mercoledì 28 aprile 2010

l’Unità 28.4.10
Migranti a Rosarno
vent’anni con la schiena dritta
Loro ci hanno insegnato la legalità, ribellandosi ai soprusi quando si facevano cruenti. Prima della rivolta hanno provato con le denunce, sempre snobbati e lasciati in mano alle cosche
di Danilo Chirico

Più questa Italia continua a scacciarli come clandestini, più loro ostinatamente fanno i cittadini. Cittadini onesti, con la schiena dritta e la fiducia – non ricambiata, non sempre – nelle istituzioni. I lavoratori migranti di Rosarno danno ancora una volta il buon esempio, rivendicano i loro diritti, si ribellano allo sfruttamento selvaggio di padroni e caporali, si rivolgono alle forze dell’ordine. Senza nessuna pretesa se non quella di vivere tranquillamente.
Nasce così l’operazione Migrantes che cristallizza quello che tutti sanno – e fingono di non vedere – da almeno venti anni. In quello straordinario pezzo di Calabria, pieno di alberi di arance e mandarini, la storia si ripete almeno dal 1990, come ha svelato il dossier “Arance insanguinate” (a cura di daSud onlus e Stopndrangheta.it) pubblicato lo scorso febbraio. I primi lavoratori ad arrivare nella Piana di Rosarno sono magrebini: la gente li accoglie, ma iniziano anche lo sfruttamento sui campi e si fanno largo i primi episodi di violenza. Minacce, botte, ferimenti a colpi di arma da fuoco. Fino al 1992 quando, scrive nel dossier Alessio Magro, ci sono le prime due vittime: vengono ammazzati due ragazzi algerini di 20 anni, Abdelgani Abid e Sari Mabini. Una scia di violenza che viene arginata nel 1994 (e fino al 2003) quando Rosarno elegge Giuseppe Lavorato, un sindaco che lavora per l’integrazione. Apre le porte del Comune, organizza l’assistenza e la festa dei popoli nella piazza principale del paese. Lavorato, una vita a sinistra, è un sindaco antimafia ed è l’erede della tradizione dei braccianti che occupano le terre negli anni 40 e 50. Capisce che i migranti vivono oggi quello che ai rosarnesi capitava qualche decennio fa. Cerca i punti di contatto tra italiani e africani, i migranti trovano istituzioni credibili, parlano e trovano le loro risposte. A Rosarno si apre una nuova stagione. I lavoratori scrivono una prima lettera al sindaco nel febbraio 1997, poi una seconda il 12 novembre 1999 con la quale dicono basta alla «violenza di ultrarazzismo senza precedenti» e denunciano le congiure messe in atto «24 ore su 24, anche durante il riposo notturno». Appena due giorni prima tre di l0ro sono stati feriti gravemente a colpi di pistola. Scaduto il doppio mandato di Lavorato, a Rosarno si torna indietro. Riemergono tutte le contraddizioni fatte di slanci di solidarietà alternati a episodi di drammatica violenza e di sfruttamento sistematico del lavoro agricolo.
I migranti lavorano perché ne hanno bisogno, ma contestano – inascoltati le loro condizioni di vita disumane. L’Italia intera è colpevolmente distratta o, peggio, alimenta le spinte razziste. In questo contesto, la politica calabrese e le forze sociali dormono incomprensibilmente sonni tranquilli mentre la ‘ndrangheta gestisce indisturbata i suoi affari multimilionari. Fino al 2008, quando un ragazzo ivoriano viene sparato e finisce con la milza spappolata. I migranti non ne possono più, sorprendono tutti, scendono in piazza e sfilano per le strade di Rosarno. Pacificamente, chiedono diritti e giustizia. È la prima rivolta. Sporgono poi denuncia ai carabinieri e ottengono la condanna di un giovane del paese. Non basta. Cambia poco o nulla: stesse condizioni di vita e di lavoro. Soprattutto, stesse violenze.
Sono ancora i migranti a cercare una via d’uscita. Grazie alle loro testimonianze, un’inchiesta della Dia già nel 2009 fa luce su ciò che accade nelle campagne di Rosarno. Il 19 maggio scattano le manette per tre imprenditori italiani e due caporali bulgari: sono accusati di riduzione in schiavitù ed estorsione. È la solita storiaccia: proprietari che sfruttano il lavoro dei migranti, che truffano i lavoratori e soprattutto li minacciano di denuncia alle autorità come clandestini se solo pensano di alzare la testa e protestare. L’ennesimo atto di ribellione è lo scorso gennaio. Il caso Rosarno che finisce sulle prime pagine di mezzo mondo. Gli spari e i ferimenti, la rivolta dei neri e le ritorsioni dei bianchi. La richiesta di protezione da parte dei migranti e lo Stato che non si dimostra alla loro altezza. Li carica sui pullman e li spedisce lontano da Rosarno: «Non possiamo assicurare la vostra sicurezza», si sono sentiti dire gli africani.
Adesso le nuove denunce. I più deboli, i clandestini che fanno i cittadini e offrono una possibilità di riabilitazione al nostro Stato. Fatti che consegnano anche due necessità: riconoscere i diritti ai migranti come unica strategia per il futuro e tenere alta l’attenzione su Rosarno per evitare nuove e inutili tensioni.

