lunedì 19 aprile 2010

l’Unità 19.4.10
Scandalo pedofili. La Chiesa non va verso la verità
di Andrea Boraschi

Lo «scandalo pedofilia» costituisce la più profonda crisi pubblica vissuta dalla Chiesa cattolica dal dopoguerra a oggi. Il dato emblematico di quanto accade sta nel nugolo
di contraddizioni (di atteggiamenti, messaggi, argomenti) addensatosi attorno alla denuncia di vicende dolorosissime e ancora, in larga misura, da indagare e capire.
Mai come in queste settimane il Vaticano mostra l’ambiguità di chi, dinanzi alla propria colpa, chiede perdono mentre urla al complotto, inclina alla resipiscenza mentre rivendica l’infallibilità dei propri orientamenti e delle proprie condotte. Così che, a fronte della turpitudine degli abusi commessi, chi mai attendesse un moto di riscatto, un’ammissione dolente e severa delle responsabilità ecclesiastiche, deve guardarsi dall’accusa di essere parte di una congiura globale. A far da sponda a tanta schizofrenia, la pastorale di molti intellettuali «laici» che difendono a spada tratta il pontefice come colui che con più coraggio avrebbe denunciato le colpe della propria Chiesa e avviato un’opera di «pulizia» al suo interno e che, assolutizzando le accuse (quasi che chieder conto dell’avvenuto equivalesse a voler mettere al bando il cattolicesimo), relativizzano oltremisura la gravità dei fatti di cui si discute.
Ma lo sdegno che si abbatte oggi su una parte del clero e delle gerarchie cattoliche non ha virulenza giacobina; esso, piuttosto, reclama laicamente ragione di crimini taciuti, rimossi, con tutta probabilità perpetrati su larga scala. Quello sdegno attende che la Santa Sede mostri chiarissima volontà di espiazione e assoluta disponibilità a sottostare alle leggi degli stati dove si sarebbero compiuti i reati. Non è poco, certo: ma è anche il minimo cui si possa ambire.
Purtroppo, invece, ci si deve confrontare con faccende che inquinano ogni confronto: il paragone tra gli attacchi subiti dalla Chiesa e le persecuzioni antisemite è l’argomento più odioso emerso sin qui e testimonia quanto le gerarchie cattoliche siano lontane da una sincera presa di coscienza del proprio errore. Infine, si dovrebbe tenere a mente quanto scrive il teologo svizzero Hans Küng: «(...) il sistema mondiale di occultamento degli abusi sessuali del clero rispondeva alle disposizioni della Congregazione romana per la Dottrina della fede (guidata tra il 1981 e il 2005 dal cardinale Ratzinger), che fin dal pontificato di Giovanni Paolo II raccoglieva, nel più rigoroso segreto, la documentazione su questi casi. In data 18 maggio 2001 Joseph Ratzinger diramò a tutti i vescovi una lettera dai toni solenni sui delitti più gravi, imponendo nel caso di abusi il “secretum pontificium”, la cui violazione è punita dalla la Chiesa con severe sanzioni».

Repubblica 19.4.10
I respingimenti e la Costituzione
di Chiara Saraceno

Il ministro Maroni si è recentemente vantato di aver posto fine agli sbarchi di barconi provenienti dalla Libia, «riducendo nei primi tre mesi del 2010 del 96 per cento il numero degli sbarchi rispetto al 2009, mentre rispetto al 2008 c´è stata una riduzione del 90 per cento». A prima vista una buona notizia, che testimonia della efficienza della politica di contrasto alla immigrazione clandestina messa in atto da questo governo. Peccato che questi dati nascondano altre, preoccupanti, verità.
La prima è che concentrarsi sul respingimento degli sbarchi come forma principe di contrasto alla immigrazione irregolare può dare molta visibilità mediatica ma di fatto riduce di molto la portata dell´azione di contrasto. Secondo dati di varia fonte, incluse le questure, la maggior parte degli immigrati che sono irregolarmente nel nostro paese non utilizza più i barconi, ma varchi di frontiera non sufficientemente controllati. Molti entrano addirittura regolarmente, con un visto turistico poi lasciato scadere. Per non parlare del fatto che le stesse norme sui permessi di soggiorno producono la loro quota di irregolari, nella misura in cui basta perdere il lavoro e rimanere in Italia anche se non se ne è trovato velocemente un altro per diventare automaticamente irregolari.
La seconda verità è che i cosiddetti respingimenti di fatto condannano gli aspiranti immigrati a tornare in un paese, la Libia, che non dà alcuna garanzia di rispetto dei diritti umani. Non è un caso che proprio per questo è stata aperta una procedura contro il nostro paese presso la Corte Europea di Strasburgo. Nessun paese, infatti, dovrebbe obbligare una persona a tornare in un paese dove la sua vita, dignità, integrità fisica sono messe in pericolo. Vale per gli uomini come per le donne, con la specificità aggiuntiva, nel caso di queste ultime, che il rischio di essere stuprate è all´ordine del giorno. Infine, se i disperati dei barconi sono una quota minoritaria degli irregolari, rappresentano invece la quota largamente maggioritaria dei rifugiati e richiedenti asilo. Secondo i dati dell´Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), oltre il 75% delle domande di chi ha richiesto asilo o lo status di rifugiato nel 2008 è stato avanzato da persone arrivate con i barconi. La cosa non deve stupire. Chi è nelle condizioni di dover fuggire dal proprio paese di solito non ha accesso facilmente a documenti come un passaporto o un visto.
Esiste inoltre, nel nostro come in altri paesi, un pregiudizio negativo nei confronti di alcune nazionalità e provenienze. Per cui è quasi automatico che un irakeno o un afgano in fuga dal proprio paese si vedano rifiutare il visto di ingresso o vengano respinti alle frontiere cui si sono presentati legalmente. L´unico modo che hanno per poter arrivare a presentare la domanda di asilo è entrare illegalmente. Si aggiunga che, sempre secondo l´Unhcr, l´80% dei rifugiati e richiedenti asilo vive nel sud del mondo, in particolare in Africa, che quindi si fa carico in modo sproporzionato, rispetto ai paesi ricchi, dei bisogni di chi è in fuga dal proprio paese. Non sorprende che una parte di questi prima o poi cerchi di penetrare la fortezza dei paesi ricchi. La riduzione del 90% degli sbarchi ha significato anche il dimezzamento, tra il 2008 e il 2009, delle richieste di asilo. Non è una buona notizia. Segnala infatti che l´opera di respingimento ha colpito proprio i più vulnerabili, coloro che avevano qualche ragione, certo da verificare, per chiedere protezione. Ciò è in stridente contrasto con l´articolo 10 della Costituzione che definisce il diritto d´asilo in termini molto ampi, persino più ampi di quelli delle convenzioni internazionali (è sufficiente non poter esercitare nel proprio paese le libertà democratiche). In ogni caso le norme internazionali stabiliscono che una volta presentata una domanda d´asilo occorre sospendere i processi di espulsione al fine di poter espletare tutti gli accertamenti necessari. Accertamenti che ovviamente non possono essere effettuati da guardie costiere in qualche affrettato interrogatorio a persone esauste, che non sanno esprimersi nella nostra lingua e spesso non hanno documenti. Non è una questione di buonismo. E´ una questione di criteri minimi di civiltà e di osservanza, prima ancora dei trattati internazionali, della Costituzione italiana.

Repubblica 19.4.10
Varsavia. Nel ghetto di Edelman
Anticipazione. La prefazione a un libro-intervista con l’eroe della rivolta
di Gad Lerner

Un resoconto vivo, senza retorica o concessioni leggendarie dell´insurrezione, di cui oggi ricorre il sessantasettesimo anniversario
Il racconto è permeato di un sarcasmo polacco, l´esatto contrario del cinismo
Negli ultimi anni subì gli attacchi antieuropei e antisemiti di "Radio Maria"

Anticipiamo parte della prefazione di ad Arrivare prima del Signore Iddio, un libro intervista a Marek Edelmann curato da Hanna Krall (La Giuntina, pagg. 136, euro 12). Oggi, 19 aprile, ricorre il sessantasettesimo anniversario dell´inizio della rivolta nel ghetto di Varsavia.
Arrivare prima del Signore Iddio non è solo il resoconto più vivo della rivolta del ghetto di Varsavia, scaturito dalla testimonianza del vicecomandante dell´Organizzazione ebraica di combattimento (ZOB) scampato miracolosamente alla morte. È molto di più. Hanna Krall, l´autrice, si scontra pagina dopo pagina con la reticenza di Marek Edelman, il testimone. Egli teme che il suo ricordo venga snaturato, ridotto a leggenda inautentica. Ricordare per lui significa anche smitizzare, sottrarsi all´agiografia. Solo così riesce a dare un senso ai decenni successivi in cui esercitò la professione di medico cardiologo all´ospedale di Lodz: collocato di nuovo molteplici volte su quell´esile confine tra la vita e la morte che aveva visto oltrepassare da centinaia di migliaia di persone sull´Umschlagplatz mentre salivano sui vagoni stracolmi diretti a Treblinka, con l´ultima pagnotta messa loro tra le mani dai nazisti allo scopo di garantirsi un flusso di smaltimento ordinato.
Li ho visti morire tutti quanti, ripete Edelman. Poi all´improvviso si rivolta contro la Krall: cosa mi domandi? Potrei dirti dieci volte di più sui miei malati. Ci tiene a precisare che lui è rimasto al cancello dell´Umschlagplatz tutta la vita. Sì, anche dopo. Anche in ospedale: «Stavo al cancello e tiravo fuori degli individui da una folla di condannati».
Il libro è permeato di un sarcasmo polacco che è l´esatto contrario del cinismo. Grazie ad esso apprendiamo che Marek Edelman è certamente un temerario – la sua singolare caratteristica è di apparire un uomo del tutto esente dalla paura - ma non è un soldato. Lo si capisce subito, quando gli insorti s´imbattono il 19 aprile 1943 nel primo manipolo di tedeschi ignari del fatto che ci fossero degli ebrei armati. Potevano sparargli, a dire il vero andavano ammazzati: «Avremmo dovuto, ma non eravamo ancora abituati a uccidere». Che senso poteva avere, del resto, usare le poche e malandate armi pervenute nel ghetto dalla parte ariana della città? «Gli uomini hanno sempre creduto che sparare è il massimo dell´eroismo. Allora abbiamo sparato». E ancora: «Visto che l´umanità si è accordata che morire con le armi in pugno è più bello che senza, allora ci siamo sottomessi a questa convenzione». Purché sia chiaro, si preoccupa di ricordarci Edelman attraverso innumerevoli esempi, che il coraggio non fu certo una virtù esclusiva dei combattenti. La funzione di questi ultimi era limitata: bisognava morire pubblicamente, sotto gli occhi del mondo.
Non stupisce quindi la diminuzione sistematica con cui contraddice l´epopea raccontata da chi non c´era: cinquecento i membri attivi del ZOB? Macché, eravamo molti meno. Mordechaj Anielewitcz, il suo comandante, figura immacolata? Certo, ma che male c´è a ricordare che era figlio di una pescivendola e che al mercato non esitava a tingere con vernice rossa le branchie delle carpe per farle sembrare più fresche? Anche il cielo si è tinto di rosso nell´incendio del ghetto di Varsavia, cosa volete che sia un po´ di vernice scarlatta. Per sé e i suoi compagni, il nostro testimone rivendica che gli concediamo se non altro il beneficio della normalità.
Detesta la retorica dei superuomini. Ma nello stesso tempo detesta gli uomini che delegano a Dio le responsabilità che spetta loro assumere. È questo l´unico frangente in cui il dottor Edelman, chiamato a prendere decisioni temerarie di fronte a casi clinici disperati, ama esibire superbia. Lui, il Signore, non è tanto giusto. Talvolta è piacevole raggirarlo, approfittare di un Suo momento di distrazione e proteggere la fiamma che Iddio era già lì pronto a spegnere. Una bestemmia? Certo che no: i rivoltosi del ghetto di Varsavia sono interpreti dell´autonomia dell´umano senza cui neppure la Legge sarebbe in grado di fondare una morale di civiltà.
Tentare sempre di sopravvivere con dignità: pur di trasmetterci questo insegnamento Edelman non esita a criticare la scelta del suicidio messa in atto nel bunker di via Mila 18 dal comandante Anielewitcz insieme agli ultimi resistenti. Del resto avevano dissentito insieme, il 23 luglio 1942, quando a togliersi la vita era stato il presidente del Consiglio ebraico, Adam Czerniakov, non appena aveva appreso che i tedeschi avevano deciso la liquidazione del ghetto. Riconoscevano la rettitudine di Czerniakov, ma gli imputavano di non avere indicato per primo la via obbligata dell´insurrezione.
Ciò naturalmente non gli ha impedito, nel dopoguerra, fino all´ultima celebrazione dell´anniversario della rivolta cui ha partecipato nell´aprile 2009, di sostare in raccoglimento di fronte alla lapide che ricorda Szmul Zygielbojm, il rappresentante del Bund nel governo polacco in esilio che il 12 maggio 1943 si suicidò a Londra per protesta contro l´indifferenza dei governi alleati. Il cerimoniale da lui predisposto contemplava che a quel punto dell´itinerario, prima di proseguire verso l´Umschlagplatz e il bunker di via Mila 18, un coro di ragazzi intonasse piano l´inno del Bund, il "suo" partito operaio ebraico contrario al progetto di emigrazione sionista in Palestina.
Marek Edelman rimarrà fino all´ultimo dei suoi giorni, il 2 ottobre 2009, quando si spense serenamente a Varsavia nella casa dell´amica Paula Sawicka, un militante del Bund. Ovvero della nobile idea democratica secondo cui un ebreo deve poter vivere libero e alla pari con i suoi concittadini là dove nasce. Se poi volesse andare a vivere in Israele per sua libera scelta –aggiungiamo noi - lo faccia. Ma non più, mai più, come via di fuga. Come è noto questo ideale di Edelman gli procurò l´inimicizia dei sionisti e il sospetto dello Stato d´Israele. Ma per fortuna non ha potuto impedire che la sua fotografia venisse collocata quando era ancora vivo nella galleria degli eroi della rivolta del ghetto allo Yad Vashem di Gerusalemme. Il principio dell´uguaglianza e della cittadinanza ebraica in qualsiasi paese della terra è un´eredità che il Bund consegna attraverso di lui alle generazioni successive. (...)
Nel maggio del 2008, quando andai a intervistarlo nel modesto villino di Lodz insieme al mio primogenito Giuseppe, lo trovai alle undici del mattino seduto in cucina che fumava sorseggiando vodka. Gli avevo portato in dono del vino piemontese che disdegnò come bevanda per signorine. Per fortuna in aeroporto avevo comprato pure una bottiglia di whisky che lo rimise di buonumore e subito stappò, proponendoci un brindisi. Accendeva una nuova sigaretta senza filtro con il mozzicone della precedente. Niente male per un medico cardiologo affezionato alla vita (degli altri)! Da poco aveva subito gli attacchi di "Radio Maria", emittente del cattolicesimo polacco più reazionario, dopo che ne aveva denunciato la propaganda antieuropea e antisemita. Gli chiesi il perché dell´ostinazione con cui era rimasto a fare il guardiano delle tombe del suo popolo. «Perché qualcuno provi dispiacere quando lo guardo negli occhi. Voglio dispiacere a quelli che sono contenti che gli ebrei siano morti in Polonia. Hanno vergogna di guardarmi negli occhi, hanno paura di me. E questo mi fa piacere perché non hanno paura di me, ma della democrazia». Puntava uno sguardo di fuoco sull´obbiettivo della telecamera. Poi mi congedò piuttosto bruscamente.

