martedì 13 aprile 2010

l’Unità 13.4.10
Abusi, linee guida del Vaticano
Le vittime Usa: «Non basta»
di Marina Mastroluca

Procedure Obbligo di denuncia alle autorità civili, il Papa può «spretare» i pedofili senza processo
L’ associazione americana «Non mancano strumenti ma coraggio». Bertone: presto novità

La S.Sede pubblica on line le linee guida sulle procedure per i casi di abusi sessuali. Obbligo di denuncia all’autorità civile, il Papa potrà ridurre allo stato laicale i colpevoli, senza processo. Le vittime Usa: «Non basta».

Due paginette in inglese per spiegare il da farsi davanti a un caso di pedofilia. Eccola la risposta della Santa Sede allo scandalo e per quanto la Sala stampa vaticana sembri quasi minimizzare l’evento «non è un nuovo documento ma una guida applicativa delle norme
del 2001» delle novità ci sono, eccome. Per la prima volta si trova scritto nero su bianco che «si deve sempre seguire la legge civile per quanto riguarda la denuncia dei crimini alle autorità competenti»: i panni sporchi non basterà lavarli in famiglia. E nei casi più gravi, quando c’è stata la condanna di un tribunale o una colpa evidente, il Papa potrà decidere direttamente e in modo inappellabile sulla riduzione del reprobo allo stato laicale, senza passare attraverso la procedura ordinaria del processo. Un passo avanti «rispetto alle sole parole delle settimane scorse», per l’associazione anti-pedofilia «La Caramella buona», che chiede comunque di cancellare la prescrizione di 10 anni a partire dalla maggiore età delle vittime. Ma non abbastanza per la più importante associazione di vittime di preti pedofili negli Stati Uniti, la Snap: «Solo un minimo progresso, nel senso più limitato possibile». Ma il cardinal Bertone preannuncia «altre iniziative». Il documento pubblicato sul sito del Vaticano non è altro che la sintesi divulgativa di un regolamento interno che la Congregazione per la Dottrina della fede si era data già nel 2003, due anni dopo essere stata investita da Giovanni Paolo II dei casi di pedofilia, con il «Delicta graviora»: un testo, quest’ultimo, che non conteneva alcun riferimento all’obbligatorietà del ricorso alla giustizia civile né alla facoltà del Papa di spretare i colpevoli. Per il momento quindi le linee guida non hanno ancora il valore formale del diritto canonico, ma la Congregazione per la dottrina della fede ci starebbe lavorando.
Il testo stabilisce che le diocesi locali investighino su ogni caso segnalato di abusi sessuali, riferendo alla Congregazione se ci sono riscontri.
Durante questa fase preliminare, il vescovo «può imporre misure precauzionali per salvaguardare la comunità, incluse le vittime» e ha la facoltà di «limitare le attività di qualunque prete nella sua diocesi» per proteggere i bambini. Una volta arrivato davanti alla Congregazione della Dottrina della fede, il caso può essere deciso con un processo penale o amministrativo, condotto dal vescovo locale. Sono previste quindi «una serie di pene canoniche», la più grave delle quali è la riduzione allo stato laicale. Il processo può saltare nei casi più gravi condanna di un tribunale civile o colpe evidenti o se il prete coinvolto ha deciso di tornare allo stato laicale: in queste circostanze il Papa può decidere al di fuori della procedura ordinaria. C’è poi la possibilità di adottare misure restrittive nei confronti di preti pedofili che abbiano ammesso le loro colpe e siano disposti a condurre una vita di preghiera e penitenza.
«LE PROCEDURE NON BASTANO»
Qualcosa ma non abbastanza, secondo la Snap americana che considera insufficiente la pubblicazione di un testo riservato e finora «rispettato in modo estemporaneo». «Le proposte della Chiesa, che siano on line o meno, sono largamente irrilevanti ha detto la presidente dell’associazione, Barbara Blaine -. I vescovi virtualmente non rispondono a
nessuno e possono facilmente ignorarle. Il punto era e resta sempre lo stesso: non è per mancanza di procedure che i preti pedofili rimangono ancora in carica e i vescovi nascondono questi crimini. Quello che manca invece è il coraggio. Gli strumenti per intervenire ci sono tutti».
Ed in effetti stride con gli annunci vaticani la lettera alle parrocchie inviata dai vescovi del Connecticut, perché sostengano un’iniziativa contro la proposta di legge per la riapetura dei casi di pedofilia caduti in prescrizione. Il testo prevede la possibilità di ricorrere alla giustizia anche dopo 30 anni dalla maggiore età delle vittime. «Se venisse approvata questa legge metterebbe a rischio la missione della Chiesa cattolica... Sarebbero in pericolo tutte le istituzioni cattoliche».❖

il Fatto 13.4.10
“Complotto sionista”: Babini smentisce, Pontifex insiste
Guerra di nastri tra il vescovo emerito di Grosseto e il direttore del sito. La Cei: stringersi intorno al pontefice
di Andrea Gagliarducci

F inirà in tribunale? Noi attendiamo, e con i nastri: la pazienza si è esaurita”. Bruno Volpe, direttore del sito Pontifex, commenta così la ritrattazione di Giacomo Babini, vescovo emerito di Grosseto. In un’intervista al portale, aveva definito lo scandalo pedofilia “un attacco sionista” da parte di “ebrei deicidi”. Parole durissime, che avevano causato la protesta formale dell’American Jewish Committee. Lo stesso Babini ha poi fatto pervenire alla Cei una nota scritta, smentendo di aver mai fatto quelle dichiarazioni. È a questo punto che Bruno Volpe mette mano sulla tastiera e scrive l’editoriale. Non è la prima volta che alcune dichiarazioni raccolte su Pontifex scatenano proteste. Ma Volpe, ogni volta che monta una polemica, brandisce i nastri dell’intervista. È successo tempo fa, con un’intervista al vescovo polacco Pieronek, che aveva parlato della Shoah come di una “invenzione ebraica”: parole prima ritrattate, e poi confermate dallo stesso vescovo.
Le dichiarazioni rese da Babini a Pontifex sono ancora più dirompenti: dietro l’attacco al Papa – dice – c’è un complotto sionista. “In fondo – chiosa – storicamente parlando, i giudei sono deicidi”. La Shoah, poi, prosegue, “fu una vergogna per la intera umanità, ma ad esso occorre guardare senza retorica e con occhi attenti. Non crediate che Hitler fosse solo pazzo. La verità è che il furore criminale nazista si scatenò per gli eccessi e le malversazioni economiche degli ebrei che strozzarono l’economia tedesca. Una tanto veemente reazione si deve anche a questo: la Germania era stanca delle angherie di chi praticava tassi di interesse da usura”. L’Ajc protesta: il rabbino David Rosen chiede “che la Cei condanni categoricamente questi stereotipi diffamatori, che evocano tristemente la peggiore propaganda cristiana e nazista precedente la Seconda guerra mondiale”. Replica a stretto giro Babini: “Mi si attribuiscono dichiarazioni sui fratelli ebrei da me mai pronunciate: preciso che in alcun modo ho espresso simili valutazioni e giudizi da cui prendo nettamente le distanze. Rinnovo ai nostri fratelli maggiori nella fede la mia fraterna stima e piena vicinanza, in sintonia con il magistero della Chiesa costantemente riaffermato dal Concilio Vaticano II in poi”. L’Ajc riporta anche una dichiarazione di monsignor Paglia, ex presidente della Commissione Ecumenica della Cei, che sottolinea che “tali affermazioni infatti sono completamente estranee al Magistero della Chiesa cattolica”:
Ma è a questo punto che Volpe non solo brandisce i nastri, ma ricorda altre dichiarazioni di Babini a Pontifex, mai smentite: “Gli ebrei usano la Shoah come una clava” (27 gennaio) e “gli ebrei non sono più i nostri fratelli maggiori” (25 gennaio). Intanto, sul blog dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, la storica Anna Foa, firma dell’Osservatore Romano, che sottolinea: “Le sue dichiarazioni erano così folli che, più che scomodare l’antisemitismo, bisognava forse pensare a qualche problema d’età o di testa”. È un momento difficile per la Chiesa. Tanto che la Cei invita a “stringersi nella preghiera intorno al Papa, centro di unità e segno visibile di comunione” il 19 aprile, quinto anniversario dell’elezione, lasciando libero ogni vescovo di “individuare a livello locale le forme più adatte”. Allo stesso tempo, i vescovi ricordano che “la Chiesa in Italia non viene meno al dovere della purificazione, pregando in particolare per le vittime di abusi sessuali e per quanti, in ogni parte del mondo, si sono macchiati di tali odiosi crimini”.

il Fatto 13.4.10
di Dio e dell’etica
Socrate e Ratzinger
di Ferdinando Camon

L a lettera del cardinale Ratzinger, pubblicata ieri da tutti i giornali, con la quale l’allora responsabile della Congregazione per la Dottrina delle Fede risponde sul problema di dispensare dagli oneri sacerdotali il reverendo Miller Kiesle, colpevole di pedofilia, invitando a prender tempo e a tener presente anche il bene della Chiesa cattolica, è un importantissimo documento storico. Perché dimostra che il cardinale (come il Papa precedente, e quello precedente ancora) avvertiva nell’affrontare i casi di pedofilia tra i preti lo scontro tra due beni: il bene delle vittime e il bene della Chiesa. I due beni non vanno d’accordo, chi ha il potere di decidere deve scegliere: o protegge le vittime danneggiando la Chiesa, o protegge la Chiesa abbandonando le vittime. Una sconosciuta lettrice ha mandato a un giornale una letterina semplice semplice in cui espone un problema terribile per il cattolico credente. Dice: “Anch'io, se sapessi che un prete commette atti di pedofilia, non lo denuncerei alla giustizia civile ma solo alla chiesa, perché prima di dire o fare qualcosa, mi pongo sempre la domanda: a chi giova, a Dio o a Satana?”. Non denunciando, eviti un oltraggio alla Chiesa, e questo è bene, Dio lo gradisce e lo chiede. Denunciando, fai uno scandalo enorme, la Chiesa resta colpita, e questo è Satana che lo chiede e lo gradisce. C’è un librino esile che nessuno cita (e questo mi stupisce), centrato in pieno sul problema di fronte al quale si trova Ratzinger, e prima di lui gli altri papi. È un dialogo di Socrate intitolato “Eutifrone”. Eutifrone è un sacerdote, Socrate lo trova per strada (il sacerdote sta andando a testimoniare in non so qual processo), lo ferma e impianta una discussione su questo tema: un’azione è buona perché piace a Dio, o piace a Dio perché è buona? Eutifrone, da buon sacerdote, risponde: un’azione è buona se piace a Dio. Socrate cerca di spostarlo sull’altra risposta, ma non fa in tempo, il dialogo s’interrompe. C’è un film di qualche anno fa intitolato “Water”, acqua, e ambientato in India, in cui per pochi minuti, tre-quattro, appare Gandhi. Non c’entra niente con la trama del film, ma passa in treno, la gente accorre per salutarlo, lui scende per compiacerla, fa pochi passi e regala una briciola si saggezza. Dice: “Fino a ieri credevo che Dio fosse la verità, oggi so che la verità è Dio”. È un salto enorme. Il salto che Socrate cerca di far fare ad Eutifrone. Il salto che Paolo VI non ha fatto, né Giovanni Paolo II, né Ratzinger fino alla lettera ai fedeli irlandesi di poche settimane fa. Se una cosa è buona perché piace a Dio, allora non-denunciare non solo non è una colpa, ma è un merito. Se c’è da scegliere tra Dio e la Giustizia, scegliendo il primo scegli anche la seconda. Solo la lettera ai fedeli irlandesi rovescia questo principio. Perché dice ai preti pedofili: “Dovete rispondere davanti a Dio onnipotente, come pure davanti ai tribunali debitamente costituiti”. Non è più vero che, se c’è da scegliere tra Dio e giustizia, scegliendo il primo scegli anche la seconda. È vero l’inverso: scegliendo la giustizia scegli Dio. La lettera pubblicata ieri e firmata da Ratzinger è del 1985, allora tutta la cultura cattolica (tranne quella del dissenso) era vincolata a scegliere Dio, con ciò scegliendo il bene. Spostarla a scegliere il bene, nella convinzione che lì sta Dio, è un’operazione titanica, per la quale ci vorrà un lungo tempo. Con la lettera agli irlandesi questo tempo comincia. Incolpare Ratzinger di essersi formato nel tempo precedente non ha senso. È più giusto dargli atto di aver inaugurato il grande transito, cominciando a spingere la Chiesa fuori dall’etica pre-socratica.
(fercamon@alice.it)

l’Unità 13.4.10
Ipazia, la donna che osò sfidare la Chiesa in difesa della scienza
di Mariateresa Fumagalli

Il convegno Due giornate dedicate alla filosofa-astronoma martire in nome del libero pensiero
L’eroina Morì nel IV secolo d.C. per mano delle armate cristiane: voleva «insegnare a pensare»
Ospitiamo in questa pagina un articolo di Mariateresa Fumagalli, storica della filosofia, che anticipa i temi dei quali parlerà al convegno dedicato a Ipazia il prossimo 20 aprile a Milano.

Avvolta nel suo mantello Ipazia percorreva, libera e armata dalla ragione, le strade di Alessandria d’Egitto nel V secolo, parlando dell’Essere e del Bene, della inessenzialità delle cose materiali, della fragilità della vita, della bellezza della meditazione ai molti che la riconoscevano maestra di pensiero e di vita. «Atena in un corpo di Afrodite». Era naturale che qualcuno si innamorasse di lei e Ipazia con un gesto da filosofa «cinica» per disilludere l’innamorato mostrava le sue vesti intime macchiate del sangue mestruale a indicare lo «squallore della vita» e la verità dell’amore che deve superare il corpo.
Cosa insegnava Ipazia ammirata anche dai suoi allievi cristiani? In una città dove pagani, cristiani e ebrei convivevano non sempre in pace? È quasi impossibile saperlo con certezza: degli scritti di Ipazia, matematica astronoma e filosofa soprattutto, seguace della scuola di Platone e di Plotino nella turbolenta Alessandria d’Egitto di quei secoli, nulla è rimasto. Paradossalmente quasi tutto quel che sappiamo del suo insegnamento lo apprendiamo dal suo allievo cristiano Sinesio, divenuto in seguito vescovo, ma non per questo meno filosofo. Sinesio la chiama «madre sorella e maestra» e nelle sue opere giovanili rispecchia probabilmente i temi del pensiero di Ipazia che si ispirava a sua volta a Plotino e, sembra, al suo allievo Porfirio. Un altro cristiano (chiamato Socrate Scolastico per distinguerlo da quello antico, il maestro di Platone) scrive che Ipazia «con la magnifica libertà di parola e di azione che le veniva dalla sua cultura si presentava in modo saggio davanti ai capi della città e non si vergognava di stare in mezzo agli uomini perché a causa della sua straordinaria sapienza tutti la rispettavano profondamente...». Dunque le cose erano un po’ più complicate di quel che appare nell’immagine convenzionale di Ipazia martire predestinata che in nome del libero pensiero e «in difesa della scienza sfida la chiesa». Per prima cosa c’è da chiedersi «quale scienza e quale chiesa»? La scienza e la filosofia insegnata da Ipazia
e dai neoplatonici, erano saperi congeniali a una religione della salvezza fondata sui valori dello spirito come il cristianesimo. Molti storici definiscono del resto la religione cristiana una forma di platonismo. Quanto alla religione cristiana oramai istituzionale, è vero, dopo gli editti di Costantino e Teodosio – la chiesa non era allora il corpo accentrato e potente che diverrà, e viveva conflitti interni violenti, divisa in nestoriani, ariani e altre sette. Niente di paragonabile alla forza organizzata e al pensiero solido della chiesa romana di un millennio dopo ai tempi di Galileo (paragone certamente anacronistico ma irresistibile a quanto pare). Da dove nasceva allora il conflitto che opponeva filosofi e cristiani?
«La divisione non avveniva fra monoteismo e politeismo» (E.R. Doods) come siamo abituati a credere: sia i filosofi pagani che quelli cristiani (Clemente, Origene, Gregorio Nisseno) pensavano che Dio fosse incorporeo, immutabile e al di là del pensiero umano. Per entrambi l’etica era «assimilazione a Dio»; si trattava tuttavia di sapienti che leggevano in parte gli stessi libri e assimilavano la virtù alla ragione.
UOMINI COLTI, UOMINI SEMPLICI
Ma una differenza c’era: la filosofia neoplatonica parlava agli uomini colti, mentre il Vangelo si rivolgeva ai «semplici», notava il pagano Celsio con disprezzo e il cristiano Origene con orgoglio. È in mezzo a questi «semplici» o «illetterati» che Ipazia trova i suoi nemici, cristiani che si rifugiavano per forza di cose nella fede cieca diventando strumento dei più fanatici come del resto aveva già notato ai suoi tempi, allarmato S. Gerolamo. È una storia che si ripete. La massa degli illetterati e dei diseredati non aveva difese contro la angoscia che invadeva le menti, agitava i sogni , annullava le speranze di quei tempi duri. Alessandria, come e più di altre città di quei secoli, viveva in una situazione di incertezza materiale e politica, timore di guerre, perdita di identità, caduta del benessere, scomparsa del senso del bene comune, in una età segnata dall’angoscia. Rancori profondi e paure indistinte armavano le mani di coloro che erano in grado solo di ubbidire alle voci più estreme ascoltando i suggerimenti di chi nutriva progetti personali di potere. Una donna che andava sola per le vie annunciando la bellezza della filosofia, ossia la via della liberazione attiva dalle passioni e i modi della contemplazione, era il bersaglio naturale dell’odio che nasceva dalla paura. Ipazia parlava in pubblico infrangendo antiche leggi scritte e non scritte , sconvolgeva pericolosamente le misere certezze che i capi suggerivano: insegnava a pensare, proprio lei, una donna, quell’essere che Aristotele aveva insegnato essere un uomo «diminuito» e inferiore...
La politica aggiunse legna al fuoco: Cirillo vescovo di Alessandria, celebre teologo, nemico del governatore imperiale Oreste a sua volte vicino a Ipazia, ispirò o forse ordinò l’omicidio terribile della filosofa. Nel 1882 Cirillo di Alessandria fu dichiarato da Leone XIII Santo e Dottore della Chiesa.❖