l’Unità 28.4.10
Se i «clandestini» denunciano gli sfruttatori
di Anselmo Botte

L ’indagine della procura di Palmi sullo sfruttamento schiavistico dei lavoratori immigrati a Rosarno ci pone degli interrogativi sull’efficacia dei metodi di contrasto del lavoro nero.
Analizziamo nel dettaglio quel che è successo a partire dalla novità più significativa: il sequestro delle venti aziende agricole che hanno utilizzato in modo irregolare i lavoratori immigrati. È una conferma di quanto da anni denunciamo inascoltati: dietro ogni assunzione in nero c’è un datore di lavoro che assume in nero, dietro ogni caporale che governa il mercato delle braccia c’è un imprenditore che si rifiuta di assumere rispettando le ultraflessibili norme che regolano (si fa per dire) il mercato del lavoro in agricoltura.
Un punto fermo è che l’indagine ha avuto un esito positivo grazie alle dichiarazioni di lavoratori immigrati irregolari (”clandestini”, per chi ha più simpatia per questo termine ). Per questi collaboratori della giustizia lo stato ha previsto un permesso di soggiorno per motivi di giustizia; valido per la durata dell’iter processuale e neanche buono per lavorare. Poca cosa. Se la passano peggio i migranti scoperti a lavorare in nero. Per loro ci sarà l’ennesimo decreto di espulsione. E visto che in tanti ne hanno ormai collezionati una infinità, si suppone che continueranno a restare sul territorio nazionale. Non per una loro sorda ostinazione, ma perché di loro la nostra agricoltura ha bisogno. Resteranno quindi in una condizione di irregolarità che sarà impossibile sanare con le nuove disposizioni contenute nel “pacchetto sicurezza” e negli ultimi provvedimenti emanati dopo la sanatoria di settembre. Saranno irregolari per sempre, e per sempre presenti sul nostro territorio. Saranno un’ottima merce per il mercato del lavoro nero e per i loro aguzzini: i caporali. Credo che alla fine tutta l’operazione si tradurrà nel solito intervento repressivo e quindi all’espulsione ipocrita di migranti irregolari. Si continuerà ad ignorare quanto il provvedimento di sequestro delle venti aziende ha confermato: che la presenza dei migranti nel lavoro agricolo, dato ormai strutturale, peserà sempre più nell’immediato futuro. In alcuni comparti, come gli allevamenti, ha ormai sostituito integralmente la forza lavoro locale.
Eppure, nel 2006, con il governo Prodi e con Amato ministro, eravamo vicini ad una soluzione che prevedeva il riconoscimento del permesso di soggiorno a chi denunziava la sua condizione di sfruttamento. Insomma una possibilità di riscatto per quelle migliaia di lavoratori la cui fatica quotidiana nei campi è scandita da ritmi infernali, la misura della paga giornaliera legata al cottimo che ti spezza la schiena e il resto della giornata trascorsa in tuguri senza luce e senza acqua, in compagnia di topi e zanzare. Occorre ripartire da quella proposta, sperando che in questi anni siano maturate le condizioni per metterla in atto.❖

l’Unità 28.4.10
Ferlinghetti: «Non c’è posto per i beat in questo mondo L’Italia? Va verso il fascismo»

I beat? «È come se non fossero mai esistiti. Non si sa neppure cosa siano perchè il tipo di civiltà dominante è tecnocratica, materialista e senza anima, in America come in Europa» In Italia, poi, «c'è uno spostamento verso una nuova ondata di fascismo». Così la pensa Lawrence Ferlinghetti, 91 anni, ultimo superstite della beat generation, primo Poeta Laureato della città di San Francisco (dove 57 anni fa fondò la sua storica libreria, poi casa editrice, «Citylights»)e Commendatore della nostra Repubblica. In Italia per la mostra a lui dedicata, di stanza prima al romano Museo in Trastevere e ora a Reggio Calabria, Ferlinghetti romanziere, drammaturgo, editore, pittore, membro permanente dell'American Academy of Arts and Lettersha re-
cuperato il ritardo nell’arrivo accumulato a causa della nube islandese, non risparmiando dichiarazioni. Obama? «La sinistra in Usa ha pensato che solo il fatto di avere la pelle nera facesse di lui un rivoluzionario. E invece Obama è un centrista e viene dalla borghesia nera». La salvezza dov’è per Ferlinghetti? Nell’arte: «Tutti gli artisti, anche quelli meno bravi dovrebbero essere considerati come fratelli perchè siamo tutti compagni contro questo mostro, la tecnocrazia, e contro questa civiltà priva di emozioni e sentimenti» dice. E l’amico di Allen Ginsberg, l’editore di Howl, aggiunge: «Già dagli anni '50 in America la sinistra ha perso voce, è come se si fosse raggrinzita, non ha megafono. L'unica voce di resistenza è la poesia».❖

il Fatto 28.4.10
Pedofili, incoerenze papali
Contro la pedofilia dei suoi preti, sembra proprio che Ratzinger voglia fare sul serio. Perché allora continua a occultare la verità sul passato e ha messo online un falso?
di Paolo Flores d’Arcais

