lunedì 26 aprile 2010

Repubblica 26.4.10
La pillola della libertà
di Anais Ginori

Da anni si parla di un pillolo che possa andar bene per l´uomo. Ma la ricerca spiega che il traguardo è ancora lontano
Per anni c´è stata una campagna di demonizzazione di questo metodo. Ma i rischi per la salute non ci sono, anzi l´azione è benefica
Le interruzioni di gravidanza tra le adolescenti da noi sono cresciute in controtendenza rispetto al calo generale
Nel nostro Paese sono soprattutto le giovani alle prime esperienze che preferiscono il preservativo o il coito interrotto
Era il 9 maggio 1960 quando arrivò il primo farmaco che permetteva a lei di scegliere se procreare: sembrava l´inizio della libertà, non solo sessuale. Ma oggi, mezzo secolo dopo, negli Usa la metà delle gravidanze non è programmata. L´Italia è agli ultimi posti per l´uso del contraccettivo orale

Sempre in borsa, sul comodino prima di addormentarsi, la mattina accanto allo spazzolino da denti. Da mezzo secolo ormai è l´appuntamento irrinunciabile per molte, guai a dimenticarselo. Una donna su tre in Europa, una su sei in Italia, tiene come un feticcio quel cartoncino plastificato diviso per settimane, il blister. Venti giorni, poi una pausa di sette. All´inizio sembrava un oggetto non identificato, si chiamava Enovid. Arrivò sul mercato americano il 9 maggio 1960. "La pillola che libera il sesso" titolò Time. Con il tempo ha preso nomi sempre meno scientifici e più femminili: Arianna, Minesse, Yasmine, Kaira. Le confezioni sono diventate colorate, il blister ha esplorato tutte le geometrie possibili. Tondo, quadrato, rettangolare.
Dopo la scoperta rivoluzionaria del biologo ebreo americano Gregory Pincus, la ricerca è andata talmente avanti che oggi esistono oltre quaranta prodotti di contraccezione orale. Con o senza estrogeni, con più o meno progesterone, «mini» o «leggerissime», dalla mono alla quadrifasica. Da un anno è arrivata la pillola «bio», completamente naturale. Rilascia l´estradiolo, lo stesso estrogeno prodotto dal corpo femminile. Nell´ambito della contraccezione ormonale, ci sono anche cerotti, impianti sottopelle, anelli vaginali. Negli Usa si vende persino una puntura che permette di dire addio alle mestruazioni per dodici settimane.
Nelle sue infinite forme, continua a essere per tutti la Pillola. Il metodo contraccettivo preferito, il più sicuro. Nell´indice di Pearl che misura il numero di gravidanze indesiderate è allo 0,1%, contro un rischio fino al 2% del preservativo e tra il 20 e il 30% del coito interrotto. Le donne che la usano - le ricerche europee sono pressoché unanimi - hanno rapporti sessuali più frequenti e rilassati rispetto alle altre. «Per molti anni, c´è stata una demonizzazione di questo metodo, associato all´insorgenza di sterilità permanente, patologie tumorali e cardiovascolari» ricorda Giovanni Monni, presidente dell´associazione ostetrici e ginecologi ospedalieri. «L´azione della pillola - precisa - è assolutamente reversibile. Fin dal primo ciclo successivo alla sospensione, il ripristino della fertilità è completo». Uno studio pubblicato il mese scorso sul British Medical Journal, ha confermato che le donne che utilizzano la pillola hanno minor rischio di tumori alle ovaie e all´utero ed ha evidenziato anche una riduzione della mortalità per patologie cardiovascolari. Anche gli effetti secondari, almeno quelli più gravi, sono diminuiti. «La dose della componente estrogenica - aggiunge Monni - è stata gradualmente ridotta, con una flessione dei fenomeni tromboembolici».
Fu l´attivista americana Margaret Sanger, fondatrice della Planned Parenthood Federation, a convincere Pincus della necessità di sviluppare una contraccezione orale. Negli anni Cinquanta, la sperimentazione delle prime pillole venne condotta su donne-cavie di Portorico, Haiti e Messico. Dopo che la Food and Drug Administration ha dato il via libera, Enovid sbarca sul mercato statunitense. Nel 1961 il farmaco viene registrato in Germania. Dieci anni dopo arriva anche in Italia. La contraccezione smette di essere reato contro la stirpe, è abolito l´articolo 533 del codice penale.
La femminista Margaret Sanger era convinta che con la pillola non ci sarebbero mai più state gravidanze indesiderate. Le donne avrebbero finalmente potuto avere una maternità libera e consapevole. Eppure, mezzo secolo dopo, ancora metà delle gravidanze negli Stati Uniti non è programmata, ha notato il Wall Street Journal. Si continua ancora a rimanere incinta per distrazione, per errore o, più semplicemente, secondo natura. «All´inizio c´era la sensazione che la pillola potesse rompere lo schema della sessualità femminile al servizio dell´obbligo riproduttivo» ricorda Lea Melandri. Negli anni Settanta faceva parte dei gruppi di autocoscienza che indagavano i rapporti di potere tra i sessi. «Anche allora ho sempre avuto una personale ritrosia per la pillola - racconta - perché mi sembrava far riposare la contraccezione solo sulle spalle delle donne, non responsabilizzando gli uomini». Una certa diffidenza le è rimasta. «Non festeggerei quest´anniversario con tanti trionfalismi» aggiunge. «La libertà sessuale è qualcosa di più profondo. La scelta consapevole della maternità viene dalla possibilità di dire dei no e purtroppo non è ancora così per molte di noi».
Di sicuro, le italiane si comportano diversamente dalle altre donne europee. Ancora oggi il nostro paese è agli ultimi posti in Europa per l´utilizzo della contraccezione orale, con una percentuale del 16%, contro il 50% dell´Olanda, il 40% della Francia e il 30% della Svezia. Ci sono anche forti differenze regionali. I dati della Sigo, Società italiana di ginecologia e ostetricia, evidenziano una percentuale di utilizzo più elevata in Sardegna e Valle d´Aosta (31,1 e 24,4%), fino ai minimi di Campania e Basilicata (intorno al 7%). Le utilizzatrici sono di solito donne adulte e in coppia. «Le adolescenti alle prime esperienze - racconta Giovanni Monni - sono particolarmente preoccupate da effetti collaterali come il tanto temuto aumento di peso. Di solito preferiscono il coito interrotto o il preservativo».
Nel nostro paese rimane una certa resistenza femminile alla contraccezione. Una donna su due dichiara di non usare niente durante i rapporti. Spesso, almeno tra le giovani, succede per ignoranza. L´allarme è degli esperti della Sigo che domani organizzeranno un convegno su "Adolescenti, sessualità e media". Alcune ragazze credono, ad esempio, che di giorno non si può rimanere incinta oppure che lavarsi con la Coca-Cola limita i rischi. Dalla rivoluzione di Pincus, in tutti i paesi europei si è registrato un progressivo e costante aumento della diffusione dei contraccettivi orali. Non in Italia, dove invece è aumentata negli ultimi anni la contraccezione d´emergenza. Una donna su dieci ha avuto ricorso alla pillola del giorno dopo. Anche le interruzioni di gravidanza tra le adolescenti sono cresciute, in controtendenza rispetto al calo generale iniziato nel 1978, con l´approvazione della legge sull´aborto.
Nonostante l´offerta oggi non manchi, le donne continuano insomma a discutere, interrogarsi e a volte a rifiutare la contraccezione. Intanto, gli scienziati promettono di abbattere nuove frontiere. «La scoperta dapprima negli uccelli e, successivamente, anche nell´uomo, di una proteina prodotta dall´ipotalamo con funzione inibitoria sulla sintesi e rilascio delle gonadotropine è importante» dice il ginecologo Giovanni Monni. Si potrebbe così agire direttamente sugli organi maschili femminili e maschili. Da anni si parla di un contraccettivo ormonale per l´uomo. «La commercializzazione - osserva Monni - mi pare però lontana». La pillola continuerà ancora a lungo a rappresentare per le donne il metodo contraccettivo più sicuro ed affidabile. Per il Pillolo bisognerà aspettare la prossima rivoluzione.

Repubblica 26.4.10
I 50 anni della pillola che cambiò le donne
di Natalia Aspesi

Cinquanta anni fa la nascita dell´anticoncezionale più famoso. Bilancio di una rivoluzione per la vita delle donne. In Italia un successo a metà
Il Vaticano fece di tutto per impedire la diffusione del "vergognoso" farmaco

Se negli Stati Uniti la pillola, anzi la Pillola, compie 50 anni, da noi è molto più giovane, forse ne ha 39, forse ancora meno, 35. Ne ha 39 se si tiene conto che la Corte Costituzionale abrogò nel 1971 l´articolo del codice penale (553) che recitava, "Chiunque pubblicamente incita a pratiche contro la procreazione e fa propaganda a favore di esse è punito con la reclusione".
Se negli Stati Uniti la pillola, anzi la Pillola, compie 50 anni, da noi è molto più giovane, forse ne ha 39, forse ancora meno, 35. Ne ha 39 se si tiene conto che la Corte Costituzionale abrogò nel 1971 l´articolo del codice penale (553) che recitava, "Chiunque pubblicamente incita a pratiche contro la procreazione e fa propaganda a favore di esse è punito con la reclusione". Oppure ne ha 35 se si ricorda che i consultori pubblici in cui venivano date informazioni e prescrizioni contraccettive gratuite a tutte le donne furono aperti nel 1975, in tempi di rivolta di ogni tipo, femminista, sessuale, sociale, politica e generazionale. Non è che le italiane avessero atteso il permesso del governo e del Vaticano per appropriarsi della Pillola: allora c´erano più giovani medici rivoltosi che pii, inoltre le ragazze mettevano su ambulatori ovunque, sia per costringere le donne a guardarsi là, con specchietti tra le gambe, tanto per imparare ad apprezzare quella cosa tanto ambita dai maschi, sia per aiutarle clandestinamente in frangenti di disperazione.

Quindi la Pillola, tornata pillola, veniva prescritta per ingrassare, per dimagrire, per il mal di testa, per l´osteoporosi, per il cattivo umore, il fiato cattivo, per regolare le mestruazioni, contro l´acne e il prurito, addirittura in vista di una futura fecondazione. Se poi anche al momento impediva la stessa, erano conseguenze non programmate ma inevitabili. Le ragazze nascondevano negli stivali il prezioso cartoncino con le pillole numerate, in funzione antigenitori (certi comunque della verginità delle figlie), le mogli dove i mariti non mettevano mai il naso, tra le pentole, non perché costoro volessero una immensa prole (anzi ad ogni gravidanza, giù scenate alla sola responsabile, lei), ma perché le consideravano uno strumento del diavolo che avrebbe messo in pericolo la loro virilità: o come già i più svegli presagivano, il loro potere.
In Vaticano intanto si rumoreggiava: nel 1965 i suoi più solerti rappresentanti erano riusciti a impedire all´OMS di dare assistenza ai paesi in via di sviluppo in tema di pianificazione familiare; nel 1968 Paolo VI con quattro righe della sua enciclica Humanae Vitae bocciava il vergognoso farmaco, ed erano tempi ancora clementi se si pensa che nel 1990 Papa Wojtyla tuonò persino contro i cosiddetti metodi naturali che pur nella loro innocente e scomoda rozzezza sempre puntavano, del resto senza quasi mai riuscirci, a evitare la procreazione. Ma allora, visto il drammatico momento, con migliaia e migliaia di donne che non volevano più saperne di far dipendere le gravidanze dalla distrazione o noncuranza del maschio, per tenerle lontane dalla Pillola, eserciti di sacerdoti esortavano le donne cattoliche, sposate ovviamente, ad adottare l´angelico metodo naturale dei coniugi Billings, australiani e cattolici, per quando disgustoso, dovendo le signore misurare giornalmente la densità del muco cervicale; o a misurarsi tutti i giorni la temperatura basale era una gran noia, per non parlare del difficile calcolo matematico che bisognava fare con il metodo del calendario, massimamente fallimentare, tanto che circolava la battuta, "ho due padri, Ogino e Knaus". Restava la famosa emicrania, cui però non si poteva ricorrere più di tanto. C´erano altri modi per sconsigliare la Pillola, terrorizzando le sue consumatrici con apocalittiche conseguenze: fa venire la cellulite, ingrassa, procura il cancro, rende frigide e sterili, avvia alla demenza senile precoce, fa puzzare. La fortuna della Pillola fu che il suo arrivo sul mercato soprattutto italiano coincise col fatto che le donne non ne potevano più: delle gravidanze indesiderate, dei terrori mensili, dei maschi che dicevano non sono stato io, non dovevi starci, io cosa centro, è un problema tuo, se lo sa la mia mamma guai. Ma anche di tante altre cose, la mistica della femminilità, la vita domestica, la disparità sociale, i lavori senza carriera, molte professioni ancora inavvicinabili, la scarsa rappresentanza politica, una generale sudditanza all´imperio maschile. Se davvero aspettare un figlio, se non programmato dagli uomini, era una cosa che riguardava solo le donne, tanto valeva prendere in mano la situazione ed essere davvero quelle che avrebbero deciso davvero. Era una porta che si spalancava sulla libertà non solo sessuale, sull´autonomia personale, sulla possibilità di imparare a non dipendere. Eppure qualcosa non ha funzionato sino in fondo, e non solo perché a tutt´oggi nei paesi che ne avrebbe più bisogno, ma anche in Italia, la Pillola non ha una diffusione generale.
Oggi da noi le mamme più svelte portano le figlie 15enni dalla ginecologa perché gliela prescriva: ma il nuovo imperio maschile, sessuale, sociale, politico, è tale che questa protezione non le rende più consapevoli e libere ma solo più precocemente disponibili. Certo in tempi di moralismo persecutorio contro pillole più drastiche, la Pillola scongiura massimi fastidi e umiliazioni: ma ai tempi in cui le donne italiane finalmente se ne impossessarono, le attribuirono altre libertà, altre vittorie, altre promozioni che poi alla fine in qualche modo non sono venute.

