mercoledì 14 aprile 2010

Repubblica 14.4.10
George Orwell
"Ecco cosa penso di fascismo e comunismo"
"Combattendo in Spagna ho capito che non c´è differenza"
Una lettera inedita del grande autore in cui rivela il suo rapporto con la politica, le ideologie e i totalitarismi

La lettera di al direttore della rivista letteraria "Strand", che pubblichiamo in anteprima mondiale, esce domani in Inghilterra nel volume "Orwell: A Life in Letters" dell´editore Harvill Secker

Caro Mr. Usborne, grazie della sua lettera del 22 agosto. Cercherò di risponderle come meglio posso.
Sono nato nel 1903 e ho studiato a Eton dove ottenni una borsa di studio. Mio padre era un funzionario dell´Amministrazione statale indiana e anche mia madre proveniva da una famiglia anglo-indiana, con legami soprattutto in Birmania. Dopo aver completato la scuola ho lavorato per cinque anni per la Imperial Police in Birmania, ma il lavoro non si confaceva per nulla alle mie capacità: così ho dato le dimissioni quando sono venuto a casa, in licenza, nel 1927. Volevo diventare uno scrittore, e ho vissuto la maggior parte dei due anni successivi a Parigi, mantenendomi con i miei risparmi, scrivendo romanzi che nessuno avrebbe pubblicato e che successivamente ho distrutto. Quando ho finito i soldi, ho lavorato per un po´ come lavapiatti, poi sono tornato in Inghilterra dove ho fatto una serie di lavori mal pagati, come quello di insegnante, con intervalli di disoccupazione e povertà disperata... (Era il periodo della depressione).
Quasi tutte le vicende descritte in Senza un soldo a Parigi e Londra sono accadute realmente ma in momenti diversi, e io le ho intrecciate per creare una storia che funzionasse.
Ho lavorato in una libreria per circa un anno nel 1934-1935, ma ho deciso di raccontarlo soltanto in Fiorirà l´aspidistra per creare uno sfondo. Non mi sembra che il libro sia autobiografico: io non ho mai lavorato in un ufficio di pubblicità. In generale i miei libri hanno un contenuto meno autobiografico di quanto per lo più si creda. Vi sono parti di autentica autobiografia in Wigan Pier e, naturalmente, in Omaggio alla Catalogna, che è un resoconto diretto. Incidentalmente Fiorirà è uno dei molti libri che non m´interessano e che ho soppresso.
Riguardo la politica, me ne sono interessato soltanto saltuariamente fino al 1935, sebbene io creda di poter dire di essere sempre stato più o meno "a sinistra". In Wigan Pier ho tentato per la prima volta di chiarire le mie idee. Ho pensato, e lo penso ancora, che ci siano enormi mancanze nell´intera concezione del Socialismo e mi sono spesso chiesto se non esiste nessun´altra via d´uscita. Dopo aver studiato abbastanza bene l´industria britannica nella sua versione peggiore, cioè le miniere, ho concluso che è un dovere lavorare per il Socialismo anche se non si è emotivamente attratti da esso, perché la perpetuazione delle condizioni attuali è semplicemente intollerabile, e non esiste una soluzione politicamente realizzabile tranne qualche forma di collettivismo, perché è questo ciò che la massa della popolazione vuole.
Ma, più o meno nella stessa epoca sono stato infettato dall´orrore del totalitarismo, che in realtà avevo già sperimentato in quelle che chiamerei "forma di ostilità per la Chiesa Cattolica".
Ho combattuto per sei mesi (1936-37) in Spagna, e ho avuto la sfortuna di essere coinvolto nelle lotte intestine alle stesse fazioni: questo mi ha dato la certezza che non c´è molto da scegliere fra Comunismo e Fascismo, sebbene per varie ragioni sceglierei il Comunismo, se non avessi alternative. Sono stato vagamente associato con i trotskysti e gli anarchici, e più da vicino con l´ala sinistra del Partito Laburista (la propaggine Bevan-Foot).
Sono stato direttore letterario di Tribune, allora il giornale di Bevan, per circa un anno e mezzo (1943-45), e ho scritto per lo stesso per un periodo di tempo più lungo. Ma non sono mai stato iscritto a un partito politico, e credo di valere molto di più, anche politicamente, se scrivo quello che ritengo vero, rifiutando di seguire una linea imposta dall´alto.
All´inizio dell´anno scorso ho deciso di prendere una vacanza, dato che avevo continuato a scrivere quattro articoli alla settimana per due anni. Trascorsi sei mesi a Jura, un periodo in cui non ho lavorato, sono poi tornato a Londra facendo, come al solito durante l´inverno, il giornalista. Quindi sono rientrato a Jura: ho cominciato un romanzo che spero di finire entro la primavera del 1948.
Cerco di non fare nient´altro mentre continuo a lavorare a questo mio nuovo progetto. Molto raramente scrivo recensioni di libri per il New Yorker. Intendo trascorrere l´inverno a Jura, un po´ perché a Londra mi sembra di non riuscire mai a concludere nulla, un po´ perché credo sia più facile qui. Il clima non è così freddo, ed è più semplice avere cibo e carburante. Qui ho una casa molto comoda anche se in un luogo sperduto. Mia sorella fa funzionare la casa per me. Sono vedovo con un bambino che ha poco più di tre anni.
Spero che queste mie note le saranno d´aiuto. Mi rincresce di non poter scrivere nulla per lo Strand per il momento, perché, come ho detto, sto cercando di non essere distratto da altro.
Qui la posta funziona soltanto due volte alla settimana e questa lettera non partirà sino al 30, perciò la indirizzerò nel Sussex.
Con sincerità suo
George Orwell
Barnhill, Jura, 26 agosto 1947

Repubblica 14.4.10
Il testo scritto un anno prima di "1984"
di Gabriele Pantucci

L´importanza di questa lettera – che Repubblica riproduce in anteprima – sta, soprattutto, nel periodo in cui il grande autore la scrisse. Siamo a fine agosto 1947, a poco più di due anni dalla sua prematura scomparsa, a 46 anni. Già l´anno precedente aveva sofferto d´una emorragia tubercolare e quasi contemporaneamente decise di scrivere 1984 il suo capolavoro che compose nel 1948. La fattoria degli animali gli aveva dato quel minimo d´indipendenza economica che non lo obbligava a fare quattro articoli alla settimana. Scelse una fattoria abbandonata a otto chilometri dal paesino più vicino nell´isola di Jura, nelle Ebridi a ovest della Scozia. Qui lo raggiunse la lettera di Richard Usborne, il direttore del mensile letterario Strand, che lo invitava a collaborare. Può sembrare strano che Orwell abbia deciso di rispondere con tanti dettagli a una persona che non conosceva per poi declinare l´offerta. Forse pesava lo stato di penuria in cui aveva trascorso la maggior parte della sua vita: la proposta del direttore d´un giornale poteva tornargli utile in futuro. E forse, stare così isolato, gli aveva offerto l´occasione per chiarirsi le idee a mente fredda. Di sicuro oggi si può leggere la sua risposta come un testamento politico.
La lettera non compare nei volumi che contengono il suo epistolario pubblicato anni fa. È venuta a luce soltanto di recente e verrà pubblicata in Orwell: A Life in Letters che l´editore Harvill Secker pubblica domani. Il volume, curato da Peter Davison, è un´autobiografia costruita attraverso le sue lettere (tutte già pubblicate, tranne pochissime). È scritta con l´efficienza che contraddistingue tutta la corrispondenza del grande scrittore: si direbbe quasi da uomo d´affari. Non ci sono note di spirito. La dolorosa perdita della moglie Eileen che lo lasciò col bambino adottato di tre anni non invoca commiserazioni.
Nella lettera c´è una contraddizione quando Orwell sostiene di non essere stato iscritto a un partito politico. Era stato un membro dell´Independent Labour Party, su cui aveva anche scritto. Forse fingere di ignorarlo faceva parte del suo processo di dissociazione dalla vita politica.

Corriere della Sera 14.4.10
Socialismo la memoria negata
Vittorio Foa a Paul Ginsborg: perché ignori i riformisti?
di Pierluigi Battista

l’Unità 14.4.10
Intervista a Maurizio Martina segretario del Pd lombardo
«Mantova, che lezione
la gente non perdona le nostre divisioni»
nelle edicole

il Fatto 14.4.10
Scalata al Pd
Bersani fulmina Prodi e il partito del Nord, ma alle sue spalle riappare Veltroni. Altra “semifinale” tra Vendola e Montezemolo?
Il governatore pugliese vuole le primarie: a maggio stati generali delle “Fabbriche”, poi tour nazionale
di Luca Telese

Il giorno dell’ira interna e degli “scalatori” esterni. Fra riunioni, dichiarazioni a giornalisti, infinite discettazioni su “partito del nord” o “partito dei territori”, Pier Luigi Bersani si è ritrovato travolto dall’effetto valanga suscitato dall’imprevedibile attacco di Romano Prodi. Anna Finocchiaro ha sparato bordate dalle colonne dell’Unità. Franco Marini si è letteralmente infuriato. E ieri il segretario, dalla riunione con i senatori a Palazzo Madama, ha cercato di mandare un messaggio grintoso per recuperare la sconfitta delle amministrative: “Va organizzata una reazione forte per parlare all’Italia. Noi lavoriamo per il partito dei territori, non per fare il partito del nord” (però).
“Folle discutere Bersani”.
Certo, a via del Nazzareno il clima non è propriamente idiliaco. E un uomo prudente come l’ex presidente del Senato Franco Marini ieri non conteneva il suo disappunto: “Alcuni spiegava senza diplomazia hanno detto di apprezzare lo spirito della proposta di Prodi: io non ne apprezzo nemmeno lo spirito. Il problema vero è riscoprire il gusto della democrazia e delle discussioni degli organismi di partito”. Quindi, replicando all’attacco mosso dall’ex premier a Bersani: “Rimettere oggi in discussione il meccanismo di elezione del segretario è una follia”. Sondaggio & taroccaggio. Intanto si svela un retroscena interessante sulla corsa per la nomination che ufficiosamente è già partita: come racconta nel suo corsivo Carlo Tecce (qui al lato), i ragazzi di Sinistra e libertà hanno scoperto e scritto (rilanciati da Dagospia) che sul sito de L’Espresso, qualcuno dava l’assalto al sondaggio online lanciato dal settimanale di Largo Fochetti su “Chi può battere Berlusconi”. Come mai? per cammellare un nome. Quale? Quello di Luchino Cordero di Montezemolo investito da 2657 in soli 50 minuti (una media di 0,9 al secondo!). Insomma, il panorama mostra le rovine di un partito balcanizzato e diviso, inseguito dallo spettro e dalle invettive dell’ultimo premier. “E’ rancoroso”, dicono gli eredi facendo arrabbiare la deputata prodiana Sandra Zampa: “E’ la persona più appagata di questo mondo”. Su questo paesaggio si proietta uno scenario di guerra: da un lato la possibilità dell’ascesa di un “Papa straniero” (per stare alla definizione di Ezio Mauro), ovvero la possibilità sempre più concreta di un’Opa lanciata da un concorrente alla leadership esterno al gruppo dirigente del Pd. Dall’altro non tramonta l’ipotesi di un duello interno, che (escludendo l’entrata in scena di qualche improbabile outsider) può vedere in campo solo due possibili contendenti: o lo stesso Pier Luigi Bersani, o un ritorno a sorpresa di Walter Veltroni. “Anche io penso Walter alla fine potrebbe provare a correre”, spiega Matteo Colaninno, che fu una delle punte di diamante della campagna veltroniana del 2008. Semifinali primarie? Alla fine è come se, sulla partita delle primarie, si profilasse lo scenario di due semifinali: quella prospettata dal sondaggio de l’Espresso fra Vendola e Montezemolo da un alto, e quella tra i due leader democratici dall’altro. Le fabbriche Nichi. Fantascienza? Mica tanto. Se non altro perché intanto il governatore della Puglia, senza troppo clamore, ha già acceso i suoi motori. Torna domani mattina dalla sua vacanza post-elettorale in Canada, pronto a dare battaglia. Il sondaggio dell’Espresso, se era possibile, ha rafforzato il suo staff nella convinzione che abbia delle chance: in quello realizzato dall’Swg fra gli elettori del centrosinistra, il 20% designava Bersani e il 16% lui. In quello su Internet come sappiamo era in testa a testa con Montezemolo. Questo a bocce ferme. Ma Vendola ha già pronto un timing in due tempi della sua macchina organizzativa. Si parte con gli stati generali delle fabbriche di Nichi, una kermesse di due giorni che si terrà a Bari. Si proseguirà a settembre con la fase due, un giro d’Italia che assomiglierà molto a una campagna all’americana per le primarie. L’evento di Bari servirà a proiettare la crescita delle nuove sedi per ora ce ne sono già 150 fuori dalla Puglia. E’ stata già aperta una fabbrica persino a Berlino.
Fratoianni: “E’ un regalo”.
Nicola Fratoianni, demiurgo di tutte le vittorie elettorali in Puglia ieri se la rideva: “Questo tentativo di patacca degli... ‘anonimi Montezemoliani’ è un altro regalo a Nichi”. In che senso? “Semplice. il vero ingrediente che ci ha fatto vincere per ben due volte, in Puglia, è stato sempre lo stesso, ovvero la ripetizione di questo schema: Vendola è un candidato dal basso, amato dalla base, e osteggiato, con ogni mezzo, dai poteri costituiti e dagli stati maggiori degli apparati. Pensate cosa può succedere osserva Fratoianni se questo schema si ripete anche a livello nazionale”. Montezemoliani. Allo stesso tempo anche Montezemolo non sembra tirarsi indietro. L’uomo che gli è più vicino in questo momento, è Andrea Romano, presidente della fondazione ItaliaFutura. Uno storico che aggiunge al suo pedigree le passioni per il giornalismo e per la politica. Ha tutte le carte in regola per fare da regista a una campagna di riconversione di immagine sul terreno mediatico. E che questo all’interessato non dispiaccia è evidente: “E’ sempre un piacere spiegava Montezemolo commentando il sondaggio dell’ Espresso ricevere segnali di fiducia da parte dei propri concittadini”. Con o senza “aiutino”.

il Fatto 14.4.10
Persa anche Mantova Bersani parla di “correzioni”
Pd, i soliti contorcimenti
Cmilleri: Così si suicidano
«Vogliono suicidarsi. Si mettano in analisi»
«Il partito tiene lanima coi denti, è più di là che di qua»
di Silvia Truzzi