Contro la pedofilia dei suoi preti, sembra proprio che Papa Benedetto XVI voglia fare sul serio. Perché allora continua a occultare la verità sul passato e ha messo online un falso?
Padre Federico Lombardi, infatti, non agisce di testa propria, è il portavoce della Santa Sede, e inoltre è persona di squisita gentilezza. Se dunque non ha risposte alle “quattro domande cruciali” che con una mia lettera aperta questo giornale gli ha rivolto una settimana fa non è perché non ha voluto, è perché non poteva: non aveva la “licenza de’ superiori”.
Avesse potuto, infatti, avrebbe dovuto confessare quanto segue: la frase chiave “Va sempre dato seguito alle disposizioni della legge civile per quanto riguarda il deferimento di crimini alle autorità preposte” contenuta nelle famose “linee guida” sulla pedofilia, messe online sul sito ufficiale del Vaticano lunedì 12 aprile, e presentate da padre Lombardi come “disposizioni diramate fin dal 2003” (sito dell’Avvenire, quotidiano della Cei) non risale affatto al 2003 ma è stata coniata nuova di zecca nel weekend del 10-11 aprile. Al responsabile dell’autorevolissima agenzia internazionale “Associated Press”, Victor Simpson, che chiedeva lumi sulla posizione della Chiesa in fatto di pedofilia, padre Lombardi inviava infatti il venerdì 9 aprile un documento in inglese identico a quello messo online il lunedì successivo, tranne la frase chiave di cui sopra, che non compariva. E che perciò è stata partorita durante il weekend.
Come altro si può chiamare in buon italiano una manipolazione del genere se non un “falso” (“falso: non corrispondente al vero in quanto intenzionalmente deformato”, Devoto-Oli)? Perché tutto l’interesse di quel documento si concentrava nella famosa frase chiave, che non a caso è stata sbandierata come la dimostrazione di una volontà della Chiesa – da anni – di collaborare con le autorità civili, rispettandone le leggi anche quando esse impongono a un vescovo di denunciare alla magistratura inquirente il suo prete sospetto di pedofilia.
E’ dunque falso, assolutamente falso, che la Chiesa cattolica gerarchica avesse già nel 2003 fatto obbligo ai suoi vescovi e sacerdoti di “dare seguito alle disposizioni della legge civile per quanto riguarda il deferimento di crimini alle autorità preposte”. All’epoca era vero, anzi, il tassativo obbligo opposto: tacere assolutamente alle autorità civili, in ottemperanza al “segreto pontificio”, che comporta addirittura un giuramento al silenzio fatto solennemente sui vangeli, la cui formula terribile abbiamo riportato in un precedente articolo (cfr. Il Fatto del 10 aprile).
E’ perciò altrettanto falso quanto ha sostenuto mons. Scicluna nei giorni scorsi, secondo cui “accusare l’attuale pontefice [per quando era cardinale Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede] di occultamento è falso e calunnioso (...) in alcuni paesi di cultura giuridica anglosassone, ma anche in Francia, i vescovi, se vengono a conoscenza di reati commessi dai propri sacerdoti al di fuori del sigillo sacramentale della confessione, sono obbligati a denunciarli all’autorità giudiziaria”. Questa non è la dichiarazione di un carneade qualsiasi, perché, come spiega il suo intervistatore Gianni Cardinale “monsignor Charles J. Scicluna è il ‘promotore di giustizia’ della Congregazione per la Dottrina della Fede. In pratica si tratta del pubblico ministero del Tribunale dell’ex sant’Uffizio”. Che l’affermazione di monsignore sia falsa lo prova ad abundantiam la testimonianza dei giorni scorsi del cardinale Dario Castrillon Hoyos, tuttora tra i più stretti collaboratori di Papa Ratzinger, che ha ricordato come fosse stato Giovanni Paolo II in persona a fargli scrivere una lettera di solidarietà e sostegno a un vescovo francese che per il rifiuto a testimoniare contro un suo prete pedofilo era stato condannato a tre mesi con la condizionale. Padre Federico Lombardi ha opposto un “no comment” alle affermazioni (palesemente inoppugnabili) del porporato colombiano, ma ha aggiunto che l’episodio “dimostrava e dimostra l’opportunità della unificazione delle competenze in capo alla Congregazione per la Dottrina della Fede”. Non rendendosi conto che tale “unificazione” avviene nel maggio del 2001, mentre la lettera del cardinale, per volere di Papa Wojtyla, è del settembre dello stesso anno, dunque è successiva, e conferma l’unica interpretazione che di quella “unificazione” si può dare: il più assoluto segreto era assolutamente centralizzato per renderlo ancora più catafratto. Perché perciò tutto questo sabba di menzogne, visto che Benedetto XVI sembra davvero intenzionato a cambiare atteggiamento, e a non occultare più alle autorità secolari i casi di pedofilia ecclesiastica (il vescovo di Bolzano e Bressanone ha inviato in procura le prime denunce)?
Perché scegliendo la Verità dovrebbe riconoscere che il suo predecessore aveva ribadito come dovere sacrosanto l’omertà rispetto a magistrati e polizia, e difficilmente dopo tale ammissione potrebbe elevare Karol Wojtyla all’onore degli altari. Perché dovrebbe confessare Urbi et Orbi che la svolta è di questi giorni, e che egli stesso, come cardinale Prefetto (e in larga misura anche nei primi anni del Pontificato) non ha trovato il coraggio di chiedere coram populo (non sappiamo cosa pensasse in interiore homine) una politica della trasparenza e della denuncia ai tribunali, contribuendo con ciò all’impunità di un numero angoscioso di pedofili, che se prontamente messi in condizione di non nuocere avrebbero risparmiato la via crucis di migliaia di vittime. Perché dovrebbe ammettere che a tutt’oggi il suo portavoce si è prodigato in un lavoro di raffinata disinformacija, e consentirgli (o intimargli: non sappiamo se padre Lombardi soffra per quanto ha dovuto manipolare) di cambiare registro. Perché...

