lunedì 12 aprile 2010

l’Unità 12.4.10
Accuse sul web. Sul sito Pontifex attacchi contro i «giudei deicidi». Monsignor Babini: «Mai detto»
I rabbini Usa. Lettera di David Rosen alla Cei: condannate questi calunniosi stereotipi
New York Times: «Abusi, scisma emotivo Il Papa è moralmente compromesso»
«Pedofilia, campagna sionista» Bufera sul vescovo italiano
Scandalo pedofilia? Una manovra di massoni e «giudei deicidi». Ebrei Usa furiosi per le dichiarazioni del vescovo di Grosseto, chiedono l’intervento della Cei. E arriva la smentita di mons. Babini: «Mai detto».
di Marina Mastroluca

Basta cospargersi il capo di cenere, la Chiesa non ha nulla da farsi perdonare. Se è sotto attacco è per colpa di una macchinazione di massoni ed ebrei. Ebrei sì, giudei «deicidi», che hanno mandato Cri-
sto sulla croce e fatto perdere la pazienza ad Hitler: «La Germania era stanca delle angherie di chi praticava tassi di interesse da usura». «L’Olocausto fu una vergogna», ma sotto sotto sono stati loro, gli ebrei, a tirare la corda fino a farla spezzare.
A parlare non è il leader di qualche sigla d’ultradestra, in odor di nazismo. E no. Sotto la vemenza, c’è sentore di incenso. A parlare con un’intervista sul sito Pontifex, è monsignor Giacomo Babini, vescovo emerito di Grosseto non nuovo ad esternazioni estremiste (contro l’islam e i gay, tanto per dire). Lui smentisce, non appena la notizia torna indietro come un boomerang, dopo aver varcato l’Atlantico e fatto infuriare il Comitato ebraico americano, Ajc, che ha chiesto formalmenteai vescovi italiani una condanna senza appello. «Chiediamo alla Conferenza episcopale italiana di condannare categoricamente questi calunniosi stereotipi, che tristemente richiamano la peggiore propaganda nazista e cristiana prima della Seconda guerra mondiale», sono le parole categoriche del rabbino David Rosen, direttore internazionale per gli affari religiosi dell’Ajc.
Ed in effetti le affermazioni di Babini, pubblicate su quello che gli ebrei Usa definiscono un «sito cattolico di estremisti di destra», sembrano distillate da vecchi luoghi comuni della storia, come stelle gialle cucite sui cappotti, per cancellare l’ombra dello scandalo pedofilia ridotto ad una manovra altrui. «Ritengo che sia maggiormente un attacco sionista, vista la potenza e la raffinatezza, loro non vogliono la Chiesa, ne sono nemici naturali. In fondo storicamente parlando i giudei sono deicidi», spiega il vescovo. E aggiunge: «La loro colpa fu tanto grave che Cristo premonizzò quello che sarebbe accaduto loro con il non piangete su di me, ma sui vostri figli». Come se l’orrore dei lager fosse il segno di una colpa da espiare. «Non crediate che Hitler fosse solo pazzo insiste mons. Babini . La verità è che il furore criminale nazista si scatenò per gli eccessi e le malversazioni economiche degli ebrei che strozzarono l’economia tedesca». Quindi, se di macchinazione si tratta, perché pretendere che la Chiesa chieda perdono? «Di perdono ne abbiamo chiesti troppi». E giù, tirando in ballo già che si trovava anche la lobby gay.
«MONDI SENZA DONNE»
Già aveva sollevato critiche il paragone azzardato da padre Cantalamessa tra le accuse alla Chiesa per i preti pedofili e la persecuzione anti-semita, ma stavolta è qualcosa di persino più grave. Il Comitato ebraico americano chiede «tolleranza». E mons. Paglia, presidente della Commissione per il dialogo e l’ecumenismo, si affretta a prendere le distan-
ze, dichiarando che la Chiesa non la pensa come il vescovo di Grosseto. Il quale a metà giornata fa arrivare una smentita attraverso un comunicato diffuso dalla stessa Cei, sostenendo che «in alcun modo ho espresso simili valutazioni e giudizi da cui prendo nettamente le distanze».
Insomma uno scandalo nello scandalo. E mentre il cardinal Bagnasco esprime vergogna e sostiene la condanna «dentro e fuori la Chiesa» anche di chi ha coperto i preti pedofili dovrà «avere come effetto l’allontanamento» delle persone coinvolte dall’America arriva una nuova reprimenda dalle pagine del New York Times. La columnist Maureen Dowd critica i silenzi colpevoli e parla di «peccato mortale», del vizio di fondo di un «mondo senza donne». «La Chiesa scrive ha avuto scismi teologici. Questo è uno scisma emotivo. Il Papa è moralmente compromesso. Ve lo dice una sorella».

l’Unità 12.4.10
Dopo lo scandalo pedofilia
La Chiesa ha una sola strada, la chiarezza
di Don Enzo Mazzi

Le vittime della pedofilia del clero chiedono che il papa apra finalmente gli archivi vaticani e quelli diocesani. Piena luce e non solo parole o provvedimenti tardivi contro gli abusi: è questa la richiesta pressante che sale da tutto il mondo. E non solo dalle vittime dirette. Tutti ci sentiamo e siamo in qualche modo vittime di questo immenso scandalo che investe la Chiesa cattolica. E tutti chiediamo luce. Sin dal medioevo l'impresa araldica dei Papi fa vedere insieme allo stemma di famiglia o personale del pontefice due chiavi, in segno della trasmissione di ciò che viene formalmente denominato il "potere delle chiavi". E le parole di Cristo a Pietro, "A te darò le chiavi..." sono scritte in nero su oro con lettere cubitali sul cornicione della navata della Basilica di S. Pietro. Ebbene, è il momento di usarle queste chiavi non solo per condannare o assolvere i peccati del mondo ma anche per sradicare quelli della Chiesa incominciando con l’aprire la segretezza degli archivi. È sentire comune che sia un grande errore questo imponente arroccamento in difesa dell’istituzione ecclesiastica e della persona del papa. Anzi è l’errore di fondo. Non è l’istituzione o la gerarchia che va difesa ma le vittime. C’è un dissenso diffuso verso questa ostensione di potere da parte dei vertici vaticani, come fossimo ancora in pieno medioevo al tempo degli scontri fra papato e impero. È un dissenso che penetra, per ora larvatamente, fra gli stessi vescovi. Si manifesta solo in alcune situazioni più aperte. Ad esempio in Francia dove l’arcivescovo di Poitiers, mons. Albert Rouet, esplode scrivendo su Le Monde del 4 aprile. “Ogni sistema chiuso, idealizzato, sacralizzato è un pericolo. Quando una istituzione, compresa la Chiesa, si erge in posizione di diritto privato e si ritiene in posizione di forza, le derive finanziarie e sessuali diventano possibili. È quanto rivela l'attuale crisi e questo ci obbliga a tornare all'Evangelo: la debolezza del Cristo è costitutiva del modo di essere Chiesa. Bisogna scendere dalla montagna, scendere in pianura, umilmente”. Sono anni che la chiesa conciliare dice queste cose. Il cardinale Giacomo Lercaro, nel 1967, fu “dimissionato” da vescovo di Bologna per aver detto cose simili. Da allora fu uno stillicidio di rimozioni, sospensioni, scomuniche contro comunità e preti che praticavano e annunciavano la dimensione profetica della povertà, della debolezza, della trasparenza, della democrazia di base, del non-potere. Mentre verso i preti pedofili si usava “cura paterna”, si coprivano i loro misfatti e si lasciavano sconsideratamente in mezzo ai bambini. La chiesa dei Lercaro e delle comunità di base fu chiamata dispregiativamente “chiesa del dissenso”. È venuto forse il tempo del suo riscatto. Se la Chiesa cattolica vuol rinnovarsi non resta che affidarsi alla dimensione profetica tenuta viva da queste realtà che si rivelano una grande risorsa.

Repubblica 12.4.10
La Chiesa e il peccato contro la verità
di Adriano Prosperi

La scelta è tra la verità senza veli e la ragion di Stato, tra la tutela delle vittime e l´omertà
La questione non sono le colpe dei singoli religiosi. A quelle penseranno i tribunali

La Chiesa di Roma è oggi al centro di una grande tempesta, per le responsabilità di sacerdoti colpevoli di pedofilia e per quelle delle autorità centrali, accusate di averli coperti.
Nell´alterco tra chi la difende e chi l´accusa c´è il rischio che la sostanza del problema passi in secondo piano. Anche se certe reazioni sono davvero allarmanti e a loro modo rivelatrici. Si pensi ai rigurgiti di antisemitismo e di filonazismo nelle incredibili dichiarazioni odierne di un qualsiasi monsignor Babini. Sono episodi che mostrano quanto sia urgente una chiara presa di posizione del governo centrale della Chiesa sulla sostanza del problema. La scelta non riguarda la minuta casistica dei preti pedofili, per tanti che siano. Questo sarà materia di tribunali. La scelta davanti alla quale le autorità ecclesiastiche si trovano è quella tra la verità senza veli e la ragion di Chiesa, tra la tutela delle vittime e l´omertà verso gli aguzzini, tra la giustizia da rendere a chi ha patito offesa e una malintesa fedeltà all´istituzione. Solo abbracciando la verità e la giustizia senza riserve e senza infingimenti il governo della Chiesa potrà ancora parlare alla coscienza dei cristiani e potrà riaprire quel filo di comunicazione con l´umanità intera che oggi rischia di spezzarsi. Il prezzo da pagare è liquidare le residue incrostazioni di un passato che stenta a passare.
Quell´eredità la conosce meglio di chiunque altro l´attuale Pontefice: per esperienza che immaginiamo anche tormentosa e problematica, e comunque per precisa responsabilità istituzionale. Non dimentichiamo certo che è stato lui il primo a parlare pubblicamente di sporcizia nella Chiesa. Perciò quello che oggi si attende è un segno di discontinuità tra il prefetto della Congregazione vaticana per la dottrina della Fede e il pontefice della Chiesa universale. Sappiamo come e perché nelle carte d´ufficio di quella congregazione la sporcizia si sia accumulata e perché chi sporcava sia stato coperto dal segreto. È stato l´esito del trascinamento nel nostro tempo degli esiti della lunga guerra di religione tra i cristianesimi europei. «Taci, il nemico ti ascolta». Quando c´è un nemico c´è una guerra: e la prima vittima della guerra è la verità. La paura che la conoscenza della verità incrinasse le basi del consenso popolare ha creato le condizioni perché il corpo ecclesiastico facesse quadrato intorno ai suoi membri. Così furono creati tribunali segreti e concessi privilegi speciali alla parte ecclesiastica della Chiesa. Quei tribunali nascosero le colpe del clero nel momento stesso e con gli stessi strumenti con cui lo obbligavano a un´immagine pubblica di alto profilo morale e culturale.
Alla Chiesa spetterebbe l´ufficio di rimettere i peccati, al potere dello Stato quello di punire i crimini. È un argomento che alcuni usano in chiave apologetica affermando che non spetta oggi alla Chiesa il compito di punire i criminali. Ma lo si può rovesciare: è compito della Chiesa ritrovare oggi una distinzione valida e adatta ai tempi fra peccato e reato. E c´è un peccato contro la verità che incombe sulla Chiesa. Non è in discussione l´impulso criminale dei pedofili, in quanto tale diffuso tra chierici e laici, ma il crimine creato da una legge speciale che ha fatto del sacramento dell´Ordine sacro e della licenza di confessore un privilegio corporativo. Bisogna che le regole sbagliate siano cancellate. Sono le vittime che debbono tornare al primo posto, non i carnefici. Se la giustizia della Chiesa vuole rientrare in contatto con la giustizia degli uomini e con quella di Dio questa è la priorità. Non più coperture di segreto e licenze di libera circolazione a lupi coperti dall´abito talare. La legge della Chiesa deve saper rispondere all´idea di giustizia di una società che chiede trasparenza, che pone al vertice dei suoi valori la tutela dell´infanzia, che non capisce più la sopravvivenza di recinti arcaici, dalle barriere del diritto canonico al segreto speciale che ha celato finora i criminali del «crimine pessimo».
La questione che si è aperta è un segno dei tempi, fra tutti il più terribile e sconvolgente. Per questo tutti attendiamo di vedere come la Chiesa reagirà. La tentazione di minimizzare o di alzare il polverone difensivo dell´accusa di complotto può essere una reazione istintiva, ma come difesa non porta lontano. Insistere ancora su questa strada significherebbe ignorare la sostanza terribile del delitto nefando, il bisogno di verità e di giustizia che unisce credenti e non credenti. Dopo le avvisaglie di tanti episodi recenti in cui si è letto un ritorno di fiamma della Controriforma, questo caso mette oggi all´ordine del giorno un´emergenza suprema e assoluta. Essa riguarda il rapporto tra chiesa e secolo, papa e mondo, fede e democrazia. Gli uomini di buona volontà, le culture democratiche e laiche hanno dimostrato di avere capito l´apertura confidente del Concilio Vaticano II ai fondamenti della coscienza moderna. E tutti sanno con quanto interesse sia stata accolta la decisione di papa Wojtyla di fare del giubileo del 2000 l´occasione per voltar pagina rispetto alle pesanti eredità dell´antisemitismo, dell´intolleranza e della violenza in materia di fede. Ma su quella strada come su ogni percorso della vita e della storia si può sempre scegliere se andare avanti o tornare indietro. E quali abissi si riaprano se si torna indietro, il caso del vescovo emerito mons. Babini basta a mostrarlo.