Nel fumoso studio di Andrea Camilleri oggi si parla del Pd un po’ in cenere. “Io non appartengo al Pd. Posso, quando sono disperato davanti alla scheda, al massimo votarlo. Come si dice a Firenze: il Pd tiene l’anima coi denti. È più di là che di qua. Dalla parte avversa invece c’è molta aggressività. Come la polizia quando si mette lo scudo antisommossa, abbassa le visiere e attacca alla cieca. Da quest’altra parte non c’è che una flebile resistenza. Chi sta appena dietro la prima linea, sembra dire: trovate un accordo, invece che farvi menare.
Accordo tra chi e chi?
L’accordo si fa in Parlamento. Lo sostiene Bersani e pure la Costituzione. Ma noi non siamo nei termini costituzionali, siamo dentro una democrazia finta. La maggioranza in Parlamento va avanti a voti di fiducia e decreti, mettendo a tacere l’opposizione.
L’opposizione parlamentare è un’utopia? Sì. L’unica possibilità è che l’opposizione si faccia anche fuori. Esattamente come la Lega. Politica sul territorio? L’astrazione in politica non esiste. In politica esiste questa casa, questa via, la casa accanto e la via accanto. Una volta c’erano le sezioni con gli attivisti. Eravamo sfottuti noi del Pci che avevamo sezioni e agit-prop. Era quello che teneva in piedi il partito. Il mio amico Leonardo Sciascia disse una volta che c’erano due parrocchie: quella del Pci e quella vera. Ecco, una ha continuato a esistere. L’altra è scomparsa. A Raiperunanotte hanno parlato i centenari, Dorfles e Monicelli. E le cose più giuste, che hanno atterrito i cinquantenni, le ha dette Monicelli parlando di rivoluzione. E sconvolgendo Giovanni Floris che ha cercato subito di metterci una pezza.
Cosa vuol dire rivoluzione?
Nessuno di noi è così cretino da pensare che sia ‘bandiera rossa e scendiamo tutti in piazza’. Monicelli vuol dire che se non si hanno idee rivoluzionarie rispetto al contesto politico attuale, con questa gente non andiamo da nessuna parte. Come disse un altro regista. In politica non si può essere un uomo buono per tutte le stagioni. Ci sono stagioni buone per ogni uomo politico.
Parliamo di D’Alema?
D’Alema è come il fantasma dell’opera: non si sa mai che fa nel sottopalco. Si è detto che Bersani è una creatura di D’Alema. Magari.
E invece che cos’è?
Uno che non tiene conto delle sollecitazioni che gli arrivano. Dai 49 senatori, da Prodi. E allora? Il marxismo prendeva atto della realtà e agiva di conseguenza. Oggi nessuno è marxista perché è un marchio d’infamia e nessuno tiene conto della realtà.
Se Bersani fosse un personaggio letterario? SarebbeRubè di Peppe Antonio Borgese: non sapendo che cosa fare, a un certo punto viene travolto dai cavalli della polizia tentando di mediare tra destra e sinistra. Non gli auguro certo questo destino.
Soluzioni, allora.
Ci vuole uno slancio di utopia. Finché questi come diceva Guicciardini restano ancorati al particulare, alle poltrone, si muore soffocati. Stanno dentro un pallone, non sono più sulla terra. Non sanno, anche se lo dicono, cosa sono i problemi reali. Ma proclamarlo non basta, perché dall’altra parte c’è un muro. Allora devi trovare i modi per vincere e poi occuparti delle cose vere. Ecco, il lessico del Pd sembra un po’ altrove. Bersani dal Messaggero: ‘È possibile rafforzare sia gli elementi di pluralità che i presidi dell’unità’. Ma che vuol dire?
È un segno, sono bloccati nel tempo. ‘Ce l’ho duro’ è un modo di comunicare. Volgare, populista, ma se la gente vuole questo non puoi parlare con ‘i presidi dell’unità’.
Bersani ha brindato al risultato delle Regionali. Quando ero piccolo si studiavano i detti di Fra Galdino. Me ne ricordo uno. Due contadini zappano, ad un certo punto uno si china e s’inzecca un ramo nell’occhio. E dice: meno male. E l’altro: perché meno male? Perché se il ramo era forcelluto, di occhi me ne cavava due. Per favore, lo racconti a Bersani.
Cosa pensa delle “riforme condivise”? Vizio antico. La Bicamerale mica l’ho inventata io. Però un pregio ce l’ha avuto: ha sdoganato Fini. È una fortuna?
Gesù mio, sì. A me non frega niente se le sue posizioni sono frutto di una tattica. Ci fa vedere una destra europea che si può rispettare. Davanti a un guastatore continuo della Costituzione come Berlusconi, chi difende i principi ha la mia solidarietà. Anche se oscilla.
A proposito di baluardi: e Napolitano? È lui che dovrebbe reclamare più potere, non Berlusconi. Se gli capita una legge che non gli va giù gliela possono rimandare così com’è e lui la deve firmare.
Il rinvio, in alcuni casi, avrebbe potuto essere un messaggio politico. Io avrei fatto come lui: Napolitano sa che se ora piove, tra poco grandinerà.
Hanno fatto la Padania. Cosa ne pensa un siciliano? Sono segni di scricchiolamento della nazione Italia. La crisi ha accelerato il processo di padanizzazione. Hanno pensato: qui c’è la ricchezza, teniamocela, pensiamo ai cazzi nostri. Vedo lo spettro di un Sud sempre più povero.
Il Pd ha fatto passi falsi anche a Sud. Come la candidatura di De Luca. Quelli del Pd sono come i lemuri che a un certo punto dell’anno s’inquadrano tutti e si buttano a mare. Ma dico: fatevi visitare. Mettetevi in analisi.
A Enna si parla di una candidatura di Crisafulli, che fu coinvolto in un’inchiesta di mafia. Sì, lì vince. Però...
Però cosa?
Se Berlusconi lo si combatte su questo campo, a criminale criminale e mezzo, noi siamo perdenti perché non ce l’abbiamo una disponibilità umana così importante. Per uno di loro ne dovremmo trovare uno e mezzo. Ma con tutta la buona volontà noi possiamo avere cose da poco e comunque perdiamo.
Si è prospettata, con Saviano, una soluzione “esterna alla politica” per il Pd. Cosa ne pensa?
Non si può andare avanti con la politica tradizionale se dall’altra parte vince chi fa una politica non tradizionale. Allora chi ci metti davanti? Un Papa straniero? Catone il censore rispondeva sempre a tutto delenda Carthago. Se politicamente non si elimina Berlusconi, io dico sempre delenda Carthago. La soluzione giudiziaria mi fa paura come quello che gli tira la statuetta.
Quale soluzione giudiziaria? Se ci sono reati vanno perseguiti. Così il premier diventa un martire. La magistratura oggi fa il suo mestiere. Fino a Mani pulite, era un pilastro del governo. Ora che la magistratura ha trovato una sua autonomia, l’hanno buttata in politica. Come se prima non lo fosse. Mi piace di più sapere che da qui a tre anni Berlusconi avrà perso altri milioni di voti. Perché se li perde non li perde per “colpa” della sinistra, li perde perché la gente si sta rendendo conto. Si renderanno conto che fino ad oggi si è occupato di materie che lo interessano, come la giustizia?
Certo. Ma quando mai si è occupato del Paese? Il 99 per cento delle leggi sono pro domo sua. La patente a punti è stata una cosa buona.
Mussolini fece la battaglia contro le mosche. Travaglio ha scritto sul Fatto di ieri ‘La legge è uguale per gli altri’.
Perfetto. È La fattoria degli animali. Nel momento in cui uno dice ‘non mi rompete le scatole, non mi processate adesso, ne parliamo tra un anno’ cade qualunque impalcatura. Propongo di levare il cartello ‘La legge è uguale per tutti’ dai tribunali: ci facciamo ridere dietro.
Ci crede al regime?
Sono stato uno dei primi a parlare di regime, nel ‘94 con Bobbio e Sylos Labini. Fui sputtanato e sbeffeggiato da tutti. Toh, c’è aria di regime. Ma davvero?
A cosa andiamo incontro?
Al sogno di Calderoli. Nel 2013 avrete un capo del governo leghista e Berlusconi presidente della Repubblica. Io a settembre faccio 85 anni. Auguri a voi.

il Riformista
Caro Bettini, hai ragione ci manca una cultura politica
di Ritanna Armeni

il Fatto 14.4.10
Bertone fa infuriare i gay, il papa tace
Insulti sui muri della casa natale di Ratzinger in Baviera
I gesuiti attaccano Sodano, legato alla vicenda del fondatore dei Legionari Marcial Maciel
di Andrea Gagliarducci

Nel giorno in cui padre Lombardi, portavoce della Sala Stampa della Santa Sede, annuncia che il Papa potrebbe incontrare le vittime degli abusi anche a Malta, ma “lontano dal clamore dei media”, le parole del cardinal Bertone, segretario di Stato vaticano, rimbalzano dal Cile e danno vita a una polemica che non accenna a diminuire. Bertone ha detto che il problema della pedofilia tra i sacerdoti viene dall’omosessualità, non dal celibato. Parole “politicamente scorrette” che suscitano la reazione adirata del mondo gay, ma anche le precisazioni degli psichiatri cattolici e del Centro Studi Teologici di Milano.
Un corto circuito comunicativo che sembra lasciare Benedetto XVI ancora più solo alla guida della macchina vaticana. Il Papa ieri è ritornato da Castel Gandolfo, dove ha trascorso un periodo di riposo a seguito degli impegni pasquali. Ha preferito non parlare riguardo gli scandali, ma concentrarsi piuttosto sul Vangelo: è la sua prassi. Si è confrontato con gli uomini più fidati, ma soprattutto in preparazione del viaggio a Malta, dove – spiega padre Lombardi – parlerà di “immigrazione, di valori cristiani e della necessità di valorizzarne la tradizione”. Ma sono sempre più le spinte perché Benedetto XVI prenda una posizione forte nei confronti della pedofilia, come già ha fatto negli Stati Uniti e in Australia. E 11 delle vittime di pedofilia (sarebbero 45 i sacerdoti maltesi accusati di pedofilia) hanno chiesto di poter incontrare il Papa. L’incontro è molto probabile, dice padre Lombardi, ma “lontano dal clamore dei media”. Un po’ quello che è successo negli Stati Uniti, quando – fuori agenda – Benedetto XVI incontrò un gruppo di vittime. Ma al ritorno in Vaticano, Benedetto XVI ha trovato due brutte notizie: la notizia delle frasi oscene scritte con una bomboletta spray di colore blu a Marktl-am-Inn, la sua casa Natale, e le polemiche causate dalle parole del suo Segretario di Stato.
“Le parole del Segretario di Stato Tarcisio Bertone, che pretendono di individuare nell’omosessualità la radice della pedofilia, suscitano una irreparabile indignazione – commenta Anna Paola Concia (Pd) – E’ davvero sconfortante che ancora oggi eminenti rappresentanti della Chiesa Cattolica si lascino andare ad analisi così grossolane, sbagliate, smentite dall’Organizzazione Mondiale della Sanità e non condivise dalla maggioranza dei cattolici”.
Non le condivide, ad esempio, il Centro Studi Teologici di Milano, che ribatte polemicamente che “il cardinale Bertone dovrebbe occuparsi del pre-seminario San Pio X, il collegio dei chierichetti che fanno servizio in Basilica di San Pietro e che si trova dentro la Città del Vaticano e che servono messa al Papa e ai cardinali, visto che molti parroci in Italia e all’estero non mandano più i ragazzini perché venivano molestati sessualmente, invece di gettare discredito sulle persone omosessuali”. E l’Associazione Italiana Psicologi e Psichiatri Cattolici ci tiene a sottolineare che “non c’è nessun legame tra pedofilia e omosessualità”, e che ogni teoria psichiatrica che sottolinea un nesso tra le due cose sono “assolutamente prive di fondamento”. L’Arcigay parla di un’equazione “falsa, ignobile e antiscientifica”, una “affermazione disonesta che colpisce la vita e la dignità di milioni di persone gay e lesbiche”.
Il fuoco incrociato viene contro la dichiarazione imprudente di Bertone. Ma la testa a cadere dovrebbe essere quella del suo predecessore, il cardinal Sodano, sostiene il mensile dei gesuiti “America”. Sodano in questi giorni di assenza del Segretario di Stato per un viaggio apostolico in Cile si è dimostrato attivissimo: da decano del Sacro Collegio ha promosso un pranzo di cardinali in onore del quinto anniversario di Pontificato, e ha pronunciato un irrituale discorso in difesa del Pontefice durante la Messa di Pasqua. Ma il cardinale è legato a doppio filo alla vicenda del fondatore dei Legionari di Cristo, Marcial Maciel, che per anni – nonostante abusi ripetuti e anche relazioni con donne con tanto di figli, e una visita Apostolica subita già negli anni Cinquanta – ha goduto di protezioni molto alte in Vaticano, anche attraverso il pagamento di “bustarelle”. È stato Ratzinger, da Prefetto dell’ex Sant’Uffizio, a voler far partire il procedimento contro Maciel, e Benedetto XVI a dimetterlo allo stato laicale. Lo ricorda il mensile “America”, che sottolinea: “Leggendo dei potenti legami di denaro e di famiglia tra i due uomini (il nipote di Sodano, Andrea, fu assunto da Maciel per costruire l’Università della Legione a Roma) è adesso molto più facile capire che tipo di battaglia deve aver combattuto l’allora cardinale Joseph Ratzinger per costringere Maciel a dimettersi nel 2004”. La decisione riguardo i Legionari sarà presa dal Papa di ritorno dal viaggio a Malta: la possibilità è che vengano commissariati, e per il commissario si fa il nome del cardinale José Saraiva Martins.

il Fatto 14.4.10
La politica prova ad abolire la prescrizione
Dopo le aperture del vaticano, si pensa a una modifica del codice penale
Angela Napoli: “Presenterò una proposta in occasione della Giornata mondiale contro la pedofilia”
di Vania Lucia Gaito e Caterina Perniconi

Nelle linee guida del Vaticano sulla pedofilia si parla per la prima volta dell’abolizione della prescrizione del reato. Ovviamente la novità, se introdotta, riguarderà solo il diritto canonico, che fino ad oggi prevede la decadenza del crimine dopo dieci anni dal diciottesimo compleanno della vittima. La legislazione italiana, invece, estingue il reato entro dieci anni da quando è stato commesso. Questo perché nel 2005, con la legge ex Cirielli, è stato stabilito che il tempo necessario a prescrivere corrisponda direttamente al massimo della sanzione. Per la violenza sessuale, quindi, la pena massima prevista è di 10 anni, di conseguenza entro tale termine si prescrive anche il reato di atti sessuali su minori. Perché in Italia il reato di pedofilia non esiste. E’ previsto, invece, il caso specifico di “atti sessuali su minori”, poiché il coinvolgimento di un minorenne in attività sessuali, anche non caratterizzate da alcun tipo di violenza o minaccia, è di per sé considerato criminale, ed è prevista una pena da cinque a dieci anni.
Nei paesi in cui la correlazione introdotta dalla ex Cirielli fra massimo edittale e prescrizione non esiste, è possibile agire con maggiore tempestività per adeguare la legge a quelle che sono le necessità sociali. In Olanda, il reato di abusi si estingue in 20 anni dal momento in cui la vittima diventa maggiorenne. Ed il governo olandese sta discutendo la possibilità di rendere il reato imprescrittibile. In Germania i conservatori hanno proposto un “allungamento” dei tempi a 30 anni, rispetto agli attuali 10-20 anni, a seconda dei casi.
Tra l’altro in molti di questi paesi potrà essere applicata l’indicazione che viene dalla Santa sede, ovvero che “la diocesi indaga su qualsiasi sospetto di abusi sessuali da parte di un religioso nei riguardi di un minore” e che “va sempre dato seguito alle disposizioni della legge civile per quanto riguarda il deferimento di crimini alle autorità preposte”. Infatti dall’America alla Francia, i vescovi hanno la responsabilità dei sarcedoti loro sottoposti. E di conseguenza avranno l’obbligo di denunciarli. La stessa cosa che deve fare il preside di una scuola se scopre l’abuso da parte di uno degli insegnanti. In Italia i vescovi non esercitano diretta responsabilità, quindi possono querelare, ma non sono costretti a farlo. “Prevedere l’imprescrittibilità non è semplice – spiega Lanfranco Tenaglia, deputato democratico membro della commissione Giustizia – bisognerebbe alzare la pena, che adesso è di dieci anni, e non mi sembrerebbe neanche sbagliato, considerato il tipo di reato, per poi di conseguenza elevare i termini di estinzione”.
Per il radicale Maurizio Turco, un cambiamento sulla prescrizione è necessario: “Il tempo di maturazione della consapevolezza di questi reati – spiega Turco – è molto lungo. Quindi io sarei il primo a chiedere che non decadano. Ma temo che non ci sia la volontà politica, e una proposta di legge in tal senso sarebbe solo un atto pro forma”. Turco pensa di non avere i numeri, ma non ha ancora fatto i conti con la collega del Popolo della libertà, Angela Napoli: “Sono assolutamente contraria all’applicazione della prescrizione per un reato così grave – ha dichiarato la Napoli – prevederla significa incoraggiare la reiterazione. Alla luce, purtroppo, dei fatti eclatanti che stanno emergendo, all’aggravamento oltre alla rapida divulgazione, io credo che non si possa più consentire di prescrivere. Il 5 maggio – ha concluso la deputata del Pdl – in occasione della seconda giornata mondiale della pedofilia, mi farò promotrice di una modifica del codice penale che preveda proprio l’abolizione dei termini di prescrizione per un crimine così diffamante”.