Repubblica 28.4.10
Tutti pazzi allo stesso modo
Un libro denuncia l'omologazione dei disagi psichici
di Massimo Ammaniti

Per gli antropologi la malattia mentale è sempre molto influenzata dalla cultura del luogo
In nome della scienza la psichiatria occidentale impone invece i suoi modelli in tutto il mondo

In una novella del 1922 Stefan Zweig racconta la follia omicida che esplode nelle popolazioni del sud est asiatico, l´Amok, che dà anche il titolo al libro. Come racconta il medico protagonista del racconto: «è più che ebbrezza… è una follia rabbiosa, una specie di idrofobia… un accesso di monomania omicida, insensata, non paragonabile a nessun´altra intossicazione alcolica». Come l´amok altri disturbi psichici colpiscono gli uomini del sud est asiatico, come ad esempio il koro che comporta la certezza che i genitali si possano ritrarre all´interno del proprio corpo oppure lo zar nel Medio Oriente che provoca la convinzione di essere posseduti dagli spiriti con episodi dissociativi di risa e di grida.
A questo proposito antropologi ed etnopsichiatri hanno ampiamente documentato come le malattie mentali nel loro sviluppo e nella loro espressione siano fortemente influenzate dall´ethos della cultura del luogo, come hanno dimostrato anche gli studi di Ernesto De Martino nel sud dell´Italia secondo cui il disturbo psichico costituirebbe una crisi della "presenza" all´interno della propria cultura. E come le malattie mentali assumono fisionomie diverse nelle varie culture, così possono cambiare nel corso del tempo, ad esempio la grande crisi isterica che si osservava ai tempi di Jean-Martin Charcot in Francia oggi è praticamente assente nella popolazione psichiatrica.
Ma come la globalizzazione influisce sui comportamenti e sui valori collettivi, creando una sorta di omogeneizzazione dei vari gruppi umani, succede la stessa cosa per le malattie mentali? E´ stato da poco pubblicato un libro di un giornalista americano Ethan Watters Crazy like us: The Globalization of the American Psyche ("Pazzi come noi: la globalizzazione della psiche americana"; Free Press, USD 26), che racconta come gli occidentali abbiano diffuso aggressivamente nel mondo modelli e conoscenze psichiatriche ormai da tempo. In nome della scienza si è imposto un modello della malattia mentale che si basa su un´alterazione biologica del cervello e che serve a sconfiggere convinzioni prescientifiche addirittura animistiche, secondo cui la persona affetta da disturbi psichici sarebbe posseduta da spiriti maligni che si sono impadroniti della sua anima. Da una concezione quasi magica o addirittura etica della malattia, considerata come la giusta punizione per dei comportamenti iniqui o disdicevoli, si è passati ad una concezione scientifica che classifica il malessere psicologico attraverso una serie di sintomi, che possono essere riconosciuti con precise procedure valutative.
Watters viaggiando dalla Cina alla Tanzania ha indagato come è avvenuto in questi ultimi decenni il contagio, che come un virus ha piegato le difese antropologiche delle comunità di molte regioni del mondo. E´ quello che è successo in passato con i missionari, ma oggi la penetrazione avviene attraverso altre strade. Un esempio particolarmente emblematico è quello che si è verificato dopo lo tsunami nei paesi del sud est asiatico. Operatori medici e psichiatrici sono intervenuti in queste zone per aiutare le popolazioni portando nuove etichette psichiatriche, come il disturbo post-traumatico da stress per designare le sofferenze psicologiche delle vittime dello tsunami. Non più un´esperienza soggettiva di preoccupazione, di tensione oppure di terrore ma un´etichetta neutrale di un disturbo che spiega tutto e che può essere curato nella maggior parte dei casi con la somministrazione di psicofarmaci. E gli anticorpi naturali della comunità, ossia quell´insieme di comportamenti e di aiuti spontanei che si attivano attorno alle persone in difficoltà da parte di familiari, amici e vicini vengono scoraggiati dalle categorie psichiatriche che affidano agli operatori sanitari la soluzione della sofferenza personale.
Ma le vie di penetrazione possono essere anche più drastiche; come racconta Watters, una delle grandi compagnie farmaceutiche ha tentato di modificare la percezione e la stessa esperienza della depressione nel mondo giapponese attraverso una campagna multimilionaria di marketing. Un´altra osservazione di prima mano sul contagio occidentale è quella di Sing Lee, uno psichiatra dell´Università di Hong Kong, che durante gli anni ´80 e ´90 aveva studiato una forma rara e specifica del mondo cinese di anoressia, che non comportava diete insistenti oppure la paura di diventare grassi. E mentre stava per pubblicare i suoi dati e le sue osservazioni scientifiche avvenne ad Hong Kong un evento che oscurò completamente il lavoro di Sing Lee: un´adolescente anoressica morì per strada in seguito ad un collasso. I giornali che ne diedero la notizia si rifecero ai Manuali Diagnostici occidentali, utilizzando anche il parere di molti psichiatri, che non erano in grado di riconoscere la specificità della sindrome cinese.
Si tratta di un´operazione di "bulldozing" ossia di stravolgimento della psiche umana, che va ben aldilà del disturbo psichico ma che investe la stessa esperienza personale di sofferenza e di conflittualità psicologica. E questa operazione è iniziata negli ultimi 50 anni da parte degli operatori psichiatrici, una sorta di alfabetizzazione medica che ha introdotto una concezione della malattia mentale nella quale il malato non ha una responsabilità personale. Si potrà obiettare che questa concezione scientifica potrebbe sconfiggere lo stigma e la vergogna sociale dal momento che tutto dipende da un´alterazione del cervello.
Uno studio effettuato nell´Università di Auburn non sembra tuttavia confermare che la narrazione medica del disturbo psichico sia più positiva per i familiari rispetto alla narrazione psicologica legata ad eventi traumatici del passato, perché la prima porta con sé la convinzione che nel disturbo psichico ci sia qualcosa di alterato in modo irreversibile e che non può essere sanato in alcun modo. D´altra parte nella storia occidentale si è già percorsa questa strada con lo psichiatra Philippe Pinel, che durante la Rivoluzione Francese liberò i malati mentali dalle catene che li tenevano legati al mondo del crimine e del vagabondaggio per ridare loro il nuovo statuto di malati, ma senza che questo evitasse lo stigma sociale e l´emarginazione.
Le conclusioni di Watters sono piuttosto sconfortanti, c´è il rischio che i modelli psichiatrici importati creino un disorientamento nelle concezioni di sé strettamente legate alla cultura dei luoghi accelerando il disorientamento personale che costituisce il nucleo del malessere psicologico.