Repubblica 12.4.10
La provocazione degli atei inglesi "Arrestiamo il Papa come Pinochet"

LONDRA - Far arrestare Benedetto XVI durante la futura visita in Gran Bretagna - in programma tra il 16 e 19 settembre - per «crimini contro l´umanità». È l´ultima provocazione di Richard Dawkins e Christopher Hitchens, intellettuali e militanti del movimento ateo britannico. I due hanno chiesto ad alcuni esperti di diritti umani di preparare l´accusa e chiedere l´incriminazione del Pontefice sulla base del presunto insabbiamento architettato per coprire le responsabilità della Chiesa Cattolica nello scandalo degli abusi sessuali ai danni di minori.
«Stiamo parlando di un uomo - ha detto Dawkins al Sunday Times - il cui primo impulso, quando i suoi preti vengono pizzicati con le braghe calate, è quello di coprire lo scandalo e condannare la giovane vittima al silenzio». «Quest´uomo - gli ha fatto eco Hitchens - non è né al di sopra né al di fuori della legge». La coppia di intellettuali sostiene di poter sfruttare il medesimo principio usato per arrestare il dittatore cileno Augusto Pinochet durante la sua visita del 1998. In Gran Bretagna esistono precedenti illustri di questo tipo. L´anno passato, infatti, attivisti pro-palestinesi erano riusciti a ottenere l´emissione di un mandato di arresto ai danni dell´israeliana Tzipi Livni sulla base di sospetti crimini commessi durante il conflitto a Gaza del 2008-2009.

Repubblica 12.4.10
Una sfida sul destino della democrazia
di Stefano Rodotà

È mai possibile che si accetti senza reagire una politica che si manifesta con la distorsione dei fatti, l´aggressione alle istituzioni, l´esibizione di un potere ispirato da una logica autoritaria?
Questi sono i temi nitidamente posti da Eugenio Scalfari, e conviene seguire la strada da lui indicata tornando su alcune delle cose dette sabato dal presidente del Consiglio ad una platea di imprenditori. E tuttavia, prima di seguire Berlusconi lungo l´abituale suo itinerario di aggressioni e vanterie, bisogna sottolineare la novità rappresentata dai tre fatti gravissimi narrati da Scalfari, rivelatori non tanto di una inammissibile doppiezza, ma di un sistematico mentire al presidente della Repubblica, che configura un caso clamoroso di slealtà costituzionale. Mentre Giorgio Napolitano si adopera per creare un clima propizio per una riforma rispettosa della Costituzione, Silvio Berlusconi tiene comportamenti pubblici e privati che mettono in discussione la funzione esercitata dal presidente e gli lancia una sfida che può sfociare in un gravissimo conflitto al vertice delle istituzioni.
A Parma il presidente del Consiglio si è descritto come prigioniero di lacci e lacciuoli che gli impediscono un´azione efficace, come se non avesse una maggioranza parlamentare senza precedenti nella storia repubblicana e come se non avesse nei fatti mostrato che, quando le convenienze lo spingono, è in grado di far approvare rapidamente qualsiasi provvedimento. Ha imputato l´origine della crescita del debito pubblico ai "governi del compromesso storico", mentre proprio gli imprenditori dovrebbero sapere che quella vicenda comincia con il governo Craxi, un politico dal quale l´attuale presidente del Consiglio non era poi così lontano. Ha detto meraviglie di riforme che si sa bene che non saranno in grado di produrre i miracoli che ad esse vengono associate. Ma soprattutto ha descritto la Presidenza della Repubblica come un luogo che interferisce impropriamente nell´azione di governo, controllando «minuziosamente anche gli aggettivi» dei provvedimenti. E per l´ennesima volta ha definito la Corte costituzionale un "organo politico", che sta lì per smantellare la legislazione che non piace ai pubblici ministeri e ai giudici di Magistratura democratica. Un attacco frontale è stato così portato alle due istituzioni che in questo periodo hanno garantito la legalità costituzionale.
Quest´insieme di falsificazioni è il frutto di una strategia deliberata, basata sulla ripetizione degli stessi concetti e delle stesse parole, ispirata all´antica regola "calunniate, calunniate, qualcosa resterà". In questo modo si è già creato un perverso senso comune, al quale si fa appello nel momento in cui si deve raccogliere consenso. E ora, gonfiate le vele dal vento elettorale, si pensa di poter portare tutto all´incasso. Che cosa si sta facendo per contrastare questa che non è soltanto una strategia comunicativa, ma una sempre più pesante strategia politica?
L´obiettivo di Berlusconi è chiaro e ormai esplicitamente dichiarato. Spazzar via tutte le garanzie e i controlli che "disturbano il manovratore", concentrare il potere nelle mani di una sola persona, invocando quel che accade in altri paesi europei, ma ignorando del tutto i contrappesi che lì esistono. Così, quello che con approssimazione viene chiamato semipresidenzialismo si presenta come concentrazione di potere nelle mani di una sola persona. Non a caso si rifiuta ogni modifica della legge elettorale, che si è rivelata un docile strumento per avere parlamentari scelti dall´alto, vanificando proprio quella sovranità dei cittadini alla quale Berlusconi strumentalmente si richiama quando vuole avere le mani libere da qualsiasi controllo. Si scoprono le carte a proposito della riforma della magistratura. Viene annunciata una antidemocratica riforma elettorale del Csm. La separazione delle carriere dovrebbe portare alla creazione di due consigli superiori, uno per i magistrati e l´altro per i pubblici ministeri, quest´ultimo presieduto dal ministro della Giustizia. Dalla proclamazione della volontà di cancellare la politicità della pubblica accusa si passerebbe così ad un controllo politico, anzi governativo, dei pubblici ministeri con l´evidente possibilità di distogliere il loro sguardo da indagini che potrebbero riguardare chi è vicino alla maggioranza e di indirizzare la loro azione verso chi si muova in modo sgradito al potere.
A Berlusconi la democrazia dà fastidio, e non a caso annuncia un plebiscito. Non vuole una riforma, vuole un referendum sulla "sua" riforma. Un referendum che inevitabilmente spaccherebbe il paese, e farebbe percepire la nuova architettura costituzionale come il progetto di una parte, nella quale gli altri non potrebbero riconoscersi. Dalle riforme condivise si passerebbe alle riforme "divisive".
Avendo deciso di imboccare questa strada, Berlusconi ha fatto una mossa che, per chi conosce la sua attenzione per il sistema della comunicazione, era prevedibile. Si è materializzato su Facebook. Da tempo, e non solo in Italia, si sottolinea che Internet non è di per sé uno strumento di democrazia e che, anzi, proprio l´insieme delle nuove tecnologie può dare sostegno al crescente populismo.
Si torna così all´interrogativo iniziale. Come contrastare questa pericolosa deriva? Contare solo sulla dialettica interna alle forze politiche, sperare nel dissenso dei finiani, cercare pontieri tra maggioranza e opposizione perché la minacciata eversione costituzionale venga ricondotta nel più ragionevole alveo della "buona manutenzione costituzionale"? Guardiamo pure in questa direzione, anche se la sconsolata ammissione del pontiere per eccellenza, Gianni Letta, riferita da Eugenio Scalfari, non autorizza alcun ottimismo.
Il compito dell´opposizione si è fatto più difficile, perché non basta contrapporre una bozza Violante ad una bozza Calderoli. Bisogna contrastare Berlusconi sul terreno che lui stesso ha scelto, quello della mobilitazione dell´opinione pubblica che dovrebbe sostenere l´impresa di riforma. Ma bisogna fare un passo oltre la registrazione di questa difficoltà, mostrando a tutti che cosa sia effettivamente diventata la questione della riforma costituzionale: una sfida sul destino della democrazia italiana.
Se così stanno le cose, vi è una responsabilità più ampia di quella che riguarda partiti e gruppi di opposizione. Vi è una responsabilità collettiva legata ad una cittadinanza attiva, alla necessità che tutti prendano la parola. La difesa della democrazia non è stata mai affidata a maggioranze o minoranze "silenziose". Proprio perché le tecnologie hanno fatto diventare "continua" la democrazia, continua dev´essere pure l´azione dei cittadini. E oggi il silenzio si rompe in molti modi, da quelli tradizionali a quelli che si affidano alla faccia democratica delle tecnologie, né plebiscitaria né populista. Di tutto questo bisogna parlare, per non lasciare solo il Presidente della Repubblica nella difesa della Costituzione, per scongiurare un cambiamento di regime, per non rassegnarsi al destino di spettatori. Esattamente quello che il Cavaliere vuole.

l’Unità 12.4.10
L’Ungheria alla destra, tracollo socialista
Il partito xenofobo entra in Parlamento
Per gli exit poll il partito conservatore dell’ex premier Orban al 56%. Il Partito socialista al 20%
Il partito Jobbik strappa il 15%. Nel suo programma guerra ai Rom, agli ebrei e aicomunisti
di Marco Mongiello

Il vincitore. Ammira Berlusconi ha promesso 1 milione di posti di lavoro

Il partito conservatore Fidesz dell’ex premier Viktor Orban per i primi exit poll avrebbe vinto le elezioni politiche ungheresi. Il partito socialista al governo crolla al 20%. Fa il pieno l’ultradestra xenofoba.

La sinistra ha rimesso in ordine i conti pubblici, ma è stata sconfitta da un uomo che ha promesso meno tasse e un milione di nuovi posti di lavoro, mentre l'estrema destra razzista dilaga e per la prima volta entra in Parlamento.
La storia suona familiare ma il Paese in questione è l'Ungheria. Ieri il primo turno delle elezioni legislative ha cancellato dalla mappa dell'Europa uno dei pochi governi socialisti per consegnare la Nazione ai conservatori del Fidesz, il partito guidato da Viktor Orban.
AMPIA MAGGIORANZA
Dopo il secondo turno del 25 aprile il leader conservatore potrà tornare a Budapest per sedersi sulla poltrona del Primo ministro con una maggioranza che si prevede molto ampia.
Già premier dal 1998 al 2002, Orban ha convinto i dieci milioni di ungheresi promettendo di «far uscire il Paese dalla disperazione». Dopo le speranze suscitate dall' adesione all'Unione europea nel 2004 infatti l'Ungheria è stato uno dei primi Paesi a crollare a causa della crisi economica globale scoppiata nell'autunno del 2008. Per evitare la bancarotta Bruxelles e l'Fmi sono intervenuti con un prestito di oltre 20 miliardi di euro e il Governo socialista, al potere per otto anni, si è impegnato a risanare e riportare il deficit entro limiti accettabili a suon di tasse, tagli di tredicesime e della spesa pubblica.
Oggi l'Ungheria è una Paese stremato da una recessione che l'anno scorso ha superato il 6% del Pil e una disoccupazione che ha superato l'11%.
Orban, che è un ammiratore di Berlusconi, ha promesso di abbassare le tasse da subito, anche se il suo responsabile dell'economia ha già rimandato al 2011, e ha promesso un milione di nuovi posti di lavoro in dieci anni, anche se al prezzo di far risalire nuovamente il deficit e di rimandare l'entrata nell'Euro prevista per il 2014.
PUNITA LA SINISTRA
I socialisti invece pagano un crollo di immagine, dovuto anche ad una serie di scandali, che negli ultimi anni è stato senza sosta, al punto da costringere il Premier Ferenc Gyurcsány a dare le dimissioni a marzo 2009 per essere rimpiazzato dal «tecnico» Gordon Bajnai.
Per riconquistare la fiducia degli elettori il Partito socialista ha presentato un candidato di 35 anni, Attila Mesterhazy, ma la caduta è stata comunque spettacolare, dal 43% del 2006 a circa il 20% dei voti. Evitato comunque il temuto sorpasso da parte dell'estrema destra del Jobbik.
Il vero vincitore di queste elezioni è Gabor Vona, il leader trentaduenne dello Jobbik o il «Movimento per un'Ungheria migliore». Al grido di «Ungheria agli ungheresi» Vona ha cavalcato il populismo e il razzismo dilagante in Europa arrivando a piazzarsi poco distante dai socialisti come terza forza del Paese.
Tra i tanti movimenti di estrema destra europei quello ungherese è tra i più aggressivi. Oltre al partito, nato el 2003, Von ha fondato la «Guardia Magiara», un'organizzazione paramilitare già dichiarata illegale e rinata con un altro nome. Le marce, le divise, le violenze contro i Rom e i simboli richiamano esplicitamente il nazismo. Una cosa che non ha impedito a Vona di far eleggere tre eurodeputati al Parlamento europeo l'anno scorso. Nel suo programma non manca niente del tipico menu dell' estrema destra: i nemici sono i Rom, gli ebrei e i comunisti, ma anche le multinazionali e le banche.Proprio ieri un rapporto divulgato dal Centro studi dell'Università di Tel Aviv sull'antisemitismo ha messo in guardia contro il moltiplicarsi di violenze contro gli ebrei e contro il dilagare dell'estrema destra, mentre il Centro Simon Wiesenthal ha puntato il dito contro alcuni Paesi, tra cui l'Ungheria, dove i criminali di guerra nazisti continuano a vivere nell'impunità.

l’Unità 12.4.10
Basaglia insegna
La denuncia. Il giornalista Kazuo Okuma e la sua esperienza infernale in un ospedale psichiatrico
Il dramma. Nel suo paese esistono quasi solo strutture private e gli internati sono in aumento
I manicomi non curano Il Giappone studia il modello italiano
Grazie al coraggio di un giornalista e alle denunce dei familiari dei malati, in Giappone c’è una spinta a copiare la nostra 180. Una delegazione del Sol Levante è in visita in Italia per capire come funziona
di Cristiana Pulcinelli

Kazuo Okuma in Giappone è un uomo conosciuto. Per trent’anni ha lavorato come giornalista del più importante quotidiano giapponese, Asahi Shimbun, ed è autore di un libro che negli anni Settanta ha suscitato un certo clamore: Reportage da un padiglione manicomiale. Kazuo vi raccontava la sua odissea all’interno di un ospedale psichiatrico in cui si era fatto ricoverare fingendosi alcolista e da cui aveva faticato non poco ad uscire. Da quella esperienza Kazuo ha maturato l’idea che il manicomio fosse un luogo infernale, «ma non vedevo alternative racconta fino a che non ho saputo che in Italia era stata varata una legge che prevedeva l’abolizione dei manicomi».
Da questo incontro con la riforma italiana è nato un altro libro, Il Giappone dei manicomi e l’Italia senza manicomio, con il quale Kazuo ha vinto il premio Franco Basaglia istituito dalla Provincia di Venezia e dalla Fondazione Franca e Franco Basaglia. Ora l’autore è in Italia insieme a una delegazione giapponese formata da psichiatri, operatori sanitari, familiari di pazienti. Vengono a studiare il modello italiano. Ma hanno anche voglia di raccontare il dramma dei pazienti con problemi di salute mentale nel loro paese. «In Giappone racconta Kazuo oggi ci sono 340.000 letti per una popolazione di 120 milioni di persone. Negli ultimi 30 anni il numero dei letti manicomiali è diminuito in tutti i paesi sviluppati, tranne che in Giappone, dove invece sono drasticamente aumentati. Il 90 % di questi posti letto si trova in ospedali privati per i quali il guadagno viene prima della vita dei pazienti». Il modello è complesso: quasi ogni ospedale psichiatrico ha un proprietario diverso, spesso si tratta dello stesso psichiatra che lo dirige. Dato che il guadagno maggiore deriva dal numero di ricoverati, i letti devono essere sempre pieni. Quindi, pazienti che potrebbero essere seguiti al di fuori della struttura, vengono invece tenuti in ospedale il più a lungo possibile. Spesso i letti vengono riempiti con malati di Alzheimer e anziani.
Maya Aishi, odontotecnica, è la mamma di un ragazzo schizofrenico ed è anche vice presidente di un’associazione di familiari di pazienti. Anche lei è in Italia e racconta la sua storia: «Mio figlio ha cominciato a manifestare problemi gravi verso i 16 anni. Per chiedere un aiuto ci siamo rivolti al comune della nostra cittadina, ma ci hanno detto che l’unica soluzione era ricoverarlo in ospedale: una struttura privata con oltre 500 posti letto che si trova in una cittadina non distante dalla nostra. Così abbiamo fatto. Per 10 anni mio figlio è entrato e uscito dall’ospedale senza nessun miglioramento. Ora è a casa da 6 mesi, potrebbe andare al servizio diurno, ma siccome si trova all’interno dell’ospedale, non vuole metterci piede». Cosa chiedono i familiari? «Vogliamo servizi territoriali. Io sono andata dal sindaco della mia cittadina e gli ho detto: diventiamo la Trieste del Giappone».