l’Unità 13.4.10
Due incontri
Da Canfora e Eco a proposito di Ipazia

In occasione dell’uscita in Italia il 23 aprile di «Agora», il nuovo lavoro di Alejandro Amenábar, la casa di distribuzione Mikado organizza due incontri per approfondire la vicenda del personaggio principale del film: Ipazia.
Domani a Roma (ore 18,00, alla Sala Igea di Palazzo Mattei-Istituto della Enciclopedia Italiana, via Paganica, 3-4), in collaborazione con l’Istituto Treccani, interverranno il filologo e saggista Luciano Canfora, la storica bizantinista Silvia Ronchey, il filologo e critico letterario Carlo Ossola, il filosofo della scienza Giulio Giorello, i giornalisti Antonio Gnoli e Gabriella Caramore.
A Milano, il 20 aprile alle 18, presso la Sala delle Colonne della Banca Popolare (via San Paolo, 12), in collaborazione con la rivista «Reset», saranno presenti all’incontro introdotto dal direttore della rivista Giancarlo Bosetti, lo scrittore Umberto Eco, la studiosa di diritto romano Eva Cantarella, il teologo Vito Mancuso, la medievalista Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri (che interviene in questa pagina). Parteciperà anche Alejandro Amenábar.

l’Unità 13.4.10
Amenábar, dopo Cannes finalmente arriva in Italia

Protagonista di «Agora», il nuovo film di Alejandro Amenábar (regista di «Mare Dentro» e «The Others»), è la regina Ipazia (interpretata dall’attrice Rachel Weisz), prima scienziata della storia, celebre per la sua attività di matematica e astronoma. La sua è una figura tragica, inghiottita da improvvisa morte violenta per mano di quelle armate cristiane che nel IV secolo dopo Cristo annientarono intere civiltà in nome della verità rivelata. Le guerre che ne seguirono videro molti intellettuali di estrazione platonica massacrati crudelmente, specialmente quando di sangue ebreo. Tra questi c’era anche Ipazia. Il film uscirà nelle sale italiane il prossimo 23 aprile per Mikado, con enorme ritardo rispetto agli altri Paesi europei. «Agora» era stato presentato al Festival di Cannes 2009, tra applausi e fischi.

l’Unità 13.4.10
Il partito del lavoro ha un compito:
difendere il sapere
Scuola, innovazione, ricerca: sono questi i i settori su cui il Pd deve farsi riconoscere dai cittadini. Il futuro dell’occupazione è ormai sempre più legato allo sviluppo della conoscenza
di Luigi Berlinguer

Due argomenti ci possono aiutare nella lettura del voto regionale di cui si discute anche nel dibattito aperto da l’Unità: non è chiara ai cittadini l’identità profonda del Partito Democratico; manca un adeguato radicamento sociale dell’organizzazione-partito. Le identità del passato hanno ancora un peso eccessivo (e taluni si ostinano a difenderle caparbiamente). Così si indeboliscoe la costruzione dell’identità nuova del Pd, unitaria anche se plurima, espressione di una visione unificante della società. I cittadini percepiscono tutto ciò, e per questo motivo stentano a riconoscere chi siamo. In effetti, il Pd rischia di apparire (o essere?) poco moderno, antiglobale, tecnofobo, gergale, troppo rituale, troppo politicista. Siamo abituati a spiegare e a giudicare quel che accade rivolgendoci solo alla società politica che è sempre più lontana dai cittadini e dalle loro vite.
Due esempi, macroscopici, riferiti a temi centrali per il Pd (non certo gli unici, ma per me fondamentali). Primo esempio: qualche giorno fa, durata lo spazio di un mattino, è apparsa e scomparsa sui media una notizia orribile: si è negato il pasto nella mensa di una scuola a dei bambini a causa del colore della loro pelle. Nella patria della “brava gente” si è verificato un fatto infame. Enorme. Può il Pd reagire “politicamente” delegando l’indignazione in un comunicato per le agenzie di stampa, in due righe due su un quotidiano e, se proprio va bene, in una dichiarazionedidiecisecondiinuntgoinun giornale radio? Non merita questo episodio di barbarie che si costruiscano iniziative, reazioni, risposte, denunce, solidarietà? Veri e propri eventi che giungano all’opinione pubblica? Il Pd è con i bambini, con la civiltà e l’umanità, tangibilmente.
Secondo esempio: sento dire e sono assolutamente d’accordo che il Pd è il partito del lavoro. Dirlo, sì. Ma ciò significa combattere le morti in fabbrica e nei cantieri, lottare contro la disoccupazione, contro la precarietà con continuità ed efficacia. Ma questo non può bastare. Il tema, oggi, è nuovo: il lavoro, i lavori non possono essere separati dal sapere. Il lavoro è e sarà sempre più innovazione permanente. È tutt’uno con il sapere, con le idee. Non c’è iato tra fatica lavorativa e sapere. Nella tradizione socialista ciò non era così chiaro perché diritto al lavoro e diritto al sapere erano tra loro separati. Oggi non possono esserlo più.
Ecco, credo che il Pd ancora non abbia fatta propria l’idea che la società della conoscenza è quella dove tutti imparano, tutti devono sapere di più. Siamo consapevoli che per questo occorre una scuola completamente nuova? Non credo. Noi non stiamo cercando una nuova scuola. Tutto il mondo politico ripete da decenni che l’istruzione è una priorità. Sterile tiritera smascherata quando si fanno i conti di bilancio che penalizzano sempre l’education. Occorre un nuovo modello educativo, una scuola aperta tutto il giorno, tutto l’anno, per tutta la vita. (Ne parliamo nella nuova rivista digitale educationduepuntozero.it e nel suo prossimo seminario a Firenze, il 23 aprile). Una scuola dove non si trasmettono dall’alto nozioni e informazioni, ma dove si conquista il sapere. Cattedre, banchi, orari sono suppellettili da sostituire. Per imparare non basta ascoltare, occorre parlare, provare, sperimentare.
In tutto il mondo evoluto i giovani arrivano alla fine della scuola secondaria. Parliamo del “miracolo indiano” ma qualcuno sa che nel 2003 i bambini iscritti alle elementari in India erano meno di 60 milioni e l’anno scorso sono stati 192 milioni?
Una scuola per tutti che cura le eccellenze e fa crescere tutti. Una rivoluzione. Tutti devono poter imparare (capaci e meno capaci), tutti devono concorrere al merito e non solo pochi. Nella società della conoscenza il sapere è il petrolio del futuro. Ma non basta la nozione. Sapere significa capire, e per questo occorre sollecitare la curiosità oggi mortificata da una opprimente rigidità. Se parlo della scuola è perché essa è centrale in una società fondata sulla conoscenza: perché è molla del suo sviluppo, ma anche perché vi trovano il giusto equilibrio libertà ed eguaglianza. Oggi è il sapere che rende liberi, e uguali. Chi non sa delega. Scuola, sapere, innovazione, lavoro: un unicum. Lavoro è quindi professione sempre più qualificata. E deve essere piena occupazione, che è vera libertà. Non è libero il precario che elemosina un lavoro. E chi sa è più forte nel mercato del lavoro.
Credo fermamente che il Partito democratico sia nato per centrare l’obiettivo della società della conoscenza non a parole, ma con i fatti. Capace di fondere sapere e lavoro. Costruiamo idealmente e concretamente questa identità. Così i cittadini saranno in grado di riconoscere chi siamo e cosa vogliamo e troveremo meglio le alleanze necessarie. E non dovremo temere le astensioni.❖

l’Unità 13.4.10
Accordo Italia-Libia
Il dramma dei bambini respinti e spariti
Save the Children lancia l’allarme: centinaia di minori potrebbero essere reclusi nei lager libici o lasciati in balia di organizzazioni criminali Valerio Neri: «Violati i diritti umani, bisogna fermare i respingimenti in mare»
di Umberto De Giovannangeli

I centri. Migliaia di persone costrette a vivere tra abusi e disperazione
Le vittime. Nel marzo scorso 20 morti alle frontiere del Mediterraneo

Iminori che non sono arrivati non sono un numero: sono ragazzi che fuggono da situazioni di povertà, di conflitto o disordine generalizzato fermati a metà del proprio cammino. A questi ragazzi stiamo negando una possibilità, un futuro». Negare un futuro. Una chance di vita. Negarli respingendoli. Centinaia di minori respinti in mare dopo l'entrata in vigore della normativa sui respingimenti sono probabilmente bloccati in Libia. Bloccati o per meglio dire reclusi nei centri di «accoglienza», veri e propri lager, stando a quanto denunciato dalle più importanti organizzazioni umanitarie internazionali. Deboli tra i deboli, i bambini sono i primi a pagare questa situazione. Ad affermarlo è Save the Children che nel secondo rapporto su «L'accoglienza dei minori in arrivo via mare» rileva che il drastico calo delle presenze di minori nelle comunità siciliane è fonte di preoccupazione per le centinaia di minori stranieri cui «viene negata la possibilità di un futuro» contro «il rispetto della normativa nazionale, comunitaria e internazionale in materia di divieto di respingimento, rispetto dei diritti umani e tutela delle categorie vulnerabili». E tra i vulnerabili, i bambini sono al primo posto.
L'organizzazione punta il dito contro «le pratiche adottate dal governo italiano in materia di contrasto all'immigrazione clandestina e gli accordi stipulati con le autorità libiche», si legge nel rapporto, che rischiano di «vanificare il percorso d'integrazione dei minori». Da marzo 2009 a febbraio 2010 sono giunti in Sicilia 278 minori non accompagnati (di cui solo 4 identificati a Lampedusa), successivamente collocati in comunità sul territorio siciliano. Nell'anno precedente, da maggio 2008 a febbraio 2009, i minori non accompagnati sbarcati a Lampedusa erano stati 1.994, mentre, nello stesso periodo erano giunti sulle coste siciliane altri 260 tra bambini e ragazze (inclusi quelli accompagnati). Nel corso dell'anno, rileva Save the Children , sono state effettuate 9 operazioni di rinvio di migranti rintracciati in acque internazionali: raffrontando i dati sugli arrivi degli anni 2008 e 2009 «appare evidente che con ogni probabilità» sono centinaia i minori rimasti in Libia o che vi sono stati rinviati nel tentativo di raggiungere l'Italia. «È necessario che non vengano più effettuate operazioni di rinvio di migranti in arrivo via mare, garantendo il rispetto della normativa nazionale, comunitaria e internazionale in materia di divieto di respingimento, rispetto dei diritti umani e delle categorie vulnerabili», incalza Valerio Neri, direttore generale per l'Italia di Save the Children.
Centinaia di bimbi di cui non si ha più notizie. Bambini lasciati alla mercé di organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di minori o di organi. Bambini costretti a vivere in lager, a in una quotidianità fatta di violenza, abusi, disperazione. In questi lager si affolla una umanità sofferente: decine di migliaia di persone.
Tra di loro anche donne e bambini, migranti economici e rifugiati politici. Molti di loro sono tenuti agli arresti senza processo, mentre altri sono stati abbandonati alla frontiera meridionale con Niger, Chad, Sudan ed Egitto andando incontro alla morte. La gran parte di queste persone giunge con trafficanti che le tengono ammassate in edifici dispersi per le campagne libiche, in attesa di organizzare un viaggio che si fa sempre meno sicuro e più difficile. La permanenza può durare mesi e mesi, in condizioni di sovraffollamento e alla mercé dei trafficanti dai quali si dipende in tutto. Talvolta queste persone possono essere scoperte e arrestate dalla polizia libica e finire quindi o in prigione o espulsi dal Paese, rischiando di morire nella traversata del deserto.
Di questa tragedia non tiene conto l' Accordo bilaterale tra Italia e Libia. Semmai l'aggrava. Tra il 5 maggio e il 7 settembre 2009 – denuncia ancora Save the Children sono stati 1.005 i migranti ricondotti in Libia nell’ambito di 8 operazioni effettuate dall’Italia (in particolare, 883 persone attraverso l’attività congiunta libico-italiana e 172 prese e riportate in Libia dalle autorità di Tripoli). Un numero non quantificabile di migranti respinti è costituito da bambini, come attestato anche da fonti Onu, e sulla base del monitoraggio dei flussi migratori arrivati via mare attraverso la frontiera Sud nei mesi e anni scorsi, nell’ambito dei quali la presenza di minori è costante.
«A partire dal 7 maggio 2009, in aperto spregio delle norme internazionali sui diritti umani, l'Italia ha trasportato forzatamente in Libia o altrimenti consegnato alle autorità libiche centinaia di donne, uomini e bambini, migranti e richiedenti asilo, che tentavano di raggiungere l'Europa imbarcandosi attraverso il Mediterraneo su mezzi di fortuna, rischiando la vita per sfuggire a persecuzioni, torture, altre violazioni dei diritti umani e condizioni di povertà estrema», ha denunciato Amnesty International in un suo recente rapporto.
«Il 75 per cento delle persone che arrivano in Italia via mare – prosegue il rapporto di Amnesty sono richiedenti asilo e, secondo l'Alto Commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), tra le persone rinviate in Libia sulla base di questa prassi vi erano cittadini somali ed eritrei, bisognosi di protezione. Nel luglio 2009, dopo aver incontrato le 82 persone intercettate all'inizio del mese dalla Marina Militare Italiana a 30 miglia da Lampedusa e trasferite forzatamente su una motovedetta a comando libico, lo stesso Unhcr ha dichiarato che non risultava che le autorità italiane a bordo della nave avessero cercato di stabilire la nazionalità delle persone coinvolte o le motivazioni della fuga. Di quel gruppo, smistato in centri di detenzione dopo l'arrivo in Libia, facevano parte 76 cittadini eritrei tra cui 9 donne e 6 bambini. Alcuni di loro hanno dichiarato all'Unhcr di aver avuto necessità di cure mediche in seguito all'uso della forza nei loro confronti da parte dei militari italiani e di non aver ricevuto cibo durante l'operazione, durata circa 12 ore. D'allora le cose sono ulteriormente peggiorate.
Secondo Fortress europe, l’osservatorio sulle vittime dell’emigrazione, nello scorso mese di marzo sono stati almeno 20 i morti alle frontiere del Mediterraneo, nonostante l’azzeramento degli sbarchi a Lampedusa e alle Canarie, in Spagna.
La Libia di Gheddafi, della cui amicizia si va vanto Berlusconi, è un Paese che non garantisce in alcun modo la protezione dei migranti sul suo territorio, anche in considerazione del fatto che non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra. ❖

l’Unità 13.4.10
Conversando con Marisa Rodano
Tra la guerra e gli anni Sessanta
Ragazze, la vostra libertà nacque in quell’età di cui non c’è memoria
di Maria Serena Palieri

L’altroieri
Nel ‘45 in Italia c’erano 12 milioni di casalinghe. Il 10% delle donne firmava con la croce
La rimozione
Dal primo ‘900 la lotta per i diritti ha avuto solo due cesure: il fascismo e l’oblìo storico di oggi