Repubblica 28.4.10
Stalin. Gioventù di un dittatore
Il suo migliore amico era uno psicopatico
Simon Sebag Montefiore indaga sull´esilio e le prime attività rivoluzionarie, incendi, rapine, cospirazioni. Ma anche sulle sue doti di cantante. E sulle ossessioni che lo accompagneranno per la vita
di Sandro Viola

Alla fine del 1913 Stalin fu di nuovo esiliato in Siberia, oltre il Circolo polare artico, in un villaggio che si chiamava Kurejca: otto isbe in tutto, e una settantina di abitanti. La notte, i lupi s´avvicinavano al villaggio. E quando Stalin doveva andare nella latrina di fianco alla sua isba, sparava in aria un colpo di fucile per tenerli lontani. L´esiliato Josif Djugashvili aveva all´epoca 35 anni, e veniva da tre lustri d´attività rivoluzionaria. Incendi di uffici pubblici, battaglie di strada contro i cosacchi a cavallo, furti alle banche per finanziare il partito bolscevico, organizzazione di scioperi, arresti e interrogatori da parte dell´Ochrana (la polizia politica zarista), molti mesi nella prigione di Batumi. E un precedente esilio in Siberia, da cui era presto riuscito a fuggire.
A Kurejca stette per qualche settimana in una stessa isba con Jakov Sverdlov, che sarebbe diventato con la rivoluzione d´ottobre, anche prima di Stalin, uno dei massimi esponenti del partito. Poi - Sverdlov non gli andava a genio - affittò una stanza puzzolente nell´isba della famiglia Pereprygin. E lì, passati pochi giorni, si portò a letto la minore delle orfane Pereprygin, Lijdia, che non aveva ancora compiuto i 14 anni. Vestito di pelli di renna dalla testa ai piedi, di giorno (nei quattro mesi scarsi in cui a Kurejka la notte artica cedeva il passo alla luce del sole) Stalin andava a caccia di pernici nella tundra. E a volte veniva attaccato da un branco di lupi, contro i quali - se s´avvicinavano troppo alla sua slitta - doveva sparare altre fucilate.
In questo suo ultimo libro, Il giovane Stalin (pubblicato da Longanesi nell´eccellente collana storica diretta da Sergio Romano, pagg. 554, euro 29), Simon Sebag Montefiore scrive che «i branchi di lupi - i nemici che accerchiavano perennemente la sua casupola siberiana - entrarono nella psiche del dittatore sovietico. Li disegnava sui documenti durante le riunioni, specialmente verso la fine della vita, mentre orchestrava l´ultima campagna del Terrore contro la cosiddetta congiura dei camici bianchi». Il segno che l´ossessione ormai paranoica dei complotti, una "konspiracija" contro la sua vita e il suo potere, lo portava ad accomunare i sospetti avversari politici a "lupi idrofobi".
La memoria dell´esilio siberiano, durato quattro anni, non lo abbandonò mai. Per l´agitatore bolscevico che dai vent´anni in poi non aveva mai smesso di tramare contro le polizie zariste, contro i ricchi petrolieri di Baku (sequestrandoli, o sequestrandone i figli piccoli, per ottenere un riscatto), e contro i dirigenti menscevichi che egli sospettava lo volessero consegnare all´Ochrana, l´inerzia forzata sulle rive d´uno dei più maestosi fiumi russi, l´Enisej, ghiacciato da ottobre a maggio, rappresentò infatti un castigo durissimo. E per questo, più di trent´anni dopo, ancora incancellabile.
A Kurejka, Stalin studiava un po´ d´inglese e di tedesco, e soprattutto scriveva sul problema delle nazionalità, che sarebbe divenuto il suo primo incarico politico quando entrò, dopo la rivoluzione, nel Politburo del partito. La sera partecipava alle festicciole dei giovani del luogo. Cantava bene (da giovanissimo, a cavallo dei suoi anni di seminario in Georgia, aveva anche guadagnato qualche soldo cantando ai matrimoni), e beveva molta vodka senza ubriacarsi. Intanto era divenuto padre, perché Lijdia aveva partorito un bambino. E quando pochi mesi dopo il bambino morì, Lijdia era a 15 anni di nuovo incinta d´una bambina, uno dei vari figli illegittimi che Stalin si lasciò alle spalle prima di divenire il capo indiscusso della Russia sovietica.
L´esilio al Circolo polare durò sino al ´17, quando le autorità zariste, di fronte alle continue diserzioni dei soldati al fronte, decisero di arruolare tutti gli oppositori inviati al confino. Ma Stalin non finì sotto le armi. Lo Stato zarista si stava disfacendo, nessuno pensava più di controllare cosa facessero gli ex esiliati. E lui raggiunse subito Pietrogrado, dove il governo provvisorio già barcollava sotto i colpi delle masse bolsceviche, e s´installò con gli altri capi del partito allo Smolnij, che era stato il collegio delle ragazze nobili.
Nel partito era conosciuto soprattutto per la sua attività di finanziatore clandestino. Innumerevoli erano state infatti le sue rapine alle banche, culminate nell´attacco del 1907, con bombe e fucileria, alla banca di Tbilisi, che fruttò in valori attuali poco meno di quattro milioni di dollari. Il danaro ricavato dalle rapine e dai sequestri andava interamente alla dirigenza bolscevica, e in parecchi casi nelle stesse mani di Lenin. Quanto a Stalin, egli continuava a condurre una vita misera e sempre gravida di rischi. Una sola volta - tornava da un congresso bolscevico a Londra - gli amici georgiani lo videro ben vestito: «un completo grigio scuro e un bel cappello gli davano un´aria europea che non aveva mai avuto».
Come il suo libro precedente, Gli uomini di Stalin, in cui rievocava le cene notturne al Cremlino negli anni del Terrore - la trivialità dei discorsi e dei lazzi, il grande consumo di alcolici -, anche Il giovane Stalin sorprende il lettore per la novità e abbondanza delle fonti (rinvenute negli archivi di Mosca, San Pietroburgo, Tbilisi, Gori, Baku, Batumi, Berlino, Londra, Parigi) e il talento narrativo dell´autore. Ecco gli anni del seminario di Tbilisi, dove l´adolescente Djugashvili divora i testi marxisti durante le funzioni religiose, la Bibbia sul banco e Marx sulle ginocchia. Gli scontri anche fisici con i monaci, la cacciata dal seminario, i legami con altri adolescenti ribelli, il più ardito e sanguinario dei quali, Kamo, è uno psicopatico, un pazzo. Poi, man mano, la vita dell´agitatore politico (in parte I demoni di Dostoevskij, in parte i romanzi di Jack London), che lo porterà nelle file del partito bolscevico aprendogli la strada del potere.
Benché piccolo di statura, il viso butterato dal vaiolo, con un braccio e le due gambe in parte impediti per essere finito sotto un carro da adolescente, Stalin piaceva alle donne. Della sua abilità nel canto, s´è detto: ma Soso, come si faceva chiamare da ventenne Djugashvili, sapeva anche ballare molto bene, scriveva poesie ispirate ai poeti romantici georgiani, e in più aveva l´aura dell´indomabile rivoluzionario. Donne ne ebbe quindi a sazietà. Senza amarne nessuna, tuttavia, salvo nel 1902 la sua prima moglie, Kato Semenovna Svanidze, che «per gli standard georgiani», scrive Sebag Montefiore, «era una donna istruita, emancipata, socialmente superiore a Stalin». E quando questi, decenni più tardi, ne parlò con la figlia Svetlana, disse che Kato «era molto dolce e bellissima, così che sciolse il mio cuore». Alla sua morte nel 1907,infatti,i parenti dovettero trattenere Soso che tentava di buttarsi nella fossa dove i becchini stavano calando la bara di Kato.
Il libro di Sebag Montefiore si ferma al 1917, agli inizi del potere bolscevico, quando si forma la triade Lenin-Trotskij-Stalin. Ma nelle ultime pagine, in forma d´epilogo, ci sono le giornate del tiranno, ormai prossimo alla morte, nella villa in Georgia sulla costa del Mar nero, la residenza che amava di più. Lì, «il vecchio Soso, sfinito da cinquant´anni di cospirazioni, da trenta di governo e cinque di guerra», convocava i suoi anziani amici di Gori e del seminario. Cibo e vini georgiani sui tavoli del giardino, e soprattutto ricordi. «La fede nella violenza, la vendicatività, l´assenza di pietà ed empatia» che avevano marcato l´intera vita di Stalin, sembravano essersi dissolte. Curava le rose, giocava a biliardo, leggeva sulla veranda, stappava le bottiglie di vino all´arrivo degli ospiti. E tentava di ritrovare, conversando con i suoi coetanei, il po´ di buono, di non sanguinario, che c´era stato all´inizio della sua vita.