Repubblica 26.4.10
"Il N.Y. Times non è anti-cattolico sugli scandali Vaticano reticente"
Usa, il garante dei lettori: "La Curia ha insabbiato"
di Clark Hoyt

Un alto esponente del Vaticano ha dichiarato che il New York Times «pecca di scorrettezza quando tratta di Papa Benedetto». L´arcivescovo di Brooklyn ha esortato i suoi parrocchiani a tempestare il giornale di messaggi accusandolo di accanirsi contro la chiesa cattolica. Anche i lettori del Wall Street Journal e di altre pubblicazioni hanno attaccato il quotidiano.
Centinaia di persone hanno scritto anche a me.
Il New York Times non è certo l´unico tra i giornali mondiali ad essersi occupato dello scandalo degli abusi sessuali nella chiesa cattolica, che recentemente ha toccato anche l´arcidiocesi tedesca un tempo di papa Benedetto XVI. Ma è stato in particolare un articolo del mese scorso a toccare un nervo scoperto. Sulla base di documenti giudiziari, il quotidiano è entrato nel merito di come gli esponenti della chiesa locale e il Vaticano gestirono il caso di un prete di Milwaukee accusato di aver molestato addirittura 200 bambini sordi. E ha affermato che alti esponenti del Vaticano, tra cui l´allora cardinale Joseph Ratzinger, non intervennero riducendo Padre Lawrence Murphy allo stato laicale, nonostante i ripetuti appelli dei vescovi americani, secondo i quali la mancata punizione avrebbe messo in imbarazzo la chiesa.
Il caso Murphy, nella cronaca che ne ha fatto il New York Times, documentata da atti giudiziari pubblicati sul sito web del quotidiano, si può riassumere in questi termini: Murphy prestò servizio presso una scuola cattolica per bambini non udenti dal 1950 al 1974. Benché fosse giunta notizia ai tre arcivescovi succedutisi a capo della diocesi che il sacerdote molestava i bambini, Murphy fu trasferito in sordina nel Wisconsin settentrionale, dove continuò per 24 anni a lavorare con bambini nelle parrocchie e in un carcere minorile. I vertici ecclesiastici non lo denunciarono mai alle autorità giudiziarie, e non venne dato seguito alle denunce presentate dalle vittime e dai loro familiari alla polizia e ai pubblici ministeri. Nel 1996, dopo più di 20 anni dal trasferimento di Murphy, l´arcivescovo di Milwaukee, Rembert Weakland, scrisse a Ratzinger informandolo di essere appena venuto a conoscenza di un atto particolarmente grave compiuto dal sacerdote, ossia adescamento in confessionale, a scuola. Pur non avendo ricevuto risposta, Weakland diede avvio ad un processo ecclesiastico. Preoccupato per i termini di prescrizione del reato, si rivolse ad un altro ufficio a Roma per ottenere una deroga, ma fu reindirizzato all´ufficio di Ratzinger.
Dopo otto mesi, il vice di Ratzinger, Cardinal Tarcisio Bertone, oggi seconda massima carica del Vaticano, autorizzò un processo che avrebbe potuto condurre all´allontanamento di Murphy dal sacerdozio. Ma Murphy si appellò a Ratzinger, sostenendo che le accuse si riferivano a più di 25 anni prima, che ormai aveva 72 anni ed era in cattive condizioni di salute, e che si era pentito. Bertone allora suggerì di intervenire senza arrivare all´allontanamento. Weakland disse che in un incontro in Vaticano non riuscì a persuadere Bertone ed altri alti prelati a far proseguire il processo, interrotto nel 1998, poco prima della morte di Murphy. Questa versione dei fatti è documentata.
Molti lettori, inclusi esponenti religiosi, hanno inteso l´articolo come un attacco diretto a Papa Benedetto XVI. Ma molte delle critiche mosse non reggono. Scivendo sul National Review Online, Raymond J. de Souza, sacerdote e docente presso la Queen´s University dell´Ontario, dice che il New York Times accusa Ratzinger di «essere intervenuto» per salvare Murphy. Non è così. L´articolo non stabilisce il ruolo di Ratzinger, se mai lo abbia avuto, si limita a dire che le comunicazioni riguardanti il caso Murphy furono indirizzate a Ratzinger e che il suo vice intervenne. C´è una bella differenza.
Alcuni lettori dicono che il New York Times è anti-cattolico. Si chiedono come mai non dia pari risalto a vicende di abusi sessuali nelle scuole, o in altre religioni. Altri sostengono che con Benedetto XVI la reazione del Vaticano a questi casi è migliorata, sono state snellite le procedure per dar seguito alle denunce e scusarsi con le vittime. Ma sarebbe irresponsabile ignorare le continue rivelazioni, come quelle relative ai tempi in cui Benedetto XVI era arcivescovo a Monaco di Baviera.
Che piaccia o meno, esistono circostanze che hanno legittimato questo andazzo per anni, incluso un sistema ben documentato di negazione e insabbiamento in un´istituzione con miliardi di seguaci. Per quanto doloroso sia, il giornale ha l´obbligo di seguire la vicenda fin dove conduce, anche alla porta del Papa.
(© New York Times/la Repubblica. Traduzione di Emilia Benghi)

Repubblica 26.4.10
Cervello
Ecco perché sappiamo fare solo due cose alla volta
di Elena Dusi

La funzione di coordinamento dell´attenzione della corteccia prefrontale

A ogni emisfero un compito, tre contemporaneamente lo mandano in tilt: lo rivela uno studio su "Science" Quello sinistro si impegna nelle attività più difficili, quello destro in quelle più facili, nei mancini è il contrario

L´organo del pensiero davanti a troppe funzioni è come un giocoliere che sbaglia

Parlare al conducente si può, ma senza aggiungere altre distrazioni. Svolgere due compiti insieme è infatti il massimo che un cervello umano possa tollerare. Di fronte al terzo, le sue capacità di giocoliere si confondono. E tra guidare, conversare e mandare un sms si rischia di creare un pericoloso corto circuito.
Il motivo per cui l´uomo può svolgere due compiti insieme - ma non di più - è semplice: il nostro cervello è diviso in due emisferi. Quanto l´attenzione è focalizzata su una sola attività, entrambi vi si dedicano all´unisono. Quando i compiti da svolgere sono due, ogni emisfero si prende un incarico. Davanti a tre performance contemporanee l´organo del pensiero inizia invece a saltare dall´una all´altra come un funambolo, sprecando energia e commettendo molti errori. La dimostrazione arriva da uno studio pubblicato su Science e condotto a Parigi nei laboratori dell´Institut national de la santé et de la recherche médicale.
I neurologi hanno sottoposto alcuni volontari a un gioco in cui dovevano completare delle parole con le lettere mancanti. Il gioco veniva poi sdoppiato in due sessioni leggermente diverse che andavano svolte contemporaneamente. Nel frattempo la risonanza magnetica funzionale osservava come gli emisferi del cervello si dividevano i compiti, con un´area della corteccia frontale situata al di sopra degli occhi incaricata di smistare i due giochi fra le due metà dell´organo del pensiero. Ai volontari era stato promesso un premio in denaro per ogni manche del gioco conclusa senza errori. Ma quando il puzzle delle lettere passava da due a tre sessioni simultanee, la quantità di sbagli commessi addirittura triplicava nonostante gli sforzi dei giocatori. La ricerca di Science, spiega uno degli autori Etienne Koechlin intervistato dalla Bbc, spiega come mai «le persone riescano a scegliere bene quando si trovano di fronte a due opzioni, ma finiscano col prendere decisioni irrazionali quando le strade possibili diventano tre o più».
Di fronte a troppi birilli da far roteare nell´aria, la corteccia prefrontale perde le sue doti di giocoliere e finisce col "far cadere a terra" uno dei tre compiti da affrontare. «Questo limite - scrivono ancora i ricercatori su Science - è purtroppo un freno alla nostra capacità di effettuare ragionamenti profondi, in cui siamo chiamati a prendere in considerazione molte alternative. Il nostro cervello funziona secondo un sistema binario e sa scegliere bene quando è chiamato a valutare solo due opzioni».
Oltre a scoprire che il nostro cervello è ben capace di svolgere due compiti insieme - gli studi precedenti di neuroscienze avevano messo in luce più che altro i limiti del multitasking - i ricercatori francesi si sono accorti che i volontari impegnati nel gioco delle parole non si dedicavano alle due partite in maniera esattamente simultanea. La corteccia prefrontale infatti faceva slittare di continuo l´attenzione da una partita all´altra, impegnando ora l´uno ora l´altro emisfero. L´area del cervello che svolge il compito di vigile urbano tra i due emisferi, deviando in continuazione l´attenzione fra un compito e l´altro, è molto più sviluppata negli esseri umani che non nelle altre specie. Sembrerebbe questo il motivo per cui le scimmie non vengono osservate mangiare mentre spulciano un compagno o viceversa.
L´abilità del cervello umano dunque sta tutta nel saltare da un compito all´altro con grande velocità, riprendendo la partita lasciata in sospeso senza perdere il filo e dando l´impressione che l´attenzione non sia mai stata distolta da nessuno dei due compiti. Tanto rapidi sono i salti di campo che il cervello riesce a compiere, da darci l´impressione di giocare effettivamente in contemporanea sui due tavoli, come i grandi scacchisti impegnati in partite simultanee ma che in realtà devono focalizzarsi su un match alla volta per decidere la prossima mossa.

Repubblica 26.4.10
Lo psichiatra Pietro Pietrini, esperto di multitasking e autore di parte della ricerca
"Ma questa specializzazione è la nostra marcia in più"

ROMA. Il primo capitolo della ricerca di Science è stato scritto in Italia. Dove Pietro Pietrini, psichiatra e direttore del dipartimento di medicina di laboratorio e diagnostica molecolare dell´ospedale universitario di Pisa, si era dedicato agli studi sul multitasking con l´aiuto dei giochi di parole e della risonanza magnetica funzionale.
Finora del multitasking si erano messi in evidenza i limiti. Ora scopriamo che il cervello ha una marcia in più.
«Gli emisferi del cervello non sono come i polmoni e i reni, che svolgono entrambi la stessa funzione. Nell´organo del pensiero le due metà sanno dividersi i compiti e specializzarsi. Con in più il ruolo di controllore svolto dalla corteccia frontale. E stiamo parlando solo di un gioco al computer. Se a questa attività aggiungiamo il mondo delle emozioni o del controllo della volontà, ci rendiamo conto di quale realtà composita e articolata sia il nostro cervello».
Con computer e telefonini sempre accanto, due compiti potrebbero sembrarci pochi.
«Eppure dal punto di vista dell´evoluzione questo schema è molto funzionale. Se un uomo insegue una preda, dedica tutte le sue energie alla caccia. Ma non può concentrarsi esclusivamente su quell´attività. Deve avere la possibilità di accorgersi, per esempio, di un eventuale altro predatore che stia cacciando lui. Deve cioè avere sempre la possibilità di passare a un nuovo compito più importante di quello che sta svolgendo. Se poi le strade da seguire sono più di due, verranno prese in considerazione in tappe successive, come nei match a eliminazione dello sport».
(e.d.)

Repubblica 26.4.10
Un convegno a Roma lo ricorda
Giovanni Jervis uno spirito libero

ROMA - Si poteva dissentire da lui, anche ferocemente, ma non ignorare il suo metodo critico, la difesa dell´esercizio della ragione, la visione anti-idolatrica della cultura, l´allergia per le forme più sciatte della divulgazione. «Contro il "sentito dire"», è il titolo del convegno su Giovanni Jervis, scomparso l´estate scorsa a settantasei anni, in programma tra oggi e domani a Roma, presso la facoltà di Psicologia in via dei Marsi.
Psichiatra e terapeuta di formazione analitica, prima allievo di De Martino, poi in duetto-duello con Basaglia, una cattedra di Psicologia dinamica - quella di Jervis è stata una lunga e controversa carriera intellettuale. Dei suoi studi sulla psichiatria sociale e i fondamenti delle teorie psicoanalitiche (Manuale critico di psichiatria, 1975; La psicoanalisi come esercizio critico, 1989), sulle intersezioni tra psicologia, sociologia, antropologia e politica (Contro il relativismo, 2005; Pensare dritto, pensare storto, 2007), parleranno una ventina di relatori - come Mecacci e Onnis, Marramao e Dazzi, Migone e la Gallini. Tra i protagonisti del convegno, c´è Gilberto Corbellini, lo storico della medicina con cui Jervis ha scritto l´ultimo libro (Bollati Boringhieri, settembre 2008). Si chiama La razionalità negata, un titolo che fa il verso a L´istituzione negata, il volume a cura di Franco Basaglia uscito nel ´68 da Einaudi.
Lu. Si.

domenica 25 aprile 2010

l'Unità 25.4.10
Sindrome Ipazia oer la Chiesa del XXI secolo
di Nicla Vassallo
qui
http://www.scribd.com/doc/30461446/IPAZIA-Nicla-Vassallo-sull-Unita-del-25-4-10

Repubblica 25.4.10
Resistenza, le parole che non diciamo più
di Gustavo Zagrebelsky

Le lettere dei condannati a morte della Resistenza non sono state scritte per venire in mano a noi che le leggiamo. Sono state concepite in un momento della vita che solo a pochi è dato di vivere.