Repubblica 19.4.10
Si riapre la discussione sui sette giovani trucidati dai fascisti
I fratelli Cervi, la storia dietro il mito
Un saggio di prossima uscita e un intervento di Sergio Luzzatto ripropongono il modo in cui il Pci costruì “l’icona rossa della Resistenza"
di Simonetta Fiori

Esiste il mito ed esiste la storia. Decostruire il mito significa restituire alla storia la sua complessità, non necessariamente rovesciare o negare i fatti storici da cui è scaturito il racconto epico. Con il titolo Italo, Alcide e il mito è uscito ieri sul Sole 24 ore un documentato articolo di Sergio Luzzatto dedicato a una "icona rossa della Resistenza", la storia dei sette fratelli Cervi uccisi il 28 dicembre del 1943 per ordine dei fascisti. Mettendo insieme due articoli di Calvino pubblicati nel dicembre del 1953, una celebre orazione del giurista fiorentino Piero Calamandrei e la strategia adottata allora da Togliatti, Luzzatto racconta meticolosamente la costruzione negli anni Cinquanta di un mito che ebbe l´effetto di "abbellire" o rendere organica al partito comunista una vicenda che organica non fu, conservando tratti di irregolarità e ribellione nascosti dal martirologio.
Prendendo spunto dalla riedizione de I miei sette figli di Alcide Cervi, una sorta di memoriale voluto da Togliatti nel 1955 (Einaudi, pagg. 100, euro 11), Luzzatto racconta come «da Italo Calvino in giù» l´intellighenzia comunista fece di tutto per celebrare come coerente «una storia certo eroica, ma parecchio complicata». Nei due o tre mesi intercorsi dall´inizio della Resistenza fino alla loro morte, «i fratelli Cervi furono tutto fuorché altrettante incarnazioni del rivoluzionario disciplinato», dandosi all´attività di sabotaggio «con una convinzione ai limiti dell´incoscienza». Non mancarono i contrasti tra loro e i dirigenti locali del Pci, «che li accusarono di comportarsi da "anarcoidi"». Furono Calvino e Calamandrei - continua Luzzatto - a trasformare i fratelli Cervi in santini, «sottacendo le difficoltà ambientali, gli inciampi militari, l´isolamento politico durante la loro breve stagione da partigiani sull´Appennino». Questo comune innamoramento per la famiglia Cervi finì per incontrarsi nel dopoguerra con il desiderio di Togliatti di contrastare la propaganda anticomunista sul cosiddetto "triangolo della morte". La mitografia dei Cervi - scrive in conclusione Luzzatto - servì anche per avversare le "caricature infamanti" ai danni del partigianato rosso. Ma al di fuori della elaborazione leggendaria - sembra di leggere tra le righe - i fratelli Cervi rimangono figure gloriose, che funsero anche da esempio per gli altri combattenti.
Consapevole dei rischi connessi ad operazioni del genere, in tempi di egemonia "neorevisionista", Luzzatto chiarisce al telefono: «In questo caso la decostruzione del mito nulla toglie alla dimensione eroica dei Cervi, che rimane tutta. I revisionisti peggiori, cui diede voce anche Bruno Vespa, arrivarono a sostenere che fu il Pci a decretarne la morte. Io racconto come è nata una leggenda edificante, la passione condivisa da Calvino e Calamandrei. Non bisogna dimenticare che in quegli stessi anni i partigiani finivano sotto processo, e dalle galere uscivano i combattenti di Salò».
È nei primi anni Novanta che dalle memorie interne al Pci reggiano affiorarono i dissapori tra i Cervi e i comunisti. «All´indomani dell´8 settembre 1943», racconta Alessandro Casellato, autore di una monografia sui fratelli Cervi che uscirà da Einaudi, «essi furono artefici di iniziative autonome guardate con diffidenza dai comunisti. Li accusarono anche di anarchismo, ma alludendo a un´intemperanza di tipo esistenziale, non a una teoria politica». La creazione del mito, concorda Casellato, fu anche un risarcimento simbolico per la famiglia, che patì il dolore della perdita e una vita di durezze. «Ma è ora la stessa famiglia a porsi delle domande nuove».
La vicenda dei fratelli Cervi non è mai stata oggetto di un´accurata indagine storica. «Non certo per le censure del Pci», interviene Giovanni De Luna, studioso attento al rapporto tra storia e memoria. «Un vizio della storiografia resistenziale è stato quello di dare spazio agli scenari e al collettivo piuttosto che alle figure in carne d´ossa». La ricostruzione storica, aggiunge lo studioso, è alternativa al mito perché ricostruisce la complessità degli eventi. «Quella di transitare un personaggio dalla dimensione mitica alla conoscenza è un´operazione necessaria. Soltanto un paese avvelenato dal revisionismo può leggerla con malizia».

Responsabilità medica 16.4.10
I medici alla Lega: «Non denunceremo mai i clandestini»

Roma - 16 aprile 2010 - "Noi confermiamo il nostro parere negativo contro ogni forma che ci metta nelle condizioni di non esercitare al meglio il nostro mandato etico, deontologico e sociale di garantire a tutte le persone che hanno bisogno di cure, indipendentemente dalla loro condizione sociale, dal loro credo e posizione politica. Non denunceremo mai. Ribadiamo la nostra contrarieta' a qualsiasi ipotesi che lede il nostro mandato etico e deontologico".
Prende una posizione ancora una volta ferma e chiara l'Ordine dei medici di Udine,in relazione alle ultime richieste avanzate dal gruppo Lega Nord in Friuli Venezia Giulia. Il Carroccio chiede alle Regione di mettere in campo del personale amministrativo negli ospedali per segnalare alle autorita' competenti gli immigrati clandestini che vanno a farsi curare.
L'Ordine dei medici di Udine, attraverso il presidente Luigi Conte, alza il tiro. "E' altamente pericoloso per la salute dei cittadini - afferma - lasciare che queste persone malate possano diventare mine vaganti in giro per le nostre citta', sfuggendo, per paura di essere denunciati, al controllo della sanita' pubblica". L'Ordine si appella ai doveri etici e deontologici per smontare le nuove richieste avanzate dal Carroccio. "Lo ripetiamo una volta di piu' - ribadisce Conte - noi non diventeremo mai ne' gendarmi ne' delatori".
“E anche se dovessimo per legge essere obbligati a denunciare e segnalare gli irregolari - asserisce Conte, che è membro del Comitato nazionale della Federazione degli Ordini dei medici - noi ricorreremmo alla clausola di coscienza prevista dal nostro Codice di deontologia, dove si dice chiaramente che nessun medico puo' fare qualcosa che sia contrario alla propria coscienza. La medicina - incalza - deve essere libera, totalmente, e indipendente da qualsiasi condizionamento proprio per garantire a tutti i cittadini le cure, senza alcuna distinzione fra ceto sociale, credo etico, religione, sia in pace sia in guerra".
Conte e' convinto che "i nostri valori sono al di sopra degli Stati e trasversali a tutti gli Stati, e cosi' deve essere". I rischi a cui si va incontro dovrebbero convincere tutti dell'insensatezza di tali proposte: "Se viene meno l'anonimato di chi si presenta, allora possiamo dire addio al ruolo specifico della nostra categoria, che e' quello di sorvegliare lo stato di salute di tutta la popolazione, perche', in questo caso, e' evidente che non si presenterebbero piu' da noi medici i clandestini ammalati".
In tal caso gli irregolari, a detta di Conte, andrebbero ad alimentare una pericolosa "sanita' clandestina parallela che provocherebbe danni notevoli agli immigrati e a tutti i cittadini". "Non si e' capito, probabilmente, che prestare assistenza medica anche agli immigrati non in regola significa fare il bene prima di tutto dei cittadini del Friuli Venezia Giulia, in una logica generale di tutela e autotutela della sanita' e della salute".