martedì 27 aprile 2010

l’Unità 27.4.10
Italiani e proprietari di aziende agricole: ecco i nuovi schiavisti
E adesso, Maroni?
di Claudio Fava

In questi due anni il ministro dell’Interno Maroni ci ha abituati al vanto dei suoi molti meriti. Ogni volta che un latitante veniva arrestato, che un giusto processo finalmente si concludeva, ogni volta che riuscivamo a rimuovere un frammento di mafia o di camorra grazie al lavoro di giudici, questurini e carabinieri, Maroni ci ricordava che era merito del governo, mica dei magistrati o dei poliziotti. Che dirà oggi, il signor ministro? Come se la caverà di fronte ai trentuno arresti di Rosarno per questo miserabile mercato di carne e sudore umano? Vanto suo anche questo?
Lo aspettiamo al varco per rammentargli le sue parole, a gennaio, quando gli immigrati si ribellarono, giù in Calabria, al taglieggiamento delle loro vite, quando ci raccontarono che una nuova schiavitù nel nostro paese si era fatta legge e debito per migliaia di immigrati africani. Venti euro al giorno a spaccarsi le schiene dall’alba al tramonto sulle terre dei furbi. Dieci euro offerti al caporale, e grazie tante se non s’intasca di più. Un materasso da dividere in cinque o sei. Un tetto di eternit e un cesso in comune per tutti, senza acqua né luce nè dio, senza nient’altro che quei padroncini grassi e arroganti che ti tengono a far da servo nelle loro campagne.
Storie miserabili, di fame e di infami, di guappi che s’arricchiscono facendo gli schiavisti, di un'Italietta allegra e strafottente che si volta dall’altra parte perché, certo, dispiace, ma fa pure comodo avere carne umana così a buon prezzo, vuoi mettere quanto ti costa un bracciante calabrese in regola con i contributi?
Disse il ministro Maroni, quando gli raccontarono cosa accadeva in Calabria: colpa nostra, troppo tolleranti con questi africani, troppo larghe le maniche dei nostri governi, cacciamoli a casa loro prima che si caccino nei guai a casa nostra. Leggendo adesso le cronache dell’inchiesta, ricostruendo quel reticolo di violenze e di ricatti, verrebbe voglia di prenderci noi le parole del ministro per dire che è colpa nostra, della nostra tolleranza verso una politica che ha perso il lume della ragione e dell’umanità, verso le corbellerie su una Lega dal buon carattere popolare, modello di sana politica, gente di schiena e idee robuste da cui abbiamo tutto da imparare. E invece, se ci è permesso, tolleranza zero verso quelli come Maroni che, di fronte alla quotidiana carneficina dei diritti, arrotano un sorriso e dicono: mandiamoli a casa. Gli immigrati, non i camorristi. I disperati, non i caporali. Anche per quell’altra lezione di stile e di verità che gli immigrati di Rosarno ci hanno impartito: i mafiosetti sono stati arrestati perché loro, gli extracomunitari, hanno spiegato, denunciato, collaborato. In una regione in cui t’insegnano fin da bambino a tacere e a voltarti dall’altra parte, a rispettare camorristi e sottopanza perché almeno loro danno lavoro, in un paese malato di reticenza e di omertà, a insegnarci il gusto della verità sono stati i nigeriani, i sudanesi, i senza patria, gli irregolari. Bella gente, brava gente. Certo, migliori di noi.