Repubblica 14.4.10
Parla Franco Grillini presidente onorario di Arcigay
"È un assurdo scientifico cercano un alibi all´omertà"
Ci pensa la cronaca a smentire il cardinale col sacerdote accusato di aver molestato una bambina
di Caterina Pasolini

ROMA - «Il cardinal Bertone dice infamità, mente sapendo di mentire». Non va leggero Franco Grillini, storico presidente dell´Arcigay ora deputato dell´Idv e direttore di Gaynews. E lancia una manifestazione di protesta sotto il Vaticano con pubblica lettura dei casi di abusi sessuali da parte di sacerdoti chiedendo che chi ha subito parli, scriva a infogaynews.it «Perché bisogna rompere mezzo secolo di omertà».
Chi mente?
«Il cardinale perché equipara omosessualità e pedofilia, un assurdo scientifico, ma ci pensa la cronaca a smentirlo col sacerdote accusato di aver molestato una bambina».
Bertone cita esperti...
«Bischerate. La realtà è che l´Oms parla di omosessualità come di una caratteristica della personalità, una variante naturale del comportamento umano mentre la pedofilia è una patologia. Il problema però è un altro».
Qual è il nodo?
«La chiesa si sente sotto attacco e cerca di spostare l´attenzione, di far dimenticare che per 50 anni ha scelto una politica omertosa, invitando a non denunciare alla giustizia i casi di abusi ma solo a segnarli alle autorità religiose».
Silenzio e segreti?
«Sì, è la morale italiana cattolica: vizi privati e pubbliche virtù, all´insegna del si fa, ma non si dice. Perché tutti sanno ma non parlano».
Esperienza personale?
«Quando ero ragazzino un sacerdote mi fece strane domande, mi invitò in sagrestia ma io a disagio corsi a casa. Anni dopo si scoprì che aveva abusato di altri adolescenti, che tutti sapevano».
Che fare?
«Il celibato è un assurdo, non è possibile che ragazzi giovani siano costretti ad una vita senza relazioni affettive e sessuali, poi finisce che non riescono a trattenersi e abusano dei più deboli».

Repubblica 14.4.10
La confusione della Chiesa
di Francesco Merlo

È un disagio più che un errore, non è un´analisi più o meno grossolana ma una reazione scomposta, è un danno che la Chiesa non fa agli omosessuali ma a se stessa.
Il cardinale Tarcisio Bertone, che è un uomo di solito prudente ed è, nientemeno, il numero due dello Stato Vaticano, per difendere il celibato ha abusato dell´omosessualità: «Molti sociologi, molti psichiatri hanno dimostrato che non c´è relazione tra celibato e pedofilia - ha detto in Cile - e invece molti altri hanno dimostrato, me lo hanno detto recentemente, che c´è una relazione tra omosessualità e pedofilia».
Sulla natura e le origini della pulsione pedofila sono state scritte molte cose, ma che ci sia un rapporto statistico-scientifico tra omosessualità e pedofilia è sicuramente una bugia. Detta da un teologo la bugia è ancora più grave. Il cardinale Bertone ha infatti un rapporto altissimo con il candore e con l´amore, un´abitudine filosofica con la profondità, è un uomo di Dio. Perciò davvero ci sorprende che sia entrato a piedi uniti su una questione così delicata e complessa. E ci pare, alla fine, che le sue parole non debbano essere lette come un manifesto teocratico dell´intolleranza a uso e consumo degli omofobi, ma come una drammatica confessione di debolezza, dello stato confusionale in cui si trova la Chiesa cattolica in questo momento.
Tutti sappiamo che la pedofilia è sesso con bambini o bambine, è uno dei tanti misteri della psiche e della storia dell´umanità, la conosciamo dai tempi dell´antica e tollerante Grecia. Per noi è perversione, è depravazione, è violenza perché il pedofilo rende disponibile a sé un corpo che non è ancora animato autonomamente, non è maturo per le scelte sessuali, non è responsabile. Alla bimba o al bimbo viene infatti imposto un rapporto fisico in maniera subdola da qualcuno che è più grande, è autorevole, gode della sua fiducia, esercita una forte influenza spirituale.
Ecco, a noi pare molto strano che un uomo di Chiesa non si renda conto di quanto sia oltraggioso imputare di reato l´omosessualità, associarla alla pedofilia. Noi non abbiamo la presunzione di sapere che cos´è l´omosessuale né qual è la maniera meglio accettata da Dio di definire o di praticare la sessualità in genere. Ma tutti, anche Bertone e il clero di Roma, sanno che la pedofilia è un reato, un feroce abuso e invece l´omosessualità – sia una scelta o sia imposta dalla natura – è comunque legittima tanto quanto l´eterosessualità. Hanno gli stessi titoli. A nessun cardinale è venuto in mente di giustificare o soltanto di associare con argomenti scientifici lo stupro con l´eterosessualità: ci sono eterosessuali stupratori e ci sono eterosessuali pedofili, maschi e femmine, come ci sono ladri calvi e ladri capelloni. Non è il capello che fa l´uomo ladro, illustre cardinale.
E però è così facile replicare al cardinale Bertone che mentre scriviamo stiamo ancora a chiederci che cosa sta succedendo nella nomenklatura della Chiesa di Roma. Noi sappiamo bene che ci sono molti preti all´avanguardia nella battaglia contro la pedofilia e la depravazione violenta. Sarebbe dunque grossolano sostenere che tutti i preti, in quanto celibi, sono pedofili, perché appunto ne vediamo tanti che si danno anima e corpo a difendere i bambini, a proteggere la loro ingenuità, a rilanciare l´immagine evangelica dei pargoli che vanno a Cristo.
Fosse solo dal punto di vista della comunicazione, i pastori di Roma non ne indovinano più una. Sembrano non custodire più il gregge, non proteggere più le pecorelle. Invece di limitarsi a rimediare ai propri difetti e a ripulire la propria comunità dai vizi, rispondendo ovviamente nel merito a chi eccede e a chi attacca per anticlericalismo preconcetto, si arroccano in una difesa aggressiva che è più deleteria degli attacchi subiti. L´idiozia di evocare un complotto sionista perché il New York Times appartiene a un ebreo è una tecnica tipica dei cavernicoli, da Polifemo che accecato dal suo dolore accusava Nessuno, ai falsi protocolli di Sion che imputavano agli ebrei di attentare alla cristianità. Anche la minimizzazione del quotidiano americano, definito «un tabloid», è roba da polemisti di provincia. Da uno dei poteri più antichi, sapienti e collaudati, ci si aspetterebbe un´intelligenza e una spiritualità più attrezzate.
Diciamo la verità: non siamo abituati a una Chiesa che si arrampica sugli specchi, allo smarrimento di una gerarchia ecclesiastica spaventata dagli scheletri negli armadi. Certo Tarcisio Bertone ha il diritto e anche il dovere di difendere la Chiesa e il celibato dei preti, ma offendendo così gli omosessuali tradisce la sua fragilità, espone la sua omofobia, disarma tutti i soldati di Cristo.

il Riformista 14.4.10
Omosessuli e pedofili
Confusione
di Francesco Peloso

Corriere della Sera 14.4.10
Individui insofferenti alle regole Istituzioni incapaci di garantire un’etica pubblica. E si indeboliscono i valori laici
Crisi del reato e ritorno del peccato
Più moralismo politico e meno legalità: così rischiamo un nuovo fondamentalismo
di Giuseppe De Rita

l’Unità 14.4.10
L’eutanasia è legale già dal 2002. Si potrebbe estenderla anche ai sani
«La vita è un diritto, non un dovere» sostengono 120.000 persone
Suicidio assistito non solo ai malati In Olanda si riapre il dibattito
di Laura Lucchini

Per presentare una proposta di legge che estendesse l’eutanasia anche agli ultrasettantenni non gravemente malati sarebbero servite 40.000 firme. Ne sono state raccolte con grande rapidità 120.000.

Tutti i cittadini olandesi over 70 che si sentono stanchi di vivere dovrebbero avere il diritto a un aiuto professionale a morire. Lo chiede un’iniziativa cittadina che ha già raccolto 120.000 firme, un numero sufficiente perché se ne discuta in parlamento. Alla proposta ha dato il suo appoggio un numero consistente di personalità olandesi, tra gli altri anche ex ministri, artisti, scrittori e intellettuali. Il governo che uscirà dalle elezioni di giugno potrebbe discutere la proposta in estate.
In Olanda l’eutanasia è legale gia dal 2002, ma riguarda solo i malati terminali; c’erano bisogno di 40.000 firme per sottoporre al Parlamento l’estensione della morte dolce anche a chi non è gravemente malato. Secondo la legislazione attuale infatti l’eutanasia si pratica solo in caso di «sofferenza insopportabile» o «casi irreversibili».
«SECONDO LA PROPRIA VOLONTÀ»
L’iniziativa, che conta con l’appoggio anche dell’ex ministra di Cultura Hedy D’Ancona, di 72 anni, si riunisce attorno allo slogan «vrijwillig levenseinde», che significa «secondo la propria volontà», ed è un movimento figlio dell’organizzazione Nvve (nvve.nl), nata in Olanda nel 1973 (allora intorno al motto «diritto di morte») e protagonista della battaglia per l’eutanasia. Il gruppo conta oggi con 107.000 membri, l’ufficio ha base a Amsterdam dove 20
persone lavorano con l’aiuto di 145 volontari sparsi in tutto il paese.
Tra i gli obiettivi principali del movimento, annunciati nella web, c’è «l’ampliamento dei confini legali entro cui è permesso il suicidio legalmente assistito». L’iniziativa parte da una considerazione concreta: ogni anno 400 anziani si tolgono la vita in modo violento in Olanda, e non si tratta di persone malate, perché per questi casi esiste l’eutanasia. Si tratta, secondo l’ organizzazione, semplicemente di persone «stanche di vivere».
Secondo la portavoce del movimento Marie-José Grotenhuis, olandese, 62 anni, i settantenni di oggi hanno vissuto dopo la guerra, «hanno condotto vite indipendenti e responsabili e considerano logico decidere riguardo alla propria morte». L’associazione sostiene che la società attuale non presti sufficiente attenzione all’idea della morte. «La vita è un diritto, non un dovere. E il suicidio assistito dovrebbe essere legalizzato, a partire dal 70esimo anno di età a persone sane che non vogliono più vivere», ha spiegato Grotenhuis.
Una delle principali critiche alla proposta è il rischio di possibili abusi sulla volontà dell’anziano. L’associazione ha presentato una formula preventiva per evitarli. Sarebbe necessaria la formazione di personale eterogeneo (psicologi, medici, infermieri così come guide spirituali o religiose) in grado di stabilire caso per caso se l’anziano che chiede di morire lo fa serenamente o è soggetto a pressioni. Allo stesso modo dovrebbero giudicare circostanze esterne come motivi economici o d’eredità. Queste persone dovrebbero sottoscrivere un certificato etico che li vincola a rispettare in particolare il carattere «non violento» del processo.
Arrivato il momento dovrebbero essere queste persone a somministrare l’iniezione totale. Se non si tratta di malati o anziani con problemi motori potrebbero procedere essi stessi autonomamente a iniettarsi la soluzione. Nessuno dei presenti o coinvolti nel processo potrebbe essere perseguito penalmente.
DIVISI I MEDICI
La Royal Dutch Medical Association è divisa riguardo all’eventualità di estendere l’eutanasia e ha creato una commissione per valutare la proposta. Sander Hoffman, portavoce di questa associazione ha detto che «probabilmente un medico ha anche un ruolo per esempio nel alleviare i dolori di chi sta soffrendo».
In ogni caso, è probabile che, una volta formato il nuovo Parlamento (la tornata elettorale si tiene il 9 giugno), siano necessari anni prima di arrivare a modificare la legge. La legalizzazione dell’eutanasia, approvata nel 2002, è stata preceduta da almeno vent’anni di discussioni che hanno portato all’inclusione di condizioni molto severe. Nel 2009, 2500 persone se ne sono servite.

Corriere della Sera 14.4.10
Il nuovo volume di Del Boca
Gas e massacri sui campi d’Etiopia
di Aurelio Lepre

martedì 13 aprile 2010

l’Unità 13.4.10
Abusi, linee guida del Vaticano
Le vittime Usa: «Non basta»
di Marina Mastroluca

Procedure Obbligo di denuncia alle autorità civili, il Papa può «spretare» i pedofili senza processo
L’ associazione americana «Non mancano strumenti ma coraggio». Bertone: presto novità

La S.Sede pubblica on line le linee guida sulle procedure per i casi di abusi sessuali. Obbligo di denuncia all’autorità civile, il Papa potrà ridurre allo stato laicale i colpevoli, senza processo. Le vittime Usa: «Non basta».

Due paginette in inglese per spiegare il da farsi davanti a un caso di pedofilia. Eccola la risposta della Santa Sede allo scandalo e per quanto la Sala stampa vaticana sembri quasi minimizzare l’evento «non è un nuovo documento ma una guida applicativa delle norme
del 2001» delle novità ci sono, eccome. Per la prima volta si trova scritto nero su bianco che «si deve sempre seguire la legge civile per quanto riguarda la denuncia dei crimini alle autorità competenti»: i panni sporchi non basterà lavarli in famiglia. E nei casi più gravi, quando c’è stata la condanna di un tribunale o una colpa evidente, il Papa potrà decidere direttamente e in modo inappellabile sulla riduzione del reprobo allo stato laicale, senza passare attraverso la procedura ordinaria del processo. Un passo avanti «rispetto alle sole parole delle settimane scorse», per l’associazione anti-pedofilia «La Caramella buona», che chiede comunque di cancellare la prescrizione di 10 anni a partire dalla maggiore età delle vittime. Ma non abbastanza per la più importante associazione di vittime di preti pedofili negli Stati Uniti, la Snap: «Solo un minimo progresso, nel senso più limitato possibile». Ma il cardinal Bertone preannuncia «altre iniziative». Il documento pubblicato sul sito del Vaticano non è altro che la sintesi divulgativa di un regolamento interno che la Congregazione per la Dottrina della fede si era data già nel 2003, due anni dopo essere stata investita da Giovanni Paolo II dei casi di pedofilia, con il «Delicta graviora»: un testo, quest’ultimo, che non conteneva alcun riferimento all’obbligatorietà del ricorso alla giustizia civile né alla facoltà del Papa di spretare i colpevoli. Per il momento quindi le linee guida non hanno ancora il valore formale del diritto canonico, ma la Congregazione per la dottrina della fede ci starebbe lavorando.
Il testo stabilisce che le diocesi locali investighino su ogni caso segnalato di abusi sessuali, riferendo alla Congregazione se ci sono riscontri.
Durante questa fase preliminare, il vescovo «può imporre misure precauzionali per salvaguardare la comunità, incluse le vittime» e ha la facoltà di «limitare le attività di qualunque prete nella sua diocesi» per proteggere i bambini. Una volta arrivato davanti alla Congregazione della Dottrina della fede, il caso può essere deciso con un processo penale o amministrativo, condotto dal vescovo locale. Sono previste quindi «una serie di pene canoniche», la più grave delle quali è la riduzione allo stato laicale. Il processo può saltare nei casi più gravi condanna di un tribunale civile o colpe evidenti o se il prete coinvolto ha deciso di tornare allo stato laicale: in queste circostanze il Papa può decidere al di fuori della procedura ordinaria. C’è poi la possibilità di adottare misure restrittive nei confronti di preti pedofili che abbiano ammesso le loro colpe e siano disposti a condurre una vita di preghiera e penitenza.
«LE PROCEDURE NON BASTANO»
Qualcosa ma non abbastanza, secondo la Snap americana che considera insufficiente la pubblicazione di un testo riservato e finora «rispettato in modo estemporaneo». «Le proposte della Chiesa, che siano on line o meno, sono largamente irrilevanti ha detto la presidente dell’associazione, Barbara Blaine -. I vescovi virtualmente non rispondono a
nessuno e possono facilmente ignorarle. Il punto era e resta sempre lo stesso: non è per mancanza di procedure che i preti pedofili rimangono ancora in carica e i vescovi nascondono questi crimini. Quello che manca invece è il coraggio. Gli strumenti per intervenire ci sono tutti».
Ed in effetti stride con gli annunci vaticani la lettera alle parrocchie inviata dai vescovi del Connecticut, perché sostengano un’iniziativa contro la proposta di legge per la riapetura dei casi di pedofilia caduti in prescrizione. Il testo prevede la possibilità di ricorrere alla giustizia anche dopo 30 anni dalla maggiore età delle vittime. «Se venisse approvata questa legge metterebbe a rischio la missione della Chiesa cattolica... Sarebbero in pericolo tutte le istituzioni cattoliche».❖

il Fatto 13.4.10
“Complotto sionista”: Babini smentisce, Pontifex insiste
Guerra di nastri tra il vescovo emerito di Grosseto e il direttore del sito. La Cei: stringersi intorno al pontefice
di Andrea Gagliarducci

