martedì 20 aprile 2010

l’Unità 20.4.10
Esce finalmente anche in Italia, «Agorà» il film dedicato all’astronoma e filosofa greca, uccisa da fanatici cristiani nel 391 dopo Cristo. Lo porta in sala Mikado che parla di «stizza e silenzio» da parte della Chiesa
Il regista: «Ho trattato un periodo del cristianesimo mai portato al cinema»
La Commissione «Dalla Cei ci è arrivata solo qualche espressione stizzita»
Alejandro Amenábar: Il Vaticano ha nascosto la mia «Ipazia» con una coltre di silenzio
«Dopo duemila anni il fanatismo religioso continua ad uccidere»
di Gabriella Gallozzi

Stizza e silenzio. Questa la reazione della Commissione della Cei, preposta alla valutazione dei film da destinare alle sale del circuito cattolico, di fronte ad Agorà, la pellicola di Alejandro Amenábar sulla vita di Ipazia, filosofa greca uccisa dagli integralisti cattolici nel 391 dopo Cristo.
Evidentemente alla Commissione di prelati non deve proprio essere andato giù vedere quell’orda di fanatici cristiani assalire e distruggere la storica Biblioteca di Alessandria d’Egitto, simbolo universale della cultura, alla stregua dei talebani che distruggono Buddha secolari ed ogni iconona del sapere. Per non parlare poi del vescovo Cirillo, riconosciuto tra i padri fondatori della chiesa, descritto come uno spietato carnefice che usa la religione per controllare il potere politico e mandare a morte Ipazia, simbolo di tolleranza e fede nella conoscenza. Anche se è storia, è troppo scomoda per la Chiesa quella che racconta Agorà.
Tanto che l’uscita del film, così in ritardo rispetto alla sua presentazione allo scorso Cannes, è stata anticipata da infinite polemiche.
POLEMICHE E PRESSIONI
Con tanto di petizione in rete per sollecitarne una distribuzione in Italia. Alla fine è stata Mikado a scegliere di potarlo in sala (esce il 23 in 200 copie), come sottolinea la nuova ad Sonia Raule, sfidando eventuali pressioni vaticane: «non ci siamo posti questo problema», spiega. Ma anzi, al contrario, «abbiamo tentato di aprire un dialogo con l’ambiente cattolico», dice stavolta Andrea Cirla, responsabile marketing della Mikado. Per questo hanno anticipato la proiezione per la Commissione della Cei già alcuni mesi fa. «Da parte loro, però prosegue Cirla ci è arrivata solo qualche espressione stizzita di dissenso. E poi una voluta coltre di silenzio sui loro organi di stampa. Secondo noi un atteggiamento studiato».
Consapevole delle polemiche che avrebbe suscitato il film si dice lo stesso regista: «Quello che abbiamo raccontato spiega l’autore di Mare dentro è un periodo del cristianesimo mai portato al cinema. Ma il film non vuol essere offessivo nei confronti dei cristiani, piuttosto un forte atto di denuncia contro l’intolleranza. Volevo far vedere che la storia di allora non è così diversa dal nostro presente: certo, il cristiano di oggi non uccide, ma altre forme di estremismo sì». Pensate a proposito, prosegue Amenábar, «che Agorà è stato vietato ad Alessandria d’Egitto per timore che potesse scatenare violenze da parte dei musulmani nei confronti della minoranza cristiana. Come vedete la storia si ripete».
DONNE E INTOLLERANZA
Così come la violenza nei confronti delle donne. «I primi obiettivi dell’intolleranza prosegue il regista sono le donne e la scienza. In questo senso la storia di Ipazia ha una forte componente femminista, poiché tiene in sè le due cose: lei è l’unica scienziata, l’unica astronoma tra tanti uomini. Anzi i suoi allievi sono degli uomini e questo è intollerabile per il potere. Forse se fosse stata un uomo non l’avrebbero neanche uccisa». Invece la sua fine è stata atroce: scarnificata viva. Ma Amenábar ha scelto un finale più «soft»: la lapidazione. «Sempre per ricollegarmi all’attualità conclude perché purtroppo questo accade ancora oggi a molte donne, in molte parti del mondo».

Repubblica 20.4.10
Agorà
Amenábar: "Il martirio di Ipazia è un´accusa contro l´intolleranza"
Dalla Mikado: "Lo abbiamo mostrato ad alcuni prelati La reazione è stata il silenzio"
Mi affascinava l´idea di rappresentare la scienza attraverso una donna dalla mentalità aperta e tollerante Oggi mi sento un ateo
di Maria Pia Fusco

ROMA. Uscito sei mesi fa in Spagna, Agora, il film di Alejandro Amenábar sulla filosofa Ipazia (l´attrice Rachel Weisz), vissuta ad Alessandria alla fine del 300 dopo Cristo, sarà nelle sale italiane venerdì con oltre 200 copie. Ipazia fu uccisa con orribile crudeltà dai parabolani, fanatici cristiani che dopo aver distrutto la Biblioteca Alessandrina infierirono contro pagani ed ebrei, per ordine del vescovo Cirillo, oggi onorato come santo e padre della Chiesa. È la ragione per cui quando il film fu presentato a Cannes, l´anno scorso, si diffuse il timore di pressioni da parte del Vaticano per impedirne l´uscita, tanto che su Facebook intellettuali e filosofi aprirono una campagna di sensibilizzazione. Dice oggi Andrea Cirla, responsabile marketing della Mikado che distribuisce Agora, «quando lo abbiamo comprato, prima del doppiaggio, lo abbiamo mostrato a una commissione di giornalisti e prelati del Vaticano, c´è stata una reazione stizzita, poi è scesa una coltre di silenzio. Pensiamo che sia un silenzio studiato».
Amenábar, ha pensato alle reazioni del Vaticano mentre realizzava il film?
«Temevo qualche polemica, perché il film evoca un momento del cristianesimo mai raccontato sullo schermo. Ma non vuole offendere la Chiesa, è contro l´intolleranza e il fanatismo, da qualunque parte provenga. Purtroppo oggi come allora l´intolleranza continua ad uccidere. Non mi aspettavo che ad Alessandria ci fosse il divieto sul film per paura che le minoranze cristiane subiscano aggressioni dalla maggioranza islamica».
Com´è nata l´idea di raccontare Ipazia?
«Il film è nato per caso. Dopo una storia intima come Mare dentro volevo fare qualcosa sul tema dell´astronomia, che mi appassiona da sempre. Durante le ricerche tra tanti grandi come Galileo, Newton o Keplero ho scoperto un solo nome femminile, Ipazia. Un personaggio ideale e non solo per la componente femminista. Mi affascinava l´idea di rappresentare la scienza attraverso una donna che, in un´epoca di intolleranza, voleva diffondere la conoscenza con una mentalità aperta e tollerante. Alle sue lezioni c´erano giovani di ogni religione, anche cristiani».
Che tipo di donna era Ipazia?
«Le cronache dell´epoca raccontano che non si sposò e non ebbe figli e dedicò tutta la sua vita alla filosofia e alla scienza. Ho discusso del personaggio con Rachel Weisz, l´interprete di Ipazia, le ho spiegato che non volevo nessuna implicazione sessuale o amorosa con i suoi studenti perché l´ipotesi più attendibile è che sia morta vergine. Purtroppo non è rimasto nulla dei suoi studi e dei suoi scritti, per cui ho potuto permettermi qualche libertà da questo punto di vista. Ma è un peccato che non sia rimasto niente. Secondo me se non avessero distrutto la Biblioteca alessandrina oggi l´uomo sarebbe arrivato su Marte».
Nel film lei attenua la crudeltà dell´uccisione di Ipazia, ma nei titoli di coda ricorda che il vescovo Cirillo è diventato santo. Perché?
«Secondo le cronache Ipazia fu letteralmente fatta a pezzi, volevo una fine più sopportabile per il pubblico, ho scelto la lapidazione, che fa anche parte della realtà di oggi in alcuni paesi. Quanto a Cirillo è importante per il contesto storico. Di lui sapevo che era un santo, mi ha sconvolto la scoperta di tutto il male che ha fatto mentre era vescovo. Nel film racconto solo il 30 per cento della sua crudeltà. Penso che alla santità sia più vicina Ipazia di lui. Ipazia che, come Cristo, è stata uccisa perché amava il prossimo e parlava con tutti».
Lei è cattolico?
«Ho studiato in un collegio cattolico, conosco la cultura cattolica. Con The others sono passato all´agnosticismo, ora ho capito di essere ateo. Non significa che non creda in qualche entità superiore ma, da ateo, preferisco chiamarla natura».

Repubblica 20.4.10
Ma la religione non è storia di violenza
di Vito Mancuso

Il cristianesimo non è riducibile agli assassini di Ipazia e al loro violento fanatismo
I cristiani non erano la massa di fondamentalisti semianalfabeti come nel film

È inevitabile affermare che l´omicidio di Ipazia rimarrà sempre una macchia indelebile sul cristianesimo e la sua storia. Ma il cristianesimo non è riducibile agli assassini di Ipazia e al loro violento fanatismo. L´assassinio di Ipazia si affianca a quelli già riconosciuti come tali da Giovanni Paolo II (in particolare il caso Galileo, la tratta degli schiavi, i crimini dell´Inquisizione) e a quelli non ancora riconosciuti pubblicamente, tra cui lo sterminio dei catari, l´assassinio di Ian Hus (6 luglio 1415) e di Giordano Bruno (17 febbraio 1600), esempi eclatanti di una generale persecuzione violenta dei dissidenti bollati come eretici o scismatici.
È infatti importante notare che il più delle volte i crimini di cui si è macchiato il cristianesimo sono avvenuti per motivi dottrinali. Ne viene che la formulazione della dottrina cattolica, quella ancora oggi depositata nel Catechismo firmato da Giovanni Paolo II nel 1992 e da Benedetto XVI nel 2005 in forma compendiata, non sarebbe tale senza quella violenza. Per una religione che fa della sacralità della vita umana da tutelare fino al livello embrionale un principio "non negoziabile", non è certo un problema da poco. Per risolverlo è necessario non solo chiedere pubblicamente perdono a Dio e agli uomini dei crimini commessi, ma anche rivedere profondamente il metodo dell´elaborazione dottrinale, ancora oggi basato sulla repressione del dissenso e della criticità all´interno della teologia.
Sul secondo aspetto spero che nessuno possa pensare che il cristianesimo si riduca a san Cirillo d´Alessandria e ai suoi parabolani. Anzitutto perché lo stesso fondatore del cristianesimo è parte di quella schiera di scomodi testimoni della verità che, come Ipazia, vennero tolti di mezzo dai potenti di turno e dai fanatici al loro servizio. Poi perché già la vicenda di Ipazia presenta un modo di essere cristiano di ben altro livello rispetto a Cirillo e ai parabolani, vale a dire Sinesio di Cirene. A suo riguardo però non posso fare a meno di criticare il film di Amenábar. Non si tratta tanto del fatto che il vero Sinesio, a differenza del protagonista del film dai bei capelli fluenti, fosse calvo (come si viene a sapere dallo scritto di Sinesio intitolato Encomio della calvizie). Immagino che il regista abbia avuto precise esigenze di immagine che l´hanno indotto a far crescere i capelli a Sinesio. Non si tratta neppure del fatto che il vero Sinesio, prima di essere vescovo e benché fosse vescovo, era sposato e padre di tre figli: anche qui le medesime esigenze di comunicazione hanno portato a semplificare questa interessante dimensione biografica, che pure sarebbe stato molto utile far conoscere allo spettatore. La mia critica non si rivolge neppure al fatto che Sinesio non poteva essere ad Alessandria al tempo dell´uccisione di Ipazia, perché questa avvenne nel 415 mentre Sinesio era morto due anni prima, nel 413.
La mia critica si rivolge piuttosto a come Amenábar utilizza tali inesattezze e anacronismi (dico anacronismi al plurale perché anche l´accusa di stregoneria a Ipazia lo è: la persecuzione per stregoneria da parte della Chiesa fu molto posteriore e raggiunse il suo acme 10 secoli dopo). Mi riferisco, invece, alla scena che segue il rifiuto da parte del prefetto Oreste di inginocchiarsi davanti a Cirillo che regge una Bibbia. Da quanto ci è dato conoscere leggendo le 156 lettere dell´epistolario, il vero Sinesio non avrebbe mai compiuto un gesto del genere. Era uno spirito tollerante, talora dubbioso, sempre filosofico, mai dogmatico. Lo si vede bene in una lettera indirizzata al fratello nel 410 in cui scrive: «Non mi stancherò mai di ripetere che il saggio non deve forzare le opinioni degli altri, né lasciarsi forzare nelle proprie».
Il vero Sinesio è uno che non vuole "forzare le opinioni degli altri", e quindi la scena che lo ritrae mentre fa inginocchiare Oreste costituisce una forzatura, una distorsione bell´e buona. Mi chiedo a quale scopo. Forse il regista vuole far intendere che tutti i credenti contengono in se stessi un´inevitabile violenta intolleranza? A prescindere dall´intenzione di Amenábar, la tesi secondo cui nel cuore della religione sia radicata la violenza è falsa. È la stessa storia del cristianesimo ad Alessandria ad attestarlo, una storia ben lungi dall´essere ridotta a quella massa di fondamentalisti semianalfabeti quali nel film vengono presentati i cristiani. Ben prima di Cirillo, Alessandria era stata la patria di una celebre scuola teologica di alta cultura e di raffinata spiritualità, rappresentante di quel cristianesimo pacifico, amico della ragione, della scienza e della filosofia, che lungo la storia annovera nomi come Scoto Eriugena, Pico della Mirandola, Erasmo da Rotterdam, Antonio Rosmini, Teilhard de Chardin e moltissimi altri, tra cui ai nostri giorni, Carlo Maria Martini e Gianfranco Ravasi.
Forse sbaglio a sostenere che il film voglia dare l´impressione che le religioni sono foriere di intolleranza e violenza, mentre solo la scienza e la filosofia aprono alla tolleranza e alla pace. Si tratta, lo ripeto, di una tesi falsa, ampiamente smentita dalla storia del 900. Sarebbero molti gli esempi al riguardo, qui mi limito a una figura che si potrebbe definire un´Ipazia del XX secolo. Mi riferisco a Pavel Florenskij, matematico e scienziato russo, e insieme filosofo, storico dell´arte, teologo e sacerdote ortodosso, il quale, dopo anni di prigionia nei gulag staliniani, venne ucciso l´8 dicembre 1937 per le sole idee che professava. Ipazia, filosofa e matematica, ad Alessandria nel 415; Florenskij, teologo e matematico, a Leningrado nel 1937: la prima uccisa dall´intolleranza dogmatica della religione, il secondo ucciso dall´intolleranza dogmatica dell´antireligione. C´è qualche sostanziale differenza? Norberto Bobbio disse che «la vera differenza non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa». Se il film di Amenábar avesse lasciato intravedere anche questa sottile dialettica, sarebbe stato più vero.

