere una trappola allo stesso sacerdote per vedere se a distanza di tempo i suoi comportamenti siano cambiati. Un giovane attore maggiorenne («ma dimostra molti anni di meno» specifica la voce fuori campo) si presenta dal prete e, fingendo di attraversare un momento di grande confusione, confessa di sentirsi attratto sessualmente da un amico. A questo punto il prete cambia strategia. Da una parte tenta di tranquillizzare il ragazzo («Non ti devi vergognare. La Chiesa accoglie gli omosessuali, gli vuole bene, non è che li condanna... È chiaro che se io e te facciamo del sesso facciamo peccato però se c’è un affetto che nasce... »), dall’altra cerca un contatto fisico. E lo ottiene. Più volte il sacerdote bacia il ragazzo, lo tocca, l’accarezza e chiede di essere toccato. Arriva persino a farlo accomodare sulle sue gambe e a sussurrargli una richiesta in un orecchio, a cui il giovane reagisce: «Veramente no, grazie».
Nella scena successiva è lo steso Viviani a recarsi dal sacerdote per metterlo di fronte alle proprie responsabilità. «Forse ho esagerato e chiedo scusa» dice, messo alle strette. Ma poi se la cava con un «io ormai ho rimosso la cosa, ho chiesto perdono al Signore, mi sono confessato... ».

il Fatto 9.4.10
Quando l’aborto è una scelta di sopravvivenza
Viaggio al San Camillo di Roma nel reparto che aiuta le donne
di Silvia D’Onghia e Valeria Fabbrini

Il reparto dell'ospedale romano San Camillo in cui si pratica l'interruzione di gravidanza è un padiglione a sé rispetto a quello maternità: si trova al piano meno uno, vi si accede senza ascensore, attraverso una scaletta di emergenza di ferro che porta in un sotterraneo, un posto da nascondere, squallido e che da fuori a malapena si vede. Non ha l’aria di un centro di eccellenza, eppure è un vero punto di riferimento, poiché è il reparto più grande d’Italia. Ogni mattina 12 donne – italiane e straniere, minorenni e avanti negli anni – arrivano qui per compiere un gesto dolorosissimo. Quella di Bianca è solo una storia come tante, inverosimile ma normale all’interno di questo reparto. A soli 17 anni rimane incinta. E’ spaventata, non può parlare con i genitori, anzi, ha paura soprattutto di loro. Senza soldi, si rivolge alla struttura ospedaliera per sentirsi più sicura e tutelata. “Ho effettuato l’interruzione di gravidanza di lunedì, da sola e saltando un giorno di scuola. Tutto è avvenuto in silenzio come in una catena di montaggio. Ricordo le scale del seminterrato, eravamo tantissime ragazze, circa 20, ci chiamavano a turno. Quel giorno, però, l’ecografista era un obiettore; così mi chiesero di tornare un altro giorno per il controllo, ma neanche loro potevano sapere quando ci sarebbe stato uno specialista disponibile. L'aspirazione del feto non riuscì. Oggi il mio bambino ha tre anni e non saprò mai cosa è successo quel giorno, ma ogni volta che ci penso mi sento male”. Irina invece, ragazza moldava, ha dovuto subire un aborto terapeutico al quinto mese a causa di una grave malformazione del feto: “Ero nel lettino nel reparto dell’interruzione di gravidanza, non c’era l’anestesista, ricordo le urla della dottoressa alla ricerca dell’unico anestesista non obiettore. Alla fine mi fecero l’epidurale, ma dopo moltissime ore di attesa”.
Storie così Giovanna Scassellati, direttrice del Reparto Day Hospital del San Camillo, potrebbe raccontarne a centinaia.Lei fa parte di quella classe di medici in via di estinzione: i ginecologi non obiettori. “Siamo soltanto sette, una minoranza. Lo scorso anno abbiamo fatto 2400 interventi. Qui arrivano da ogni parte d’Italia, perché intorno a noi c’è il ‘deserto dei Tartari’: pensi che a Frosinone, per esempio, c’è un unico medico non obiettore”. La dottoressa Scassellati parla con una grande determinazione, con la tenacia di chi è consapevole di fare un lavoro di frontiera: “Sembra sempre che uno debba andare controcorrente, ma noi non è che ci divertiamo a fare un lavoro così”. Le donne che arrivano al San Camillo ricevono innanzitutto assistenza psicologica: “Che non si pensi che una arriva qui e in cinque minuti abortisce! Capita spesso che le donne, grazie ad un’adeguata assistenza, decidano di portare avanti la gravidanza. A quel punto noi le seguiamo gratuitamente”. Assistenza significa anche mediazione culturale: “Moltissime pazienti sono straniere, soprattutto rumene e moldave, ma anche filippine, sudamericane. L’ex sindaco Veltroni ci aveva finanziato un progetto che prevedeva dei mediatori culturali. Poi, col cambio di giunta, quel servizio è rimasto sospeso per cinque mesi, durante i quali c’è stato un drammatico calo di richieste di inserimento di spirali. Anche questo è un segnale. Poi, grazie anche al coinvolgimento della popolazione, siamo riusciti ad ottenere nuovi fondi”.
Il problema, come sempre, è culturale e investe soprattutto la prevenzione. “Che non esiste quasi più – prosegue la direttrice – A scuola non si fa educazione sanitaria, per esempio. Lo scorso anno sono arrivate da noi una novantina di minorenni senza alcuna informazione sessuale”.
Al San Camillo si arriva di mattina, ci si prenota e si fanno tutti gli accertamenti, dall’ecografia all’elettrocardiogramma. Ci sono 12 letti, quindi massimo 12 aborti al giorno. “Quando non si allaga tutto, come è accaduto mercoledì mattina”,
sorride amaramente la Scassellati. Qui la pillola RU486 non è ancora arrivata: “Non abbiamo la struttura, un intero reparto è in fase di ristrutturazione. E non si possono mettere insieme le donne che scelgono di abortire a quelle che partoriscono. Ma è solo una questione organizzativa. Quando avremo la possibilità lo faremo, attenendoci ai protocolli ministeriali e regionali”.
A Giovanna Scassellati non piace lo “sgradevole polverone” che si è alzato intorno alla pillola abortiva: “A crearlo sono anche molti colleghi, che si vogliono mettere in mostra. Invece bisogna mantenere un basso profilo, e rispettare le scelte dell’elettorato”. E continuare a lavorare, in questo sottoscala di sofferenza,

il Fatto 9.4.10
La legge 194 è legge, ma quasi nessuno la applica
di Chiara Paolin

Nel 2005 il 59% dei ginecologi non praticava l’aborto: secondo il ministero per la Salute la media nazionale supera oggi il 70%. Il che significa che, fuori dalle grandi città, si arriva al 100%, con l’onere di vagare da una struttura all’altra alla ricerca di un centro in grado di applicare la legge italiana. Si supera l’85% in Sicilia, Campania e Basilicata, il 90% a Bolzano, l’86% nel Lazio, solo a Trento e in Toscana si sta sul 30%. Mauro Buscaglia, primario al San Carlo di Milano, spiega che spesso i medici diventano obiettori per carriera: “Chi accetta di fare interruzioni di gravidanza rischia di essere penalizzato nella professione. Così in molti rinunciano, almeno dentro l’ospedale”. In Lombardia l’obiezione supera il 70% e regala casi clamorosi. Come quello di Leandro Aletti: sospeso dal servizio nel 1987, quando lavorava alla clinica Mangiagalli di Milano, e denunciato all'Ordine dei Medici nonché condannato per aver reso pubblico il nome di una donna a cui era stato praticato un aborto terapeutico, è stato promosso primario nell’ospedale di Melzo. Qualche mese fa ha urlato ‘assassine’ a tre donne che compilavano i moduli per l'interruzione. A Milano l'Ordine non può giudicarlo: è un consigliere.

Repubblica 9.4.10
Ru486, la Santa Sede attacca "Più obiezioni di coscienza"
Sacconi: vigiliamo sui ricoveri. Fazio: abbassiamo i toni
Per Roccella le dimissioni delle pazienti dovrebbero essere scoraggiate
di Paola Coppola

ROMA - Stop alle polemiche: la legge sull´aborto deve essere rispettata come le donne che decidono di interrompere la gravidanza. All´indomani dell´annuncio del primo aborto farmacologico, con la RU486 commercializzata in Italia, e della decisione della donna che l´ha assunta di lasciare il Policlinico di Bari e tornare a casa, rifiutando il ricovero di tre giorni, è intervenuto il ministro della Salute. «La scelta della paziente e la libertà della donna non possono essere messe in discussione», ha detto Ferruccio Fazio. «In ogni caso la mia considerazione personale - ha aggiunto - è che tutte queste cose non fanno certo bene a chi si trova in una situazione come quella capitata a questa donna». E se per il sottosegretario alla Salute, Eugenia Roccella, le dimissioni anticipate delle pazienti dovrebbero essere scoraggiate, un avvertimento è arrivato dal ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi: «Se non dovesse avvenire da parte delle Regioni il rispetto effettivo della norma di legge, magari perché alcune amministrazioni incoraggiano le dimissioni volontarie, il governo interverrà».
La polemica continua. La Santa Sede ha chiesto di estendere il diritto all´obiezione di coscienza attraverso la voce del cardinale Ennio Antonelli, presidente del Pontificio Consiglio per la famiglia: «Bisogna rivendicare fermamente sia per le persone sia per le istituzioni il diritto all´obiezione di coscienza contro l´aborto e l´eutanasia, diritto non ancora riconosciuto in molti Paesi». Rivolgendosi ai delegati delle associazioni pro life il porporato ha spiegato che bisogna «inserire i delitti di aborto e di eutanasia nel più ampio contesto dei molteplici delitti contro tutti i diritti fondamentali dell´uomo». All´attacco anche il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri che ha accusato alcune regioni di una «scandalosa campagna di disinformazione sull´uso della pillola chimica». La presidente dei senatori del Pd Anna Finocchiaro ha risposto al governo: sono «minacce davvero fuori luogo per le donne, per i medici e per le strutture ospedaliere», e ha ipotizzato che dietro le polemiche scatenate dal primo caso di somministrazione della RU486 commercializzata in Italia ci sia l´obiettivo di colpire la legge 194.
«Le donne che effettuano interventi di interruzione della gravidanza hanno diritto alla piena tutela dell´anonimato e della loro intimità»: con queste parole anche il Garante per la protezione dei dati personali è intervenuto dopo l´attenzione sollevata dal caso della donna di Bari. Che oggi tornerà di nuovo in ospedale per sottoporsi alla seconda fase del trattamento con la pillola abortiva. «Tantissime richieste di informazioni stanno giungendo al nostro assessorato», ha confermato l´assessore alle Politiche della Salute della Regione Puglia, Tommaso Fiore, mentre nella struttura ospedaliera otto donne sono già in attesa di essere sottoposte allo stesso trattamento. Vista la richiesta il servizio potrebbe essere potenziato: oggi o al massimo lunedì ci sarà una riunione della direzione sanitaria dell´ospedale per discutere di questo.