F inirà in tribunale? Noi attendiamo, e con i nastri: la pazienza si è esaurita”. Bruno Volpe, direttore del sito Pontifex, commenta così la ritrattazione di Giacomo Babini, vescovo emerito di Grosseto. In un’intervista al portale, aveva definito lo scandalo pedofilia “un attacco sionista” da parte di “ebrei deicidi”. Parole durissime, che avevano causato la protesta formale dell’American Jewish Committee. Lo stesso Babini ha poi fatto pervenire alla Cei una nota scritta, smentendo di aver mai fatto quelle dichiarazioni. È a questo punto che Bruno Volpe mette mano sulla tastiera e scrive l’editoriale. Non è la prima volta che alcune dichiarazioni raccolte su Pontifex scatenano proteste. Ma Volpe, ogni volta che monta una polemica, brandisce i nastri dell’intervista. È successo tempo fa, con un’intervista al vescovo polacco Pieronek, che aveva parlato della Shoah come di una “invenzione ebraica”: parole prima ritrattate, e poi confermate dallo stesso vescovo.
Le dichiarazioni rese da Babini a Pontifex sono ancora più dirompenti: dietro l’attacco al Papa – dice – c’è un complotto sionista. “In fondo – chiosa – storicamente parlando, i giudei sono deicidi”. La Shoah, poi, prosegue, “fu una vergogna per la intera umanità, ma ad esso occorre guardare senza retorica e con occhi attenti. Non crediate che Hitler fosse solo pazzo. La verità è che il furore criminale nazista si scatenò per gli eccessi e le malversazioni economiche degli ebrei che strozzarono l’economia tedesca. Una tanto veemente reazione si deve anche a questo: la Germania era stanca delle angherie di chi praticava tassi di interesse da usura”. L’Ajc protesta: il rabbino David Rosen chiede “che la Cei condanni categoricamente questi stereotipi diffamatori, che evocano tristemente la peggiore propaganda cristiana e nazista precedente la Seconda guerra mondiale”. Replica a stretto giro Babini: “Mi si attribuiscono dichiarazioni sui fratelli ebrei da me mai pronunciate: preciso che in alcun modo ho espresso simili valutazioni e giudizi da cui prendo nettamente le distanze. Rinnovo ai nostri fratelli maggiori nella fede la mia fraterna stima e piena vicinanza, in sintonia con il magistero della Chiesa costantemente riaffermato dal Concilio Vaticano II in poi”. L’Ajc riporta anche una dichiarazione di monsignor Paglia, ex presidente della Commissione Ecumenica della Cei, che sottolinea che “tali affermazioni infatti sono completamente estranee al Magistero della Chiesa cattolica”:
Ma è a questo punto che Volpe non solo brandisce i nastri, ma ricorda altre dichiarazioni di Babini a Pontifex, mai smentite: “Gli ebrei usano la Shoah come una clava” (27 gennaio) e “gli ebrei non sono più i nostri fratelli maggiori” (25 gennaio). Intanto, sul blog dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, la storica Anna Foa, firma dell’Osservatore Romano, che sottolinea: “Le sue dichiarazioni erano così folli che, più che scomodare l’antisemitismo, bisognava forse pensare a qualche problema d’età o di testa”. È un momento difficile per la Chiesa. Tanto che la Cei invita a “stringersi nella preghiera intorno al Papa, centro di unità e segno visibile di comunione” il 19 aprile, quinto anniversario dell’elezione, lasciando libero ogni vescovo di “individuare a livello locale le forme più adatte”. Allo stesso tempo, i vescovi ricordano che “la Chiesa in Italia non viene meno al dovere della purificazione, pregando in particolare per le vittime di abusi sessuali e per quanti, in ogni parte del mondo, si sono macchiati di tali odiosi crimini”.

il Fatto 13.4.10
di Dio e dell’etica
Socrate e Ratzinger
di Ferdinando Camon

L a lettera del cardinale Ratzinger, pubblicata ieri da tutti i giornali, con la quale l’allora responsabile della Congregazione per la Dottrina delle Fede risponde sul problema di dispensare dagli oneri sacerdotali il reverendo Miller Kiesle, colpevole di pedofilia, invitando a prender tempo e a tener presente anche il bene della Chiesa cattolica, è un importantissimo documento storico. Perché dimostra che il cardinale (come il Papa precedente, e quello precedente ancora) avvertiva nell’affrontare i casi di pedofilia tra i preti lo scontro tra due beni: il bene delle vittime e il bene della Chiesa. I due beni non vanno d’accordo, chi ha il potere di decidere deve scegliere: o protegge le vittime danneggiando la Chiesa, o protegge la Chiesa abbandonando le vittime. Una sconosciuta lettrice ha mandato a un giornale una letterina semplice semplice in cui espone un problema terribile per il cattolico credente. Dice: “Anch'io, se sapessi che un prete commette atti di pedofilia, non lo denuncerei alla giustizia civile ma solo alla chiesa, perché prima di dire o fare qualcosa, mi pongo sempre la domanda: a chi giova, a Dio o a Satana?”. Non denunciando, eviti un oltraggio alla Chiesa, e questo è bene, Dio lo gradisce e lo chiede. Denunciando, fai uno scandalo enorme, la Chiesa resta colpita, e questo è Satana che lo chiede e lo gradisce. C’è un librino esile che nessuno cita (e questo mi stupisce), centrato in pieno sul problema di fronte al quale si trova Ratzinger, e prima di lui gli altri papi. È un dialogo di Socrate intitolato “Eutifrone”. Eutifrone è un sacerdote, Socrate lo trova per strada (il sacerdote sta andando a testimoniare in non so qual processo), lo ferma e impianta una discussione su questo tema: un’azione è buona perché piace a Dio, o piace a Dio perché è buona? Eutifrone, da buon sacerdote, risponde: un’azione è buona se piace a Dio. Socrate cerca di spostarlo sull’altra risposta, ma non fa in tempo, il dialogo s’interrompe. C’è un film di qualche anno fa intitolato “Water”, acqua, e ambientato in India, in cui per pochi minuti, tre-quattro, appare Gandhi. Non c’entra niente con la trama del film, ma passa in treno, la gente accorre per salutarlo, lui scende per compiacerla, fa pochi passi e regala una briciola si saggezza. Dice: “Fino a ieri credevo che Dio fosse la verità, oggi so che la verità è Dio”. È un salto enorme. Il salto che Socrate cerca di far fare ad Eutifrone. Il salto che Paolo VI non ha fatto, né Giovanni Paolo II, né Ratzinger fino alla lettera ai fedeli irlandesi di poche settimane fa. Se una cosa è buona perché piace a Dio, allora non-denunciare non solo non è una colpa, ma è un merito. Se c’è da scegliere tra Dio e la Giustizia, scegliendo il primo scegli anche la seconda. Solo la lettera ai fedeli irlandesi rovescia questo principio. Perché dice ai preti pedofili: “Dovete rispondere davanti a Dio onnipotente, come pure davanti ai tribunali debitamente costituiti”. Non è più vero che, se c’è da scegliere tra Dio e giustizia, scegliendo il primo scegli anche la seconda. È vero l’inverso: scegliendo la giustizia scegli Dio. La lettera pubblicata ieri e firmata da Ratzinger è del 1985, allora tutta la cultura cattolica (tranne quella del dissenso) era vincolata a scegliere Dio, con ciò scegliendo il bene. Spostarla a scegliere il bene, nella convinzione che lì sta Dio, è un’operazione titanica, per la quale ci vorrà un lungo tempo. Con la lettera agli irlandesi questo tempo comincia. Incolpare Ratzinger di essersi formato nel tempo precedente non ha senso. È più giusto dargli atto di aver inaugurato il grande transito, cominciando a spingere la Chiesa fuori dall’etica pre-socratica.
(fercamon@alice.it)

l’Unità 13.4.10
Ipazia, la donna che osò sfidare la Chiesa in difesa della scienza
di Mariateresa Fumagalli

Il convegno Due giornate dedicate alla filosofa-astronoma martire in nome del libero pensiero
L’eroina Morì nel IV secolo d.C. per mano delle armate cristiane: voleva «insegnare a pensare»
Ospitiamo in questa pagina un articolo di Mariateresa Fumagalli, storica della filosofia, che anticipa i temi dei quali parlerà al convegno dedicato a Ipazia il prossimo 20 aprile a Milano.

Avvolta nel suo mantello Ipazia percorreva, libera e armata dalla ragione, le strade di Alessandria d’Egitto nel V secolo, parlando dell’Essere e del Bene, della inessenzialità delle cose materiali, della fragilità della vita, della bellezza della meditazione ai molti che la riconoscevano maestra di pensiero e di vita. «Atena in un corpo di Afrodite». Era naturale che qualcuno si innamorasse di lei e Ipazia con un gesto da filosofa «cinica» per disilludere l’innamorato mostrava le sue vesti intime macchiate del sangue mestruale a indicare lo «squallore della vita» e la verità dell’amore che deve superare il corpo.
Cosa insegnava Ipazia ammirata anche dai suoi allievi cristiani? In una città dove pagani, cristiani e ebrei convivevano non sempre in pace? È quasi impossibile saperlo con certezza: degli scritti di Ipazia, matematica astronoma e filosofa soprattutto, seguace della scuola di Platone e di Plotino nella turbolenta Alessandria d’Egitto di quei secoli, nulla è rimasto. Paradossalmente quasi tutto quel che sappiamo del suo insegnamento lo apprendiamo dal suo allievo cristiano Sinesio, divenuto in seguito vescovo, ma non per questo meno filosofo. Sinesio la chiama «madre sorella e maestra» e nelle sue opere giovanili rispecchia probabilmente i temi del pensiero di Ipazia che si ispirava a sua volta a Plotino e, sembra, al suo allievo Porfirio. Un altro cristiano (chiamato Socrate Scolastico per distinguerlo da quello antico, il maestro di Platone) scrive che Ipazia «con la magnifica libertà di parola e di azione che le veniva dalla sua cultura si presentava in modo saggio davanti ai capi della città e non si vergognava di stare in mezzo agli uomini perché a causa della sua straordinaria sapienza tutti la rispettavano profondamente...». Dunque le cose erano un po’ più complicate di quel che appare nell’immagine convenzionale di Ipazia martire predestinata che in nome del libero pensiero e «in difesa della scienza sfida la chiesa». Per prima cosa c’è da chiedersi «quale scienza e quale chiesa»? La scienza e la filosofia insegnata da Ipazia
e dai neoplatonici, erano saperi congeniali a una religione della salvezza fondata sui valori dello spirito come il cristianesimo. Molti storici definiscono del resto la religione cristiana una forma di platonismo. Quanto alla religione cristiana oramai istituzionale, è vero, dopo gli editti di Costantino e Teodosio – la chiesa non era allora il corpo accentrato e potente che diverrà, e viveva conflitti interni violenti, divisa in nestoriani, ariani e altre sette. Niente di paragonabile alla forza organizzata e al pensiero solido della chiesa romana di un millennio dopo ai tempi di Galileo (paragone certamente anacronistico ma irresistibile a quanto pare). Da dove nasceva allora il conflitto che opponeva filosofi e cristiani?
«La divisione non avveniva fra monoteismo e politeismo» (E.R. Doods) come siamo abituati a credere: sia i filosofi pagani che quelli cristiani (Clemente, Origene, Gregorio Nisseno) pensavano che Dio fosse incorporeo, immutabile e al di là del pensiero umano. Per entrambi l’etica era «assimilazione a Dio»; si trattava tuttavia di sapienti che leggevano in parte gli stessi libri e assimilavano la virtù alla ragione.
UOMINI COLTI, UOMINI SEMPLICI
Ma una differenza c’era: la filosofia neoplatonica parlava agli uomini colti, mentre il Vangelo si rivolgeva ai «semplici», notava il pagano Celsio con disprezzo e il cristiano Origene con orgoglio. È in mezzo a questi «semplici» o «illetterati» che Ipazia trova i suoi nemici, cristiani che si rifugiavano per forza di cose nella fede cieca diventando strumento dei più fanatici come del resto aveva già notato ai suoi tempi, allarmato S. Gerolamo. È una storia che si ripete. La massa degli illetterati e dei diseredati non aveva difese contro la angoscia che invadeva le menti, agitava i sogni , annullava le speranze di quei tempi duri. Alessandria, come e più di altre città di quei secoli, viveva in una situazione di incertezza materiale e politica, timore di guerre, perdita di identità, caduta del benessere, scomparsa del senso del bene comune, in una età segnata dall’angoscia. Rancori profondi e paure indistinte armavano le mani di coloro che erano in grado solo di ubbidire alle voci più estreme ascoltando i suggerimenti di chi nutriva progetti personali di potere. Una donna che andava sola per le vie annunciando la bellezza della filosofia, ossia la via della liberazione attiva dalle passioni e i modi della contemplazione, era il bersaglio naturale dell’odio che nasceva dalla paura. Ipazia parlava in pubblico infrangendo antiche leggi scritte e non scritte , sconvolgeva pericolosamente le misere certezze che i capi suggerivano: insegnava a pensare, proprio lei, una donna, quell’essere che Aristotele aveva insegnato essere un uomo «diminuito» e inferiore...
La politica aggiunse legna al fuoco: Cirillo vescovo di Alessandria, celebre teologo, nemico del governatore imperiale Oreste a sua volte vicino a Ipazia, ispirò o forse ordinò l’omicidio terribile della filosofa. Nel 1882 Cirillo di Alessandria fu dichiarato da Leone XIII Santo e Dottore della Chiesa.❖

l’Unità 13.4.10
Due incontri
Da Canfora e Eco a proposito di Ipazia

In occasione dell’uscita in Italia il 23 aprile di «Agora», il nuovo lavoro di Alejandro Amenábar, la casa di distribuzione Mikado organizza due incontri per approfondire la vicenda del personaggio principale del film: Ipazia.
Domani a Roma (ore 18,00, alla Sala Igea di Palazzo Mattei-Istituto della Enciclopedia Italiana, via Paganica, 3-4), in collaborazione con l’Istituto Treccani, interverranno il filologo e saggista Luciano Canfora, la storica bizantinista Silvia Ronchey, il filologo e critico letterario Carlo Ossola, il filosofo della scienza Giulio Giorello, i giornalisti Antonio Gnoli e Gabriella Caramore.
A Milano, il 20 aprile alle 18, presso la Sala delle Colonne della Banca Popolare (via San Paolo, 12), in collaborazione con la rivista «Reset», saranno presenti all’incontro introdotto dal direttore della rivista Giancarlo Bosetti, lo scrittore Umberto Eco, la studiosa di diritto romano Eva Cantarella, il teologo Vito Mancuso, la medievalista Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri (che interviene in questa pagina). Parteciperà anche Alejandro Amenábar.

l’Unità 13.4.10
Amenábar, dopo Cannes finalmente arriva in Italia

Protagonista di «Agora», il nuovo film di Alejandro Amenábar (regista di «Mare Dentro» e «The Others»), è la regina Ipazia (interpretata dall’attrice Rachel Weisz), prima scienziata della storia, celebre per la sua attività di matematica e astronoma. La sua è una figura tragica, inghiottita da improvvisa morte violenta per mano di quelle armate cristiane che nel IV secolo dopo Cristo annientarono intere civiltà in nome della verità rivelata. Le guerre che ne seguirono videro molti intellettuali di estrazione platonica massacrati crudelmente, specialmente quando di sangue ebreo. Tra questi c’era anche Ipazia. Il film uscirà nelle sale italiane il prossimo 23 aprile per Mikado, con enorme ritardo rispetto agli altri Paesi europei. «Agora» era stato presentato al Festival di Cannes 2009, tra applausi e fischi.

l’Unità 13.4.10
Il partito del lavoro ha un compito:
difendere il sapere
Scuola, innovazione, ricerca: sono questi i i settori su cui il Pd deve farsi riconoscere dai cittadini. Il futuro dell’occupazione è ormai sempre più legato allo sviluppo della conoscenza
di Luigi Berlinguer