il Fatto 20.4.10
Il documento anti-pedofilia:
Autentico o riveduto e corretto?
Lettera a padre Lombardi sul regolamento del vaticano
È urgente una risposta cristallina
«Le chiedo se il testo reso noto nei giorni scorsi esistesse già nel 2003, parola per parola, virgola per virgola»
di Paolo Flores d’Arcais

Caro Padre Lombardi
nell’aprile del 2001, quando ricopriva la carica di direttore della Radio Vaticana, lei ebbe la bontà di collaborare alla rivista MicroMega, accettando un dialogo su un tema spinoso e affrontandolo con chiarezza. Sono certo che con il passare degli anni tanto la sua bontà che la sua chiarezza si siano solo accresciute, parallelamente all’accrescersi delle sue funzioni, che lo hanno portato ad essere oggi responsabile della Sala Stampa vaticana, cioè di tutta la comunicazione che riguarda il Sommo Pontefice e le Congregazioni della Chiesa. Per questo le chiedo oggi di avere la bontà di rispondere con chiarezza a una serie di aggrovigliati interrogativi che non riesco a sbrogliare e che riguardano la conferenza stampa nella quale ha dato conto delle cosiddette “linee guida” a cui vescovi e sacerdoti devono attenersi in tutto il mondo nelle circostanze, purtroppo non infrequenti, di casi di pedofilia ecclesiastica.
Quasi tutti i giornali e i siti internet hanno riportato questo incipit-sintesi della sua conferenza stampa: “Obbligo di denuncia dei preti pedofili all’autorità civile e, nei casi più gravi, un intervento diretto del Papa per ridurre i colpevoli allo stato laicale, senza processo e senza possibilità di revoca”. Perchè il giorno dopo, quando è tornato sull’argomento, non ha smentito quell’incipit-sintesi, dovuto all’agenzia Ansa, accreditandola invece con il suo silenzio? Nessun “obbligo di denuncia” è infatti mai stato imposto dal Vaticano. Al contrario. E con ciò arriviamo alla seconda domanda. Chi è l’autore delle “linee guida” che sono improvvisamente comparse on line sul sito del Vaticano il 10 aprile? “Si tratta di linee guida risalenti al 2003, e che quindi – spiega sempre il Vaticano – sono attribuibili all’allora capo della Congregazione, Joseph Ratzinger”. Questa affermazione è un infortunio di agenzia, o davvero è stato lei a pronunciarla?
“Linee guida” senza data e senza firma
In tal caso infatti il groviglio si infittisce, poiché le “linee guida” sono un testo in inglese senza data, senza firma, senza protocollo, tutti elementi che non mancano mai nei documenti vaticani, tra i più formali che le cancellerie del mondo conoscano. La lingua ufficiale del Vaticano è il latino, usato perfino nella corrispondenza tra prelati, vedi la famosa lettera del card. Ratzinger al vescovo di Oakland, che il New York Times ha scoperto e pubblicato come prova di un atteggiamento omissivo. Che cosa significa, dunque, che le “linee guida” risalgono al 2003 e sono attribuibili al card. Ratzinger? In buon italiano vuol dire che il testo – esattamente quel testo – è stato redatto sette anni fa, e che l’estensore materiale è il card. Ratzinger o almeno il suo staff sotto il suo controllo. Può confermarmi con chiarezza inequivocabile che le cose sono andate così? Perché da altre sue parole non sembrerebbe. Tutti i giornali hanno infatti riportato, con la solita unanimità verbatim, che “sempre la Sala Stampa ha riferito che, nel 2003, la Congregazione per la Dottrina della Fede si era data una sorta di regolamento interno mai finora pubblicato e che ora, nella sua sintesi divulgativa, è stato reso noto per la prima volta sul sito della Santa Sede”. Qui gli enigmi sono due. Nel 2003 la Congregazione si è data un “regolamento interno”, cioè una interpretazione operativa della sua istruzione del 2001 intorno ai Delicta graviora, oppure no? “Una sorta di” è espressione davvero incongrua, soprattutto nel mondo di certosina precisione delle procedure canoniche. Si intendono disposizioni date oralmente dal cardinal Prefetto? O di diverse interpretazioni date per iscritto caso per caso? O di una interpretazione in progress, che attraverso disposizioni orali o scritte è andata evolvendo?
Sono state fatte interpolazioni?
Secondo enigma. Le “linee guida” sono una “sintesi divulgativa”, e passi. Ma è stata scritta allora, nel 2003, o è stata scritta oggi? O in parte allora, ma con qualche interpolazione di oggi? Differenze non di poco conto. Perchè il modo in cui lei ha presentato le “linee guida” “attribuibili all’allora cardinal Ratzinger” inducono il lettore a immaginare che questa “sintesi divulgativa” sia stata scritta allora, sia perciò un documento storico. Ma se andiamo a guardare con attenzione alla sintassi, viene il dubbio che, in modo alquanto contorto, la Sala Stampa, cioè lei, ci lasci aperta la porta per l’interpretazione opposta. “Mai finora pubblicato” si riferirebbe insomma solo alla “sorta di regolamento interno”, che ora verrebbe “reso noto per la prima volta” non già in quanto tale (perché informale, e dunque non esistente nella forma di un testo scritto) ma “nella sua sintesi divulgativa”, dove l’azione divulgativa è quella della stessa Sala Stampa. Può su questo, caro Padre Lombardi, avere la bontà di darmi una risposta cristallina, ispirata a quell’evangelico “il tuo dire sia sì sì, no no, perché il di più viene dal demonio” (Matteo 5 che un ateo come me sommamente apprezza? Le perentorie dichiarazioni del cardinal Castrillon Hoyos, secondo cui Papa Wojtyla aveva approvato la lettera inviata a Mons. Pican, vescovo di Bayeux-Lisieux, di felicitazone e piena solidarietà per il suo rifiuto di denunciare alla giustizia francese un prete pedofilo (omessa denuncia che gli era costata tre mesi con la condizionale) rendono una sua riposta cristallina assolutamente necessaria e urgente. Se davvero la linea della Chiesa era già allora di uniformarsi ai codici penali nazionali, il Papa Giovanni Paolo II sarebbe stato il primo a violarla! Il che suona una “contradictio in adiecto”. E dunque (mai come in questo caso repetita iuvant): non le chiedo di sapere se la sostanza del documento (in inglese, anonimo e senza data, pubblicato sul sito del Vaticano come “Guide to Understanding Basic CDF Procedures concerning Sexual Abuse Allegations”) coincide con la presunta “sorta di regolamento interno”. Le chiedo se il testo messo on line nei giorni scorsi esisteva già parola per parola e virgola per virgola o è stato scritto/modificato/interpolato nei giorni scorsi. La necessità di una risposta “sì sì, no no” riguarda soprattutto la frase chiave: “Va sempre dato seguito alle disposizioni della legge civile per quanto riguarda il deferimento di crimini alle autorità preposte”, che a una sommaria analisi filologica suona eterogenea rispetto al resto del testo, tutto riferito alle procedure del diritto canonico.
La frase chiave sembra estranea
Se il testo è del 2003, non si capisce perché non sia stato datato, e soprattutto in che cosa sarebbe diverso dalla “sorta di regolamento interno”. Il fatto che invece la Sala Stampa, cioè lei, ne abbia parlato come di due realtà diverse, l’una sintesi dell’altra, fa propendere verso l’ipotesi di una rielaborazione attuale. Ma se così fosse, non averlo detto chiaramente, anche dopo che tutti i media mostravano di aver inteso il carattere storico-autentico delle “linee guida”, rasenterebbe la disinformacija. Sospetto a cui non voglio indulgere neppure per un attimo, e per dissolvere il quale le scrivo questa lettera.
Ricordandola sempre con affetto,
suo Paolo Flores d’Arcais

il Fatto 20.4.10
Le quattro domande cruciali

Le “linee guida” sono un testo che risale interamente al 2003, “attribuibile all’allora cardinal Ratzinger”, o sono state introdotte modificazioni e/o interpolazioni nei giorni precedenti la pubblicazione on line? Se l’ordine del Vaticano era di rispettare le leggi civili di ciascun paese, come mai nessun vescovo ha denunciato un prete pedofilo anche nei paesi dove tale denuncia è obbligatoria? Una rivolta di quei vescovi contro il volere del Papa? Perché Karol Wojtyla ha approvato la lettera con cui il cardinal Castrillon Hoyos si felicitava e solidarizzava con il vescovo di Bayeux-Lisieux mons. Pierre Pican che non avendo denunciato un prete pedofilo era stato condannato dalla giustizia francese a tre mesi con la condizionale? Il Papa contro il Papa? O addirittura il cardinal Ratzinger contro Giovanni Paolo II? Perché non vengono aperti gli archivi della Congregazione della dottrina della fede sui casi di pedofilia, e consegnati alle autorità giudiziarie, in modo che anche la giustizia terrena possa fare il suo corso, secondo le leggi vigenti in ciascun paese?

il Fatto 20.4.10
Ratzinger, lacrime mondiali
di Giampiero Gramaglia

L e lacrime del Papa a Malta alimentano il fervore della stampa anglosassone contro i peccati di pedofilia della Chiesa cattolica. Ma anche i giornali della cattolicissima Spagna sono schierati: El Paìs coinvolge Giovanni Paolo II nella copertura di preti e religiosi pederasti, mentre il Mundo presenta l'anniversario di pontificato di Benedetto XVI sotto il titolo “Cinque anni di crisi”. E la Cnn fa così gli auguri a Papa Ratzinger: “Un compleanno oscurato” dagli scandali e dalle polemiche. Da Malta, il Guardian scrive: “Il Papa ridotto in lacrime dopo l’incontro con vittime di abusi”. Il Daily Mail insiste: “Il Papa in lacrime dopo avere manifestato la propria vergogna”. E l'Independent virgoletta: “Mi vergogno, dice il Papa alle vittime. Benedetto XVI assicura che proteggerà i giovani”. Solo il Times di Londra e il New York Times si limitano a un titolo di cronaca senza lacrime e senza vergogna: “Papa prega con vittime di abusi”, mentre il Telegraph si permette un’irriverente notazione: “Il Papa si addormenta durante la messa”. I grandi quotidiani americani sono allineati con britannici e spagnoli: il Washington Post scrive che “il Papa promette di portare i preti che hanno commesso abusi davanti alla giustizia”, proprio come fa il Mundo (e pure Le Figaro). Diverso, ma parziale, il taglio del Nouvel Obs: “A Malta il Papa evoca l'immigrazione, non gli abusi sessuali”. Del Papa e dei suoi guai, s'interessa pure Le Monde, ma nelle pagine degli spettacoli, in un'intervista a Nanni Moretti, che racconta il suo prossimo film e s'inventa – assicura il giornale – un pontefice “senza nessun riferimento con l’attualità”.