Repubblica 9.4.10
Il medioevo che ci attende
La profezia di Jacques Attali

Sono le classi dirigenti ad alimentare l´incertezza, ingrediente fondamentale per mantenere il potere
Nel suo ultimo libro l´economista francese fornisce alcune ricette contro la crisi
L´impossibilità dell´Occidente di mantenere questo tenore di vita senza indebitarsi
Dovremo adattarci alla mancanza di solidarietà e alla necessità di cavarcela da soli

PARIGI. Dopo la crisi, le crisi. «Nel prossimo decennio il mondo attraverserà cambiamenti radicali, solo in parte collegati all´attuale situazione finanziaria. Ciascuno di noi sarà minacciato e dovrà trovare gli strumenti per salvarsi». Nel suo ultimo libro (Sopravvivere alle crisi, Fazi Editore), Jacques Attali profetizza un mondo sempre più precario e ostile, nel quale le classi dirigenti sono incapaci di pensare nel lungo periodo e anzi alimentano l´incertezza, ingrediente fondamentale per mantenere il potere. «Dovremo abituarci a cavarcela da soli, come le avanguardie del passato» spiega l´economista, ex consigliere di François Mitterrand e primo presidente della Banca europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo. Attali è uno degli intellettuali francesi più eclettici, capace di pubblicare opere su Karl Marx o sull´amore, ed è uno scrittore seriale. Si vanta di avere decine di libri già pronti nel cassetto, firma rubriche su molti giornali, colleziona consulenze e si occupa di Planet Finance, una Ong specializzata in progetti di microcredito. Instancabile, sempre di corsa. Come il mondo che prefigura.
Quali altre crisi ci aspettano?
«La crisi finanziaria del 2008 non è affatto terminata, nonostante i proclami trionfanti di qualche politico e banchiere. Quelli che gli anglosassoni definiscono "germogli" di ripresa sono, a mio avviso, soltanto segnali passeggeri. Molte banche continuano a essere insolventi, i prodotti speculativi più rischiosi si accumulano come e più di prima, i disavanzi pubblici sono ormai fuori controllo, il livello della produzione e il valore dei patrimoni restano in grandissima parte inferiori a quelli precedenti la crisi. La causa più profonda di questa crisi è l´impossibilità per l´Occidente di mantenere il suo tenore di vita senza indebitarsi: su questo non è stata avviata un´adeguata riflessione».
Il peggio deve ancora venire?
«Nel 2020 la popolazione mondiale passerà da 7 a 8 miliardi e la classe media mondiale rappresenterà circa la metà degli individui che vorranno allinearsi al modello occidentale. Questo comporterà nuovi punti di criticità a livello ecologico. Nello stesso periodo assisteremo a progressi scientifici considerevoli, come le nanotecnologie, le neuroscienze, le biotecnologie. Ogni nuova scoperta scatenerà problemi etici e di possibili utilizzi secondari per scopi criminali o militari».
Tornando all´economia, dove finisce il tunnel?
«La congiuntura economica ci riserverà altre brutte sorprese. Personalmente, temo il ritorno dell´iperinflazione scatenata all´enorme liquidità creata dalle Banche centrali, la possibile esplosione della "bolla cinese" per colpa degli eccessivi crediti concessi e della sovraccapacità produttiva della Repubblica Popolare. Il sistema pubblico della sanità e dell´istruzione, per come l´abbiamo conosciuto finora, diventerà insostenibile per gli Stati. Il nostro stile di vita, sempre più precario e meno solidale. Chi vorrà sopravvivere dovrà accettare il fatto di non doversi più attendere nulla da nessuno. Andiamo verso un mondo che assomiglia al Medioevo».
Non le sembra esagerato parlare di un ritorno al passato remoto?
«Come nel Quattrocento, il potere sarà concentrato in alcune città e alcune corporazioni. Già oggi 40 città-regioni producono due terzi della ricchezza del mondo e sono il luogo dove si realizza il 90 per cento delle innovazioni. In mancanza di una vera organizzazione globale, si diffonderanno epidemie e catastrofi naturali climatiche ed ecologiche. Ci saranno sempre più zone "fuori controllo", dove imperverseranno organizzazioni criminali e bande armate. I ricchi dovranno rifugiarsi in moderne fortezze».
E tutto questo sarebbe dovuto anche all´incapacità delle classi dirigenti e al fallimento del sistema di governance mondiale?
«Di fronte a una crisi, qualunque essa sia, la maggioranza degli individui comincia con il negare la realtà. Purtroppo questo meccanismo si applica perfettamente anche alle imprese e alle nazioni. Finora i governi hanno adottato una strategia che fa finanziare dai futuri contribuenti gli errori dei banchieri di ieri e i bonus di quelli di oggi».
Lei ha presieduto la Commissione per la liberazione della crescita voluta dal governo Sarkozy, ma le riforme che aveva proposto sono state disattese. Anche nel caso della Francia manca il coraggio di preparare il futuro?
«Quello che più mi colpisce è che molti potenti vorrebbero tornare rapidamente al vecchio ordine, anche se è quello che ha scatenato la crisi finanziaria. Nell´attuale modello economico l´impresa è passata al servizio del capitale, a sua volta manipolato dalle leggi della Borsa. Le cose stanno così dal 1975, data dell´invenzione delle stock-options negli Stati Uniti».
Non è una visione troppo apocalittica?
«Non bisogna farsi prendere né dall´ottimismo né dal pessimismo. Negli ultimi 650 milioni di anni, la vita è praticamente scomparsa sette volte dalla superficie della Terra. Oggi rischiamo che succeda un´altra volta. Ma qualsiasi minaccia è anche un´opportunità. Quando si arriva a un punto di rottura siamo costretti a riconsiderare il nostro posto nel mondo e a cercare un´etica dei comportamenti completamente nuova. Sopravviverà di noi solo chi avrà fiducia in se stesso, chi non si rassegnerà. Ho affrontato parecchie crisi. E per questo ho pensato anche di raccogliere le mie lezioni di sopravvivenza».
Lei suggerisce il dono dell´ubiquità: cosa significa?
«I miei principi sono sette, da attuare nell´ordine. Innanzitutto bisogna partire dal rispetto di sé, e quindi prendere consapevolezza della propria persona, e dall´intensità, ovvero vivere pienamente sapendo proiettarsi nel lungo periodo. Ci sono poi l´empatia, indispensabile per capire gli altri, avversari o potenziali alleati, la resilienza che ci permette di costruire le nostre difese e la creatività per trasformare le minacce e gli attacchi in opportunità. Se questi cinque principi non funzionano bisogna cambiare radicalmente, coltivando l´ambiguità o persino l´ubiquità, imparando a essere mobili nella propria identità».
Ci lascia insomma un po´ di speranza…
«L´ultima lezione riguarda il pensiero rivoluzionario. In condizioni estreme, bisogna osare fino anche a violare le regole del gioco. Nessun organismo può sopravvivere senza operare una rivoluzione al suo interno. Ma tutto dovrà sempre partire dall´individuo. Come diceva Mahatma Gandhi: "Siate voi stessi il cambiamento che volete realizzare nel mondo"».
Ha appena pubblicato il primo "iperlibro", un volume cartaceo integrato da contributi audio e video. È questo il futuro della lettura?
«Non credo alla morte dei libri tradizionali. Ma è evidente che i giovani crescono imparando a leggere su uno schermo. Per loro sarà normale sfogliare una tavoletta elettronica come noi sfogliamo un libro. Anche quella dell´editoria è una crisi che si supera solo con il cambiamento».