Repubblica 12.4.10
L’ossessione per la parola giusta
Due nuovi dizionari, oltre 65mila lemmi, ci mostrano in quanti modi possiamo dire le cose
di Stefano Bartezzaghi

Nel nuovo De Mauro dei sinonimi e contrari, i termini vengono segnalati in base all´uso
L´opera di Raffaele Simone seleziona i vocaboli per "analogia"

Quando scaricherete dalla macchina i quattro volumi che compongono queste due opere, o li estrarrete dagli scaffali di una biblioteca pubblica per una consultazione, vi risulterà inevitabile pensare a tutte le volte che avete sentito dire che l´italiano, inteso come lingua italiana, «si impoverisce». Una dozzina di chili complessivi di carta stampata, quasi quattromila pagine, sessantacinquemila lemmi circa, ma anche due leggerissimi Cd-Rom danno della ricchezza o povertà della lingua italiana un´idea nettamente più articolata. Anzi, due idee distinte.
Per Tullio De Mauro, che ha progettato e diretto l´impresa del Grande Dizionario Italiano dei Sinonimi e dei Contrari (con un´appendice di Olonimi e Meronimi; Utet, 2 volumi, 1640 pagg., s. i. p.; si può abbreviare in Gradisc) ogni parola si definisce non solo per il suo significato e per i rapporti di equivalenza o contrarietà che può stabilire con altre parole ma anche per l´uso che se ne fa, e che è misurabile con strumenti statistici. Come negli otto volumi del suo Grande Dizionario Italiano dell´Uso, che è alla base di questa nuova opera (era uscito dallo stesso editore nel 2007), ogni parola e anche ogni accezione di ogni parola è accompagnata da una «marca d´uso». La parola cretino, ad esempio, è di per sé parte del vocabolario fondamentale dell´italiano che comprende poco più di duemila vocaboli, frequentissimi e comprensibili a tutti sin dall´infanzia (da sole coprono il novanta per cento degli usi linguistici). Fra i suoi sinonimi sono altrettanto fondamentali ottuso, scemo e stupido; fesso, idiota, imbecille e sciocco sono invece quattro delle 2500 parole di alto uso, che normalmente si imparano a scuola e sono solo poco meno frequenti delle fondamentali. Come sostantivo, cretino ha il sinonimo asino, che in questa accezione è una delle 1900 parole di alta disponibilità (vocaboli non frequentissimi, ma comprensibili da tutti). Molto nutrita è la schiera delle 40.000 parole comuni, conosciute e impiegate da chi ha un´istruzione medio-alta, indipendentemente dalla sua professione e dai suoi interessi specifici: fra i sinonimi di cretino troviamo qui allocco, babbeo, baccalà, baggiano, balordo, beota, bietolone, broccolo, citrullo, coglione (volg.), deficiente, ebete, gnocco, gonzo, grullo, mentecatto, minchione (pop.), scimunito, scipito, stolido, stolto, tonto, tontolone. Un ultimo sinonimo di cretino è castrone, che è parte del lessico a basso uso, a sua volta composto da parole ormai rare, ma non del tutto scomparse. Non ci sono sinonimi di cretino per le altre marche d´uso: termini tecnici e specialistici, parole di uso letterario, parole di ambito regionale, parole dialettali, esotismi e termini obsoleti.
L´ampiezza dell´opera e la scrupolosa stratificazione degli usi abrogano i limiti tradizionali del genere dei dizionari dei sinonimi e dei contrari, un genere di cui non è mai stata troppo chiara la ratio. A cosa servono? A evitare le ripetizioni, come insegnavano i precetti stilistici del passato, con zelo degno di miglior causa? Il Gradisc aiuta innanzitutto a trovare la parola giusta, quando quella che abbiamo in mente non ci soddisfa perché non dà la sfumatura giusta o perché non è in linea con il tono del nostro discorso - essendo vuoi troppo usata e frusta, vuoi troppo tecnica, vuoi troppo aulica (aulico è parola comune; può essere sostituito dai fondamentali alto e nobile, dai vocaboli di alto uso illustre e solenne, dalla parola ad alta disponibilità raffinato, dai comuni altisonante, elevato, forbito, retorico, ricercato, sostenuto; come termine letterario, invece, aulico è sinonimo dei comuni cortigiano e curiale).
In due appendici, il Gradisc raccoglie relazioni non più orizzontali (tra parole equivalenti o contrarie) ma verticali: sono gli olonimi e i meronimi, rispettivamente nome di interi e di parti. La manica è uno dei meronimi di abito, che ne è quindi uno degli olonimi.
Raffaele Simone firma invece un´opera che in italiano ha pochissimi precedenti: il Grande Dizionario Analogico della Lingua Italiana (Utet, 2 volumi, pagg. 2232, s. i. p.; abbreviato in DAU). Un dizionario analogico ha molte meno voci di un dizionario normale: il DAU ne accoglie 3500. Questo perché ogni voce è una parola di alta frequenza, che è collegata con un gran numero di parole italiane. Per chi fa un dizionario analogico, il lessico è una metropoli che si può attraversare partendo da un numero relativamente limitato di piazze, ognuna delle quali mette in comunicazione un numero assai più ampio di vie. La voce cretino, per esempio, non c´è ma, tramite un indice che occupa da solo quasi l´intero secondo volume dell´opera, si trovano le voci in cui la parola compare, da acuto a sciocchezza.
Ogni voce elenca tutte le parole che si trovano, per un verso o per l´altro, a essere relative alla parola-piazza o alla parola-hub (questa la metafora scelta dall´autore). Per esempio, edilizia. Il DAU ne fornisce una breve definizione, un sinonimo (costruzione), un elenco di termini «affini e associati» (architettura, impantistica, etc.) e un nutrito paragrafo con i «nomi più specifici per funzione»: da architettura del paesaggio a edilizia urbana. Poi incominciano le risposte alle domande, secondo il metodo euristico scelto da Simone per compilare il suo dizionario. Di cosa si interessa l´edilizia? Di costruzione, edificio, grandi opere, infrastrutture... Con quali strumenti opera? Planimetria, prospetto, progetto, regolamento edilizio... Cosa produce? Edificio, opera muraria, stabile, complesso, centro residenziale... Come si distinguono questi prodotti? Abbazia, abitazione, aeroporto, albergo, anfiteatro, appartamento, arena... fino a terme, torre, torrione, villa, villette. Quali sono le parti di tali prodotti? Fondamenta, basamento, interrato, piano, scala, tramezzo, pavimento... Quali sono gli atti relativi all´edilizia? Appalto, abbattimento, demolizione, ammodernamento, abusivismo, cementificazione... Qual è l´abbigliamento tipico? Casco, elmetto, tuta. Quali persone sono coinvolte? Costruttore, immobiliarista, palazzinaro, capocantiere, capomastro, asfaltista, carpentiere, carriolante, edile, fabbro.... Quali sono i luoghi tipici dell´edilizia? Cantiere, cava, giacimento... Quale sono le azioni connesse all´edilizia? Finanziare, zonizzare, rapallizzare, alzare, consolidare, edificare... Incrociando lemmario e indice, l´utente del DAU può così giungere a scoprire termini che non conosce o che ha dimenticato.
I thesaurus e i dizionari nomenclatori del passato si sono fondati tipicamente su una rigida categorizzazione del mondo. Il Thesaurus di Roget (prima edizione, 1825) incominciava, per esempio, con la voce essere, in diretta corrispondenza con la Metafisica di Aristotele. Oggi, con i nuovi strumenti tecnologici, l´osservazione parte direttamente dalla lingua: De Mauro ha fondato il suo sistema di marche dell´uso sull´analisi delle ricorrenze dei termini nei testi e nei discorsi effettivamente compiuti in italiano; Simone ha scelto le sue parole-hub fra quelle che risultavano effettivamente al centro del maggior numero possibile di relazioni diverse. Nel primo caso il linguaggio è come un edificio di undici piani, tanti quante sono le marche d´uso; nel secondo caso, è una metropoli labirintica, in cui ogni parola è inserita in un sistema di relazioni organizzato secondo una logica flessibile. In entrambi i casi, si tratta di strumenti di consultazione assai raffinati, che si indirizzano generosamente a un pubblico che condivida con i loro curatori, i loro redattori e il loro editore l´idea che la lingua (e, di conseguenza, la linguistica) sia innanzitutto una passione sociale.

domenica 11 aprile 2010


l’Unità 11.4.10
Fecondazione. La sentenza sull’eterologa
Per fortuna che l’Europa c’è
di Maria Antonietta Coscioni

Con una storica sentenza, la Corte Europea di Strasburgo, chiamata a pronunciarsi sulla legislazione austriaca in materia di fecondazione assistita, ha dichiarato incompatibile con la Convenzione dei diritti dell’uomo il divieto assoluto di fecondazione eterologa in vitro.
In estrema sintesi, la Corte di Strasburgo riconosce che l’impossibilità totale di ricorrere alla fecondazione eterologa infrange il diritto alla vita familiare e il divieto di discriminazione. La nuova «santa alleanza» che unisce Vienna a Roma, benedetta dalle gerarchie vaticane, esce dunque, sconfitta.
La legge austriaca in materia è del tutto simile a quella che si è voluto imporre anche all’Italia da una maggioranza parlamentare sanfedista e oscurantista. La sentenza di Strasburgo non può non avere, dunque, effetti anche da noi.
La Corte europea riconosce che gli Stati, hanno sì un margine di discrezionalità in tale materia, ma nell’adozione della normativa interna sono tenuti a rispettare la Convenzione europea così come interpretata da Strasburgo. Nel caso specifico, i singoli Stati non hanno l’obbligo di adottare una legislazione che permetta la fecondazione assistita tuttavia, una volta che questa è consentita, devono essere vietati trattamenti discriminatori.
Questo ad esempio significa che le persone che si trovano in una stessa situazione di infertilità non possono essere trattate diversamente solo in ragione della diversa tecnica di fecondazione utilizzata. Il divieto della fecondazione eterologa non trova dunque giustifica se, nello stesso tempo, viene ammessa quella omologa.
L’Italia, che con la sua legislazione, le sue normative, oggi come in passato, sta esportando la sua «peste» in Europa, per una volta sarà costretta ad accogliere la ventata laica che viene dall’Europa. Mettiamo in conto azioni e atteggiamenti ostruzionistici dei vari Maurizio Sacconi, Eugenia Roccella, Gaetano Quagliariello, Maurizio Gasparri, sempre proni e disponibili ai diktat d’Oltretevere.
Confido tuttavia che anche nello schieramento del centrodestra si sapranno levare e mobilitare voci laiche e rispettose dei diritti di tutti, e che si uniranno a quanti, come me e come i radicali, lottano per una maternità (davvero) libera, desiderata e responsabile.
Tutto questo, ovviamente, è un imprescindibile banco di prova per l’Italia. Per quanto tempo ancora vareremo leggi retrograde, che cozzano contro il buon senso e il senso comune, e che inevitabilmente (e giustamente) vengono bocciate dalla comunità europea?

l’Unità 11.4.10
Abusi, accuse al primate inglese
Vittima italiana scrive al Papa
Dopo le accuse a Ratzinger, quelle al primate d’Inghilterra: coprì un prete pedofilo. Lettera al Papa di una vittima italiana: «Io abusato per molti anni». La Chiesa fa quadrato intorno al Papa: «Accanimento disonesto».
di Marina Mastroluca

L’arcivescovo di Westminster non intervenne contro un frate, poi condannato a 8 anni
La Chiesa con Ratzinger «Porta colpe non sue». Violentato scrive: «Punire chi ha insabbiato»