il Fatto 20.4.10
“Le religioni unite affrontino il tema degli abusi"
La rabbina Koster, capo di una sinagoga a New York: “Anche tra gli ebrei accadono questi episodi”

di Angela Vitaliano

“Q uando ero ancora una ragazza, in Olanda, mio nonno, contro la mia volontà, mi regalò una vacanza studio in Germania. Al mio ritorno mi chiese: e allora? Io risposi: pensavo di odiare i tedeschi ma non è così, ho incontrato persone meravigliose che ora sono miei amici. Soddisfatto mio nonno mi disse: Ecco perchè dovevi andare. Non sono sopravvissuto al campo di concentramento per avere una nipote razzista”. Sorride, Chava Koster – la prima donna ordinata rabbino in Olanda e ancora oggi una delle poche a capo di una sinagoga a New York – mentre racconta di suo nonno, come se in quell’episodio ci potesse essere la risposta a tutto ciò che ci circonda. “I paragoni con l’Olocausto – dice riferendosi ad una delle tante polemiche dei giorni scorsi – sono sempre fuori luogo per la natura stessa di quella tragedia che se utilizzata inopportunamente rischia di essere sminuita nel suo stesso impatto, che fu devastante per la comunità ebraica”. Non c’è alcun risentimento, tuttavia, nel rabbino del Greenwich Village, amato dai suoi fedeli per la sua capacità di ascolto, il suo saper “fare comunità” e dare accoglienza a chi ne ha bisogno. “Non invidio papa Ratzinger, il cui compito è incredibilmente difficile ma credo che la sua opera per unificare la Chiesa dovrebbe passare attraverso la costruzione di un luogo che sia più inclusivo di quanto appaia oggi”. Rappresentante degli ebrei “liberal” (ci sono anche i conservatori e gli ortodossi, questi ultimi i più rigorosi), il rabbino Koster apre la porta della sua sinagoga a tutti, comprese le coppie gay verso le quali non esiste nessun tipo di pregiudizio. “Dire che l’omosessualità va di pari passo con la pedofilia è un errore grossolano e basato sul pregiudizio – sottolinea il rabbino – e non aiuta affatto a risolvere il problema degli abusi sui minori che non sono una piaga solo fra i cattolici. Capita a tutti di trovarsi di fronte a queste situazioni e, perciò, tutti dovremmo poterle affrontarle con chiarezza e determinazione. Mi piacerebbe, infatti, se si organizzasse una sorta di conferenza internazionale di tutte le religioni per decidere una piattaforma comune di regole etiche da seguire in questi casi”.
Il caso del rabbino di Brooklyn, condannato a 32 anni per molestie su un minore, dunque, conferma che la pedofilia non è un problema del Vaticano. “Come rabbino tuttavia – spiega Chava Koster – ho la responsabilità, in casi simili, di allontanare il soggetto dalla comunità affinché non possa nuocere ma, anche, di denunciarlo allo Stato di New York affinchè venga sottoposto ad un procedimento civile”.

Repubblica 20.4.10
Quell'Eden così noioso
E Adamo disse a Eva "Andiamo a letto"
José Saramago

Il dono tardivo della parola ad Adamo ed Eva, la vita quotidiana nel paradiso terrestre, e l’affare misterioso del peccato originale
Nel suo ultimo romanzo Saramago rivisita le storie della Genesi assumendo il punto di vista dell´uomo che è diventato il simbolo del male
Gli altri animali, al contrario degli umani muti, godevano già tutti di una voce propria
Il fiat ci fu una volta sola e mai più perché gli esseri viventi non sono macchine
Essere informati è sempre preferibile all´ignoranza specie in questioni come il bene e il male

Quando il signore, noto anche come dio, si accorse che ad adamo ed eva, perfetti in tutto ciò che presentavano alla vista, non usciva di bocca una parola né emettevano un sia pur semplice suono primario, dovette prendersela con se stesso, dato che non c´era nessun altro nel giardino dell´eden cui poter dare la responsabilità di quella mancanza gravissima, quando gli altri animali, tutti quanti prodotti, proprio come i due esseri umani, del sia-fatto divino, chi con muggiti e ruggiti, chi con grugniti, cinguettii, fischi e schiamazzi, godevano già di voce propria. In un accesso d´ira, sorprendente in chi avrebbe potuto risolvere tutto con un altro rapido fiat, corse dalla coppia e, uno dopo l´altro, senza riflessioni e senza mezze misure, gli cacciò in gola la lingua.
Dagli scritti a cui sono stati via via, nel corso dei tempi, consegnati un po´ a caso gli avvenimenti di queste epoche remote, vuoi di possibile certificazione canonica futura o frutto d´immaginazioni apocrife e irrimediabilmente eretiche, non si chiarifica il dubbio su che lingua sarà stata, se il muscolo flessibile e umido che si muove e rimuove nel cavo orale e a volte anche fuori, o la parola, detta anche idioma, di cui il signore si era deprecabilmente dimenticato e che ignoriamo quale fosse, dato che non ne è rimasta la minima traccia, neppure un semplice cuore inciso sulla corteccia di un albero con una legenda sentimentale, qualcosa sul tipo ti-amo, eva.
Siccome una cosa, teoricamente, non dovrebbe andare senza l´altra, è probabile che un secondo fine del violento spintone dato dal signore alle lingue mute dei suoi rampolli fosse di metterle in contatto con le interiorità più profonde dell´essere corporale, le cosiddette parti scomode dell´essere, perché in avvenire, ormai con qualche cognizione di causa, potessero parlare della loro oscura e labirintica confusione alla cui finestra, la bocca, già cominciavano a spuntare. Tutto può essere. Chiaramente, per uno scrupolo da buon artefice che andava unicamente a suo favore, oltre che compensare con la dovuta umiltà la precedente negligenza, il signore volle accertarsi che l´errore fosse stato corretto, e quindi domandò ad adamo, Tu, come ti chiami, e l´uomo rispose, Sono adamo, tuo primogenito, signore. Il creatore, poi, si rivolse alla donna, E tu, come ti chiami tu, Sono eva, signore, la prima dama, rispose lei superfluamente, dato che altre non ce n´erano. Il signore si ritenne soddisfatto, si congedò con un paterno Arrivederci, e riprese la sua vita. Allora, per la prima volta, adamo disse a eva, Andiamo a letto.
Set, il terzogenito della famiglia, verrà al mondo solo centotrent´anni dopo, non perché la gravidanza materna richiedesse tanto tempo per ultimare la fabbricazione di un nuovo discendente, ma perché le gonadi del padre e della madre, i testicoli e l´utero rispettivamente, avevano tardato più di un secolo a maturare e a sviluppare sufficiente potenza generativa. C´è da dire ai precipitosi che il fiat ci fu una volta e mai più, che un uomo e una donna non sono mica delle macchine automatiche, gli ormoni sono una cosa piuttosto complicata, non si producono così da un giorno all´altro, non si trovano in farmacia né al supermercato, bisogna dare tempo al tempo. Prima di set erano venuti al mondo, a breve intervallo di tempo fra l´uno e l´altro, dapprima caino e poi abele. Quello cui non si può non fare immediatamente cenno è la profonda noia che erano stati tanti anni senza vicini, senza distrazioni, senza un bambino lì a gattonare tra la cucina e il salotto, senz´altre visite al di fuori di quelle del signore, e anche queste rarissime e brevi, intervallate da lunghi periodi di assenza, dieci, quindici, venti, cinquant´anni, immaginiamo che poco ci sarà mancato che i solitari occupanti del paradiso terrestre si vedessero come dei poveri orfanelli abbandonati nella foresta dell´universo, ancorché non sarebbero stati in grado di spiegare cosa fosse questa storia di orfani e abbandoni.
È pur vero che, un giorno sì, un giorno no, e anche quel giorno no con altissima frequenza sì, adamo diceva a eva, Andiamo a letto, ma la routine coniugale, aggravata, nel loro caso, da nessuna varietà nelle posizioni per mancanza di esperienza, già allora si dimostrò altrettanto distruttiva di un´invasione di tarli lì a rodere le travature della casa. All´esterno, salvo un po´ di polverina che fuoriesce qua e là da minuscoli orifizi, l´attentato si coglie a stento, ma all´interno la processione è ben altra, non ci vorrà molto che venga giù tutto ciò che era parso tanto solido. In situazioni del genere, c´è chi sostiene che la nascita di un figlio può avere effetti rivitalizzanti, se non della libido, che è opera di chimiche assai più complesse che imparare a cambiare un pannolino, almeno dei sentimenti, il che, bisogna riconoscerlo, già non è poco. Quanto al signore e alle sue visite sporadiche, la prima fu per vedere se adamo ed eva avevano avuto problemi nell´installazione domestica, la seconda per sapere se avevano tratto qualche beneficio dall´esperienza della vita campestre e la terza per avvisare che tanto presto non si aspettava di tornare, giacché aveva da far la ronda negli altri paradisi esistenti nello spazio celeste. In effetti, sarebbe riapparso solo molto più tardi, in una data di cui non è rimasta traccia, per scacciare la sventurata coppia dal giardino dell´eden per il nefando crimine di aver mangiato del frutto dell´albero della conoscenza del bene e del male. Questo episodio, che diede origine alla prima definizione di un peccato originale fino ad allora ignorato, non è mai stato ben spiegato. In primo luogo, persino l´intelligenza più rudimentale non avrebbe alcuna difficoltà a comprendere che essere informato sarà sempre preferibile a ignorare, soprattutto in materie tanto delicate come lo sono queste del bene e del male, nelle quali chiunque si mette a rischio, senza saperlo, di una condanna eterna a un inferno che allora era ancora da inventare. In secondo luogo, grida vendetta l´imprevidenza del signore che, se realmente non voleva che mangiassero di quel suo frutto, avrebbe avuto un rimedio facile, sarebbe bastato non piantare l´albero, o andare a metterlo altrove, o circondarlo da un recinto di fildiferro spinato. E, in terzo luogo, non fu per aver disobbedito all´ordine di dio che adamo ed eva scoprirono di essere nudi. Nudi e crudi, con tutto quanto all´aria, c´erano già quando andavano a letto, e se il signore non aveva mai notato una mancanza di pudore così evidente, la colpa era della sua cecità di progenitore, proprio quella che, a quanto pare inguaribile, ci impedisce di vedere che i nostri figli sono, in fin dei conti, tanto buoni o tanto cattivi quanto gli altri.
© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano

Repubblica 20.4.10
La recensione
Lo scrittore multiforme e i suoi dubbi sul sacro
di Paolo Mauri

Quando scrisse Il Vangelo secondo Gesù Saramago affermò più o meno che quel Gesù era "suo", un prodotto della sua scrittura e della sua immaginazione. Le polemiche non mancarono. Se ci fosse stata ancora l´Inquisizione, Saramago avrebbe fatto la fine di Giordano Bruno. Si limitò a lasciare Lisbona per Lanzarote, protestando col governo portoghese. Oggi il premio Nobel torna con mano leggera, nonostante le apparenze, su un tema biblico, resuscitando addirittura Caino e con lui Adamo ed Eva e una bella porzione dell´Antico Testamento.
La tesi di Saramago è irridente: come si fa a considerare sacro e dunque autorevole al massimo grado un testo pieno di incongruenze, di errori e di comportamenti raccapriccianti? «La storia degli uomini è la storia dei loro fraintendimenti con dio, né lui capisce noi, né noi capiamo lui», scrive Saramago ed avrà modo di documentare gli strani comportamenti dell´Onnipotente, che spesso appare distratto. Perché induce Abramo a sacrificare Isacco? Perché, quando distrugge Sodoma, non salva almeno i bambini, innocenti per definizione? Anche a proposito di Caino, Saramago potrebbe dire che si tratta di una sua creazione letteraria, visto che di licenze se ne prende parecchie. Il cherubino che fa da guardiano all´Eden dopo la cacciata della celebre coppia, tresca con Eva e rivela che al mondo c´è anche altra gente. Meno male, se no sai che noia, pensa l´autore che spesso si diverte a commentare. Caino, con un marchio in fronte che lo preserverà da eventuali assassini, va in giro per la Terra Desolata, avrà la sua love story e attraverserà momenti biblici diversi (Saramago li chiama «diversi presenti»). Sarà lui a fermare la mano di Abramo, visto che l´angelo preposto a tal compito arriva tardi per un problema con le ali (sembra un´opera buffa), e sarà presente alla rovina di Giobbe, alla strage inaudita seguita all´episodio del vitello d´oro. Dio è un pazzo stravagante e sanguinario, ammalato di gelosia: questa la conclusione.
Saramago, scrittore "magico" e multiforme riesce bene in una doppia operazione: fa tornare il lettore nell´antichità della Bibbia, dando un seguito "inedito" alla storia di Caino e insieme (e qui il linguaggio è quello di un nostro contemporaneo) provoca la ragione di chi si ostina a non vedere. Nel mirino di Saramago c´è la vecchia e la nuova Israele: il suo "Caino" è letteratura, ma anche politica. Sarà incontrando Noè (e litigando con Dio) che Caino trova una soluzione molto drastica. La scoprano i lettori, come è giusto.