Quel momento terribile e solenne della contemplazione attuale della propria morte, quando in lucidità e coscienza si è faccia a faccia con se stessi, spogliati di tutto ciò che non è essenziale. Esse sono indirizzate alla cerchia delle persone più vicine e care, in cui sono riposti gli affetti e da cui nascono e si alimentano le energie vitali che ci conducono ad agire nel mondo. Questi testi sconvolgenti parlano della morte freddamente disposta da esseri umani nei confronti di altri esseri umani e questi ultimi colgono negli ultimi istanti della loro vita, nell´attesa consapevole della fine. Ogni facoltà spirituale deve essere stata provocata fino all´estremo. La psiche non può essere sollecitata più di così, dicono coloro i quali, per un motivo inaspettato, sono scampati alla morte e hanno potuto rendere testimonianza. Le parole scritte in quelle circostanze, soprattutto quelle svuotate dall´uso quotidiano – amore, affetto, perdono, casa, papà e mamma – , dalla retorica politica – patria, onore, umanità, pace, fedeltà al giuramento – o dall´estraneità alla nostra diretta esperienza – torturare, fucilare, impiccare, tradire – tornano d´un colpo a riempirsi di forza e significato essenziali. Sono parole ultime, destinate a restare chiuse entro cerchie affettive limitate. Ma chiunque sia disposto a liberarsi per un momento dall´abitudine della mediocrità che tutto livella, smussa e ottunde, può meditarle in sé, senza intermediari.
Se affrontiamo questa lettura emotivamente gravosa, facciamolo col pudore di chi sa di accingersi a qualcosa simile a una profanazione, in colloquio diretto e silenzioso, da coscienza a coscienza. Soprattutto, leggiamo col pudore di chi sa guardarsi dalla presunzione del voler giudicare. Queste lettere chiedono di comprendere, non di giudicare. Nessuno di noi – intendo: nessuno di coloro che non appartengono alla generazione di allora – può pretendere l´autorità del giudice. Se è vero che ci si conosce soltanto nel momento decisivo della scelta esistenziale e che solo lì ciò che di profondo è latente in noi viene a galla, noi non ci conosciamo. Non siamo stati messi alla prova. È facile, ma futile, profferire giudizi e perfino esprimere adesione ideale, ammirazione per gli uni e sdegno o condanne per gli altri. Dovremmo sempre chiederci chi siamo noi, per voler giudicare. Dovremmo temere che qualcuno ci dica: ti fai bello di ciò che è di altri; tu forse saresti stato dalla parte dei carnefici o saresti stato a guardare. E non sapremmo come rispondere.
Conosciamo le condizioni del nostro Paese all´8 settembre del 1943 e immaginiamo quali poterono essere le molte ragioni, ideali e personali, influenti sulle scelte che allora a molti si imposero. Nessuno di noi può avere la certezza che, in quelle condizioni ed esposti alle stesse pressioni, saremmo stati dalla parte giusta e non saremmo stati portati dalle circostanze dalla parte dei criminali. Questo non significa affatto parificare le posizioni o giustificare i crimini. Significa cercare di capire, dicendo con franchezza a noi stessi: rendiamo grazie alla provvidenza o alla sorte perché ci è stato risparmiato di vivere in quel tempo.
La generazione che ha vissuto i fatti di cui parliamo non esiste più. Per le nuove generazioni e, soprattutto, per chi oggi è ragazzo, non si tratta di rivivere o rievocare vicende in cui vi sia stato un coinvolgimento anche soltanto indiretto, attraverso il ricordo di chi le visse. Inevitabilmente questi testi sono letti oggi con un´attutita percezione dell´originario significato politico e impatto emotivo, nel momento della lotta per la liberazione dall´incubo totalitario, dal nazismo e dal fascismo, nel momento in cui si coltivava l´aspirazione a un´Italia nuova, giusta, civile, pacificata. «Sappi che tuo figlio muore per un alto ideale, per l´ideale della Patria più libera e più bella», scrive un anonimo. Gli orientamenti politici erano diversi, ma comune era l´idea, anzi la certezza di un riscatto morale imminente, che avrebbe trasformato nel profondo, e in meglio, la società italiana. Le Lettere sono un´elevatissima testimonianza di questa tensione. In tutte si legge la consapevolezza di vivere un momento di svolta nella storia d´Italia. Il dopo non avrebbe dovuto, né potuto assomigliare al prima. Ai figli piccoli, che non possono ancora comprendere, si dà l´appuntamento a quando, cresciuti, sarebbero stati in grado di capire per quale altra Italia i padri e le madri avevano combattuto ed erano morti. In momenti critici come quelli degli anni ´43-´45, non si poteva restare a guardare. Tutti dovevano contribuire. In molte lettere è testimoniata l´irresistibilità dell´appello a prendere posizione. «Nel mio cuore si è fatta l´idea (purtroppo non da troppi sentita) che tutti più o meno è doveroso dare il suo contributo», scrive una donna ai fratelli, per giustificare, anzi scusare la sua scelta. Molti sentono così di dover spiegare il perché del loro "aver preposto" l´Idea, la Patria o il dovere ai legami familiari e domandano perdono di questo.
Naturalmente, non tutti stavano dalla stessa parte. Nei confronti di chi stava dall´altra, la disposizione spirituale è molto varia. Alcuni chiedono vendetta. Ma altri parlano del nemico col rispetto dovuto a chi una scelta, sbagliata ma non necessariamente in malafede, ha pur fatto: «Negli uomini che mi hanno catturato ho trovato dei nemici leali in combattimento e degli uomini buoni durante la prigionia». Altri, ancora, si rimettono a una giustizia superiore, invitando chi resta a fare altrettanto: coloro che mi uccidono sono uomini e «tutti gli uomini sono soggetti a fallire e non hanno perciò diritto di giudicare poiché solo un Ente Superiore può giudicare tutti noi che non siamo altro che vermi di passaggio su questa terra». Altri ancora invitano al perdono: «Perdono a coloro che mi giustiziano perché non sanno quello che fanno e non sanno che l´uccidersi tra fratelli non produrrà mai la concordia». Il disprezzo, se mai, è verso gli inescusabili, coloro che non prendono posizione, coloro "che non furon ribelli né pur fedeli" (Inferno, III, 38-39), cioè gli ignavi, gli "attendisti". Su questo punto dobbiamo constatare una grande distanza tra noi e chi ha lasciato la vita per una ragione ideale sul fronte antifascista ma, allo stesso modo, anche chi ha combattuto sul fronte opposto. Si estende ogni giorno di più un giudizio che non solo assolve, ma addirittura valorizza l´atteggiamento di chi è stato a guardare, per poi eventualmente godere dei frutti di libertà ottenuti col sacrificio di altri. Nelle Lettere, leggiamo invece parole come queste: «Quando penso che siamo vicini molto vicini alla nostra ora, mi raccomando e son più che certo che tutti in quell´ora scatteranno in piedi, impugneranno qualsiasi arma e colui che non l´adopera sarà un vile e un codardo». Non risulta che l´accanimento revisionistico di tutto ciò che ha a che fare con i fatti e gli atti della Resistenza sia arrivato direttamente ed esplicitamente alle Lettere, per sminuirne, relativizzarne, se non negarne l´alto valore civile. Può essere che si arrivi anche a questo. Il pericolo è rappresentato piuttosto da un oblio che si vorrebbe giustificato da un´interpretazione pacificatrice da stendere su quegli avvenimenti. Essi sarebbero il frutto di un´esasperazione incompatibile con l´autentico nostro carattere nazionale, un carattere rappresentato da quella parte maggioritaria del popolo italiano che ha assistito da estranea o con atteggiamenti di puro soccorso umanitario, nell´attesa dell´esito degli eventi. Secondo questa visione, i combattenti sui due fronti, fascista e antifascista, avrebbero rappresentato entrambi una deviazione estranea alla nostra tradizione: una tradizione moderata, ostile agli eccessi, aperta a ogni aggiustamento e a ogni compromesso, garantita da una presenza moderatrice e stabilizzatrice come quella della Chiesa cattolica.
Gli uni e gli altri, insieme alla lotta mortale che combatterono e alle ragioni etiche e politiche che li contrapposero, sarebbero così da condannare alla pubblica dimenticanza, come elementi accidentali e come fattori di perturbazione della storia che autenticamente appartiene al popolo italiano. In questo modo, fascismo e antifascismo sono prima accomunati in un medesimo giudizio di equivalenza, per poter poi essere congiuntamente messi ai margini della pubblica ricordanza. All´antifascismo, quale fattore costitutivo delle istituzioni repubblicane, verrebbe così a sostituirsi qualcosa come un "nonfascismo-nonantifascismo", conforme al genio, che si pretende propriamente italiano, di procedere diritto tra opposti eccessi. Questa tendenza è pienamente in atto nel senso comune, alimentata da una storiografia e da una memorialistica sorprendentemente sicura di sé nelle definizioni del carattere nazionale e nella qualificazione dell´attendismo come virtù di saggezza pratica, invece che come vizio di apatia: una storiografia che, quando si avventura su simili strade, è più ideologia che scienza.
Chi ha sacrificato la vita, non importa da che parte, trarrebbe motivo di sconforto e offesa da questo giudizio liquidatorio. Sarebbe forse portato a riportarsi a quanto stabilito da Solone, tra le cui leggi – riferisce Plutarco (Vita di Solone, 20,1) – ve n´era una, del tutto particolare e sorprendente, che privava dei diritti civili coloro i quali, durante una stasis (un conflitto tra i cittadini), non si fossero schierati con nessuna delle parti contendenti. Egli voleva, a quanto pare, che nessuno rimanesse indifferente e insensibile di fronte al bene comune, ponendo al sicuro i propri averi e facendosi bello col non partecipare ai dolori e ai mali della patria; ma voleva che ognuno, unendosi a coloro che agivano per la causa migliore e più giusta, si esponesse ai pericoli e portasse aiuto, piuttosto che attendere al sicuro di schierarsi dalla parte dei vincitori.
Una simile legge sembra dettata da indignazione morale e non da prudenza politica. L´idea di una guerra civile obbligatoria certo spaventa. Ma giustificare l´ignavia e l´opportunismo, farne anzi una virtù pubblica, è cosa diversa e incomprensibile, a meno che si abbia in mente un popolo prono e incapace perfino di avvertire d´esserlo. Ma, forse, Solone mirava a qualcosa di più profondo: non alla guerra civile obbligatoria per legge, ma alla prevenzione della guerra civile. Tutti devono sapere che, nel momento della crisi che precipita, nessuno sarà giustificato se avrà fatto solo da spettatore dei drammi e delle tragedie dei suoi concittadini, da estraneo. Tutti allora operino per evitare che quel momento arrivi; operino dunque preventivamente per la concordia, per la pace, per isolare fanatici, violenti e demagoghi.
Le Lettere contengono la voce d´un altro popolo, di uomini e donne, d´ogni età e classe sociale, consapevoli del dovere della libertà e del prezzo ch´essa, in momenti estremi, comporta. Chi le legge oggi vi trova un´Italia diversa dalla sua, cioè dalla nostra, dove non si esitava a correre pericoli estremi per parole che oggi non si pronunciano più o, se le si pronunciano, lo si fa con il ritegno di chi teme d´appartenere a una generazione di sopravvissuti. Sono quasi una sfida, un invito a misurarci rispetto a quel tempo, il tempo della libertà e della democrazia riconquistate; un invito a domandarci quale strada abbiamo percorso da allora.
Il testo è parte dell´intervento che sarà letto stasera alle 21 all'Auditorium di Roma in occasione del 25 aprile

Corriere della Sera 25.4.10
Bersani: un patto anche con l'ex capo di An
di Monica Guerzoni
qui
http://www.scribd.com/doc/30461154/Corriere-Della-Sera-Bersani-un-patto-anche-con-l%E2%80%99ex-capo-di-An-25-apr-2010-Page-5

Corriere della Sera 25.4.10
La paura di elezioni ridà corpo al progetto del cartello anti premier
di Massimo Franco
http://www.scribd.com/doc/30461059/Corriere-Della-Sera-La-paura-di-elezioni-rida-corpo-al-progetto-del-%C2%ABcartello%C2%BB-anti-premier-25-apr-2010-Page-5

il Riformista 25.4.10
Bersani lancia il Cln
Nel Pd vincono i pro-Fini
«Ha ragione, muoviamoci»
di Alessandro Calvi
qui e qui
http://www.scribd.com/doc/30461977
http://www.scribd.com/doc/30461975