Perché le ragazze italiane di oggi rifiutano l’eredità del femminismo? La domanda ce la facciamo in molte da un bel pezzo. Ma è la prima volta che ascoltiamo una risposta esauriente come questa che ci dà Marisa Rodano. Primo, osserva, perché si sentono libere, da un lato, e, dall’altro, non sanno che la parità acquisita non è «naturale» ma ha richiesto battaglie durate decenni; secondo, perché condividono «paritariamente» coi coetanei maschi il grande dramma di questi anni, la precarietà; terzo, perché vivono, come tutti noi, in un’epoca segnata da un feroce individualismo. Marisa Rodano, 89 anni da poco compiuti, può dirlo perché prima «c’era». Memorie di una che c’eras’intitola il saggio in cui ricostruisce la storia dell’associazione di cui è stata nel ‘44-45 tra le fondatrici, l’Udi, e che ha presieduto dal ‘56 al ’60. Sono, i secondi Quaranta e soprattutto i Cinquanta e i primi Sessanta, gli anni, sotto questo aspetto, cruciali, ma anche più opachi e di cui si ha meno memoria. E sono quelli appunto che metteremo a fuoco in questo colloquio. Perché l’idea su cui si reggono le appassionanti 276 pagine di questo libro è che in Italia la lotta per la libertà femminile non sia esplosa ex-novo alla fine degli anni ‘60, quando il «personale» diventò «politico», come opinione comune oggi vuole, ma sia corsa lungo l’intera storia repubblicana, E che essa subisca oggi una totale rimozione.
Oggi, le chiediamo, le trentenni non avrebbero un tema enorme per cui lottare, la maternità impossibile? «È come se non l’avvertissero. Forse perché il modello televisivo impone un’altra idea di sessualità, dove la molteplicità dei rapporti è preferibile a una relazione duratura. E in un quadro così la maternità perde importanza» replica. Pensando a queste stagioni viene in mente la parola «beffa». Non è come se certe parole d’ordine di un tempo, per esempio «autodeterminazione», ci tornassero indietro capovolte? «Io ho l’impressione che siamo sotto un contrattacco grave. Gran parte delle conquiste legislative oggi sono diventate diritti inesigibili. Se c’è il precariato, quanto vale il divieto di licenziamento per matrimonio? E se non hai copertura previdenziale, cosa significa tutela della maternità?» ribatte.
Memorie di una che c’era ci rinfresca la memoria. L’Udi nasce nel 1945, a Firenze, col primo congresso. Dietro c’erano i Gdd, Gruppi di difesa della donna nell’Italia occupata e, al meridione, l’impegno di migliaia di donne nei circoli sorti dopo la liberazione di Roma ad opera del Comitato di Iniziativa fondato dalle donne dei partiti del Cln.
Nel ‘44 -‘46 quali furono i primi obiettivi?
«Il diritto di votare e di essere elette, conseguenza dell’impegno femminile nella Resistenza: le donne erano state catapultate nella sfera pubblica. Chiedevamo il seguito». Non era successo qualcosa di simile già nell’altra guerra, con le donne in fabbrica?
«Allora erano state precettate. La partecipazione alla Resistenza invece era stata volontaria. E di massa. Dopo la prima guerra mondiale si era creato un movimento di femministe cattoliche e laiche, per chiedere il voto, ma era un’avanguardia minoritaria. Poi si insediò il regime fascista, che operò una totale cancellazione di quella esperienza».
Nel ‘45-46 qualcuno ancora si azzardava a dire che le italiane non dovevano votare? «I favorevoli erano i partiti nuovi, azionisti, Pci, Psi, Dc. Altrove allignava un’ostilità appena mascherata. Non osavano dire “no”, ma rimandavano alla Costituente. Ma un’Assemblea tutta di maschi cosa avrebbe deciso? Nel ’45, 13 milioni di italiane erano casalinghe, il 10% firmava con la croce. Nel codice erano sanciti debito coniugale e delitto d’onore, il marito poteva vietare alla moglie di lavorare. C’erano donne nelle professioni. Ma era una cosa per ricchi. Io ho imparato allora, per diretta esperienza, che quando i diritti dell’uomo si affermano, lì comincia la battaglia per i diritti delle donne».
La Chiesa?
«Era per il sì. Pio XII nel discorso del 21 ottobre ‘45 dice chiaro, “Tua res agitur”. Perché pensava che le donne, praticanti, mentre gli uomini si erano distaccati dalla Chiesa, potessero operare a difesa della religione».
Nel libro riporti, con lo stupore incantato di allora, ragazza da poco iscritta al partito, il discorso di Togliatti l’8 settembre ‘46. Denunciava la «mentalità arretrata» della base e dei quadri. Quanto maschilismo c’era, nel Pci?
«Non è che aver fondato il Pci cambiasse dall’oggi al domani la testa della gente». Iotti, Merlin, Noce, Federici, Montagnana... Ventuno donne su 556, cinque di loro nella Commissione dei 75. Nella Costituente erano abbastanza per scrivere una Carta all’altezza? «Le formulazioni su famiglia, parità, diritto al lavoro, furono praticamente scritte da loro. Oggi,scriveremmo diversamente l’articolo 3, lì dove il sesso è accomunato a razza, lingua, religione, opinioni politiche. Ma la nostra Costituzione è straordinaria. Pur se largamente inapplicata». Tra il ‘45 e il ‘47 l’Udi era impegnata su cose praticissime: i prezzi del cibo e la casa. E, prima su tutte, per i bambini. Era naturale, allora, questo «maternage» politico di massa? Che parlando di donne si parlasse in primis di figli?
«Nello statuto, adottato al I Congresso, l’Udi aveva come obiettivi l’”elevazione” delle donne, la tutela dei loro diritti nel lavoro, la difesa delle famiglie e i problemi dell’infanzia. Dai bambini proprio non potevi prescindere. Ricordo che ce n’erano dappertutto, ai comizi, alle manifestazioni. E, per avere rapporto con le donne più semplici, un’organizzazione di massa doveva occuparsene, la richiesta veniva da loro».
Tra il ‘47 e il ‘53 avviene una strana eclissi: scompare la parola «diritti». E il suo posto viene pre-
so dalla parola «pace». La Guerra Fredda cancella la specificità femminile? «Sì, e fu un errore. Al congresso del ‘47, con la rottura del fronte antifascista, e la minaccia della bomba atomica, l’Udi cambia linea e si schiera col Fronte Democratico Popolare. Hanno il sopravvento i cosiddetti temi generali. Si butta tutto nella battaglia elettorale. Per vincere. Invece perdiamo».
Nel ‘56, al congresso in cui diventi presidente dell’Udi, nella tua relazione la parola «emancipazione» torna. S’accompagna a una proposta scioccante: le donne devono unirsi sulla base “esclusiva” dei loro interessi. Addio ai partiti? «Merito, molto, fu di Nilde Iotti, all’Udi da tre anni. Ma dopo anni di scontro frontale far digerire l’idea che l’appartenenza fosse al genere e non al partito non era facile. Non ci aiutò il contesto: crisi di Suez, Ungheria. Il documento non potè essere adeguatamente discusso. Aiutò invece l’VIII Congresso del Pci».
«Emancipazione» è stata una parola messa a processo poi dal femminismo. Per voi cosa significava? Le donne dovevano emanciparsi come avevano fatto gli schiavi?
«Significava conquistare il diritto a lavoro, indipendenza economica, autodeterminazione. Uscire dalla schiavitù del destino servile, secondario, segnato per nascita». Dopo il Sessantotto che aveva messo in discussione tutto lo status quo, famiglia e scuola, partiti e sindacato, le «figlie» le neofemministe si ribellarono appunto a queste «madri». E nell’81 l’Udi, in quanto organizzazione di massa, si scioglie. «Noi abbiamo tardato a capire la novità del femminismo. Ma il femminismo ha sbagliato a ridurre la nostra battaglia per i diritti a una lotta per l’omologazione» commenta oggi Marisa Rodano. La storia continua così: i semi della Carta germinano, tutela della maternità, parità salariale, accesso alle carriere, tutela del lavoro a domicilio, lotta alle discriminazioni indirette, servizi sociali, standard urbanistici, diritto di famiglia, divorzio, aborto, violenza sessuale... C’è una parola che lega il movimento delle donne nel corso di tutto il Novecento, chiediamo? « Forse non solo una: libertà, ma anche diritti, parità, autodeterminazione».❖

il Fatto 13.4.10
L’onda nera dell’Europa: la riscossa di chi odia gli stranieri
In Ungheria l’estrema destra xenofoba sfiora il 17 per cento
di Alessandro Oppes

Il partito Jobbik si è fatto largo criminalizzando ebrei, Rom, gay e impugnando il nazionalismo magiaro
Era tutto previsto. Se un’inquietante ondata di involuzione reazionaria percorre l’Europa da ovest a est, è proprio nei paesi dell’ex blocco sovietico che l’allarme si è fatto, negli ultimi tempi, ancor più assordante. E l’Ungheria, con la brusca virata a destra delle elezioni di domenica, assume l’imbarazzante leadership continentale del razzismo e della xenofobia. Dietro i conservatori del Fidesz, che portano trionfalmente alla guida del governo il loro leader Viktor Orban con oltre il 52 per cento dei voti, spunta l’incubo fascista del partito Jobbik, per la prima volta in Parlamento con una valanga di consensi: addirittura a circa il 17 per cento, a breve distanza dai socialisti, protagonisti di un tonfo clamoroso. E ora il giovane leader del movimento di estrema destra, il 31enne Vona Gábor, annuncia già che prenderà possesso del suo seggio parlamentare indossando la divisa del Magiar Garda (guardia magiara), il braccio paramilitare – in teoria proibito – del partito.
Si sono fatti largo sulla scena politica con un messaggio semplice e metodi spicci, in un clima di scontento generalizzato per le conseguenze della crisi economica che ha colpito duramente l’Ungheria. Propongono una revisione del Trattato di Lisbona mentre, all’insegna dello slogan “ordine e disciplina”, si battono per uno Stato forte e il ripristino dei confini precedenti al 1920. Dicono di coltivare il sogno della “grande nazione ungherese”, quella che scomparse con la Prima Guerra Mondiale. Ma, aldilà di questo progetto illusorio, quello che preoccupa di più è il loro discorso razzista e xenofobo: gli ebrei, gli omosessuali e soprattutto i rom sono i nemici da combattere, responsabili, nella perversa concezione di Jobbik, di tutti i crimini più efferati: omicidi, rapine, sfruttamento della prostituzione. Dopo il risultato del voto ungherese, il vero timore che percorre le cancellerie di mezza Europaècheilfenomenosipossa propagare. Anche perché i segnali inquietanti non mancano. Nelle scorse settimane, era stato lo studio di un “think tank” con sede proprio a Budapest, Political Capital, a lanciare l’allarme: tra il 10 e il 25 per cento dei cittadini di Bulgaria, Romania, Ungheria e Lettonia accettano le idee diffuse dai partiti di estrema destra, basate sulla xenofobia, l’antisemitismo, il nazionalismo esasperato, la lotta anti-sistema e il protezionismo economico. Un fenomeno che è legato in parte alla crisi economica, ma non solo. A vent’anni dalla caduta dei regimi comunisti, comincia a farsi sentire in maniera pesante anche lo scontento verso la classe politica che li ha sostituiti. Ad esempio, in Bulgaria (dove il partito nazionalista Ataka ha sfiorato alle ultime europee il 10 per cento dei consensi con la sua dura campagna anti-rom e contro la minoranza turca) quasi un quarto dei cittadini vedono con simpatia le idee di estrema destra. Percentuali preoccupanti anche in Romania (dove circa il 14 per cento si dice pronto a votare il Partito della Grande Romania, oggi attestato a poco meno del 9 per cento) e in Lettonia (11,6). A Bucarest, il Prm unisce nel suo slogan economia e religione: “Cristiani e patrioti per liberare il paese dai ladri”. Mentre nella repubblica baltica, dovesieranodovuteflessibilizzare le politiche restrittive rispetto ai diritti civili e democratici per ottenere l’ammissione alla Ue, negli ultimi tempi si è tornati all’antico: oggi ci sono ancora 350mila persone di etnia slava considerate apolidi, visto che a loro viene negato il diritto di cittadinanza. Sembra migliorare invece sensibilmente la situazione di altri paesi come la Polonia – il più importante tra gli attuali soci Ue dell’ex-blocco sovietico – che fino al 2003 era su posizioni simili a quelle dell’Ungheria, mentre oggi ha una quota di potenziali estremisti limitata al 6,5 per cento. Sul caso polacco pesa tuttavia l’incognita della recente tragedia aerea in cui ha perso la vita il presidentedellaRepubblicaLech Kaczynski. Se, sull’onda dell’emozione, il fratello gemello Jaroslaw si dovesse candidare per prenderne il posto, si ripresenterebbe con ogni probabilità anche in quel paese il rischio di un’involuzione reazionaria. Nel periodo durante il quale guidò il governo di Varsavia, Jaroslaw Kaczynski fu protagonista di una svolta anti-europea, nazionalpopulista e omofoba che creò non pochi grattacapi alle istituzioni comunitarie. Dove scatterà la prossima emergenza? In Slovacchia si prevede già che i nazionalisti radicali del Sns riusciranno a ottenere un buon risultato alle legislative del 12 giugno, che permetterà loro di restare nel governo di coalizione di destra. Ma l’incubo dell’estremismo non risparmia l’Europa occidentale. A parte i successi della Lega nel nord in Italia, persino un paese tradizionalmente tollerante come l’Olanda potrebbe consegnare la maggioranza parlamentare, il prossimo 9 giugno, al Pvv, il Partito della Libertà anti-islamico di Geert Wilders. E la febbre xenofoba contagia anche il Regno Unito dove gli estremisti del British National Party (Bnp) sono riusciti a portare, lo scorso anno, due parlamentari a Strasburgo, mentre in Grecia i razzisti di Allarme Popolare Ortodosso (Laos) mietono consensi con i loro 15 deputati.

lunedì 12 aprile 2010

l’Unità 12.4.10
Accuse sul web. Sul sito Pontifex attacchi contro i «giudei deicidi». Monsignor Babini: «Mai detto»
I rabbini Usa. Lettera di David Rosen alla Cei: condannate questi calunniosi stereotipi
New York Times: «Abusi, scisma emotivo Il Papa è moralmente compromesso»
«Pedofilia, campagna sionista» Bufera sul vescovo italiano
Scandalo pedofilia? Una manovra di massoni e «giudei deicidi». Ebrei Usa furiosi per le dichiarazioni del vescovo di Grosseto, chiedono l’intervento della Cei. E arriva la smentita di mons. Babini: «Mai detto».
di Marina Mastroluca

Basta cospargersi il capo di cenere, la Chiesa non ha nulla da farsi perdonare. Se è sotto attacco è per colpa di una macchinazione di massoni ed ebrei. Ebrei sì, giudei «deicidi», che hanno mandato Cri-
sto sulla croce e fatto perdere la pazienza ad Hitler: «La Germania era stanca delle angherie di chi praticava tassi di interesse da usura». «L’Olocausto fu una vergogna», ma sotto sotto sono stati loro, gli ebrei, a tirare la corda fino a farla spezzare.
A parlare non è il leader di qualche sigla d’ultradestra, in odor di nazismo. E no. Sotto la vemenza, c’è sentore di incenso. A parlare con un’intervista sul sito Pontifex, è monsignor Giacomo Babini, vescovo emerito di Grosseto non nuovo ad esternazioni estremiste (contro l’islam e i gay, tanto per dire). Lui smentisce, non appena la notizia torna indietro come un boomerang, dopo aver varcato l’Atlantico e fatto infuriare il Comitato ebraico americano, Ajc, che ha chiesto formalmenteai vescovi italiani una condanna senza appello. «Chiediamo alla Conferenza episcopale italiana di condannare categoricamente questi calunniosi stereotipi, che tristemente richiamano la peggiore propaganda nazista e cristiana prima della Seconda guerra mondiale», sono le parole categoriche del rabbino David Rosen, direttore internazionale per gli affari religiosi dell’Ajc.
Ed in effetti le affermazioni di Babini, pubblicate su quello che gli ebrei Usa definiscono un «sito cattolico di estremisti di destra», sembrano distillate da vecchi luoghi comuni della storia, come stelle gialle cucite sui cappotti, per cancellare l’ombra dello scandalo pedofilia ridotto ad una manovra altrui. «Ritengo che sia maggiormente un attacco sionista, vista la potenza e la raffinatezza, loro non vogliono la Chiesa, ne sono nemici naturali. In fondo storicamente parlando i giudei sono deicidi», spiega il vescovo. E aggiunge: «La loro colpa fu tanto grave che Cristo premonizzò quello che sarebbe accaduto loro con il non piangete su di me, ma sui vostri figli». Come se l’orrore dei lager fosse il segno di una colpa da espiare. «Non crediate che Hitler fosse solo pazzo insiste mons. Babini . La verità è che il furore criminale nazista si scatenò per gli eccessi e le malversazioni economiche degli ebrei che strozzarono l’economia tedesca». Quindi, se di macchinazione si tratta, perché pretendere che la Chiesa chieda perdono? «Di perdono ne abbiamo chiesti troppi». E giù, tirando in ballo già che si trovava anche la lobby gay.
«MONDI SENZA DONNE»
Già aveva sollevato critiche il paragone azzardato da padre Cantalamessa tra le accuse alla Chiesa per i preti pedofili e la persecuzione anti-semita, ma stavolta è qualcosa di persino più grave. Il Comitato ebraico americano chiede «tolleranza». E mons. Paglia, presidente della Commissione per il dialogo e l’ecumenismo, si affretta a prendere le distan-
ze, dichiarando che la Chiesa non la pensa come il vescovo di Grosseto. Il quale a metà giornata fa arrivare una smentita attraverso un comunicato diffuso dalla stessa Cei, sostenendo che «in alcun modo ho espresso simili valutazioni e giudizi da cui prendo nettamente le distanze».
Insomma uno scandalo nello scandalo. E mentre il cardinal Bagnasco esprime vergogna e sostiene la condanna «dentro e fuori la Chiesa» anche di chi ha coperto i preti pedofili dovrà «avere come effetto l’allontanamento» delle persone coinvolte dall’America arriva una nuova reprimenda dalle pagine del New York Times. La columnist Maureen Dowd critica i silenzi colpevoli e parla di «peccato mortale», del vizio di fondo di un «mondo senza donne». «La Chiesa scrive ha avuto scismi teologici. Questo è uno scisma emotivo. Il Papa è moralmente compromesso. Ve lo dice una sorella».