Silenzio: è questo il capo d’accusa. Non solo lo scandalo della pedofilia, le colpe i peccati? dei singoli. Ma il velo che ha nascosto quelle colpe, le bocche cucite, il vuoto intorno alle vittime. Ieri era la «prudenza» di Ratzinger, che nell’85 copriva un prete pedofilo californiano, Stephen Kiesle, già condannato dalla giustizia Usa per abusi. Oggi è il silenzio dell’arcivescovo Vincent Nichols, primate della Chiesa di Inghilterra, che accusa il Times «protesse» un monaco benedettino accusato di abusi sessuali. Oggi è anche il buco nero nel quale sono finite le denunce che l’italiano Francesco Zanardi passato alla cronaca per le sue nozze gay il mese scorso ha ripetutamente rivolto alle autorità ecclesiastiche, senza una risposta. «Io venni violentato per diverso tempo 30 anni fa da un sacerdote che insegnava religione ai bambini», racconta Zanardi in una lettera al Papa. «La cosa più triste è che i tre vescovi che si sono succeduti nella diocesi di Savona-Noli, ai quali ho più volte comunicato sia a voce che per scritto lo svolgersi delle atrocità che questo prete da anni compie, non hanno mai denunciato nulla all’autorità giudiziaria, né hanno mai preso provvedimenti».
PADRE PEARCE
Accuse gravi e copioni già visti. Abusi, denunce, silenzio. Un meccanismo che si muove lungo gli stessi ingranaggi. Negli Usa, in Italia. E a Londra, dove l’arcivescovo Nichols tra il 2001 e il 2008 presiedeva un ente benefico per la protezione dell’infanzia e da lui non e mai arrivata una parola sul caso di padre David Pearce, rimasto alla Ealing Abbey anche dopo che nel 2006 l’Alta Corte aveva stabilito che risarcisse le sue vittime. Nichols non sapeva tutti i dettagli el caso, è stata la spiegazione della Chiesa inglese. A sapere era l’ex primate cardinal Murphy O’Connor, al quale l’arcivescovo è subentrato un anno fa. La Chiesa sapeva, comunque, prima che padre Pearce venisse condannato a 8 anni di carcere per gli abusi commessi in 35 anni.
LA LETTERA DI RATZINGER
«Mi pare per lo meno disonesto parlare per settimane e mesi di certe cose, dimenticando i grandi meriti della Chiesa», ha detto ieri il cardinal Poletto, senza perdere l’occasione per augurare ai giornalisti «di diventare più buoni... anche nella vostra serietà professionale». Perché di serietà ne è mancata, per le gerarchie ecclesiastiche che hanno lamentato il «chiacchiericcio» dei media. Anche sulla lettera scovata dall’Ap, sulla vicenda di padre Kiesle nell’85 e sulla linea adottata da Ratzinger. La Santa Sede sostiene che non ci fu copertura dello scandalo, la Congregazione per la dottrina della fede all’epoca non poteva far altro. I legali americani del Vaticano mettono i puntini sulle i e parlano di «giudizi affrettati» della stampa: fino al 2001 il Sant’Uffizio non era competente sui casi di pedofilia, Ratzinger si è limitato ad una valutazione sul «bene della Chiesa universale» rinviando ad un esame ulteriore.
Sta di fatto che Kiesle, per quanto sotto sorveglianza, non potè lasciare l’abito talare. L’ex vescovo di Oakland John Cummins, che a più riprese aveva scritto ai superiori in Vaticano, caldeggiando il ritorno allo stato laicale del prete pedofilo Stephen Kiesle, sostiene che allora la Chiesa era riluttante a prendere simili decisioni, in una situazione di crisi delle vocazioni. «In conseguenza di questo Papa Giovanni Paolo II rallentò molto le cose e rese il processo molto più ponderato», ha detto Cummins al New York Times.
IL «MOSTRO»
Intorno a Ratzinger la Chiesa fa muro. Per il vicepresidente della Cei Gualtiero Bassetti il Papa «non chiede ad altri di portare la croce» e si fa carico come Cristo dei peccati altrui. Dice la sua anche il ministro Frattini, denunciando «una vera e propria campagna di violenza e fango», una «resa dei conti contro chi difende la vita». Per Fracesco Zanardi, che di quegli abusi è stato vittima, quello che sta accadendo è altro: una breccia in un muro. «La Chiesa dimostri ora la sua coerenza con le parole del Santo Padre assumendosi le responsabilità. Risarcisca e sostenga», scrive nella lettera, chiedendo «provvedimenti nei confronti dei vescovi che hanno insabbiato». Chiede giustizia anche Gaetano Scerri, 46 anni, abusato da piccolo nell’Istituto di San Giuseppe di Malta. A una settimana dalla visita del Papa alla Velletta, il domenicale di Malta «Illum» racconta oggi la sua storia in prima pagina. Scerri, che ha ucciso un omosessuale, racconta di essere diventato un «mostro omofobico» per «gli abusi, gli stupri, la deprivazione e le botte» subite dai preti in collegio. «Io sono stato processato perché mi hanno fatto diventare un mostro, ho pagato per i miei sbagli, ma adesso tocca ad altri assumere le loro responsabilità davanti alla giustizia, e chiedo alla Chiesa che questi preti vengono processati».


il Fatto 11.4.10
Lo scandalo pedofilia
Ratzinger
Lo spettro delle dimissioni
Impensabili: ma il velo caduto sugli abusi ha rotto un dogma
di Marco Politi

Dai Legionari di Cristo agli Stati Uniti: l’impunità garantita per anni ai sacerdoti ha minato le fondamenta del sistema

L’opinione pubblica è scossa, non si parla nemmeno più dei silenzi ma della credibilità dell’istituzione

A lla fine la valanga degli scandali è piombata ai piedi del trono papale. La firma di Ratzinger su una lettera del 1985, che sconsiglia l’espulsione immediata di un prete pedofilo, è un colpo pesante al Papato. Negli Stati Uniti colgono la crisi gravissima e agitano lo spettro delle dimissioni. “Un Papa può dimettersi?”, si domandano a New York. E poi: “Qualcuno può spingerlo a ritirarsi?”. Perché la mentalità anglosassone è fatta di un’essenzialità dalle formulazioni brutali. L’Autorità colta in fallo, il Potere supremo inchiodato nell’attimo in cui dice o fa ciò che non doveva né dire né fare perde credibilità, prestigio, autorevolezza. E l’unica via d’uscita per il leader dopo l’errore fatale è l’abbandono di campo. Giorni fa la vescova tedesca Margot Kaesemann si è dimessa da presidente delle Chiese protestanti di Germania per il solo fatto di essersi trovata in macchina con un tasso alcolico superiore a quanto permesso. Non sarebbe stata più credibile, ha spiegato.
“(In)Fallibile”, titola in copertina il settimanale tedesco Spiegel, raffigurando Benedetto XVI. In Vaticano le dimissioni papali non sono in agenda, sono impensabili, sono inimmaginabili. Nessuno può chiederle, nessuno può costringerlo. Ma la paura sta invadendo i sacri palazzi. Si teme che la crisi – la più destabilizzante da quando i bersaglieri a Porta Pia cancellarono il millenario Stato pontificio – sia foriera di sviluppi impensabili, di contraccolpi imprevedibili, di sorprese sempre peggiori. Non cominciò così, dicono in America, il Watergate: un piccolo scasso effettuato da falsi idraulici? Sembrava un incidente facilmente circoscrivibile... Per la prima volta che il Papato si misura con un avversario più potente di qualsiasi stato, di qualsiasi movimento, di qualsiasi ideologia. L’opinione pubblica internazionale, che ha capito quanto la pressione dei media e dei processi abbia spinto la Chiesa a confessare le sue colpe, alzando il velo sugli insabbiamenti di crimini odiosi e ponendo la Suprema Autorità del cattolicesimo dinanzi ad una scelta cruciale: raccontare tutta la verità su ciò che è stato fatto o non fatto nel cuore stesso dell’apparato vaticano o lasciarsi travolgere da ondate di rivelazioni.
Se in America l’80 per cento dei cattolici non si riconosce nella linea tenuta da Ratzinger nelle ultime settimane, anche in Italia l’opinione pubblica non gli è favorevole. Il 62 per cento degli italiani “non approva l’operato della Chiesa e del Papa in questo frangente” (Istituto Piepoli). Perché Benedetto XVI non ha proseguito sulla via della denuncia e del pubblico mea culpa a Pasqua, quando il mondo intero guardava a lui. E perché arrivano nuovi materiali che lo chiamano direttamente in questione.
I punti di vulnerabilità si stanno accumulando. 1. A Monaco di Baviera un prete pedofilo, accolto in diocesi solo per una terapia, viene riassegnato nel 1980 ad un’altra parrocchia. Il vicario generale (che si è assunto ogni responsabilità) scrisse un memorandum in proposito all’arcivescovo Ratzinger. L’arcivescovo ha letto l’appunto? C’è un motivo, per cui in una realtà così attenta alle regole burocratiche come quella tedesca, non doveva essere letto?
2. Nel 1996 il vescovo di Milwaukee chiede alla Congregazione per la Dottrina della fede, guidata dal cardinale Ratzinger, di aprire un processo canonico contro il prete pedofilo Murphy, che ha abusato di duecento minori sordomuti. Nel 1997 mons. Bertone, vice di Ratzinger al Sant’Uffizio, autorizza l’apertura del procedimento. Nel 1998 il vescovo americano e un suo confratello vengono convocati in Vaticano da Bertone e il processo fermato, perché in Vaticano sono sorti improvvisamente “dubbi sulla fattibilità e opportunità”. Di fatto Murphy, vicino a morire, ha chiesto clemenza a Ratzinger. 3. Nel 2000 viene insabbiato il caso del fondatore dei Legionari di Cristo, padre Maciel, accusato di abusi plurimi. Ratzinger vorrebbe intervenire, ma resta aperto l’interrogativo su chi fra i collaboratori papali è riuscito a convincere Giovanni Paolo II a non aprire un’inchiesta.
4. I fatti di Oakland sono esplosivi. Un vescovo chiede nel 1981 alla Congregazione per la Dottrina della fede di ridurre allo stato laicale un prete pedofilo, già condannato in tribunale e che ha chiesto personalmente di lasciare la tonaca. Il cardinale Ratzinger, nella risposta data solo nel 1985, non disconosce i gravi motivi “e tuttavia” (attamen, che in latino è un “ma” molto rafforzato) invita il vescovo a tenere conto del “bene della Chiesa universale” e dei “danni” che potrebbero venire alla comunità parrocchiale. (Quest’anno, nella sua lettera gli Irlandesi, Benedetto XVI parlerà di “preoccupazione malriposta per il buon nome della Chiesa”). Il vescovo sostiene che il pedofilo crea più scandalo ai fedeli rimanendo nelle fila del clero che andandosene. Però il Vaticano non gli dà retta ed esige un esame “più accurato”. Solo nel 1987 al prete verrà tolta la tonaca.
La lettera riflette l’atmosfera nella Chiesa cattolica negli anni Ottanta: protagonisti sono le autorità ecclesiastiche, il prete accusato, il “bene della Chiesa”, l’eventuale scandalo per i fedeli. Le vittime non sono mai menzionate.
E’ un paradosso tragico che Joseph Ratzinger, il quale appena eletto pontefice si è battuto con grande fermezza e coerenza contro gli abusi sessuali del clero, venga oggi inseguito dai fantasmi di un passato in cui a tutti i livelli della Chiesa cattolica le “vittime non furono ascoltate” (come lui stesso ha scritto nel messaggio agli Irlandesi). Ma nel meccanismo delle rivelazioni c’è qualcosa di inarrestabile. E certamente si scaricano oggi su Benedetto XVI malumori, insofferenze e tensioni accumulate nell’opinione pubblica esterna e interna alla Chiesa nei confronti della sua linea tradizionalista, così chiusa alle riforme.
Nell’arco di poche settimane è mutato l’oggetto del contendere. Non si parla più dei silenzi della Chiesa, ma è in discussione l’inattaccabilità o meno del Romano Pontefice. La sua credibilità internazionale. A sua difesa si stanno muovendo i grossi calibri. Vescovi e cardinali, l’Opus Dei, i Cavalieri di Colombo che in America hanno indetto una “novena” di solidarietà al Papa. In Italia si sta progettando una manifestazione dei cattolici in appoggio del Papa.
Eppure, se non riuscirà a chiudere la vicenda con un atto di trasparenza totale, Benedetto XVI vedrà profilarsi sulla scena internazionale l’interrogativo bruciante: come potrà guidare la Chiesa cattolica? Con quale carisma?

il Fatto 11.4.10
“Nessuna copertura”: ma scoppia il caso Oakland
Dagli Usa nuove accuse a Benedetto XVI e a Wojtyla. Frattini: campagna di violenza e fango
di Andrea Gagliarducci

L’Associated Press attacca, il New York Times affonda. Ieri l’agenzia di stampa internazionale aveva pubblicato una lettera autografata dal cardinale Joseph Ratzinger nel 1985: sconsigliava la riduzione allo stato laicale di Stephen Kiesle, sacerdote californiano in forza nella diocesi di Oakland, con alcuni precedenti con la giustizia, macchiatosi di abusi sui minori. Le ragioni? Una maggiore prudenza e “il bene universale della Chiesa”. Una versione smentita dalla Sala Stampa Vaticana, che prima ha preferito non commentare, poi è intervenuta per ribadire che “Benedetto XVI non coprì il caso”. E che contiene cinque inesattezze, dovute probabilmente a una cattiva traduzione in latino. A cominciare dal fatto che Kiesle, nel 1985, aveva chiesto lui la riduzione allo stato lai-
cale, e non gli era stata imposta per motivi disciplinari. Passando per la consuetudine a non concedere dispense al sacerdozio prima dei quaranta anni. E continuando con il fatto che la Congregazione per la Dottrina (Cdf) non era competente per i casi di pedofilia nel 1985, e lo sarebbe diventata solo nel 2001, con l’istruzione De delictis gravioribus. Insomma, la Cdf interveniva non per motivi disciplinari, ma perché la richiesta era stata avanzata dallo stesso sacerdote. E non c’era necessità di rimozione per pedofilia perché la richiesta non era stata avanzata dal vescovo, l’unico competente a farlo al tempo. Ma il New York Times di oggi pubblica delle dichiarazioni di John Cummins, vescovo di Oakland che negli anni Ottanta ripetutamente scrisse ai suoi superiori in Vaticano chiedendo il ritorno allo stato di laico di Kiesle. Cummins riferisce che la Santa Sede in quel periodo, dopo il Concilio Vaticano II, era particolarmente riluttante a 'spretare' i suoi sacerdoti perché molti preti stavano abbandonando il sacerdozio. “In conseguenza di questo, papa Giovanni Paolo II rallentò molto le cose e rese il processo molto più ponderato”. Cummins racconta di un caso che la Cdf conosceva già dal 1981. L’allora vescovo di Oakland arrivò a scrivere persino a Giovanni Paolo II di accogliere la richiesta. Un funzionario diocesano di Oakland, il rev. Mockel, scrisse in un memo che la sua impressione era che stessero aspettando che Kiesle “diventasse un po’ più vecchio”. Un dato che sembra confermato dal fatto che la riduzione allo stato laicale avvenne nel 1987, al compimento dei 40 anni di età. Kiesle è stato accusato di diverse molestie, incluse almeno sei ragazze durante gli anni Cinqunata e Sessanta, quando prestava servizio nelle sue precedenti parrocchie. C’è chi invece fa notare che non sarebbe corretto dire che la Cdf non ha avuto competenza sui casi di abusi sessuali su minori se non dal 2001. Ciò che è cambiato – sostengono – è che ai vescovi era richiesto di fare un rapporto su ogni credibile caso alla Cdf. In difesa del Papa si è mosso anche il ministro degli Esteri Frattini: contro di lui, ha detto, è in corso “una campagna di violenza e fango”, che sembra mirata “a chi difende la vita”. E’ la prima volta che un ministro si esprime in questi termini. Prima, c’erano state dichiarazioni di solidarietà, e un plauso di Berlusconi al Papa per la lettera agli irlandesi.
Ma intanto dall’Inghilterra arriva una nuova segnalazione: Vincent Nichols, arcivescovo di Westminster, avrebbe consentito che David Pearce, un sacerdote sospettato di pedofilia, rimanesse al suo posto nonostante il Catholic Office for the Protection of Children and Vulnerable Adults, da lui presieduto avesse ricevuto diverse segnalazioni da parte delle vittime.