Repubblica 25.4.10
Il direttore di Farefuturo, Campi. Intesa col Pd se prevarranno i falchi del Pdl e il ricorso al voto anticipato
"Se salta tutto pronti al governo tecnico ma solo per rifare la legge elettorale"
Le liste di proscrizione sono una roba da antica Roma, una visione barbarica della politica. Spero non accada
di Alessandra Longo

ROMA - Alessandro Campi, direttore scientifico di "Farefuturo", cioè della fondazione, con annessa rivista web, considerata il quartier generale del pensiero finiano, e perciò temuta e detestata dai sacerdoti fedeli a Silvio, riassume lo stato attuale del Pdl: «Siamo di fronte ad un grandissimo caos». Un caos dove può succedere di tutto: dalla caccia agli uomini di Fini, in stile «antica Roma», con inevitabile risposta dei braccati in Parlamento, allo scenario ultimo, le elezioni anticipate. Campi ragiona su quest´ultima ipotesi che potrebbe albergare nella testa di Berlusconi: «Si aprirebbero grandiose incognite». Il direttore di "Farefuturo" non vede certo Fini appassionarsi alla «nascita di un programma politico comune» con le opposizioni, per intenderci la linea Cln di queste ore. Ma se si arrivasse ad un passo dalle urne? Silenzio di qualche secondo ed ecco che cosa evoca il professore: «Un governo tecnico, di transizione, di nessun colore politico, con un solo punto all´ordine del giorno: l´eliminazione di quell´obbrobio che è l´attuale legge elettorale». Messaggio chiaro agli avversari interni.
Professor Campi, passano i giorni ma non tira aria di ricomposizione tra Fini e Berlusconi. Lei come la vede? Come andrà a finire?
«Sicuramente nessuno immaginava una chiusura così netta, brusca, brutale, con la firma di quel brutto documento finale, il cui contenuto nega l´esistenza stessa di un partito che si vuole liberale. Il Pdl e Berlusconi hanno perso un´occasione. Il premier ha vissuto come un affronto personale il gesto di Fini. Ha un´idea cosmetica della lotta politica. E´ abituato solo agli omaggi in pubblico».
E adesso è cominciata la caccia al finiano.
«L´ho letto sui giornali. Spero non sia così, spero che siano voci irresponsabili messe in giro dai falchi del berlusconismo. Le liste di proscrizione sono roba da antica Roma, una visione barbarica della politica. Potrebbero innescare la legittima reazione difensiva dei "bersagli"».
Cioè?
«Dovendo soccombere, uno vende cara la pelle. Il rischio è quello di una guerriglia tattico-parlamentare che potrebbe poi mettere in crisi il governo. Ma io spero che tutto questo non accada. C´è anche un´altra ipotesi: che la drammatizzazione di queste ore sia voluta, cercata, che Berlusconi si sia messo in testa di andare ad elezioni anticipate».
E allora?
«Allora si andrebbe incontro a grandiose incognite. Il percorso per le elezioni anticipate, ammesso che il capo dello Stato lo conceda, non è così lineare. Qui si inserisce lo scenario evocato da Bersani, la chiamata alle armi...».
Potrebbe interessare ai finiani?
«Si possono immaginare soluzioni parlamentari di intesa, di accordo, ma non in chiave di salvezza pubblica. Le aspettative del centrosinistra nei confronti di Fini sono un errore, sono indicative di una grande debolezza. Non è Fini il grimaldello, non è lui che può togliere le castagne dal fuoco alla sinistra. Non vedo la nascita di un programma politico comune. Il comitato di salvezza è un´altra forma di radicalismo».
E che cosa si immagina?
«Credo che, al caso, l´unico spazio di accordo possibile tra il centrosinistra e i finiani, come li chiamate voi, è quello che prevede il cambio di questa legge elettorale. Un cambio nel nome e per conto del popolo italiano, così tanto evocato».
Un cambio affidato a chi?
«Ad un governo tecnico, di transizione, con nessun valore politico. Comunque Fini ha altro in testa».
Esattamente cosa?
«Vuol portare avanti il suo progetto politico di una destra alternativa a quella forzista-leghista, una destra più morbida. Si è qualificato su alcuni temi come la laicità, l´immigrazione. Adesso inizia la fase due: deve allargare, aggregare. Non ha in mente una microcorrente di reduci. Ha un obiettivo alto. Dentro o fuori il Pdl lo perseguirà».

Repubblica 25.4.10
Nichi Vendola
"Non tendiamo la mano alla destra un fronte comune e li batteremo"
Il governatore pugliese: "In caso di crisi di governo non ho paura delle elezioni anticipate"

ROMA - «Io non ho paura di elezioni anticipate». Nichi Vendola, il "governatore" della Puglia in pole position come candidato premier del centrosinistra (se il Pd fosse disposto a cedere il passo a un "papa straniero"), non è d´accordo con Bersani. Non lo convince il "Cln", il comitato di salute pubblica allargato anche a Fini, che il segretario del Pd ha proposto. Piuttosto, dice, ci vuole «un player contro la destra in crisi, un giocatore per l´alternativa».
Ma lei Vendola, vorrebbe elezioni anticipate?
«Se una coalizione di governo si rompe in modo verticale, su elementi strategici di fondo, è oggettiva la conseguenza di tornare alle urne. Non dovrebbero essere uno spavento per l´opposizione. Ma il centrosinistra è più preoccupato del centrodestra nello scongiurare le elezioni anticipate e questo la dice lunga sul fatto che il cantiere dell´alternativa è tutto da costruire».
La proposta di un Cln allargato anche a Fini, la condivide?
«Questa disponibilità mostra una contraddizione. La destra ci offre il più repellente dei terreni di confronto, cioè la modifica della Costituzione e la deriva plebiscitaria passa proprio attraverso la rottura della cultura costituzionale del paese».
Il segretario del Pd, Bersani chiama a raccolta l´opposizione: già fissato l´incontro?
«So che mi cercherà, sì. Penso anch´io che un primo incontro tra tutte le forze dell´opposizione sia molto importante per un promemoria comune. Propongo la convocazione degli Stati generali dell´alternativa, non solo i partiti del centrosinistra ma anche movimenti, associazionismo...».
(g.c.)

Corriere della Sera 25.4.10
Pedofilia. In Belgio trecento casi
Via alla maxi indagine
di Ivo Caizzi
qui
http://www.scribd.com/doc/30461097/Corriere-Della-Sera-%C2%ABIn-Belgio-trecento-casi%C2%BB-Via-alla-maxi-indagine-25-apr-2010-Page-12

Repubblica 25.4.10
C'era una volta il Primo Maggio
Le piazze insanguinate del "sol dell´avvenir"
di Nello Ajello

La festa compie 120 anni. Una mostra ne racconta la fase eroica, quando ad attendere i lavoratori in piazza c´erano le truppe armate di mitragliatrici

Manifesti, verbali di questura, bandiere, vecchi giornali I primi anni della festa del lavoro in Italia vengono ripercorsi da venerdì prossimo a Roma in una mostra all´Archivio centrale dello Stato. Una storia di conflitti sociali e di speranze politiche che Mussolini cercò di cancellare per decreto e che tornò con la Liberazione

«Il giorno primo maggio prossimo non si dovrà permettere alcuna processione sulle vie e nelle piazze», ordina, in data 20 aprile 1890, una direttiva emanata dal ministero dell´Interno ai «Signori Prefetti del Regno». Con il termine vagamente canonico di «processione» ci si riferisce a cortei, raduni e assembramenti connessi alla celebrazione di quella data: il primo maggio, appunto. Il documento è esposto su un pannello della mostra sulla storia di quella ricorrenza, che, intitolata Il Primo Maggio tra festa e repressione, e organizzata dalla fondazione Pietro Nenni, verrà inaugurata il 30 aprile all´Archivio centrale dello Stato. La ricorrenza del primo maggio - che ora compie centoventi anni - cominciava a diventare in quella fine Ottocento, un appuntamento radioso o una rituale emergenza. E non soltanto in Italia. Già nel 1889, nel congresso della Seconda Internazionale a Parigi, quel giorno di primavera dell´anno successivo viene per dar vita ad una festa nella quale i lavoratori manifesteranno - fra scampagnate, balli e bicchierate - il proposito di lottare per la giornata di otto ore.

Nella risoluzione approvata al congresso si ricorda che una manifestazione di quel tipo è stata fissata per il primo maggio 1890 dalla American Federation of Labor in un raduno tenutosi a St. Louis. La mitologia del primo maggio era stata segnata, in partenza, da un evento drammatico: proprio in quel giorno, nel 1886, in una fabbrica di Chicago, durante un comizio di protesta contro dei licenziamenti, la polizia aveva fatto quattro vittime tra gli operai. Ci fu poi l´arresto di alcuni sindacalisti anarchici. Quattro di loro vennero impiccati l´11 novembre. Non a caso, in una delle abituali direttive del nostro ministero dell´Interno - via telegrafo, stavolta - si vietavano, oltre che la festa di maggio, «manifestazioni illegali» eventualmente indette «per anniversario morte anarchici Chicago».
In Italia, comunque, la miccia s´è accesa. La più cruenta fra le manifestazioni del primo maggio si ha a Roma nel 1891: qui, dopo un comizio, la polizia uccide l´operaio Antonio Piscistrelli. L´anno successivo, a Milano, i lavoratori vengono dispersi con durezza. Incidenti si susseguono a Napoli. A Roma, quartiere Testaccio, così gli operai accolgono i militari inviati a reprimerli - dei poveracci che gli somigliano: «Eccoli, sono i fratelli che vengono contro i fratelli!».
La dialettica fra manifestanti e autorità straripa. S´intitola ritualmente Primo maggio un "numero unico" de Il Muratore, edito a Milano il 20 aprile 1892. «Ora va, o Primo Maggio», si legge nell´editoriale, «nei ciechi abituri dei campi, dove si soffre e si dispera. Porta una speranza nelle povere case del proletariato cittadino». Ma che cos´è il primo maggio?, incalza un altro articolo. «È una rivolta, una sedizione? No. È invece la pubblicazione solenne della volontà dei lavoratori...».
"Il Primo Maggio e gli operai" è il titolo che campeggia sull´Unione, organo dei repubblicani di Catania. È un veemente attacco alla borghesia firmato da Camillo Prampolini: «Badate», così egli sfida i moderati, «voi siete pochi e noi siamo la moltitudine!». Sullo stesso foglio l´anarchico Amilcare Cipriani esorta i lavoratori a «unirsi e combattere pacificamente fino a quando la pazienza lo permetterà».
Simili avvertimenti scuotono i paladini dell´ordine. Analogo allarme suscitano le canzoni «sovversive». A cominciare da quella, destinata a diventare celebre, che porta la firma dell´«Avvocato Filippo Turati di Milano». Comincia così: «Su fratelli, su compagni / su, venite in fitta schiera. / Sulla libera bandiera / splende il sol dell´avvenir». Nel sequestrare l´inno, le autorità di polizia avvertono che, «ove esso si canti in pubblico» si procederà «all´arresto dei colpevoli».
Tanta severità riflette, è ovvio, il costume del tempo. Nella mostra romana figura un "Regolamento delle Cartiere Meridionali" in cui si elencano le pene inflitte agli addetti per ciascuna mancanza. «Allontanarsi dal proprio posto per fumare o dormire» comporta quindici giorni di sospensione. «Dormire in piedi»: due ore e mezza di lavoro supplementare; sanzione identica per l´atto di «zufolare».
Ma torniamo al primo maggio. Sono così prevedibili gli arresti che la Questura di Roma s´impegna per tempo a trovare una sistemazione ai detenuti. E fa un po´ di conti. «Con sfollamenti da farsi in questi giorni potranno aversi nelle carceri circa 70 posti disponibili». Se non bastano, si potrà «usufruire delle Terme». A Napoli i questurini individuano le fogne come possibile quartier generale dei sovversivi. Esse saranno sorvegliate «a cura di quest´Ufficio». Nel documento si censiscono con minuzia le «imboccature» cloacine da vigilare.
Come la ricorrenza è diventata una consuetudine, così cominciano ad esserlo le repressioni. Del tutto consono a questo clima è il telegramma inviato dal pur risoluto presidente del Consiglio Luigi Pelloux al prefetto di Roma in occasione di un primo maggio fine secolo: «Lascio alla Signoria Vostra provvedere come meglio crede purché sia mantenuto divieto pubbliche manifestazioni».
Anche alcuni fenomeni di crescita sociale acuiscono gli scontri di piazza. La statizzazione delle ferrovie, ad esempio. Nel 1905, a Foggia, durante una manifestazione contro le norme antisciopero contenute nel disegno di legge per il riordino del traffico, l´intervento della polizia causa quattro morti. Il successivo primo maggio sono vietate in città perfino le processioni religiose.
Tanto rigore andrà attenuandosi con il diffondersi di municipi a maggioranza socialista. Sembra sbiadire, così, il tabù del primo maggio e della relativa giornata di sciopero. Nel 1912 il prefetto di Roma informa la Direzione della P. S. sulle iniziative indette in ciascun paese della provincia per celebrarlo. «Albano Laziale raccoglierà al Municipio gli alunni delle elementari. Ad Anzio repubblicani e socialisti terranno separatamente banchetto».
Con l´impresa di Libia e poi con la Grande guerra, l´accento dei proletari cade sull´antimilitarismo. Con i maschi al fronte, cresce la forza-lavoro delle donne. Risveglio femminile, supplemento al Lavoro di Busto Arsizio per il primo maggio 1916, si apre con un "neretto" in cui si ricordano le ore che le redattrici di fabbrica hanno «sottratto al sonno» per compilare quel foglio. Ma poi si va più sul concreto. «Disertate le officine!», si ordina alle lettrici. «Riaffermate la vostra fede nell´Internazionale».
Nel dopoguerra, gli scontri di piazza assumono una valenza particolare. A tre giorni dal primo maggio del 1920, il questore di Roma decide di vietare il corteo, ipotizzando «incidenti incresciosi» ad opera di «elementi antibolscevichi e nazionalisti». Si avverte un´eco di guerra civile. Non per nulla il documento prevede di mettere a guardia di Regina Coeli cento militari muniti di mitragliatrice e di destinarne venti a presidio delle Mantellate, il carcere femminile.
Il primo maggio è ormai in coma. Porterà la data del 19 aprile 1923 il decreto, firmato dal re Vittorio Emanuele III e da Mussolini, con il quale «è soppressa la festa di fatto del primo maggio». Più avanti si stabilisce che «tutte le pattuizioni intervenute tra industriali ed operai per la giornata di vacanza dovranno essere applicate per il 21 aprile (Natale di Roma, ndr)».
Tra i manifesti a suo tempo sequestrati e ora presenti nella mostra, uno m´è parso eloquente nella sua malinconia. Raffigura il sole dell´avvenire con falce e martello. Porta scritto: «Il 21 aprile sia maledetto. È la festa degli assassini».