l’Unità 12.4.10
Dopo lo scandalo pedofilia
La Chiesa ha una sola strada, la chiarezza
di Don Enzo Mazzi

Le vittime della pedofilia del clero chiedono che il papa apra finalmente gli archivi vaticani e quelli diocesani. Piena luce e non solo parole o provvedimenti tardivi contro gli abusi: è questa la richiesta pressante che sale da tutto il mondo. E non solo dalle vittime dirette. Tutti ci sentiamo e siamo in qualche modo vittime di questo immenso scandalo che investe la Chiesa cattolica. E tutti chiediamo luce. Sin dal medioevo l'impresa araldica dei Papi fa vedere insieme allo stemma di famiglia o personale del pontefice due chiavi, in segno della trasmissione di ciò che viene formalmente denominato il "potere delle chiavi". E le parole di Cristo a Pietro, "A te darò le chiavi..." sono scritte in nero su oro con lettere cubitali sul cornicione della navata della Basilica di S. Pietro. Ebbene, è il momento di usarle queste chiavi non solo per condannare o assolvere i peccati del mondo ma anche per sradicare quelli della Chiesa incominciando con l’aprire la segretezza degli archivi. È sentire comune che sia un grande errore questo imponente arroccamento in difesa dell’istituzione ecclesiastica e della persona del papa. Anzi è l’errore di fondo. Non è l’istituzione o la gerarchia che va difesa ma le vittime. C’è un dissenso diffuso verso questa ostensione di potere da parte dei vertici vaticani, come fossimo ancora in pieno medioevo al tempo degli scontri fra papato e impero. È un dissenso che penetra, per ora larvatamente, fra gli stessi vescovi. Si manifesta solo in alcune situazioni più aperte. Ad esempio in Francia dove l’arcivescovo di Poitiers, mons. Albert Rouet, esplode scrivendo su Le Monde del 4 aprile. “Ogni sistema chiuso, idealizzato, sacralizzato è un pericolo. Quando una istituzione, compresa la Chiesa, si erge in posizione di diritto privato e si ritiene in posizione di forza, le derive finanziarie e sessuali diventano possibili. È quanto rivela l'attuale crisi e questo ci obbliga a tornare all'Evangelo: la debolezza del Cristo è costitutiva del modo di essere Chiesa. Bisogna scendere dalla montagna, scendere in pianura, umilmente”. Sono anni che la chiesa conciliare dice queste cose. Il cardinale Giacomo Lercaro, nel 1967, fu “dimissionato” da vescovo di Bologna per aver detto cose simili. Da allora fu uno stillicidio di rimozioni, sospensioni, scomuniche contro comunità e preti che praticavano e annunciavano la dimensione profetica della povertà, della debolezza, della trasparenza, della democrazia di base, del non-potere. Mentre verso i preti pedofili si usava “cura paterna”, si coprivano i loro misfatti e si lasciavano sconsideratamente in mezzo ai bambini. La chiesa dei Lercaro e delle comunità di base fu chiamata dispregiativamente “chiesa del dissenso”. È venuto forse il tempo del suo riscatto. Se la Chiesa cattolica vuol rinnovarsi non resta che affidarsi alla dimensione profetica tenuta viva da queste realtà che si rivelano una grande risorsa.

Repubblica 12.4.10
La Chiesa e il peccato contro la verità
di Adriano Prosperi

La scelta è tra la verità senza veli e la ragion di Stato, tra la tutela delle vittime e l´omertà
La questione non sono le colpe dei singoli religiosi. A quelle penseranno i tribunali

La Chiesa di Roma è oggi al centro di una grande tempesta, per le responsabilità di sacerdoti colpevoli di pedofilia e per quelle delle autorità centrali, accusate di averli coperti.
Nell´alterco tra chi la difende e chi l´accusa c´è il rischio che la sostanza del problema passi in secondo piano. Anche se certe reazioni sono davvero allarmanti e a loro modo rivelatrici. Si pensi ai rigurgiti di antisemitismo e di filonazismo nelle incredibili dichiarazioni odierne di un qualsiasi monsignor Babini. Sono episodi che mostrano quanto sia urgente una chiara presa di posizione del governo centrale della Chiesa sulla sostanza del problema. La scelta non riguarda la minuta casistica dei preti pedofili, per tanti che siano. Questo sarà materia di tribunali. La scelta davanti alla quale le autorità ecclesiastiche si trovano è quella tra la verità senza veli e la ragion di Chiesa, tra la tutela delle vittime e l´omertà verso gli aguzzini, tra la giustizia da rendere a chi ha patito offesa e una malintesa fedeltà all´istituzione. Solo abbracciando la verità e la giustizia senza riserve e senza infingimenti il governo della Chiesa potrà ancora parlare alla coscienza dei cristiani e potrà riaprire quel filo di comunicazione con l´umanità intera che oggi rischia di spezzarsi. Il prezzo da pagare è liquidare le residue incrostazioni di un passato che stenta a passare.
Quell´eredità la conosce meglio di chiunque altro l´attuale Pontefice: per esperienza che immaginiamo anche tormentosa e problematica, e comunque per precisa responsabilità istituzionale. Non dimentichiamo certo che è stato lui il primo a parlare pubblicamente di sporcizia nella Chiesa. Perciò quello che oggi si attende è un segno di discontinuità tra il prefetto della Congregazione vaticana per la dottrina della Fede e il pontefice della Chiesa universale. Sappiamo come e perché nelle carte d´ufficio di quella congregazione la sporcizia si sia accumulata e perché chi sporcava sia stato coperto dal segreto. È stato l´esito del trascinamento nel nostro tempo degli esiti della lunga guerra di religione tra i cristianesimi europei. «Taci, il nemico ti ascolta». Quando c´è un nemico c´è una guerra: e la prima vittima della guerra è la verità. La paura che la conoscenza della verità incrinasse le basi del consenso popolare ha creato le condizioni perché il corpo ecclesiastico facesse quadrato intorno ai suoi membri. Così furono creati tribunali segreti e concessi privilegi speciali alla parte ecclesiastica della Chiesa. Quei tribunali nascosero le colpe del clero nel momento stesso e con gli stessi strumenti con cui lo obbligavano a un´immagine pubblica di alto profilo morale e culturale.
Alla Chiesa spetterebbe l´ufficio di rimettere i peccati, al potere dello Stato quello di punire i crimini. È un argomento che alcuni usano in chiave apologetica affermando che non spetta oggi alla Chiesa il compito di punire i criminali. Ma lo si può rovesciare: è compito della Chiesa ritrovare oggi una distinzione valida e adatta ai tempi fra peccato e reato. E c´è un peccato contro la verità che incombe sulla Chiesa. Non è in discussione l´impulso criminale dei pedofili, in quanto tale diffuso tra chierici e laici, ma il crimine creato da una legge speciale che ha fatto del sacramento dell´Ordine sacro e della licenza di confessore un privilegio corporativo. Bisogna che le regole sbagliate siano cancellate. Sono le vittime che debbono tornare al primo posto, non i carnefici. Se la giustizia della Chiesa vuole rientrare in contatto con la giustizia degli uomini e con quella di Dio questa è la priorità. Non più coperture di segreto e licenze di libera circolazione a lupi coperti dall´abito talare. La legge della Chiesa deve saper rispondere all´idea di giustizia di una società che chiede trasparenza, che pone al vertice dei suoi valori la tutela dell´infanzia, che non capisce più la sopravvivenza di recinti arcaici, dalle barriere del diritto canonico al segreto speciale che ha celato finora i criminali del «crimine pessimo».
La questione che si è aperta è un segno dei tempi, fra tutti il più terribile e sconvolgente. Per questo tutti attendiamo di vedere come la Chiesa reagirà. La tentazione di minimizzare o di alzare il polverone difensivo dell´accusa di complotto può essere una reazione istintiva, ma come difesa non porta lontano. Insistere ancora su questa strada significherebbe ignorare la sostanza terribile del delitto nefando, il bisogno di verità e di giustizia che unisce credenti e non credenti. Dopo le avvisaglie di tanti episodi recenti in cui si è letto un ritorno di fiamma della Controriforma, questo caso mette oggi all´ordine del giorno un´emergenza suprema e assoluta. Essa riguarda il rapporto tra chiesa e secolo, papa e mondo, fede e democrazia. Gli uomini di buona volontà, le culture democratiche e laiche hanno dimostrato di avere capito l´apertura confidente del Concilio Vaticano II ai fondamenti della coscienza moderna. E tutti sanno con quanto interesse sia stata accolta la decisione di papa Wojtyla di fare del giubileo del 2000 l´occasione per voltar pagina rispetto alle pesanti eredità dell´antisemitismo, dell´intolleranza e della violenza in materia di fede. Ma su quella strada come su ogni percorso della vita e della storia si può sempre scegliere se andare avanti o tornare indietro. E quali abissi si riaprano se si torna indietro, il caso del vescovo emerito mons. Babini basta a mostrarlo.

Repubblica 12.4.10
La provocazione degli atei inglesi "Arrestiamo il Papa come Pinochet"

LONDRA - Far arrestare Benedetto XVI durante la futura visita in Gran Bretagna - in programma tra il 16 e 19 settembre - per «crimini contro l´umanità». È l´ultima provocazione di Richard Dawkins e Christopher Hitchens, intellettuali e militanti del movimento ateo britannico. I due hanno chiesto ad alcuni esperti di diritti umani di preparare l´accusa e chiedere l´incriminazione del Pontefice sulla base del presunto insabbiamento architettato per coprire le responsabilità della Chiesa Cattolica nello scandalo degli abusi sessuali ai danni di minori.
«Stiamo parlando di un uomo - ha detto Dawkins al Sunday Times - il cui primo impulso, quando i suoi preti vengono pizzicati con le braghe calate, è quello di coprire lo scandalo e condannare la giovane vittima al silenzio». «Quest´uomo - gli ha fatto eco Hitchens - non è né al di sopra né al di fuori della legge». La coppia di intellettuali sostiene di poter sfruttare il medesimo principio usato per arrestare il dittatore cileno Augusto Pinochet durante la sua visita del 1998. In Gran Bretagna esistono precedenti illustri di questo tipo. L´anno passato, infatti, attivisti pro-palestinesi erano riusciti a ottenere l´emissione di un mandato di arresto ai danni dell´israeliana Tzipi Livni sulla base di sospetti crimini commessi durante il conflitto a Gaza del 2008-2009.

Repubblica 12.4.10
Una sfida sul destino della democrazia
di Stefano Rodotà

È mai possibile che si accetti senza reagire una politica che si manifesta con la distorsione dei fatti, l´aggressione alle istituzioni, l´esibizione di un potere ispirato da una logica autoritaria?
Questi sono i temi nitidamente posti da Eugenio Scalfari, e conviene seguire la strada da lui indicata tornando su alcune delle cose dette sabato dal presidente del Consiglio ad una platea di imprenditori. E tuttavia, prima di seguire Berlusconi lungo l´abituale suo itinerario di aggressioni e vanterie, bisogna sottolineare la novità rappresentata dai tre fatti gravissimi narrati da Scalfari, rivelatori non tanto di una inammissibile doppiezza, ma di un sistematico mentire al presidente della Repubblica, che configura un caso clamoroso di slealtà costituzionale. Mentre Giorgio Napolitano si adopera per creare un clima propizio per una riforma rispettosa della Costituzione, Silvio Berlusconi tiene comportamenti pubblici e privati che mettono in discussione la funzione esercitata dal presidente e gli lancia una sfida che può sfociare in un gravissimo conflitto al vertice delle istituzioni.
A Parma il presidente del Consiglio si è descritto come prigioniero di lacci e lacciuoli che gli impediscono un´azione efficace, come se non avesse una maggioranza parlamentare senza precedenti nella storia repubblicana e come se non avesse nei fatti mostrato che, quando le convenienze lo spingono, è in grado di far approvare rapidamente qualsiasi provvedimento. Ha imputato l´origine della crescita del debito pubblico ai "governi del compromesso storico", mentre proprio gli imprenditori dovrebbero sapere che quella vicenda comincia con il governo Craxi, un politico dal quale l´attuale presidente del Consiglio non era poi così lontano. Ha detto meraviglie di riforme che si sa bene che non saranno in grado di produrre i miracoli che ad esse vengono associate. Ma soprattutto ha descritto la Presidenza della Repubblica come un luogo che interferisce impropriamente nell´azione di governo, controllando «minuziosamente anche gli aggettivi» dei provvedimenti. E per l´ennesima volta ha definito la Corte costituzionale un "organo politico", che sta lì per smantellare la legislazione che non piace ai pubblici ministeri e ai giudici di Magistratura democratica. Un attacco frontale è stato così portato alle due istituzioni che in questo periodo hanno garantito la legalità costituzionale.
Quest´insieme di falsificazioni è il frutto di una strategia deliberata, basata sulla ripetizione degli stessi concetti e delle stesse parole, ispirata all´antica regola "calunniate, calunniate, qualcosa resterà". In questo modo si è già creato un perverso senso comune, al quale si fa appello nel momento in cui si deve raccogliere consenso. E ora, gonfiate le vele dal vento elettorale, si pensa di poter portare tutto all´incasso. Che cosa si sta facendo per contrastare questa che non è soltanto una strategia comunicativa, ma una sempre più pesante strategia politica?
L´obiettivo di Berlusconi è chiaro e ormai esplicitamente dichiarato. Spazzar via tutte le garanzie e i controlli che "disturbano il manovratore", concentrare il potere nelle mani di una sola persona, invocando quel che accade in altri paesi europei, ma ignorando del tutto i contrappesi che lì esistono. Così, quello che con approssimazione viene chiamato semipresidenzialismo si presenta come concentrazione di potere nelle mani di una sola persona. Non a caso si rifiuta ogni modifica della legge elettorale, che si è rivelata un docile strumento per avere parlamentari scelti dall´alto, vanificando proprio quella sovranità dei cittadini alla quale Berlusconi strumentalmente si richiama quando vuole avere le mani libere da qualsiasi controllo. Si scoprono le carte a proposito della riforma della magistratura. Viene annunciata una antidemocratica riforma elettorale del Csm. La separazione delle carriere dovrebbe portare alla creazione di due consigli superiori, uno per i magistrati e l´altro per i pubblici ministeri, quest´ultimo presieduto dal ministro della Giustizia. Dalla proclamazione della volontà di cancellare la politicità della pubblica accusa si passerebbe così ad un controllo politico, anzi governativo, dei pubblici ministeri con l´evidente possibilità di distogliere il loro sguardo da indagini che potrebbero riguardare chi è vicino alla maggioranza e di indirizzare la loro azione verso chi si muova in modo sgradito al potere.
A Berlusconi la democrazia dà fastidio, e non a caso annuncia un plebiscito. Non vuole una riforma, vuole un referendum sulla "sua" riforma. Un referendum che inevitabilmente spaccherebbe il paese, e farebbe percepire la nuova architettura costituzionale come il progetto di una parte, nella quale gli altri non potrebbero riconoscersi. Dalle riforme condivise si passerebbe alle riforme "divisive".
Avendo deciso di imboccare questa strada, Berlusconi ha fatto una mossa che, per chi conosce la sua attenzione per il sistema della comunicazione, era prevedibile. Si è materializzato su Facebook. Da tempo, e non solo in Italia, si sottolinea che Internet non è di per sé uno strumento di democrazia e che, anzi, proprio l´insieme delle nuove tecnologie può dare sostegno al crescente populismo.
Si torna così all´interrogativo iniziale. Come contrastare questa pericolosa deriva? Contare solo sulla dialettica interna alle forze politiche, sperare nel dissenso dei finiani, cercare pontieri tra maggioranza e opposizione perché la minacciata eversione costituzionale venga ricondotta nel più ragionevole alveo della "buona manutenzione costituzionale"? Guardiamo pure in questa direzione, anche se la sconsolata ammissione del pontiere per eccellenza, Gianni Letta, riferita da Eugenio Scalfari, non autorizza alcun ottimismo.
Il compito dell´opposizione si è fatto più difficile, perché non basta contrapporre una bozza Violante ad una bozza Calderoli. Bisogna contrastare Berlusconi sul terreno che lui stesso ha scelto, quello della mobilitazione dell´opinione pubblica che dovrebbe sostenere l´impresa di riforma. Ma bisogna fare un passo oltre la registrazione di questa difficoltà, mostrando a tutti che cosa sia effettivamente diventata la questione della riforma costituzionale: una sfida sul destino della democrazia italiana.
Se così stanno le cose, vi è una responsabilità più ampia di quella che riguarda partiti e gruppi di opposizione. Vi è una responsabilità collettiva legata ad una cittadinanza attiva, alla necessità che tutti prendano la parola. La difesa della democrazia non è stata mai affidata a maggioranze o minoranze "silenziose". Proprio perché le tecnologie hanno fatto diventare "continua" la democrazia, continua dev´essere pure l´azione dei cittadini. E oggi il silenzio si rompe in molti modi, da quelli tradizionali a quelli che si affidano alla faccia democratica delle tecnologie, né plebiscitaria né populista. Di tutto questo bisogna parlare, per non lasciare solo il Presidente della Repubblica nella difesa della Costituzione, per scongiurare un cambiamento di regime, per non rassegnarsi al destino di spettatori. Esattamente quello che il Cavaliere vuole.

l’Unità 12.4.10
L’Ungheria alla destra, tracollo socialista
Il partito xenofobo entra in Parlamento
Per gli exit poll il partito conservatore dell’ex premier Orban al 56%. Il Partito socialista al 20%
Il partito Jobbik strappa il 15%. Nel suo programma guerra ai Rom, agli ebrei e aicomunisti
di Marco Mongiello

Il vincitore. Ammira Berlusconi ha promesso 1 milione di posti di lavoro

Il partito conservatore Fidesz dell’ex premier Viktor Orban per i primi exit poll avrebbe vinto le elezioni politiche ungheresi. Il partito socialista al governo crolla al 20%. Fa il pieno l’ultradestra xenofoba.