Repubblica 11.4.10
E il governo maltese rimuove i poster
Ratzinger convoca i cardinali a Roma "Fare quadrato intorno al pontefice"
Scandalo molestie, summit dei porporati. I cattolici in piazza a maggio
di Orazio La Rocca

Una riunione straordinaria il 19 aprile per il quinto anniversario dell´elezione
A Malta imbrattati i cartelloni col volto del Papa: la Curia preoccupata per la visita di sabato

CITTA´ DEL VATICANO - «Calore, solidarietà, amore fraterno per il Papa in un momento tanto delicato per lui e per tutta la Chiesa». Questi i sentimenti con cui i cardinali di Santa Romana Chiesa si riuniranno in un summit straordinario in Vaticano il 19 aprile prossimo, giorno del quinto anniversario del pontificato di Benedetto XVI. Occasione che al Collegio cardinalizio - guidato dal decano Angelo Sodano - offrirà lo spunto per esprimere al Papa «vicinanza e affetto» per gli attacchi di chi lo accusa di non aver vigilato con più attenzione sui preti pedofili quando era prefetto dell´ex Sant´Uffizio. I cardinali si ritroveranno nella Sala del Concistoro del Palazzo Apostolico dove il Papa li ha invitati con una lettera per un incontro conviviale che culminerà con un intervento dello stesso Pontefice, preceduto da un discorso tenuto, presumibilmente, dal cardinale decano.
Ma non saranno solo i cardinali a solidarizzare col Papa. Un analogo meeting si terrà quasi certamente il 16 maggio prossimo in piazza San Pietro su iniziativa della Consulta nazionale delle aggregazioni laicali (Cnal), organismo Cei che raggruppa oltre 70 sigle, dall´Azione cattolica italiana alle Acli, dall´Agesci alla Fuci, dalla Comunità di Sant´Egidio a Focolarini, Cl, Mcl. «Ci ritroveremo tutti, con le nostre bandiere e i nostri simboli, a piazza San Pietro, per pregare, per solidarizzare col Santo Padre e per esprimergli tutta la riconoscenza per la grande prova a cui, con dignità e mitezza, sta facendo fronte in questi ultimi tempi», preannuncia Salvatore Martinez, presidente di Rinnovamento dello Spirito, membro del Cnal e uno degli organizzatori dell´iniziativa varata ieri dopo una riunione della Consulta. «Sarebbe stato bello riunirci il 19 aprile, ma per motivi organizzativi abbiamo dovuto optare per domenica 16 maggio», spiega Martinez, il quale, però, assicura che «il giorno del quinto anniversario del pontificato, il Papa sarà ugualmente festeggiato nelle parrocchie e nelle diocesi con novene, rosari, veglie di preghiera». Farà altrettanto, da oggi fino al 19 aprile, anche la Fondazione dei Cavalieri di Colombo, organismo cattolico tra i più potenti degli Usa, che ha invitato i suoi membri presenti anche in Europa a «dare vita a speciali preghiere - si legge in una nota - per Benedetto XVI in questo momento per lui di considerevoli sfide».
La Chiesa, dunque, scende in campo per difendere il Papa, mentre in Vaticano la tensione è sempre alta. In particolare c´è la preoccupazione che, durante il viaggio a Malta di sabato e domenica prossimi, il Pontefice possa essere contestato da ex vittime di preti pedofili. Ieri nell´isola sono apparsi sui manifesti di benvenuto a Ratzinger ingiurie e baffetti alla Hitler, subito rimossi dalle autorità locali. Continuano, infine, le rivelazioni su nuovi casi di pedofilia. E non solo all´estero. Dall´Italia, Francesco Zanardi ha rivelato in una lettera al Papa di essere stato violentato da un insegnante di religione, prete della diocesi di Savona-Noli, «ma i tre vescovi a cui denunziai la violenza non hanno mai preso provvedimenti e non si sono mai rivolti alle autorità giudiziarie».

Repubblica 11.4.10
Il carteggio tra padre Kiesle e i suoi superiori. Il legale della Santa Sede: giudizi incauti sulla lettera del futuro Papa
La diocesi di Oakland scrisse al pedofilo "Non ti spretiamo, il Vaticano non vuole"
di Angelo Aquaro

Nuove rivelazioni sulla vicenda del prete rimosso solo nell´87, dopo molte violenze accertate
Per il vescovo Cummins "Wojtyla cercava di frenare l´emorragia di sacerdoti"

NEW YORK - Caro pedofilo, ci dispiace ma il cardinale Ratzinger vuole che continui a fare il prete. Firmato: la tua diocesi. Nell´agghiacciante vicenda che accusa il Papa spunta un documento di imbarazzante franchezza. È il 1986 e il reverendo George E. Mockel, del tribunale ecclesiale della diocesi di Oakland, spiega a Stephen Miller Kiesle - il sacerdote allora già condannato a tre anni per abusi - che a frenare la sua richiesta di rimettere la tonaca è il futuro pontefice in persona.
La lettera con cui Ratzinger, "per il bene della Chiesa universale", si rifiutava di spretare il pedofilo - il "Pifferaio Magico" violentatore confesso di "tonnellate di bambini", poi finito perfino nell´inchiesta per l´omicidio di una piccolina - è stata resa nota venerdi dall´Associated Press. È la prima volta che la firma di Benedetto XVI compare direttamente su un documento così compromettente ma l´avvocato della Santa Sede negli Usa, Jeffrey Lena, accusa la stampa di «giudizio frettoloso». Quel documento scritto in latino del 1985, dice in un comunicato, è «una lettera formale, di quelle che vengono solitamente spedite all´inizio di ogni caso di laicizzazione». Anzi: quando il Papa chiede a John Cummins, il vescovo che gli sollecitava il caso, di esercitare «il massimo della cura paterna», fa riferimento alla formula con cui ci si raccomanda di evitare che i preti compiano altri abusi. Tant´è che «durante l´intero corso del procedimento il prete rimase sotto il controllo, l´autorità e la cura del vescovo locale». La formula usata dall´avvocato è importante. Roma scarica sui vescovi la responsabilità del controllo degli abusi mentre gli avvocati delle vittime stanno cercando di arrivare all´incriminazione del Papa proprio in quanto responsabile ultimo dei sacerdoti. «Checché ne dica l´avvocato del Vaticano, i documenti dimostrano il contrario», replica a Repubblica Jeff Anderson, l´avvocato che accusa Ratzinger di aver coperto il molestatore dei bimbi sordi del Milwaukee e ora ha scovato la lettera discussa. «Altro che prendersi cura: nulla è stato fatto fino all´87, quando il sacerdote fu finalmente spretato. Il Vaticano ora dovrà rispondere dei suoi atti: anche in tribunale». Ma davvero la lettera potrebbe essere un format? «Che si trattasse di una lettera-format è ciò che indigna di più. Vuol dire che sono state usate in migliaia di altri casi. È una risposta stupida. E triste».
Oggi il vescovo Cummins spiega che dietro la frenata della pratica voluto da Giovanni Paolo c´era la grande fuga di preti da seminari e conventi seguita al Concilio Vaticano II e al 1968. Versione smentita dal Vaticano. Il carteggio tra la diocesi di Oakland e il Vaticano, pubblicato dal New York Times, è sconcertante. La prima segnalazione è dell´81. Il vescovo Cummins spiega che Kiesle è stato arrestato «con l´accusa di aver fatto sesso con almeno sei ragazzi tra gli 11 e i 16 anni». L´ufficio del futuro Papa risponde chiedendo più informazioni. Dalla California arrivano altre accuse. Niente. È il reverendo Mockel a scrivere ancora a Ratzinger. Silenzio. Mockel allora chiede al suo vescovo di premere: «Lo farei io stesso ma non rispondono ai sacerdoti semplici come me!». Cummins torna all´attacco. Scrive a monsignor Thom Herron, il braccio destro di Ratzinger. Poi ancora a Ratzinger. Per conoscenza e richiesta di intermedizione al Nunzio Vaticano a Washington, Pio Laghi. La risposta, negativa, arriva solo nell´87. È a questo punto che Mockel prende carta e penna e scrive al pedofilo. "Caro Steve, abbiamo finalmente avuto una parola da Roma sulla tua richiesta. Temo non sia incoraggiante. Una lettera firmata dal Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede dice che hanno bisogno di più tempo per pesare la situazione, per capire se la laicizzazione sarebbe un bene per te come per la chiesa. C´è anche preoccupazione che la dispensa possa ‘provocare scandalo tra i fedeli´. Leggendo tra le righe, sembrano incoraggiarci a mandare altre informazioni. Il vescovo è intenzionato ad andare avanti se tu sei interessato. Mi piacerebbe discuterne con te nei dettagli di persona o al telefono. Intanto" conclude la lettera del 13 gennaio 1986 "ti faccio tanti auguri di buon anno. Fraternamente tuo, in Cristo".

l’Unità 11.4.10
Conversando con Gillo Dorfles
L’artista e critico d’arte compie cent’anni
«Italia disunita e senza stile dove ormai è in vigore la dittatura dello sgradevole»
di Bruno Gravagnuolo