Responsabilità medica 16.4.10
Alunni stranieri. Il tetto? "Solo un’indicazione"
L’avvocatura dello Stato “depotenzia” la circolare Gelmini
«Situazione fumosa»
di Elvio Pasca

Roma – 12 aprile 2010 -Il tetto del 30% per gli alunni stranieri è solo un’indicazione. Più precisamente, la circolare del ministro Gelmini è un “documento che non ha un’efficacia normativa generale ed esterna, non può essere considerato atto regolamentare”. Quindi, non sarebbe vincolante per le scuole.
Lo dice l’avvocatura generale dello Stato, in una memoria presentata durante la causa avviata a Milano contro le indicazioni del ministro dell’Istruzione e dell’ufficio scolastico regionale per combattere il fenomeno delle classi ghetto. 
Se nella stragrande maggioranza delle scuole la circolare non ha avuto alcun impatto, ha scatenato il caos in quelle dove la quota del 30% viene normalmente superata (appena 3 su 100, secondo i dati del ministero). Che fare delle iscrizioni eccedenti il tetto? Vanno respinte? Per ora sono state accolte con riserva in attesa delle indicazioni degli uffici scolastici regionali, ai quali sono state chieste delle deroghe.
Parallelamente, sono partite due azioni giudiziarie. A Milano una coppia di mamme straniere, assistite dall’Associazione Studi giuridici sull’immigrazione e da Avvocati per niente onlus, hanno iniziato in tribunale un’azione civile antidiscriminazione, mentre a Roma l’associazione Progetto Diritti onlus ha scelto la strada del ricorso al Tar.
Venerdì’ scorso c’è stata la prima udienza del processo di Milano. Il giudice har inviato tutto all’11 maggio, ma intanto è saltato fuori il parere dell’avvocatura che depotenzia drasticamente la circolare Gelmini.
“Un parere che però non risolve affatto la questione” nota l’avvocato Alberto Guariso, che con il collega Livio Neri ha curato l’azione antidiscriminazione. “Che valore ha allora il tetto indicato dalla circolare? Bisogna chiedere o no una deroga per superarlo? Se l’ufficio scolastico regionale non la concede? Se scuole non la chiedono? Si può respingere una domanda di iscrizione?” chiede il legale.
“La situazione è ancora fumosa, ci sono tante voci e nessuna certezza. A questo punto dobbiamo aspettare l’11 maggio, quando il direttore scolastico regionale spiegherà come viene applicata la circolare in Lombardia. Noi rimaniamo dell’idea – conclude Guariso – che questo sistema viola la parità di trattamento tra alunni stranieri e italiani garantita dalla legge”.

domenica 18 aprile 2010

Repubblica 18.4.10
"Da Togliatti a Wojtyla i miei 80 anni da sopravvissuto"
Pannella e mezzo secolo di storia italiana
La mia vita è la storia del partito: io sono una persona comune e qui sta il segreto della mia durata. La morte non mi fa paura
di Filippo Ceccarelli

Non è esattamente un tipo da anniversari né da ricorrenze Marco Pannella, che il 2 maggio compie 80 anni. Così si è inventato uno strano calcolo per aggirare il suo compleanno rifilando ai festevoli amici l´inconfutabile certezza che quel giorno lui sarà entrato nell´ottantunesimo. Però poi di colpo ridacchia: «Io, povero vecchio!». E´ un esorcismo? «No, è un gusto». E si alza in piedi: gigantesco, slanciato, ingombrante, come sempre.
Stesso partito, d´altra parte. Stessa casa, dietro Fontana di Trevi: grande e buia, lo studio nella cucina dove un giorno fece mangiare Berlusconi e Letta. Giorni orsono l´hanno ingiustamente accusato di godersi un solarium abusivo: «Un che?» ruggisce divertito. Siano 80 o 81 anni, la sua vita non è mutata. Gli piace ancora di pensarla all´insegna dell´«onorevole mendicità dei chierici vaganti».
Pannella non possiede né guida l´automobile. Spende i suoi soldi solo in tabacco, taxi e partito radicale. Tra i primi, nel 1985, con Agorà, ha intuito le risorse delle nuove tecnologie, ma non sa usare il pc». E´ fermo al fax, assistito da pazienti individui che gli tengono una fittissima corrispondenza. In compenso possiede due telefonini e messaggia in modo forsennato. Poi siccome quasi mai si basta, ha anche pronto da anni un libro tutto di mail e sms: un romantico scandaloso telematico romanzo di formazione sentimentale che ha fatto a tempo a invecchiare in un cassetto. Il fatto che (ancora) non sia stato pubblicato - e gli cala un´ombra sul viso - «è una delle più grandi sconfitte della mia vita».
Va a mangiare sotto il partito, in un bar-ristorante che lui chiama «Il lucano», dove è di casa, fa il burbero e gioca con i camerieri; per pranzo ordina un bicchierone di birra e 250 grammi di spaghetti al pomodoro, una montagna, che poi divide con il commensale, una specie di cerimonia; intanto fuma il toscanello, una mezza dozzina di Marlboro e al termine vuole pure la sambuca con i chicchi di caffè galleggianti, ma in numero dispari, per scaramanzia, e siccome sono pari fa un numero pazzesco.
Se proprio occorre trovare qualche cambiamento, riguarda l´estetica e quindi ora Pannella ha il codino. Si mette di profilo, eccolo: «Mi dicono Pirata, Gentiluomo del Settecento, Capo Indiano». Va da sé che nel tempo della personalizzazione, lo «Zio Marco», come pure si è auto-battezzato, annichilisce qualsiasi concorrenza narrativa. Con il che si rende noto che uno sciamano, addirittura, gli ha amichevolmente tirato il suddetto codino; mentre Emma e Mirella, che sarebbero la Bonino e la sua compagna di vita, dissentono, perciò Marco gioiosamente teme che le due si mettano d´accordo per tagliargli nel sonno la temeraria acconciatura, come due Dalile per un unico Sansone, raddoppio biblico all´altezza del personaggio.
Quisquilie, forse. Ma fino a un certo punto, perché in nessun altro come in lui si sono fuse anzitempo, anzi profeticamente, la sfera personale e quella politica, con il risultato che Pannella è l´unico vero Sopravvissuto della Prima e della Seconda Repubblica.
«In molte cose - racconta - più che mentire ho lasciato che gli altri sbagliassero sui miei reali connotati. Mi scocciava, ad esempio, che i vecchi liberali avessero un atteggiamento di estraneità rispetto a certe pratiche che pure noi difendevamo. Per questo mi sono assunto, ci siamo assunti in toto la responsabilità presentando noi stessi come drogati, noi omosessuali, noi traditori della patria».
Racconta Pannella di aver fumato cannabis tre sole volte in vita sua. La prima insieme con il figlio problematico di alcuni suoi amici: «Fu una prova di amicizia»; la seconda durante una marcia militarista, di notte, in un camerone puzzolente: «Uscì fuori della cocaina. Fu la prima e l´unica volta che la vidi. Chiesi allora: a me fatemi uno spinello». Infine quando si fece arrestare: «Ma me l´ero acceso dalla parte del filtro».
Raro trovare un politico che i ricordi mettano di buon umore: «Anche come frocio lascio molto a desiderare». Ben oltre la categoria dell´orientamento sessuale, per Pannella è sempre stato molto importante «dare parola, volto, mano, corpo, ma letteralmente». Impossibile fermarlo, difficile anche solo presentargli l´agenda di una conversazione - e non solo perché ogni sua risposta inizia con «no» o un «no, ma». Pannella resta il più virtuoso e prodigo giocoliere della parola: sorprende, annoda, divaga, dà per scontato, «quelli lì» dice indicando in direzione del Tevere, per esempio, è da riferirsi al Vaticano. E insiste, distoglie, lascia aperte le frasi, quindi le collega e si compiace del risultato seguitando ad aprire imperscrutabili virgolette. Dietro a tutto questo ci sono cinquant´anni di storia patria, da lui vissuta per lo più in modo caotico, ma specialissimamente cristallino.
Quello scambio di lettere con Togliatti; un capodanno sulle nevi con Berlusconi e Veronica; un numero incalcolabile di arresti, di mani addosso, di sputi, di censure, di scioperi della fame; una notte a casa Agnelli per spillare quattrini per il Pr; un costume da clown, uno da babbo Natale, un altro da babbo Natale, però giallo, un mantello da fantasma; una carezza da Wojtyla; quel consiglio a Bettino: «Torna e fatti mettere in galera»; quel tè rovesciato addosso a Berlinguer... Cosa non è accaduto a Pannella!
Ma soprattutto: «La strada mi è amica» garantisce. Vero, basta camminare al suo fianco: il suo magnetismo continua ad attrarre gli impiegati, le nonne, i coatti, i fidanzatini, pure i bambini piccolissimi, cui insegna a fare la pernacchia. Sembra una frase fatta, per giunta retorica, ma per Pannella è decisivo fare sorridere chi gli sta vicino.
Non sempre, com´è ovvio, ci riesce. Compone piccolissime poesie, tipo haiku. Da giovane tentò il suicidio. Più che nell´Aldilà crede nella «compresenza dei morti e dei viventi», concezione buddista, la vita è eterna, quando uno «muore» miliardi di atomi se ne vanno nell´aria, come miliardi di pensieri, come miliardi di Budda, gli ha spiegato la direttrice del museo di astrofisica di Dharamsala. E comunque: «Lentamente muore chi ha paura di morire. Io spero di accoglierla con grande famigliarità, spero che in un qualsiasi momento, soprattutto la notte, quella arrivi e io possa darle il benvenuto, felice di trovarmi così, ehi, vieni, vieni qui». Sorride, Pannellone. Non riesce a immaginarsi i suoi funerali: «Magari, per fregarvi, non li rendo nemmeno pubblici. Bisognerà vedere se per il partito sono convenienti o no. Il partito è per me una ragione oggettiva di vita. La mia vita dopo tutto è la storia del partito e come coautori ha i compagni, i radicali ignoti. Io sono una persona comune e qui sta il segreto della durata».

l’Unità 18.4.10
Pedofili e Eva
di Lidia Ravera

Se un serie crescente di perpetrate violenze sessuali nei confronti dei bambini fosse stata scoperta , a carico di qualsiasi categoria sociale o etnica, chennesò... i barbieri, i taxisti, gli insegnanti o i rumeni o i rom o i senegalesi, sarebbe subito stata organizzata una persecuzione su vasta scala. Se tre anche soltanto tre inguaribili anarchici
o vecchie femministe o torvi intellettuali miscredenti fossero stati trovati con le mani addosso a un chierichetto di nove anni si sarebbe proposta la galera a vita, la pubblica gogna o magari la pena di morte. Fortuna vuole che a macchiarsi di questo crimine sia stata la categoria in assoluto più protetta di questo mondo (e presumibilmente anche dell’altro): i preti. Per salvare loro la faccia e l’anima, provvidenzialmente, il reato di pedofilia è diventato uno spiacevole effetto collaterale del celibato. È sempre colpa delle donne, vero? A partire da Eva.

il Fatto 18.4.10
La rivelazione del cardinale:
Wojtyla ha protetto un prete pedofilo
Secondo Castrillon, il papa elogiò l’insabbiamento di un caso
di Marco Politi