La sinistra ha rimesso in ordine i conti pubblici, ma è stata sconfitta da un uomo che ha promesso meno tasse e un milione di nuovi posti di lavoro, mentre l'estrema destra razzista dilaga e per la prima volta entra in Parlamento.
La storia suona familiare ma il Paese in questione è l'Ungheria. Ieri il primo turno delle elezioni legislative ha cancellato dalla mappa dell'Europa uno dei pochi governi socialisti per consegnare la Nazione ai conservatori del Fidesz, il partito guidato da Viktor Orban.
AMPIA MAGGIORANZA
Dopo il secondo turno del 25 aprile il leader conservatore potrà tornare a Budapest per sedersi sulla poltrona del Primo ministro con una maggioranza che si prevede molto ampia.
Già premier dal 1998 al 2002, Orban ha convinto i dieci milioni di ungheresi promettendo di «far uscire il Paese dalla disperazione». Dopo le speranze suscitate dall' adesione all'Unione europea nel 2004 infatti l'Ungheria è stato uno dei primi Paesi a crollare a causa della crisi economica globale scoppiata nell'autunno del 2008. Per evitare la bancarotta Bruxelles e l'Fmi sono intervenuti con un prestito di oltre 20 miliardi di euro e il Governo socialista, al potere per otto anni, si è impegnato a risanare e riportare il deficit entro limiti accettabili a suon di tasse, tagli di tredicesime e della spesa pubblica.
Oggi l'Ungheria è una Paese stremato da una recessione che l'anno scorso ha superato il 6% del Pil e una disoccupazione che ha superato l'11%.
Orban, che è un ammiratore di Berlusconi, ha promesso di abbassare le tasse da subito, anche se il suo responsabile dell'economia ha già rimandato al 2011, e ha promesso un milione di nuovi posti di lavoro in dieci anni, anche se al prezzo di far risalire nuovamente il deficit e di rimandare l'entrata nell'Euro prevista per il 2014.
PUNITA LA SINISTRA
I socialisti invece pagano un crollo di immagine, dovuto anche ad una serie di scandali, che negli ultimi anni è stato senza sosta, al punto da costringere il Premier Ferenc Gyurcsány a dare le dimissioni a marzo 2009 per essere rimpiazzato dal «tecnico» Gordon Bajnai.
Per riconquistare la fiducia degli elettori il Partito socialista ha presentato un candidato di 35 anni, Attila Mesterhazy, ma la caduta è stata comunque spettacolare, dal 43% del 2006 a circa il 20% dei voti. Evitato comunque il temuto sorpasso da parte dell'estrema destra del Jobbik.
Il vero vincitore di queste elezioni è Gabor Vona, il leader trentaduenne dello Jobbik o il «Movimento per un'Ungheria migliore». Al grido di «Ungheria agli ungheresi» Vona ha cavalcato il populismo e il razzismo dilagante in Europa arrivando a piazzarsi poco distante dai socialisti come terza forza del Paese.
Tra i tanti movimenti di estrema destra europei quello ungherese è tra i più aggressivi. Oltre al partito, nato el 2003, Von ha fondato la «Guardia Magiara», un'organizzazione paramilitare già dichiarata illegale e rinata con un altro nome. Le marce, le divise, le violenze contro i Rom e i simboli richiamano esplicitamente il nazismo. Una cosa che non ha impedito a Vona di far eleggere tre eurodeputati al Parlamento europeo l'anno scorso. Nel suo programma non manca niente del tipico menu dell' estrema destra: i nemici sono i Rom, gli ebrei e i comunisti, ma anche le multinazionali e le banche.Proprio ieri un rapporto divulgato dal Centro studi dell'Università di Tel Aviv sull'antisemitismo ha messo in guardia contro il moltiplicarsi di violenze contro gli ebrei e contro il dilagare dell'estrema destra, mentre il Centro Simon Wiesenthal ha puntato il dito contro alcuni Paesi, tra cui l'Ungheria, dove i criminali di guerra nazisti continuano a vivere nell'impunità.

l’Unità 12.4.10
Basaglia insegna
La denuncia. Il giornalista Kazuo Okuma e la sua esperienza infernale in un ospedale psichiatrico
Il dramma. Nel suo paese esistono quasi solo strutture private e gli internati sono in aumento
I manicomi non curano Il Giappone studia il modello italiano
Grazie al coraggio di un giornalista e alle denunce dei familiari dei malati, in Giappone c’è una spinta a copiare la nostra 180. Una delegazione del Sol Levante è in visita in Italia per capire come funziona
di Cristiana Pulcinelli

Kazuo Okuma in Giappone è un uomo conosciuto. Per trent’anni ha lavorato come giornalista del più importante quotidiano giapponese, Asahi Shimbun, ed è autore di un libro che negli anni Settanta ha suscitato un certo clamore: Reportage da un padiglione manicomiale. Kazuo vi raccontava la sua odissea all’interno di un ospedale psichiatrico in cui si era fatto ricoverare fingendosi alcolista e da cui aveva faticato non poco ad uscire. Da quella esperienza Kazuo ha maturato l’idea che il manicomio fosse un luogo infernale, «ma non vedevo alternative racconta fino a che non ho saputo che in Italia era stata varata una legge che prevedeva l’abolizione dei manicomi».
Da questo incontro con la riforma italiana è nato un altro libro, Il Giappone dei manicomi e l’Italia senza manicomio, con il quale Kazuo ha vinto il premio Franco Basaglia istituito dalla Provincia di Venezia e dalla Fondazione Franca e Franco Basaglia. Ora l’autore è in Italia insieme a una delegazione giapponese formata da psichiatri, operatori sanitari, familiari di pazienti. Vengono a studiare il modello italiano. Ma hanno anche voglia di raccontare il dramma dei pazienti con problemi di salute mentale nel loro paese. «In Giappone racconta Kazuo oggi ci sono 340.000 letti per una popolazione di 120 milioni di persone. Negli ultimi 30 anni il numero dei letti manicomiali è diminuito in tutti i paesi sviluppati, tranne che in Giappone, dove invece sono drasticamente aumentati. Il 90 % di questi posti letto si trova in ospedali privati per i quali il guadagno viene prima della vita dei pazienti». Il modello è complesso: quasi ogni ospedale psichiatrico ha un proprietario diverso, spesso si tratta dello stesso psichiatra che lo dirige. Dato che il guadagno maggiore deriva dal numero di ricoverati, i letti devono essere sempre pieni. Quindi, pazienti che potrebbero essere seguiti al di fuori della struttura, vengono invece tenuti in ospedale il più a lungo possibile. Spesso i letti vengono riempiti con malati di Alzheimer e anziani.
Maya Aishi, odontotecnica, è la mamma di un ragazzo schizofrenico ed è anche vice presidente di un’associazione di familiari di pazienti. Anche lei è in Italia e racconta la sua storia: «Mio figlio ha cominciato a manifestare problemi gravi verso i 16 anni. Per chiedere un aiuto ci siamo rivolti al comune della nostra cittadina, ma ci hanno detto che l’unica soluzione era ricoverarlo in ospedale: una struttura privata con oltre 500 posti letto che si trova in una cittadina non distante dalla nostra. Così abbiamo fatto. Per 10 anni mio figlio è entrato e uscito dall’ospedale senza nessun miglioramento. Ora è a casa da 6 mesi, potrebbe andare al servizio diurno, ma siccome si trova all’interno dell’ospedale, non vuole metterci piede». Cosa chiedono i familiari? «Vogliamo servizi territoriali. Io sono andata dal sindaco della mia cittadina e gli ho detto: diventiamo la Trieste del Giappone».

Repubblica 12.4.10
L’ossessione per la parola giusta
Due nuovi dizionari, oltre 65mila lemmi, ci mostrano in quanti modi possiamo dire le cose
di Stefano Bartezzaghi

Nel nuovo De Mauro dei sinonimi e contrari, i termini vengono segnalati in base all´uso
L´opera di Raffaele Simone seleziona i vocaboli per "analogia"

Quando scaricherete dalla macchina i quattro volumi che compongono queste due opere, o li estrarrete dagli scaffali di una biblioteca pubblica per una consultazione, vi risulterà inevitabile pensare a tutte le volte che avete sentito dire che l´italiano, inteso come lingua italiana, «si impoverisce». Una dozzina di chili complessivi di carta stampata, quasi quattromila pagine, sessantacinquemila lemmi circa, ma anche due leggerissimi Cd-Rom danno della ricchezza o povertà della lingua italiana un´idea nettamente più articolata. Anzi, due idee distinte.
Per Tullio De Mauro, che ha progettato e diretto l´impresa del Grande Dizionario Italiano dei Sinonimi e dei Contrari (con un´appendice di Olonimi e Meronimi; Utet, 2 volumi, 1640 pagg., s. i. p.; si può abbreviare in Gradisc) ogni parola si definisce non solo per il suo significato e per i rapporti di equivalenza o contrarietà che può stabilire con altre parole ma anche per l´uso che se ne fa, e che è misurabile con strumenti statistici. Come negli otto volumi del suo Grande Dizionario Italiano dell´Uso, che è alla base di questa nuova opera (era uscito dallo stesso editore nel 2007), ogni parola e anche ogni accezione di ogni parola è accompagnata da una «marca d´uso». La parola cretino, ad esempio, è di per sé parte del vocabolario fondamentale dell´italiano che comprende poco più di duemila vocaboli, frequentissimi e comprensibili a tutti sin dall´infanzia (da sole coprono il novanta per cento degli usi linguistici). Fra i suoi sinonimi sono altrettanto fondamentali ottuso, scemo e stupido; fesso, idiota, imbecille e sciocco sono invece quattro delle 2500 parole di alto uso, che normalmente si imparano a scuola e sono solo poco meno frequenti delle fondamentali. Come sostantivo, cretino ha il sinonimo asino, che in questa accezione è una delle 1900 parole di alta disponibilità (vocaboli non frequentissimi, ma comprensibili da tutti). Molto nutrita è la schiera delle 40.000 parole comuni, conosciute e impiegate da chi ha un´istruzione medio-alta, indipendentemente dalla sua professione e dai suoi interessi specifici: fra i sinonimi di cretino troviamo qui allocco, babbeo, baccalà, baggiano, balordo, beota, bietolone, broccolo, citrullo, coglione (volg.), deficiente, ebete, gnocco, gonzo, grullo, mentecatto, minchione (pop.), scimunito, scipito, stolido, stolto, tonto, tontolone. Un ultimo sinonimo di cretino è castrone, che è parte del lessico a basso uso, a sua volta composto da parole ormai rare, ma non del tutto scomparse. Non ci sono sinonimi di cretino per le altre marche d´uso: termini tecnici e specialistici, parole di uso letterario, parole di ambito regionale, parole dialettali, esotismi e termini obsoleti.
L´ampiezza dell´opera e la scrupolosa stratificazione degli usi abrogano i limiti tradizionali del genere dei dizionari dei sinonimi e dei contrari, un genere di cui non è mai stata troppo chiara la ratio. A cosa servono? A evitare le ripetizioni, come insegnavano i precetti stilistici del passato, con zelo degno di miglior causa? Il Gradisc aiuta innanzitutto a trovare la parola giusta, quando quella che abbiamo in mente non ci soddisfa perché non dà la sfumatura giusta o perché non è in linea con il tono del nostro discorso - essendo vuoi troppo usata e frusta, vuoi troppo tecnica, vuoi troppo aulica (aulico è parola comune; può essere sostituito dai fondamentali alto e nobile, dai vocaboli di alto uso illustre e solenne, dalla parola ad alta disponibilità raffinato, dai comuni altisonante, elevato, forbito, retorico, ricercato, sostenuto; come termine letterario, invece, aulico è sinonimo dei comuni cortigiano e curiale).
In due appendici, il Gradisc raccoglie relazioni non più orizzontali (tra parole equivalenti o contrarie) ma verticali: sono gli olonimi e i meronimi, rispettivamente nome di interi e di parti. La manica è uno dei meronimi di abito, che ne è quindi uno degli olonimi.
Raffaele Simone firma invece un´opera che in italiano ha pochissimi precedenti: il Grande Dizionario Analogico della Lingua Italiana (Utet, 2 volumi, pagg. 2232, s. i. p.; abbreviato in DAU). Un dizionario analogico ha molte meno voci di un dizionario normale: il DAU ne accoglie 3500. Questo perché ogni voce è una parola di alta frequenza, che è collegata con un gran numero di parole italiane. Per chi fa un dizionario analogico, il lessico è una metropoli che si può attraversare partendo da un numero relativamente limitato di piazze, ognuna delle quali mette in comunicazione un numero assai più ampio di vie. La voce cretino, per esempio, non c´è ma, tramite un indice che occupa da solo quasi l´intero secondo volume dell´opera, si trovano le voci in cui la parola compare, da acuto a sciocchezza.
Ogni voce elenca tutte le parole che si trovano, per un verso o per l´altro, a essere relative alla parola-piazza o alla parola-hub (questa la metafora scelta dall´autore). Per esempio, edilizia. Il DAU ne fornisce una breve definizione, un sinonimo (costruzione), un elenco di termini «affini e associati» (architettura, impantistica, etc.) e un nutrito paragrafo con i «nomi più specifici per funzione»: da architettura del paesaggio a edilizia urbana. Poi incominciano le risposte alle domande, secondo il metodo euristico scelto da Simone per compilare il suo dizionario. Di cosa si interessa l´edilizia? Di costruzione, edificio, grandi opere, infrastrutture... Con quali strumenti opera? Planimetria, prospetto, progetto, regolamento edilizio... Cosa produce? Edificio, opera muraria, stabile, complesso, centro residenziale... Come si distinguono questi prodotti? Abbazia, abitazione, aeroporto, albergo, anfiteatro, appartamento, arena... fino a terme, torre, torrione, villa, villette. Quali sono le parti di tali prodotti? Fondamenta, basamento, interrato, piano, scala, tramezzo, pavimento... Quali sono gli atti relativi all´edilizia? Appalto, abbattimento, demolizione, ammodernamento, abusivismo, cementificazione... Qual è l´abbigliamento tipico? Casco, elmetto, tuta. Quali persone sono coinvolte? Costruttore, immobiliarista, palazzinaro, capocantiere, capomastro, asfaltista, carpentiere, carriolante, edile, fabbro.... Quali sono i luoghi tipici dell´edilizia? Cantiere, cava, giacimento... Quale sono le azioni connesse all´edilizia? Finanziare, zonizzare, rapallizzare, alzare, consolidare, edificare... Incrociando lemmario e indice, l´utente del DAU può così giungere a scoprire termini che non conosce o che ha dimenticato.
I thesaurus e i dizionari nomenclatori del passato si sono fondati tipicamente su una rigida categorizzazione del mondo. Il Thesaurus di Roget (prima edizione, 1825) incominciava, per esempio, con la voce essere, in diretta corrispondenza con la Metafisica di Aristotele. Oggi, con i nuovi strumenti tecnologici, l´osservazione parte direttamente dalla lingua: De Mauro ha fondato il suo sistema di marche dell´uso sull´analisi delle ricorrenze dei termini nei testi e nei discorsi effettivamente compiuti in italiano; Simone ha scelto le sue parole-hub fra quelle che risultavano effettivamente al centro del maggior numero possibile di relazioni diverse. Nel primo caso il linguaggio è come un edificio di undici piani, tanti quante sono le marche d´uso; nel secondo caso, è una metropoli labirintica, in cui ogni parola è inserita in un sistema di relazioni organizzato secondo una logica flessibile. In entrambi i casi, si tratta di strumenti di consultazione assai raffinati, che si indirizzano generosamente a un pubblico che condivida con i loro curatori, i loro redattori e il loro editore l´idea che la lingua (e, di conseguenza, la linguistica) sia innanzitutto una passione sociale.