Repubblica 20.4.10
Gli ultimi studi puntano alla connessione con l´encefalo A essere interessate in particolare le strutture cerebrali emotive
Così la depressione altera i nostri ormoni
Le fibre nervose arrivano all´ipofisi dall´ipotalamo, ma forse anche da altre aree del cervello
di Francesco Bottaccioli
Pres. on. Società italiana di psiconeuroendocrinoimmunologia

Fino a sessant´anni fa si pensava che l´ipofisi, il "direttore dell´orchestra" ormonale, fosse solo sul podio, unico regista della produzione e della regolazione degli ormoni del nostro organismo. Poi sul finire degli anni Quaranta un fisiologo inglese, G. W. Harris, pubblicò ricerche che ipotizzavano un controllo nervoso dell´ipofisi. Lo scienziato non fu preso sul serio dall´accademia, fino a che nel 1969 venne scoperto il primo ormone rilasciato dall´ipotalamo che influenza l´ipofisi. Era il TRH. Dal 1969 al 1981 vennero scoperti tutti gli ormoni ipotalamici che stimolano o inibiscono il rilascio di ormoni ipofisari. Di recente se ne è scoperto un altro ancora: il GnIH, che inibisce l´ipofisi a produrre le gonadotropine (FSH e LH) che poi stimolano la produzione di ormoni sessuali nel maschio e nella femmina.
Fin qui i rapporti tra cervello e ipofisi sembrerebbero tutti mediati da ormoni ipotalamici. Ma ricerche ancora in corso dicono che c´è anche un controllo nervoso diretto dell´ipofisi. La ghiandola ha una parte posteriore di tessuto nervoso (neuroipofisi) da cui sono rilasciati l´ossitocina, l´ormone della socialità, e la vasopressina, l´ormone che regola i fluidi e la pressione sanguigna. Anche la porzione anteriore della ghiandola è ricca di fibre nervose e recenti ricerche dicono che gli ormoni possono ricevere comandi proprio dalla stimolazione nervosa. Certamente fibre nervose arrivano all´ipofisi dall´ipotalamo, ma è ipotizzabile che arrivino anche da altre aree del cervello. Per esempio, il principale regolatore dell´ormone ipofisario prolattina è la dopamina, che viene rilasciata da neuroni che non si trovano nell´ipotalamo ma nelle aree cerebrali soprastanti collegate alla sensazione di benessere e di felicità. Non a caso, in corso di depressione o di umore nero persistente, specialmente nelle donne, aumenta la prolattina che è all´origine di vari disturbi, tra cui quelli del ciclo mestruale, della fertilità e immunitari.
Infine, la scoperta di connessioni nervose dirette tra l´ipofisi e le strutture cerebrali emotive (ipotalamo, ippocampo, amigdala e altre aree), spiega meglio fenomeni noti da tempo, come il blocco della crescita in situazioni ostili (da inibizione dell´ormone della crescita), la perdita della libido in condizioni stressanti e la disregolazione endocrina, tiroide innanzitutto, che indurrebbero le scariche di neuropeptidi rilasciati nel "direttore d´orchestra". Insomma, l´ipofisi, come altri sistemi chiave, è in una rete di relazioni influenzabile da altri sistemi, tra cui, ovviamente, la nostra psiche.

lunedì 19 aprile 2010

l’Unità 19.4.10
Scandalo pedofili. La Chiesa non va verso la verità
di Andrea Boraschi

Lo «scandalo pedofilia» costituisce la più profonda crisi pubblica vissuta dalla Chiesa cattolica dal dopoguerra a oggi. Il dato emblematico di quanto accade sta nel nugolo
di contraddizioni (di atteggiamenti, messaggi, argomenti) addensatosi attorno alla denuncia di vicende dolorosissime e ancora, in larga misura, da indagare e capire.
Mai come in queste settimane il Vaticano mostra l’ambiguità di chi, dinanzi alla propria colpa, chiede perdono mentre urla al complotto, inclina alla resipiscenza mentre rivendica l’infallibilità dei propri orientamenti e delle proprie condotte. Così che, a fronte della turpitudine degli abusi commessi, chi mai attendesse un moto di riscatto, un’ammissione dolente e severa delle responsabilità ecclesiastiche, deve guardarsi dall’accusa di essere parte di una congiura globale. A far da sponda a tanta schizofrenia, la pastorale di molti intellettuali «laici» che difendono a spada tratta il pontefice come colui che con più coraggio avrebbe denunciato le colpe della propria Chiesa e avviato un’opera di «pulizia» al suo interno e che, assolutizzando le accuse (quasi che chieder conto dell’avvenuto equivalesse a voler mettere al bando il cattolicesimo), relativizzano oltremisura la gravità dei fatti di cui si discute.
Ma lo sdegno che si abbatte oggi su una parte del clero e delle gerarchie cattoliche non ha virulenza giacobina; esso, piuttosto, reclama laicamente ragione di crimini taciuti, rimossi, con tutta probabilità perpetrati su larga scala. Quello sdegno attende che la Santa Sede mostri chiarissima volontà di espiazione e assoluta disponibilità a sottostare alle leggi degli stati dove si sarebbero compiuti i reati. Non è poco, certo: ma è anche il minimo cui si possa ambire.
Purtroppo, invece, ci si deve confrontare con faccende che inquinano ogni confronto: il paragone tra gli attacchi subiti dalla Chiesa e le persecuzioni antisemite è l’argomento più odioso emerso sin qui e testimonia quanto le gerarchie cattoliche siano lontane da una sincera presa di coscienza del proprio errore. Infine, si dovrebbe tenere a mente quanto scrive il teologo svizzero Hans Küng: «(...) il sistema mondiale di occultamento degli abusi sessuali del clero rispondeva alle disposizioni della Congregazione romana per la Dottrina della fede (guidata tra il 1981 e il 2005 dal cardinale Ratzinger), che fin dal pontificato di Giovanni Paolo II raccoglieva, nel più rigoroso segreto, la documentazione su questi casi. In data 18 maggio 2001 Joseph Ratzinger diramò a tutti i vescovi una lettera dai toni solenni sui delitti più gravi, imponendo nel caso di abusi il “secretum pontificium”, la cui violazione è punita dalla la Chiesa con severe sanzioni».

Repubblica 19.4.10
I respingimenti e la Costituzione
di Chiara Saraceno

Il ministro Maroni si è recentemente vantato di aver posto fine agli sbarchi di barconi provenienti dalla Libia, «riducendo nei primi tre mesi del 2010 del 96 per cento il numero degli sbarchi rispetto al 2009, mentre rispetto al 2008 c´è stata una riduzione del 90 per cento». A prima vista una buona notizia, che testimonia della efficienza della politica di contrasto alla immigrazione clandestina messa in atto da questo governo. Peccato che questi dati nascondano altre, preoccupanti, verità.
La prima è che concentrarsi sul respingimento degli sbarchi come forma principe di contrasto alla immigrazione irregolare può dare molta visibilità mediatica ma di fatto riduce di molto la portata dell´azione di contrasto. Secondo dati di varia fonte, incluse le questure, la maggior parte degli immigrati che sono irregolarmente nel nostro paese non utilizza più i barconi, ma varchi di frontiera non sufficientemente controllati. Molti entrano addirittura regolarmente, con un visto turistico poi lasciato scadere. Per non parlare del fatto che le stesse norme sui permessi di soggiorno producono la loro quota di irregolari, nella misura in cui basta perdere il lavoro e rimanere in Italia anche se non se ne è trovato velocemente un altro per diventare automaticamente irregolari.
La seconda verità è che i cosiddetti respingimenti di fatto condannano gli aspiranti immigrati a tornare in un paese, la Libia, che non dà alcuna garanzia di rispetto dei diritti umani. Non è un caso che proprio per questo è stata aperta una procedura contro il nostro paese presso la Corte Europea di Strasburgo. Nessun paese, infatti, dovrebbe obbligare una persona a tornare in un paese dove la sua vita, dignità, integrità fisica sono messe in pericolo. Vale per gli uomini come per le donne, con la specificità aggiuntiva, nel caso di queste ultime, che il rischio di essere stuprate è all´ordine del giorno. Infine, se i disperati dei barconi sono una quota minoritaria degli irregolari, rappresentano invece la quota largamente maggioritaria dei rifugiati e richiedenti asilo. Secondo i dati dell´Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr), oltre il 75% delle domande di chi ha richiesto asilo o lo status di rifugiato nel 2008 è stato avanzato da persone arrivate con i barconi. La cosa non deve stupire. Chi è nelle condizioni di dover fuggire dal proprio paese di solito non ha accesso facilmente a documenti come un passaporto o un visto.
Esiste inoltre, nel nostro come in altri paesi, un pregiudizio negativo nei confronti di alcune nazionalità e provenienze. Per cui è quasi automatico che un irakeno o un afgano in fuga dal proprio paese si vedano rifiutare il visto di ingresso o vengano respinti alle frontiere cui si sono presentati legalmente. L´unico modo che hanno per poter arrivare a presentare la domanda di asilo è entrare illegalmente. Si aggiunga che, sempre secondo l´Unhcr, l´80% dei rifugiati e richiedenti asilo vive nel sud del mondo, in particolare in Africa, che quindi si fa carico in modo sproporzionato, rispetto ai paesi ricchi, dei bisogni di chi è in fuga dal proprio paese. Non sorprende che una parte di questi prima o poi cerchi di penetrare la fortezza dei paesi ricchi. La riduzione del 90% degli sbarchi ha significato anche il dimezzamento, tra il 2008 e il 2009, delle richieste di asilo. Non è una buona notizia. Segnala infatti che l´opera di respingimento ha colpito proprio i più vulnerabili, coloro che avevano qualche ragione, certo da verificare, per chiedere protezione. Ciò è in stridente contrasto con l´articolo 10 della Costituzione che definisce il diritto d´asilo in termini molto ampi, persino più ampi di quelli delle convenzioni internazionali (è sufficiente non poter esercitare nel proprio paese le libertà democratiche). In ogni caso le norme internazionali stabiliscono che una volta presentata una domanda d´asilo occorre sospendere i processi di espulsione al fine di poter espletare tutti gli accertamenti necessari. Accertamenti che ovviamente non possono essere effettuati da guardie costiere in qualche affrettato interrogatorio a persone esauste, che non sanno esprimersi nella nostra lingua e spesso non hanno documenti. Non è una questione di buonismo. E´ una questione di criteri minimi di civiltà e di osservanza, prima ancora dei trattati internazionali, della Costituzione italiana.