Un cardinale trascina Giovanni Paolo II nella vicenda degli abusi non denunciati. Castrillon Hoyos afferma che papa Wojtyla autorizzò la lettera di elogio a un vescovo francese per aver fatto ostruzionismo alla giustizia. La fragorosa rivelazione cade mentre Benedetto XVI, arrivando a Malta, ha confessato ai giornalisti che il “corpo della Chiesa è ferito dai nostri peccati” e l’unica via di salvezza consiste nel Vangelo, “vera forza che purifica e guarisce”.
Il cardinale Dario Castrillon Hoyos non è un porporato qualunque. Colombiano ottantenne, duro e tenace, è stato presidente del consiglio dell’episcopato latino-americano (Celam) negli anni in cui Wojtyla faceva terra bruciata intorno alla Teologia della liberazione, poi dal 1996 al 2006 prefetto della Congregazione per il Clero. Quando Benedetto XVI liberalizza la Messa preconciliare, il cardinale celebra a Loreto il primo rito solenne dopo il decreto papale. Quando scoppiò il caso del vescovo negazionista lefebvriano Williamson, Castrillon Hoyos era a capo della commissione Ecclesia Dei, incaricata di negoziare con i seguaci di Lefebvre. Pur appassionato di Internet, non si era accorto (o non aveva voluto) che il vescovo Williamson contestava la Shoah.
Dunque, corre l’anno del Signore 2001. É il mese di settembre e da poco un presule di Francia – mons. Pierre Pican, vescovo di Bayeux – è stato condannato a tre mesi con la condizionale per aver rifiutato di denunciare alla magistratura il prete pedofilo René Bissey. Il prete è un tipico predatore. Tra il 1989 e il 1996 ha compiuto ripetuti abusi sessuali su minori, il tribunale gli infligge 18 anni di carcere.
Con questi precedenti il cardinale Castrillon prende carta e penna e scrive al vescovo reticente Pican: “Lei ha agito bene, mi rallegro di avere un confratello nell’episcopato che, agli occhi della storia e di tutti gli altri vescovi del mondo, avrà preferito la prigione piuttosto che denunciare un prete della sua diocesi”. La data della missiva è importante: 8 settembre. Nel mese di maggio il cardinale Ratzinger ha reso noto il Motu proprio papale “Delictis gravioribus”, che stringe i freni sui delitti di pedofilia e ordina ai vescovi del mondo di trasmettere ogni caso al Sant’Uffizio (Congregazione per la Dottrina della fede). Secondo le Linee-guida rese note recentemente il vescovo Pican avrebbe dovuto agire in conformità alla legge civile dello stato, che appunto prevede la denuncia. Invece mons. Pican, che già nel 1996 era stato informato degli abusi sessuali su minori, non aveva denunciato il sacerdote Bissey, limitandosi a consigliargli una cura psichiatrica. Il cardinale Castrillon, non contento di elogiare il suo silenzio, aggiunge con enfasi: “Questa Congregazione, per incoraggiare i fratelli nell’episcopato in una materia così delicata, trasmetterà copia di questa missiva a tutti i fratelli vescovi”.
Pubblicata su un sito francese, la lettera di Castrillon riceve il 15 aprile una sferzante bacchettata dal portavoce papale Lombardi: “Non risponde in nessun modo alla linea presa dalla Santa Sede e anzi dimostra quanto fosse necessario unificare sotto la competenza della Congregazione per la Dottrina della fede la trattazione rigorosa e unitaria dei casi di abusi sessuali: cosa che avvenne nel 2001 con il Motu proprio in cui era contenuto il documento Delictis gravioribus”. Il colpo di barra non ha retto lo spazio di una notte. Perchè il porporato colombiano, testardamente, ha rivendicato di avere agito con il placet della Suprema Autorità. Sarebbe stato papa Wojtyla in persona ad averlo autorizzato a congratularsi per il gesto e a dargli un carattere esemplare. Nel corso di una conferenza nella città spagnola di Murcia il cardinale Castrillon – così riferisce il quotidiano La Verdad – ha precisato testualmente: “Dopo aver consultato il Papa e avergli mostrato la lettera, la inviai al vescovo, congratulandomi con lui per essere stato un modello di padre che non consegna i suoi figli” alla giustizia. Il porporato ha specificato che “Giovanni Paolo II mi autorizzò ad inviare la lettera a tutti i vescovi del mondo e a metterla su Internet”. É la prima volta che papa Wojtyla viene così direttamente chiamato in causa in una vicenda di omertà sui casi di pedofilia. Già nei giorni scorsi si erano levati interrogativi su chi avesse informato o disinformato Giovanni Paolo II al punto che l’allora cardinale Joseph Ratzinger – all’epoca prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede – non riuscì nel 1998 ad aprire un’inchiesta sul pluri-abusatore Maciel, fondatore dei Legionari di Cristo. Nella presa di posizione di Castrillon c’è comunque un’ambiguità di fondo. Il cardinale ha spiegato alla Cnn che il diritto canonico proibisce al confessore di “riferire quanto detto dal penitente, con le parole o in qualsiasi altro modo”. Tuttavia il portavoce papale Lombardi non ha mai accennato al fatto che il vescovo Pican avesse saputo delle tendenze criminali del suo prete esclusivamente in confessionale. In ogni caso, in mancanza di una totale trasparenza sul passato e di una piena assunzione di responsabilità, il Vaticano non uscirà dalla tenaglia dell’ondata di rivelazioni. Ondata inarrestabile. In un’inter vista all’Osser vatore Romano il Segretario di Stato, cardinale Bertone, ribadisce che Benedetto XVI ha indicato una linea molto chiara: “Purificazione e penitenza”. Ma l’associazione americana delle vittime di abusi (Snap) chiede misure concrete e stringenti. Bill Nash, loro rappresentante, propone che “il Vaticano e le diocesi istituiscano un registro online dei preti credibilmente accusati di abusi”.

il Fatto 18.4.10
Saviano. Accuse e reazioni tra lo scrittore e il premier
di Loris Mazzetti

Strage continua da 10mila morti
Le mafie hanno ucciso più del terrorismo. Questo ci fa capire la miopia dell’informazione televisiva

Dopo che il presidente Berlusconi ha attaccato Saviano dicendo che grazie a Gomorra “la mafia è più famosa”, l’autore risponde con una lettera di cui riportiamo alcuni stralci. “Il mio libro è stato accusato di essere responsabile di ‘supporto promozionale alle cosche’ – dice Saviano – ma le mafie vogliono esattamente che i loro affari siano cosa loro. Io credo che solo e unicamente la verità serva a dare dignità a un Paese”. Lo scrittore si chiede: “Il potere mafioso è determinato da chi racconta il crimine o da chi commette il crimine?”. Poi aggiunge: “Il ruolo della ‘ndrangheta, della camorra, di Cosa nostra è determinato dal suo volume d’affari – cento miliardi di euro all’anno di profitto – che supera di gran lunga le più granitiche aziende italiane. Questo può non esser detto? Lei stesso ha presentato un dato che parla del sequestro alle mafie per un valore pari a dieci miliardi di euro. Questo significa che sono gli scrittori ad inventare? Ad esagerare? A commettere crimine con la loro parola? Perché?”. E ancora: “Michele Greco il boss di Cosa Nostra morto in carcere al processo contro di lui si difese dicendo che ‘era tutta colpa de Il Padrino’ se in Sicilia

Gomorra, il libro di Roberto Saviano, è stato accusato da Silvio Berlusconi di essere “supporto promozionale alle cosche”. Non c’è mai limite all’indecenza, soprattutto quando certe parole escono dalla bocca di una delle massime istituzione del nostro Paese. Non è la prima volta che il presidente del Consiglio si esprime contro chi scrive di criminalità organizzata. La volta scorsa fu a novembre, sempre in occasione del processo del suo amico Marcello Dell’Utri: allora disse che dovevano essere “strozzati” tutti quelli che hanno fatto la “Piovra” e che scrivono libri su Cosa Nostra perché “ci hanno fatto conoscere nel mondo per la mafia”. Il giorno in cui il pm chiede per Dell’Utri una condanna a undici anni per concorso esterno in associazione mafiosa, il premier se la prende con un grande scrittore che da quattro anni vive sotto scorta. Roberto Saviano ha un’unica responsabilità: quello di aver illuminato i fatti, di aver fatto conoscere all’Italia e al mondo i casalesi, di aver acceso la luce sulla camorra. Sono convinto che tanti magistrati, soprattutto quelli che stanno in prima linea, la pensano diversamente da Berlusconi, perché quella luce serve anche a loro. Ha scritto Giuseppe Fava: “Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza e la criminalità, impone ai politici il buon governo”. Conosco Saviano da anni. E’ forte. Ha la capacità di usare la parola come un’arma in grado di combattere la criminalità organizzata, non credo di averla riscontrata in nessun altro scrittore o giornalista. Questo ha portato Roberto Saviano ad essere considerato un uomo a rischio della propria vita, condannato dai Casalesi, dai camorristi dello stesso paese dove lui è nato e vissuto fino agli anni del liceo, è anche la sua forza e la sua grande difesa. Per la stragrande maggioranza delle persone lui è il nuovo eroe, è il moderno Lancillotto, il cavaliere della Tavola Rotonda della giustizia e dell’onore che combatte contro gli usurpatori e i tiranni a difesa del popolo oppresso dalla camorra; per altri invece è quello che ha infangato la sua terra e che non doveva raccontare quella criminalità. L’accusa di fare cattiva pubblicità all’Italia è infamante non solo per Saviano ma per tutti quei giovani che continuano a vivere nei luoghi della camorra e a lottare quotidianamente nella terra con più morti ammazzati d’Europa e come ha scritto Saviano: “Nel territorio dove la ferocia è annodata agli affari, dove niente ha valore se non genera potere.
Dove tutto ha il sapore di una battaglia finale.” L’intervista che segue è tratta dal nostro incontro in occasione della scrittura de La macchina delle bugie. Roberto ho la sensazione che la tua sia diventata una missione.
Forse sì. Io ritengo la responsabilità della parola quasi sacra. So bene che uno scrittore non dovrebbe prendersi troppo sul serio, ma a me sono accadute cose che non mi permettono questo distacco. Mi sono reso conto che la parola che sono riuscito a usare, una volta superata una certa linea d’ombra, una volta uscita dagli ambiti soliti degli addetti ai lavori, ha ottenuto un effetto impensabile, quasi miracoloso: è diventata strumento per altre persone per conoscere la realtà della camorra o per farla conoscere. La mia parola ha consentito ad altri di tirare fuori la voce.
Lo hai detto anche nell’intervista che ti fece Enzo Biagi che è stata la rabbia che ti ha spinto a scrivere Gomorra, cito testualmente: “Era tanta la rabbia da far stringere i pugni persino quando scrivevi...”.
Sì. Può sembrare questa un’immagine romantica, ma in realtà è proprio così. Mi trovai con un mio vecchio amico e ci dicemmo che la rabbia era così tanta che bisognava scrivere sulla tastiera del computer con le nocche. Lo giuro, l’immagine mi era venuta in mente dopo aver seguito la faida di Scampia, ero stato sul luogo dell’omicidio di Attilio Romanò, era gennaio 2005, e questo ragazzo innocente era stato freddato nel negozio dove lavorava, il corpo crivellato di colpi e sangue dappertutto. Quanto tornai a casa cominciai a battere sulla tastiera solo con la mano destra, mentre la sinistra, senza accorgermene, era chiusa a pugno, sino quasi a farmi male. Questo mi colpì. Non solo ero disgustato dall’omicidio, ero anche terribilmente arrabbiato perché per i media nazionali quella vittima apparteneva ai soldati di camorra: morire in una certa terra significava essere colpevoli in
partenza. La rabbia è vera, nasce dentro di me. È stato sicuramente il primo motore che mi ha portato a scrivere.
Sei considerato uno dei più grandi esperti di camorra, tieni conferenze anche agli addetti al lavoro timo esiste una ricetta su cosa bisognerebbe fare? Veramente non so dove iniziare. Sicuramente so che dal momento in cui blindi i subappalti, l’attenzione nazionale diventa costante, permetti ai giudici di lavorare in maniera concreta, smetti di dare strumenti soltanto per la repressione, quei poteri criminali cominciano a inciampare, a cadere, a sentirsi stretti, ad avere il fiato sul collo. Faccio un esempio: il voto di scambio è fondamentale. Il problema non è arrestare chi lo compra con 50 euro, quello non si farà prendere mai. Non si dovrebbe far sentire il voto così inutile perché, chi lo vende per 50 euro, lo considera una cosa priva di valore. Pensa che chiunque venga eletto, farà soltanto i propri affari o gli affari di chi lo vuole mettere lì, tanto vale guadagnare un cellulare, 50 euro, una bolletta pagata. Bisogna partire da questo, invece di reprimere o arrestare chi accetta i 50 euro. A questa persona bisognerebbe fargli capire con azioni concrete che tutto sta cambiando, e che non è solo retorica quando si diceva che “il principio primo della democrazia è la partecipazione”. Oggi è esattamente il contrario: che governi la destra o la sinistra, secondo la percezione dominante tanto è la stessa cosa, tutti sono ladri, pensano solo al proprio tornaconto.
In certe zone dell’Italia bisognerebbe mantenere i fari accesi, bisognerebbe illuminare quelle terre. La criminalità organizzata ha bisogno invece di silenzio per poter fare i propri affari. Credo che una grande responsabilità ce l’abbiano i mezzi d’informazione, in particolare la televisione, che per illuminare fa ben poco. Non pensi che questo dipenda anche dal fatto che la mafia sta all’interno dell’economia e quindi riesce in qualche modo a controllare tutto?
Sì. Alla fine tutti i media si accorgono delle mafie esclusiva mente quando ci sono gravi attentati, molti morti, due giorni in prima pagina poi il silenzio. È veramente assurdo. Le mafie in Italia hanno ucciso 10 mila persone, una cifra maggiore dei morti della striscia di Gaza. La guerra tra palestinesi e israeliani da vent’anni apre i telegiornali di tutto il mondo. Le mafie hanno ucciso più di qualsiasi organizzazione terroristica. Da noi il terrorismo, durante gli anni di piombo, ha fatto 600 morti, quanti in due anni a Napoli. Questi dati ci fanno capire la disattenzione, la miopia che c’è stata da parte dell’informazione televisiva su un fenomeno chegiàdipersénonèlocalee che ha tutte le premesse per essere un problema e uno scandalo internazionale. Perché non si è parlato delle mafie per quello che sono? Io mi sono dato delle risposte. Non c’è assolutamente censura, c’è indifferenza, sono fatti considerati locali, per le persone che vivono al Nord sono avvenimenti lontani, mentre al Sud non si comprano i giornali nazionali. La televisione non racconta le vere storie di mafia e quando le racconta lo fa in maniera folkloristica. C’è una frase di Dalla Chiesa che mi ha sempre colpito: “Lo Stato dia come diritto ciò che le mafie danno come favore”.
È una frase fondamentale, perché è la prima cosa che le mafie fanno, oggi anche ad altissimo livello e non solo con i disperati dei quartieri disagiati. Il racket è una fornitura di servizi ineccepibile, pagarlo in molte realtà significa che i camion ti arrivano puntuali, che le banche ti aiutano. Le mafie diventano il garante per far avere prestiti alle imprese, che non ci siano furti nei cantieri. Pagare l’estorsione significa comprare un pacchetto di servizi. La frase del generale Dalla Chiesa oggi ha più valore di quando l’ha pronunciata, ed è fondamentale per capire che cosa sono le organizzazioni criminali, che spesso si sostituiscono all’inefficienza della burocrazia dello Stato, grazie ai contatti con i comuni, ai loro uomini nei municipi, tra i vigili urbani. Questa loro tecnica l’hanno portata anche nell’Est Europa, diventando il passepartout anche per le imprese sane, come è avvenuto in Macedonia, in Ungheria, in Albania.
Di cosa hanno bisogno i giovani delle tue terre, delle terre di camorra, mafia, ’ndrangheta?
Due cose: la prima, che sento molto mia, di non essere costretti ad emigrare. L’emigrazione deve essere una scelta, una possibilità per specializzarsi, per migliorarsi, non una necessità, una costrizione. Spesso in queste terre restano quelli che non hanno avuto le qualità per emigrare. O quelli che lo pensano di se stessi. Non deve più essere così. Dal Sud ogni anno emigra la quasi totalità di laureati. La seconda, di poter vivere in una realtà in cui il proprio talento sia spendibile, basta ascoltare qualsiasi ragazzo, che sia chimico o carpentiere, che lavori a Londra o ad Oxford o a Ferrara, che è stato scelto perché bravo, che ha avuto l’occasione di poter mostrare quello che vale. Nel Sud, invece, il talento non basta, deve sempre esserci la protezione, la mediazione, bisogna accontentarsi e poi implorare, il lavoro diventa un privilegio che ti è stato dato, e in cambio devi tacere e accettare quello che ti viene detto. Il lavoro deve essere un diritto e non un privilegio e se quel giovane decide di rimanere al Sud non deve sentirsi uno sconfitto, un fallito.
Hai mai pensato di andare via, di andare all’estero? Sì. L’ho pensato tantissime volte. Non l’ho fatto finora perché mi sembrava un tradimento. Diceva Paolo Borsellino: “Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio. O si fanno la guerra o si mettono d’accordo”.