domenica 11 aprile 2010


l’Unità 11.4.10
Fecondazione. La sentenza sull’eterologa
Per fortuna che l’Europa c’è
di Maria Antonietta Coscioni

Con una storica sentenza, la Corte Europea di Strasburgo, chiamata a pronunciarsi sulla legislazione austriaca in materia di fecondazione assistita, ha dichiarato incompatibile con la Convenzione dei diritti dell’uomo il divieto assoluto di fecondazione eterologa in vitro.
In estrema sintesi, la Corte di Strasburgo riconosce che l’impossibilità totale di ricorrere alla fecondazione eterologa infrange il diritto alla vita familiare e il divieto di discriminazione. La nuova «santa alleanza» che unisce Vienna a Roma, benedetta dalle gerarchie vaticane, esce dunque, sconfitta.
La legge austriaca in materia è del tutto simile a quella che si è voluto imporre anche all’Italia da una maggioranza parlamentare sanfedista e oscurantista. La sentenza di Strasburgo non può non avere, dunque, effetti anche da noi.
La Corte europea riconosce che gli Stati, hanno sì un margine di discrezionalità in tale materia, ma nell’adozione della normativa interna sono tenuti a rispettare la Convenzione europea così come interpretata da Strasburgo. Nel caso specifico, i singoli Stati non hanno l’obbligo di adottare una legislazione che permetta la fecondazione assistita tuttavia, una volta che questa è consentita, devono essere vietati trattamenti discriminatori.
Questo ad esempio significa che le persone che si trovano in una stessa situazione di infertilità non possono essere trattate diversamente solo in ragione della diversa tecnica di fecondazione utilizzata. Il divieto della fecondazione eterologa non trova dunque giustifica se, nello stesso tempo, viene ammessa quella omologa.
L’Italia, che con la sua legislazione, le sue normative, oggi come in passato, sta esportando la sua «peste» in Europa, per una volta sarà costretta ad accogliere la ventata laica che viene dall’Europa. Mettiamo in conto azioni e atteggiamenti ostruzionistici dei vari Maurizio Sacconi, Eugenia Roccella, Gaetano Quagliariello, Maurizio Gasparri, sempre proni e disponibili ai diktat d’Oltretevere.
Confido tuttavia che anche nello schieramento del centrodestra si sapranno levare e mobilitare voci laiche e rispettose dei diritti di tutti, e che si uniranno a quanti, come me e come i radicali, lottano per una maternità (davvero) libera, desiderata e responsabile.
Tutto questo, ovviamente, è un imprescindibile banco di prova per l’Italia. Per quanto tempo ancora vareremo leggi retrograde, che cozzano contro il buon senso e il senso comune, e che inevitabilmente (e giustamente) vengono bocciate dalla comunità europea?

l’Unità 11.4.10
Abusi, accuse al primate inglese
Vittima italiana scrive al Papa
Dopo le accuse a Ratzinger, quelle al primate d’Inghilterra: coprì un prete pedofilo. Lettera al Papa di una vittima italiana: «Io abusato per molti anni». La Chiesa fa quadrato intorno al Papa: «Accanimento disonesto».
di Marina Mastroluca

L’arcivescovo di Westminster non intervenne contro un frate, poi condannato a 8 anni
La Chiesa con Ratzinger «Porta colpe non sue». Violentato scrive: «Punire chi ha insabbiato»

Silenzio: è questo il capo d’accusa. Non solo lo scandalo della pedofilia, le colpe i peccati? dei singoli. Ma il velo che ha nascosto quelle colpe, le bocche cucite, il vuoto intorno alle vittime. Ieri era la «prudenza» di Ratzinger, che nell’85 copriva un prete pedofilo californiano, Stephen Kiesle, già condannato dalla giustizia Usa per abusi. Oggi è il silenzio dell’arcivescovo Vincent Nichols, primate della Chiesa di Inghilterra, che accusa il Times «protesse» un monaco benedettino accusato di abusi sessuali. Oggi è anche il buco nero nel quale sono finite le denunce che l’italiano Francesco Zanardi passato alla cronaca per le sue nozze gay il mese scorso ha ripetutamente rivolto alle autorità ecclesiastiche, senza una risposta. «Io venni violentato per diverso tempo 30 anni fa da un sacerdote che insegnava religione ai bambini», racconta Zanardi in una lettera al Papa. «La cosa più triste è che i tre vescovi che si sono succeduti nella diocesi di Savona-Noli, ai quali ho più volte comunicato sia a voce che per scritto lo svolgersi delle atrocità che questo prete da anni compie, non hanno mai denunciato nulla all’autorità giudiziaria, né hanno mai preso provvedimenti».
PADRE PEARCE
Accuse gravi e copioni già visti. Abusi, denunce, silenzio. Un meccanismo che si muove lungo gli stessi ingranaggi. Negli Usa, in Italia. E a Londra, dove l’arcivescovo Nichols tra il 2001 e il 2008 presiedeva un ente benefico per la protezione dell’infanzia e da lui non e mai arrivata una parola sul caso di padre David Pearce, rimasto alla Ealing Abbey anche dopo che nel 2006 l’Alta Corte aveva stabilito che risarcisse le sue vittime. Nichols non sapeva tutti i dettagli el caso, è stata la spiegazione della Chiesa inglese. A sapere era l’ex primate cardinal Murphy O’Connor, al quale l’arcivescovo è subentrato un anno fa. La Chiesa sapeva, comunque, prima che padre Pearce venisse condannato a 8 anni di carcere per gli abusi commessi in 35 anni.
LA LETTERA DI RATZINGER
«Mi pare per lo meno disonesto parlare per settimane e mesi di certe cose, dimenticando i grandi meriti della Chiesa», ha detto ieri il cardinal Poletto, senza perdere l’occasione per augurare ai giornalisti «di diventare più buoni... anche nella vostra serietà professionale». Perché di serietà ne è mancata, per le gerarchie ecclesiastiche che hanno lamentato il «chiacchiericcio» dei media. Anche sulla lettera scovata dall’Ap, sulla vicenda di padre Kiesle nell’85 e sulla linea adottata da Ratzinger. La Santa Sede sostiene che non ci fu copertura dello scandalo, la Congregazione per la dottrina della fede all’epoca non poteva far altro. I legali americani del Vaticano mettono i puntini sulle i e parlano di «giudizi affrettati» della stampa: fino al 2001 il Sant’Uffizio non era competente sui casi di pedofilia, Ratzinger si è limitato ad una valutazione sul «bene della Chiesa universale» rinviando ad un esame ulteriore.
Sta di fatto che Kiesle, per quanto sotto sorveglianza, non potè lasciare l’abito talare. L’ex vescovo di Oakland John Cummins, che a più riprese aveva scritto ai superiori in Vaticano, caldeggiando il ritorno allo stato laicale del prete pedofilo Stephen Kiesle, sostiene che allora la Chiesa era riluttante a prendere simili decisioni, in una situazione di crisi delle vocazioni. «In conseguenza di questo Papa Giovanni Paolo II rallentò molto le cose e rese il processo molto più ponderato», ha detto Cummins al New York Times.
IL «MOSTRO»
Intorno a Ratzinger la Chiesa fa muro. Per il vicepresidente della Cei Gualtiero Bassetti il Papa «non chiede ad altri di portare la croce» e si fa carico come Cristo dei peccati altrui. Dice la sua anche il ministro Frattini, denunciando «una vera e propria campagna di violenza e fango», una «resa dei conti contro chi difende la vita». Per Fracesco Zanardi, che di quegli abusi è stato vittima, quello che sta accadendo è altro: una breccia in un muro. «La Chiesa dimostri ora la sua coerenza con le parole del Santo Padre assumendosi le responsabilità. Risarcisca e sostenga», scrive nella lettera, chiedendo «provvedimenti nei confronti dei vescovi che hanno insabbiato». Chiede giustizia anche Gaetano Scerri, 46 anni, abusato da piccolo nell’Istituto di San Giuseppe di Malta. A una settimana dalla visita del Papa alla Velletta, il domenicale di Malta «Illum» racconta oggi la sua storia in prima pagina. Scerri, che ha ucciso un omosessuale, racconta di essere diventato un «mostro omofobico» per «gli abusi, gli stupri, la deprivazione e le botte» subite dai preti in collegio. «Io sono stato processato perché mi hanno fatto diventare un mostro, ho pagato per i miei sbagli, ma adesso tocca ad altri assumere le loro responsabilità davanti alla giustizia, e chiedo alla Chiesa che questi preti vengono processati».


il Fatto 11.4.10
Lo scandalo pedofilia
Ratzinger
Lo spettro delle dimissioni
Impensabili: ma il velo caduto sugli abusi ha rotto un dogma
di Marco Politi

Dai Legionari di Cristo agli Stati Uniti: l’impunità garantita per anni ai sacerdoti ha minato le fondamenta del sistema

L’opinione pubblica è scossa, non si parla nemmeno più dei silenzi ma della credibilità dell’istituzione

A lla fine la valanga degli scandali è piombata ai piedi del trono papale. La firma di Ratzinger su una lettera del 1985, che sconsiglia l’espulsione immediata di un prete pedofilo, è un colpo pesante al Papato. Negli Stati Uniti colgono la crisi gravissima e agitano lo spettro delle dimissioni. “Un Papa può dimettersi?”, si domandano a New York. E poi: “Qualcuno può spingerlo a ritirarsi?”. Perché la mentalità anglosassone è fatta di un’essenzialità dalle formulazioni brutali. L’Autorità colta in fallo, il Potere supremo inchiodato nell’attimo in cui dice o fa ciò che non doveva né dire né fare perde credibilità, prestigio, autorevolezza. E l’unica via d’uscita per il leader dopo l’errore fatale è l’abbandono di campo. Giorni fa la vescova tedesca Margot Kaesemann si è dimessa da presidente delle Chiese protestanti di Germania per il solo fatto di essersi trovata in macchina con un tasso alcolico superiore a quanto permesso. Non sarebbe stata più credibile, ha spiegato.
“(In)Fallibile”, titola in copertina il settimanale tedesco Spiegel, raffigurando Benedetto XVI. In Vaticano le dimissioni papali non sono in agenda, sono impensabili, sono inimmaginabili. Nessuno può chiederle, nessuno può costringerlo. Ma la paura sta invadendo i sacri palazzi. Si teme che la crisi – la più destabilizzante da quando i bersaglieri a Porta Pia cancellarono il millenario Stato pontificio – sia foriera di sviluppi impensabili, di contraccolpi imprevedibili, di sorprese sempre peggiori. Non cominciò così, dicono in America, il Watergate: un piccolo scasso effettuato da falsi idraulici? Sembrava un incidente facilmente circoscrivibile... Per la prima volta che il Papato si misura con un avversario più potente di qualsiasi stato, di qualsiasi movimento, di qualsiasi ideologia. L’opinione pubblica internazionale, che ha capito quanto la pressione dei media e dei processi abbia spinto la Chiesa a confessare le sue colpe, alzando il velo sugli insabbiamenti di crimini odiosi e ponendo la Suprema Autorità del cattolicesimo dinanzi ad una scelta cruciale: raccontare tutta la verità su ciò che è stato fatto o non fatto nel cuore stesso dell’apparato vaticano o lasciarsi travolgere da ondate di rivelazioni.
Se in America l’80 per cento dei cattolici non si riconosce nella linea tenuta da Ratzinger nelle ultime settimane, anche in Italia l’opinione pubblica non gli è favorevole. Il 62 per cento degli italiani “non approva l’operato della Chiesa e del Papa in questo frangente” (Istituto Piepoli). Perché Benedetto XVI non ha proseguito sulla via della denuncia e del pubblico mea culpa a Pasqua, quando il mondo intero guardava a lui. E perché arrivano nuovi materiali che lo chiamano direttamente in questione.
I punti di vulnerabilità si stanno accumulando. 1. A Monaco di Baviera un prete pedofilo, accolto in diocesi solo per una terapia, viene riassegnato nel 1980 ad un’altra parrocchia. Il vicario generale (che si è assunto ogni responsabilità) scrisse un memorandum in proposito all’arcivescovo Ratzinger. L’arcivescovo ha letto l’appunto? C’è un motivo, per cui in una realtà così attenta alle regole burocratiche come quella tedesca, non doveva essere letto?
2. Nel 1996 il vescovo di Milwaukee chiede alla Congregazione per la Dottrina della fede, guidata dal cardinale Ratzinger, di aprire un processo canonico contro il prete pedofilo Murphy, che ha abusato di duecento minori sordomuti. Nel 1997 mons. Bertone, vice di Ratzinger al Sant’Uffizio, autorizza l’apertura del procedimento. Nel 1998 il vescovo americano e un suo confratello vengono convocati in Vaticano da Bertone e il processo fermato, perché in Vaticano sono sorti improvvisamente “dubbi sulla fattibilità e opportunità”. Di fatto Murphy, vicino a morire, ha chiesto clemenza a Ratzinger. 3. Nel 2000 viene insabbiato il caso del fondatore dei Legionari di Cristo, padre Maciel, accusato di abusi plurimi. Ratzinger vorrebbe intervenire, ma resta aperto l’interrogativo su chi fra i collaboratori papali è riuscito a convincere Giovanni Paolo II a non aprire un’inchiesta.
4. I fatti di Oakland sono esplosivi. Un vescovo chiede nel 1981 alla Congregazione per la Dottrina della fede di ridurre allo stato laicale un prete pedofilo, già condannato in tribunale e che ha chiesto personalmente di lasciare la tonaca. Il cardinale Ratzinger, nella risposta data solo nel 1985, non disconosce i gravi motivi “e tuttavia” (attamen, che in latino è un “ma” molto rafforzato) invita il vescovo a tenere conto del “bene della Chiesa universale” e dei “danni” che potrebbero venire alla comunità parrocchiale. (Quest’anno, nella sua lettera gli Irlandesi, Benedetto XVI parlerà di “preoccupazione malriposta per il buon nome della Chiesa”). Il vescovo sostiene che il pedofilo crea più scandalo ai fedeli rimanendo nelle fila del clero che andandosene. Però il Vaticano non gli dà retta ed esige un esame “più accurato”. Solo nel 1987 al prete verrà tolta la tonaca.
La lettera riflette l’atmosfera nella Chiesa cattolica negli anni Ottanta: protagonisti sono le autorità ecclesiastiche, il prete accusato, il “bene della Chiesa”, l’eventuale scandalo per i fedeli. Le vittime non sono mai menzionate.
E’ un paradosso tragico che Joseph Ratzinger, il quale appena eletto pontefice si è battuto con grande fermezza e coerenza contro gli abusi sessuali del clero, venga oggi inseguito dai fantasmi di un passato in cui a tutti i livelli della Chiesa cattolica le “vittime non furono ascoltate” (come lui stesso ha scritto nel messaggio agli Irlandesi). Ma nel meccanismo delle rivelazioni c’è qualcosa di inarrestabile. E certamente si scaricano oggi su Benedetto XVI malumori, insofferenze e tensioni accumulate nell’opinione pubblica esterna e interna alla Chiesa nei confronti della sua linea tradizionalista, così chiusa alle riforme.
Nell’arco di poche settimane è mutato l’oggetto del contendere. Non si parla più dei silenzi della Chiesa, ma è in discussione l’inattaccabilità o meno del Romano Pontefice. La sua credibilità internazionale. A sua difesa si stanno muovendo i grossi calibri. Vescovi e cardinali, l’Opus Dei, i Cavalieri di Colombo che in America hanno indetto una “novena” di solidarietà al Papa. In Italia si sta progettando una manifestazione dei cattolici in appoggio del Papa.
Eppure, se non riuscirà a chiudere la vicenda con un atto di trasparenza totale, Benedetto XVI vedrà profilarsi sulla scena internazionale l’interrogativo bruciante: come potrà guidare la Chiesa cattolica? Con quale carisma?

il Fatto 11.4.10
“Nessuna copertura”: ma scoppia il caso Oakland
Dagli Usa nuove accuse a Benedetto XVI e a Wojtyla. Frattini: campagna di violenza e fango
di Andrea Gagliarducci