l’Unità 27.4.10
Gli africani di Rosarno hanno saputo sfidare il ricatto delle n’drine
La rivolta ha messo in luce le spaventose condizioni di sfruttamento cui sono sottoposti i lavoratori stranieri. Spesso gli italiani si abituano a convivere con la mafia e a sopportare il controllo delle cosche
di Manuela Modica

Razzismo
I media parlano di razzismo, i cittadini rifiutano di esserlo, il nodo di queste vicende è lo sfruttamento

Quando a gennaio scorso il dramma degli stranieri esplose con violenta disperazione per le strade della cittadina calabrese e finalmente rimbalzò all’attenzione nazionale, Antonello Mangano aveva già denunciato le violenze e i soprusi. Aveva descritto tutto con puntualità nel libro «Gli Africani salveranno Rosarno, e poi anche l’Italia», pubblicato già l’anno precedente. Un libro oggi riedito da Rizzoli, col titolo contratto in Gli Africani salveranno l’Italia che aveva scavato nelle condizioni di vita e di lavoro degli immigrati e che aveva ampiamente anticipato la ribellione di Rosarno. Ma l’autore sposa una tesi che potrebbe vedere anche più lontano. Perché gli africani salveranno l’Italia?
«Perché sono proprio gli stranieri a reagire lì dove noi italiani siamo allenati a sopportare, abituati ad accettare i soprusi della mafia».
Gli immigrati ci libereranno dalla mafia? «Le rivolte non nascono con questoobiettivo, non è certo questo a cui direttamente mirano. La mafia diventa uno dei tanti ostacoli che affrontano nel loro percorso di migrazione, si ribellano per sbloccare l’ostacolo che si è inserito nel loro cammino. Tuttavia non solo ci forniscono un esempio di non accettazione del sopruso, ma lottando per loro stessi i risultati saranno poi per tutti: lo sfruttamento sul lavoro è un tema che riguarda anche gli italiani».
Che, invece, sono avvezzi alla malavita, rassegnati e incapaci di ribellarsi... «In tante realtà italiane è così, questo è chiaro, ci sono tantissimi contesti in cui la violenza è endemica e le reazioni stentano. Come in Calabria dove spesso queste storie vengono snobbate dalla stampa nazionale. Non ribellarsi aiuta questo silenzio, e i fatti di Rosarno sono esemplari: è bastata una rivolta di stranieri perché queste condizioni di sfruttamento venissero alla luce. Da gennaio in poi, invece, ci sono stati tantissimi episodi di violenze, che hanno anche caratterizzato la campagnia elettorale, vissuti come fatti normali».
Sono anche razzisti gli italiani?
«È ormai un discorso circolare: i media parlano di razzismo, i cittadini rifiutano di esserlo. Il nodo di queste vicende è lo sfruttamento, gli stranieri sono socialmente più deboli. Mi sembra più vigliaccheria che razzismo».
Cosa ti ha portato a Rosarno un anno prima della ribellione di gennaio? «Quello è stato solo l’ultimo evento, la vicenda inizia dai primi anni novanta, io la seguo da 5 anni. Già a dicembre del 2008 gli stranieri avevano tentato una rivolta, sebbene meno violenta di quest’ultima.
Era una situazione risaputa, c’erano stati già i rapporti di Medici senza frontiere, poi nessuno ha fatto niente».
31 ordinanze di custodia cautelare ieri sono state emesse dal Gip dalla Procura della Repubblica di Palmi dopo le indagini che hanno permesso di scoprire, «condizioni di assoluta subordinazione...opprimenti e inique condizioni lavorative». Finalmente?
«Dalla rivolta c’è stato un impulso diverso, ma si deve dire che le indagini erano partite anche prima, un’inchiesta della Dda del maggio scorso aveva scosso moltissimo il territorio». Hai appena pubblicato un nuovo libro, “La Politica dei disastri”, in versione e-book, edito da terrelibere.org. Cosa anticiperai stavolta?
«Il discorso sulle grandi opere è stata un’analisi confermata dalle inchieste che hanno riguardato vertici della Protezione civile. Si costruisce in emergenza opere spesso inutili. Il libro in cuntinuum con “Ponte sullo Stretto e mucche da mungere” non è forse un’anticipazione, ma offre una lettura differente».

l’Unità 27.4.10
Europa e Lega nord
Xenofobia, l’anomalia italiana
di Paolo Soldini