Repubblica 25.4.10
E adesso è musica per ragazze e ragazzi
di Miriam Mafai

Soppressa, per volontà di Vittorio Emanuele III e di Mussolini, con un decreto del 19 aprile 1923, la festa del primo maggio sopravviverà per molti anni, durante il fascismo, nella memoria degli sconfitti. Era stata, una volta, una festa, e qualcuno continuava a celebrarla, infilandosi un garofano rosso all´occhiello della giacca, o disertando il luogo di lavoro per andare in qualche osteria con la famiglia e qualche amico. In quegli anni in occasione del primo maggio, secondo la polizia, si registrarono attorno ad alcune fabbriche di Milano, Torino, Genova, lanci di volantini e scritte sui muri: povere e pericolose manifestazioni di protesta che si intensificheranno negli anni di guerra.
Ufficialmente soppresso insomma ma mai dimenticato, il primo maggio, dopo aver vissuto timidamente, clandestinamente anche nei venti anni del fascismo, riesploderà subito dopo la Liberazione, come una grande festa dei lavoratori, secondo la tradizione che prevedeva il corteo, canti popolari, un allegro sventolio di bandiere, distribuzione di garofani rossi e, a conclusione, il comizio dei dirigenti sindacali.
Così lo vivemmo a Roma subito dopo la Liberazione: gli edili, i disoccupati, i dipendenti pubblici, le donne, i giovani arrivati a frotte, a piedi, in bicicletta, sulle camionette, occuparono sventolando cartelli e bandiere e cantando, tutta piazza del Popolo. L´unità sindacale era di freschissima data e furono tre gli oratori: Pastore per i democristiani, Buschi per i socialisti e Di Vittorio per i comunisti. E, a sorpresa, alla fine, venne data la parola anche a una donna, Maddalena Secco, responsabile, se non sbaglio, della Commissione femminile della Cgil.
La grande festa del primo maggio - questa folla di operai e contadini felici - ispirò in quegli anni anche poeti e pittori. Ricordo certi quadri pieni di bandiere rosse; uno, in particolare, intitolato proprio Primo Maggio che Armando Pizzinato espose alla prima Biennale di Venezia dopo la Liberazione e che venne acquistato, con nostro stupore, dall´americana Peggy Guggenheim, e che da allora fa parte della sua collezione.
La festa del lavoro ebbe, negli anni delle grandi lotte per la riforma agraria, anche le sue vittime. Il primo maggio del 1947 una folla di contadini, con le loro bandiere, le donne e i bambini, arrivarono a Portella della Ginestra per celebrare la festa e chiedere la riforma in Sicilia. All´improvviso fu la sparatoria, che lascerà a terra quattordici vittime, di cui tre bambini. Tre anni dopo in Abruzzo, a Celano, una folla di braccianti era riunita in piazza il 30 aprile per festeggiare una prima vittoria contro il principe Torlonia e preparare la manifestazione del giorno dopo all´insegna della richiesta della riforma agraria per il territorio del Fucino. Ma qualcuno spara, e restano a terra due braccianti. Non sarà una festa, quel primo maggio a Celano, ma una celebrazione delle vittime.
Nel corso degli anni e delle generazioni il primo maggio conserverà il suo carattere di festa e insieme di lotta: per l´occupazione, per il salario, per le riforme, segnando così le tappe della crescita, delle vittorie o delle sconfitte del movimento sindacale. Ricordo, sul finire degli anni Sessanta e poi nel corso degli anni Settanta le prime celebrazioni unitarie, l´emozione provata vedendo sul palco, insieme, i dirigenti delle tre organizzazioni sindacali, Cgil, Cisl, Uil, e nella piazza sventolare, insieme, le loro bandiere. E dopo gli anni feroci del terrorismo, indimenticabile fu a Roma il primo maggio del 1981: una felice festa popolare, grazie alla fantasia e alla iniziativa di Renato Nicolini, assessore alla Cultura della giunta Petroselli. Per l´intera giornata la città venne liberata dal traffico, mentre su Villa Borghese, occupata da una folla immensa di bambini e mamme, si alzarono per tutta la giornata le mongolfiere, e alla sera i fuochi d´artificio.
Poi, anche il primo maggio, o meglio la celebrazione del primo maggio è cambiata. Conobbe nuove divisioni, negli anni del cosiddetto "decreto di San Valentino", e poi di nuovo la faticosa ricerca dell´unità. Oggi si celebra dovunque, in modo unitario, come una grande festa musicale che a Roma riempie di giovani e ragazze piazza San Giovanni. Quest´anno è affidata per la prima volta a una donna, Sabrina Impacciatore. Un segno, anche questo, di felice cambiamento.

sabato 24 aprile 2010

l’Unità 24.4.10
«Perché tanti giovani stanno con i Partigiani? Per fare vera politica»
Parla Chiara Gribaudo educatrice ventottenne di Borgo San Dalmazzo: «Con la Resistenza e la Costituzione si può ancora immaginare l’altra Italia»
Rifondare l’antifascismo «La nostra Carta è chiara: lì c’è il federalismo vero basato sulle autonomie comunali e c’è il ripudio della xenofobia attuale»
di Toni Jop

Sanno che non si può dare niente per scontato, che c’è bisogno della loro energia, che la vitalità è contagiosa come il credere insieme ai valori dell’antifascismo e della democrazia. Sono i giovani che «stanno» con i Partigiani, ragazze e ragazzi che hanno raccolto il testimone mai come ora preziosissimo per motivi anagrafici e per problemi politici dagli italiani che possono raccontare quello che hanno visto e vissuto durante il fascismo, la guerra e la lotta partigiana. Sanno che sono liberi di pensare e di muoversi perché prima di loro si è mobilitata una moltitudine a combattere per questo. È soprattutto loro questo 25 aprile. Perché contrastano l’arroganza (e il fascismo non più «velato») di chi vorrebbe cancellare la Festa della Liberazione con il silenzio, con l’imperio o con la forza del mercato. Rispondono allestendo stupefacenti iniziative solari e coinvolgenti, e persino commoventi. Come quella della Liberi Nantes, che farà tornare in vita il campo di calcio «XXV Aprile», fino a ieri abbandonato e lasciato alle intemperie. Chi sta coi Partigiani sa che la democrazia e l’antifascismo hanno bisogno di cure.❖

Parlano di secessione ma a Roma ci stanno comodi, parlano di territorio e democrazia,
ma per loro la soluzione è un nuovo statalismo centralista appeso a un leader che impone atti di fede e osservanza assoluta. Mistificano tutto, dalla storia al vocabolario. Sto nell’Anpi anche per trovare una casa che ospiti i valori su cui voglio fondare la mia esistenza». Chiara Gribaudo ha 28 anni, è nata, vive e lavora come educatrice precaria a Borgo San Dalmazzo, una decina di chilometri da Cuneo. Terra, a proposito, di buon vino e di partigiani. Chiara, che senso ha iscriversi all’Anpi alla tua età?
«Tu chiamale, se vuoi, tradizioni. Ecco, vengo da una realtà che si è conquistata una medaglia d’oro per ciò che ha fatto per salvare dallo sterminio molti ebrei. A Borgo c’era un campo si smistamento. Sono figli di questa terra Duccio Galimberti, Nuto Revelli, Giacosa, Mauri, Barbato».
Mai militato nelle file di un partito di sinistra? «Sì, ci ho provato. Sinistra giovanile, Ds, poi Pd. Ho fatto anche le primarie, ma mi sono sganciata. Mi ha respinto una fredda burocrazia, cercavo un caldo dibattito, ma non voglio sparare sulla sinistra, ha già abbastanza problemi per suo conto...»
Così, ti sei rifugiata nell’Anpi, delusa...
«Abbastanza. Nell’Associazione ho trovato quello che cercavo: lì sono custoditi tutti i valori in cui mi riconosco, dall’antifascismo alla Costituzione. È la Costituzione la cerniera che tiene assieme il nostro passato e il nostro presente. Attuare pienamente la Costituzione è già un grandioso programma politico, nella Carta ci sono tutte le risposte di cui la gente oggi ha bisogno. Non è un Vangelo, ma se si tocca lo si deve fare con immensa attenzione e sulla base di una coralità leale».
Questo vale anche per l’unità d’Italia?
«È stata la lotta partigiana che ha attualizzato il senso dell’unità del Paese. I partigiani combattevano contro fascisti, nazisti e invasori, sono morti per difendere l’integrità fisica e morale di un intero paese, né per il Nord, né per il Sud».
Cosa ti dice la parola «federalismo»?
«Penso faccia parte del mio bagaglio culturale se sta a indicare uno smistamento dei poteri verso il basso, in direzione di istituzioni molto rappresentative, come i comuni. Ma non credo che la Lega operi in questa direzione, le interessa rifondare il potere statuale su basi etniche, decisamente orribile e orribile la mistificazione cui fanno ricorso. Ma attenzione: non criminalizziamo tutti quelli che votano Lega. Non si identificano con Borghezio e nemmeno con la secessione. Il federalismo fiscale può essere utile se non è una mannaia contro i più deboli. L’Italia, ripeto, deve essere una comunità solidale stretta attorno alla Costituzione».
Speriamo. Ma oggi dobbiamo ben registrare una sorta di territorializzazione delle zolle politiche: a Nord la Lega, al centro il centrosinistra, a Sud...In mezzo c’è il presidente della Repubblica, delicato ago della bilancia... «Sì, un ago che, lo ammetto, potrebbe fare qualcosa di più in questa direzione. Intanto, converrebbe rifondare l’antifascismo; diciamo che l’antifascismo è il pilastro su cui riorganizzare moralmente il paese, togliendo terreno ai riscrittori della storia, come Pansa e soci. Siamo stati troppo tolleranti nei confronti di chi, come il premier, ha inteso sottrarsi a un principio politico comune a tutti i paesi occidentali. Bisogna inserire nella scuola lo studio di pagine non lontane della nostra vicenda collettiva. Sai come mi sono avvicinata all’Anpi? Ascoltando, alle superiori, i racconti di ex partigiani...». Scommetti su una identità italiana? «Sì, a patto che accetti di essere un’identità sempre in costruzione, multipla, fondata anche sulla relazione con gli ultimi arrivati».❖

il Fatto 24.4.10
Dal Cile al Belgio, i giorni neri del Vaticano
Nuove accuse contro alti prelati nello scandalo globale sulla pedofilia
Il vescovo di Bruges: “Ho abusato di un ragazzo”. Testimonianze sul religioso chiamato il “santo vivente” di Santiago