Due argomenti ci possono aiutare nella lettura del voto regionale di cui si discute anche nel dibattito aperto da l’Unità: non è chiara ai cittadini l’identità profonda del Partito Democratico; manca un adeguato radicamento sociale dell’organizzazione-partito. Le identità del passato hanno ancora un peso eccessivo (e taluni si ostinano a difenderle caparbiamente). Così si indeboliscoe la costruzione dell’identità nuova del Pd, unitaria anche se plurima, espressione di una visione unificante della società. I cittadini percepiscono tutto ciò, e per questo motivo stentano a riconoscere chi siamo. In effetti, il Pd rischia di apparire (o essere?) poco moderno, antiglobale, tecnofobo, gergale, troppo rituale, troppo politicista. Siamo abituati a spiegare e a giudicare quel che accade rivolgendoci solo alla società politica che è sempre più lontana dai cittadini e dalle loro vite.
Due esempi, macroscopici, riferiti a temi centrali per il Pd (non certo gli unici, ma per me fondamentali). Primo esempio: qualche giorno fa, durata lo spazio di un mattino, è apparsa e scomparsa sui media una notizia orribile: si è negato il pasto nella mensa di una scuola a dei bambini a causa del colore della loro pelle. Nella patria della “brava gente” si è verificato un fatto infame. Enorme. Può il Pd reagire “politicamente” delegando l’indignazione in un comunicato per le agenzie di stampa, in due righe due su un quotidiano e, se proprio va bene, in una dichiarazionedidiecisecondiinuntgoinun giornale radio? Non merita questo episodio di barbarie che si costruiscano iniziative, reazioni, risposte, denunce, solidarietà? Veri e propri eventi che giungano all’opinione pubblica? Il Pd è con i bambini, con la civiltà e l’umanità, tangibilmente.
Secondo esempio: sento dire e sono assolutamente d’accordo che il Pd è il partito del lavoro. Dirlo, sì. Ma ciò significa combattere le morti in fabbrica e nei cantieri, lottare contro la disoccupazione, contro la precarietà con continuità ed efficacia. Ma questo non può bastare. Il tema, oggi, è nuovo: il lavoro, i lavori non possono essere separati dal sapere. Il lavoro è e sarà sempre più innovazione permanente. È tutt’uno con il sapere, con le idee. Non c’è iato tra fatica lavorativa e sapere. Nella tradizione socialista ciò non era così chiaro perché diritto al lavoro e diritto al sapere erano tra loro separati. Oggi non possono esserlo più.
Ecco, credo che il Pd ancora non abbia fatta propria l’idea che la società della conoscenza è quella dove tutti imparano, tutti devono sapere di più. Siamo consapevoli che per questo occorre una scuola completamente nuova? Non credo. Noi non stiamo cercando una nuova scuola. Tutto il mondo politico ripete da decenni che l’istruzione è una priorità. Sterile tiritera smascherata quando si fanno i conti di bilancio che penalizzano sempre l’education. Occorre un nuovo modello educativo, una scuola aperta tutto il giorno, tutto l’anno, per tutta la vita. (Ne parliamo nella nuova rivista digitale educationduepuntozero.it e nel suo prossimo seminario a Firenze, il 23 aprile). Una scuola dove non si trasmettono dall’alto nozioni e informazioni, ma dove si conquista il sapere. Cattedre, banchi, orari sono suppellettili da sostituire. Per imparare non basta ascoltare, occorre parlare, provare, sperimentare.
In tutto il mondo evoluto i giovani arrivano alla fine della scuola secondaria. Parliamo del “miracolo indiano” ma qualcuno sa che nel 2003 i bambini iscritti alle elementari in India erano meno di 60 milioni e l’anno scorso sono stati 192 milioni?
Una scuola per tutti che cura le eccellenze e fa crescere tutti. Una rivoluzione. Tutti devono poter imparare (capaci e meno capaci), tutti devono concorrere al merito e non solo pochi. Nella società della conoscenza il sapere è il petrolio del futuro. Ma non basta la nozione. Sapere significa capire, e per questo occorre sollecitare la curiosità oggi mortificata da una opprimente rigidità. Se parlo della scuola è perché essa è centrale in una società fondata sulla conoscenza: perché è molla del suo sviluppo, ma anche perché vi trovano il giusto equilibrio libertà ed eguaglianza. Oggi è il sapere che rende liberi, e uguali. Chi non sa delega. Scuola, sapere, innovazione, lavoro: un unicum. Lavoro è quindi professione sempre più qualificata. E deve essere piena occupazione, che è vera libertà. Non è libero il precario che elemosina un lavoro. E chi sa è più forte nel mercato del lavoro.
Credo fermamente che il Partito democratico sia nato per centrare l’obiettivo della società della conoscenza non a parole, ma con i fatti. Capace di fondere sapere e lavoro. Costruiamo idealmente e concretamente questa identità. Così i cittadini saranno in grado di riconoscere chi siamo e cosa vogliamo e troveremo meglio le alleanze necessarie. E non dovremo temere le astensioni.❖

l’Unità 13.4.10
Accordo Italia-Libia
Il dramma dei bambini respinti e spariti
Save the Children lancia l’allarme: centinaia di minori potrebbero essere reclusi nei lager libici o lasciati in balia di organizzazioni criminali Valerio Neri: «Violati i diritti umani, bisogna fermare i respingimenti in mare»
di Umberto De Giovannangeli

I centri. Migliaia di persone costrette a vivere tra abusi e disperazione
Le vittime. Nel marzo scorso 20 morti alle frontiere del Mediterraneo

Iminori che non sono arrivati non sono un numero: sono ragazzi che fuggono da situazioni di povertà, di conflitto o disordine generalizzato fermati a metà del proprio cammino. A questi ragazzi stiamo negando una possibilità, un futuro». Negare un futuro. Una chance di vita. Negarli respingendoli. Centinaia di minori respinti in mare dopo l'entrata in vigore della normativa sui respingimenti sono probabilmente bloccati in Libia. Bloccati o per meglio dire reclusi nei centri di «accoglienza», veri e propri lager, stando a quanto denunciato dalle più importanti organizzazioni umanitarie internazionali. Deboli tra i deboli, i bambini sono i primi a pagare questa situazione. Ad affermarlo è Save the Children che nel secondo rapporto su «L'accoglienza dei minori in arrivo via mare» rileva che il drastico calo delle presenze di minori nelle comunità siciliane è fonte di preoccupazione per le centinaia di minori stranieri cui «viene negata la possibilità di un futuro» contro «il rispetto della normativa nazionale, comunitaria e internazionale in materia di divieto di respingimento, rispetto dei diritti umani e tutela delle categorie vulnerabili». E tra i vulnerabili, i bambini sono al primo posto.
L'organizzazione punta il dito contro «le pratiche adottate dal governo italiano in materia di contrasto all'immigrazione clandestina e gli accordi stipulati con le autorità libiche», si legge nel rapporto, che rischiano di «vanificare il percorso d'integrazione dei minori». Da marzo 2009 a febbraio 2010 sono giunti in Sicilia 278 minori non accompagnati (di cui solo 4 identificati a Lampedusa), successivamente collocati in comunità sul territorio siciliano. Nell'anno precedente, da maggio 2008 a febbraio 2009, i minori non accompagnati sbarcati a Lampedusa erano stati 1.994, mentre, nello stesso periodo erano giunti sulle coste siciliane altri 260 tra bambini e ragazze (inclusi quelli accompagnati). Nel corso dell'anno, rileva Save the Children , sono state effettuate 9 operazioni di rinvio di migranti rintracciati in acque internazionali: raffrontando i dati sugli arrivi degli anni 2008 e 2009 «appare evidente che con ogni probabilità» sono centinaia i minori rimasti in Libia o che vi sono stati rinviati nel tentativo di raggiungere l'Italia. «È necessario che non vengano più effettuate operazioni di rinvio di migranti in arrivo via mare, garantendo il rispetto della normativa nazionale, comunitaria e internazionale in materia di divieto di respingimento, rispetto dei diritti umani e delle categorie vulnerabili», incalza Valerio Neri, direttore generale per l'Italia di Save the Children.
Centinaia di bimbi di cui non si ha più notizie. Bambini lasciati alla mercé di organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di minori o di organi. Bambini costretti a vivere in lager, a in una quotidianità fatta di violenza, abusi, disperazione. In questi lager si affolla una umanità sofferente: decine di migliaia di persone.
Tra di loro anche donne e bambini, migranti economici e rifugiati politici. Molti di loro sono tenuti agli arresti senza processo, mentre altri sono stati abbandonati alla frontiera meridionale con Niger, Chad, Sudan ed Egitto andando incontro alla morte. La gran parte di queste persone giunge con trafficanti che le tengono ammassate in edifici dispersi per le campagne libiche, in attesa di organizzare un viaggio che si fa sempre meno sicuro e più difficile. La permanenza può durare mesi e mesi, in condizioni di sovraffollamento e alla mercé dei trafficanti dai quali si dipende in tutto. Talvolta queste persone possono essere scoperte e arrestate dalla polizia libica e finire quindi o in prigione o espulsi dal Paese, rischiando di morire nella traversata del deserto.
Di questa tragedia non tiene conto l' Accordo bilaterale tra Italia e Libia. Semmai l'aggrava. Tra il 5 maggio e il 7 settembre 2009 – denuncia ancora Save the Children sono stati 1.005 i migranti ricondotti in Libia nell’ambito di 8 operazioni effettuate dall’Italia (in particolare, 883 persone attraverso l’attività congiunta libico-italiana e 172 prese e riportate in Libia dalle autorità di Tripoli). Un numero non quantificabile di migranti respinti è costituito da bambini, come attestato anche da fonti Onu, e sulla base del monitoraggio dei flussi migratori arrivati via mare attraverso la frontiera Sud nei mesi e anni scorsi, nell’ambito dei quali la presenza di minori è costante.
«A partire dal 7 maggio 2009, in aperto spregio delle norme internazionali sui diritti umani, l'Italia ha trasportato forzatamente in Libia o altrimenti consegnato alle autorità libiche centinaia di donne, uomini e bambini, migranti e richiedenti asilo, che tentavano di raggiungere l'Europa imbarcandosi attraverso il Mediterraneo su mezzi di fortuna, rischiando la vita per sfuggire a persecuzioni, torture, altre violazioni dei diritti umani e condizioni di povertà estrema», ha denunciato Amnesty International in un suo recente rapporto.
«Il 75 per cento delle persone che arrivano in Italia via mare – prosegue il rapporto di Amnesty sono richiedenti asilo e, secondo l'Alto Commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), tra le persone rinviate in Libia sulla base di questa prassi vi erano cittadini somali ed eritrei, bisognosi di protezione. Nel luglio 2009, dopo aver incontrato le 82 persone intercettate all'inizio del mese dalla Marina Militare Italiana a 30 miglia da Lampedusa e trasferite forzatamente su una motovedetta a comando libico, lo stesso Unhcr ha dichiarato che non risultava che le autorità italiane a bordo della nave avessero cercato di stabilire la nazionalità delle persone coinvolte o le motivazioni della fuga. Di quel gruppo, smistato in centri di detenzione dopo l'arrivo in Libia, facevano parte 76 cittadini eritrei tra cui 9 donne e 6 bambini. Alcuni di loro hanno dichiarato all'Unhcr di aver avuto necessità di cure mediche in seguito all'uso della forza nei loro confronti da parte dei militari italiani e di non aver ricevuto cibo durante l'operazione, durata circa 12 ore. D'allora le cose sono ulteriormente peggiorate.
Secondo Fortress europe, l’osservatorio sulle vittime dell’emigrazione, nello scorso mese di marzo sono stati almeno 20 i morti alle frontiere del Mediterraneo, nonostante l’azzeramento degli sbarchi a Lampedusa e alle Canarie, in Spagna.
La Libia di Gheddafi, della cui amicizia si va vanto Berlusconi, è un Paese che non garantisce in alcun modo la protezione dei migranti sul suo territorio, anche in considerazione del fatto che non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra. ❖

l’Unità 13.4.10
Conversando con Marisa Rodano
Tra la guerra e gli anni Sessanta
Ragazze, la vostra libertà nacque in quell’età di cui non c’è memoria
di Maria Serena Palieri

L’altroieri
Nel ‘45 in Italia c’erano 12 milioni di casalinghe. Il 10% delle donne firmava con la croce
La rimozione
Dal primo ‘900 la lotta per i diritti ha avuto solo due cesure: il fascismo e l’oblìo storico di oggi