Repubblica 18.4.10
Il mio dovere è difendere la libertà di parola
di Roberto Saviano

Ho letto la lettera del presidente della Mondadori Marina Berlusconi e colgo occasione per precisare alcune questioni. Il capo del governo Berlusconi non ha espresso parole di critica. Critica significa entrare nel merito di una valutazione, di un dato, di una riflessione. Nelle sue parole c´era una condanna non ad una analisi o a un dato ma allo stesso atto di scrivere sulla mafia.
Il rischio di quelle parole, ribadisco, è che ci sia un generico e preoccupante tentativo di far passare l´idea che chiunque scriva di mafia fiancheggi la mafia. Come se si dicesse che i libri di oncologia diffondono il cancro. Facendo così si avvantaggia solo la morte.
Non capisco a cosa si riferisce quando la presidente Berlusconi dice: «Sappiamo tutti quanto abbia pesato e pesi l´omertà nella lotta alla criminalità organizzata… ma certo una pubblicistica a senso unico non è il sostegno più efficace per l´immagine del nostro Paese». In Gomorra sono raccontate anche le storie di coloro che hanno resistito alle mafie, un intero capitolo dedicato a Don Peppe Diana, c´è il racconto di una Italia che resiste e contrasta l´impero della criminalità. Quale sarebbe il senso unico? Ho anche più volte detto e scritto, che l´azione antimafia del governo c´è stata ed è stata importante, ricordando però al contempo che siamo ben lontani dall´annientare le organizzazioni, siamo solo all´inizio poiché le strutture economiche e politiche dei clan che continuano ad essere intatte.
Ecco perché alla luce di quanto scrivo ho trovato le parole del capo del governo finalizzate a intimidire chiunque scriva di mafie e di capitali mafiosi. Ho io stesso visto e conosciuto la libertà della casa editrice Mondadori. Ci mancherebbe che uno scrittore non fosse libero nella sua professione. Una libertà esiste però solo se viene difesa, raccolta, costruita nell´agire quotidiano da tutti coloro che lavorano e vivono in una azienda. Ed è infatti proprio a questi che mi sono rivolto ed è da loro che mi aspetto come ho già scritto una presa di posizione in merito alla possibilità di continuare a scrivere liberamente nonostante queste dichiarazioni. Non può che stupire però che un editore non critichi ma bensì attacchi lo stesso prodotto che manda sul mercato, e lo attacchi su un terreno così sensibile e decisivo come quello della cultura della lotta alla criminalità organizzata. Sono molte le persone in Italia che per il loro impegno nel raccontare pagano un prezzo altissimo non è possibile liquidarle considerando la loro azione "promotrice" del potere mafioso. Una dichiarazione del genere annienta ogni capacità di resistenza e coraggio. E questo da intellettuale non è possibile ignorarlo e da cittadino non posso ascrivere una dichiarazione del genere alla dialettica democratica. È solo una dichiarazione pericolosa che andrebbe immediatamente rettificata.
©2010 Roberto Saviano/Agenzia Santachiara

il Fatto 18.4.10
CURRENT, speciale sull’autore di Gomorra

Su Current, dal 21 Aprile in prima serata, ci sarà lo speciale “Saviano racconta Saviano”. Ecco le parole da cui lo scrittore parte per svelare se stesso, chi è diventato e chi vorrebbe tornare ad essere: “Voglio una vita, ecco. Voglio una casa. Voglio innamorarmi, bere una birra in pubblico, andare in libreria e scegliermi un libro leggendo la quarta di copertina. Voglio passeggiare, prendere il sole, camminare sotto la pioggia, incontrare senza paura e senza spaventarla mia madre. Voglio avere intorno i miei amici e poter ridere e non dover parlare di me. Sono un oggetto che viene trasportato. Ma sono libero. Perché la vera libertà è quella che hai nella tua testa”.

il Fatto 18.4.10
Scuola, tagli al futuro
Ogni anno il governo, ci redarguisce sul fatto che in Italia il numero di alunni per docente è più basso che nella media europea. Questa litania omette (con dolo) alcuni dati
di Marina Boscaino

Mentre a San Benedetto del Tronto, Pantaleo, segretario nazionale della Cgil scuola-ricerca-università che celebrava il II congresso, auspicava per uscire dalla crisi di “investire sulla conoscenza almeno il 2% del Pil, stabilizzando iprecari, aprendo a un piano di reclutamento pluriennale”; mentre a Roma, come in molte città italiane, il Coordinamento delle scuole superiori e i precari organizzavano la manifestazione che sabato ha sfilato per le vie del centro, facendo registrare numerosissime e significative adesioni, e raggiungendo al termine quella di Emergency; mentre i quotidiani cominciano a registrare massicciamente (e a comunicare tardivamente) lo stato di sofferenza profonda in cui si dibattono le scuole, gli imperterriti strateghi della “semplificazione” e della “razionalizzazione” (leggi tagli diffusi e falcidia di posti di lavoro e di conoscenza) emanavano la circolare sugli organici della scuola per il settembre 2010. Confermate le più tristi previsioni, peraltro agevoli da fare, considerando che è tutto scritto nella Finanziaria 2008 di Tremonti. Scuola primaria: 8711 posti in meno; secondaria di I grado, 3661; superiore: 13746; personale Ata: 15000. Non una cabala, ma 41118 persone a spasso. Donne e uomini. Con figli e senza. Con progetti, investimenti, dignità da tutelare, tutti. E non è finita.
La riduzione di 140.000 posti entro l'anno scolastico 2011-12 riguarda i docenti di tutte le discipline, tranne i 15.000 di ruolo e i 10.000 "precari" di IRC (Religione Cattolica). L'anomalia è tanto più grave, poiché riguarda personale pagato dallo Stato, ma subordinato – in termini di operato e di contenuti – alla gerarchia cattolica, che lo abilita, inserisce e rimuove, secondo le norme del diritto canonico. Il privilegio dell’intoccabilità implica che l’insegnamento confessionale partecipi in percentuale maggiore di prima al monte ore generale, che ha subito tagli per tutte le altre materie; alla faccia della laicità della scuola pubblica. Ogni anno il governo, con la complicità di media disinformati, ci redarguisce sul fatto che in Italia il numero di alunni per docente è più basso che nella media europea. Questa litania generalmente prelude a politiche di contrazione degli organici e anche in questo caso ha tentato di giustificare la mattanza, ma omette volontariamente alcuni dati. Innanzitutto il fatto che molti Paesi di area UE non prevedono parametri nella definizione del rapporto docente/alunni, mentre da noi – praticamente in ogni Finanziaria – si aumenta la quota di alunni per classe, disattendendo una serie di norme, a cominciare da quelle sulla sicurezza di aule stracolme. La variabile degli insegnanti di religione cattolica – che esistono anche in altri Paesi, ma che non sono a carico delle spese per l’istruzione, alla stregua degli altri e non beneficiano, come da noi, di trattamenti vantaggiosi – non viene citata. Ad influire sul rapporto numerico alunni-docente c’è poi la peculiarità del sostegno; il nostro Paese gode di una legge sull’integrazione della diversabilità all’avanguardia in Europadove spesso ancora esistono le scuole speciali. Invece che essere considerata acquisizione di civiltà, la norma viene ridotta ad arma per dimostrare l’eccesso di insegnanti in Italia. Per fortuna il 22 febbraio la Consulta ha valutato incostituzionali (le violazioni sono "in contrasto con i valori di solidarietà collettiva nei confronti dei disabili gravi", ne impediscono "il pieno sviluppo, la loro effettiva partecipazione alla vita politica, economica e sociale del Paese" e introducono "un regime discriminatorio illogico e irrazionale che non tiene conto del diverso grado di disabilità di tali persone, incidendo così sul nucleo minimo dei loro diritti") i tagli sui posti di sostegno intervenuti negli ultimi due anni. La Corte ha poi indirizzato Stato ed enti locali ad investire maggiori risorse, perché gli alunni disabili possano avere identiche opportunità formative rispetto agli altri, rimuovendo gli ostacoli che si oppongono al diritto all'apprendimento di qualità garantito ad ogni individuo.
La domanda che una parte del mondo della scuola continua – inascoltata – a rivolgere a una parte del mondo della politica e delle amministrazioni locali è: cosa aspettate? Cosa aspettate, davanti a questi tagli, davanti a queste circostanze, davanti allo scempio della scuola della Repubblica, di cui siete parte istituzionale, a fare davvero qualcosa ?