Quando ero ancora un semplice sacerdote, e per un certo tempo all’inizio del mio episcopato, ho abusato sessualmente di un giovane nell’ambiente a me vicino. La vittima ne è ancora segnata”. Comincia così la confessione di Roger Vangheluwe, vescovo di Bruges, che ha rassegnato le sue dimissioni dall’incarico episcopale, che il Papa ha prontamente accolto. Nel frattempo, si profila un nuovo scandalo, questa volta in Cile, dove Fernando Karadima, uno dei “prelati più influenti e rispettati” (come riferisce il New York Times) è stato denunciato da quattro uomini che lo hanno accusato di aver abusato di loro per vent’anni. Accuse che indignano i parrocchiani di Karadim, per i quali “il santo vivente”, come viene chiamato, “non avrebbe mai potuto abusare dei suoi fedeli”. Ma – scrive il Nyt – proprio questa settimana un cardinale cileno “ha confermato che la Chiesa locale ha investigato segretamente sulle segnalazioni”.
È davvero in crisi la Chiesa belga: chiamata ad un profondo rinnovamento da Benedetto XVI, che ha nominato primate André-Joseph Leonard (considerato conservatore), al posto del progressista (e arrivato a scadenza di mandato) Godfred Daneels, i belgi devono fare i conti con gli scheletri del passato. “Bisogna interrogarsi – ha detto ieri Leonard – sul modo in cui sono ammesse al sacramento dell’ordine le persone sulle quali ci sono dubbi sulla loro rettitudine”. Leonard ha anche fatto un appello alla diocesi perché “se qualcuno ha subito, nel suo passato, abusi sessuali, mai debba accettare ciò da un prete o da un vescovo”.
Le dimissioni di Vangheluwe avvengono dopo un lungo percorso del vescovo. “Nel corso degli ultimi decenni – dice il prelato – ho più volte riconosciuto la mia colpa nei confronti del giovane, come nei confronti della sua famiglia, e ho domandato perdono. Ma questo non lo ha pacificato. E neppure io lo sono. La tempesta mediatica di queste ultime settimane ha rafforzato il trauma. Non è più possibile continuare in questa situazione”. “È un giorno nero per la Chiesa belga”, chiosa il primate Leonard. “Nessuno – spiega – era al corrente del caso: la vicenda è stata una sorpresa anche per l’entourage del vescovo di Bruges”. Anche Daneels ha chiesto di partecipare a un incontro con le vittime. Il timore è che i casi nella chiesa belga siano molti altri. Leonard, da parte sua, ha la piena fiducia di Benedetto XVI. Non è detto che la stessa cosa sia riservata al cardinal Ossa, arcivescovo di Santiago, capitale del Cile, cheègiuntoall’incaricosotto il precedente pontificato di Giovanni Paolo II, il cui lustro è chiamato appare quanto mai diminuito alla luce delle rivelazioni che susseguono riguardo gli scandali di pedofilia. Si vedrà da come si svilupperà il caso Karadima. Una delle vittime del prelato chiamato in Cile “il santo vivente” James Hamilton, oggi 44enne ha raccontato all’Nyt di “aver ignorato all’inizio il prete mentre tentatva di baciarlo sulla bocca e di toccarlo. Fino a quando, durante un ritiro, Karadima diede un’ulteriore spinta al suo gioco sessuale”.
(A.Gagl.)

il Fatto 24.4.10
La mappa dei condannati di San Pietro
Dalle dimissioni alla cacciata, tutti gli uomini di chiesa che hanno pagato per gli abusi
di Andrea Gagliarducci

N on è possibile tracciare una mappa attendibile e precisa di quanti sono i sacerdoti che hanno effettivamente pagato per i aver effettuato o coperto i casi di pedofilia. L’unico modo è intrecciare articoli di giornale, archivi diocesani, sentenze di processi. E anche lì, qualcosa resta oscuro: che fine fanno i sacerdoti curati, dimessi dall’incarico o addirittura dimessi dallo stato laicale? A quel
punto, è molto difficile seguirne le tracce.
SACERDOTI COSTRETTI ALLE DIMISSIONI Il caso principe è quello di Francis Law, arcivescovo di Boston, che oggi è
arciprete a Roma nella Basilica di Santa Maria Maggiore. Travolto dallo scandalo (che dimostrò come il cardinale americano avesse coperto centinaia di casi di abusi, al limite trasferendo il sacerdote in un’altra diocesi), Law fu praticamente costretto a dare le dimissioni. Così come l’arcivescovo di Vienna Hermann Groer: accusato di molestie, è costretto a dimettersi nel 2005, ma solo tre anni dopo viene allontanato dalla diocesi di Vienna. Contro di lui, come contro Law, non si aprirà mai un processo canonico.
E sarebbero stati oltre 100 i sacerdoti costretti alle dimissioni negli Stati Uniti tra il 2002 e il 2003, dopo che era scoppiato lo scandalo pedofilia. La notizia venne riportata dal New York Times, ma è probabilmente parziale: l’inchiesta riguardava solo una quarantina di diocesi negli Usa, mentre in totale sono 194, quasi cinque volte in più di quelle prese in considerazione dal Nyt.
Ci sono anche casi di battaglie portate avanti direttamente dai vescovi: quello di Pittsburgh, Donald Wuerl, ne imbastì una contro Anthony Cipolla, sacerdote pedofilo: il vescovo lo sospese nell'88, il Vaticano lo ripristinò, e soltanto nel '95, dopo il ricorso di Wuerl, ne avallò la sospensione.
SACERDOTI CHE SI SONO DIMESSI PER LORO VOLONTÀ James Moriarty è il terzo vescovo d’Irlanda ad essersi dimesso spontaneamente dopo che erano state chiarite le sue responsabilità nel commettere abusi. Prima di lui, John Magee, vescovo di Cloyne, segretario di tre Papi, aveva per più di un anno usufruito di una strana soluzione: non amministrava la sua diocesi, ma ne era comunque il vescovo. Anche lui si è dimesso. E prima ancora si è dimesso Donal Murray, vescovo di Limerick. Fa parte dell’operazione purificazione voluta da Ratzinger il fatto che i vescovi si prendano le loro responsabilità. Non è sempre stato così: un’inchiesta del Dallas Morning Views, che ha monitorato un campione di 109 vescovi, ha stabilito che solo 11 si sono dimessi, mentre sono 41 quelli che sono semplicemente andati in pensione. Pochi di meno (39) stanno ancora gestendo la stessa diocesi.
DIMISSIONI ALLO STATO LAICALE È la massima punizione prevista dalla Chiesa. Un calcolo approssimativo stabilisce che – tra il 2001 e il 2010 – sono stati 600 i sacerdoti dimessi allo stato laicale, metà per decreto papale e metà per loro richiesta personale. È,
quest’ultimo, il caso di Stephen Kiesle, che – dopo aver passato tre anni in libertà vigilata per molestie a minori – nel 1985 chiese alla Congregazione della Dottrina della Fede (allora guidata da Ratzinger) le dimissioni allo stato laicale. Una richiesta sostenuta dalla diocesi. Dovette aspettare di compiere quarant’anni perché gli fosse concessa, secondo una consuetudine interna vaticana. Interessante notare come più della metà (325) dei sacerdoti accusati dimessi allo stato laicale siano statunitensi. L’ultimo caso di laicizzazione per abusi è quello di Dale J. Fushek, nella diocesi di Phoenix: il decreto è stato reso noto il 16 febbraio 2010. Si è trattata di una decisione – si legge nel comunicato della diocesi – presa direttamente da Papa Benedetto XVI.
PROCESSO CIVILE Ancora più difficile stabilire quanti casi di sacerdoti pedofili vadano effettivamente a processo. Le organizzazioni di vittime statunitensi (le più precise) hanno riferito di 37 casi arrivati a un processo civile: l’ultimo (marzo 2009) è quello a monsignor Herdigan, di Fresno (California). Il processo ha visto salire sul banco dei testimoni anche Mahony, ex vescovo di Los Angeles.

venerdì 23 aprile 2010

Agi.it 23.4.10
Terremoto: Settimanale "LEFT" su querela Prefetto L’Aquila
qui
http://www.agi.it/l-aquila/notizie/201004221529-cro-rt10216-terremoto_settimanale_left_su_querela_prefetto_l_aquila

l’Unità 23.4.10
Ratzinger chiamato in causa con Bertone e Sodano: hanno insabbiato
Lo scandalo travolge il tedesco Mixa e l’irlandese Moriarty
Vittima Usa denuncia il Papa Abusi, si dimettono due vescovi
Avvocato Usa attacca il Papa e i cardinali Sodano e Bertone per aver «insabbiato» le denunce contro preti pedofili. Si dimettono un presule in Irlanda e il vescovo di Augusta. Mea culpa della Chiesa d’Inghilterra e Galles.
di Roberto Monteforte

Papa Ratzinger, già prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, l’attuale segretario di Stato, cardinale Bertone e il suo predecessore, Angelo Sodano sono stati chiamati a rispondere per «frode e insabbiamento» davanti alla corte del tribunale di Milwaukee negli Usa. È l’avvocato delle vittime del clero pedofilo, Jeff Anderson che torna all’attacco contro la Santa Sede. L’accusa è di aver coperto le molestie sessuali di padre Lawrence Murphy, che avrebbe abusato di 200 ragazzini di una scuola per sordomuti. Questo è il terzo tentativo di chiamata in causa del Vaticano, del legale statunitense che denuncie analoghe, ancora pendenti, ha già avanzato davanti alle corti dell’Oregon e del Kentucky. L’avvocato Anderson è in possesso di lettere raccomandate della vittima al Vaticano in cui nel 1995 chiede aiuto per ridurre padre Murphy allo stato laicale. Anderson afferma che le lettere furono ricevute, ma rimasero senza risposta. Ora l’avvocato Anderson chiede che il Vaticano consegni le liste dei preti molestatori e i dossier segreti su tutti i casi di abuso da parte del clero. Contro la denuncia presentata in Oregon il Vaticano ha fatto ricorso alla Corte Suprema invocando l'immunità che spetta agli stati sovrani. Il giudizio è ancora sospeso.
Continuano le dimissioni di vescovi e le richieste di perdono alle vittime degli abusi. Il Papa ieri ha accolto le dimissioni del vescovo irlandese monsignor James Moriarty, portando così a tre il numero dei vescovi irlandesi che si sono dimessi a causa dello scandalo sugli abusi sessuali. Moriarty aveva presentato le sue dimissioni a dicembre, dopo un rapporto ufficiale che lo citava tra i prelati dell'arcidiocesi di Dublino che avevano coperto i casi degli abusi sessuali di preti su minori. Ieri monsignor Moriarty ha ammesso le sue responsabilità. «Avrei dovuto contrastare la cultura prevalente», ha detto. «Chiedo scusa a tutti i sopravvissuti e alle loro famiglie».
Dimissioni anche in Germania. Le ha presentate al pontefice il vescovo di Augusta, monsignor Walter Mixa, che ha ammesso dopo averlo negato di avere maltrattato bambini quando era sacerdote.
SI SCUSA LA CHIESA D’INGHILTERRA
Percorso di purificazione anche per la Chiesa d'Inghilterra e Galles. Ieri i vescovi cattolici hanno presentato le loro scuse ufficiali per lo scandalo degli abusi sui bambini, affermando che «non esistono scusanti» per quanto è accaduto. Il comunicato della conferenza episcopale inglese e gallese è stato presentato dall'arcivescovo di Westminster Vincent Nichols, che ne ha definito il contenuto «molto sentito» e «privo di ambiguità». Il testo, che verrà distribuito a tutte le diocesi in Inghilterra e Galles, afferma che i sacerdoti che si sono macchiati degli abusi hanno «gettato nella vergogna più profonda tutta la Chiesa». E prosegue: «Questi crimini terribili e la risposta inadeguata di alcuni leader ecclesiastici, addolorano tutti noi». I vescovi chiedono perdono alle vittime e «a chi si è sentito ignorato, non creduto o tradito» e sottolineano il dovere della Chiesa di evitare che gli stessi errori vengano ripetuti. «Le procedure che ora esistono nei nostri Paesi evidenziano ciò che si sarebbe dovuto fare subito. La piena cooperazione con gli organi competenti è essenziale».

l’Unità 23.4.10
La scienza di Ipazia e la violenza cristiana
Il film di Amenabar sulla filosofa del IV secolo trucidata da San Cirillo Non è Hollywood: è uno splendido affresco sull’intolleranza religiosa
di Alberto Crespi

Non capitava da secoli. Si è parlato molto, in questi giorni, di Ipazia: filosofa e matematica, nonché donna attiva in politica nell’Egitto del IV secolo dopo Cristo provincia romana che, prima dell’Impero, era stata non a caso governata da una donna, Cleopatra. La memoria di Ipazia è da sempre parte integrante del «pantheon» femminista, ma stavolta il motivo scatenante è un film: Agorà, fuori concorso a Cannes 2009, solo ora sugli schermi italiani. E se da un lato il dibattito filosofico e scientifico ferve, dall’altro l’uscita del film è accompagnata da un assordante silenzio della Chiesa, che ha deciso di boicottare Agorà sui suoi mezzi di comunicazione.
Bisogna capirli, poveretti: hanno già troppi problemi, di questi tempi, per commentare un film che per altro racconta un’incontrovertibile verità storica. Ipazia, «pagana» non convertita, fu uccisa dai parabolani, la guardia armata del vescovo Cirillo. Costui, poi fatto santo e tutt’ora venerato come tale, era uno spietato uomo di potere i cui sgherri ammazzavano allegramente tutti coloro che rifiutavano di adeguarsi ai nuovi costumi. Nel film, i parabolani ricordano i talebani, e possiamo capire che per la Chiesa avere simili criminali fra i propri «padri» sia fonte d’imbarazzo.
ORBITE ELLITTICHE
Il film di Alejandro Amenabar (The Others, Il mare dentro) è molto bello. È un raro esempio di film spettacolare e speculativo al tempo stesso. Non date retta a chi lo liquida come un prodotto hollywoodiano: non lo è. Ipazia è interpretata dall’inglese Rachel Weisz, figlia di genitori austro-ungheresi, e la produzione è quasi totalmente spagnola. Negli Usa, per la cronaca, non è nemmeno uscito. Lavorando sulle immagini ricorrenti del cerchio e dell’ellissi (Ipazia potrebbe aver intuito, qualche secolo prima di Keplero, le orbite ellittiche dei pianeti), Amenabar realizza una «falsa biografia» di un’eroina sulla cui vita ben poco sappiamo. Più che di Ipazia, Agorà parla di un’epoca in cui le religioni si combattono con violenza per assicurarsi il dominio sulle menti dei semplici. Ipazia non era una donna semplice. Vedere il film significa aiutarla, ancora oggi, nella sua lotta per la ragione.