Repubblica 9.4.10
Esce il memoir di Julie Myerson che ha scandalizzato l´Inghilterra
Quella rabbia materna per un figlio sballato
di Luciana Sica

Butta fuori di casa il suo "ragazzo" di 17 anni e cambia la serratura Una "storia vera" che restituisce il sentimento dell´impotenza e del fallimento come genitore

Una madre esasperata, ma sconcertante: butta fuori di casa il figlio di 17 anni e cambia la serratura. In Gran Bretagna si scatena il putiferio prima ancora dell´uscita del tragico memoir di Julie Myerson intitolato Il figlio perduto, ora anche nelle nostre librerie (Einaudi Stile libero, traduzione di Monica Capuani, pagg. 312, euro 18). Tanto che l´editore Bloomsbury ne anticipa la pubblicazione - è il marzo di un anno fa. Le accuse riguardano quel "solo" elemento della costruzione letteraria - piuttosto complessa - della Myerson: la sua scelta di "liberarsi" di un figlio insopportabile (è un eufemismo), dipendente da una droga più forte dell´erba (lo skunk).
Un reporter del Daily Mail non esita a rintracciare Jake Myerson, che intanto ha vent´anni. Gli offre un mucchio di soldi per "sparare" su una vicenda al centro di tavole rotonde in tivù, di blog e forum su internet. Ma anche di commenti autorevoli, anche sul domenicale del Times. L´eroe mediatico incassa il gruzzolo e liquida sua madre come "una fuori di testa" (insane), una dal comportamento "disgustoso" (obscene).
Qualche mese dopo esce anche l´edizione americana del Figlio perduto, sempre col sottotitolo A True Story, una storia vera, che da noi diventa "Storia di una madre". Ma negli Stati Uniti le polemiche non sono così accese, forse perché - si legge su The New York Times - lì gli scrittori sono avvezzi a confessioni personali su «dipendenze, incesti, tradimenti, follie, pedofilie, abusi, crimini, violenze».
Si vedrà l´accoglienza di questo libro in un paese "mammone" e "bamboccione" come l´Italia, che tende a ignorare i genitori derubati e picchiati dai loro ex adorabili bambini. Chi è infatti Jake Myerson? Il ritratto che ne fa la madre è disperante: il "ragazzo" (lo chiama sempre così) ha la fobia della scuola, non fa che rubare e sbraitare e sfasciare tutto, è sempre ringhioso e arriva a menare le mani - anche perforando, con un colpo, il timpano dell´autrice. In compenso scrive versi (bruttissimi, ma la mamma ne è incantata) e strimpella una chitarra, mendicando per strada. Altro che poeta maledetto, somiglia a un barbone.
A un certo punto, la scelta più drastica. È proprio lei, Julie, a gettare la spugna: lo mette alla porta, sperando in un´improbabile redenzione on the road. Il marito è d´accordo. Lo fanno perché - scrive lei - hanno il dovere di proteggere gli altri due figli più piccoli, sconvolti dalle malefatte di quel guastatore ad oltranza: uno che rifila lo spinello al fratellino tredicenne. I Myerson le hanno già provate tutte, più con le buone che con le cattive, parlano con insegnanti, terapeuti, frequentano associazioni di famiglie disastrate, come e (addirittura) peggio della loro. Alla fine lei lo caccia via, anche se poi sta malissimo, lo chiama di nascosto manco fosse un amante, lo riprende in casa, lo ributta fuori. Lo ama follemente (dalla prima all´ultima pagina), ma è piena di sensi di colpa, di sentimenti d´inadeguatezza, sempre a caccia di una qualche buona ragione che spieghi l´inspiegabile, visto che il "ragazzo" ha una famiglia rarissima del tipo Mulino bianco.
La Myerson si ostina allora a scavare nella sua infanzia, nella sua stessa adolescenza, nell´abbandono e poi nel suicidio del padre: qualcosa di quel terribile lutto avrà reso mortifero e distruttivo suo figlio? Forse sì, forse no. Poi vira su un´altra possibilità comunque autoaccusatoria: non sarà che il "ragazzo" ha cominciato a fumare, nella preadolescenza, quando c´è stata una breve crisi coniugale? Sarà cominciata così la discesa negli inferi? Accidenti, è così. Lo dice proprio lui alla mamma che alla fine gli confessa tremebonda di aver scritto della loro tristissima vicenda, con l´angoscia di essere investita da una sfilza d´insulti, secondo il consueto eloquio del giovanotto.
Già nel libro, la Myerson riporta le molte riserve che parenti (una nonna) e amici mostrano verso una decisione a dir poco radicale. Un libro parecchio strano, che denuncia un´altra ossessione dell´autrice: per certa Mary Yelloly, una pittrice vittoriana morta a ventun anni di tubercolosi. Ci sarà anche qualche specularità tra la misteriosa biografia dell´artista e quella del "ragazzo", ma il lettore tenderà a concentrarsi unicamente sull´autobiografismo agghiacciante di una madre che non sembra cattiva, anzi fin troppo devota - senz´altro una donna che porta alle conseguenze estreme la sensazione dell´impotenza e del fallimento come genitore.

Repubblica 9.4.10
Ipazia
La donna che sfidò la Chiesa
di Roberta De Monticelli

Film, convegni, spettacoli teatrali dedicati alla figura femminile dell´antichità che in difesa della scienza e della filosofia affrontò la persecuzione fino alla morte
Fu Cirillo, vescovo cristiano di Alessandria, a eccitare la folla che la uccise
La lezione della ricerca della verità contro tutti i fondamentalismi religiosi

"Lo so,/per noi tutti che vi fummo insieme in quei tempi/ Alessandria vibra ancora della sua febbre fina/ e anche del suo un po´ frenetico deliquio…". Così Sinesio di Cirene, dotto poeta e ragionatore alessandrino, ricorda la città della sua giovinezza. La città dove si era consumata, fra la fine del IV secolo e l´inizio del V, nell´incendio della più grande biblioteca dell´Antichità, l´ultimo "sogno della ragione greca": simbolicamente massacrata nel marzo del 414 nel corpo di Ipazia. Essa fu matematica e filosofa neoplatonica, commentatrice di Platone e Plotino, Euclide, Archimede e Diofanto, inventrice del planisfero e dell´astrolabio - secondo quanto ci riportano le poche testimonianze giunte fino a noi. Perché della sua opera, come di quella del padre Teone, anche lui grande matematico, non c´è rimasto nulla. Eppure quei frammenti bastano a testimoniare la fama e l´ammirazione di cui godeva questa donna, che in Alessandria teneva scuola di filosofia.
La sua uccisione, scrisse Gibbon in Declino e caduta dell´impero romano, resta "una macchia indelebile" sul cristianesimo. Perché fu massacrata, pare, da una plebaglia fanatica ma eccitata alla vendetta, si dice, dal vescovo Cirillo. Fu vittima quindi di un gioco per la conquista della supremazia politica sulla città di Alessandria: ma il delitto inaugurava, con l´epoca cristiana, l´orrore della violenza che invoca il nome di Dio invano - per la verità in tutti i luoghi e i tempi dove una religione diventa istituzione di potere terreno. Era da poco in vigore l´editto di Teodosio, con il quale, nel 391, il cristianesimo era stato proclamato religione di stato.
Il Sinesio che ho citato è in realtà la voce di Mario Luzi, che nello splendido piccolo dramma Il libro di Ipazia, pubblicato nel 1978, fa dell´antico discepolo della filosofa alessandrina il testimone pensoso di un´epoca di trapasso, di tramonto e di nuova barbarie: "Città davvero mutata, talvolta cerco di capire/se nel tuo ventre guasto e sfatto/si rimescola una nuova vita/o soltanto la dissipazione di tutto./E non trovo risposta". E´ questa voce di poeta che prendiamo a guida di una possibile riflessione sull´impotenza della filosofia, della ricerca di ragioni e di luce anche per l´azione, quando essa lascia il suo "luogo alto, dove annidare la mente" e scende sulla piazza. Dove - come dice a Sinesio uno sconsolato amico - "l´intimazione della verità è un´arte di oggi,/come la persuasione lo fu di ieri". "Agora", appunto, si intitola il film su Ipazia del regista spagnolo Alejandro Amenábar, finalmente in arrivo anche da noi. Si dice che sia "un duro atto d´accusa contro tutti i fondamentalismi religiosi", tanto duro nei confronti del neonato potere temporale della chiesa da aver subito addirittura ostacoli e ritardi alla sua programmazione nel nostro Paese. Vedremo: in attesa, può ben essere la splendida figura di questo vescovo perplesso a guidarci nella riflessione. "Il suo destino sembra esitare incerto sopra di lui".
Sinesio, neoplatonico lui stesso, fu davvero in seguito eletto vescovo di Cirene: quando ancora era indeciso fra i due mondi, ancora perduto nel sogno dell´armonia fra la ragione che governa le cose terrene e il soffio sottile di quelle divine. In un tempo in cui, invece - proprio come nel nostro - "la sorte della città è precaria/esige risoluzioni forti, parole chiare all´istante./Occorrono idee brevi e decise - oppure cinismo".
Ipazia poi è diventata simbolo di molte cose. Il contrasto fra gli Elementi di Euclide e la Bibbia, ad esempio - "le due summae del pensiero matematico greco e della mitologia ebraico cristiana", come scrisse Odifreddi". Oppure la possibilità provata che anche le donne sappiano pensare, ed eccellere addirittura nelle scienze matematiche: e se guardate in rete troverete ancora parecchie, un po´ incongrue, difese del pensiero "al femminile" condotte in suo nome (mentre parrebbe difficile dare un sesso alla geometria euclidea).
Ma noi ancora per un poco preferiamo farci guidare, prima ancora che dalla voce di Sinesio, da quella del poeta che lo anima. Mario Luzi ci accompagna fino nella più segreta stanza notturna di Ipazia, dove questa donna che "vede lontano", lontano al punto che "una luce d´aurora" promana da "quei discorsi accesi da un fuoco di crepuscolo" - conduce la sua ultima conversazione con Dio. "Sono come sei tu. Perché io sono te./Te e altro da te". E´ colta di sorpresa, Ipazia: e oppone resistenza: "Perché ti manifesti ora? Sono stanca/e mi credevo compiuta." Terribile la risposta: "Non lo sei ancora. C´è tutta l´enorme distesa del diverso,/del brutale, del violento/contrario alla geometria del tuo pensiero/che devi veramente intendere". Che devi veramente intendere: Ipazia così, nella perfetta fedeltà al suo essere, che è amore del vero, filosofia, ricerca, Ipazia alla cui parola "si addice la temperatura del fuoco" si avvia verso quello che già intravede come l´estremo sacrificio. "Non c´è ritirata possibile, Sinesio./ Qualcuno ci ha dato ascolto, in molti hanno creduto/nella forza redentrice della nostra voce di scienza e di ragione./Dobbiamo deflettere a lasciarli al loro disinganno?". E ancora, il poeta dà voce alla speranza che infine è quella di tutti noi, degli sconfitti: "La nostra causa è perduta, e questo lo so bene./Ma dopo? Che sappiamo del poi?/Il frutto scoppiato dissemina i suoi grani."
Ma non c´è scampo. Ipazia viene trascinata in una chiesa, e fatta a pezzi. "Così finisce il sogno della ragione ellenica./Così, sul pavimento di Cristo".
Ecco: Ipazia e la sua Idea sono emblemi di un tale spessore, di una tale profondità intellettuale e spirituale, e di un modo d´essere fatto di luminosa intransigenza (così diverso da quello di Luzi, benché altrettanto preso nel sentimento dell´assoluto), che fantastico a volte potesse trattarsi di una figura capace di incarnare una vera alternativa - in quegli anni - alla dialettica indulgenza di "Sinesio". Cioè di Luzi.
Un ultimo sconsolato lume di intelligenza illumina una scena che si restringe paurosamente dopo questa tragedia. Alessandria è un ricordo lontano, e anche l´urto dei mondi, la trasvalutazione dei valori lo sono. La scena si chiude su una Cirene rimpicciolita fino a coincidere proprio con quella tanto piccola e meschina che è la nostra di oggi: "Spesso me lo ripeto:/ senza un´idea di sé/ da dare o da difendere/non si regna, si scivola a intrighi di taverna".