Dipendesse da me abolirei età e compleanni. Ma verrano a prendermi degli amici per festeggiarmi. Una cosa fuori città, ma che mi salverà da chi vuole felicitarsi...». Dunque niente celebrazioni per Gillo Dorfes, centenario domani e «irritato» con chi gli fa gli auguri. I cento anni però ci sono e del resto Milano li ha già celebrati con una splendida antologica a Palazzo Reale ancora in corso. Lì c’è tutto il Gillo pittore, straordinario artefice di fantasmi fluidi e disarmonici, né astratto né figurativo. Artista di un pensiero visivo in germe, ironico. Che è poi la «sua» cifra di artista del Movimento di Arte Concreta, che fondò nel dopoguerra con Munari, Soldati e Monnet. Solo che Gillo, si sa, è molto altro. Critico, psichiatra, estetologo, musicologo, musicista viaggiatore, esperto di design, moda, osservatore del gusto. Fu tra i primi a farci conoscere l’arte contemporanea e a tematizzare «armonia/disarmonia» nel raffronto tra arte orientale e occidentale. Uno scrigno di osservazioni, teorie, «flanerie» del buon gusto e del cattivo gusto (il kitsch). Chi se non lui può raccontarci l’Italia, dal punto di vista dello «stile» di una nazione? E poi ha raccolto per Castelvecchi le sue Irritazioni, manuale degli abusi e dei tic (anti) estetici che ci rattristano la vita. Sentiamo.
Nel catalogo delle irritazioni che la assediano stuzzicadenti, piumini viola, grandi fratelli etc cosa la irrita di più di questa Italia leghista e berlusconiana?
«Ha quasi detto tutto lei... ma il dato che più mi colpisce è la mancanza di gentilezza comunitaria. Niente sorrisi, le risposte nei negozi monche e sgarbate.
Una sensazione di peggioramento nei rapporti col prossimo e l’assenza totale di cura per l’altro». Barbarizzazione del costume italico?
«Non saprei fare diagnosi. È una forma di autismo privatistico senza interesse alcuno per ciò che accade attorno» Al nord la Lega parla molto di comunità, Dio, patria e famiglia...
«Queste che dovrebbero essere le regioni più evolute, mostrano di non essere affatto le più avanzate. Invece prenda Salerno. È in piena fioritura e hanno convocato i migliori architetti e urbanisti internazionali per il Piano regolatore. Cose che non vedo qui. Evidentemente c’è una decadenza di tutto il nord. Anche a Milano l’ambiente è peggiorato e malgrado i grandi progressi economici del dopoguerra, mi pare che il progresso si sia fermato. Specie dal punto di vista culturale». Milano non era la capitale del design, dell’architettura urbana e della moda? «Lo è ancora, per la moda e il design. Triennale e Salone del Mobile sono ancora manifestazioni di eccellenza. Ma sono casi a sé. Vedremo più in là che cosa sarà l’Expo che s’annuncia interessante. Nomi e progetti fanno ben sperare da Piano a Liebeskind e non si intravedono progetti kitsch. Ma io parlo di un clima più generale, conformistico e un po’ depressivo».
Il conformismo di massa, uno dei suoi tormentoni polemici. In che consiste? «Nella tendenza di ciascuno ad adeguarsi a quel che vede intorno. Il famoso individualismo italico è azzerato. Tutti vogliono gli stessi jeans, lo stesso impermeabile e lo stesso cibo. Una coazione maggioritaria penosa. E lo stesso vale per i giovani. Dal piercing, all’orecchino ai tatuaggi, vogliono tutti iscriversi alla stessa tribù».
Che ruolo gioca in questo il narcisismo e la voglia di esserci, coi reality show ad esempio? «C’è un horror pleni dell’apparire a tutti i costi. E il Grande Fratello ne è l’esempio più sgradevole. Il fatto che esistano persone disposte ad autotorturarsi in gruppo in tv è aberrante. E l’esibizionismo domina su tutto, in un fracasso che annienta “segretezza” e pudore, cose sottoposte a ludibrio in basso e in alto. Di fatti né l’autorità né il pubblico vogliono preservarle». Tendenza solo italica o globale?
«Globale. La gente ama mettersi a nudo per autorappresentarsi. Una volta non era così, ma oggi con i media vecchi e nuovi c’è un’orgia del vedere e del voler essere visti. Il che tocca non solo le masse ma anche le elites, i pensatori, gli imprenditori, i banchieri, per non dire degli artisti»
È un rimescolio estetico e audiovisivo che annienta confini e gerarchia, pause e intervalli... «Sì, anche nell’arte domina l’esibizionismo. Gli artisti diventano eroi semiologici che creano pseudo-opere vistose e perciò riconoscibili. Sicché tutto si equivale e si dissolve». Berlusconi non è a modo suo uno di questi eroi semiologici fracassoni e accattivanti? Perché resiste e perdura?
«Le ragioni della sua tenuta stanno nell’ammirazione di un certo pubblico. La genta crea e venera questa icona del successo, che vorrebbe imitare».
Piace perché il suo è un successo festoso e trasgressivo? «È la legge dell’immagine. Nulla di meglio di chi dà l’idea di poter trasgredire con allegria e di trionfare contro tutti e tutto! Anche cattivo gusto e barzellette rientrano nella facile imitabilità del personaggio».
Benché il suo umorismo sia tipico di una vecchia antropologia italica da avanspettacolo? «Sarà avvilente, ma questo umorismo somiglia a quella che oggi è l’antropologia italica dell’uomo della strada. Non dico che gli italiani siano tutti così o sempre così. Ma negli ultimi tempi è questo il modello imperante».
Berlusconi autobiografia della nazione?
«Autobiografia è un po’ troppo ma in parte i termini coincidono» È stata letale la dissolvenza identitaria della sinistra? E non avverte a riguardo un vacuum, come antidoto mancante?
«Ovvio che è stata una perdita. Speriamo che sia solo temporanea. È stato proprio l’horror pleni contemporaneo ad estinguere in un vacuum ogni energia oppositiva e critica. Il troppo rumore uccide ogni possibilità espressiva, artistica e politica. E poi la sinistra si è rammollita. È astenica, incapace di reazioni e di rappresentare la sua gente». Un prezzo altissimo pagato a questo rammollimento. Col rischio di apparire inermi ed elitari dinanzi a una destra che ha dalla sua il senso comune popolare...
«Ha vinto il senso comune, che a volte è disastroso: un cattivo senso, retrivo. Altra cosa rispetto al buon senso. E la sinistra oggi perde su entrambi i fronti»
Quanto possono fare l’arte e il senso estetico contro il degrado? «Ci sarebbe tutto un lavorio da svolgere, a cominciare dall’educazione artistica e musicale dei bambini. Ma siamo ai minimi termini da un punto di vista pedagogico. Comunque non bisogna rassegnarsi. La forza della sensibilità estetica senza barriere di generi e linguaggi e applicata al quotidiano è indispensabile per contrastare la dittatura dello sgradevole».
Una volta c’era la grande borghesia a custodire lo stile. Oggi che fine ha fatto la grande borghesia? Lo chiedo a lei che ha traguardato il secolo e frequentato Svevo, Saba, Bazlen e le grandi famiglie triestine, milanesi, genovesi... «La borghesia in Italia ha fatto fiasco. Almeno una volta c’era una borghesia illuminata. Oggi è pochissimo illuminata. E il cialtrionismo è tipico della borghesia attuale. Finite le oasi di alcuni decenni fa, mentre la diffusione della cultura ha coinciso con l’involgarimento e l’appiattimento. E finita la coesione comunitaria. Da noi la destra non ha saputo fare cultura di punta né generare classi dirigenti, a differenza dei grandi paesi occidentali».

Dalla psichiatria all’arte
Nasce il 12 aprile 1910 a Trieste dipinge, insegna e scrive
Gillo Dorfles è nato a Trieste il 12 aprile 1910, da padre goriziano e madre genovese. Università a Milano e Roma con laurea in medicina e specializzazione in psichiatria. È stato ordinario di estetica a Milano, Trieste e Cagliari. È visiting professor in Messico, Argentina e Usa. Ha ricominciato a esporre quadri nel 1986 su sollecitazione della rivista salernitana «Taide» e degli amici del Mmmac di Paestum, ed è autore di numerosi libri chiave. Tra cui «Antologia del Kitsch», «Il feticcio quotidiano», «Le oscillazioni del gusto», «Il divenire delle arti», «Il disegno industriale e la sua estetica».

l’Unità 11.4.10
Siate voi stessi il cambiamento che vorreste
di Jacques Attali

Il nuovo saggio di Jacques Attali è una guida alla sopravvivenza alla crisi Sette i principi della strategia da seguire: dal rispetto per se stessi all’empatia, dalla resistenza all’applicazione del pensiero rivoluzionario

Lezioni di vita
«Sopravvivere alla crisi. Sette lezioni di vita» di Jacques Attali è edito da Fazi (pagine 185, euro 17,50, traduz. E. Biotossi). «Il mio scopo scrive l’autore è quello di suggerire strategie precise e concrete che permettano a ognuno di “cercare uno spiraglio nella sventura” e di sapersi destreggiare tra gli ostacoli che si presenteranno, senza affidarsi ad altri per sopravvivere, per vivere meglio».
L’autore
Economista, scrittore e banchiere francese, Jacques Attali è nato ad Algeri il 1 novembre 1943. Ha vissuto ad Algeri fino al trasferimento della sua famiglia a Parigi nel 1956.

Un giorno o l’altro questa crisi si concluderà, come tutte le altre, lasciando dietro di sé innumerevoli vittime e qualche raro vincitore. Ma ciascuno di noi potrebbe anche uscirne in uno stato di gran lunga migliore di quello con cui ci siamo entrati. Questo a patto di comprenderne la logica e il percorso, di servirsi delle nuove conoscenze accumulate in vari settori, di contare soltanto su se stessi, di prendersi sul serio, di diventare attori del proprio destino e di adottare audaci strategie di sopravvivenza personale. (...)
Ma, nel frattempo, occorre salvarsi dalla crisi attuale. Perché, contrariamente a quanto vogliono far credere le grida di trionfo di qualche politico e di un ristretto gruppo di banchieri, la crisi finanziaria del 2008 che non faceva altro che rivelare quella economica che veniva da molto più lontano è lungi dall’essere terminata. (...) L’incapacità dell’Occidente di mantenere il suo tenore di vita senza indebitarsi, che è la causa più profonda di questa crisi, è lungi dall’essere stata riassorbita. E la strategia messa in atto finora dai governi per rimediare è riassumibile nel far finanziare dai contribuenti di dopodomani gli errori dei banchieri di ieri e i bonus dei banchieri di oggi.
Di fronte ai pericoli del prossimo decennio, chi vorrà sopravvivere dovrà, come le avanguardie del passato, accettare il fatto di non doversi più attendere nulla da nessuno; e che qualsiasi minaccia è anche un’opportunità per ognuno di noi, in quanto lo costringe a riconsiderare il proprio posto nel mondo, ad accelerare i cambiamenti nella sua vita, a mettere in atto un’etica, una morale, dei comportamenti, delle attività e delle alleanze radicalmente nuovi. Costui saprà che la sopravvivenza non implica per forza la necessità di aspettare questa o quella riforma generale, quella grazia o quel salvatore; che non esige la distruzione degli altri, ma soprattutto la costruzione di sé e l’attenta ricerca di alleati; che non risiede in un ottimismo illimitato, ma in un’estrema chiarezza in relazione a se stessi, in un desiderio selvaggio di trovare la propria ragion d’essere; la quale non è da costruire soltanto nel singolo momento, ma anche sul lungo periodo; la quale non è finalizzata alla conservazione di ciò che si è acquisito, ma può riguardare il superamento dell’ordine attuale; la quale non si limita soltanto a mantenere l’unità del proprio io, ma esige di prevedere tutte le possibili diversità.
Per arrivare a questo punto, costoro dovranno cominciare un lungo apprendistato relativo al controllo del sé, a cui nulla, per il momento, li prepara. (...) I sette principi di questo apprendistato saranno applicabili a qualsiasi epoca, qualsiasi minaccia e qualsiasi tipo di crisi. (...) Questa strategia, frutto di un lungo ragionamento su quelle utilizzate finora, permetterà di sopravvivere in particolare ai rischi di disoccupazione, fallimento e declino. Essa si snoda, a mio parere, attorno a sette principi da attuare nell’ordine suggerito qui di seguito. Va da sé che la loro messa in opera richiede sforzi considerevoli e che pure io, come tutti, fatico molto a metterli in pratica.
1. Il rispetto di sé: innanzitutto, voler vivere, e non soltanto sopravvivere. Quindi, prendere pienamente coscienza di sé, attribuire importanza alla propria sorte, non provare né vergogna né odio verso se stessi. Rispettarsi e dunque cercare la propria ragione di vivere, imporsi un desiderio d’eccellenza in relazione al proprio corpo, alla propria conservazione, al proprio aspetto, alla realizzazione delle proprie aspirazioni. Per raggiungere questo scopo, non bisogna attendersi nulla da nessuno; occorre contare soltanto su se stessi per definirsi; non bisogna avere paura davanti a una crisi, quale che sia la sua natura; occorre accettare la verità anche se non è piacevole da ammettere; e bisogna voler essere protagonisti, né ottimisti né pessimisti, del proprio futuro.
2. L’intensità: proiettarsi sul lungo periodo; formarsi una visione di sé, per sé, da qui a vent’anni, da reinventare incessantemente; saper scegliere di compiere un sacrificio immediato se può rivelarsi benefico sulla lunga distanza; nello stesso tempo, non dimenticare mai che il tempo è prezioso, perché si vive una volta sola, e che bisogna vivere ogni momento come se fosse l’ultimo.
3. L’empatia: in ogni crisi e di fronte a ogni minaccia, a ogni cambiamento radicale, bisogna mettersi al posto degli altri, avversari o potenziali alleati; comprendere le loro culture, i loro modi di ragionare, le loro motivazioni; anticipare i loro comportamenti per identificare tutte le minacce possibili e distinguere tra amici e potenziali nemici; bisogna essere amabili con glialtri, accoglierli per stringere con loro alleanze durature, praticare un altruismo interessato e, a tale scopo, fare mostra di una grande umiltà e di una piena disponibilità intellettuale; essere in particolare capaci di ammettere che un nemico può avere ragione senza provare vergogna o rabbia per questo.
4. La resilienza: una volta identificate le minacce, diverse per ogni tipo di crisi, occorre prepararsi a resistere mentalmente, moralmente, fisicamente, materialmente, finanziariamente se una di esse dovesse concretizzarsi. Di conseguenza, bisogna pensare a costituire difese, riserve, piani alternativi, abbondanza e sicurezza a sufficienza, ancora una volta a seconda del tipo di crisi da affrontare.
5. La creatività: se gli attacchi persistono e diventano strutturali, se la crisi si radicalizza o si iscrive in una tendenza irreversibile, bisogna imparare a trasformarli in opportunità; fare di una mancanza una fonte di progresso; volgere a proprio vantaggio la forza dell’avversario. Ciò esige un pensiero positivo, il rifiuto della rassegnazione, un coraggio e una creatività pratica. Queste qualità si forgiano e si allenano come i muscoli.
6. L’ubiquità: se gli attacchi continuano, sempre più destabilizzanti, e non è possibile nessun loro impiego positivo, bisogna prepararsi a cambiare radicalmente, a imitare il migliore di quelli che sanno resistere, a rimodellare la rappresentazione di sé per poter passare nel campo dei vincitori senza perdere il rispetto di se stessi. Occorre imparare a essere mobili nella propria identità e, perciò, tenersi pronti a essere doppi, dentro l’ambiguità e l’ubiquità.
7. Il pensiero rivoluzionario: infine, occorre essere pronti, in una congiuntura estrema, in situazione di legittima difesa, a osare il tutto per tutto, a forzare se stessi, ad agire contro il mondo violando le regole del gioco, pur persistendo nel rispetto di sé. Quest’ultimo principio rinvia dunque al primo e tutti insieme formano così un sistema coerente, un cerchio.
(...) Come diceva il Mahatma Gandhi: «Siate voi stessi il cambiamento che volete vedere nel mondo».
Traduzione di Emilia Bitossi © 2010, Fazi Editore

l’Unità 11.4.10
Bilenchi: una vita da album di fotografie

Acompletamento delle celebrazioni per i cent’anni della nascita di Romano Bilenchi (1909-1989) esce per Effigie uno straordinario volume che farà la gioia degli estimatori di questo autore importante ma appartato della narrativa italiana del Novecento: Un uomo contro. Romano Bilenchi. Biografia per immagini (pp. 224, euro 30,00). Curato da Benedetta Centovalli, si tratta di un libro fotografico che ripercorre le tappe principali della vita dello scrittore toscano. Oltre alle foto di Bilenchi nelle varie fasi della sua esistenza, sono raccolte le copertine delle prime edizioni dei suoi libri e sono riprodotti autografi dei suoi testi. Così è possibile seguire i diversi momenti del suo lavoro letterario attraverso le opere che ne hanno segnato la carriera: dalla Vita di Pisto (pubblicata nel ’31 per le Edizioni del «Selvaggio» di Mino Maccari) ai volumi di racconti come Il capofabbrica (1935) e Anna e Bruno (1938). Per arrivare al capolavoro di Bilenchi, Conservatorio di Santa Teresa, finito di scrivere nel ’39 e uscito per la prima volta nel ’40 (nuove edizioni saranno approntate dall’autore nel 1973 e nel 1985), uno dei romanzi italiani più belli, più misteriosi, più affascinanti dell’ultimo secolo. Nel libro troviamo, insomma, un’esauriente fotobibliografia bilenchiana insieme ad alcuni inediti, lettere, testi rari e interviste diseperse. Ad arricchire l’operazione, alcuni saggi critici di narratori e studiosi dedicati a particolari opere e aspetti del lavoro di Bilenchi.