sabato 17 aprile 2010

VENDOLA: «Non è facile affrontare un tema come quello della pedofilia ad esempio, cioè del diritto dei bambini ad avere una loro sessualità, ad avere rapporti tra loro, o con gli adulti - tema ancora più scabroso - e trattarne con chi la sessualità l' ha vista sempre in funzione della famiglia e dalla procreazione».
Repubblica — 19 marzo 1985 pagina 4

IL GAY DELLA FGCI

di STEFANO MALATESTA



ROMA - Nichi Vendola ha 26 anni, è pugliese. Qualche giorno fa è stato eletto membro della segreteria nazionale della Fgci, la Federazione giovanile comunista. Ha un viso gradevole. In testa calza un berretto blu con visiera, da studente svedese. Intorno al collo è annodata una sciarpa di lana bianca. Porta al lobo sinistro un orecchino d' oro. Nichi Vendola è un gay, il primo attivista omosessuale entrato a far parte della dirigenza comunista. Dice senza asprezza polemica: "Sono sicuro che parlerai dell' orecchino d' oro. Ho già dato un' intervista in cui raccontavo un po' di cose, fatti personali e politici. Dopo ho avuto dei timori, credevo che ci fossero reazioni a Roma, nel partito. Invece i compagni sono stati benevoli. Mi hanno però avvertito: stai attento a non farti ingabbiare nel clichè, il gay alle Botteghe Oscure, eccetera. Prima c' erano i funzionari infagottati nei doppipetti grigi tagliati male, con le cravatte stonate in raso. Adesso l' omosessuale con l' orecchino. Al congresso giovanile avevo un magnifico, luminescente papillon sopra una camicia a righe. Dì, vuoi che ti stringa la mano sotto il tavolo?". Rispondo che il passaggio sotto le forche del commento becero è obbligato: cosa si vuole aspettare, finezze anglosassoni? L' umorismo in Italia, e anche altrove, è spesso di genere caserma, dovrebbe esserci abituato. Però mica posso far finta di essere venuto per le sue preclare virtù politiche di cui tutta l' Italia parla. Sono venuto perchè Vendola è il primo dirigente comunista gay dichiarato. Nel 1948 il Pci non ha espulso Pier Paolo Pasolini per indegnità morale? "Sono passati esattamente 37 anni. Sai cosa ho detto al congresso giovanile? Per noi comunisti non si tratta di difendere la grande dignità e i valori dell' omosessualità, ma di acquisire la diversità come elemento di ricchezza per chi vuole ancora trasformare il mondo. E' stato il passo più applaudito nel mio intervento". Mi ricordo di un altro intervento, più volte citato, fatto da Enrico Berlinguer quando era segretario della Fgci, su Maria Goretti: la additava ad esempio per le future generazioni dei comunisti. "Era il dopoguerra. I comunisti venivano descritti come bestie. L' accusa di essere intellettual-frocio-comunista, senza molta distinzione tra i termini, ugualmente vituperati, è stata merce corrente fino a non troppo tempo fa. Da parte del Pci si tentava di difendersi, di proporre dei modelli di moralità sotto quell' alluvione di vituperi. Il difetto stava nel prendere in prestito i modelli dalla cultura cattolico borghese". Ma c' era anche molta grettezza moralistica e bacchettona all' interno del partito. Chi conviveva con una ragazza veniva convocato e avvertito con l' usuale frase: "Compagno, è ora che regoli la tua posizione". E Togliatti ebbe dei problemi quando iniziò la sua relazione con Nilde Jotti. Secchia non scherzava. "Lo stesso Secchia, una volta caduto in disgrazia, fu accusato, non tanto larvatamente, di essere un finocchio, accusa infamante e degradante. Ma erano tempi diversi, il partito continuava a vivere in stato di allarme, non ci si potevano concedere lassismi personali con il nemico o con la sindrome del nemico alle porte. Però Pasolini, tra il ' 60 e il ' 70, già poteva scrivere liberamente anche di omosessualità su "Vie Nuove"". Pasolini era uno scrittore celebre, un poeta, "un' artista". Anche Visconti non venne mai attaccato: Togliatti ne ha fatto sempre grandi elogi. Ma era un' eccezione. L' aristocratico decadente se lo poteva permettere, proprio perchè aristocratico e decadente. L' operaio in fabbrica no. Diciamo la verità: i compagni lo avrebbero preso a calci nel sedere. "Su Visconti posso essere d' accordo. Ma lui non faceva professione di omosessualità, come non la fa Zeffirelli. In questo senso non sono "scandalosi". Invece Pasolini era provocatorio, almeno per quegli anni e il fatto che scrivesse su "Vie Nuove" è significativo. Però è vero che l' omosessuale in fabbrica, tra i compagni, non aveva vita allegra. Mio padre, comunista da sempre, un uomo magnifico, dolce, andava a fare le spedizioni per picchiare "i froci". Una volta mi ha detto: se ti ammazzassi, noi tutti potremmo riacquistare una dignità. Mi ha molto amato, ma per lui, come per tanti altri, gli omosessuali erano solo i turpi individui che adescavano i bambini nei giardinetti. Ma di queste cose non ne voglio più parlare". Non ho l' intenzione di continuare ad insistere su certi ritardi e manchevolezze del Pci. Ma qui, come in altre occasione, l' azione dei radicali mi sembra sia stata decisiva. Gli altri hanno seguito, anche con riluttanza: tutto questo non gli interessava, soprattutto non faceva parte della loro cultura. "I radicali hanno avuto dei meriti, creando movimenti, flussi, attraverso un' ottica garantista. Ma con qualche casella o piccolo spazio in più di libertà non cambi le regole del gioco, che sono rimaste quasi le stesse. Il "Fuori" voleva creare la cittadella gay, dove gli omosessuali si potessero sentir protetti. I comunisti sono sempre stati contro l' ideologia del ghetto: in ritardo, magari, però decisi a risolvere le questioni, non solo a presentarle, che è molto più facile. D' altronde basta andarsi a rileggere le centinaia di lettere che arrivavamo all' "Unità" e a "Rinascita"" durante gli anni 70: un dibattito libero". Mi dicono però che alti dirigenti del partito non siano stati particolarmente soddisfatti dell' elezione di un omosessuale nella segreteria della Fgci: Chiaromonte ad esempio. "Francamente nel Pci non ho mai avuto problemi, come li ho avuti in famiglia. Credo che oggi comunista significhi anche rispetto dell' altro, essere condannati ad una contaminazione attraverso il rapporto umano: un rischio che bisogna accettare. Lo sguardo inquietante di un altro uomo può farti crollare il tuo castello di certezze, ma è inutile e stupido fuggire. Sono i liberali che hanno sguardi paralleli, che non s' incrociano mai: l' idea del rapporto come due monologhi. Questa è mummificazione dell' esistente. Libertà comunista è dinamismo, è contaminazione, con le nostre coscienze e i nostri corpi, è buttarsi nella mischia. Io l' ho fatto, sono diventato coscientemente omosessuale, per poi recuperare l' eterosessualità, per poi trovar la sessualità, senza aggettivi. Vorrei che ci capissimo, non sto parlando di membri e di apparati genitali, altrimenti torniamo alla caserma". Io credo di capire, ma non so quanti siano in grado di farlo nel Pci, non parlo della Fgci... "Giovanni Berlinguer è uno che capisce: aperto, vivace. Anche Natta ci aiuta. Abbiamo avuto un dibattito con lui molto libero. Ripete sempre che bisogna andare fino in fondo, che bisogna parlare, confessarci di più - non dal prete con la cotta - togliersi di dosso tutti i residui di intolleranza. Gli altri non so, sono arrivato da pochi giorni a Roma. Certo l' età conta, ognuno forma la propria cultura in un momento storico preciso. Non è facile affrontare un tema come quello della pedofilia ad esempio, cioè del diritto dei bambini ad avere una loro sessualità, ad avere rapporti tra loro, o con gli adulti - tema ancora più scabroso - e trattarne con chi la sessualità l' ha vista sempre in funzione della famiglia e dalla procreazione. Le donne, da questo punto di vista, sono notevolmente più sensibili. Ma il Pci non è un organismo matriarcale".

Repubblica 16.4.10
Il congresso si svolge a bordo di una nave, da Savona a Palma di Maiorca
E ora la psicanalisi se ne va in crociera
di Luciana Sica

Umberto Galimberti: "Sembra un viaggio in quella terra confusa che oggi è la psicoterapia, in balìa dell´instabilità di cui il mare è una bella metafora"

Il nostro mare affettivo: la psicoterapia come viaggio»: titolo brillante per un congresso. Tanto più se si tiene in crociera. E parlare degli itinerari dell´anima e nel frattempo andare per mare sarà anche vista come un´idea mediatica, ma non sembra neppure così malvagia. Perché l´impressione è un´altra, se diversi terapeuti escono da cenacoli ristretti, e si mostrano per quello che sono: "veri" e variamente attrezzati ad affrontare il dolore, senza disdegnare la dimensione del piacere. È su una nave - da oggi a martedì prossimo - che la Federazione italiana delle associazioni di psicoterapia ha scelto di tenere il quarto appuntamento congressuale. Salpa da Savona, per attraccare a Barcellona, Palma di Maiorca, Ajaccio: alla fine le adesioni sono state circa 400 (familiari compresi).
L´idea è venuta alla presidente della Federazione, Patrizia Moselli, che difende la metafora legata al mare, assai più del possibile effetto di risonanza che neppure la fa inorridire: «Il viaggio rappresenta il "percorso" della psicoterapia, un´avventura interiore dalle rotte imprevedibili, l´apertura di nuovi orizzonti mentali». Nessun sopracciglio sollevato, nessun timore di facili battute? No, dice la Moselli: «La nostra è un´associazione di associazioni, con una visione non unica ma unitaria della psicoterapia. Tutti hanno trovato interessante creare uno spazio vitale per un confronto aperto tra modelli teorici e clinici diversi. E poi, perché dovremmo infastidirci, se si parla di noi?».
È vero che qui non si tratta di psicoanalisti più o meno "classici", anzi per la maggior parte dei loro diretti concorrenti: post-cognitivisti, o anche terapeuti della famiglia e della bioenergetica, comunque rappresentanti di approcci ben riconoscibili (cognitivo, corporeo, integrato, analitico-dinamico, sistemico, umanistico). In più si è sempre coltivato il sospetto che anche tra queste scuole ci sia una certa competizione - visto che il mercato della psiche non è poi un´astrazione. Ora invece si ritrovano a navigare nelle acque del Mediterraneo.
Umberto Galimberti, outsider del congresso anche se ospite di gran fama, ha un suo punto di vista di segno comunque problematico: «La crociera a me sembra un viaggio in quella terra confusa che è oggi la psicoterapia, in balia dell´instabilità di cui il mare è una bella metafora. Approderà su qualche terra sicura? Penso di no perché, come già ci avvertiva Eraclito: "Per quanto tu cammini e percorra ogni strada, non raggiungerai mai i confini dell´anima, tanto è profondo il suo logos"».
Domattina Galimberti terrà una relazione su «Il viaggio della psicoanalisi-psicoterapia: dalle origini romantiche all´età della tecnica», estranea all´intonazione delle solite litanie: «Nello scenario contemporaneo, dominato dall´efficienza e dalla funzionalità, l´anima - che si alimenta anche di ciò che razionale non è - soffre. E allora: o il ricorso agli psicofarmaci, o il cammino più arduo della conoscenza di sé che avviene anche attraverso una rivisitazione delle proprie idee. Senza un loro vaglio critico, non è consentito comprendere il mondo in cui viviamo e i suoi rapidi cambiamenti... Ad esempio, non è il caso di pensare che oltre all´"inconscio pulsionale" di cui ci ha parlato Freud si sia formato un "inconscio tecnologico", che a nostra insaputa ci governa e di cui le varie scuole di psicoterapia ancora non si occupano?».
Cinque giorni di interventi, workshop, lectures, sessioni parallele. Con un finale a sorpresa: una video intervista con Zygmunt Bauman (a cura di Rodolfo De Bernart), legata al dibattito conclusivo sul tema del narcisismo nell´era post-moderna della liquidità dov´è proprio la dimensione dell´intimità - il "reciproco coinvolgimento" - a rischiare il naufragio.

l’Unità 17.4.10
Vendola star tra i delegati «Parlare alla società civile per preparare l’alternativa»
Nichi Vendola, al congresso dell’Arci «gioca in casa», torna tra gente che conosce. La sinistra dice «si deve aprire alla società civile» e trovare un’alternativa che «parli alla pancia del paese» Fischi per la ministra Meloni
di M. GE.