giovedì 8 aprile 2010

l’Unità 8.4.10
«Le nostre conquiste sono ancora a rischio Serve una grande mobilitazione»
Emma Bonino critica la Lega, gli appelli anti-abortisti, ma il vero problema dice è «che loro prendono peso perché da questa parte non c’è una vera resistenza». E avverte: «Quello che ci siamo guadagnati, oggi è in gioco»
di Mariagrazia Gerina

Ne abbiamo viste di peggio ma le abbiamo vinte perché lo volevamo al di là delle prudenze dei partiti», dice Emma Bonino alle donne che nel 2010, quando decidono di ricorrere all’aborto, si ritrovano ancora a combattere con obiettori di coscienza, rinati picchetti anti-abortisti (anche se sparuti e scarsi), ospedali che, nonostante il via libera dell’Aifa, ritardano a far partire gli ordinativi per la Ru486 che da decenni consente di abortire senza ricorrere all’intervento chirurgico. Non siamo agli anni Settanta: «Ma stanno facendo una battaglia ideologica contro un farmaco, dicono che non si deve banalizzare l’aborto, ovvero vogliono ancora che si partorisca nel dolore e si abortisca sotto tortura».
La “ricetta” di Emma Bonino, di fronte a tutto questo, è in un certo senso antica. «Ci vuole una grande mobilitazione nel paese». Una mobilitazione delle donne, prima di tutto. Ma non solo. «Bisogna rilanciare un dibattito aperto sui valori, sulla libertà di scelta della donna di fronte alla maternità, sulla libertà di cura, sui diritti civili», dice la vicepresidente del senato. Lei che, nel 1975, pagò con il carcere la disobbedienza alla legge che allora vietava l’aborto. Storia di trentacinque anni fa. Tornata d’attualità, in campagna elettorale, quando Libero, fiutata l’aria, ha ripubblicato le foto della candidata del centrosinistra che nel ‘75 aiutava contra legem le donne ad abortire. Anacronistico? Certo. Oggi il diritto delle donne ad abortire è legge. Ma la lezione di queste ore e non solo dice anche che: «Le conquiste fatte non sono per sempre, se non le si difende, ci si sveglia una bella mattina e quelle cose che hai conquistato non ce le hai più», scandisce la leader radicale, invocando una «manifestazione, una mozione in parlamento», qualunque cosa segnali una reazione. E non serviva nemmeno vedere «tutta questa mobilitazione contro la Ru486» per capire l’urgenza: «Basta guardare a cosa succede negli ospedali della Lombardia dove non si fanno più aborti perché sono tutti obiettori».
«Perché non oggi?», quindi. Questo è l’appello che la vicepresidente del Senato rivolge alle donne, adesso che si tratta di non perdere le conquiste costate anni di lotte. «Facciamo qualcosa, ricominciamo dal paese», dice. L’idea che di queste cose ormai se ne debbano occupare solo le istituzioni mai così fragili, per giunta non regge. Che si tratti del parlamento dove si legifera («e dove peraltro non siamo maggioranza») o di uno degli ospedali a cui le donne si rivolgono per abortire, di fronte alle pressioni crescenti della Chiesa e non solo, «le istituzioni vanno rafforzate e dare vita a un movimento nel paese servirebbe anche a questo», avverte Bonino. Critica, certo, con la Lega, con gli appelli anti-abortisti della Chiesa. Ma anche con la sinistra: «Se certa destra ne fa una battaglia ideologica è anche perché dall’altra parte non c’è una mobilitazione progressista, o come la vuoi chiamare (io suggerirei normale) a favore della libera maternità, una resistenza vera, una contrapposizione di valori».
La marcia indietro a cui sono stati costretti Cota e Zaia dice che di margine ce n’è: «Ma se uno vuole far crescere la contraddizione nel campo dell’avversario deve costruire una mobilitazione della sua parte». E invece: «Certi argomenti attacca Emma Bonino sono rimasti abbastanza nascosti in questi anni, per ragioni politicanti». Un j’accuse molto duro: «L’ultima manifestazione s’è vista dopo il referendum sulla legge 40, ma stiamo parlando del 2005». La risposta migliore? «Mobilitarsi, meglio tardi che mai». «Corrente Rosa una settimana fa ha proposto una manifestazione, finora le adesioni scarseggiano». ❖

l’Unità 8.4.10
Intervista a Ignazio Marino
«Decide la donna con il medico, non i politici»
Il senatore Pd: Cota voleva bloccare l’uso del farmaco perché ha vinto le elezioni. La destra ha fatto ritardare di anni l’arrivo della Ru486. E su biotestamento il Pd sia compatto
di Natalia Lombardo

Abortire per una donna è sempre una sconfitta ma la scelta su quale metodo usare nasce solo dal dialogo intimo fra la donna e il medico, non può essere un presidente di Regione, un ministro o una commissione parlamentare a imporla». Ignazio Marino, cattolico del Pd, è nel suo studio al Senato; oggi si riunisce la sua componente «Cambia l’Italia». Ieri si è insediata la commissione del ministero della Salute per monitorare l’uso della pillola e capire, dicono, se c’è il rischio che si effettuino «aborti a domicilio». Una forma di controllo? «Si sta confondendo tra problemi etici e clinici. Quando una donna ha preso la drammatica decisione di interrompere una gravidanza, ha già affrontato la questione etica. Il medico decide con la donna quale sia il percorso migliore, che sia chirurgico o farmacologico, spiegando i rischi di entrambi. Magari ci sono donne che hanno paura di un’anestesia totale per una brutta esperienza avuta prima. Il ginecologo, oggi, 7 aprile 2010, deve dire che esistono diversi tipi di aborto, uno dei quali con il farmaco Ru486. Poi la scelta nasce solo dal suo dialogo intimo con la donna».
I detrattori della Ru486 reclamano il ricovero ospedaliero obbligatorio, anche se la pillola viene somministrata in due tempi. Un’ambiguità voluta? «Può esistere un rischio concreto se una donna assume il farmaco e poi resta separata dal contatto immediato con una struttura sanitaria. Ma è difficile che accada in Italia. Occorre un monitoraggio di tutto il percorso, o col ricovero finché l’aborto non è completato, o un day hospital con assoluto controllo fino alla fine. Ma tutto ciò si muove nel binario delle raccomandazioni scientifiche e del rispetto della legge 194. E poi esiste la libertà della donna di firmare la cartella clinica e uscire dall’ospedale».
Tra leghisti o politici del Pdl, maschi, c’è l’idea sprezzante che la pillola possa essere usata con leggerezza. «Nasce il sospetto che i politici di destra abbiano ritardato l’uso della Ru486 di due anni, dopo che era stato autorizzato dalla Agenzia Europea del Farmaco e la stessa Aifa ha tardato molto a dare il via. Poi con l’indagine della commissione Sanità la destra ha ritardato di alcuni mesi l’uso della pillola in Italia, convinti che il solo aborto chirurgico fosse un deterrente. Un discorso né sensato, né rispettoso per la donna. Si tratta, semmai, di prevenire l’aborto con più informazione sulla contraccezione, soprattutto fra le donne immigrate».
Il sottosegretario Mantovano non lo nega: «Si cambia la Costituzione, perché non si può toccare la 194?». L’obiettivo è questo?
«Da trent’anni c’è la 194 e gli aborti sono dimezzati. È una delle leggi più equilibrate. Uno Stato laico deve avere una legge sull’aborto. Ricordo negli anni 70 a Roma arrivare al pronto soccorso donne sanguinanti per gli aghi da calza infilati dalle mammane nell’utero, altre che andavano nelle cliniche dove si effettuavano gli aborti clandestini; chi se lo poteva permettere volava a Londra, dove era libero. Ecco, non voglio tornare a questo».
I proclami di Cota e di Zaia hanno bloccato la partenza della Ru486 negli ospedali? «Il ministro Fazio li ha fermati con un linguaggio disarmante: c’è la legge, leggetela e rispettatela. Il ritardo c’è stato, ma l’intervento del ministro ha impedito che si propagasse in altre regioni».
Per Livia Turco è «federalismo etico» illegale e ingiusto e chiama Fazio a riferire in Parlamento. «Cota ha deciso che questo farmaco non si sarebbe dovuto usare solo perché ha vinto le elezioni. Questa destra pensa di avere potere su tutto perché ha vinto. Sul testamento biologico, che riprende in commissione: l’articolo 3 obbliga all’alimentazione e all’idratazione forzata, a introdurre un tubo nell’intestino anche a chi non lo voleva. Va contro la Costituzione».
I dissidenti nel centrodestra riusciranno a modificare il testo? «Con Fini condividiamo l’idea che i familiari possano scegliere se usare o no quelle terapie. Il Pd dev’essere compatto con un voto unico. Spero che Bersani non lasci libertà di coscienza: l’obbligo di cura non è libertà, ma sopraffazione». ❖

l’Unità 8.4.10
Se la verità diventa un optional
L’uso politico della menzogna
di Francesca Rigotti