Repubblica 19.4.10
Varsavia. Nel ghetto di Edelman
Anticipazione. La prefazione a un libro-intervista con l’eroe della rivolta
di Gad Lerner

Un resoconto vivo, senza retorica o concessioni leggendarie dell´insurrezione, di cui oggi ricorre il sessantasettesimo anniversario
Il racconto è permeato di un sarcasmo polacco, l´esatto contrario del cinismo
Negli ultimi anni subì gli attacchi antieuropei e antisemiti di "Radio Maria"

Anticipiamo parte della prefazione di ad Arrivare prima del Signore Iddio, un libro intervista a Marek Edelmann curato da Hanna Krall (La Giuntina, pagg. 136, euro 12). Oggi, 19 aprile, ricorre il sessantasettesimo anniversario dell´inizio della rivolta nel ghetto di Varsavia.
Arrivare prima del Signore Iddio non è solo il resoconto più vivo della rivolta del ghetto di Varsavia, scaturito dalla testimonianza del vicecomandante dell´Organizzazione ebraica di combattimento (ZOB) scampato miracolosamente alla morte. È molto di più. Hanna Krall, l´autrice, si scontra pagina dopo pagina con la reticenza di Marek Edelman, il testimone. Egli teme che il suo ricordo venga snaturato, ridotto a leggenda inautentica. Ricordare per lui significa anche smitizzare, sottrarsi all´agiografia. Solo così riesce a dare un senso ai decenni successivi in cui esercitò la professione di medico cardiologo all´ospedale di Lodz: collocato di nuovo molteplici volte su quell´esile confine tra la vita e la morte che aveva visto oltrepassare da centinaia di migliaia di persone sull´Umschlagplatz mentre salivano sui vagoni stracolmi diretti a Treblinka, con l´ultima pagnotta messa loro tra le mani dai nazisti allo scopo di garantirsi un flusso di smaltimento ordinato.
Li ho visti morire tutti quanti, ripete Edelman. Poi all´improvviso si rivolta contro la Krall: cosa mi domandi? Potrei dirti dieci volte di più sui miei malati. Ci tiene a precisare che lui è rimasto al cancello dell´Umschlagplatz tutta la vita. Sì, anche dopo. Anche in ospedale: «Stavo al cancello e tiravo fuori degli individui da una folla di condannati».
Il libro è permeato di un sarcasmo polacco che è l´esatto contrario del cinismo. Grazie ad esso apprendiamo che Marek Edelman è certamente un temerario – la sua singolare caratteristica è di apparire un uomo del tutto esente dalla paura - ma non è un soldato. Lo si capisce subito, quando gli insorti s´imbattono il 19 aprile 1943 nel primo manipolo di tedeschi ignari del fatto che ci fossero degli ebrei armati. Potevano sparargli, a dire il vero andavano ammazzati: «Avremmo dovuto, ma non eravamo ancora abituati a uccidere». Che senso poteva avere, del resto, usare le poche e malandate armi pervenute nel ghetto dalla parte ariana della città? «Gli uomini hanno sempre creduto che sparare è il massimo dell´eroismo. Allora abbiamo sparato». E ancora: «Visto che l´umanità si è accordata che morire con le armi in pugno è più bello che senza, allora ci siamo sottomessi a questa convenzione». Purché sia chiaro, si preoccupa di ricordarci Edelman attraverso innumerevoli esempi, che il coraggio non fu certo una virtù esclusiva dei combattenti. La funzione di questi ultimi era limitata: bisognava morire pubblicamente, sotto gli occhi del mondo.
Non stupisce quindi la diminuzione sistematica con cui contraddice l´epopea raccontata da chi non c´era: cinquecento i membri attivi del ZOB? Macché, eravamo molti meno. Mordechaj Anielewitcz, il suo comandante, figura immacolata? Certo, ma che male c´è a ricordare che era figlio di una pescivendola e che al mercato non esitava a tingere con vernice rossa le branchie delle carpe per farle sembrare più fresche? Anche il cielo si è tinto di rosso nell´incendio del ghetto di Varsavia, cosa volete che sia un po´ di vernice scarlatta. Per sé e i suoi compagni, il nostro testimone rivendica che gli concediamo se non altro il beneficio della normalità.
Detesta la retorica dei superuomini. Ma nello stesso tempo detesta gli uomini che delegano a Dio le responsabilità che spetta loro assumere. È questo l´unico frangente in cui il dottor Edelman, chiamato a prendere decisioni temerarie di fronte a casi clinici disperati, ama esibire superbia. Lui, il Signore, non è tanto giusto. Talvolta è piacevole raggirarlo, approfittare di un Suo momento di distrazione e proteggere la fiamma che Iddio era già lì pronto a spegnere. Una bestemmia? Certo che no: i rivoltosi del ghetto di Varsavia sono interpreti dell´autonomia dell´umano senza cui neppure la Legge sarebbe in grado di fondare una morale di civiltà.
Tentare sempre di sopravvivere con dignità: pur di trasmetterci questo insegnamento Edelman non esita a criticare la scelta del suicidio messa in atto nel bunker di via Mila 18 dal comandante Anielewitcz insieme agli ultimi resistenti. Del resto avevano dissentito insieme, il 23 luglio 1942, quando a togliersi la vita era stato il presidente del Consiglio ebraico, Adam Czerniakov, non appena aveva appreso che i tedeschi avevano deciso la liquidazione del ghetto. Riconoscevano la rettitudine di Czerniakov, ma gli imputavano di non avere indicato per primo la via obbligata dell´insurrezione.
Ciò naturalmente non gli ha impedito, nel dopoguerra, fino all´ultima celebrazione dell´anniversario della rivolta cui ha partecipato nell´aprile 2009, di sostare in raccoglimento di fronte alla lapide che ricorda Szmul Zygielbojm, il rappresentante del Bund nel governo polacco in esilio che il 12 maggio 1943 si suicidò a Londra per protesta contro l´indifferenza dei governi alleati. Il cerimoniale da lui predisposto contemplava che a quel punto dell´itinerario, prima di proseguire verso l´Umschlagplatz e il bunker di via Mila 18, un coro di ragazzi intonasse piano l´inno del Bund, il "suo" partito operaio ebraico contrario al progetto di emigrazione sionista in Palestina.
Marek Edelman rimarrà fino all´ultimo dei suoi giorni, il 2 ottobre 2009, quando si spense serenamente a Varsavia nella casa dell´amica Paula Sawicka, un militante del Bund. Ovvero della nobile idea democratica secondo cui un ebreo deve poter vivere libero e alla pari con i suoi concittadini là dove nasce. Se poi volesse andare a vivere in Israele per sua libera scelta –aggiungiamo noi - lo faccia. Ma non più, mai più, come via di fuga. Come è noto questo ideale di Edelman gli procurò l´inimicizia dei sionisti e il sospetto dello Stato d´Israele. Ma per fortuna non ha potuto impedire che la sua fotografia venisse collocata quando era ancora vivo nella galleria degli eroi della rivolta del ghetto allo Yad Vashem di Gerusalemme. Il principio dell´uguaglianza e della cittadinanza ebraica in qualsiasi paese della terra è un´eredità che il Bund consegna attraverso di lui alle generazioni successive. (...)
Nel maggio del 2008, quando andai a intervistarlo nel modesto villino di Lodz insieme al mio primogenito Giuseppe, lo trovai alle undici del mattino seduto in cucina che fumava sorseggiando vodka. Gli avevo portato in dono del vino piemontese che disdegnò come bevanda per signorine. Per fortuna in aeroporto avevo comprato pure una bottiglia di whisky che lo rimise di buonumore e subito stappò, proponendoci un brindisi. Accendeva una nuova sigaretta senza filtro con il mozzicone della precedente. Niente male per un medico cardiologo affezionato alla vita (degli altri)! Da poco aveva subito gli attacchi di "Radio Maria", emittente del cattolicesimo polacco più reazionario, dopo che ne aveva denunciato la propaganda antieuropea e antisemita. Gli chiesi il perché dell´ostinazione con cui era rimasto a fare il guardiano delle tombe del suo popolo. «Perché qualcuno provi dispiacere quando lo guardo negli occhi. Voglio dispiacere a quelli che sono contenti che gli ebrei siano morti in Polonia. Hanno vergogna di guardarmi negli occhi, hanno paura di me. E questo mi fa piacere perché non hanno paura di me, ma della democrazia». Puntava uno sguardo di fuoco sull´obbiettivo della telecamera. Poi mi congedò piuttosto bruscamente.

Repubblica 19.4.10
Si riapre la discussione sui sette giovani trucidati dai fascisti
I fratelli Cervi, la storia dietro il mito
Un saggio di prossima uscita e un intervento di Sergio Luzzatto ripropongono il modo in cui il Pci costruì “l’icona rossa della Resistenza"
di Simonetta Fiori

Esiste il mito ed esiste la storia. Decostruire il mito significa restituire alla storia la sua complessità, non necessariamente rovesciare o negare i fatti storici da cui è scaturito il racconto epico. Con il titolo Italo, Alcide e il mito è uscito ieri sul Sole 24 ore un documentato articolo di Sergio Luzzatto dedicato a una "icona rossa della Resistenza", la storia dei sette fratelli Cervi uccisi il 28 dicembre del 1943 per ordine dei fascisti. Mettendo insieme due articoli di Calvino pubblicati nel dicembre del 1953, una celebre orazione del giurista fiorentino Piero Calamandrei e la strategia adottata allora da Togliatti, Luzzatto racconta meticolosamente la costruzione negli anni Cinquanta di un mito che ebbe l´effetto di "abbellire" o rendere organica al partito comunista una vicenda che organica non fu, conservando tratti di irregolarità e ribellione nascosti dal martirologio.
Prendendo spunto dalla riedizione de I miei sette figli di Alcide Cervi, una sorta di memoriale voluto da Togliatti nel 1955 (Einaudi, pagg. 100, euro 11), Luzzatto racconta come «da Italo Calvino in giù» l´intellighenzia comunista fece di tutto per celebrare come coerente «una storia certo eroica, ma parecchio complicata». Nei due o tre mesi intercorsi dall´inizio della Resistenza fino alla loro morte, «i fratelli Cervi furono tutto fuorché altrettante incarnazioni del rivoluzionario disciplinato», dandosi all´attività di sabotaggio «con una convinzione ai limiti dell´incoscienza». Non mancarono i contrasti tra loro e i dirigenti locali del Pci, «che li accusarono di comportarsi da "anarcoidi"». Furono Calvino e Calamandrei - continua Luzzatto - a trasformare i fratelli Cervi in santini, «sottacendo le difficoltà ambientali, gli inciampi militari, l´isolamento politico durante la loro breve stagione da partigiani sull´Appennino». Questo comune innamoramento per la famiglia Cervi finì per incontrarsi nel dopoguerra con il desiderio di Togliatti di contrastare la propaganda anticomunista sul cosiddetto "triangolo della morte". La mitografia dei Cervi - scrive in conclusione Luzzatto - servì anche per avversare le "caricature infamanti" ai danni del partigianato rosso. Ma al di fuori della elaborazione leggendaria - sembra di leggere tra le righe - i fratelli Cervi rimangono figure gloriose, che funsero anche da esempio per gli altri combattenti.
Consapevole dei rischi connessi ad operazioni del genere, in tempi di egemonia "neorevisionista", Luzzatto chiarisce al telefono: «In questo caso la decostruzione del mito nulla toglie alla dimensione eroica dei Cervi, che rimane tutta. I revisionisti peggiori, cui diede voce anche Bruno Vespa, arrivarono a sostenere che fu il Pci a decretarne la morte. Io racconto come è nata una leggenda edificante, la passione condivisa da Calvino e Calamandrei. Non bisogna dimenticare che in quegli stessi anni i partigiani finivano sotto processo, e dalle galere uscivano i combattenti di Salò».
È nei primi anni Novanta che dalle memorie interne al Pci reggiano affiorarono i dissapori tra i Cervi e i comunisti. «All´indomani dell´8 settembre 1943», racconta Alessandro Casellato, autore di una monografia sui fratelli Cervi che uscirà da Einaudi, «essi furono artefici di iniziative autonome guardate con diffidenza dai comunisti. Li accusarono anche di anarchismo, ma alludendo a un´intemperanza di tipo esistenziale, non a una teoria politica». La creazione del mito, concorda Casellato, fu anche un risarcimento simbolico per la famiglia, che patì il dolore della perdita e una vita di durezze. «Ma è ora la stessa famiglia a porsi delle domande nuove».
La vicenda dei fratelli Cervi non è mai stata oggetto di un´accurata indagine storica. «Non certo per le censure del Pci», interviene Giovanni De Luna, studioso attento al rapporto tra storia e memoria. «Un vizio della storiografia resistenziale è stato quello di dare spazio agli scenari e al collettivo piuttosto che alle figure in carne d´ossa». La ricostruzione storica, aggiunge lo studioso, è alternativa al mito perché ricostruisce la complessità degli eventi. «Quella di transitare un personaggio dalla dimensione mitica alla conoscenza è un´operazione necessaria. Soltanto un paese avvelenato dal revisionismo può leggerla con malizia».

Responsabilità medica 16.4.10
I medici alla Lega: «Non denunceremo mai i clandestini»

Roma - 16 aprile 2010 - "Noi confermiamo il nostro parere negativo contro ogni forma che ci metta nelle condizioni di non esercitare al meglio il nostro mandato etico, deontologico e sociale di garantire a tutte le persone che hanno bisogno di cure, indipendentemente dalla loro condizione sociale, dal loro credo e posizione politica. Non denunceremo mai. Ribadiamo la nostra contrarieta' a qualsiasi ipotesi che lede il nostro mandato etico e deontologico".
Prende una posizione ancora una volta ferma e chiara l'Ordine dei medici di Udine,in relazione alle ultime richieste avanzate dal gruppo Lega Nord in Friuli Venezia Giulia. Il Carroccio chiede alle Regione di mettere in campo del personale amministrativo negli ospedali per segnalare alle autorita' competenti gli immigrati clandestini che vanno a farsi curare.
L'Ordine dei medici di Udine, attraverso il presidente Luigi Conte, alza il tiro. "E' altamente pericoloso per la salute dei cittadini - afferma - lasciare che queste persone malate possano diventare mine vaganti in giro per le nostre citta', sfuggendo, per paura di essere denunciati, al controllo della sanita' pubblica". L'Ordine si appella ai doveri etici e deontologici per smontare le nuove richieste avanzate dal Carroccio. "Lo ripetiamo una volta di piu' - ribadisce Conte - noi non diventeremo mai ne' gendarmi ne' delatori".
“E anche se dovessimo per legge essere obbligati a denunciare e segnalare gli irregolari - asserisce Conte, che è membro del Comitato nazionale della Federazione degli Ordini dei medici - noi ricorreremmo alla clausola di coscienza prevista dal nostro Codice di deontologia, dove si dice chiaramente che nessun medico puo' fare qualcosa che sia contrario alla propria coscienza. La medicina - incalza - deve essere libera, totalmente, e indipendente da qualsiasi condizionamento proprio per garantire a tutti i cittadini le cure, senza alcuna distinzione fra ceto sociale, credo etico, religione, sia in pace sia in guerra".
Conte e' convinto che "i nostri valori sono al di sopra degli Stati e trasversali a tutti gli Stati, e cosi' deve essere". I rischi a cui si va incontro dovrebbero convincere tutti dell'insensatezza di tali proposte: "Se viene meno l'anonimato di chi si presenta, allora possiamo dire addio al ruolo specifico della nostra categoria, che e' quello di sorvegliare lo stato di salute di tutta la popolazione, perche', in questo caso, e' evidente che non si presenterebbero piu' da noi medici i clandestini ammalati".
In tal caso gli irregolari, a detta di Conte, andrebbero ad alimentare una pericolosa "sanita' clandestina parallela che provocherebbe danni notevoli agli immigrati e a tutti i cittadini". "Non si e' capito, probabilmente, che prestare assistenza medica anche agli immigrati non in regola significa fare il bene prima di tutto dei cittadini del Friuli Venezia Giulia, in una logica generale di tutela e autotutela della sanita' e della salute".