L’Associated Press attacca, il New York Times affonda. Ieri l’agenzia di stampa internazionale aveva pubblicato una lettera autografata dal cardinale Joseph Ratzinger nel 1985: sconsigliava la riduzione allo stato laicale di Stephen Kiesle, sacerdote californiano in forza nella diocesi di Oakland, con alcuni precedenti con la giustizia, macchiatosi di abusi sui minori. Le ragioni? Una maggiore prudenza e “il bene universale della Chiesa”. Una versione smentita dalla Sala Stampa Vaticana, che prima ha preferito non commentare, poi è intervenuta per ribadire che “Benedetto XVI non coprì il caso”. E che contiene cinque inesattezze, dovute probabilmente a una cattiva traduzione in latino. A cominciare dal fatto che Kiesle, nel 1985, aveva chiesto lui la riduzione allo stato lai-
cale, e non gli era stata imposta per motivi disciplinari. Passando per la consuetudine a non concedere dispense al sacerdozio prima dei quaranta anni. E continuando con il fatto che la Congregazione per la Dottrina (Cdf) non era competente per i casi di pedofilia nel 1985, e lo sarebbe diventata solo nel 2001, con l’istruzione De delictis gravioribus. Insomma, la Cdf interveniva non per motivi disciplinari, ma perché la richiesta era stata avanzata dallo stesso sacerdote. E non c’era necessità di rimozione per pedofilia perché la richiesta non era stata avanzata dal vescovo, l’unico competente a farlo al tempo. Ma il New York Times di oggi pubblica delle dichiarazioni di John Cummins, vescovo di Oakland che negli anni Ottanta ripetutamente scrisse ai suoi superiori in Vaticano chiedendo il ritorno allo stato di laico di Kiesle. Cummins riferisce che la Santa Sede in quel periodo, dopo il Concilio Vaticano II, era particolarmente riluttante a 'spretare' i suoi sacerdoti perché molti preti stavano abbandonando il sacerdozio. “In conseguenza di questo, papa Giovanni Paolo II rallentò molto le cose e rese il processo molto più ponderato”. Cummins racconta di un caso che la Cdf conosceva già dal 1981. L’allora vescovo di Oakland arrivò a scrivere persino a Giovanni Paolo II di accogliere la richiesta. Un funzionario diocesano di Oakland, il rev. Mockel, scrisse in un memo che la sua impressione era che stessero aspettando che Kiesle “diventasse un po’ più vecchio”. Un dato che sembra confermato dal fatto che la riduzione allo stato laicale avvenne nel 1987, al compimento dei 40 anni di età. Kiesle è stato accusato di diverse molestie, incluse almeno sei ragazze durante gli anni Cinqunata e Sessanta, quando prestava servizio nelle sue precedenti parrocchie. C’è chi invece fa notare che non sarebbe corretto dire che la Cdf non ha avuto competenza sui casi di abusi sessuali su minori se non dal 2001. Ciò che è cambiato – sostengono – è che ai vescovi era richiesto di fare un rapporto su ogni credibile caso alla Cdf. In difesa del Papa si è mosso anche il ministro degli Esteri Frattini: contro di lui, ha detto, è in corso “una campagna di violenza e fango”, che sembra mirata “a chi difende la vita”. E’ la prima volta che un ministro si esprime in questi termini. Prima, c’erano state dichiarazioni di solidarietà, e un plauso di Berlusconi al Papa per la lettera agli irlandesi.
Ma intanto dall’Inghilterra arriva una nuova segnalazione: Vincent Nichols, arcivescovo di Westminster, avrebbe consentito che David Pearce, un sacerdote sospettato di pedofilia, rimanesse al suo posto nonostante il Catholic Office for the Protection of Children and Vulnerable Adults, da lui presieduto avesse ricevuto diverse segnalazioni da parte delle vittime.

Repubblica 11.4.10
E il governo maltese rimuove i poster
Ratzinger convoca i cardinali a Roma "Fare quadrato intorno al pontefice"
Scandalo molestie, summit dei porporati. I cattolici in piazza a maggio
di Orazio La Rocca

Una riunione straordinaria il 19 aprile per il quinto anniversario dell´elezione
A Malta imbrattati i cartelloni col volto del Papa: la Curia preoccupata per la visita di sabato

CITTA´ DEL VATICANO - «Calore, solidarietà, amore fraterno per il Papa in un momento tanto delicato per lui e per tutta la Chiesa». Questi i sentimenti con cui i cardinali di Santa Romana Chiesa si riuniranno in un summit straordinario in Vaticano il 19 aprile prossimo, giorno del quinto anniversario del pontificato di Benedetto XVI. Occasione che al Collegio cardinalizio - guidato dal decano Angelo Sodano - offrirà lo spunto per esprimere al Papa «vicinanza e affetto» per gli attacchi di chi lo accusa di non aver vigilato con più attenzione sui preti pedofili quando era prefetto dell´ex Sant´Uffizio. I cardinali si ritroveranno nella Sala del Concistoro del Palazzo Apostolico dove il Papa li ha invitati con una lettera per un incontro conviviale che culminerà con un intervento dello stesso Pontefice, preceduto da un discorso tenuto, presumibilmente, dal cardinale decano.
Ma non saranno solo i cardinali a solidarizzare col Papa. Un analogo meeting si terrà quasi certamente il 16 maggio prossimo in piazza San Pietro su iniziativa della Consulta nazionale delle aggregazioni laicali (Cnal), organismo Cei che raggruppa oltre 70 sigle, dall´Azione cattolica italiana alle Acli, dall´Agesci alla Fuci, dalla Comunità di Sant´Egidio a Focolarini, Cl, Mcl. «Ci ritroveremo tutti, con le nostre bandiere e i nostri simboli, a piazza San Pietro, per pregare, per solidarizzare col Santo Padre e per esprimergli tutta la riconoscenza per la grande prova a cui, con dignità e mitezza, sta facendo fronte in questi ultimi tempi», preannuncia Salvatore Martinez, presidente di Rinnovamento dello Spirito, membro del Cnal e uno degli organizzatori dell´iniziativa varata ieri dopo una riunione della Consulta. «Sarebbe stato bello riunirci il 19 aprile, ma per motivi organizzativi abbiamo dovuto optare per domenica 16 maggio», spiega Martinez, il quale, però, assicura che «il giorno del quinto anniversario del pontificato, il Papa sarà ugualmente festeggiato nelle parrocchie e nelle diocesi con novene, rosari, veglie di preghiera». Farà altrettanto, da oggi fino al 19 aprile, anche la Fondazione dei Cavalieri di Colombo, organismo cattolico tra i più potenti degli Usa, che ha invitato i suoi membri presenti anche in Europa a «dare vita a speciali preghiere - si legge in una nota - per Benedetto XVI in questo momento per lui di considerevoli sfide».
La Chiesa, dunque, scende in campo per difendere il Papa, mentre in Vaticano la tensione è sempre alta. In particolare c´è la preoccupazione che, durante il viaggio a Malta di sabato e domenica prossimi, il Pontefice possa essere contestato da ex vittime di preti pedofili. Ieri nell´isola sono apparsi sui manifesti di benvenuto a Ratzinger ingiurie e baffetti alla Hitler, subito rimossi dalle autorità locali. Continuano, infine, le rivelazioni su nuovi casi di pedofilia. E non solo all´estero. Dall´Italia, Francesco Zanardi ha rivelato in una lettera al Papa di essere stato violentato da un insegnante di religione, prete della diocesi di Savona-Noli, «ma i tre vescovi a cui denunziai la violenza non hanno mai preso provvedimenti e non si sono mai rivolti alle autorità giudiziarie».

Repubblica 11.4.10
Il carteggio tra padre Kiesle e i suoi superiori. Il legale della Santa Sede: giudizi incauti sulla lettera del futuro Papa
La diocesi di Oakland scrisse al pedofilo "Non ti spretiamo, il Vaticano non vuole"
di Angelo Aquaro

Nuove rivelazioni sulla vicenda del prete rimosso solo nell´87, dopo molte violenze accertate
Per il vescovo Cummins "Wojtyla cercava di frenare l´emorragia di sacerdoti"

NEW YORK - Caro pedofilo, ci dispiace ma il cardinale Ratzinger vuole che continui a fare il prete. Firmato: la tua diocesi. Nell´agghiacciante vicenda che accusa il Papa spunta un documento di imbarazzante franchezza. È il 1986 e il reverendo George E. Mockel, del tribunale ecclesiale della diocesi di Oakland, spiega a Stephen Miller Kiesle - il sacerdote allora già condannato a tre anni per abusi - che a frenare la sua richiesta di rimettere la tonaca è il futuro pontefice in persona.
La lettera con cui Ratzinger, "per il bene della Chiesa universale", si rifiutava di spretare il pedofilo - il "Pifferaio Magico" violentatore confesso di "tonnellate di bambini", poi finito perfino nell´inchiesta per l´omicidio di una piccolina - è stata resa nota venerdi dall´Associated Press. È la prima volta che la firma di Benedetto XVI compare direttamente su un documento così compromettente ma l´avvocato della Santa Sede negli Usa, Jeffrey Lena, accusa la stampa di «giudizio frettoloso». Quel documento scritto in latino del 1985, dice in un comunicato, è «una lettera formale, di quelle che vengono solitamente spedite all´inizio di ogni caso di laicizzazione». Anzi: quando il Papa chiede a John Cummins, il vescovo che gli sollecitava il caso, di esercitare «il massimo della cura paterna», fa riferimento alla formula con cui ci si raccomanda di evitare che i preti compiano altri abusi. Tant´è che «durante l´intero corso del procedimento il prete rimase sotto il controllo, l´autorità e la cura del vescovo locale». La formula usata dall´avvocato è importante. Roma scarica sui vescovi la responsabilità del controllo degli abusi mentre gli avvocati delle vittime stanno cercando di arrivare all´incriminazione del Papa proprio in quanto responsabile ultimo dei sacerdoti. «Checché ne dica l´avvocato del Vaticano, i documenti dimostrano il contrario», replica a Repubblica Jeff Anderson, l´avvocato che accusa Ratzinger di aver coperto il molestatore dei bimbi sordi del Milwaukee e ora ha scovato la lettera discussa. «Altro che prendersi cura: nulla è stato fatto fino all´87, quando il sacerdote fu finalmente spretato. Il Vaticano ora dovrà rispondere dei suoi atti: anche in tribunale». Ma davvero la lettera potrebbe essere un format? «Che si trattasse di una lettera-format è ciò che indigna di più. Vuol dire che sono state usate in migliaia di altri casi. È una risposta stupida. E triste».
Oggi il vescovo Cummins spiega che dietro la frenata della pratica voluto da Giovanni Paolo c´era la grande fuga di preti da seminari e conventi seguita al Concilio Vaticano II e al 1968. Versione smentita dal Vaticano. Il carteggio tra la diocesi di Oakland e il Vaticano, pubblicato dal New York Times, è sconcertante. La prima segnalazione è dell´81. Il vescovo Cummins spiega che Kiesle è stato arrestato «con l´accusa di aver fatto sesso con almeno sei ragazzi tra gli 11 e i 16 anni». L´ufficio del futuro Papa risponde chiedendo più informazioni. Dalla California arrivano altre accuse. Niente. È il reverendo Mockel a scrivere ancora a Ratzinger. Silenzio. Mockel allora chiede al suo vescovo di premere: «Lo farei io stesso ma non rispondono ai sacerdoti semplici come me!». Cummins torna all´attacco. Scrive a monsignor Thom Herron, il braccio destro di Ratzinger. Poi ancora a Ratzinger. Per conoscenza e richiesta di intermedizione al Nunzio Vaticano a Washington, Pio Laghi. La risposta, negativa, arriva solo nell´87. È a questo punto che Mockel prende carta e penna e scrive al pedofilo. "Caro Steve, abbiamo finalmente avuto una parola da Roma sulla tua richiesta. Temo non sia incoraggiante. Una lettera firmata dal Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede dice che hanno bisogno di più tempo per pesare la situazione, per capire se la laicizzazione sarebbe un bene per te come per la chiesa. C´è anche preoccupazione che la dispensa possa ‘provocare scandalo tra i fedeli´. Leggendo tra le righe, sembrano incoraggiarci a mandare altre informazioni. Il vescovo è intenzionato ad andare avanti se tu sei interessato. Mi piacerebbe discuterne con te nei dettagli di persona o al telefono. Intanto" conclude la lettera del 13 gennaio 1986 "ti faccio tanti auguri di buon anno. Fraternamente tuo, in Cristo".

l’Unità 11.4.10
Conversando con Gillo Dorfles
L’artista e critico d’arte compie cent’anni
«Italia disunita e senza stile dove ormai è in vigore la dittatura dello sgradevole»
di Bruno Gravagnuolo

Dipendesse da me abolirei età e compleanni. Ma verrano a prendermi degli amici per festeggiarmi. Una cosa fuori città, ma che mi salverà da chi vuole felicitarsi...». Dunque niente celebrazioni per Gillo Dorfes, centenario domani e «irritato» con chi gli fa gli auguri. I cento anni però ci sono e del resto Milano li ha già celebrati con una splendida antologica a Palazzo Reale ancora in corso. Lì c’è tutto il Gillo pittore, straordinario artefice di fantasmi fluidi e disarmonici, né astratto né figurativo. Artista di un pensiero visivo in germe, ironico. Che è poi la «sua» cifra di artista del Movimento di Arte Concreta, che fondò nel dopoguerra con Munari, Soldati e Monnet. Solo che Gillo, si sa, è molto altro. Critico, psichiatra, estetologo, musicologo, musicista viaggiatore, esperto di design, moda, osservatore del gusto. Fu tra i primi a farci conoscere l’arte contemporanea e a tematizzare «armonia/disarmonia» nel raffronto tra arte orientale e occidentale. Uno scrigno di osservazioni, teorie, «flanerie» del buon gusto e del cattivo gusto (il kitsch). Chi se non lui può raccontarci l’Italia, dal punto di vista dello «stile» di una nazione? E poi ha raccolto per Castelvecchi le sue Irritazioni, manuale degli abusi e dei tic (anti) estetici che ci rattristano la vita. Sentiamo.
Nel catalogo delle irritazioni che la assediano stuzzicadenti, piumini viola, grandi fratelli etc cosa la irrita di più di questa Italia leghista e berlusconiana?
«Ha quasi detto tutto lei... ma il dato che più mi colpisce è la mancanza di gentilezza comunitaria. Niente sorrisi, le risposte nei negozi monche e sgarbate.
Una sensazione di peggioramento nei rapporti col prossimo e l’assenza totale di cura per l’altro». Barbarizzazione del costume italico?
«Non saprei fare diagnosi. È una forma di autismo privatistico senza interesse alcuno per ciò che accade attorno» Al nord la Lega parla molto di comunità, Dio, patria e famiglia...
«Queste che dovrebbero essere le regioni più evolute, mostrano di non essere affatto le più avanzate. Invece prenda Salerno. È in piena fioritura e hanno convocato i migliori architetti e urbanisti internazionali per il Piano regolatore. Cose che non vedo qui. Evidentemente c’è una decadenza di tutto il nord. Anche a Milano l’ambiente è peggiorato e malgrado i grandi progressi economici del dopoguerra, mi pare che il progresso si sia fermato. Specie dal punto di vista culturale». Milano non era la capitale del design, dell’architettura urbana e della moda? «Lo è ancora, per la moda e il design. Triennale e Salone del Mobile sono ancora manifestazioni di eccellenza. Ma sono casi a sé. Vedremo più in là che cosa sarà l’Expo che s’annuncia interessante. Nomi e progetti fanno ben sperare da Piano a Liebeskind e non si intravedono progetti kitsch. Ma io parlo di un clima più generale, conformistico e un po’ depressivo».
Il conformismo di massa, uno dei suoi tormentoni polemici. In che consiste? «Nella tendenza di ciascuno ad adeguarsi a quel che vede intorno. Il famoso individualismo italico è azzerato. Tutti vogliono gli stessi jeans, lo stesso impermeabile e lo stesso cibo. Una coazione maggioritaria penosa. E lo stesso vale per i giovani. Dal piercing, all’orecchino ai tatuaggi, vogliono tutti iscriversi alla stessa tribù».
Che ruolo gioca in questo il narcisismo e la voglia di esserci, coi reality show ad esempio? «C’è un horror pleni dell’apparire a tutti i costi. E il Grande Fratello ne è l’esempio più sgradevole. Il fatto che esistano persone disposte ad autotorturarsi in gruppo in tv è aberrante. E l’esibizionismo domina su tutto, in un fracasso che annienta “segretezza” e pudore, cose sottoposte a ludibrio in basso e in alto. Di fatti né l’autorità né il pubblico vogliono preservarle». Tendenza solo italica o globale?
«Globale. La gente ama mettersi a nudo per autorappresentarsi. Una volta non era così, ma oggi con i media vecchi e nuovi c’è un’orgia del vedere e del voler essere visti. Il che tocca non solo le masse ma anche le elites, i pensatori, gli imprenditori, i banchieri, per non dire degli artisti»
È un rimescolio estetico e audiovisivo che annienta confini e gerarchia, pause e intervalli... «Sì, anche nell’arte domina l’esibizionismo. Gli artisti diventano eroi semiologici che creano pseudo-opere vistose e perciò riconoscibili. Sicché tutto si equivale e si dissolve». Berlusconi non è a modo suo uno di questi eroi semiologici fracassoni e accattivanti? Perché resiste e perdura?
«Le ragioni della sua tenuta stanno nell’ammirazione di un certo pubblico. La genta crea e venera questa icona del successo, che vorrebbe imitare».
Piace perché il suo è un successo festoso e trasgressivo? «È la legge dell’immagine. Nulla di meglio di chi dà l’idea di poter trasgredire con allegria e di trionfare contro tutti e tutto! Anche cattivo gusto e barzellette rientrano nella facile imitabilità del personaggio».
Benché il suo umorismo sia tipico di una vecchia antropologia italica da avanspettacolo? «Sarà avvilente, ma questo umorismo somiglia a quella che oggi è l’antropologia italica dell’uomo della strada. Non dico che gli italiani siano tutti così o sempre così. Ma negli ultimi tempi è questo il modello imperante».
Berlusconi autobiografia della nazione?
«Autobiografia è un po’ troppo ma in parte i termini coincidono» È stata letale la dissolvenza identitaria della sinistra? E non avverte a riguardo un vacuum, come antidoto mancante?
«Ovvio che è stata una perdita. Speriamo che sia solo temporanea. È stato proprio l’horror pleni contemporaneo ad estinguere in un vacuum ogni energia oppositiva e critica. Il troppo rumore uccide ogni possibilità espressiva, artistica e politica. E poi la sinistra si è rammollita. È astenica, incapace di reazioni e di rappresentare la sua gente». Un prezzo altissimo pagato a questo rammollimento. Col rischio di apparire inermi ed elitari dinanzi a una destra che ha dalla sua il senso comune popolare...
«Ha vinto il senso comune, che a volte è disastroso: un cattivo senso, retrivo. Altra cosa rispetto al buon senso. E la sinistra oggi perde su entrambi i fronti»
Quanto possono fare l’arte e il senso estetico contro il degrado? «Ci sarebbe tutto un lavorio da svolgere, a cominciare dall’educazione artistica e musicale dei bambini. Ma siamo ai minimi termini da un punto di vista pedagogico. Comunque non bisogna rassegnarsi. La forza della sensibilità estetica senza barriere di generi e linguaggi e applicata al quotidiano è indispensabile per contrastare la dittatura dello sgradevole».
Una volta c’era la grande borghesia a custodire lo stile. Oggi che fine ha fatto la grande borghesia? Lo chiedo a lei che ha traguardato il secolo e frequentato Svevo, Saba, Bazlen e le grandi famiglie triestine, milanesi, genovesi... «La borghesia in Italia ha fatto fiasco. Almeno una volta c’era una borghesia illuminata. Oggi è pochissimo illuminata. E il cialtrionismo è tipico della borghesia attuale. Finite le oasi di alcuni decenni fa, mentre la diffusione della cultura ha coinciso con l’involgarimento e l’appiattimento. E finita la coesione comunitaria. Da noi la destra non ha saputo fare cultura di punta né generare classi dirigenti, a differenza dei grandi paesi occidentali».