«Compagno Bersani, così non ce la facciamo, i partiti hanno esaurito la loro funzione, dobbiamo aprirci alla società civile, siamo come quel contadino che vuole un gran raccolto anche se non lo merita e finge di non vedere che il terreno è deserto». Promemoria per un «lavoro possibile da fare insieme», lo chiama Nichi Vendola, che al congresso Arci gioca in casa («l'Arci è stato uno dei luoghi della mia formazione») e approfitta per dire qui, applauditissimo, la «sua» nel momento di burrasca. Titolo: «Rifondazione della politica, necessaria vista l'inadeguatezza di quello che c'è». Sinistra e Libertà, come il Pd. Dice «noi», Nichi, intende «sinistra».
PARTITA DI POKER
Ma va giù duro con il «compagno Bersani», che della platea Arci è stato ospite giovedì. «Berlusconi parla alla pancia del paese, la tua alternativa no», gli dice a brutto muso.
Che alle porte ci possano essere nuove elezioni, lo convince poco. Quella è una «partita di poker» tutta nel centrodestra. E indica solo che «è ripresa convorticosità l'infinita transizione della politica italiana».
La sinistra per ora resta “un rebus”. Perciò «dalla crisi del centrodestra, per ora, esce solo un paese spostato verso la parte più reazionaria e xenofoba», la sua lettura. Mentre «con Bersani una parte del centrosinistra si ostina a non capire la portata di una sconfitta non solo elettorale ma culturale».
E d’altra parte: «Non sconfiggeremo il berlusconismo cercando un antiberlusconi che non c'è e se ci fosse gli assomiglierebbe terribilmente».
I sondaggi sul suo nome? «Di solito in quelli perdo, mi devo preoccupare?». La soluzione, per ora, è di di lungo periodo. «Seminare» la sinistra, dice Nichi. Che è “grande passione e non la critica alla destra perché non mantiene quello che promette”. E “nessuna genuflessione”, davanti alla Chiesa o ai poteri fori.
APPLAUSI
La platea apprezza e si spella le mani. Qualcuno storce la bocca: «Per ora è retorica». Ma spera che non lo resti a lungo. «Tirare fuori le unghie», suggerisce don Luigi Ciotti. Quale sia il nemico da combattere l’ha ricordato il messaggio ai partecipanti della ministra Giorgia Meloni. Fischiato sonoramente dalla platea.
Dice che la situazione in Italia è più «rosea» di come la vede l'Arci. Che il «disastro» potrebbe persino essere «provvidenziale». E spiega la sua ricetta è tutta a base di sarte, falegnami, calzolai, tradizione. Quanto alla «formazione». Privilegiare l'uguaglianza formativa, spiega, è stato un errore.

l’Unità 17.4.10
L’esecutivo di Berlusconi invia messaggio di solidarità a Ratzinger sullo scandalo pedofilia
L’Avvenire paragona le notizie sui preti accusati al piano nazista di Goebbels contro la Chiesa
Il governo difende il Papa: abusi, campagna diffamatoria
Messaggi di auguri a Benedetto XVI per il suo compleanno. Il governo italiano ne approfitta per esprimere solidarietà a Ratzinger per la «campagna diffamatoria» sul caso pedofilia. Oggi il Papa a Malta.
di Roberto Monteforte

«Papa Benedetto XVI è sofferente per gli scandali di pedofilia nella Chiesa, ma tuttavia è sereno». Lo riferisce alla vigilia della visita papale a Malta il nunzio apostolico, monsignor monsignor Tommaso
Caputo che oggi pomeriggio accoglierà il pontefice a La Valletta. Proprio il tema degli abusi sessuali peserà su questa visita nell’isola mediterranea nel 1950 ̊ anniversario del naufragio dell’apostolo Paolo. Quella della pedofilia è una macchia che la Chiesa di Malta ha già iniziato ad affrontare seguendo le indicazioni fornite dal pontefice nella sua lettera ai cattolici d’Irlanda.
IL COMPLEANNO
Ieri per Papa Benedetto XVI è stata una giornata particolare: ha compiuto 83 anni e da tutto il mondo gli sono arrivati attestati di stima e solidarietà. Sobrio il Quirinale che ha espresso «profonda considerazione per il suo alto magistero», fuori misura quello del Consiglio dei Ministri che non si è limitato al semplice augurio di buon compleanno. Con un irrituale comunicato ufficiale diffuso al termine della riunione il Governo ha voluto «confermare la solidarietà» al Pontefice per «la inqualificabile campagna diffamatoria contro la Chiesa e il Papa». Berlusconi cerca di cavalcare l’onda della solidarietà al pontefice. Più sfumati e riguardosi i messaggi delle altre istituzioni. Il presidente della Camera, Gianfranco Fini sottolinea l’«altissima missione spirituale» del pontefice e la sua «instancabile opera di testimonianza della fede» che «sono fonte di ispirazione e di impegno per tutti ad operare per la promozione della pace e della giustizia». La «semplicità dei comportamenti» e l’invito ad «essere sempre disponibili verso i bisognosi» conclude Fini «costituisce una sicura difesa a tutela dei diritti inviolabili dell`uomo, essendo per tutti laici e credenti un saldo riferimento».
Il presidente del Senato, Renato Schifani sottolinea «l’alto e coraggioso magistero di Benedetto XVI, la sua testimonianza lungimirante che guarda con serenità al passato e non ha paura del futuro». Anche l’Udc,con il segretario Cesa associa gli auguri per il compleanno del pontefice alla «solidarietà per l’indegna campagna di denigrazione in atto».
LA POLEMICA
Chi interviene a gamba tesa sullo scandalo dei preti pedofili è l’Avvenire. Per rispondere alle bordate polemiche di chi chiama in causa le responsabilità della Chiesa e dello stesso pontefice spara ad alzo zero pubblicando un articolo del sociologo Massimo Introvigne che mette in relazione gli attacchi di oggi con la campagna orchestrata negli anni ’30 dal ministro della propaganda nazista Goebbels che agitò lo scandalo dei «preti pedofili» per «screditare la Chiesa cattolica». Ieri come oggi, per l’Avvenire. La strategia sarebbe quella di partire da «eventi reali», ma «sistematicamente distorti» ed ampliati ad arte per creare «un panico morale'». Per Introvigne il tentativo di «squalificare la Chiesa cattolica su scala internazionale tramite le accuse di immoralità e pedofilia ai sacerdoti non riuscirà».
L’OSSERVATORE ROMANO
«I fatti gli danno ragione» scrive sull’Osservatore Romano Lucetta Scaraffia. «Oggi il Papa si trova in un momento di forza» aggiunge nel suo editoriale dedicato al compleanno del pontefice. Perché denunce e polemiche confermano la severità, il rigore e l’ intransigenza di Ratzinger nell’affrontare questi temi. «La tempesta farà pulizia nei ranghi della Chiesa, spezzerà connivenze» e permetterà soprattutto a Benedetto XVI è la sua previsione di proseguire libero da un pesante fardello di colpe e silenzi per quella strada che ha indicato fin dal primo giorno del suo pontificato».

l’Unità 17.4.10
Conversazione con Lawrence Grech
«Vittime dei frati nell’orfanotrofio. Ora vogliamo giustizia»
Dieci ex ospiti dell’istituto San Giuseppe da adulti hanno trovato la forza di denunciare «Aspettiamo di essere ricevuti dal Papa»
di Charlot Zhara

Lawrence Grech è segnato da anni di dolore per gli abusi subiti nell'orfanotrofio di San Giuseppe a Santa Venera. Cominciarono negli anni 80, ma li denunciò solo nel luglio 2003, da adulto.
Ci spiega che decise di fare denuncia quando un addetto dell’istituto trovò uno dei frati della Società Missionaria di San Paolo, Charles Pulis, a letto con uno degli orfanelli. «Quando sono tornato a Malta dall’Australia racconta Grech io e mia moglie siamo andati come volontari nell’Istituto di San Giuseppe, perché ci aveva invitato pro-
prio quel sacerdote che mi abusò, Padre Pulis». Eppure, quando il frate e il ragazzino furono sorpresi in una situazione inequivoca, nessuno degli altri impiegati voleva credere all’evidenza: «Quel ragazzo mente, non abbiamo mai visto cose simili da Padre Pulis».
Anche dai frati la stessa reazione. Quando Grech raccontò degli antichi abusi reagirono increduli: «Mi hanno detto che era impossibile, che non mi credevano, che proprio io che ero così amico di quel frate...». Allora Grech decise di parlare con gli altri orfani di San Giuseppe, e si creò un gruppo di cinque persone intenzionato a chiedere giustizia.
Prima, era il settembre del 2003, parlarono del loro caso alla Curia maltese. Fu aperta un’indagine, ma non ci fu nessuna conclusione: «La Curia ha solo raccolto informazioni su ogni caso specifico lamentato Grech ha sentito individualmente ognuno di noi. Poi non abbiamo avuto alcuna notizia». A parte quella del trasferimento in Perù di un frate. Sanzione minima, adottata solo quando quel caso era ormai diventato pubblico.
A questo punto Grech e il suo gruppo denunciarono il caso alla polizia. «Ci ha interrogati tutti, ma anche qui le indagini non sono proseguite. Tanto che da un certo momento in poi gli investigatori hanno cominciato a rifiutarsi di parlare con noi. Per questo ho deciso di avvicinare un conduttore televisivo». Dopo quel servizio in tv e la pubblicazione di diversi articoli, altri quattro ex-orfani di San Giuseppe si sono fatti avanti denunciando abusi.
I quattro frati denunciati dalle dieci vittime di San Giuseppe sono padre Charles Pulis, padre Victor Scerri (ancora ricercato dalla polizia canadese di Ontario per molestie sessuali a bambini avvenute in Canada negli anni ‘80), frate Joseph Bonnett e padre Conrad Sciberras. Quest’ultimo non ha aspettato neanche la formalizzazione del processo, ed è fuggito in Italia. La polizia maltese non ha cercato di rintracciarlo, accusa Grech: «Non hanno contattato le autorità italiane per chiederne l’estradizione».
I processi vanno avanti con difficoltà ormai da sette anni. Nemmeno per il primo dei casi la sentenza sembra vicina: «Ormai ho perso la speranza di vederlo concluso dice esasperato Grech ecco perché ho deciso di parlare di nuovo con la stampa».
Dopo l’incontro di martedì scorso con l’arcivescovo di Malta e Gozo, Paul Cremona, Grech e le dieci vittime degli abusi sessuali dei preti maltesi, ora aspettano di essere ricevuti dal Papa durante la sua visita nell’isola.