Responsabilità medica 16.4.10
Alunni stranieri. Il tetto? "Solo un’indicazione"
L’avvocatura dello Stato “depotenzia” la circolare Gelmini
«Situazione fumosa»
di Elvio Pasca

Roma – 12 aprile 2010 -Il tetto del 30% per gli alunni stranieri è solo un’indicazione. Più precisamente, la circolare del ministro Gelmini è un “documento che non ha un’efficacia normativa generale ed esterna, non può essere considerato atto regolamentare”. Quindi, non sarebbe vincolante per le scuole.
Lo dice l’avvocatura generale dello Stato, in una memoria presentata durante la causa avviata a Milano contro le indicazioni del ministro dell’Istruzione e dell’ufficio scolastico regionale per combattere il fenomeno delle classi ghetto. 
Se nella stragrande maggioranza delle scuole la circolare non ha avuto alcun impatto, ha scatenato il caos in quelle dove la quota del 30% viene normalmente superata (appena 3 su 100, secondo i dati del ministero). Che fare delle iscrizioni eccedenti il tetto? Vanno respinte? Per ora sono state accolte con riserva in attesa delle indicazioni degli uffici scolastici regionali, ai quali sono state chieste delle deroghe.
Parallelamente, sono partite due azioni giudiziarie. A Milano una coppia di mamme straniere, assistite dall’Associazione Studi giuridici sull’immigrazione e da Avvocati per niente onlus, hanno iniziato in tribunale un’azione civile antidiscriminazione, mentre a Roma l’associazione Progetto Diritti onlus ha scelto la strada del ricorso al Tar.
Venerdì’ scorso c’è stata la prima udienza del processo di Milano. Il giudice har inviato tutto all’11 maggio, ma intanto è saltato fuori il parere dell’avvocatura che depotenzia drasticamente la circolare Gelmini.
“Un parere che però non risolve affatto la questione” nota l’avvocato Alberto Guariso, che con il collega Livio Neri ha curato l’azione antidiscriminazione. “Che valore ha allora il tetto indicato dalla circolare? Bisogna chiedere o no una deroga per superarlo? Se l’ufficio scolastico regionale non la concede? Se scuole non la chiedono? Si può respingere una domanda di iscrizione?” chiede il legale.
“La situazione è ancora fumosa, ci sono tante voci e nessuna certezza. A questo punto dobbiamo aspettare l’11 maggio, quando il direttore scolastico regionale spiegherà come viene applicata la circolare in Lombardia. Noi rimaniamo dell’idea – conclude Guariso – che questo sistema viola la parità di trattamento tra alunni stranieri e italiani garantita dalla legge”.

domenica 18 aprile 2010

Repubblica 18.4.10
"Da Togliatti a Wojtyla i miei 80 anni da sopravvissuto"
Pannella e mezzo secolo di storia italiana
La mia vita è la storia del partito: io sono una persona comune e qui sta il segreto della mia durata. La morte non mi fa paura
di Filippo Ceccarelli

Non è esattamente un tipo da anniversari né da ricorrenze Marco Pannella, che il 2 maggio compie 80 anni. Così si è inventato uno strano calcolo per aggirare il suo compleanno rifilando ai festevoli amici l´inconfutabile certezza che quel giorno lui sarà entrato nell´ottantunesimo. Però poi di colpo ridacchia: «Io, povero vecchio!». E´ un esorcismo? «No, è un gusto». E si alza in piedi: gigantesco, slanciato, ingombrante, come sempre.
Stesso partito, d´altra parte. Stessa casa, dietro Fontana di Trevi: grande e buia, lo studio nella cucina dove un giorno fece mangiare Berlusconi e Letta. Giorni orsono l´hanno ingiustamente accusato di godersi un solarium abusivo: «Un che?» ruggisce divertito. Siano 80 o 81 anni, la sua vita non è mutata. Gli piace ancora di pensarla all´insegna dell´«onorevole mendicità dei chierici vaganti».
Pannella non possiede né guida l´automobile. Spende i suoi soldi solo in tabacco, taxi e partito radicale. Tra i primi, nel 1985, con Agorà, ha intuito le risorse delle nuove tecnologie, ma non sa usare il pc». E´ fermo al fax, assistito da pazienti individui che gli tengono una fittissima corrispondenza. In compenso possiede due telefonini e messaggia in modo forsennato. Poi siccome quasi mai si basta, ha anche pronto da anni un libro tutto di mail e sms: un romantico scandaloso telematico romanzo di formazione sentimentale che ha fatto a tempo a invecchiare in un cassetto. Il fatto che (ancora) non sia stato pubblicato - e gli cala un´ombra sul viso - «è una delle più grandi sconfitte della mia vita».
Va a mangiare sotto il partito, in un bar-ristorante che lui chiama «Il lucano», dove è di casa, fa il burbero e gioca con i camerieri; per pranzo ordina un bicchierone di birra e 250 grammi di spaghetti al pomodoro, una montagna, che poi divide con il commensale, una specie di cerimonia; intanto fuma il toscanello, una mezza dozzina di Marlboro e al termine vuole pure la sambuca con i chicchi di caffè galleggianti, ma in numero dispari, per scaramanzia, e siccome sono pari fa un numero pazzesco.
Se proprio occorre trovare qualche cambiamento, riguarda l´estetica e quindi ora Pannella ha il codino. Si mette di profilo, eccolo: «Mi dicono Pirata, Gentiluomo del Settecento, Capo Indiano». Va da sé che nel tempo della personalizzazione, lo «Zio Marco», come pure si è auto-battezzato, annichilisce qualsiasi concorrenza narrativa. Con il che si rende noto che uno sciamano, addirittura, gli ha amichevolmente tirato il suddetto codino; mentre Emma e Mirella, che sarebbero la Bonino e la sua compagna di vita, dissentono, perciò Marco gioiosamente teme che le due si mettano d´accordo per tagliargli nel sonno la temeraria acconciatura, come due Dalile per un unico Sansone, raddoppio biblico all´altezza del personaggio.
Quisquilie, forse. Ma fino a un certo punto, perché in nessun altro come in lui si sono fuse anzitempo, anzi profeticamente, la sfera personale e quella politica, con il risultato che Pannella è l´unico vero Sopravvissuto della Prima e della Seconda Repubblica.
«In molte cose - racconta - più che mentire ho lasciato che gli altri sbagliassero sui miei reali connotati. Mi scocciava, ad esempio, che i vecchi liberali avessero un atteggiamento di estraneità rispetto a certe pratiche che pure noi difendevamo. Per questo mi sono assunto, ci siamo assunti in toto la responsabilità presentando noi stessi come drogati, noi omosessuali, noi traditori della patria».
Racconta Pannella di aver fumato cannabis tre sole volte in vita sua. La prima insieme con il figlio problematico di alcuni suoi amici: «Fu una prova di amicizia»; la seconda durante una marcia militarista, di notte, in un camerone puzzolente: «Uscì fuori della cocaina. Fu la prima e l´unica volta che la vidi. Chiesi allora: a me fatemi uno spinello». Infine quando si fece arrestare: «Ma me l´ero acceso dalla parte del filtro».
Raro trovare un politico che i ricordi mettano di buon umore: «Anche come frocio lascio molto a desiderare». Ben oltre la categoria dell´orientamento sessuale, per Pannella è sempre stato molto importante «dare parola, volto, mano, corpo, ma letteralmente». Impossibile fermarlo, difficile anche solo presentargli l´agenda di una conversazione - e non solo perché ogni sua risposta inizia con «no» o un «no, ma». Pannella resta il più virtuoso e prodigo giocoliere della parola: sorprende, annoda, divaga, dà per scontato, «quelli lì» dice indicando in direzione del Tevere, per esempio, è da riferirsi al Vaticano. E insiste, distoglie, lascia aperte le frasi, quindi le collega e si compiace del risultato seguitando ad aprire imperscrutabili virgolette. Dietro a tutto questo ci sono cinquant´anni di storia patria, da lui vissuta per lo più in modo caotico, ma specialissimamente cristallino.
Quello scambio di lettere con Togliatti; un capodanno sulle nevi con Berlusconi e Veronica; un numero incalcolabile di arresti, di mani addosso, di sputi, di censure, di scioperi della fame; una notte a casa Agnelli per spillare quattrini per il Pr; un costume da clown, uno da babbo Natale, un altro da babbo Natale, però giallo, un mantello da fantasma; una carezza da Wojtyla; quel consiglio a Bettino: «Torna e fatti mettere in galera»; quel tè rovesciato addosso a Berlinguer... Cosa non è accaduto a Pannella!
Ma soprattutto: «La strada mi è amica» garantisce. Vero, basta camminare al suo fianco: il suo magnetismo continua ad attrarre gli impiegati, le nonne, i coatti, i fidanzatini, pure i bambini piccolissimi, cui insegna a fare la pernacchia. Sembra una frase fatta, per giunta retorica, ma per Pannella è decisivo fare sorridere chi gli sta vicino.
Non sempre, com´è ovvio, ci riesce. Compone piccolissime poesie, tipo haiku. Da giovane tentò il suicidio. Più che nell´Aldilà crede nella «compresenza dei morti e dei viventi», concezione buddista, la vita è eterna, quando uno «muore» miliardi di atomi se ne vanno nell´aria, come miliardi di pensieri, come miliardi di Budda, gli ha spiegato la direttrice del museo di astrofisica di Dharamsala. E comunque: «Lentamente muore chi ha paura di morire. Io spero di accoglierla con grande famigliarità, spero che in un qualsiasi momento, soprattutto la notte, quella arrivi e io possa darle il benvenuto, felice di trovarmi così, ehi, vieni, vieni qui». Sorride, Pannellone. Non riesce a immaginarsi i suoi funerali: «Magari, per fregarvi, non li rendo nemmeno pubblici. Bisognerà vedere se per il partito sono convenienti o no. Il partito è per me una ragione oggettiva di vita. La mia vita dopo tutto è la storia del partito e come coautori ha i compagni, i radicali ignoti. Io sono una persona comune e qui sta il segreto della durata».

l’Unità 18.4.10
Pedofili e Eva
di Lidia Ravera

Se un serie crescente di perpetrate violenze sessuali nei confronti dei bambini fosse stata scoperta , a carico di qualsiasi categoria sociale o etnica, chennesò... i barbieri, i taxisti, gli insegnanti o i rumeni o i rom o i senegalesi, sarebbe subito stata organizzata una persecuzione su vasta scala. Se tre anche soltanto tre inguaribili anarchici
o vecchie femministe o torvi intellettuali miscredenti fossero stati trovati con le mani addosso a un chierichetto di nove anni si sarebbe proposta la galera a vita, la pubblica gogna o magari la pena di morte. Fortuna vuole che a macchiarsi di questo crimine sia stata la categoria in assoluto più protetta di questo mondo (e presumibilmente anche dell’altro): i preti. Per salvare loro la faccia e l’anima, provvidenzialmente, il reato di pedofilia è diventato uno spiacevole effetto collaterale del celibato. È sempre colpa delle donne, vero? A partire da Eva.

il Fatto 18.4.10
La rivelazione del cardinale:
Wojtyla ha protetto un prete pedofilo
Secondo Castrillon, il papa elogiò l’insabbiamento di un caso
di Marco Politi