La libertà – scriveva Albert Camus – consiste in primo luogo nel non mentire». Proviamo a pensarci su perché qui si tratta di cose serie, mica di canzonette. Qui sono in gioco termini/concetti come libertà e verità. E la libertà è, insieme alla giustizia, una delle grandi virtù delle istituzioni politiche, come la verità è la virtù principale dei sistemi di pensiero, e chi viola il principio di verità lede anche quello di libertà.
Ora, l’uso politico della menzogna viene parzialmente accettato dalla filosofia politica, per esempio da Hannah Arendt, che la giustifica nel caso di delicate operazioni di segretezza.
A una corretta pratica democratica non è invece perdonata né la torbidezza né la menzogna e tantomeno il falsificare i fatti per ragioni di immagine, quando queste attività – sempre Arendt – vengano praticate nei confronti dei concittadini e non del nemico in guerra. Se in politica, il luogo delle scelte collettive e che interessano la collettività, si può mentire, non si deve per questo farlo, né la pratica del mentire deve essere, in politica, tollerata e perdonata, o addirittura incoraggiata.
La verità è infatti una virtù preziosa – come spiega Franca D’Agostini nel dotto quanto affascinante saggio «Verità avvelenata. Buoni e cattivi argomenti nel dibattito pubblico» (Bollati Boringhieri). La verità del nostro mondo, che vive nella legge della terra e nella radicale pluralità degli uomini da tale legge contemplata, è la verità che percepiamo con le nostre facoltà logiche.
Poi c’è la «verità» riferita da una parte politica e magari accettata da un gruppo di persone che non hanno la coscienza attiva di partecipare a un inganno. Questa è una «verità» allestita a fini di opportunità ma lesiva della libertà dei cittadini, anche di quelli che si lasciano volentieri ingannare, per il semplice motivo che la menzogna distrugge la fiducia, anche questa una delle grandi e dimenticate virtù della vita sociale democratica.
Un punto in più per la tesi che sostiene che la destra italiana che ci malgoverna non partecipa dei principi del pensiero liberale – quelli socialisti, poi, non sa neanche dove stiano di casa – benché proclami gli uni e gli altri.
Questo perché un pensiero fondativo non ce l’ha e può perciò praticare la menzogna e il mendacio pensando che chi caninamente latra più forte e in numero più alto riesca a sopraffare anche la verità.
Ma questo non è vero e mentire per non voler riconoscere l’errore può costare caro, molto più caro che dover ricorrere al trapianto di capelli per aver commesso l’errore di non aver mai usato la brillantina Linetti.❖

l’Unità 8.4.10
Lo scandalo dilaga Dimissioni di Mueller in Norvegia. Cento casi in Messico. Allarme in Africa
Critiche al Vaticano per aver detto che Ratzinger è attaccato come lo fu Papa Pacelli
Vescovo ammette gli abusi Gli ebrei: errore citare Pio XII
Anche un vescovo in Norvegia abusò di un minore. Gattegna (Ucei) protesta per il parallelo di Sodano tra Ratzinger e Pio XII. La protezione dell’ex segretario di Stato al fondatore dei Legionari di Cristo.
di Roberto Monteforte

Come uno tsunami lo scandalo della pedofilia rischia di colpire la Chiesa cattolica e il Papa, minandone sempre più credibilità e prestigio. Aumentano pure gli attestati di solidarietà a Benedetto XVI. Alcuni, però, hanno finito per alimentare altre polemiche. Quel parallelismo richiamato dal decano del collegio cardinalizio, Angelo Sodano, tra la campagna mediatica sulla pedofilia contro il pontefice e gli attacchi rivolti a Pio XII per la sua condotta durante la secondo guerra mondiale e in particolare per i suoi silenzi sulla persecuzione antisemita, ha scatenato le proteste del mondo ebraico. Ieri si è fatto sentire il presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane (Ucei) Renzo Gattegna. «Alcuni interventi e alcuni paragoni inappropriati e inopportuni ha osservato rischiano di creare pericolosi e fuorvianti paralleli storici». Tanto più ha aggiunto se provenienti «da autorevoli esponenti della Chiesa cattolica».
Lo scandalo pedofilia continua e chiama in causa lo stesso Sodano, quando era segretario di Stato di Papa Giovanni Paolo II. Il «National Catholic Reporter» lo indica come uno dei tre protettori in Vaticano del fondatore dei Legionari di Cristo, padre Marcial Maciel Degollado (1920-2008). Sarebbero state sue le pressioni rivolte, invano, sull’allora prefetto dell’ex sant’Uffizio, cardinale Ratzinger perché fermasse l’istruttoria contro padre Marciel, accusato di aver abusato sessualmente di seminaristi minorenni e per aver concepito figli illegittimi. Per il NCR padre Marciel «inviava flussi di denaro ai funzionari della Curia romana» con lo scopo di «comprare il sostegno per il suo gruppo e la difesa per sé». Gli altri «riferimenti» del fondatore dei Legionari sarebbero stati il cardinale Eduardo Martinez Somalo, allora prefetto della Congregazione per i religiosi e monsignor Stanislaw Dziwisz, allora segretario personale di Giovanni Paolo II.
IL CASO DEL VESCOVO
Un altro caso di pedofilia nella Chiesa, questa volta, è stato segnalato in Norvegia. È un vescovo ad essere coinvolto. Si tratta di monsignor George Mueller che dal 1997 al 2009 è stato titolare della diocesi di Trondheim. Nel 2009 ha ammesso la sua responsabilità. All’inizio degli anni ‘90, quando era un giovane prete, ha abusato di un minore. Il caso è stato segnalato alla Santa Sede nel 2009.
Le sue «dimissioni» sono state presentate a maggio e il mese successivo raccolte dal pontefice. «La Santa Sede ha agito rapidamente» è stato il commento di monsignor Eidsvig, amministratore apostolico della diocesi di Trondheim e successore di Mueller. Lo spiega sul sito della Chiesa cattolica di Norvegia, dando conto del succedersi dei fatti. Emerge anche l’indicazione giunta d’Oltretevere di collaborare con la giustizia penale norvegese. «Quando Mueller, al confronto con l'accusa, ha ammesso la sua responsabilità, subito è stato dimesso». Malgrado il crimine sarebbe risultato prescritto secondo la legislazione norvegese, ma non si è fermata «la giustizia interna ecclesiastica». L’ex vescovo che si sottopone a terapia, «non ha avuto alcun compito pastorale o vescovile». La vittima che sarebbe stata risarcita con 60mila euro, avrebbe chiesto l’anonimato.
L’ALLARME DALL’AFRICA
È solo un caso. Lo scandalo si allarga. Ieri è arrivato l’allarme dall’Africa. «Anche la nostra Chiesa non è sente da scandali» ha ammesso il responsabile della Conferenza dei vescovi dell'Africa australe e arcivescovo di Johannesburg, Buti Tlhagale. Mentre la stampa messicana assicura che nel corso dell'ultimo decennio, presso l’ex Sant’Uffizio sarebbero stati aperti circa 100 processi canonici nei confronti di accusati di abusi sessuali contro minori. Ammissioni a cui si aggiungono gli attestati di solidarietà al Pontefice. Ieri l'arcivescovo di Bombay, cardinale Oswald Gracias, presidente dell'Episcopato Indiano, ha testimoniato del suo impegno costante contro la pedofilia. Solidale con il Papa anche la Chiesa del Cile visitata in questi giorni dal segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone.❖

l’Unità 8.4.10
Intervista a Dacia Maraini
«Nessun complotto. Sulla pedofilia la Chiesa dica la verità»
La scrittrice: «Portare alla luce lo scandalo non significa attaccare il Papa. Alla base di tutto c’è un tabù sessuale, proibire nasconde il problema»
di Umberto De Giovannangeli