Un aggiornamento: gli articoli usciti su Agorà dal 16 al 22 aprile
Mario Cirillo
Ipazia Immaginepensiero
16 aprile
Amenabar su Ansa http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/cinema/2010/04/16/visualizza_new.html_1763470646.html

17 aprile
Aldo Lastella su Repubblica http://lastella.blogautore.repubblica.it/2010/04/17/
Tiziana Attili su Agoravox http://www.agoravox.it/Agora-e-Ipatia-la-grande-filosofa.html


18 aprile
Claudia Fiume su Newnotizie http://www.newnotizie.it/2010/04/18/agora-ipazia-il-film-che-litalia-finalmente-vedra/

19 aprile
Il silenzio della chiesa su Ansa http://sphotos.ak.fbcdn.net/hphotos-ak-ash1/hs471.ash1/25822_118954021449590_100000049773227_300576_1285116_n.jpg
Agorà Ansa http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/cinema/2010/04/19/visualizza_new.html_1764389552.html
Il Secolo XIX http://ilsecoloxix.ilsole24ore.com/p/spettacolo/2010/04/19/AMm6sjcD-cattolici_ipazia_amenabar.shtml
Davide Monastra su Eco del Cinema http://www.ecodelcinema.com/agora-amenabar-a-roma-racconta-la-sua-idea-di-cristianita.htm

20 aprile
Maria Pia Fusco su La Repubblica http://sphotos.ak.fbcdn.net/hphotos-ak-ash1/hs436.ash1/24102_414709111807_605131807_5419781_5991188_n.jpg
Leonardo Jattarelli su Il Messaggero http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=98782&sez=HOME_CINEMA
Giulia Battafarano su Panorama http://blog.panorama.it/culturaesocieta/2010/04/20/rachel-weisz-dalla-filosofa-ipazia-di-agora-a-jackie-kennedy/
Oscar Cosulich su Il Mattino http://sphotos.ak.fbcdn.net/hphotos-ak-snc3/hs376.snc3/24102_414714961807_605131807_5419918_5708958_n.jpg
Agorà su Genovapress http://www.genovapress.com/index.php/content/view/36764/46/
Agorà a Milano su C6 TV http://www.c6.tv/archivio?task=view&id=8933
Cinzia Romani su Il Giornale http://www.ilgiornale.it/spettacoli/il_mio_film_attacca_intolleranze_passato/20-04-2010/articolo-id=439002-page=0-comments=1
Paola Azzolini su Il Giornale di Vicenza http://www.ilgiornaledivicenza.it/stories/Cultura%20&%20Spettacoli/144941_martirio_da_laica_per_ipazia/
Achille Della Ragione su Napoli.com http://www.napoli.com/viewarticolo.php?articolo=33804

21 aprile
Armando Besio su La Repubblica http://sphotos.ak.fbcdn.net/hphotos-ak-snc3/hs396.snc3/24102_414712096807_605131807_5419899_6820372_n.jpg
Franco Cardini su Panorama http://blog.panorama.it/culturaesocieta/2010/04/21/il-film-%C2%ABagora%C2%BB-di-alejandro-amenabar-autocritica-in-nome-di-dio/
Sergio Frigo su Il Gazzettino http://www.gazzettino.it/articolo.php?id=98878&sez=CINEMA
Clauda Costa su l'Essenziale http://www.essenzialeonline.it/cinema/Esce-in-sala-Agor-di-Amenabar_14443.html

22 aprile
Federico Orlando su Europa Quotidiano http://www.europaquotidiano.it/dettaglio/117981/da_agora_a_ronconi_di_conformismo_si_muore
Laura Frigerio su Milano Web http://www.milanoweb.com/notizie/cinema-e-spettacolo/8673_-agora-la-vera-storia-di-ipazia-di-alessandria
Agorà su Liguria oggi http://www.liguriaoggi.it/2010/04/22/genova-presentato-il-film-agora-di-alejandro-abenabar/


l’Unità 23.4.10
Il cosmo rivelato dagli scrittori
Filosofia naturale Una «ininterrotta linea galileiana» da Dante all’Ariosto, da Leopardi a Calvino, fino a Gadda... I poeti sono strumenti di diffusione democratica del sapere. Ci spiega il perché un saggio del filosofo Mario Porro
di Pietro greco, Gaspare Polizzi

Se avesse scritto il suo saggio per la Letteratura italiana diretta da Asor Rosa per Einaudi – ricorda Mario Porro nel suo Letteratura come filosofia naturale (Medusa, Milano 2009) – Calvino lo avrebbe intitolato La letteratura e la filosofia naturale, e in un saggio del 1969 definiva Gadda l’ultimo «filosofo naturale». L’espressione per molto tempo è stata sinonimo di «scienza»: Newton scrisse i Principi matematici della filosofia naturale e ancora nel 1970 Monod sottotitolava la sua opera più nota – Il caso e la necessità – Saggio sulla filosofia naturale della biologia contemporanea. Ma la corrispondenza tra letteratura e «filosofia naturale» apparve allora, e lo è ancor oggi, provocatoria, forse soltanto perché molti «intellettuali» trascurano di guardare alla dimensione «naturale» presente in ogni narrazione.
Basterebbe ricordare come il rapporto tra cosmologia e letteratura permetta di ricostruire – è ancora Calvino che scrive – «una ininterrotta linea galileiana», che si estende da Dante ad Ariosto, Galileo, Leopardi e Calvino stesso, tutti scrittori cosmici e «lunari».
LUCREZIO
Dante è, con Lucrezio, il «poeta della scienza». Perché nella sua Commedia riesce a raccontare, come Lucrezio, tutta la scienza e tutto il dibattito scientifico del suo tempo. Un esempio per tutti: nel secondo Canto nel Paradiso ci sono tutte le conoscenze del tempo sulla Luna e sulla sua natura. Il Paradiso stesso è un compendio della cosmologia di Aristotele. Ma Dante è anche il primo e il più potente teorico di quel ménage a trois tra letteratura, filosofia e scienza di cui parla Calvino. E basta leggere il Convivio per rendersene conto. La conoscenza, inclusa la conoscenza della natura, spiega Dante, è l’aspirazione più nobile della natura umana: quella, razionale e angelica, che rende l’uomo simile a Dio. Purtroppo molte ragioni impediscono all’uomo di indossare «l’abito di scienza». La letteratura e, in particolare la poesia, sono strumenti utili a coloro che sono impediti se non proprio di sedersi al tavolo degli angeli, almeno di gustare le briciole del pane della scienza che vi viene spezzato. Il poeta, dunque, è strumento di diffusione democratica del sapere.
Anche Galileo si porrà il tema della diffusione della scienza – della filosofia naturale – tra il pubblico dei non esperti. E soprattutto dopo la pubblicazione del Sidereus Nuncius, il 12 marzo 1610, svilupperà la sua pericolosa idea: «comunicare tutto a tutti». Perché intuisce che o la filosofia naturale diventerà patrimonio di quell’opinione pubblica che proprio nel Seicento inizia a nascere o rischierà di perdere la sua partita.
Galileo ha un legame molto stretto – da autentico studioso, da critico direbbe Panofsky – con Dante e con Ariosto. Peraltro anche il legame tra Galileo, Leopardi e Calvino è intrigante: Calvino esalta la dimensione cosmica e «lunare» di Leopardi, confessando ad Antonio Prete (1984) che le Operette morali «sono il libro da cui deriva tutto quello che scrivo» (e pensava alle Cosmicomiche), ma impara anche da Leopardi a scegliere tra i passi galileiani, come avviene con il saggio Le livre de la nature chez Galilée (1985), nel quale alcune scelte corrispondono a quelle di Leopardi nella Crestomazia della prosa (1827), la prima antologia letteraria italiana, contenente a sua volta la prima antologia di prose di Galilei.
Per Calvino «l’opera letteraria come mappa del mondo dello scibile» è «una vocazione profonda della letteratura italiana», effetto di «una spinta conoscitiva che è ora teologica ora speculativa ora stregonesca ora enciclopedica ora di filosofia naturale ora di osservazione trasfigurante e visionaria» (1968). Ma non si tratta di una vocazione solo italiana. Lo dimostra il prezioso Piccolo atlante celeste. Racconti di astronomia, curato da Giangiacomo Gandolfi e Stefano Sandrelli (Einaudi, Torino 2009), che ci conduce alle più diverse forme di narrazione cosmica, dall’Atlante celeste al Sentimento del cielo, alle figure di Astronomi e ai racconti di Cosmologie, in compagnia di Asimov, Bellamy, Bradbury, Collins, Cortázar, Daudet, Høeg, Lem, Munro, Queneau, Stifter, Theuriet, Updike, Vukcevich, Wells (per citare soltanto gli stranieri), «un piccolo atlante per orientarci negli abissi dello spazio, in bilico tra finta scienza, vera scienza, delicate emozioni, artificio poetico, conquista tecnologica e inventiva luddista» (p. VIII), nella convinzione che ciò che accomuna scienza e letteratura è «cercare la misura dell’uomo», «adagiare su un foglio l’incommensurabile», «guardare in faccia il mondo» (p. XIV).
GADDA E LEIBNIZ
Ma la «filosofia naturale» è ancora più ampiamente letteraria nelle grandi narrazioni, nel grand récit (proposto da Michel Serres), che ha da sempre convissuto con la scienza, bisognosa, quando esce dal formalismo algoritmico, di ricorrere al pensiero figurale, all’analogia e alla metafora. E lo dimostra bene ancora Porro seguendo Gadda nel suo pensiero della complessità, modellato su Leibniz e illuminato dalla teoria dei sistemi e dalla cibernetica, o Primo Levi nel suo materialismo chimico.
Abbiamo bisogno di nuove mitografie, per comprendere meglio qual è il nostro posto nella natura e per cancellare il mito di una scienza esente dal mito. E la letteratura ha visto bene come le costanti mitiche irrorano la conoscenza e la scienza, come l’immaginario viene sempre rinnovato e rimodellato dai nuovi spazi aperti dalla «filosofia naturale».
A sessant’anni dalla scoperta del laser, sarebbe curioso leggere nuove «osmicomiche», che narrino ad esempio la vicenda della valigia coperta di specchi speciali, depositata sulla superficie della Luna da Amstrong e Aldrin il 20 luglio 1969, e che ancora riflette i raggi laser lanciati dalla Terra per misurarne la distanza al centimetro.

il Fatto 23.4.10
La Sindone
Dialogotra ateo e cristiano
Su MicroMega le tesi di Odifreddi e don Ghiberti su falso storico e simbolo della fede