Un cardinale trascina Giovanni Paolo II nella vicenda degli abusi non denunciati. Castrillon Hoyos afferma che papa Wojtyla autorizzò la lettera di elogio a un vescovo francese per aver fatto ostruzionismo alla giustizia. La fragorosa rivelazione cade mentre Benedetto XVI, arrivando a Malta, ha confessato ai giornalisti che il “corpo della Chiesa è ferito dai nostri peccati” e l’unica via di salvezza consiste nel Vangelo, “vera forza che purifica e guarisce”.
Il cardinale Dario Castrillon Hoyos non è un porporato qualunque. Colombiano ottantenne, duro e tenace, è stato presidente del consiglio dell’episcopato latino-americano (Celam) negli anni in cui Wojtyla faceva terra bruciata intorno alla Teologia della liberazione, poi dal 1996 al 2006 prefetto della Congregazione per il Clero. Quando Benedetto XVI liberalizza la Messa preconciliare, il cardinale celebra a Loreto il primo rito solenne dopo il decreto papale. Quando scoppiò il caso del vescovo negazionista lefebvriano Williamson, Castrillon Hoyos era a capo della commissione Ecclesia Dei, incaricata di negoziare con i seguaci di Lefebvre. Pur appassionato di Internet, non si era accorto (o non aveva voluto) che il vescovo Williamson contestava la Shoah.
Dunque, corre l’anno del Signore 2001. É il mese di settembre e da poco un presule di Francia – mons. Pierre Pican, vescovo di Bayeux – è stato condannato a tre mesi con la condizionale per aver rifiutato di denunciare alla magistratura il prete pedofilo René Bissey. Il prete è un tipico predatore. Tra il 1989 e il 1996 ha compiuto ripetuti abusi sessuali su minori, il tribunale gli infligge 18 anni di carcere.
Con questi precedenti il cardinale Castrillon prende carta e penna e scrive al vescovo reticente Pican: “Lei ha agito bene, mi rallegro di avere un confratello nell’episcopato che, agli occhi della storia e di tutti gli altri vescovi del mondo, avrà preferito la prigione piuttosto che denunciare un prete della sua diocesi”. La data della missiva è importante: 8 settembre. Nel mese di maggio il cardinale Ratzinger ha reso noto il Motu proprio papale “Delictis gravioribus”, che stringe i freni sui delitti di pedofilia e ordina ai vescovi del mondo di trasmettere ogni caso al Sant’Uffizio (Congregazione per la Dottrina della fede). Secondo le Linee-guida rese note recentemente il vescovo Pican avrebbe dovuto agire in conformità alla legge civile dello stato, che appunto prevede la denuncia. Invece mons. Pican, che già nel 1996 era stato informato degli abusi sessuali su minori, non aveva denunciato il sacerdote Bissey, limitandosi a consigliargli una cura psichiatrica. Il cardinale Castrillon, non contento di elogiare il suo silenzio, aggiunge con enfasi: “Questa Congregazione, per incoraggiare i fratelli nell’episcopato in una materia così delicata, trasmetterà copia di questa missiva a tutti i fratelli vescovi”.
Pubblicata su un sito francese, la lettera di Castrillon riceve il 15 aprile una sferzante bacchettata dal portavoce papale Lombardi: “Non risponde in nessun modo alla linea presa dalla Santa Sede e anzi dimostra quanto fosse necessario unificare sotto la competenza della Congregazione per la Dottrina della fede la trattazione rigorosa e unitaria dei casi di abusi sessuali: cosa che avvenne nel 2001 con il Motu proprio in cui era contenuto il documento Delictis gravioribus”. Il colpo di barra non ha retto lo spazio di una notte. Perchè il porporato colombiano, testardamente, ha rivendicato di avere agito con il placet della Suprema Autorità. Sarebbe stato papa Wojtyla in persona ad averlo autorizzato a congratularsi per il gesto e a dargli un carattere esemplare. Nel corso di una conferenza nella città spagnola di Murcia il cardinale Castrillon – così riferisce il quotidiano La Verdad – ha precisato testualmente: “Dopo aver consultato il Papa e avergli mostrato la lettera, la inviai al vescovo, congratulandomi con lui per essere stato un modello di padre che non consegna i suoi figli” alla giustizia. Il porporato ha specificato che “Giovanni Paolo II mi autorizzò ad inviare la lettera a tutti i vescovi del mondo e a metterla su Internet”. É la prima volta che papa Wojtyla viene così direttamente chiamato in causa in una vicenda di omertà sui casi di pedofilia. Già nei giorni scorsi si erano levati interrogativi su chi avesse informato o disinformato Giovanni Paolo II al punto che l’allora cardinale Joseph Ratzinger – all’epoca prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede – non riuscì nel 1998 ad aprire un’inchiesta sul pluri-abusatore Maciel, fondatore dei Legionari di Cristo. Nella presa di posizione di Castrillon c’è comunque un’ambiguità di fondo. Il cardinale ha spiegato alla Cnn che il diritto canonico proibisce al confessore di “riferire quanto detto dal penitente, con le parole o in qualsiasi altro modo”. Tuttavia il portavoce papale Lombardi non ha mai accennato al fatto che il vescovo Pican avesse saputo delle tendenze criminali del suo prete esclusivamente in confessionale. In ogni caso, in mancanza di una totale trasparenza sul passato e di una piena assunzione di responsabilità, il Vaticano non uscirà dalla tenaglia dell’ondata di rivelazioni. Ondata inarrestabile. In un’inter vista all’Osser vatore Romano il Segretario di Stato, cardinale Bertone, ribadisce che Benedetto XVI ha indicato una linea molto chiara: “Purificazione e penitenza”. Ma l’associazione americana delle vittime di abusi (Snap) chiede misure concrete e stringenti. Bill Nash, loro rappresentante, propone che “il Vaticano e le diocesi istituiscano un registro online dei preti credibilmente accusati di abusi”.

il Fatto 18.4.10
Saviano. Accuse e reazioni tra lo scrittore e il premier
di Loris Mazzetti

Strage continua da 10mila morti
Le mafie hanno ucciso più del terrorismo. Questo ci fa capire la miopia dell’informazione televisiva

Dopo che il presidente Berlusconi ha attaccato Saviano dicendo che grazie a Gomorra “la mafia è più famosa”, l’autore risponde con una lettera di cui riportiamo alcuni stralci. “Il mio libro è stato accusato di essere responsabile di ‘supporto promozionale alle cosche’ – dice Saviano – ma le mafie vogliono esattamente che i loro affari siano cosa loro. Io credo che solo e unicamente la verità serva a dare dignità a un Paese”. Lo scrittore si chiede: “Il potere mafioso è determinato da chi racconta il crimine o da chi commette il crimine?”. Poi aggiunge: “Il ruolo della ‘ndrangheta, della camorra, di Cosa nostra è determinato dal suo volume d’affari – cento miliardi di euro all’anno di profitto – che supera di gran lunga le più granitiche aziende italiane. Questo può non esser detto? Lei stesso ha presentato un dato che parla del sequestro alle mafie per un valore pari a dieci miliardi di euro. Questo significa che sono gli scrittori ad inventare? Ad esagerare? A commettere crimine con la loro parola? Perché?”. E ancora: “Michele Greco il boss di Cosa Nostra morto in carcere al processo contro di lui si difese dicendo che ‘era tutta colpa de Il Padrino’ se in Sicilia

Gomorra, il libro di Roberto Saviano, è stato accusato da Silvio Berlusconi di essere “supporto promozionale alle cosche”. Non c’è mai limite all’indecenza, soprattutto quando certe parole escono dalla bocca di una delle massime istituzione del nostro Paese. Non è la prima volta che il presidente del Consiglio si esprime contro chi scrive di criminalità organizzata. La volta scorsa fu a novembre, sempre in occasione del processo del suo amico Marcello Dell’Utri: allora disse che dovevano essere “strozzati” tutti quelli che hanno fatto la “Piovra” e che scrivono libri su Cosa Nostra perché “ci hanno fatto conoscere nel mondo per la mafia”. Il giorno in cui il pm chiede per Dell’Utri una condanna a undici anni per concorso esterno in associazione mafiosa, il premier se la prende con un grande scrittore che da quattro anni vive sotto scorta. Roberto Saviano ha un’unica responsabilità: quello di aver illuminato i fatti, di aver fatto conoscere all’Italia e al mondo i casalesi, di aver acceso la luce sulla camorra. Sono convinto che tanti magistrati, soprattutto quelli che stanno in prima linea, la pensano diversamente da Berlusconi, perché quella luce serve anche a loro. Ha scritto Giuseppe Fava: “Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza e la criminalità, impone ai politici il buon governo”. Conosco Saviano da anni. E’ forte. Ha la capacità di usare la parola come un’arma in grado di combattere la criminalità organizzata, non credo di averla riscontrata in nessun altro scrittore o giornalista. Questo ha portato Roberto Saviano ad essere considerato un uomo a rischio della propria vita, condannato dai Casalesi, dai camorristi dello stesso paese dove lui è nato e vissuto fino agli anni del liceo, è anche la sua forza e la sua grande difesa. Per la stragrande maggioranza delle persone lui è il nuovo eroe, è il moderno Lancillotto, il cavaliere della Tavola Rotonda della giustizia e dell’onore che combatte contro gli usurpatori e i tiranni a difesa del popolo oppresso dalla camorra; per altri invece è quello che ha infangato la sua terra e che non doveva raccontare quella criminalità. L’accusa di fare cattiva pubblicità all’Italia è infamante non solo per Saviano ma per tutti quei giovani che continuano a vivere nei luoghi della camorra e a lottare quotidianamente nella terra con più morti ammazzati d’Europa e come ha scritto Saviano: “Nel territorio dove la ferocia è annodata agli affari, dove niente ha valore se non genera potere.
Dove tutto ha il sapore di una battaglia finale.” L’intervista che segue è tratta dal nostro incontro in occasione della scrittura de La macchina delle bugie. Roberto ho la sensazione che la tua sia diventata una missione.
Forse sì. Io ritengo la responsabilità della parola quasi sacra. So bene che uno scrittore non dovrebbe prendersi troppo sul serio, ma a me sono accadute cose che non mi permettono questo distacco. Mi sono reso conto che la parola che sono riuscito a usare, una volta superata una certa linea d’ombra, una volta uscita dagli ambiti soliti degli addetti ai lavori, ha ottenuto un effetto impensabile, quasi miracoloso: è diventata strumento per altre persone per conoscere la realtà della camorra o per farla conoscere. La mia parola ha consentito ad altri di tirare fuori la voce.
Lo hai detto anche nell’intervista che ti fece Enzo Biagi che è stata la rabbia che ti ha spinto a scrivere Gomorra, cito testualmente: “Era tanta la rabbia da far stringere i pugni persino quando scrivevi...”.
Sì. Può sembrare questa un’immagine romantica, ma in realtà è proprio così. Mi trovai con un mio vecchio amico e ci dicemmo che la rabbia era così tanta che bisognava scrivere sulla tastiera del computer con le nocche. Lo giuro, l’immagine mi era venuta in mente dopo aver seguito la faida di Scampia, ero stato sul luogo dell’omicidio di Attilio Romanò, era gennaio 2005, e questo ragazzo innocente era stato freddato nel negozio dove lavorava, il corpo crivellato di colpi e sangue dappertutto. Quanto tornai a casa cominciai a battere sulla tastiera solo con la mano destra, mentre la sinistra, senza accorgermene, era chiusa a pugno, sino quasi a farmi male. Questo mi colpì. Non solo ero disgustato dall’omicidio, ero anche terribilmente arrabbiato perché per i media nazionali quella vittima apparteneva ai soldati di camorra: morire in una certa terra significava essere colpevoli in
partenza. La rabbia è vera, nasce dentro di me. È stato sicuramente il primo motore che mi ha portato a scrivere.
Sei considerato uno dei più grandi esperti di camorra, tieni conferenze anche agli addetti al lavoro timo esiste una ricetta su cosa bisognerebbe fare? Veramente non so dove iniziare. Sicuramente so che dal momento in cui blindi i subappalti, l’attenzione nazionale diventa costante, permetti ai giudici di lavorare in maniera concreta, smetti di dare strumenti soltanto per la repressione, quei poteri criminali cominciano a inciampare, a cadere, a sentirsi stretti, ad avere il fiato sul collo. Faccio un esempio: il voto di scambio è fondamentale. Il problema non è arrestare chi lo compra con 50 euro, quello non si farà prendere mai. Non si dovrebbe far sentire il voto così inutile perché, chi lo vende per 50 euro, lo considera una cosa priva di valore. Pensa che chiunque venga eletto, farà soltanto i propri affari o gli affari di chi lo vuole mettere lì, tanto vale guadagnare un cellulare, 50 euro, una bolletta pagata. Bisogna partire da questo, invece di reprimere o arrestare chi accetta i 50 euro. A questa persona bisognerebbe fargli capire con azioni concrete che tutto sta cambiando, e che non è solo retorica quando si diceva che “il principio primo della democrazia è la partecipazione”. Oggi è esattamente il contrario: che governi la destra o la sinistra, secondo la percezione dominante tanto è la stessa cosa, tutti sono ladri, pensano solo al proprio tornaconto.
In certe zone dell’Italia bisognerebbe mantenere i fari accesi, bisognerebbe illuminare quelle terre. La criminalità organizzata ha bisogno invece di silenzio per poter fare i propri affari. Credo che una grande responsabilità ce l’abbiano i mezzi d’informazione, in particolare la televisione, che per illuminare fa ben poco. Non pensi che questo dipenda anche dal fatto che la mafia sta all’interno dell’economia e quindi riesce in qualche modo a controllare tutto?
Sì. Alla fine tutti i media si accorgono delle mafie esclusiva mente quando ci sono gravi attentati, molti morti, due giorni in prima pagina poi il silenzio. È veramente assurdo. Le mafie in Italia hanno ucciso 10 mila persone, una cifra maggiore dei morti della striscia di Gaza. La guerra tra palestinesi e israeliani da vent’anni apre i telegiornali di tutto il mondo. Le mafie hanno ucciso più di qualsiasi organizzazione terroristica. Da noi il terrorismo, durante gli anni di piombo, ha fatto 600 morti, quanti in due anni a Napoli. Questi dati ci fanno capire la disattenzione, la miopia che c’è stata da parte dell’informazione televisiva su un fenomeno chegiàdipersénonèlocalee che ha tutte le premesse per essere un problema e uno scandalo internazionale. Perché non si è parlato delle mafie per quello che sono? Io mi sono dato delle risposte. Non c’è assolutamente censura, c’è indifferenza, sono fatti considerati locali, per le persone che vivono al Nord sono avvenimenti lontani, mentre al Sud non si comprano i giornali nazionali. La televisione non racconta le vere storie di mafia e quando le racconta lo fa in maniera folkloristica. C’è una frase di Dalla Chiesa che mi ha sempre colpito: “Lo Stato dia come diritto ciò che le mafie danno come favore”.
È una frase fondamentale, perché è la prima cosa che le mafie fanno, oggi anche ad altissimo livello e non solo con i disperati dei quartieri disagiati. Il racket è una fornitura di servizi ineccepibile, pagarlo in molte realtà significa che i camion ti arrivano puntuali, che le banche ti aiutano. Le mafie diventano il garante per far avere prestiti alle imprese, che non ci siano furti nei cantieri. Pagare l’estorsione significa comprare un pacchetto di servizi. La frase del generale Dalla Chiesa oggi ha più valore di quando l’ha pronunciata, ed è fondamentale per capire che cosa sono le organizzazioni criminali, che spesso si sostituiscono all’inefficienza della burocrazia dello Stato, grazie ai contatti con i comuni, ai loro uomini nei municipi, tra i vigili urbani. Questa loro tecnica l’hanno portata anche nell’Est Europa, diventando il passepartout anche per le imprese sane, come è avvenuto in Macedonia, in Ungheria, in Albania.
Di cosa hanno bisogno i giovani delle tue terre, delle terre di camorra, mafia, ’ndrangheta?
Due cose: la prima, che sento molto mia, di non essere costretti ad emigrare. L’emigrazione deve essere una scelta, una possibilità per specializzarsi, per migliorarsi, non una necessità, una costrizione. Spesso in queste terre restano quelli che non hanno avuto le qualità per emigrare. O quelli che lo pensano di se stessi. Non deve più essere così. Dal Sud ogni anno emigra la quasi totalità di laureati. La seconda, di poter vivere in una realtà in cui il proprio talento sia spendibile, basta ascoltare qualsiasi ragazzo, che sia chimico o carpentiere, che lavori a Londra o ad Oxford o a Ferrara, che è stato scelto perché bravo, che ha avuto l’occasione di poter mostrare quello che vale. Nel Sud, invece, il talento non basta, deve sempre esserci la protezione, la mediazione, bisogna accontentarsi e poi implorare, il lavoro diventa un privilegio che ti è stato dato, e in cambio devi tacere e accettare quello che ti viene detto. Il lavoro deve essere un diritto e non un privilegio e se quel giovane decide di rimanere al Sud non deve sentirsi uno sconfitto, un fallito.
Hai mai pensato di andare via, di andare all’estero? Sì. L’ho pensato tantissime volte. Non l’ho fatto finora perché mi sembrava un tradimento. Diceva Paolo Borsellino: “Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio. O si fanno la guerra o si mettono d’accordo”.