L’idea che portando alla luce i casi di pedofilia si voglia attaccare il Papa, questo Papa, è un automatismo che trovo sbagliato. Quello della Chiesa è un eccesso di difesa, una cattiva difesa». A sostenerlo è una delle più affermate e impegnate scrittrici italiane: Dacia Maraini. «Non vi è dubbio rileva Maraini che uno dei problemi della Chiesa sia il tabù sessuale. La proibizione non elimina un problema, lo sposta, lo nasconde». «A nessuno riflette la scrittrice fa piacere veder esplodere scandali in casa propria. Ma se succede bisogna prendere le distanze, contribuendo all’accertamento della verità, anche la più dolorosa. Altrimenti si diventa complici».
Quale idea si è fatta di quello che negli Stati Uniti hanno definito l’Altargate»? «Penso che ci sia una verità che da buoni cristiani andrebbe affrontata con coraggio. L’idea che portando alla luce quest casi di pedofilia si voglia attaccare il Papa, questo Papa, mi pare francamente una forzatura, un automatismo che trovo sbagliato. Diciamo che si tratta di un eccesso di difesa. Non penso che sia arroccandosi e gridando al complotto che la Chiesa riesca a difendere il suo buon nome. Ben altre strade dovrebbe percorrere...».
Quale, ad esempio?
«L’unico modo di contrastare questo scandalo da parte della Chiesa è quello di portare degli esempi di preti virtuosi, ma non dal punto di vista sessuale. Virtuosi per il loro impegno civile, per il coraggio di scelte che educano i parrocchiani. Penso al parroco di Sant’Onofrio. Michele Virdò, che ha saputo dire no ai tentativi delle cosche calabresi di infiltrarsi nella processione. Questo è un caso straordinario di coraggio che la Chiesa dovrebbe esaltare, portandolo ad esempio. La Chiesa dovrebbe dire con orgoglio: questi sono i nostri parroci, che fanno cose ammirevoli, e in questo si esprime una beatitudine...».
Invece?
«Invece si grida al complotto come se così facendo si intenda esorcizzare una realtà che certo non deve essere generalizzata, ma neanche taciuta. A nessuno fa piacere che esplodano scandali in casa propria. Ma se succede bisogna prendere le distanze, altrimenti si diviene complici».
C’è chi sostiene che la Chiesa farebbe bene a riflettere sulle conseguenze dell’imposizione del celibato. «Non è da oggi che sostengo che uno dei problemi della Chiesa è il tabù sessuale. Perché la castità che in sé può essere una scelta sublime non può per nessuna ragione essere imposta dall’alto. Una castità imposta porta a delle storture. La sessualità deve avere una qualche forma di espressione. Questa totale negazione da parte della Chiesa porta al sesso clandestino. La proibizione non elimina il problema, lo sposta, lo nasconde...». Cosa si sentirebbe di consigliare alla gerarchia ecclesiastica?
«Direi loro di affrontare questo problema con un po' più di larghezza di vedute e di modernità. Ho letto in questi giorni che nella Chiesa protestante, che non ha imposto ai suoi preti il celibato, i casi di abusi sessuali sono di molto inferiori a quelli denunciati nella Chiesa cattolica: non credo che sia un caso. Penso anche che questa negazione della sessualità abbia una qualche incidenza sullo stesso calo delle vocazioni».
Di fronte all’Altargate c’è chi invoca una Chiesa in mano alle donne... «Ritengo che sia molto negativo che le donne non possano officiare la Messa. È una forma di razzismo che oggi risulta davvero intollerabile. In questo modo, peraltro, la Chiesa nega una parte di se stessa, mostrando mancanza di fiducia e di stima».
In questi giorni diversi esponenti della Chiesa hanno accostato la campagna che punterebbe a Benedetto XVI con l’antisemitismo contro gli ebrei...
«Sono perfettamente d’accordo con le comunità ebraiche. Questo accostamento è offensivo verso gli ebrei che a milioni furono sterminati nelle camere a gas dei lager nazisti. L’averlo solo pensato è un insulto alla loro memoria. L’Olocausto è stato una tragedia che non può essere accostata a nessun altro evento, tanto meno alla vicenda in questione. Chi lo ha fatto dovrebbe vergognarsi».

il Fatto 8.4.10
Noi, sordi vittime dei nostri educatori
Gli ex allievi del Provolo non vedranno mai giustizia
di Vania Lucia Gaito

Mi chiamo Gianni Bisoli, sono nato a Sirmione il 15 settembre 1948. Sono diventato sordo a otto anni circa. Ho cominciato a frequentare l’Istituto Antonio Provolo di Verona all’età di nove anni. Tre mesi dopo la mia entrata in istituto e fino al quindicesimo sono stato fatto oggetto di attenzioni sessuali. Sono stato sodomizzato e costretto a rapporti orali e masturbazioni dai seguenti frati e fratelli laici: don Giuseppe, don Arrigo, don Aleardo, don Giovanni, don Alcide, don Luigi, don Rino e don Danilo, don Nicola, don Giovanni, don Basco, don Agostino, don Giuseppe, fratello Erminio. Devo ancora dichiarare che, dall’età di 11 anni fino ai 13 anni, sono stato più volte accompagnato nell’appartamento del vescovo di Verona, monsignor Giuseppe Carraro, dove il vescovo stesso mi ha sodomizzato e preteso altri giochi sessuali”.
E’ solo una delle tante testimonianze degli ex studenti dell’Istituto Provolo di Verona, uno fra gli scandali che sta investendo la Chiesa cattolica italiana. Violenze protrattesi dagli anni ’50 fino al 1984, avvenute sia all’interno dell’istituto sia nella colonia estiva Villa Cervi, a San Zeno di Montagna.
Oggi l’Istituto Provolo ha tre sedi tra Verona, Villafranca e San Michele Extra e offre corsi di formazione professionale anche a giovani in obbligo formativo tra i 14 e i 18 anni. Vanta, tra i propri clienti e partners, comuni, province e regioni e riceve anche finanziamenti pubblici, oltre alle donazioni attraverso il meccanismo del 5 per mille. E annovera tra i suoi religiosi sette dei 25 sacerdoti accusati da 67 ex studenti.
Le prime denunce da parte dell’associazione degli ex allievi dell’Istituto Provolo risalgono al 2006, quando si rivolsero al vescovo di Verona perché i sacerdoti ancora all’istituto venissero trasferiti.
La molla della denuncia era scattata alla notizia dell’apertura di una casa-famiglia per bambini sordi con difficoltà familiari, gestita dagli stessi religiosi della Congregazione della Compagnia di Maria del Provolo.
Non ottenendo nulla, nel gennaio 2009 gli ex studenti decisero di rendere pubblico il caso. Tuttavia il ricorso alla magistratura era inutile, perché nel frattempo era intervenuta la prescrizione.
“Il 23 gennaio dello scorso anno, nel corso di una conferenza stampa alla Camera dei deputati, abbiamo chiesto che il vescovo Zenti intervenisse affinché i sacerdoti accusati e ancora in vita rinuncino alla prescrizione, così la magistratura potrà fare le indagini necessarie” afferma Marco Lodi Rizzini, portavoce dell’associazione degli ex studenti. Un appello caduto nel vuoto, perché monsignor Zenti ha preferito strade diverse, una linea dura di contrattacco: in una conferenza stampa affermò di essere convinto che si trattasse “di una montatura, di menzogne”, e accusò Dalla Bernardina, presidente dell’associazione, di aver strumentalizzato i sordi: “Venne da me non a denunciare fatti di pedofilia, sia ben chiaro, ma ad accampare pretese sui beni immobili dell’Istituto”. Parole che sono valse al vescovo una querela che, nel luglio scorso, ha rischiato di essere archiviata. L’associazione ha proposto ricorso contro l’archiviazione e il prossimo 9 giugno il gip dovrà prendere una decisione. “L’affitto che ci viene richiesto per l’immobile su cui si dice che accampiamo pretese è di 200 euro” spiega Lodi Rizzini. “Se considera che siamo 420 soci, oltre il 90% dei sordi di Verona e provincia, bastano meno di venti centesimi ciascuno a pagare l’affitto. Quelle del vescovo Zenti sono accuse assurde. Continuano a parlare di pretese patrimoniali, ma noi non abbiamo mai chiesto soldi. Vorrei che specificassero di quali pretese patrimoniali si tratta”.
Una parziale marcia indietro, una parziale ammissione c’è stata dopo un’indagine della Curia che ha acclarato alcune responsabilità. Poi, a metà di febbraio di quest’anno è stato reso noto che i casi di abusi saranno analizzati dalla Congregazione per la dottrina della fede, ma nessuno dei 67 ex studenti che hanno denunciato è stata sentito o contattato dai prelati del Vaticano.
Sulle vicende del Provolo, un cupo silenzio anche da parte dei politici italiani, fatta eccezione per i Radicali che, nel luglio scorso, presero anche parte ad una manifestazione organizzata a Verona dall’associazione. Un lungo corteo muto lungo corso Cavour, corso Portoni Borsari e piazza Bra, per chiedere che venisse fatta chiarezza. E giustizia.
“Negli Stati Uniti è stato aperto un anno ‘finestra’ per denunciare anche abusi subiti molti anni prima. In Irlanda è stato il governo a commissionare le inchieste che hanno svelato migliaia di abusi. In Germania il cancelliere Angela Merkel è intervenuta in maniera netta e decisa” prosegue Lodi Rizzini. “Occorrerebbe maggiore determinazione nel fare chiarezza anche in Italia.”