Perché le ragazze italiane di oggi rifiutano l’eredità del femminismo? La domanda ce la facciamo in molte da un bel pezzo. Ma è la prima volta che ascoltiamo una risposta esauriente come questa che ci dà Marisa Rodano. Primo, osserva, perché si sentono libere, da un lato, e, dall’altro, non sanno che la parità acquisita non è «naturale» ma ha richiesto battaglie durate decenni; secondo, perché condividono «paritariamente» coi coetanei maschi il grande dramma di questi anni, la precarietà; terzo, perché vivono, come tutti noi, in un’epoca segnata da un feroce individualismo. Marisa Rodano, 89 anni da poco compiuti, può dirlo perché prima «c’era». Memorie di una che c’eras’intitola il saggio in cui ricostruisce la storia dell’associazione di cui è stata nel ‘44-45 tra le fondatrici, l’Udi, e che ha presieduto dal ‘56 al ’60. Sono, i secondi Quaranta e soprattutto i Cinquanta e i primi Sessanta, gli anni, sotto questo aspetto, cruciali, ma anche più opachi e di cui si ha meno memoria. E sono quelli appunto che metteremo a fuoco in questo colloquio. Perché l’idea su cui si reggono le appassionanti 276 pagine di questo libro è che in Italia la lotta per la libertà femminile non sia esplosa ex-novo alla fine degli anni ‘60, quando il «personale» diventò «politico», come opinione comune oggi vuole, ma sia corsa lungo l’intera storia repubblicana, E che essa subisca oggi una totale rimozione.
Oggi, le chiediamo, le trentenni non avrebbero un tema enorme per cui lottare, la maternità impossibile? «È come se non l’avvertissero. Forse perché il modello televisivo impone un’altra idea di sessualità, dove la molteplicità dei rapporti è preferibile a una relazione duratura. E in un quadro così la maternità perde importanza» replica. Pensando a queste stagioni viene in mente la parola «beffa». Non è come se certe parole d’ordine di un tempo, per esempio «autodeterminazione», ci tornassero indietro capovolte? «Io ho l’impressione che siamo sotto un contrattacco grave. Gran parte delle conquiste legislative oggi sono diventate diritti inesigibili. Se c’è il precariato, quanto vale il divieto di licenziamento per matrimonio? E se non hai copertura previdenziale, cosa significa tutela della maternità?» ribatte.
Memorie di una che c’era ci rinfresca la memoria. L’Udi nasce nel 1945, a Firenze, col primo congresso. Dietro c’erano i Gdd, Gruppi di difesa della donna nell’Italia occupata e, al meridione, l’impegno di migliaia di donne nei circoli sorti dopo la liberazione di Roma ad opera del Comitato di Iniziativa fondato dalle donne dei partiti del Cln.
Nel ‘44 -‘46 quali furono i primi obiettivi?
«Il diritto di votare e di essere elette, conseguenza dell’impegno femminile nella Resistenza: le donne erano state catapultate nella sfera pubblica. Chiedevamo il seguito». Non era successo qualcosa di simile già nell’altra guerra, con le donne in fabbrica?
«Allora erano state precettate. La partecipazione alla Resistenza invece era stata volontaria. E di massa. Dopo la prima guerra mondiale si era creato un movimento di femministe cattoliche e laiche, per chiedere il voto, ma era un’avanguardia minoritaria. Poi si insediò il regime fascista, che operò una totale cancellazione di quella esperienza».
Nel ‘45-46 qualcuno ancora si azzardava a dire che le italiane non dovevano votare? «I favorevoli erano i partiti nuovi, azionisti, Pci, Psi, Dc. Altrove allignava un’ostilità appena mascherata. Non osavano dire “no”, ma rimandavano alla Costituente. Ma un’Assemblea tutta di maschi cosa avrebbe deciso? Nel ’45, 13 milioni di italiane erano casalinghe, il 10% firmava con la croce. Nel codice erano sanciti debito coniugale e delitto d’onore, il marito poteva vietare alla moglie di lavorare. C’erano donne nelle professioni. Ma era una cosa per ricchi. Io ho imparato allora, per diretta esperienza, che quando i diritti dell’uomo si affermano, lì comincia la battaglia per i diritti delle donne».
La Chiesa?
«Era per il sì. Pio XII nel discorso del 21 ottobre ‘45 dice chiaro, “Tua res agitur”. Perché pensava che le donne, praticanti, mentre gli uomini si erano distaccati dalla Chiesa, potessero operare a difesa della religione».
Nel libro riporti, con lo stupore incantato di allora, ragazza da poco iscritta al partito, il discorso di Togliatti l’8 settembre ‘46. Denunciava la «mentalità arretrata» della base e dei quadri. Quanto maschilismo c’era, nel Pci?
«Non è che aver fondato il Pci cambiasse dall’oggi al domani la testa della gente». Iotti, Merlin, Noce, Federici, Montagnana... Ventuno donne su 556, cinque di loro nella Commissione dei 75. Nella Costituente erano abbastanza per scrivere una Carta all’altezza? «Le formulazioni su famiglia, parità, diritto al lavoro, furono praticamente scritte da loro. Oggi,scriveremmo diversamente l’articolo 3, lì dove il sesso è accomunato a razza, lingua, religione, opinioni politiche. Ma la nostra Costituzione è straordinaria. Pur se largamente inapplicata». Tra il ‘45 e il ‘47 l’Udi era impegnata su cose praticissime: i prezzi del cibo e la casa. E, prima su tutte, per i bambini. Era naturale, allora, questo «maternage» politico di massa? Che parlando di donne si parlasse in primis di figli?
«Nello statuto, adottato al I Congresso, l’Udi aveva come obiettivi l’”elevazione” delle donne, la tutela dei loro diritti nel lavoro, la difesa delle famiglie e i problemi dell’infanzia. Dai bambini proprio non potevi prescindere. Ricordo che ce n’erano dappertutto, ai comizi, alle manifestazioni. E, per avere rapporto con le donne più semplici, un’organizzazione di massa doveva occuparsene, la richiesta veniva da loro».
Tra il ‘47 e il ‘53 avviene una strana eclissi: scompare la parola «diritti». E il suo posto viene pre-
so dalla parola «pace». La Guerra Fredda cancella la specificità femminile? «Sì, e fu un errore. Al congresso del ‘47, con la rottura del fronte antifascista, e la minaccia della bomba atomica, l’Udi cambia linea e si schiera col Fronte Democratico Popolare. Hanno il sopravvento i cosiddetti temi generali. Si butta tutto nella battaglia elettorale. Per vincere. Invece perdiamo».
Nel ‘56, al congresso in cui diventi presidente dell’Udi, nella tua relazione la parola «emancipazione» torna. S’accompagna a una proposta scioccante: le donne devono unirsi sulla base “esclusiva” dei loro interessi. Addio ai partiti? «Merito, molto, fu di Nilde Iotti, all’Udi da tre anni. Ma dopo anni di scontro frontale far digerire l’idea che l’appartenenza fosse al genere e non al partito non era facile. Non ci aiutò il contesto: crisi di Suez, Ungheria. Il documento non potè essere adeguatamente discusso. Aiutò invece l’VIII Congresso del Pci».
«Emancipazione» è stata una parola messa a processo poi dal femminismo. Per voi cosa significava? Le donne dovevano emanciparsi come avevano fatto gli schiavi?
«Significava conquistare il diritto a lavoro, indipendenza economica, autodeterminazione. Uscire dalla schiavitù del destino servile, secondario, segnato per nascita». Dopo il Sessantotto che aveva messo in discussione tutto lo status quo, famiglia e scuola, partiti e sindacato, le «figlie» le neofemministe si ribellarono appunto a queste «madri». E nell’81 l’Udi, in quanto organizzazione di massa, si scioglie. «Noi abbiamo tardato a capire la novità del femminismo. Ma il femminismo ha sbagliato a ridurre la nostra battaglia per i diritti a una lotta per l’omologazione» commenta oggi Marisa Rodano. La storia continua così: i semi della Carta germinano, tutela della maternità, parità salariale, accesso alle carriere, tutela del lavoro a domicilio, lotta alle discriminazioni indirette, servizi sociali, standard urbanistici, diritto di famiglia, divorzio, aborto, violenza sessuale... C’è una parola che lega il movimento delle donne nel corso di tutto il Novecento, chiediamo? « Forse non solo una: libertà, ma anche diritti, parità, autodeterminazione».❖

il Fatto 13.4.10
L’onda nera dell’Europa: la riscossa di chi odia gli stranieri
In Ungheria l’estrema destra xenofoba sfiora il 17 per cento
di Alessandro Oppes

Il partito Jobbik si è fatto largo criminalizzando ebrei, Rom, gay e impugnando il nazionalismo magiaro
Era tutto previsto. Se un’inquietante ondata di involuzione reazionaria percorre l’Europa da ovest a est, è proprio nei paesi dell’ex blocco sovietico che l’allarme si è fatto, negli ultimi tempi, ancor più assordante. E l’Ungheria, con la brusca virata a destra delle elezioni di domenica, assume l’imbarazzante leadership continentale del razzismo e della xenofobia. Dietro i conservatori del Fidesz, che portano trionfalmente alla guida del governo il loro leader Viktor Orban con oltre il 52 per cento dei voti, spunta l’incubo fascista del partito Jobbik, per la prima volta in Parlamento con una valanga di consensi: addirittura a circa il 17 per cento, a breve distanza dai socialisti, protagonisti di un tonfo clamoroso. E ora il giovane leader del movimento di estrema destra, il 31enne Vona Gábor, annuncia già che prenderà possesso del suo seggio parlamentare indossando la divisa del Magiar Garda (guardia magiara), il braccio paramilitare – in teoria proibito – del partito.
Si sono fatti largo sulla scena politica con un messaggio semplice e metodi spicci, in un clima di scontento generalizzato per le conseguenze della crisi economica che ha colpito duramente l’Ungheria. Propongono una revisione del Trattato di Lisbona mentre, all’insegna dello slogan “ordine e disciplina”, si battono per uno Stato forte e il ripristino dei confini precedenti al 1920. Dicono di coltivare il sogno della “grande nazione ungherese”, quella che scomparse con la Prima Guerra Mondiale. Ma, aldilà di questo progetto illusorio, quello che preoccupa di più è il loro discorso razzista e xenofobo: gli ebrei, gli omosessuali e soprattutto i rom sono i nemici da combattere, responsabili, nella perversa concezione di Jobbik, di tutti i crimini più efferati: omicidi, rapine, sfruttamento della prostituzione. Dopo il risultato del voto ungherese, il vero timore che percorre le cancellerie di mezza Europaècheilfenomenosipossa propagare. Anche perché i segnali inquietanti non mancano. Nelle scorse settimane, era stato lo studio di un “think tank” con sede proprio a Budapest, Political Capital, a lanciare l’allarme: tra il 10 e il 25 per cento dei cittadini di Bulgaria, Romania, Ungheria e Lettonia accettano le idee diffuse dai partiti di estrema destra, basate sulla xenofobia, l’antisemitismo, il nazionalismo esasperato, la lotta anti-sistema e il protezionismo economico. Un fenomeno che è legato in parte alla crisi economica, ma non solo. A vent’anni dalla caduta dei regimi comunisti, comincia a farsi sentire in maniera pesante anche lo scontento verso la classe politica che li ha sostituiti. Ad esempio, in Bulgaria (dove il partito nazionalista Ataka ha sfiorato alle ultime europee il 10 per cento dei consensi con la sua dura campagna anti-rom e contro la minoranza turca) quasi un quarto dei cittadini vedono con simpatia le idee di estrema destra. Percentuali preoccupanti anche in Romania (dove circa il 14 per cento si dice pronto a votare il Partito della Grande Romania, oggi attestato a poco meno del 9 per cento) e in Lettonia (11,6). A Bucarest, il Prm unisce nel suo slogan economia e religione: “Cristiani e patrioti per liberare il paese dai ladri”. Mentre nella repubblica baltica, dovesieranodovuteflessibilizzare le politiche restrittive rispetto ai diritti civili e democratici per ottenere l’ammissione alla Ue, negli ultimi tempi si è tornati all’antico: oggi ci sono ancora 350mila persone di etnia slava considerate apolidi, visto che a loro viene negato il diritto di cittadinanza. Sembra migliorare invece sensibilmente la situazione di altri paesi come la Polonia – il più importante tra gli attuali soci Ue dell’ex-blocco sovietico – che fino al 2003 era su posizioni simili a quelle dell’Ungheria, mentre oggi ha una quota di potenziali estremisti limitata al 6,5 per cento. Sul caso polacco pesa tuttavia l’incognita della recente tragedia aerea in cui ha perso la vita il presidentedellaRepubblicaLech Kaczynski. Se, sull’onda dell’emozione, il fratello gemello Jaroslaw si dovesse candidare per prenderne il posto, si ripresenterebbe con ogni probabilità anche in quel paese il rischio di un’involuzione reazionaria. Nel periodo durante il quale guidò il governo di Varsavia, Jaroslaw Kaczynski fu protagonista di una svolta anti-europea, nazionalpopulista e omofoba che creò non pochi grattacapi alle istituzioni comunitarie. Dove scatterà la prossima emergenza? In Slovacchia si prevede già che i nazionalisti radicali del Sns riusciranno a ottenere un buon risultato alle legislative del 12 giugno, che permetterà loro di restare nel governo di coalizione di destra. Ma l’incubo dell’estremismo non risparmia l’Europa occidentale. A parte i successi della Lega nel nord in Italia, persino un paese tradizionalmente tollerante come l’Olanda potrebbe consegnare la maggioranza parlamentare, il prossimo 9 giugno, al Pvv, il Partito della Libertà anti-islamico di Geert Wilders. E la febbre xenofoba contagia anche il Regno Unito dove gli estremisti del British National Party (Bnp) sono riusciti a portare, lo scorso anno, due parlamentari a Strasburgo, mentre in Grecia i razzisti di Allarme Popolare Ortodosso (Laos) mietono consensi con i loro 15 deputati.

lunedì 12 aprile 2010

l’Unità 12.4.10
Accuse sul web. Sul sito Pontifex attacchi contro i «giudei deicidi». Monsignor Babini: «Mai detto»
I rabbini Usa. Lettera di David Rosen alla Cei: condannate questi calunniosi stereotipi
New York Times: «Abusi, scisma emotivo Il Papa è moralmente compromesso»
«Pedofilia, campagna sionista» Bufera sul vescovo italiano
Scandalo pedofilia? Una manovra di massoni e «giudei deicidi». Ebrei Usa furiosi per le dichiarazioni del vescovo di Grosseto, chiedono l’intervento della Cei. E arriva la smentita di mons. Babini: «Mai detto».
di Marina Mastroluca

Basta cospargersi il capo di cenere, la Chiesa non ha nulla da farsi perdonare. Se è sotto attacco è per colpa di una macchinazione di massoni ed ebrei. Ebrei sì, giudei «deicidi», che hanno mandato Cri-
sto sulla croce e fatto perdere la pazienza ad Hitler: «La Germania era stanca delle angherie di chi praticava tassi di interesse da usura». «L’Olocausto fu una vergogna», ma sotto sotto sono stati loro, gli ebrei, a tirare la corda fino a farla spezzare.
A parlare non è il leader di qualche sigla d’ultradestra, in odor di nazismo. E no. Sotto la vemenza, c’è sentore di incenso. A parlare con un’intervista sul sito Pontifex, è monsignor Giacomo Babini, vescovo emerito di Grosseto non nuovo ad esternazioni estremiste (contro l’islam e i gay, tanto per dire). Lui smentisce, non appena la notizia torna indietro come un boomerang, dopo aver varcato l’Atlantico e fatto infuriare il Comitato ebraico americano, Ajc, che ha chiesto formalmenteai vescovi italiani una condanna senza appello. «Chiediamo alla Conferenza episcopale italiana di condannare categoricamente questi calunniosi stereotipi, che tristemente richiamano la peggiore propaganda nazista e cristiana prima della Seconda guerra mondiale», sono le parole categoriche del rabbino David Rosen, direttore internazionale per gli affari religiosi dell’Ajc.
Ed in effetti le affermazioni di Babini, pubblicate su quello che gli ebrei Usa definiscono un «sito cattolico di estremisti di destra», sembrano distillate da vecchi luoghi comuni della storia, come stelle gialle cucite sui cappotti, per cancellare l’ombra dello scandalo pedofilia ridotto ad una manovra altrui. «Ritengo che sia maggiormente un attacco sionista, vista la potenza e la raffinatezza, loro non vogliono la Chiesa, ne sono nemici naturali. In fondo storicamente parlando i giudei sono deicidi», spiega il vescovo. E aggiunge: «La loro colpa fu tanto grave che Cristo premonizzò quello che sarebbe accaduto loro con il non piangete su di me, ma sui vostri figli». Come se l’orrore dei lager fosse il segno di una colpa da espiare. «Non crediate che Hitler fosse solo pazzo insiste mons. Babini . La verità è che il furore criminale nazista si scatenò per gli eccessi e le malversazioni economiche degli ebrei che strozzarono l’economia tedesca». Quindi, se di macchinazione si tratta, perché pretendere che la Chiesa chieda perdono? «Di perdono ne abbiamo chiesti troppi». E giù, tirando in ballo già che si trovava anche la lobby gay.
«MONDI SENZA DONNE»
Già aveva sollevato critiche il paragone azzardato da padre Cantalamessa tra le accuse alla Chiesa per i preti pedofili e la persecuzione anti-semita, ma stavolta è qualcosa di persino più grave. Il Comitato ebraico americano chiede «tolleranza». E mons. Paglia, presidente della Commissione per il dialogo e l’ecumenismo, si affretta a prendere le distan-
ze, dichiarando che la Chiesa non la pensa come il vescovo di Grosseto. Il quale a metà giornata fa arrivare una smentita attraverso un comunicato diffuso dalla stessa Cei, sostenendo che «in alcun modo ho espresso simili valutazioni e giudizi da cui prendo nettamente le distanze».
Insomma uno scandalo nello scandalo. E mentre il cardinal Bagnasco esprime vergogna e sostiene la condanna «dentro e fuori la Chiesa» anche di chi ha coperto i preti pedofili dovrà «avere come effetto l’allontanamento» delle persone coinvolte dall’America arriva una nuova reprimenda dalle pagine del New York Times. La columnist Maureen Dowd critica i silenzi colpevoli e parla di «peccato mortale», del vizio di fondo di un «mondo senza donne». «La Chiesa scrive ha avuto scismi teologici. Questo è uno scisma emotivo. Il Papa è moralmente compromesso. Ve lo dice una sorella».

l’Unità 12.4.10
Dopo lo scandalo pedofilia
La Chiesa ha una sola strada, la chiarezza
di Don Enzo Mazzi

Le vittime della pedofilia del clero chiedono che il papa apra finalmente gli archivi vaticani e quelli diocesani. Piena luce e non solo parole o provvedimenti tardivi contro gli abusi: è questa la richiesta pressante che sale da tutto il mondo. E non solo dalle vittime dirette. Tutti ci sentiamo e siamo in qualche modo vittime di questo immenso scandalo che investe la Chiesa cattolica. E tutti chiediamo luce. Sin dal medioevo l'impresa araldica dei Papi fa vedere insieme allo stemma di famiglia o personale del pontefice due chiavi, in segno della trasmissione di ciò che viene formalmente denominato il "potere delle chiavi". E le parole di Cristo a Pietro, "A te darò le chiavi..." sono scritte in nero su oro con lettere cubitali sul cornicione della navata della Basilica di S. Pietro. Ebbene, è il momento di usarle queste chiavi non solo per condannare o assolvere i peccati del mondo ma anche per sradicare quelli della Chiesa incominciando con l’aprire la segretezza degli archivi. È sentire comune che sia un grande errore questo imponente arroccamento in difesa dell’istituzione ecclesiastica e della persona del papa. Anzi è l’errore di fondo. Non è l’istituzione o la gerarchia che va difesa ma le vittime. C’è un dissenso diffuso verso questa ostensione di potere da parte dei vertici vaticani, come fossimo ancora in pieno medioevo al tempo degli scontri fra papato e impero. È un dissenso che penetra, per ora larvatamente, fra gli stessi vescovi. Si manifesta solo in alcune situazioni più aperte. Ad esempio in Francia dove l’arcivescovo di Poitiers, mons. Albert Rouet, esplode scrivendo su Le Monde del 4 aprile. “Ogni sistema chiuso, idealizzato, sacralizzato è un pericolo. Quando una istituzione, compresa la Chiesa, si erge in posizione di diritto privato e si ritiene in posizione di forza, le derive finanziarie e sessuali diventano possibili. È quanto rivela l'attuale crisi e questo ci obbliga a tornare all'Evangelo: la debolezza del Cristo è costitutiva del modo di essere Chiesa. Bisogna scendere dalla montagna, scendere in pianura, umilmente”. Sono anni che la chiesa conciliare dice queste cose. Il cardinale Giacomo Lercaro, nel 1967, fu “dimissionato” da vescovo di Bologna per aver detto cose simili. Da allora fu uno stillicidio di rimozioni, sospensioni, scomuniche contro comunità e preti che praticavano e annunciavano la dimensione profetica della povertà, della debolezza, della trasparenza, della democrazia di base, del non-potere. Mentre verso i preti pedofili si usava “cura paterna”, si coprivano i loro misfatti e si lasciavano sconsideratamente in mezzo ai bambini. La chiesa dei Lercaro e delle comunità di base fu chiamata dispregiativamente “chiesa del dissenso”. È venuto forse il tempo del suo riscatto. Se la Chiesa cattolica vuol rinnovarsi non resta che affidarsi alla dimensione profetica tenuta viva da queste realtà che si rivelano una grande risorsa.