L'Osservatore Romano 17.4.10
Su strade diverse da quelle del mondo
La libertà del Papa
di Lucetta Scaraffia

Adifferenza di quanto si legge su molti giornali che, nell'imminenza del quinto anniversario di pontificato di Benedetto XVI, lo raffigurano come debole e attaccato da ogni parte, oppure come un anziano teologo che non sa comprendere il mondo di oggi, a differenza di chi ne chiede, con scritte sui muri o sui manifesti, delle impensabili dimissioni, sono convinta che per Papa Ratzinger questa ricorrenza coincida con un momento di forza. Perché le denunce e le polemiche danno ragione alla severità da lui sempre manifestata nei confronti dei preti colpevoli di abusi sessuali su minori, al suo atteggiamento intransigente nei confronti dei mali che affliggono la Chiesa e che egli stesso ha denunciato, prima di diventare successore di Pietro, con chiare e pubbliche parole.
Questo momento di crisi, infatti, segna l'indubbia sconfitta di chi ha sempre sostenuto che il silenzio serviva a proteggere l'istituzione, di chi pensava che accettare il male fosse inevitabile in una realtà di deboli esseri umani, di chi ha preferito far finta di non vedere e non sapere. La tempesta farà pulizia nei ranghi della Chiesa, spezzerà connivenze e aiuterà il Papa a costruire quella comunità di "angeli" che si augurava qualche giorno fa, sapendo certo che si tratta di una speranza umanamente impossibile da realizzare, ma ben consapevole che bisogna proporsi un modello alto a cui aspirare per potere andare avanti e migliorare. La bufera permetterà soprattutto a Benedetto XVI di proseguire libero da un pesante fardello di colpe e silenzi per quella strada che ha indicato fin dal primo giorno del suo pontificato: una strada difficile e in salita verso un miglioramento continuo, del clero e dei fedeli.
Nel suo apostolato il Papa chiede sempre di più e sembra spostare sempre più in alto l'asticella, senza accontentarsi di contare la folla dei fedeli che lo applaudono in piazza San Pietro o di constatare la ripresa delle sue parole da parte degli organi di informazione. Anzi, sembra che di ciò non si curi - e forse è anche per questo che i media si irritano - mentre è chiaro che gli importa soprattutto di guidare la Chiesa in avanti, verso una purificazione spirituale continua. È esclusivamente su tale piano che si muovono le sue parole e le sue spiegazioni dei testi sacri, è solo a questo livello che diventa eloquente il suo sguardo dolce, profondo e sempre attento.
In sostanza, a Benedetto XVI interessa solo fare bene il Papa, cioè la guida spirituale dei cattolici. Ed è questo che disturba tanto il mondo e i potenti padroni dell'informazione e della politica: il fatto che così evidentemente li consideri irrilevanti davanti all'esigenza di meditare e spiegare le parole di Gesù. "Non ci risponde, non parla di noi" continuano a protestare, e intanto non sanno ascoltare quello che dice, non sanno capire che nelle sue parole c'è sempre una risposta a quello che accade, ma spostata su un piano più alto. In una società dove vince sempre la volgarizzazione, la spiegazione più facile e quindi anche più grossolana, il Papa si propone come una frattura, una diversità per molti insostenibile.
La sua forza si rivela in questa capacità di seguire altri tempi, di muoversi su strade diverse da quelle del mondo. Per farlo bisogna essere veramente forti, bisogna saper vedere con molta chiarezza quello che accade, bisogna soprattutto saper reggere la solitudine. Benedetto XVI ne ha la capacità intellettuale e la forza spirituale e psicologica. Solo così può farci luce, può tracciare il cammino a una Chiesa purificata e libera, come sta facendo e farà. Si legge che oggi ci sono fedeli i quali, delusi dopo gli scandali degli abusi sessuali, lasciano la Chiesa. Questo, al contrario, è proprio il momento di entrare, di scommettere sul fatto evidente che Gesù non abbandona la sua sposa e che i mali non prevarranno. Grazie anche al nostro Papa Benedetto.

Repubblica “17.4.10
Il premier mi vuole zittire ma sui clan non tacerò mai"
di Roberto Saviano

"Assurdo preferire il silenzio il premier si scusi con le vittime"
Lo scrittore: non so se Mondadori è ancora adatta a me
"Sono accuse che sento da anni. Per gli Schiavone anzi sarei io il vero camorrista"
"Destra e sinistra non c´entrano. Io continuerò a parlare anche agli elettori del Pdl"

Presidente Silvio Berlusconi, le scrivo dopo che in una conferenza stampa tenuta da lei a Palazzo Chigi sono stato accusato, anzi il mio libro è stato accusato di essere responsabile di "supporto promozionale alle cosche". Non sono accuse nuove. Mi vengono rivolte da anni: si fermi un momento a pensare a cosa le sue parole significano. A quanti cronisti, operatori sociali, a quanti avvocati, giudici, magistrati, a quanti narratori, registi, ma anche a quanti cittadini che da anni, in certe parti d´Italia, trovano la forza di raccontare, di esporsi, di opporsi, pensi a quanti hanno rischiato e stanno tutt´ora rischiando, eppure vengono accusati di essere fiancheggiatori delle organizzazioni criminali per il solo volerne parlare. Perché per lei è meglio non dire.
è meglio la narrativa del silenzio. Del visto e taciuto. Del lasciar fare alle polizie ai tribunali come se le mafie fossero cosa loro. Affari loro. E le mafie vogliono esattamente che i loro affari siano cosa loro, Cosa nostra appunto è un´espressione ancor prima di divenire il nome di un´organizzazione.
Io credo che solo e unicamente la verità serva a dare dignità a un Paese. Il potere mafioso è determinato da chi racconta il crimine o da chi commette il crimine?
Il ruolo della ‘ndrangheta, della camorra, di Cosa nostra è determinato dal suo volume d´affari - cento miliardi di euro all´anno di profitto - un volume d´affari che supera di gran lunga le più granitiche aziende italiane. Questo può non esser detto? Lei stesso ha presentato un dato che parla del sequestro alle mafie per un valore pari a dieci miliardi di euro. Questo significa che sono gli scrittori ad inventare? Ad esagerare? A commettere crimine con la loro parola? Perché? Michele Greco il boss di Cosa Nostra morto in carcere al processo contro di lui si difese dicendo che "era tutta colpa de Il Padrino" se in Sicilia venivano istruiti processi contro la mafia. Nicola Schiavone, il padre dei boss Francesco Schiavone e Walter Schiavone, dinanzi alle telecamere ha ribadito che la camorra era nella testa di chi scriveva di camorra, che il fenomeno era solo legato al crimine di strada e che io stesso ero il vero camorrista che scriveva di queste storie quando raccontava che la camorra era impresa, cemento, rifiuti, politica.
Per i clan che in questi anni si sono visti raccontare, la parola ha rappresentato sempre un affronto perché rendeva di tutti informazioni e comportamenti che volevano restassero di pochi. Perché quando la parola rende cittadinanza universale a quelli che prima erano considerati argomenti particolari, lontani, per pochi, è in quell´istante che sta chiamando un intervento di tutti, un impegno di molti, una decisione che non riguarda più solo addetti ai lavori e cronisti di nera. Le ricordo le parole di Paolo Borsellino in ricordo di Giovanni Falcone pronunciate poco prima che lui stesso fosse ammazzato. «La lotta alla mafia è il primo problema da risolvere … non deve essere soltanto una distaccata opera di repressione ma un movimento culturale e morale che coinvolga tutti e specialmente le giovani generazioni le spinga a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale della indifferenza della contiguità e quindi della complicità. Ricordo la felicità di Falcone quando in un breve periodo di entusiasmo mi disse: la gente fa il tifo per noi. E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l´appoggio morale dà al lavoro dei giudici, significava soprattutto che il nostro lavoro stava anche smuovendo le coscienze».
Il silenzio è ciò che vogliono. Vogliono che tutto si riduca a un problema tra guardie e ladri. Ma non è così. E´ mostrando, facendo vedere, che si ha la possibilità di avere un contrasto. Lo stesso Piano Caserta che il suo governo ha attuato è partito perché è stata accesa la luce sull´organizzazione dei casalesi prima nota solo agli addetti ai lavori e a chi subiva i suoi ricatti.
Eppure la sua non è un´accusa nuova. Anche molte personalità del centrosinistra campano, quando uscì il libro, dissero che avevo diffamato il rinascimento napoletano, che mi ero fatto pubblicità, che la mia era semplicemente un´insana voglia di apparire. Quando c´è un incendio si lascia fuggire chi ha appiccato le fiamme e si dà la colpa a chi ha dato l´allarme? Guardando a chi ha pagato con la vita la lotta per la verità, trovo assurdo e sconfortante pensare che il silenzio sia l´unica strada raccomandabile. Eppure, Presidente, avrebbe potuto dire molte cose per dimostrare l´impegno antimafia degli italiani. Avrebbe potuto raccontare che l´Italia è il paese con la migliore legislazione antimafia del mondo. Avrebbe potuto ricordare di come noi italiani offriamo il know-how dell´antimafia a mezzo mondo. Le organizzazioni criminali in questa fase di crisi generalizzata si stanno infiltrando nei sistemi finanziari ed economici dell´occidente e oggi gli esperti italiani vengono chiamati a dare informazioni per aiutare i governi a combattere le organizzazioni criminali di ogni genealogia. E´ drammatico - e ne siamo consapevoli in molti - essere etichettati mafiosi ogni volta che un italiano supera i confini della sua terra. Certo che lo è. Ma non è con il silenzio che mostriamo di essere diversi e migliori.
Diffondendo il valore della responsabilità, del coraggio del dire, del valore della denuncia, della forza dell´accusa, possiamo cambiare le cose.
Accusare chi racconta il potere della criminalità organizzata di fare cattiva pubblicità al paese non è un modo per migliorare l´immagine italiana quanto piuttosto per isolare chi lo fa. Raccontare è il modo per innescare il cambiamento. Questa è l´unica strada per dimostrare che siamo il paese di Giovanni Falcone, di Don Peppe Diana, e non il paese di Totò Riina e di Schiavone Sandokan. Credo che nella battaglia antimafia non ci sia una destra o una sinistra con cui stare. Credo semplicemente che ci sia un movimento culturale e morale al quale aspirare. Io continuerò a parlare a tutti, qualunque sarà il credo politico, anche e soprattutto ai suoi elettori, Presidente: molti di loro, credo, saranno rimasti sbigottiti ed indignati dalle sue parole. Chiedo ai suoi elettori, chiedo agli elettori del Pdl di aiutarla a smentire le sue parole. E´ l´unico modo per ridare la giusta direzione alla lotta alla mafia. Chiederei di porgere le sue scuse non a me - che ormai ci sono abituato - ma ai parenti delle vittime di tutti coloro che sono caduti raccontando. Io sono un autore che ha pubblicato i suoi libri per Mondadori e Einaudi, entrambe case editrici di proprietà della sua famiglia. Ho sempre pensato che la storia partita da molto lontano della Mondadori fosse pienamente in linea per accettare un tipo di narrazione come la mia, pensavo che avesse gli strumenti per convalidare anche posizioni forti, correnti di pensiero diverse. Dopo le sue parole non so se sarà più così. E non so se lo sarà per tutti gli autori che si sono occupati di mafie esponendo loro stessi e che Mondadori e Einaudi in questi anni hanno pubblicato. La cosa che farò sarà incontrare le persone nella casa editrice che in questi anni hanno lavorato con me, donne e uomini che hanno creduto nelle mie parole e sono riuscite a far arrivare le mie storie al grande pubblico. Persone che hanno spesso dovuto difendersi dall´accusa di essere editor, uffici stampa, dirigenti, "comprati". E che invece fino ad ora hanno svolto un grande lavoro. E´ da loro che voglio risposte.
Una cosa è certa: io, come molti altri, continueremo a raccontare. Userò la parola come un modo per condividere, per aggiustare il mondo, per capire. Sono nato, caro Presidente, in una terra meravigliosa e purtroppo devastata, la cui bellezza però continua a darmi forza per sognare la possibilità di una Italia diversa. Una Italia che può cambiare solo se il sud può cambiare. Lo giuro Presidente, anche a nome degli italiani che considerano i propri morti tutti coloro che sono caduti combattendo le organizzazioni criminali, che non ci sarà giorno in cui taceremo. Questo lo prometto. A voce alta.
©2010 Roberto Saviano / Agenzia Santachiara