il Fatto 8.4.10
Norvegia
Si dimette il primo vescovo, la Chiesa fa quadrato

Il primo caso di pedofilia in Norvegia riguarda Georg Mueller, vescovo della diocesi di Trondheim, un norvegese di origine tedesca che, quando era ancora semplice sacerdote, abusò di un chierichetto. Mueller ha confessato l’abuso, si è dimesso nel maggio del 2009, ha lasciato la diocesi, si è sottoposto a terapia e da allora non ha alcun incarico pastorale. La versione ufficiale della Santa Sede è stata prontamente fornita dal portavoce vaticano padre Federico Lombardi. E intanto dal Sudafrica, Buti Thlagale, vescovo, ha denunciato che nemmeno la Chiesa cattolica africana è “esente dagli scandali”, anzi “soffre gli stessi mali”. Un’apertura preventiva che, indirettamente, dice molto della strategia della Santa Sede sulla pedofilia. Rispondere tempestivamente, ma anche prevenire. Così, le rivelazioni dell’abuso di Mueller, comparse ieri sulla home page della tv norvegese Nrk, hanno pronto riscontro nella replica del portavoce vaticano. La tv ricordava le dimissioni “improvvise” del vescovo Mueller lo scorso anno, e spiegava che “è stato un abuso sessuale a spingerlo alle dimissioni”. Altri dettagli: la Chiesa avrebbe pagato “tra le 400 e le 500 mila corone” come risarcimento; Mueller scelse di dare immediatamente le dimissioni quando venne informato delle accuse che lo riguardavano; la vittima, secondo il quotidiano norvegese Adresseavisen, era un chierichetto che ha mantenuto il segreto per circa 20 anni. Nrk riporta che il caso è stato inviato al Vaticano, dove è stato valutato arrivando alla conclusione che Mueller, in quel momento vescovo di Trondheim, doveva dimettersi. Nessuna conseguenza penale per Mueller perché, al momento in cui sono state formulate le accuse, il reato era prescritto. La versione ufficiale viene data praticamente subito dalla Sala Stampa Vaticana. Che conferma nei dettagli la storia, e precisa che la vittima “prescritta, ha sempre voluto mantenere l’anonimato”. La Chiesa ha deciso di fare quadrato. È in questa logica che si è inserito l’intervento del cardinal Sodano, segretario di Stato emerito, che ha sostenuto che gli attacchi all’attuale Papa ricordano quelli a Pio XII. Un paragone che non è piaciuto alla Comunità ebraica italiana, già in polemica con le frasi del Venerdì Santo di padre Cantalamessa, predicatore pontificio. Renzo Gattegna, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche, sottolinea che “alcuni interventi e alcuni paragoni inappropriati e inopportuni rischiano di creare pericolosi e fuorvianti paralleli storici”. E l’ex presidente dell’Ucei Tullia Zevi dice di trovare questi paragoni “più dannosi che inutili”. (andrea gagliarducci)

il Fatto 8.4.10
Condannato (per pedofilia) il prete anti-pedofili Aveva inventato un filtro Internet per i minori
di Giorgio Mazzola

L’acqua è buona, ma se non è pura va filtrata. Come Internet”. Con questo slogan il sito www.davide.it presenta il suo filtro “Davide 2.0”, software in grado di proteggere l’utente dalla visione di siti “inadatti ai minori” con contenuti pornografici, pedo-pornografici, violenza, satanismo e via dicendo. Lo ha inventato, nel 2000, un sacerdote piemontese, don Ilario Rolle, 59 anni, fino a pochi mesi fa parroco della chiesa di Santa Gianna Beretta Molla a Venaria Reale, a nord di Torino. Un impegno a favore dei minori che nel 2003 (come scrive egli stesso nella sua pagina personale in rete) gli valse il “mandato” da parte della Curia di Torino “a lavorare sulla rete internet”. L’attività del parroco antipedofilia si è però interrotta; don Rolle, infatti, è stato esonerato – su sua richiesta – dal servizio parrocchiale lo scorso dicembre. Motivo, una sentenza di condanna a 3 anni e 8 mesi per pedofilia emessa con rito abbreviato dal gip di Torino Cristiano Trevisan, di cui ieri sono state rese note le motivazioni. L’uomo, nel 2007, avrebbe abusato di un dodicenne durante un campo estivo ad Ala di Stura, accogliendolo nottetempo nel suo letto e lasciandosi andare “ad atteggiamenti – si legge nella motivazione – in cui non è possibile cogliere i tratti di alcuna innocente manifestazione di affetto, bensì elementi tipici ed evidenti di un abuso sessuale”. In poche parole, carezze e baci sulle labbra non esattamente convenienti. Dunque la decisione della Curia torinese di affidare al parroco di Venaria un incarico tanto importante e delicato è stata una scelta sfortunata? Non esattamente, diciamo pure che è stata incauta. Don Ilario, infatti, era già incappato in disavventure simili. Nel 1990, quando ancora era parroco di Vallongo, piccola frazione di Carmagnola (dove il sacerdote aveva creato un “Pronto soccorso sociale” per l’ospitalità di minori e giovani in situazioni di disagio), fu rinviato a giudizio, insieme ad altri imputati, proprio per pedofilia. Ne uscì con una sentenza di non luogo a procedere grazie a un vizio di forma: la denuncia della madre del minore, vittima degli abusi, non era stata presentata nei termini di legge. Sulla base delle testimonianze di quel ragazzo – definito dal Tribunale “pienamente credibile” – fu però condannato il principale coimputato, un avvocato torinese di 35 anni. Il racconto della vittima coinvolgeva anche il sacerdote e il suo contenuto, allegato agli atti del processo di primo grado da poco concluso, sembra andare ben al di là di equivoche manifestazioni di “affetto”. E non solo, sempre nel 2007, don Ilario denunciò per estorsione un giovane rumeno che minacciava di rendere note le particolari “attenzioni” che il ragazzo avrebbe ricevuto dal parroco di Vallongo. Insomma, la fama di padre Rolle (che, va da sé, ha diritto alla presunzione di non colpevolezza fino al giudizio definitivo) non era esattamente limpida; eppure in Piemonte godeva di un’investitura istituzionale come prete anti-pedofilia. La Curia ribadisce quanto comunicato in una nota lo scorso dicembre: “Profondamente meravigliati e amareggiati per la sentenza di condanna inflitta a don Ilario Rolle – si legge – affermiamo il nostro rispetto per il lavoro della magistratura e nello stesso tempo confermiamo la stima e la fiducia nei confronti del sacerdote, riconoscendo il valore positivo del serio lavoro educativo svolto da anni a tutela dei minori”. E dello stesso avviso sembrano essere i 385 membri del gruppo “Grazie don Ilario Rolle” su Facebook.

Repubblica 8.4.10
Il Vangelo della giustizia
di Vito Mancuso

Quando si parla di «preti pedofili» si toccano due ordini di problemi che occorre tenere rigorosamente distinti: il reato di pedofilia commesso da alcuni esseri umani e la vita delle comunità ecclesiali dentro le quali questi reati sono avvenuti – e forse ancora avvengono. Il primo aspetto si occupa dei preti pedofili in quanto «pedofili» e come tale ha anzitutto un risvolto giuridico, per la precisione penale, consistente nel difendere i nostri figli da chi commette simili mostruosità, senza alcuna distinzione sull´identità dei colpevoli, siano essi preti, suore, vescovi, laici o che altro.
Un pedofilo è prima di tutto un criminale che va isolato e punito. Sempre al primo aspetto del problema pertiene il risvolto antropologico e psicologico che affronta la questione di come sia possibile una tale sconcertante aberrazione, a cui, per quanto ne so, solo gli umani tra tutti gli esseri viventi possono arrivare: capire la causa di un male è il primo fondamentale passo per estirparlo. Questo primo ordine di problemi riguarda la società nel suo insieme, credenti e non credenti, soprattutto alla luce della terribile verità secondo cui la gran parte degli atti di pedofilia avviene tra le mura domestiche.
Il secondo ordine di problemi scaturisce dal fatto che i pedofili in questione sono «preti» e in questa prospettiva i problemi riguardano in particolare la coscienza credente. Sono convinto che tutto dipenda dal chiarire che cosa significa credere in Dio. Intendo dire crederci realmente, non come una specie di condizione preliminare della mente per far parte di una grande associazione umana qual è (anche) la Chiesa cattolica, con la sua bella porzione di potere e di interessi nel mondo. Crederci come qualcosa di vitale, di esistenzialmente decisivo, oserei dire di bruciante. Che cosa significa credere in questo modo nel Dio vivente? Io penso che tale fede in Dio equivalga al credere nella giustizia quale dimensione suprema dell´essere. Giustizia e verità. Di fronte alla storia col suo inestricabile impasto di bene e di male, la vera fede sa che il bene è la realtà definitiva, ultima, assoluta, e come tale giudicante la storia e chi la vive. Il Cristo giudice di Michelangelo che troneggia nella Cappella Sistina alza il suo braccio non solo alla fine, ma anche in ogni momento della storia. E se c´è una qualità che caratterizza il Dio biblico, essa consiste nel diritto e nella giustizia perché «egli ama il diritto e la giustizia» (Salmo 32,5) e «diritto e giustizia sono la base del suo trono» (Salmo 88,15). Non a caso, tra le otto beatitudini di Gesù, solo la giustizia viene ripetuta due volte quale causa di beatitudine: «beati quelli che hanno fame e sete della giustizia», «beati i perseguitati per causa della giustizia». Ne viene che esercitare la giustizia è la prima fondamentale caratteristica del vero credente perché tale esercizio equivale a onorare il primo comandamento, non essendo «non avrai altro Dio all´infuori di me» nient´altro che il supporto teorico della prassi «non ti comporterai in altro modo all´infuori della giustizia». Non in modo tattico, accorto, prudente, diplomatico (strategie molto in uso nei palazzi del potere di ogni tempo); ma solo e semplicemente in modo giusto.
La giustizia è rappresentata al meglio dall´immagine della bilancia. Oggi su un piatto ci sono le esistenze di migliaia di bambini in tutto il mondo (America, Australia, Europa) irreversibilmente devastate a un triplice livello: fisico, psicologico e spirituale. Che cosa è disposta a mettere sull´altro piatto la Chiesa cattolica perché la bilancia possa essere in equilibrio e quindi rappresentare al meglio la giustizia, umana e divina al contempo? Non penso che abbiano peso alcuno le dichiarazioni che gridano al complotto, agli attacchi, all´assedio, esercitando la medesima tattica disorientante spesso utilizzata dai potenti della politica. Occorre piuttosto guardare in faccia la terribile verità e trarne le giuste conseguenze. Torno quindi a chiedere: che cosa mettete sul piatto della bilancia, voi pastori della Chiesa, quando dall´altra parte ci sono l´innocenza e la fiducia di giovani vite che mai potranno più essere come prima? Non si tratta di difendersi davanti agli uomini come una qualunque associazione umana, si tratta di rispondere davanti a Dio. Sapendo peraltro che il mondo intero vi guarda, e che da come risponderete – cercando giustizia e verità, oppure no – si misurerà l´autenticità della vostra fede. E che dall´autenticità della vostra fede in questo terribile frangente dipenderanno per gran parte le sorti del cristianesimo in occidente.
La peculiarità di questo scandalo non sta infatti nella pedofilia, forse neppure nel fatto che i pedofili in questione siano preti, quanto piuttosto nel fatto che voi gerarchie sapevate di questi crimini e che, per non indebolire il potere della struttura politica della Chiesa nel mondo, tacevate e insabbiavate. Non sto forzando i toni, è stato mons. Stephan Ackermann, vescovo di Treviri e incaricato della Conferenza episcopale tedesca per la questione abusi, a parlare di «insabbiamento» e di «occultamento» (Rhein Zeitung del 16 marzo scorso). Per interi decenni avete preferito l´onorabilità della struttura politica della Chiesa rispetto alla giustizia verso le vittime, e quindi verso Dio. Purtroppo le dichiarazioni di molti zelanti apologeti in questi giorni, comprese quelle del cardinal Sodano, appaiono esattamente in linea con la politica degli anni passati all´insegna dell´insabbiare e dell´occultare.
Ancora una volta, non ci si preoccupa di essere all´altezza della giustizia divina e delle anime delle vittime, ma dell´onorabilità del papa, o per meglio dire dei papi (perché una cosa deve essere chiara: se Benedetto XVI viene descritto come il più solerte nemico della sporcizia della pedofilia, ciò non può non gettare un´ombra abbastanza cupa sui ventisette anni di pontificato di Giovanni Paolo II). Gli zelanti apologeti agiscono come se il papa avesse qualcosa da perdere a seguire semplicemente le parole di Gesù nel Vangelo: «È inevitabile che avvengono scandali ma guai a colui per cui avvengono. È meglio per lui che gli sia messa al collo una pietra da mulino e venga gettato nel mare piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli». Vogliono salvare la Chiesa, ma non capiscono che è proprio il loro atteggiamento a renderla sempre più distante dalla sete di giustizia che pervade il nostro tempo.