Repubblica Firenze 11.4.10
"I pugni in tasca" un film mito rifatto a teatro
Pier Giorgio, figlio di Marco, sarà l´interprete "Il mio folle assassino somiglierà a un Maso"
di Roberto Incerti

Un film diventa teatro, un dramma, una tragedia a cui assistere dal vivo. Spiega tutto Marco Bellocchio: «Perché dopo 44 anni ho pensato di fare una riduzione e un adattamento teatrale dei Pugni in tasca? Perché regista sarà la mia collaboratrice Stefania De Santis che ha anche lavorato con Carmelo Bene e perché a produrre lo spettacolo sarà il grande Roberto Toni, che per due decenni ha lavorato al Niccolini di Firenze producendo spettacoli di un genio come Carlo Cecchi».
Il 2010 non è nemmeno a metà, ma già si parla dell´evento del 2011, di cui presto in Toscana inizieranno le prove: I pugni in tasca appunto di Marco Bellocchio prodotto dal Teatro Stabile di Firenze di Roberto Toni, con Ambra Angiolini e Piergiorgio Bellocchio, figlio di Marco. Come afferma lo stesso Toni. «Lo spettacolo, grazie al sostegno della Fondazione Toscana Spettacolo debutterà a gennaio al Teatro Guglielmi di Massa, sarà poi al Garibaldi di Figline dove il nostro Stabile di Firenze - almeno per adesso - ha la sede e, sperando di sconfiggere le reticenze del Teatro Massimo, contiamo di portarlo a Firenze, alla Pergola. I pugni in tasca andrà in scena anche al Quirino di Roma e al Parenti di Milano. Ho voluto fare questa prestigiosa produzione in occasione del mio trentesimo anno da direttore del Teatro Stabile di Firenze. Al Niccolini ho prodotto tutti gli spettacoli di Carlo Cecchi».
Adesso dunque tocca ai Pugni in tasca di cui ancora Marco Bellocchio dice: «La riduzione teatrale deve innanzitutto rinunciare alla sua fama di film che profetizzò il ´68, la rivolta contro le istituzioni, la scuola, la famiglia, la religione. E´ vero che la pellicola girò il mondo diventando un cult e colpì molti giovani, ma è acqua passata, nessun rimpianto, niente nostalgia. Io oggi penso a I pugni in tasca come a un dramma della sopravvivenza di una famiglia dove l´amore è del tutto assente: si vive in un deserto di affetti, senza nessuna prospettiva». Nello spettacolo teatrale il ruolo che fu di Lou Castel è interpretato da Pier Giorgio Bellocchio e quello di Paola Pitagora da Ambra Angiolini, ottima attrice in musical quali Emozioni e film come Saturno contro di Ozpetek.
La storia dei Pugni in tasca è nota: il paranoico Alessandro decide di sollevare suo fratello dal peso di familiari tarati e dà il via ad una serie di omicidi. Nei panni di Lou Castel-Alessandro, il trentaseienne figlio di Marco Bellocchio, Pier Giorgio, che ancora bambino fu fatto debuttare dal padre come attore nel film Vacanze in Val Trebbia. «Ho visto il film di mio padre decine e decine di volte - dice Pier Giorgio - io in teatro ne voglio fare una cosa diversa. Castel entusiasmò una generazione, anticipò il ´68: nella sua folle rivolta c´erano anche riverberi epici, shakespeariani. Voglio dar vita ad uno schizofrenico di oggi, di quelli che potremmo vedere in un tg. Il mio personaggio dunque dovrà essere immediato, riconoscibile anche da quei ragazzi che non sanno chi sia Marco Bellocchio e che non hanno mai visto I pugni in tasca. Le storie di ordinaria follia vissute da me nello spettacolo devono però rispecchiare il grottesco della contemporaneità, i suoi lati più oscuri».
La scena dei Pugni in tasca è di Daniele Spisa. Evocherà uno spazio interno e uno esterno: quello dove si consuma la tragedia diventa una stazione della mente, un porto di mare dove non è possibile approdare.

sabato 10 aprile 2010

l’Unità 10.4.10 L’Ap pubblica una lettera del 1985 firmata dal futuro Papa contrario a rimuovere un sacerdote La Santa Sede smentisce: «Non coprì il caso». Benedetto XVI pronto ad incontrare le vittime Nuove accuse a Ratzinger «Coprì prete pedofilo Usa» Nuova accusa al Papa dall’Associated Press: nell'85 si oppose alla rimozione di un prete pedofilo. La Santa Sede: «Ratzinger non coprì il caso». Padre Lombardi: il pontefice disponibile ad incontrare le vittime. di Roberto Monteforte

«Il Papa è disponibile ad incontrare ancora le vittime degli abusi sessuali. Contro di lui insinuazioni infondate. Benedetto XVI indica rigore, merita rispetto». È la risposta del direttore della Sala Stampa Vaticana, padre Federico Lombardi alla campagna mediatica di questi giorni sullo scandalo dei preti pedofili che chiama in causa direttamente Benedetto XVI. Ma proprio ieri è arrivata un’altra bordata da parte dei media statunitensi. Nel 1985, anni prima di diventare Papa, il cardinale Joseph Ratzinger sconsigliò di ridurre allo stato laicale un sacerdote californiano, Stephen Kiesle, che aveva molestato minori. Lo scrive il Washington Post che riprendendo una notizia dell'Associated Press cita una lettera del 1985, firmata da Ratzinger, in cui si esprimevano preoccupazioni sugli effetti che la rimozione di un prete avrebbe avuto «per il bene della chiesa universale». Secondo l’agenzia Ap, la corrispondenza di cui è in possesso «rappresenta la sfida finora più forte all'insistenza che Ratzinger, l'attuale Papa Benedetto XVI, non giocò alcun ruolo nel blocco della rimozione dei preti pedofili quando era Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede». La lettera citata sarebbe parte di anni di corrispondenza tra la Diocesi di Oakland e il Vaticano sull'opportunità di ridurre allo stato laicale padre Stephen Kiesle. Pronta la replica della Santa Sede: l’allora cardinale Ratzinger «non coprì il caso» del giovane prete, ma chiese solo di studiarlo con «maggiore attenzione» per il «bene di tutte le persone coinvolte», ha detto padre Ciro Benedettini, vicedirettore della Sala Stampa Vaticana, puntualizzando che nell’85 l’eventuale rimozione dall’incarico di un sacerdote era di competenza del vescovo locale e non della Congregazione per la Dottrina della fede. Kiesle, che era già stato condannato da un tribunale Usa nel ‘78 per atti osceni e molestie, fu comunque ridotto allo stato laicale due anni più tardi, nell’87. E nel 2002 venne di nuovo arrestato per molestie sessuali e condannato a sei anni di prigione nel 2004.
PROCESSI AI COLPEVOLI
Nel suo editoriale per Radio Vaticana, padre Lombardi affronta le polemiche di questi giorni, ma non questa ultima critica. Ricorda la pazienza con la quale ha affrontato lo «stillicidio di rivelazioni parziali o presunte». La linea è quella indicata con la lettera ai cattolici d’Irlanda. In primo luogo continuare a «cercare la verità e la pace per gli offesi». Il portavoce vaticano conferma la disponibilità del Papa «a nuovi incontri con le vittime» da tenersi «nel rispetto delle persone e alla ricerca della pace», «in un clima di serenità e riservatezza». Nella sua nota padre Lombardi richiama l’attenzione delle Chiese locali all’esigenza di assicurare giustizia, applicando con rigore, per le parti di loro competenza, le norme di diritto canonico, e collaborando per il resto, per gli aspetti penali e civili, con la magistratura. Quindi annuncia che le «linee guida» della Santa Sede su come affrontare il problema saranno da tutti consultabili sul sito web del Vaticano.
IL CASO CANADESE
Intanto continuano gli attestati di affetto al Pontefice. Dai vescovi scandinavi all’arcivescovo di Perugia, monsignor Bassetti che sottolinea il coraggio del Papa e l’amore della verità che «non teme l’oltraggio e la derisione». Si allunga anche l’elenco dei preti coinvolti in casi di abusi. Ieri si è aggiunto monsignore Bernard Prince, un religioso canadese che ha avuto incarichi in Vaticano che Ratzinger «spretò». Si fanno sentire anche le vittime. Una decina di «abusati» maltesi sarà in piazza il prossimo 16 e 17 aprile in coincidenza con la visita del Papa.
l’Unità 10.4.10 Perizia a pagamento Ecco come Sacred Path ha cercato di «ripulirsi» Agli atti del processo un documento che dimostra come i seguaci di «Arkeon» nel 2006 hanno pagato 30mila euro per uno studio sulla propria associazione con lo scopo di dimostrarsi virtuosi al Centro internazionale studi sulla famiglia di Giovanni Maria Bellu

Trentamila euro. Era la fine di dicembre del 2006. E i seguaci del “metodo Arkeon” decisero di investire la bella cifra per pagare uno studio su “Sacred path” la loro associazione al “Centro internazionale studi sulla famiglia”, il prestigioso istituto di ricerca cattolico dei padri paolini. Un tentativo estremo di riaccreditarsi come organizzazione virtuosa e riconosciuta dalla chiesa quando era già in pieno svolgimento l’inchiesta per associazione a delinquere, truffa, maltrattamenti di minori. I reati dei quali sono accusati il capo di "Sacred path", Vito Carlo Moccia e altri undici imputati nel processo in corso davanti al tribunale di Bari.
L’investimento degli arkeoniani per questo studio su se stessi risulta da un documento agli atti del processo ed è confermato dal fatto che davvero il Cisf, tra il dicembre del 2006 e il febbraio del 2007, condusse un’indagine su “alcuni aspetti dell’esperienza Arkeon”. Elaborò anche un “rapporto finale” cautamente favorevole all’associazione. Si tratta di dieci paginette precedute da un avvertimento che suona come un mettere le mani avanti: «Tutto il materiale è stato fornito da Arkeon o è stato realizzato con il suo supporto tecnico. La disponibilità e l’apertura totale dimostrate da tutte le persone di Arkeon implicate nella ricerca sono state pronte e totali, ed hanno consentito un lavoro rapido e, a noi pare, proficuo». Segue un’esposizione fredda del materiale esaminato e di quanto i ricercatori hanno potuto ricavare dalla partecipazione a due dei “seminari” per i discepoli del “primo livello”. La parte più rilevante (e forse l'unica ragione che spinse “Sacred path” a spendere trentamila euro) è nelle ultime righe. Si danno delle indicazioni su come andare avanti nel “lavoro di revisione”. In definitiva si riapre un credito condizionato. È stata poi la magistratura a impedirne l’utilizzo.
Il rapporto del Cisf conferma che l’associazione di Vito Carlo Moccia ha continuato ad avere protezioni importanti e autorevoli anche quando erano emerse pubblicamente notizie molto gravi. Come se, per i suoi sponsor all’interno della Chiesa, fosse impossibile un distacco netto e definitivo.
Nella lettera che pubblichiamo in questa pagina, padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa pontificia, conferma integralmente le notizie che abbiamo riportato. Anche il fatto di aver ricevuto la segnalazione di “specifiche tragedie familiari” prodotte dal metodo Arkeon e di averle segnalate a Moccia, cioè al presunto responsabile delle menzionate tragedie. Aggiunge, padre Cantalamessa, di non essersi mai interessato «di quel che accadeva nell’Associazione e intorno all' Associazione». Purtroppo ancora una volta i documenti lo smentiscono.
È una storia e delicata e complicata, converrà ancora una volta andare con ordine.
E prima di tutto bisogna dire che padre Cantalamessa non è l’unico uomo di Chiesa ad aver sostenuto “Sacred path”. Ce n’è almeno un altro. Si chiama Angelo De Simone ed è un sacerdote paolino oltre che un teologo. Fu lui, nel 2004, il primo a dare risalto al metodo Arkeon con un articolo nel quale Vito Carlo Moccia, che tra l’altro è anche accusato di esercizio abusivo della professione, veniva presentato come un genio pluridisciplinare universalmente conosciuto e stimato. Eccone un passo. «Un tempo Vito Carlo era imprenditore nel campo della bioingegneria, realizzato economicamente e riconosciuto nel mondo. Anni fa anch’egli scendeva nel “proprio inferno” prendendo coscienza della solitudine esistenziale che lo investiva. Andò alla ricerca di risposte nelle vie intellettuali, si laureò in antropologia e psicologia, cercò nei percorsi psicanalitici e psicoterapeutici, nelle tradizioni orientali, nella pratica della meditazione, fino a scoprire la via del ritorno al padre».
Un identikit che stride in modo sinistro con quanto si legge nel decreto di rinvio a giudizio: «Il Moccia si presentava come laureato alla Jolla University di San Diego e laureato in psicologia e pedagogia presso l’università statale di Fiume, titoli inesistenti e comunque non validi in Italia».
Don Angelo De Simone partecipava ai sinistri rituali dell’associazione. Celebrava gli strani matrimoni che servivano a sancire la riconciliazione di coppie peraltro già sposate, predicava tra icone di Gesù Cristo e foto di Vito Carlo Moccia. Esiste in merito un’abbondantissima, e francamente penosa, documentazione di video e di foto che lo prova.
Era, don De Simone, molto vicino a “Sacred path”. E quando apparve accanto al capo supremo in una puntata di “Mi manda Rai 3” del dicembre del 2006, i telespettatori, e anche il conduttore, ebbero la netta impressione che ne facesse parte. Per la veemenza con cui ne sosteneva le improbabili ragioni.
Ma era anche molto legato a padre Cantalamessa. Assieme celebrarono, il 20 gennaio del 2006 (cioè dopo che Canale 5, con Maurizio Costanzo, aveva per la prima volta segnalato la pericolosità del metodo Arkeon) una messa nella chiesa milanese di S. Eustorgio (altra circostanza che padre Cantalamessa conferma nella sua lettera e che noi documentiamo con una nuova immagine dove è possibile riconoscere, accanto a Moccia e al predicatore apostolico che si abbracciano, il teologo paolino di Arkeon).
Insomma, è davvero difficile fare stare assieme questo «non interessamento» verso ciò che accadeva «nell’Associazione e intorno all’Associazione», con la frequentazione di don De Simone. A meno che questi non abbia nascosto qualcosa. Chissà, Di sicuro, dai documenti, emerge che padre Cantalamessa era informato proprio da don De Simone dell’attività di Moccia e dei suoi seguaci. Ecco cosa scrisse (il 24 marzo del 2006) nella lettera di risposta a un signore che gli aveva segnalato una di quelle «specifiche tragedie familiari» di cui ora riconosce di aver avuto notizia: «Un sacerdote che li segue da tempo, don Angelo De Simone, paolino, che può contattare se vuole (seguiva il numero di cellulare, nda) può testimoniare di quanti battesimi, prime comunioni e confessioni ha personalmente amministrato nel contesto dei seminari guidati da Vito».❖

l’Unità 10.4.10 Il premier israeliano manda un vice a Washington per il vertice sulla sicurezza atomica Dietro il gesto il timore di critiche sui propri arsenali e il gelo con Barack sugli insediamenti Netanyahu diserta il summit Usa Schiaffo a Obama sul nucleare Aveva il timore di essere messo sul banco degli imputati. Così il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha preferito rinunciare ad essere presente al summit sul nucleare di Washington. Gli Usa ne prendono atto. di Umberto De Giovannangeli