Repubblica 18.4.10
Il mio dovere è difendere la libertà di parola
di Roberto Saviano

Ho letto la lettera del presidente della Mondadori Marina Berlusconi e colgo occasione per precisare alcune questioni. Il capo del governo Berlusconi non ha espresso parole di critica. Critica significa entrare nel merito di una valutazione, di un dato, di una riflessione. Nelle sue parole c´era una condanna non ad una analisi o a un dato ma allo stesso atto di scrivere sulla mafia.
Il rischio di quelle parole, ribadisco, è che ci sia un generico e preoccupante tentativo di far passare l´idea che chiunque scriva di mafia fiancheggi la mafia. Come se si dicesse che i libri di oncologia diffondono il cancro. Facendo così si avvantaggia solo la morte.
Non capisco a cosa si riferisce quando la presidente Berlusconi dice: «Sappiamo tutti quanto abbia pesato e pesi l´omertà nella lotta alla criminalità organizzata… ma certo una pubblicistica a senso unico non è il sostegno più efficace per l´immagine del nostro Paese». In Gomorra sono raccontate anche le storie di coloro che hanno resistito alle mafie, un intero capitolo dedicato a Don Peppe Diana, c´è il racconto di una Italia che resiste e contrasta l´impero della criminalità. Quale sarebbe il senso unico? Ho anche più volte detto e scritto, che l´azione antimafia del governo c´è stata ed è stata importante, ricordando però al contempo che siamo ben lontani dall´annientare le organizzazioni, siamo solo all´inizio poiché le strutture economiche e politiche dei clan che continuano ad essere intatte.
Ecco perché alla luce di quanto scrivo ho trovato le parole del capo del governo finalizzate a intimidire chiunque scriva di mafie e di capitali mafiosi. Ho io stesso visto e conosciuto la libertà della casa editrice Mondadori. Ci mancherebbe che uno scrittore non fosse libero nella sua professione. Una libertà esiste però solo se viene difesa, raccolta, costruita nell´agire quotidiano da tutti coloro che lavorano e vivono in una azienda. Ed è infatti proprio a questi che mi sono rivolto ed è da loro che mi aspetto come ho già scritto una presa di posizione in merito alla possibilità di continuare a scrivere liberamente nonostante queste dichiarazioni. Non può che stupire però che un editore non critichi ma bensì attacchi lo stesso prodotto che manda sul mercato, e lo attacchi su un terreno così sensibile e decisivo come quello della cultura della lotta alla criminalità organizzata. Sono molte le persone in Italia che per il loro impegno nel raccontare pagano un prezzo altissimo non è possibile liquidarle considerando la loro azione "promotrice" del potere mafioso. Una dichiarazione del genere annienta ogni capacità di resistenza e coraggio. E questo da intellettuale non è possibile ignorarlo e da cittadino non posso ascrivere una dichiarazione del genere alla dialettica democratica. È solo una dichiarazione pericolosa che andrebbe immediatamente rettificata.
©2010 Roberto Saviano/Agenzia Santachiara

il Fatto 18.4.10
CURRENT, speciale sull’autore di Gomorra

Su Current, dal 21 Aprile in prima serata, ci sarà lo speciale “Saviano racconta Saviano”. Ecco le parole da cui lo scrittore parte per svelare se stesso, chi è diventato e chi vorrebbe tornare ad essere: “Voglio una vita, ecco. Voglio una casa. Voglio innamorarmi, bere una birra in pubblico, andare in libreria e scegliermi un libro leggendo la quarta di copertina. Voglio passeggiare, prendere il sole, camminare sotto la pioggia, incontrare senza paura e senza spaventarla mia madre. Voglio avere intorno i miei amici e poter ridere e non dover parlare di me. Sono un oggetto che viene trasportato. Ma sono libero. Perché la vera libertà è quella che hai nella tua testa”.

il Fatto 18.4.10
Scuola, tagli al futuro
Ogni anno il governo, ci redarguisce sul fatto che in Italia il numero di alunni per docente è più basso che nella media europea. Questa litania omette (con dolo) alcuni dati
di Marina Boscaino

Mentre a San Benedetto del Tronto, Pantaleo, segretario nazionale della Cgil scuola-ricerca-università che celebrava il II congresso, auspicava per uscire dalla crisi di “investire sulla conoscenza almeno il 2% del Pil, stabilizzando iprecari, aprendo a un piano di reclutamento pluriennale”; mentre a Roma, come in molte città italiane, il Coordinamento delle scuole superiori e i precari organizzavano la manifestazione che sabato ha sfilato per le vie del centro, facendo registrare numerosissime e significative adesioni, e raggiungendo al termine quella di Emergency; mentre i quotidiani cominciano a registrare massicciamente (e a comunicare tardivamente) lo stato di sofferenza profonda in cui si dibattono le scuole, gli imperterriti strateghi della “semplificazione” e della “razionalizzazione” (leggi tagli diffusi e falcidia di posti di lavoro e di conoscenza) emanavano la circolare sugli organici della scuola per il settembre 2010. Confermate le più tristi previsioni, peraltro agevoli da fare, considerando che è tutto scritto nella Finanziaria 2008 di Tremonti. Scuola primaria: 8711 posti in meno; secondaria di I grado, 3661; superiore: 13746; personale Ata: 15000. Non una cabala, ma 41118 persone a spasso. Donne e uomini. Con figli e senza. Con progetti, investimenti, dignità da tutelare, tutti. E non è finita.
La riduzione di 140.000 posti entro l'anno scolastico 2011-12 riguarda i docenti di tutte le discipline, tranne i 15.000 di ruolo e i 10.000 "precari" di IRC (Religione Cattolica). L'anomalia è tanto più grave, poiché riguarda personale pagato dallo Stato, ma subordinato – in termini di operato e di contenuti – alla gerarchia cattolica, che lo abilita, inserisce e rimuove, secondo le norme del diritto canonico. Il privilegio dell’intoccabilità implica che l’insegnamento confessionale partecipi in percentuale maggiore di prima al monte ore generale, che ha subito tagli per tutte le altre materie; alla faccia della laicità della scuola pubblica. Ogni anno il governo, con la complicità di media disinformati, ci redarguisce sul fatto che in Italia il numero di alunni per docente è più basso che nella media europea. Questa litania generalmente prelude a politiche di contrazione degli organici e anche in questo caso ha tentato di giustificare la mattanza, ma omette volontariamente alcuni dati. Innanzitutto il fatto che molti Paesi di area UE non prevedono parametri nella definizione del rapporto docente/alunni, mentre da noi – praticamente in ogni Finanziaria – si aumenta la quota di alunni per classe, disattendendo una serie di norme, a cominciare da quelle sulla sicurezza di aule stracolme. La variabile degli insegnanti di religione cattolica – che esistono anche in altri Paesi, ma che non sono a carico delle spese per l’istruzione, alla stregua degli altri e non beneficiano, come da noi, di trattamenti vantaggiosi – non viene citata. Ad influire sul rapporto numerico alunni-docente c’è poi la peculiarità del sostegno; il nostro Paese gode di una legge sull’integrazione della diversabilità all’avanguardia in Europadove spesso ancora esistono le scuole speciali. Invece che essere considerata acquisizione di civiltà, la norma viene ridotta ad arma per dimostrare l’eccesso di insegnanti in Italia. Per fortuna il 22 febbraio la Consulta ha valutato incostituzionali (le violazioni sono "in contrasto con i valori di solidarietà collettiva nei confronti dei disabili gravi", ne impediscono "il pieno sviluppo, la loro effettiva partecipazione alla vita politica, economica e sociale del Paese" e introducono "un regime discriminatorio illogico e irrazionale che non tiene conto del diverso grado di disabilità di tali persone, incidendo così sul nucleo minimo dei loro diritti") i tagli sui posti di sostegno intervenuti negli ultimi due anni. La Corte ha poi indirizzato Stato ed enti locali ad investire maggiori risorse, perché gli alunni disabili possano avere identiche opportunità formative rispetto agli altri, rimuovendo gli ostacoli che si oppongono al diritto all'apprendimento di qualità garantito ad ogni individuo.
La domanda che una parte del mondo della scuola continua – inascoltata – a rivolgere a una parte del mondo della politica e delle amministrazioni locali è: cosa aspettate? Cosa aspettate, davanti a questi tagli, davanti a queste circostanze, davanti allo scempio della scuola della Repubblica, di cui siete parte istituzionale, a fare davvero qualcosa ?