Dalla psichiatria all’arte
Nasce il 12 aprile 1910 a Trieste dipinge, insegna e scrive
Gillo Dorfles è nato a Trieste il 12 aprile 1910, da padre goriziano e madre genovese. Università a Milano e Roma con laurea in medicina e specializzazione in psichiatria. È stato ordinario di estetica a Milano, Trieste e Cagliari. È visiting professor in Messico, Argentina e Usa. Ha ricominciato a esporre quadri nel 1986 su sollecitazione della rivista salernitana «Taide» e degli amici del Mmmac di Paestum, ed è autore di numerosi libri chiave. Tra cui «Antologia del Kitsch», «Il feticcio quotidiano», «Le oscillazioni del gusto», «Il divenire delle arti», «Il disegno industriale e la sua estetica».

l’Unità 11.4.10
Siate voi stessi il cambiamento che vorreste
di Jacques Attali

Il nuovo saggio di Jacques Attali è una guida alla sopravvivenza alla crisi Sette i principi della strategia da seguire: dal rispetto per se stessi all’empatia, dalla resistenza all’applicazione del pensiero rivoluzionario

Lezioni di vita
«Sopravvivere alla crisi. Sette lezioni di vita» di Jacques Attali è edito da Fazi (pagine 185, euro 17,50, traduz. E. Biotossi). «Il mio scopo scrive l’autore è quello di suggerire strategie precise e concrete che permettano a ognuno di “cercare uno spiraglio nella sventura” e di sapersi destreggiare tra gli ostacoli che si presenteranno, senza affidarsi ad altri per sopravvivere, per vivere meglio».
L’autore
Economista, scrittore e banchiere francese, Jacques Attali è nato ad Algeri il 1 novembre 1943. Ha vissuto ad Algeri fino al trasferimento della sua famiglia a Parigi nel 1956.

Un giorno o l’altro questa crisi si concluderà, come tutte le altre, lasciando dietro di sé innumerevoli vittime e qualche raro vincitore. Ma ciascuno di noi potrebbe anche uscirne in uno stato di gran lunga migliore di quello con cui ci siamo entrati. Questo a patto di comprenderne la logica e il percorso, di servirsi delle nuove conoscenze accumulate in vari settori, di contare soltanto su se stessi, di prendersi sul serio, di diventare attori del proprio destino e di adottare audaci strategie di sopravvivenza personale. (...)
Ma, nel frattempo, occorre salvarsi dalla crisi attuale. Perché, contrariamente a quanto vogliono far credere le grida di trionfo di qualche politico e di un ristretto gruppo di banchieri, la crisi finanziaria del 2008 che non faceva altro che rivelare quella economica che veniva da molto più lontano è lungi dall’essere terminata. (...) L’incapacità dell’Occidente di mantenere il suo tenore di vita senza indebitarsi, che è la causa più profonda di questa crisi, è lungi dall’essere stata riassorbita. E la strategia messa in atto finora dai governi per rimediare è riassumibile nel far finanziare dai contribuenti di dopodomani gli errori dei banchieri di ieri e i bonus dei banchieri di oggi.
Di fronte ai pericoli del prossimo decennio, chi vorrà sopravvivere dovrà, come le avanguardie del passato, accettare il fatto di non doversi più attendere nulla da nessuno; e che qualsiasi minaccia è anche un’opportunità per ognuno di noi, in quanto lo costringe a riconsiderare il proprio posto nel mondo, ad accelerare i cambiamenti nella sua vita, a mettere in atto un’etica, una morale, dei comportamenti, delle attività e delle alleanze radicalmente nuovi. Costui saprà che la sopravvivenza non implica per forza la necessità di aspettare questa o quella riforma generale, quella grazia o quel salvatore; che non esige la distruzione degli altri, ma soprattutto la costruzione di sé e l’attenta ricerca di alleati; che non risiede in un ottimismo illimitato, ma in un’estrema chiarezza in relazione a se stessi, in un desiderio selvaggio di trovare la propria ragion d’essere; la quale non è da costruire soltanto nel singolo momento, ma anche sul lungo periodo; la quale non è finalizzata alla conservazione di ciò che si è acquisito, ma può riguardare il superamento dell’ordine attuale; la quale non si limita soltanto a mantenere l’unità del proprio io, ma esige di prevedere tutte le possibili diversità.
Per arrivare a questo punto, costoro dovranno cominciare un lungo apprendistato relativo al controllo del sé, a cui nulla, per il momento, li prepara. (...) I sette principi di questo apprendistato saranno applicabili a qualsiasi epoca, qualsiasi minaccia e qualsiasi tipo di crisi. (...) Questa strategia, frutto di un lungo ragionamento su quelle utilizzate finora, permetterà di sopravvivere in particolare ai rischi di disoccupazione, fallimento e declino. Essa si snoda, a mio parere, attorno a sette principi da attuare nell’ordine suggerito qui di seguito. Va da sé che la loro messa in opera richiede sforzi considerevoli e che pure io, come tutti, fatico molto a metterli in pratica.
1. Il rispetto di sé: innanzitutto, voler vivere, e non soltanto sopravvivere. Quindi, prendere pienamente coscienza di sé, attribuire importanza alla propria sorte, non provare né vergogna né odio verso se stessi. Rispettarsi e dunque cercare la propria ragione di vivere, imporsi un desiderio d’eccellenza in relazione al proprio corpo, alla propria conservazione, al proprio aspetto, alla realizzazione delle proprie aspirazioni. Per raggiungere questo scopo, non bisogna attendersi nulla da nessuno; occorre contare soltanto su se stessi per definirsi; non bisogna avere paura davanti a una crisi, quale che sia la sua natura; occorre accettare la verità anche se non è piacevole da ammettere; e bisogna voler essere protagonisti, né ottimisti né pessimisti, del proprio futuro.
2. L’intensità: proiettarsi sul lungo periodo; formarsi una visione di sé, per sé, da qui a vent’anni, da reinventare incessantemente; saper scegliere di compiere un sacrificio immediato se può rivelarsi benefico sulla lunga distanza; nello stesso tempo, non dimenticare mai che il tempo è prezioso, perché si vive una volta sola, e che bisogna vivere ogni momento come se fosse l’ultimo.
3. L’empatia: in ogni crisi e di fronte a ogni minaccia, a ogni cambiamento radicale, bisogna mettersi al posto degli altri, avversari o potenziali alleati; comprendere le loro culture, i loro modi di ragionare, le loro motivazioni; anticipare i loro comportamenti per identificare tutte le minacce possibili e distinguere tra amici e potenziali nemici; bisogna essere amabili con glialtri, accoglierli per stringere con loro alleanze durature, praticare un altruismo interessato e, a tale scopo, fare mostra di una grande umiltà e di una piena disponibilità intellettuale; essere in particolare capaci di ammettere che un nemico può avere ragione senza provare vergogna o rabbia per questo.
4. La resilienza: una volta identificate le minacce, diverse per ogni tipo di crisi, occorre prepararsi a resistere mentalmente, moralmente, fisicamente, materialmente, finanziariamente se una di esse dovesse concretizzarsi. Di conseguenza, bisogna pensare a costituire difese, riserve, piani alternativi, abbondanza e sicurezza a sufficienza, ancora una volta a seconda del tipo di crisi da affrontare.
5. La creatività: se gli attacchi persistono e diventano strutturali, se la crisi si radicalizza o si iscrive in una tendenza irreversibile, bisogna imparare a trasformarli in opportunità; fare di una mancanza una fonte di progresso; volgere a proprio vantaggio la forza dell’avversario. Ciò esige un pensiero positivo, il rifiuto della rassegnazione, un coraggio e una creatività pratica. Queste qualità si forgiano e si allenano come i muscoli.
6. L’ubiquità: se gli attacchi continuano, sempre più destabilizzanti, e non è possibile nessun loro impiego positivo, bisogna prepararsi a cambiare radicalmente, a imitare il migliore di quelli che sanno resistere, a rimodellare la rappresentazione di sé per poter passare nel campo dei vincitori senza perdere il rispetto di se stessi. Occorre imparare a essere mobili nella propria identità e, perciò, tenersi pronti a essere doppi, dentro l’ambiguità e l’ubiquità.
7. Il pensiero rivoluzionario: infine, occorre essere pronti, in una congiuntura estrema, in situazione di legittima difesa, a osare il tutto per tutto, a forzare se stessi, ad agire contro il mondo violando le regole del gioco, pur persistendo nel rispetto di sé. Quest’ultimo principio rinvia dunque al primo e tutti insieme formano così un sistema coerente, un cerchio.
(...) Come diceva il Mahatma Gandhi: «Siate voi stessi il cambiamento che volete vedere nel mondo».
Traduzione di Emilia Bitossi © 2010, Fazi Editore

l’Unità 11.4.10
Bilenchi: una vita da album di fotografie

Acompletamento delle celebrazioni per i cent’anni della nascita di Romano Bilenchi (1909-1989) esce per Effigie uno straordinario volume che farà la gioia degli estimatori di questo autore importante ma appartato della narrativa italiana del Novecento: Un uomo contro. Romano Bilenchi. Biografia per immagini (pp. 224, euro 30,00). Curato da Benedetta Centovalli, si tratta di un libro fotografico che ripercorre le tappe principali della vita dello scrittore toscano. Oltre alle foto di Bilenchi nelle varie fasi della sua esistenza, sono raccolte le copertine delle prime edizioni dei suoi libri e sono riprodotti autografi dei suoi testi. Così è possibile seguire i diversi momenti del suo lavoro letterario attraverso le opere che ne hanno segnato la carriera: dalla Vita di Pisto (pubblicata nel ’31 per le Edizioni del «Selvaggio» di Mino Maccari) ai volumi di racconti come Il capofabbrica (1935) e Anna e Bruno (1938). Per arrivare al capolavoro di Bilenchi, Conservatorio di Santa Teresa, finito di scrivere nel ’39 e uscito per la prima volta nel ’40 (nuove edizioni saranno approntate dall’autore nel 1973 e nel 1985), uno dei romanzi italiani più belli, più misteriosi, più affascinanti dell’ultimo secolo. Nel libro troviamo, insomma, un’esauriente fotobibliografia bilenchiana insieme ad alcuni inediti, lettere, testi rari e interviste diseperse. Ad arricchire l’operazione, alcuni saggi critici di narratori e studiosi dedicati a particolari opere e aspetti del lavoro di Bilenchi.

Repubblica Firenze 11.4.10
"I pugni in tasca" un film mito rifatto a teatro
Pier Giorgio, figlio di Marco, sarà l´interprete "Il mio folle assassino somiglierà a un Maso"
di Roberto Incerti

Un film diventa teatro, un dramma, una tragedia a cui assistere dal vivo. Spiega tutto Marco Bellocchio: «Perché dopo 44 anni ho pensato di fare una riduzione e un adattamento teatrale dei Pugni in tasca? Perché regista sarà la mia collaboratrice Stefania De Santis che ha anche lavorato con Carmelo Bene e perché a produrre lo spettacolo sarà il grande Roberto Toni, che per due decenni ha lavorato al Niccolini di Firenze producendo spettacoli di un genio come Carlo Cecchi».
Il 2010 non è nemmeno a metà, ma già si parla dell´evento del 2011, di cui presto in Toscana inizieranno le prove: I pugni in tasca appunto di Marco Bellocchio prodotto dal Teatro Stabile di Firenze di Roberto Toni, con Ambra Angiolini e Piergiorgio Bellocchio, figlio di Marco. Come afferma lo stesso Toni. «Lo spettacolo, grazie al sostegno della Fondazione Toscana Spettacolo debutterà a gennaio al Teatro Guglielmi di Massa, sarà poi al Garibaldi di Figline dove il nostro Stabile di Firenze - almeno per adesso - ha la sede e, sperando di sconfiggere le reticenze del Teatro Massimo, contiamo di portarlo a Firenze, alla Pergola. I pugni in tasca andrà in scena anche al Quirino di Roma e al Parenti di Milano. Ho voluto fare questa prestigiosa produzione in occasione del mio trentesimo anno da direttore del Teatro Stabile di Firenze. Al Niccolini ho prodotto tutti gli spettacoli di Carlo Cecchi».
Adesso dunque tocca ai Pugni in tasca di cui ancora Marco Bellocchio dice: «La riduzione teatrale deve innanzitutto rinunciare alla sua fama di film che profetizzò il ´68, la rivolta contro le istituzioni, la scuola, la famiglia, la religione. E´ vero che la pellicola girò il mondo diventando un cult e colpì molti giovani, ma è acqua passata, nessun rimpianto, niente nostalgia. Io oggi penso a I pugni in tasca come a un dramma della sopravvivenza di una famiglia dove l´amore è del tutto assente: si vive in un deserto di affetti, senza nessuna prospettiva». Nello spettacolo teatrale il ruolo che fu di Lou Castel è interpretato da Pier Giorgio Bellocchio e quello di Paola Pitagora da Ambra Angiolini, ottima attrice in musical quali Emozioni e film come Saturno contro di Ozpetek.
La storia dei Pugni in tasca è nota: il paranoico Alessandro decide di sollevare suo fratello dal peso di familiari tarati e dà il via ad una serie di omicidi. Nei panni di Lou Castel-Alessandro, il trentaseienne figlio di Marco Bellocchio, Pier Giorgio, che ancora bambino fu fatto debuttare dal padre come attore nel film Vacanze in Val Trebbia. «Ho visto il film di mio padre decine e decine di volte - dice Pier Giorgio - io in teatro ne voglio fare una cosa diversa. Castel entusiasmò una generazione, anticipò il ´68: nella sua folle rivolta c´erano anche riverberi epici, shakespeariani. Voglio dar vita ad uno schizofrenico di oggi, di quelli che potremmo vedere in un tg. Il mio personaggio dunque dovrà essere immediato, riconoscibile anche da quei ragazzi che non sanno chi sia Marco Bellocchio e che non hanno mai visto I pugni in tasca. Le storie di ordinaria follia vissute da me nello spettacolo devono però rispecchiare il grottesco della contemporaneità, i suoi lati più oscuri».
La scena dei Pugni in tasca è di Daniele Spisa. Evocherà uno spazio interno e uno esterno: quello dove si consuma la tragedia diventa una stazione della mente, un porto di mare dove non è possibile approdare.