Repubblica 12.4.10
La Chiesa e il peccato contro la verità
di Adriano Prosperi

La scelta è tra la verità senza veli e la ragion di Stato, tra la tutela delle vittime e l´omertà
La questione non sono le colpe dei singoli religiosi. A quelle penseranno i tribunali

La Chiesa di Roma è oggi al centro di una grande tempesta, per le responsabilità di sacerdoti colpevoli di pedofilia e per quelle delle autorità centrali, accusate di averli coperti.
Nell´alterco tra chi la difende e chi l´accusa c´è il rischio che la sostanza del problema passi in secondo piano. Anche se certe reazioni sono davvero allarmanti e a loro modo rivelatrici. Si pensi ai rigurgiti di antisemitismo e di filonazismo nelle incredibili dichiarazioni odierne di un qualsiasi monsignor Babini. Sono episodi che mostrano quanto sia urgente una chiara presa di posizione del governo centrale della Chiesa sulla sostanza del problema. La scelta non riguarda la minuta casistica dei preti pedofili, per tanti che siano. Questo sarà materia di tribunali. La scelta davanti alla quale le autorità ecclesiastiche si trovano è quella tra la verità senza veli e la ragion di Chiesa, tra la tutela delle vittime e l´omertà verso gli aguzzini, tra la giustizia da rendere a chi ha patito offesa e una malintesa fedeltà all´istituzione. Solo abbracciando la verità e la giustizia senza riserve e senza infingimenti il governo della Chiesa potrà ancora parlare alla coscienza dei cristiani e potrà riaprire quel filo di comunicazione con l´umanità intera che oggi rischia di spezzarsi. Il prezzo da pagare è liquidare le residue incrostazioni di un passato che stenta a passare.
Quell´eredità la conosce meglio di chiunque altro l´attuale Pontefice: per esperienza che immaginiamo anche tormentosa e problematica, e comunque per precisa responsabilità istituzionale. Non dimentichiamo certo che è stato lui il primo a parlare pubblicamente di sporcizia nella Chiesa. Perciò quello che oggi si attende è un segno di discontinuità tra il prefetto della Congregazione vaticana per la dottrina della Fede e il pontefice della Chiesa universale. Sappiamo come e perché nelle carte d´ufficio di quella congregazione la sporcizia si sia accumulata e perché chi sporcava sia stato coperto dal segreto. È stato l´esito del trascinamento nel nostro tempo degli esiti della lunga guerra di religione tra i cristianesimi europei. «Taci, il nemico ti ascolta». Quando c´è un nemico c´è una guerra: e la prima vittima della guerra è la verità. La paura che la conoscenza della verità incrinasse le basi del consenso popolare ha creato le condizioni perché il corpo ecclesiastico facesse quadrato intorno ai suoi membri. Così furono creati tribunali segreti e concessi privilegi speciali alla parte ecclesiastica della Chiesa. Quei tribunali nascosero le colpe del clero nel momento stesso e con gli stessi strumenti con cui lo obbligavano a un´immagine pubblica di alto profilo morale e culturale.
Alla Chiesa spetterebbe l´ufficio di rimettere i peccati, al potere dello Stato quello di punire i crimini. È un argomento che alcuni usano in chiave apologetica affermando che non spetta oggi alla Chiesa il compito di punire i criminali. Ma lo si può rovesciare: è compito della Chiesa ritrovare oggi una distinzione valida e adatta ai tempi fra peccato e reato. E c´è un peccato contro la verità che incombe sulla Chiesa. Non è in discussione l´impulso criminale dei pedofili, in quanto tale diffuso tra chierici e laici, ma il crimine creato da una legge speciale che ha fatto del sacramento dell´Ordine sacro e della licenza di confessore un privilegio corporativo. Bisogna che le regole sbagliate siano cancellate. Sono le vittime che debbono tornare al primo posto, non i carnefici. Se la giustizia della Chiesa vuole rientrare in contatto con la giustizia degli uomini e con quella di Dio questa è la priorità. Non più coperture di segreto e licenze di libera circolazione a lupi coperti dall´abito talare. La legge della Chiesa deve saper rispondere all´idea di giustizia di una società che chiede trasparenza, che pone al vertice dei suoi valori la tutela dell´infanzia, che non capisce più la sopravvivenza di recinti arcaici, dalle barriere del diritto canonico al segreto speciale che ha celato finora i criminali del «crimine pessimo».
La questione che si è aperta è un segno dei tempi, fra tutti il più terribile e sconvolgente. Per questo tutti attendiamo di vedere come la Chiesa reagirà. La tentazione di minimizzare o di alzare il polverone difensivo dell´accusa di complotto può essere una reazione istintiva, ma come difesa non porta lontano. Insistere ancora su questa strada significherebbe ignorare la sostanza terribile del delitto nefando, il bisogno di verità e di giustizia che unisce credenti e non credenti. Dopo le avvisaglie di tanti episodi recenti in cui si è letto un ritorno di fiamma della Controriforma, questo caso mette oggi all´ordine del giorno un´emergenza suprema e assoluta. Essa riguarda il rapporto tra chiesa e secolo, papa e mondo, fede e democrazia. Gli uomini di buona volontà, le culture democratiche e laiche hanno dimostrato di avere capito l´apertura confidente del Concilio Vaticano II ai fondamenti della coscienza moderna. E tutti sanno con quanto interesse sia stata accolta la decisione di papa Wojtyla di fare del giubileo del 2000 l´occasione per voltar pagina rispetto alle pesanti eredità dell´antisemitismo, dell´intolleranza e della violenza in materia di fede. Ma su quella strada come su ogni percorso della vita e della storia si può sempre scegliere se andare avanti o tornare indietro. E quali abissi si riaprano se si torna indietro, il caso del vescovo emerito mons. Babini basta a mostrarlo.

Repubblica 12.4.10
La provocazione degli atei inglesi "Arrestiamo il Papa come Pinochet"

LONDRA - Far arrestare Benedetto XVI durante la futura visita in Gran Bretagna - in programma tra il 16 e 19 settembre - per «crimini contro l´umanità». È l´ultima provocazione di Richard Dawkins e Christopher Hitchens, intellettuali e militanti del movimento ateo britannico. I due hanno chiesto ad alcuni esperti di diritti umani di preparare l´accusa e chiedere l´incriminazione del Pontefice sulla base del presunto insabbiamento architettato per coprire le responsabilità della Chiesa Cattolica nello scandalo degli abusi sessuali ai danni di minori.
«Stiamo parlando di un uomo - ha detto Dawkins al Sunday Times - il cui primo impulso, quando i suoi preti vengono pizzicati con le braghe calate, è quello di coprire lo scandalo e condannare la giovane vittima al silenzio». «Quest´uomo - gli ha fatto eco Hitchens - non è né al di sopra né al di fuori della legge». La coppia di intellettuali sostiene di poter sfruttare il medesimo principio usato per arrestare il dittatore cileno Augusto Pinochet durante la sua visita del 1998. In Gran Bretagna esistono precedenti illustri di questo tipo. L´anno passato, infatti, attivisti pro-palestinesi erano riusciti a ottenere l´emissione di un mandato di arresto ai danni dell´israeliana Tzipi Livni sulla base di sospetti crimini commessi durante il conflitto a Gaza del 2008-2009.

Repubblica 12.4.10
Una sfida sul destino della democrazia
di Stefano Rodotà

È mai possibile che si accetti senza reagire una politica che si manifesta con la distorsione dei fatti, l´aggressione alle istituzioni, l´esibizione di un potere ispirato da una logica autoritaria?
Questi sono i temi nitidamente posti da Eugenio Scalfari, e conviene seguire la strada da lui indicata tornando su alcune delle cose dette sabato dal presidente del Consiglio ad una platea di imprenditori. E tuttavia, prima di seguire Berlusconi lungo l´abituale suo itinerario di aggressioni e vanterie, bisogna sottolineare la novità rappresentata dai tre fatti gravissimi narrati da Scalfari, rivelatori non tanto di una inammissibile doppiezza, ma di un sistematico mentire al presidente della Repubblica, che configura un caso clamoroso di slealtà costituzionale. Mentre Giorgio Napolitano si adopera per creare un clima propizio per una riforma rispettosa della Costituzione, Silvio Berlusconi tiene comportamenti pubblici e privati che mettono in discussione la funzione esercitata dal presidente e gli lancia una sfida che può sfociare in un gravissimo conflitto al vertice delle istituzioni.
A Parma il presidente del Consiglio si è descritto come prigioniero di lacci e lacciuoli che gli impediscono un´azione efficace, come se non avesse una maggioranza parlamentare senza precedenti nella storia repubblicana e come se non avesse nei fatti mostrato che, quando le convenienze lo spingono, è in grado di far approvare rapidamente qualsiasi provvedimento. Ha imputato l´origine della crescita del debito pubblico ai "governi del compromesso storico", mentre proprio gli imprenditori dovrebbero sapere che quella vicenda comincia con il governo Craxi, un politico dal quale l´attuale presidente del Consiglio non era poi così lontano. Ha detto meraviglie di riforme che si sa bene che non saranno in grado di produrre i miracoli che ad esse vengono associate. Ma soprattutto ha descritto la Presidenza della Repubblica come un luogo che interferisce impropriamente nell´azione di governo, controllando «minuziosamente anche gli aggettivi» dei provvedimenti. E per l´ennesima volta ha definito la Corte costituzionale un "organo politico", che sta lì per smantellare la legislazione che non piace ai pubblici ministeri e ai giudici di Magistratura democratica. Un attacco frontale è stato così portato alle due istituzioni che in questo periodo hanno garantito la legalità costituzionale.
Quest´insieme di falsificazioni è il frutto di una strategia deliberata, basata sulla ripetizione degli stessi concetti e delle stesse parole, ispirata all´antica regola "calunniate, calunniate, qualcosa resterà". In questo modo si è già creato un perverso senso comune, al quale si fa appello nel momento in cui si deve raccogliere consenso. E ora, gonfiate le vele dal vento elettorale, si pensa di poter portare tutto all´incasso. Che cosa si sta facendo per contrastare questa che non è soltanto una strategia comunicativa, ma una sempre più pesante strategia politica?
L´obiettivo di Berlusconi è chiaro e ormai esplicitamente dichiarato. Spazzar via tutte le garanzie e i controlli che "disturbano il manovratore", concentrare il potere nelle mani di una sola persona, invocando quel che accade in altri paesi europei, ma ignorando del tutto i contrappesi che lì esistono. Così, quello che con approssimazione viene chiamato semipresidenzialismo si presenta come concentrazione di potere nelle mani di una sola persona. Non a caso si rifiuta ogni modifica della legge elettorale, che si è rivelata un docile strumento per avere parlamentari scelti dall´alto, vanificando proprio quella sovranità dei cittadini alla quale Berlusconi strumentalmente si richiama quando vuole avere le mani libere da qualsiasi controllo. Si scoprono le carte a proposito della riforma della magistratura. Viene annunciata una antidemocratica riforma elettorale del Csm. La separazione delle carriere dovrebbe portare alla creazione di due consigli superiori, uno per i magistrati e l´altro per i pubblici ministeri, quest´ultimo presieduto dal ministro della Giustizia. Dalla proclamazione della volontà di cancellare la politicità della pubblica accusa si passerebbe così ad un controllo politico, anzi governativo, dei pubblici ministeri con l´evidente possibilità di distogliere il loro sguardo da indagini che potrebbero riguardare chi è vicino alla maggioranza e di indirizzare la loro azione verso chi si muova in modo sgradito al potere.
A Berlusconi la democrazia dà fastidio, e non a caso annuncia un plebiscito. Non vuole una riforma, vuole un referendum sulla "sua" riforma. Un referendum che inevitabilmente spaccherebbe il paese, e farebbe percepire la nuova architettura costituzionale come il progetto di una parte, nella quale gli altri non potrebbero riconoscersi. Dalle riforme condivise si passerebbe alle riforme "divisive".
Avendo deciso di imboccare questa strada, Berlusconi ha fatto una mossa che, per chi conosce la sua attenzione per il sistema della comunicazione, era prevedibile. Si è materializzato su Facebook. Da tempo, e non solo in Italia, si sottolinea che Internet non è di per sé uno strumento di democrazia e che, anzi, proprio l´insieme delle nuove tecnologie può dare sostegno al crescente populismo.
Si torna così all´interrogativo iniziale. Come contrastare questa pericolosa deriva? Contare solo sulla dialettica interna alle forze politiche, sperare nel dissenso dei finiani, cercare pontieri tra maggioranza e opposizione perché la minacciata eversione costituzionale venga ricondotta nel più ragionevole alveo della "buona manutenzione costituzionale"? Guardiamo pure in questa direzione, anche se la sconsolata ammissione del pontiere per eccellenza, Gianni Letta, riferita da Eugenio Scalfari, non autorizza alcun ottimismo.
Il compito dell´opposizione si è fatto più difficile, perché non basta contrapporre una bozza Violante ad una bozza Calderoli. Bisogna contrastare Berlusconi sul terreno che lui stesso ha scelto, quello della mobilitazione dell´opinione pubblica che dovrebbe sostenere l´impresa di riforma. Ma bisogna fare un passo oltre la registrazione di questa difficoltà, mostrando a tutti che cosa sia effettivamente diventata la questione della riforma costituzionale: una sfida sul destino della democrazia italiana.
Se così stanno le cose, vi è una responsabilità più ampia di quella che riguarda partiti e gruppi di opposizione. Vi è una responsabilità collettiva legata ad una cittadinanza attiva, alla necessità che tutti prendano la parola. La difesa della democrazia non è stata mai affidata a maggioranze o minoranze "silenziose". Proprio perché le tecnologie hanno fatto diventare "continua" la democrazia, continua dev´essere pure l´azione dei cittadini. E oggi il silenzio si rompe in molti modi, da quelli tradizionali a quelli che si affidano alla faccia democratica delle tecnologie, né plebiscitaria né populista. Di tutto questo bisogna parlare, per non lasciare solo il Presidente della Repubblica nella difesa della Costituzione, per scongiurare un cambiamento di regime, per non rassegnarsi al destino di spettatori. Esattamente quello che il Cavaliere vuole.

l’Unità 12.4.10
L’Ungheria alla destra, tracollo socialista
Il partito xenofobo entra in Parlamento
Per gli exit poll il partito conservatore dell’ex premier Orban al 56%. Il Partito socialista al 20%
Il partito Jobbik strappa il 15%. Nel suo programma guerra ai Rom, agli ebrei e aicomunisti
di Marco Mongiello

Il vincitore. Ammira Berlusconi ha promesso 1 milione di posti di lavoro

Il partito conservatore Fidesz dell’ex premier Viktor Orban per i primi exit poll avrebbe vinto le elezioni politiche ungheresi. Il partito socialista al governo crolla al 20%. Fa il pieno l’ultradestra xenofoba.