Caro don Ghiberti, propongo di iniziare questo nostro scambio sulla Sindone partendo da lontano: cioè, dal tempo in cui conosciamo la sua esistenza. Che, comunque, non è così lontano quanto quello al quale vorrebbero risalire coloro che la ritengono autentica.
Mi permetto di ricordare, che la conquista di Costantinopoli del 1204 rivelò all’Occidente la cornucopia di reliquie conservate nei santuari di Bisanzio. Comprate o trafugate dai Crociati, in breve tempo esse andarono ad arricchire il patrimonio di meraviglie sacre conservate nelle chiese medievali, per l’elevazione spirituale dei fedeli e materiale del clero, e furono sbeffeggiate dal Belli nel sonetto La mostra de l’erliquie.
[...] Benché alcune di queste reliquie siano (state) conservate nelle basiliche più sacre della cristianità, da Santa Maria Maggiore a San Giovanni in Laterano, chiunque argomentasse seriamente oggi a favore della loro attendibilità storica verrebbe quasi sempre preso per matto. Quasi, ma non sempre, almeno a giudicare dai milioni di fedeli che accorrono a Torino a vedere la Sindone. O meglio, una delle quarantatré sindoni di cui si ha notizia: alcune con immagini, altre no. Molte andate distrutte da incendi e, come già ironizzava Calvino, prontamente rimpiazzate. Una, quella “miracolosa” di Besançon, distrutta per ordine del Comitato di salute pubblica durante la Convenzione nazionale della Rivoluzione francese.
LA PRIMA APPARIZIONE
La Sindone di Torino, un telo di lino di circa quattro metri per uno, apparve per la prima volta nel 1353 presso Troyes, nel cuore della regione di Chartres e Reims, famose per le loro cattedrali. Il telo reca una doppia immagine, fronte e retro, di un cadavere nudo, rappresentato secondo i canoni e le proporzioni dell’arte gotica dell’epoca: figura rigidamente verticale, gambe e piedi paralleli, tratti del viso più caratterizzati di quelli del corpo. La presenza di segni di ferite in perfetto accordo con il racconto evangelico della passione poteva far supporre che quella fosse un’immagine impressa dal corpo di Cristo sepolto, stranamente mai menzionata nei testi sacri, né rappresentata iconograficamente nel Primo millennio.
Nel 1389 il vescovo di Troyes inviò però un memoriale al Papa, dichiarando che il telo era stato “artificiosamente dipinto in modo ingegnoso”, e che “fu provato anche dall’artefice che lo aveva dipinto che esso era fatto per opera umana, non miracolosamente prodotto”. Nel 1390 Clemente VII emanò di conseguenza quattro bolle, con le quali permetteva l’ostensione ma ordinava di “dire ad alta voce, per far cessare ogni frode, che la suddetta raffigurazione o rappresentazione non è il vero Sudario del Nostro Signore Gesù Cristo, ma una pittura o tavola fatta a raffigurazione o imitazione del Sudario”.
Alla testimonianza storica del Pontefice di allora, evidentemente diverso dai suoi successori di oggi, possiamo ormai aggiungere la conferma scientifica della datazione al radiocarbonio effettuata nel 1988 da tre laboratori di Oxford, Tucson e Zurigo, su incarico della diocesi di Torino e del Vaticano: la data di confezione della tela si situa tra il 1260 e il 1390, e l’immagine non può dunque essere anteriore.
Stabilito che la Sindone è un artefatto, rimane da scoprire come sia stata confezionata. L’immagine è indelebile, essendo sopravvissuta sia a ripetute immersioni in olio bollente e liscivia effettuate nel 1503 in occasione di un incontro tra l’arciduca Filippo il Bello con Margherita d’Austria, sia al calore di un incendio del 1532, che la danneggiò in più punti. Inoltre, è negativa (le parti in rilievo sono scure, quelle rientranti chiare), unidirezionale (il colore non è spalmato), tridimensionale (l’intensità dipende dalla distanza tra la tela e la parte rappresentata), e ottenuta per disidratazione e ossidazione delle fibre.
Siamo dunque di fronte non a una pittura ma a un’impronta, che certo non può essere stata lasciata da un cadavere. Dal punto di vista anatomico, infatti, le immagini frontale e dorsale non hanno la stessa lunghezza (differiscono di quattro centimetri), ma hanno la stessa intensità, benché il peso avrebbe dovuto essere tutto scaricato sul retro. L’avambraccio destro è più lungo del sinistro. Le braccia sono piegate, ma le mani ricoprono il pube, il che richiederebbe una tensione delle braccia o una legatura delle mani. Le dita sono sproporzionate, e l’indice e il medio sono uguali. Posteriormente si vede l’impronta del piede destro, benché le gambe siano allungate. Dal punto di vista geometrico, l’impronta stereografica lasciata da un corpo o da una statua sarebbe distorta e deformata, soprattutto nella faccia: esattamente come accade per la famosa “maschera di Agamennone”, che è distorta proprio perché aderiva al volto del defunto, e contrasta apertamente con la raffigurazione veristica della Sindone. Solo un bassorilievo di poca profondità può lasciare un’impronta simile.[...]
Fantasia e Ragione.
A ciascuno dei fatti oggettivi che ho esposto è naturalmente possibile opporre opinioni soggettive, invocanti cause naturali o soprannaturali, nel tentativo di ricondurre la ragione alla fede. La più fantasiosa fra quelle avanzate, tra pollini e monetine, è certamente l’ipotesi che imprecisati fenomeni nucleari avvenuti all’atto della resurrezione atomica di Cristo abbiano modificato la struttura del telo, cospirando a falsarne la datazione in modo da farla coincidere proprio con il periodo della sua apparizione storica. Evidentemente, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Coloro che invece hanno orecchie per intendere, intendono che il fatto miracolo-
so non sussiste. Per me, dunque, il caso è chiuso. Ma sono curioso di conoscere la sua opinione sull’argomento: quello oggettivo che ci presenta la Sindone, ma anche quello soggettivo che ho esposto io.
Piergiorgio Odifreddi

Caro professor Odifreddi, vedo che siamo ambedue nativi della provincia di Cuneo e questo mi dà gioia e mi provoca simpatia. I cuneesi sono “quelli del gozzo” (quante bisticciate da ragazzo con quelli della provincia di Torino), ma anche se non si fanno tanti complimenti, per lo più finiscono per capirsi. [...] A me sembra innegabile che l’immagine presente sulla Sindone raffiguri un uomo morto a causa della tortura della crocifissione. Lei ha enumerato parecchie anomalie presenti nella figura sindonica, ma queste aumentano la stranezza misteriosa del reperto, senza però impedire la constatazione di fondo che dicevo: immagine di un uomo morto per crocifissione. La reazione di chi guarda questa immagine può essere varia: una persona con un po’ di cuore sente compassione per tanta sofferenza e indignazione per quella dimostrazione di crudeltà raffinata; sorge intanto la curiosità di capirci qualcosa. Chi ha un po’ di conoscenza della vicenda di Gesù di Nazareth si rende facilmente conto della corrispondenza che passa tra la vicenda dell’uomo della Sindone e quella che ha portato Gesù alla morte: glielo dice una tradizione di devozione, ma soprattutto ne ha conferma da quel poco o tanto che conosce dei racconti evangelici della passione di Gesù. A questo punto, se chi guarda ha la fede, nasce un sentimento spontaneo di interesse affettuoso per un oggetto testimone di un evento tanto importante per la sua vita.
Mi sembra che questo sentimento sia di natura prescientifica, perché viene prima che siano state poste e affrontate tutte le domande che il reperto suggerisce. Queste domande sorgono ben presto e io che guardo ci vado dietro con molto interesse, ma non mi sento condizionato dalle risposte che posso udire, perché la funzione di segno comunque è svolta da quell’oggetto, qualunque cosa possa pensare della datazione della sua origine e della modalità di formazione della sua immagine (che sono poi le due domande fondamentali provocate da quel reperto).
DEVOZIONE E DISTRUZIONE
Penso che questa lettura sia determinante, perché relativizza non solo la scienza ma la Sindone stessa: il suo interesse fondamentale consiste nell’essere un segno e questo funziona indipendentemente dalla consistenza della sua natura (la scritta “senso unico” ha la stessa forza di segno sia che la trovi incisa su una lastra di metallo prezioso sia che l’abbiano stampata su cartongesso). La povertà di certezze è la forza della Sindone, e a me personalmente la rende anche cara. Partendo da questa lettura delle cose, non mi sento condizionato al discorso dell’autenticità. C’è chi dice: per continuare a proporre la devozione alla Sindone, la Chiesa deve decidersi a definirne l’autenticità; e c’è chi dice: l’autenticità è del tutto esclusa e quindi la Sindone deve essere eliminata. Non condivido nessuno dei due presupposti: che sia stata detta l’ultima parola sull’autenticità oppure che siano state portate prove definitive della non autenticità; e comunque non mi sento condizionato né dall’uno né dall’altro, perché nel primo caso comunque non avrebbe senso parlare di definizione (la Sindone non è un articolo di fede) e nel secondo caso resterebbe immutata la sua efficacia di segno.
Il discorso a questo punto è tutt’altro che finito, ma può svolgersi in uno stato d’animo sereno. M’interessa molto sapere se questo lenzuolo ha veramente avvolto il cadavere di Gesù.
[...] Certo è la causa di Gesù che viene in gioco con la Sindone. Se non fosse così, i misteri che essa porta in sé interesserebbero sì gli scienziati, ma verrebbero discussi in un loro gremio ristretto, se ne scriverebbe su qualche rivista letta da una dozzina di lettori, e tutto finirebbe lì. Certo la Chiesa ha la sua parte in questa proposta devozionale, ma credo proprio di poter dire – dall’esperienza delle tre ostensioni di cui ho avuto una
particolare responsabilità – che il tono apologetico è stato evitato il più possibile, a costo anche di essere decisi nel determinare un orientamento corrispondente a chi avesse voluto pronunciamenti impropri.
Ognuno ha il suo modo di sentire, ma l’impostazione fondamentale ha cercato di essere coerente e ha avuto la gioia di sentirsi confermata dell’insegnamento del Papa, quando venne in pellegrinaggio nel 1998. Per conto nostro si ripeteva spesso che la Sindone non ha bisogno delle nostre esagerazioni; ciò che conta è l’attenzione e la disponibilità di vita di fronte al suo messaggio.
Giuseppe Ghiberti

il Fatto 23.4.10
La proprietà e la Carta
Come si conciliano le indicazioni della Costituzione con il “principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza” su cui si fonda l’Europa?
di Lorenza Carlassare

La nostra Costituzione è il “risultato della confluenza dell’ideologia socialista e di quella cristiano sociale con quella liberale classica” (Bobbio). Lo si vede in particolare nel titolo III che, dopo le norme a protezione dei lavoratori (artt. 35-40), tutela la libertà economica: all’affermazione di un diritto e di una libertà segue subito l’indicazione di limiti e fini: “L’iniziativa economica privata è libera”, ma non può svolgersi “in contrasto con l’utilità sociale o in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana” e l’attività economica può essere indirizzata “a fini sociali” (art. 41). Della proprietà privata “riconosciuta e garantita dalla legge” (art. 42) la legge stessa può determinare i modi d’acquisto, di godimento e i limiti “allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”. Lo schema è costante; anche alla proprietà terriera privata (art. 44) la legge “impone obblighi e vincoli” al fine di “conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali”, fissa “limiti alla sua estensione... promuove e impone la bonifica delle terre, la trasformazione del latifondo e la ricostituzione delle unità produttive, aiuta la piccola e media proprietà”. L’obiettivo di fondo non è eliminare l’iniziativa economica e proprietà privata – costituzionalmente riconosciute e come tutti i diritti (a partire dall’art. 13) limitabili soltanto con legge del Parlamento – ma renderle “accessibili a tutti” (l’art. 42 riecheggia la Rerum Novarum). Un pensiero unitario domina la Costituzione economica: allargamento del numero dei proprietari, difesa della funzione sociale della proprietà e dell’attività economica. Non par dubbio che la dottrina sociale cattolica abbia esercitato un influsso preminente: il programma economico sociale della Costituzione, se realizzato, non porterebbe infatti a una società socialista con un’economia diretta dallo Stato, e neppure a una società dominata dalle grandi imprese private, ma ad una società dove la proprietà è diffusa e non concentrata. Gli articoli successivi ne sono la riprova: la Repubblica promuove la cooperazione a carattere di mutualità e lo sviluppo dell’artigianato (art. 45), riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare alla gestione delle aziende “nei modi e limiti stabiliti dalla legge” (art. 46), incoraggia e tutela il risparmio favorendone l’accesso “alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del paese” e, a tali fini “disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito” (art. 47). Norma quanto mai opportuna, visto le recenti ‘gesta’ delle istituzioni bancarie e il poco o nullo rispetto per i risparmiatori!
Dagli atti dell’Assemblea costituente risulta chiaro come tutti, al di là delle differenti visioni dell’economia, dai comunisti ai democristiani ai liberali fossero concordi nella lotta alle “concentrazioni monopolistiche”. Alle parole di Togliatti e Fanfani si aggiungono quelle di Einaudi, economista liberale, per il quale i monopoli sono “il male più profondo”, “il danno supremo dell’economia moderna”, “vera fonte della disuguaglianza, vera fonte della diminuzione dei beni prodotti, vera fonte della disoccupazione delle masse operaie”. In questo clima fu approvato l’art. 43: “A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, agli enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie d’imprese che si riferiscono a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio e abbiano preminente interesse generale”. Due le condizioni, dunque, perché le imprese possano essere espropriate: che “abbiano preminente interesse generale”; che siano relative “a servizi pubblici essenziali, a fonti di energia o a situazioni di monopolio”. La previsione di forme autoritative d’intervento pubblico ha quindi carattere eccezionale, la Costituzione non ha inteso incamminarsi sulla strada del collettivismo. Tuttavia il comma 3 dell’art. 41 “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali” implica, almeno, un indirizzo di politica economica che tenga conto dei fini sociali.
Come si conciliano le indicazioni della Costituzione col “principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza” su cui si fonda l’Europa? Molto ne hanno discusso giuristi ed economisti. L’opinione che non siano incompatibili parte dalla libertà d’iniziativa economica che, data la pluralità e coesistenza di più soggetti che ne usufruiscono, è legata al principio della libera concorrenza , a un mercato “regolato” (come vuole l’Europa) da una disciplina antitrust. Una disciplina “che predetermini le regole del gioco valide per tutti”, assicurando la libera esplicazione su un piano di parità delle capacità imprenditoriali di tutti gli operatori: “La libertà di pochi è potere, non libertà” dice Alessandro Pace. Del resto una disciplina antimonopolistica è già implicita nell’intento di evitare il rischio di monopoli espresso alla Costituente da tutte le parti politiche e formalizzato nell’art. 43. Un mercato ‘regolato’, una libera concorrenza che non incida però su altri interessi primari tutelati dallo stesso art. 41 che fonda la libertà economica. Negli ultimi decenni l’idea del primato dell’economia sulla politica ha inciso sul nostro sistema mettendo in ombra valori essenziali. L’alternativa (scrive Natalino Irti) è tra “ordine giuridico del mercato e mercato degli ordini giuridici” dove gli Stati, in concorrenza, offrono alle imprese benefici e immunità per attirare gli affari entro le rispettive sfere anziché rivendicare il primato delle decisioni politico-giuridiche e assumere il governo dell’economia.