Quella sedia resterà vuota. Ed è un’assenza pesante. Non è stato facile. Ma alla fine il premier israeliano Benyamin Netanyahu ha deciso che non prenderà parte al vertice per la sicurezza nucleare organizzato a Washington dal presidente Barack Obama nei giorni 12-13 aprile.
SMACCO PER BIBI
La delegazione israeliana sarà guidata dal vicepremier e ministro per le questioni strategiche Dan Meridor (Likud) ed includerà il Consigliere per la sicurezza nazionale Uzi Arad e il direttore generale della Commissione per l'energia atomica Shaul Chorev. Nel tentativo di spiegare i tentennamenti del premier, il quotidiano filo-governativo Israele ha-Yom rileva che da un lato la minaccia del terrorismo nucleare e le misure globali da adottare per sventarlo sono temi a lui molto cari. Ma d'altra parte questi ha temuto che la sua presenza ai lavori avrebbe potuto favorire pressioni da parte di Paesi che da tempo insistono per costringere Israele a sottoporre le proprie installazioni atomiche a controlli internazionali. In un primo momento gli organizzatori americani avevano garantito a Netanyahu che una eventualità del genere non si sarebbe concretizzata. Ma l’altro ieri Arad ha appreso che Paesi come Egitto, Giordania e Turchia vorrebbero distanziarsi dai temi originali della conferenza per avanzare richieste nei confronti di Israele. Uno sviluppo che, secondo il giornale, «ha contrariato» Netanyahu. Da qui la decisione di abbassare il profilo della delegazione israeliana. La decisione è stata presa confermano funzionari citati da Haaretz nel timore che un gruppo di Paesi guidati da Egitto e Turchia chieda che Israele aderisca al Trattato di Non Proliferazione Nucleare. «Negli ultimi giorni aggiungono . siamo stati informati dell'intenzione di diversi stati partecipanti di deviare dal tema principale della lotta al terrorismo e usare l'evento per pungolare Israele sul TNP».
CONTRASTI POLITICI
Sullo sfondo di questi sviluppi ci sono anche i crescenti dissensi politici fra Stati Uniti ed Israele, manifestatisi il mese scorso durante un burrascoso tete-a-tete fra Obama e Netanyahu. Secondo Liz Cheney, la figlia dell'ex vicepresidente Dick Cheney, esponente della opposizione repubblicana, Obama sta giocando «un gioco spericolato» in Medio Oriente «continuando ad indebolire i legami con Israele»; dunque Netanyahu «ha fatto benissimo» ad annullare la visita a Washington. Dove, presumibilmente, sarebbe stato messo sotto pressione dai dirigenti del Dipartimento di Stato. Le richieste politiche di Obama da Israele sono stringenti e il governo Netanyahu ancora non ha elaborato risposte adeguate. Ben Caspit, un analista di Maariv, così sintetizza il dilemma del premier: «Accettarle significa innescare un crisi di governo. Respingerle, vuole dire andare a un confronto con Washigton».
Il nodo principale sono i progetti edili ebraici di Gerusalemme Est che, secondo Obama, vanno congelati. Ma anche la richiesta di includere le questioni chiave del conflitto già in negoziati indiretti con l'Autorità nazionale palestinese (Anp) mediati dagli Stati Uniti risulta indigesta a Netanyahu. Israele ha peraltro reagito negativamente a fughe di notizie relative a un piano di pace che Obama intenderebbe imporre a israeliani e a palestinesi, in assenza di soluzioni migliori. Tali indiscrezioni peraltro, sono già state smentite dal consigliere per Sicurezza nazionale della Casa Bianca, generale Jim Jones. Ma il «gelo» persiste tra Usa e Israele.❖

l’Unità 10.4.10 Il dogma e la forza di Moni Ovadia

Itelegiornali di ieri mattina riportavano la notizia che il primo ministro israeliano Nethaniau non parteciperà al prossimo meeting di Washington sul disarmo. La decisione è motivata dall’intenzione dei governi di Egitto e Turchia di mettere in discussione la posizione di Israele in merito al trattato di non proliferazione delle armi nucleari. Nethaniau trova inaccettabile persino che si discuta dell’arsenale atomico di Israele. Perché? Per ribadire il dogma della sicurezza. Questo dogma nato originariamente sul peso delle cinque guerre sostenute in soli sessant’anni di esistenza, sull’orrore attentati terroristici, sulle reiterate minacce di distruzione, ultima delle quali quella del farneticante Ahmadinedjad, è però diventato un manganello ideologico usato per affermare l’eccezione israeliana. Ovvero, in nome della sicurezza, a priori, il governo israeliano rivendica l’indiscutibile diritto ad agire in difformità del diritto internazionale e dei trattati multilaterali. Nethaniau continua a chiedere perentoriamente che all’Iran sia impedito a tutti i costi l’accesso all’arma nucleare ma dal canto suo non è disposto neppure a discutere dell’esistenza e della consistenza dell’arsenale nucleare israeliano. Con la stessa perentorietà dichiara unilateralmente e senza pudore che costruire a Gerusalemme est è come costruire a Tel Aviv in totale spregio delle risoluzioni dell’Onu. Questo atteggiamento arrogante, basato solo sul diritto della forza e sulla moral suasion rappresentata dalle tragedie subite dal popolo ebraico utilizzate come ricatto, è miope e autolesionista. Israele è nato nel seno della legalità internazionale con una memorabile votazione dell’Onu, chiesta e ottenuta, con esito favorevole, dai leader sionisti. Sputare sull’autorità delle Nazioni Unite e sulle sue risoluzioni è come sputare controvento e gettare discredito su se stessi.❖

l’Unità 10.4.10 Fuoco amico contro Darwin Polemiche Stavolta non sono i teorici del creazionismo o qualche esoterico a prendersela con il vecchio Charles: il filosofo Fodor e il neuroscienziato Piattelli Palmarini attaccano il motore stesso dell’evoluzione della specie di Pietro Greco

Idue autori tengono a precisarlo già nell’introduzione: siamo atei senza tentennamenti e il nostro attacco a Darwin o meglio, al neodarwinismo non ha nulla a che fare con il disegno intelligente e il creazionismo. La nostra è una critica naturalistica. Non ha nulla né di religioso né di esoterico. La nostra è una partita giocata tutta all’interno del dibattito scientifico. Inoltre, quello che proprio non ci va giù è che la spiegazione darwiniana, la selezione naturale, venga eletta da alcuni – come il filosofo Daniel Dennett o il biologo Richard Dawkins, a principio universale e applicata anche in campi – come la sociologia o la psicologia – con cui poco o nulla ha a che fare.
Queste sono le due premesse con cui il filosofo Jerry Fodor e il neuroscienziato Massimo Piattelli Palmarini aprono il libro Gli errori di Darwin, che dopo essere apparso negli Stati Uniti con il titolo What Darwin Got Wrong (Quello che Darwin ha sbagliato) viene ora proposto in italiano dall’editore Feltrinelli.
Sono premesse chiare. E largamente condivisibili. La prima perché non c’è alcun neocreazionismo: gli argomenti che Fodor e Piattelli Palmarini adducono non sono né teleologici (non esiste un scopo in natura) né tantomeno teologici (lo scopo non è dato da un dio), ma tutti interni al dibattito scientifico. La seconda perché è condivisa da molti darwiniani convinti: Stephen Jay Gould, per esempio, definiva «ultradarwinisti» coloro che come Dennett o Dawkins – cercano di estendere la teoria dell’evoluzione delle specie per selezione naturale del più adatto ad ambiti diversi da quello dell’evoluzione biologica.
Ciò detto, il titolo del libro è inequivocabile e corrisponde al suo contenuto: un attacco a Darwin. Che, secondo Fodor e Piattelli Palmarini, ha commesso degli errori nel formulare la sua teoria dell’evoluzione biologica. Questi errori sono stati fatti propri e, anzi, ampliati dal «neodarwinismo», ovvero dalla riunificazione tra genetica ed evoluzionismo avvenuta intorno agli anni ’30 del secolo scorso. Non si tratta di errori marginali. Riguardano il motore stesso dell’evoluzione delle specie. Charles Darwin e i neodarwinisti individuano il motore principale ma, se badi bene, non l’unico – nella selezione naturale. Ovvero nel fatto che gli organismi più adatti a sopravvivere nell’ambiente hanno, statisticamente, un maggiore successo riproduttivo e trasmettono alla loro prole, con modificazioni, i loro caratteri genetici.
Questo processo individua essenzialmente due stadi: uno quasi tutto interno agli organismi, che consiste nel modo in cui si «genera la diversità» (ogni individuo è diverso da un altro) all’interno di un processo di sostanziale continuità (la trasmissione ereditaria, di padre in figlio, dei caratteri genetici). Per Darwin e i neodarwinisti il generatore di diversità (individuato essenzialmente nelle mutazioni genetiche) è certo influenzato da vincoli ambientali e strutturali, ma nella sua sostanza è casuale.
Il secondo stadio quello della vera e propria selezione naturale del più adatto vede invece il protagonismo assoluto dell’ambiente, che premia in media le capacità riproduttive degli organismi portatori dei caratteri adattativi migliori e punisce i portatori di caratteri adattativi peggiori. Sebbene avvenga su basi statistiche e non deterministiche, si tratta di una selezione necessaria. Non a caso Jacques Monod aveva sintetizzato la spiegazione darwiniana nel combinato disposto di «caso e necessità».
Bene, Fodor e Piattelli Palmarini, confutano le basi di questo processo. Sia perché sostengono che il generatore di diversità degli organismi viventi non è sostanzialmente casuale, ma, al contrario, è sostanzialmente determinato. Da che cosa? Dalle leggi fisiche e chimiche dell’auto-organizzazione della materia, che operano a ogni livello: dal-
la formazione delle galassie alla formazione, appunto, delle cellule e degli organismi. Questa capacità della materia è così forte da annullare o meglio da rendere del tutto marginale anche il secondo stadio del processo darwiniano: la selezione naturale. Ad affermarsi sono gli organismi e le specie dotate di maggiore stabilità intrinseca: l’ambiente non seleziona nulla, o seleziona poco.
La critica al darwinismo e alla moderna teoria sintetica non è nuova. È da almeno un secolo da sir D’Arcy Thompson in poi che molti hanno studiato i fattori morfogenetici e, più in generale, strutturali che condizionano pesantemente che determinano la forma e, dunque, anche le funzioni degli organismi e delle loro singole parti. Negli ultimi anni si è visto come questi vicoli strutturali siano davvero operativi e a ogni livello, da quello macroscopico e quello genetico. È nata persino una nuova disciplina, l’Evo-Devo (evolutionary development, sviluppo evolutivo), che studia come i fattori strutturali concorrano all’evoluzione biologica.
IL RUOLO DELL’AMBIENTE
Concorrano, appunto. Ma non sostituiscono. Perché questo è il punto focale intorno a cui si snoda il ragionamento di Fodor e Piattelli Palmarini: le leggi dell’auto-organizzazione della materia sono così forti e potenti da annullare di fatto il ruolo dell’ambiente e la selezione naturale del più adatto come motore dell’evoluzione? Fodor e Piattelli Palmarini sostengono di sì. Ancora una volta, non sono i primi. In anni recenti hanno cerato di farlo diversi studiosi – da Brian Goodwin a Stuart Kauffman, per citare i più famosi anche al grande pubblico. E tuttavia non ci sono riusciti. Sia Goodwin sia Kauffman hanno tentato di trovare una teoria scientifica alternativa a quella darwiniana. Ma quella teoria, come riconoscono anche Fodor e Piattelli Palmarini, Non c’è. Se gli errori di Darwin esistono, quelli degli altri sono superiori.
Ma esistono questi errori? No. O, in ogni caso, non sono decisivi. Nessuno dubita che il processo che «genera diversità» sia complesso e determinato da molti fattori, inclusi quelli strutturali. Nessuno dubita che dietro il caso si celi non l’alea, ma una serie di meccanismi fisici, chimici e biologici che semplicemente ignoriamo. Nessuno dubita che la selezione non sia solo adattativa. Darwin stesso sosteneva che la selezione naturale è il principale, ma non l’unico meccanismo di selezione. E tuttavia è davvero difficile sostenere che l’ambiente non abbia alcun ruolo nell’evoluzione biologica. Semmai sono da ricostruire le svariate forme con cui l’ambiente opera la selezione.
In altri termini, nessuno dei nuovi processi finora scoperti è in grado di minare il neodarwinismo. Tutti possono essere facilmente integrati nella teoria naturalistica che Charles Darwin ha proposto per spiegare i fatti noti dell’evoluzione biologica.●