La sinistra ha rimesso in ordine i conti pubblici, ma è stata sconfitta da un uomo che ha promesso meno tasse e un milione di nuovi posti di lavoro, mentre l'estrema destra razzista dilaga e per la prima volta entra in Parlamento.
La storia suona familiare ma il Paese in questione è l'Ungheria. Ieri il primo turno delle elezioni legislative ha cancellato dalla mappa dell'Europa uno dei pochi governi socialisti per consegnare la Nazione ai conservatori del Fidesz, il partito guidato da Viktor Orban.
AMPIA MAGGIORANZA
Dopo il secondo turno del 25 aprile il leader conservatore potrà tornare a Budapest per sedersi sulla poltrona del Primo ministro con una maggioranza che si prevede molto ampia.
Già premier dal 1998 al 2002, Orban ha convinto i dieci milioni di ungheresi promettendo di «far uscire il Paese dalla disperazione». Dopo le speranze suscitate dall' adesione all'Unione europea nel 2004 infatti l'Ungheria è stato uno dei primi Paesi a crollare a causa della crisi economica globale scoppiata nell'autunno del 2008. Per evitare la bancarotta Bruxelles e l'Fmi sono intervenuti con un prestito di oltre 20 miliardi di euro e il Governo socialista, al potere per otto anni, si è impegnato a risanare e riportare il deficit entro limiti accettabili a suon di tasse, tagli di tredicesime e della spesa pubblica.
Oggi l'Ungheria è una Paese stremato da una recessione che l'anno scorso ha superato il 6% del Pil e una disoccupazione che ha superato l'11%.
Orban, che è un ammiratore di Berlusconi, ha promesso di abbassare le tasse da subito, anche se il suo responsabile dell'economia ha già rimandato al 2011, e ha promesso un milione di nuovi posti di lavoro in dieci anni, anche se al prezzo di far risalire nuovamente il deficit e di rimandare l'entrata nell'Euro prevista per il 2014.
PUNITA LA SINISTRA
I socialisti invece pagano un crollo di immagine, dovuto anche ad una serie di scandali, che negli ultimi anni è stato senza sosta, al punto da costringere il Premier Ferenc Gyurcsány a dare le dimissioni a marzo 2009 per essere rimpiazzato dal «tecnico» Gordon Bajnai.
Per riconquistare la fiducia degli elettori il Partito socialista ha presentato un candidato di 35 anni, Attila Mesterhazy, ma la caduta è stata comunque spettacolare, dal 43% del 2006 a circa il 20% dei voti. Evitato comunque il temuto sorpasso da parte dell'estrema destra del Jobbik.
Il vero vincitore di queste elezioni è Gabor Vona, il leader trentaduenne dello Jobbik o il «Movimento per un'Ungheria migliore». Al grido di «Ungheria agli ungheresi» Vona ha cavalcato il populismo e il razzismo dilagante in Europa arrivando a piazzarsi poco distante dai socialisti come terza forza del Paese.
Tra i tanti movimenti di estrema destra europei quello ungherese è tra i più aggressivi. Oltre al partito, nato el 2003, Von ha fondato la «Guardia Magiara», un'organizzazione paramilitare già dichiarata illegale e rinata con un altro nome. Le marce, le divise, le violenze contro i Rom e i simboli richiamano esplicitamente il nazismo. Una cosa che non ha impedito a Vona di far eleggere tre eurodeputati al Parlamento europeo l'anno scorso. Nel suo programma non manca niente del tipico menu dell' estrema destra: i nemici sono i Rom, gli ebrei e i comunisti, ma anche le multinazionali e le banche.Proprio ieri un rapporto divulgato dal Centro studi dell'Università di Tel Aviv sull'antisemitismo ha messo in guardia contro il moltiplicarsi di violenze contro gli ebrei e contro il dilagare dell'estrema destra, mentre il Centro Simon Wiesenthal ha puntato il dito contro alcuni Paesi, tra cui l'Ungheria, dove i criminali di guerra nazisti continuano a vivere nell'impunità.

l’Unità 12.4.10
Basaglia insegna
La denuncia. Il giornalista Kazuo Okuma e la sua esperienza infernale in un ospedale psichiatrico
Il dramma. Nel suo paese esistono quasi solo strutture private e gli internati sono in aumento
I manicomi non curano Il Giappone studia il modello italiano
Grazie al coraggio di un giornalista e alle denunce dei familiari dei malati, in Giappone c’è una spinta a copiare la nostra 180. Una delegazione del Sol Levante è in visita in Italia per capire come funziona
di Cristiana Pulcinelli

Kazuo Okuma in Giappone è un uomo conosciuto. Per trent’anni ha lavorato come giornalista del più importante quotidiano giapponese, Asahi Shimbun, ed è autore di un libro che negli anni Settanta ha suscitato un certo clamore: Reportage da un padiglione manicomiale. Kazuo vi raccontava la sua odissea all’interno di un ospedale psichiatrico in cui si era fatto ricoverare fingendosi alcolista e da cui aveva faticato non poco ad uscire. Da quella esperienza Kazuo ha maturato l’idea che il manicomio fosse un luogo infernale, «ma non vedevo alternative racconta fino a che non ho saputo che in Italia era stata varata una legge che prevedeva l’abolizione dei manicomi».
Da questo incontro con la riforma italiana è nato un altro libro, Il Giappone dei manicomi e l’Italia senza manicomio, con il quale Kazuo ha vinto il premio Franco Basaglia istituito dalla Provincia di Venezia e dalla Fondazione Franca e Franco Basaglia. Ora l’autore è in Italia insieme a una delegazione giapponese formata da psichiatri, operatori sanitari, familiari di pazienti. Vengono a studiare il modello italiano. Ma hanno anche voglia di raccontare il dramma dei pazienti con problemi di salute mentale nel loro paese. «In Giappone racconta Kazuo oggi ci sono 340.000 letti per una popolazione di 120 milioni di persone. Negli ultimi 30 anni il numero dei letti manicomiali è diminuito in tutti i paesi sviluppati, tranne che in Giappone, dove invece sono drasticamente aumentati. Il 90 % di questi posti letto si trova in ospedali privati per i quali il guadagno viene prima della vita dei pazienti». Il modello è complesso: quasi ogni ospedale psichiatrico ha un proprietario diverso, spesso si tratta dello stesso psichiatra che lo dirige. Dato che il guadagno maggiore deriva dal numero di ricoverati, i letti devono essere sempre pieni. Quindi, pazienti che potrebbero essere seguiti al di fuori della struttura, vengono invece tenuti in ospedale il più a lungo possibile. Spesso i letti vengono riempiti con malati di Alzheimer e anziani.
Maya Aishi, odontotecnica, è la mamma di un ragazzo schizofrenico ed è anche vice presidente di un’associazione di familiari di pazienti. Anche lei è in Italia e racconta la sua storia: «Mio figlio ha cominciato a manifestare problemi gravi verso i 16 anni. Per chiedere un aiuto ci siamo rivolti al comune della nostra cittadina, ma ci hanno detto che l’unica soluzione era ricoverarlo in ospedale: una struttura privata con oltre 500 posti letto che si trova in una cittadina non distante dalla nostra. Così abbiamo fatto. Per 10 anni mio figlio è entrato e uscito dall’ospedale senza nessun miglioramento. Ora è a casa da 6 mesi, potrebbe andare al servizio diurno, ma siccome si trova all’interno dell’ospedale, non vuole metterci piede». Cosa chiedono i familiari? «Vogliamo servizi territoriali. Io sono andata dal sindaco della mia cittadina e gli ho detto: diventiamo la Trieste del Giappone».

Repubblica 12.4.10
L’ossessione per la parola giusta
Due nuovi dizionari, oltre 65mila lemmi, ci mostrano in quanti modi possiamo dire le cose
di Stefano Bartezzaghi

Nel nuovo De Mauro dei sinonimi e contrari, i termini vengono segnalati in base all´uso
L´opera di Raffaele Simone seleziona i vocaboli per "analogia"

Quando scaricherete dalla macchina i quattro volumi che compongono queste due opere, o li estrarrete dagli scaffali di una biblioteca pubblica per una consultazione, vi risulterà inevitabile pensare a tutte le volte che avete sentito dire che l´italiano, inteso come lingua italiana, «si impoverisce». Una dozzina di chili complessivi di carta stampata, quasi quattromila pagine, sessantacinquemila lemmi circa, ma anche due leggerissimi Cd-Rom danno della ricchezza o povertà della lingua italiana un´idea nettamente più articolata. Anzi, due idee distinte.
Per Tullio De Mauro, che ha progettato e diretto l´impresa del Grande Dizionario Italiano dei Sinonimi e dei Contrari (con un´appendice di Olonimi e Meronimi; Utet, 2 volumi, 1640 pagg., s. i. p.; si può abbreviare in Gradisc) ogni parola si definisce non solo per il suo significato e per i rapporti di equivalenza o contrarietà che può stabilire con altre parole ma anche per l´uso che se ne fa, e che è misurabile con strumenti statistici. Come negli otto volumi del suo Grande Dizionario Italiano dell´Uso, che è alla base di questa nuova opera (era uscito dallo stesso editore nel 2007), ogni parola e anche ogni accezione di ogni parola è accompagnata da una «marca d´uso». La parola cretino, ad esempio, è di per sé parte del vocabolario fondamentale dell´italiano che comprende poco più di duemila vocaboli, frequentissimi e comprensibili a tutti sin dall´infanzia (da sole coprono il novanta per cento degli usi linguistici). Fra i suoi sinonimi sono altrettanto fondamentali ottuso, scemo e stupido; fesso, idiota, imbecille e sciocco sono invece quattro delle 2500 parole di alto uso, che normalmente si imparano a scuola e sono solo poco meno frequenti delle fondamentali. Come sostantivo, cretino ha il sinonimo asino, che in questa accezione è una delle 1900 parole di alta disponibilità (vocaboli non frequentissimi, ma comprensibili da tutti). Molto nutrita è la schiera delle 40.000 parole comuni, conosciute e impiegate da chi ha un´istruzione medio-alta, indipendentemente dalla sua professione e dai suoi interessi specifici: fra i sinonimi di cretino troviamo qui allocco, babbeo, baccalà, baggiano, balordo, beota, bietolone, broccolo, citrullo, coglione (volg.), deficiente, ebete, gnocco, gonzo, grullo, mentecatto, minchione (pop.), scimunito, scipito, stolido, stolto, tonto, tontolone. Un ultimo sinonimo di cretino è castrone, che è parte del lessico a basso uso, a sua volta composto da parole ormai rare, ma non del tutto scomparse. Non ci sono sinonimi di cretino per le altre marche d´uso: termini tecnici e specialistici, parole di uso letterario, parole di ambito regionale, parole dialettali, esotismi e termini obsoleti.
L´ampiezza dell´opera e la scrupolosa stratificazione degli usi abrogano i limiti tradizionali del genere dei dizionari dei sinonimi e dei contrari, un genere di cui non è mai stata troppo chiara la ratio. A cosa servono? A evitare le ripetizioni, come insegnavano i precetti stilistici del passato, con zelo degno di miglior causa? Il Gradisc aiuta innanzitutto a trovare la parola giusta, quando quella che abbiamo in mente non ci soddisfa perché non dà la sfumatura giusta o perché non è in linea con il tono del nostro discorso - essendo vuoi troppo usata e frusta, vuoi troppo tecnica, vuoi troppo aulica (aulico è parola comune; può essere sostituito dai fondamentali alto e nobile, dai vocaboli di alto uso illustre e solenne, dalla parola ad alta disponibilità raffinato, dai comuni altisonante, elevato, forbito, retorico, ricercato, sostenuto; come termine letterario, invece, aulico è sinonimo dei comuni cortigiano e curiale).
In due appendici, il Gradisc raccoglie relazioni non più orizzontali (tra parole equivalenti o contrarie) ma verticali: sono gli olonimi e i meronimi, rispettivamente nome di interi e di parti. La manica è uno dei meronimi di abito, che ne è quindi uno degli olonimi.
Raffaele Simone firma invece un´opera che in italiano ha pochissimi precedenti: il Grande Dizionario Analogico della Lingua Italiana (Utet, 2 volumi, pagg. 2232, s. i. p.; abbreviato in DAU). Un dizionario analogico ha molte meno voci di un dizionario normale: il DAU ne accoglie 3500. Questo perché ogni voce è una parola di alta frequenza, che è collegata con un gran numero di parole italiane. Per chi fa un dizionario analogico, il lessico è una metropoli che si può attraversare partendo da un numero relativamente limitato di piazze, ognuna delle quali mette in comunicazione un numero assai più ampio di vie. La voce cretino, per esempio, non c´è ma, tramite un indice che occupa da solo quasi l´intero secondo volume dell´opera, si trovano le voci in cui la parola compare, da acuto a sciocchezza.
Ogni voce elenca tutte le parole che si trovano, per un verso o per l´altro, a essere relative alla parola-piazza o alla parola-hub (questa la metafora scelta dall´autore). Per esempio, edilizia. Il DAU ne fornisce una breve definizione, un sinonimo (costruzione), un elenco di termini «affini e associati» (architettura, impantistica, etc.) e un nutrito paragrafo con i «nomi più specifici per funzione»: da architettura del paesaggio a edilizia urbana. Poi incominciano le risposte alle domande, secondo il metodo euristico scelto da Simone per compilare il suo dizionario. Di cosa si interessa l´edilizia? Di costruzione, edificio, grandi opere, infrastrutture... Con quali strumenti opera? Planimetria, prospetto, progetto, regolamento edilizio... Cosa produce? Edificio, opera muraria, stabile, complesso, centro residenziale... Come si distinguono questi prodotti? Abbazia, abitazione, aeroporto, albergo, anfiteatro, appartamento, arena... fino a terme, torre, torrione, villa, villette. Quali sono le parti di tali prodotti? Fondamenta, basamento, interrato, piano, scala, tramezzo, pavimento... Quali sono gli atti relativi all´edilizia? Appalto, abbattimento, demolizione, ammodernamento, abusivismo, cementificazione... Qual è l´abbigliamento tipico? Casco, elmetto, tuta. Quali persone sono coinvolte? Costruttore, immobiliarista, palazzinaro, capocantiere, capomastro, asfaltista, carpentiere, carriolante, edile, fabbro.... Quali sono i luoghi tipici dell´edilizia? Cantiere, cava, giacimento... Quale sono le azioni connesse all´edilizia? Finanziare, zonizzare, rapallizzare, alzare, consolidare, edificare... Incrociando lemmario e indice, l´utente del DAU può così giungere a scoprire termini che non conosce o che ha dimenticato.
I thesaurus e i dizionari nomenclatori del passato si sono fondati tipicamente su una rigida categorizzazione del mondo. Il Thesaurus di Roget (prima edizione, 1825) incominciava, per esempio, con la voce essere, in diretta corrispondenza con la Metafisica di Aristotele. Oggi, con i nuovi strumenti tecnologici, l´osservazione parte direttamente dalla lingua: De Mauro ha fondato il suo sistema di marche dell´uso sull´analisi delle ricorrenze dei termini nei testi e nei discorsi effettivamente compiuti in italiano; Simone ha scelto le sue parole-hub fra quelle che risultavano effettivamente al centro del maggior numero possibile di relazioni diverse. Nel primo caso il linguaggio è come un edificio di undici piani, tanti quante sono le marche d´uso; nel secondo caso, è una metropoli labirintica, in cui ogni parola è inserita in un sistema di relazioni organizzato secondo una logica flessibile. In entrambi i casi, si tratta di strumenti di consultazione assai raffinati, che si indirizzano generosamente a un pubblico che condivida con i loro curatori, i loro redattori e il loro editore l´idea che la lingua (e, di conseguenza, la linguistica) sia innanzitutto una passione sociale.