Repubblica 8.4.10
Si prepara una grande manifestazione per chiedere una riforma
Le vittime Usa degli abusi "Tutti a S. Pietro il 31 ottobre"
La data è simbolica: in quel giorno del 1517 Lutero affisse le sue 95 Tesi
di Arturo Zampaglione

NEW YORK - Due anni fa, in occasione del primo viaggio ufficiale di Benedetto XVI negli Stati Uniti, le vittime dei preti pedofili decisero di mobilitarsi: scesero in piazza, organizzarono manifestazioni di protesta e riuscirono, alla fine, a ottenere un incontro riservato con il Papa. Adesso, con il riesplodere dello scandalo a livello internazionale, gli stessi protagonisti della mobilitazione hanno deciso di rilanciare la lotta promuovendo una "giornata di riforma" della Chiesa cattolica che si terrà a fine ottobre a piazza San Pietro.
«Le vittime di quei reati non potranno superare i loro traumi fino a quando la chiesa non sarà chiamata a rispondere», hanno spiegato al National Catholic Reporter Bernie McDeid e Olan Horne, due delle cinque vittime degli abusi dei sacerdoti della diocesi di Boston presenti al colloquio con il Pontefice il 17 aprile 2008. L´obiettivo è raccogliere almeno 50mila persone nel cuore del Vaticano: non solo vittime, ma anche attivisti per la riforma e normali fedeli. Chiederanno un intervento del Papa. Lanceranno quattro proposte per rendere più trasparente la Chiesa, a cominciare da indagini periodiche, indipendenti e obbligatorie sulle istituzioni ecclesiastiche. Anche la data prescelta - il 31 ottobre - ha un aspetto simbolico: in quel giorno del 1517 Martin Lutero pubblicò le 95 Tesi dando il via alla riforma protestante.
«La nostra mobilitazione andrà avanti a prescindere dalla partecipazione del Santo Padre», chiariscono McDeid e Horne. Come dire: non si aspettano che il Vaticano accolga l´invito, ma non hanno dubbi sulla importanza della loro azione per i destini stessi della Chiesa. McDeid, che definì "storico" il suo incontro con il Papa, ha molti ripensamenti: adesso non crede più che Benedetto XVI abbia capito fino in fondo la drammaticità della questione e ritiene che solo un´azione esterna possa rimettere in carreggiata la vita dei cattolici.
L´annuncio della marcia su San Pietro conferma l´estremo malessere di ampi settori della Chiesa americana. Il tema è in primo piano su tv e giornali: dopo gli attacchi del New York Times e le difese del Papa da parte del Wall Street Journal, il quotidiano conservatore di Murdoch, è stato il Washington Post a ricordare ieri, attraverso il suo esperto di media Howard Kurtz, che il Times ha fatto il suo lavoro giornalistico sui preti pedofili con professionalità.

l’Unità 8.4.10
Dall’elettroshock al supermarket Sul set con Ascanio Celestini
Un cast notevolissimo per il primo film di Ascanio: ci sono Giorgio Tirabassi, Maya Sansa, Barbara Valmorin. Direttore della fotografia: Daniele Ciprì (senza Maresco). Questo per portarci dritti dentro un manicomio...
di Gabriella Gallozzi

Immaginate un manicomio prima della rivoluzione Basaglia. La contenzione, i muri, le chiavi, l’elettroshock. Pensate, invece al presente. O almeno ad un passato vicino che ha visto l'apertura
di quei cancelli: una folla di gente che viene fuori e s'infila in un supermercato. Tutti in silenzio a fare acquisti. «Un acquario alienante in cui spendi soldi virtuali e sei pure contento».
È su questo doppio binario tra passato e presente, tra gli anni settanta e il 2005, che si muove La pecora nera, la pièce che Ascanio Celestini ha deciso di portare al cinema come regista e interprete (producono Raicinema e Bim), dopo essere già stato dietro la macchina da presa per il documentario Parole Sante, sul call center dell'Atesia. E come in tutti i suoi lavori, anche qui punta sulla qualità. A comincia-
re da un grande cast: Giorgio Tirabassi, Maya Sansa, Barbara Valmorin, Luisa De Santis e lui stesso. Come direttore della fotografia ha chiamato Daniele Ciprì (stavolta senza Franco Maresco) e come aiuto regista Valia Santella, della «scuderia» Moretti , autrice di Te lo leggo negli occhi.
LA STORIA DI ALBERTO
Le riprese sono in corso da una decina di giorni a Roma. E ieri la stampa è stata accolta sul set ricostruito in uno dei luoghi simbolo dell'istituzione manicomiale capitolina: Santa Maria della Pietà. È qui che Ascanio ha ricondotto la
storia di Alberto Paolini, uno dei veri testimoni da cui ha tratto in origine la sua pièce, raccogliendo le interviste di chi il manicomio l'ha vissuto sulla propria pelle.
Quella di Alberto è la storia di un uomo che chiuso tra queste mura c'è stato quasi quarant'anni, «quarant'anni di manicomio elettrico». A lui è ispirato il personaggio di Nicola, interpretato da Tirabassi, al quale si affianca lo stesso Ascanio che vediamo anche da bambino, col volto del piccolo Luigi Fedele. «Sarà come sfogliare un libro di fo- to – dice Celestini – attraverso un personaggio che ci racconta lì cos'è successo, seguendo le imma- gini che poi sono quelle che evoca- no le parole e che fanno il cine- ma».
E che sono il suo modo di raccon- tare, evocativo, ipnotico da gran- de affabulatore che usa pure nel corso della conferenza stampa pie- na di aneddoti, storie e persino bar- zellette sul manicomio.
COMICITÀ GROTTESCA
È la sua comicità grottesca, per cui il pubblico è abituato nei suoi spet- tacoli a «ridere nei momenti più terrificanti», dice lui stesso, «e non so perché». Sarà così anche ne La pecora nera film, suggerisce. Un ve- ro atto di accusa contro il manico- mio certamente, ma anche contro tutte le istituzioni. E il loro potere. «La scuola, la chiesa, il carcere, i lager come il manicomio – sottolinea Ascanio – sono le istituzioni che decidono chi è la pecora nera, che attribuiscono lo stigma, divi- dendo in buoni e cattivi. Così co- me avveniva ad Auschwitz quan- do si formavano le file: quella di chi andava a lavorare e quella di chi finiva nella camera a gas».
Sono le istituzioni dunque da sovvertire, da scardinare, prose- gue Celestini: «Come è avvenuto con la 180 così si deve fare per tut- to il resto: scardinare».
Nella realtà, però, le chiavi e i muri di contenzione sono ancora molti. «Del manicomio – conclude Ascanio – restano infatti troppe co- se. Intanto si è passati dalla conten- zione fisica a quella chimica che fa arricchire le multinazionali. Resta- no i manicomi privati, le cliniche le chiamano. Resta l'elettroshock. Re- stano i manicomi criminali. Ma soprattutto resta l'ideologia». Come diceva Basaglia, termina Celestini, «dal carcere alla caserma, dalla scuola al lager il meccanismo è sempre lo stesso. Chi gestisce le istituzioni ne gestisce anche la par- te violenta». E contro tutto questo è la sua Pecora nera.❖