Il 16 percento ottenuto dai sedicenti liberali della Fpö nelle elezioni presidenziali austriache conferma che in quasi tutti i paesi del continente esiste ormai uno zoccolo duro di consensi, tra il 7-8% e il 20%, per partiti che, in modo diverso, si richiamano a valori e princìpi dell’estrema destra. Alcuni esprimono una “protesta contro la storia”: sono i movimenti che rivalutano i vari fascismi europei e il nazismo, come i Republikaner tedeschi, l’estrema destra russa, magiara o baltica. Per altri, il motivo fondante non è l’occhio al passato. Il Front national di Le Pen, il partito popolare dello svizzero Blocher, gli olandesi di Wilders, il belga Vlaams Blok, il partito del popolo danese di Pia Kjaersgaard ritengono di cogliere ed esprimere al meglio lo Zeitgeist: la paura degli “invasori” stranieri e della globalizzazione, il rifiuto di ogni idea di cessione di sovranità e l’ostilità contro la Ue, un evidente egoismo sociale, apertamente ammesso, sia su base statuale che regionale. Ciò che accomuna tutti i partiti di destra, del primo e del secondo tipo, sono da un lato il razzismo, la xenofobia e un forte conservatorismo in materia di valori morali privati, dall’altro lato il populismo costruito intorno a figure carismatiche. Tutti interpretano un mito comunitario, che può esprimersi nel nazionalismo classico o in un regionalismo che costituirebbe la trama “moderna” dell’”Europa dei popoli”. La retorica regionalista spinge a prospettare ipotesi di rottura della comunità nazionale per le aree “ricche e represse, incomprese e tartassate dal centro”. Come si colloca in questo contesto europeo la Lega nord? Il nocciolo della politica leghista pare fortemente collegato al patrimonio consolidato dell’estrema destra continentale. Xenofobia e razzismo, ostilità verso la Ue, (in) cultura localista, perenne rivendicazione di risorse e “diritti” sequestrati dallo stato centrale. Il fatto che un movimento intimamente eversivo abbia acquisito una sua rispettabilità e oggi partecipi al governo del paese è una delle straordinarie anomalie italiane. Ci sono paesi europei nei quali quel che dicono e ciò che fanno in tema di razzismo e xenofobia ministri leghisti verrebbero considerati se non reati quanto meno farneticazioni da stigmatizzare nella politica e nei media. Qui li consideriamo intemperanze folkloristiche, fossili di un estremismo superato. Le analogie con l’estrema destra europea sono invece costitutive per la Lega. Il secessionismo non è stato abbandonato: è stato costretto nei panni di un federalismo che il sistema politico accetta come una prospettiva sensata pur non avendo in Italia alcuna tradizione, né alcuna storica spinta reale ed essendo immerso, oggi, in una fitta nebbia sul che sarà, come sarà, perché. L’egoismo “comunitario” non è diverso da quello che si manifesta altrove e la spia di questa identità della Lega sono la xenofobia e il razzismo. È il piano sul quale nessun processo di addomesticamento moderato appare credibilmente in atto.

l’Unità 27.4.10
L’onda nera dell’ultra destra razzista macchia l’Europa
Dall’Austria all’Ungheria, dalla Francia alla Gran Bretagna i crociati anti-Islam e immigrati fanno il pieno di voti. Tra i gruppi neo-nazi fortissimo l’odio contro Israele e gli Usa. Avanzata anche nei Paesi dell’Est
di Umberto De Giovannangeli

L’«Onda nera» si allarga. Dall'Austria all'Ungheria, dall'Olanda al Belgio, dalla Francia, alla Finlandia, dalla Danimarca alla Gran Bretagna, «sconfinando» nell’ex Europa comunista: dalla Romania alla Russia. Continua l'avanzata dell'estrema destra in Europa, un dato confermato dal 15,6% alle presidenziali in Austria conquistato dalla candidata del partito Fpoe, Barbara Rosenkranz, dichiaratamente filo-nazista. In Ungheria, dove il partito conservatore Fidesz ha conquistato i due terzi dei seggi in Parlamento, la formazione xenofoba Jobbik si consolida come terza forza del Paese con 48 seggi in Parlamento. Viaggio nell’«Onda nera» dei movimenti dell’estrema destra europea. Movimenti e partiti razzisti, ultrazionalisti, nazifascisti, antisemiti spinti. L'estrema destra, specie quella di ispirazione fascista e neonazi, tra i suoi programmi principali ha il superamento del liberismo e la guerra alla globalizzazione, oltre che un forte connotato antiamericano e anti-israeliano.
Austria: «Non sono felice ma decisamente contenta»: così Barbara Rosenkranz dopo l'annuncio dei risultati. Si era data come obiettivo il 17% mentre il leader del suo partito, Hans-Christian Strache, aveva indicato addirittura il 35%. A frenare i consensi sono state alcune dichiarazioni della Rosenkranz in favore dell'abolizione delle leggi sul divieto di apologia del nazismo in Austria. Al suo fianco c’è il marito Horst Jakob, con un trascorso di militanza in vari gruppi neonazisti ed oggi editore della rivista dell’estrema destra «Fakten». Da segnalare inoltre l'affermazione alle europee 2009 del «qualunquista» Hans Peter Martin, che ottenne il 18%, appena 5 punti meno dei socialdemocratici.
Ungheria: Il partito conservatore Fidesz, dell'ex e futuro premier Viktor Orban, ha conquistato i due terzi del Parlamento, che consentiranno di avviare anche riforme costituzionali senza il contributo di altre formazioni. Jobbik, il partito di estrema destra guidato dalla coppia Krisztina Morvai e Gabor Vona, ha conquistato almeno 48 seggi. Lo slogan preferito di Vona è: «L'Ungheria è stata venduta, i nemici da combattere sono le multinazionali, gli ebrei, i rom ed i comunisti».
Olanda: Nelle amministrative di marzo scorso, la destra xenofoba del partito della Libertà (Pvv) guidato dal leader anti-Islam Geert Wilders, ha ottenuto una significativa vittoria, soprattutto in vista delle elezioni politiche previste per il prossimo 9 giugno. In una recente intervista, Wilders ha confessato che il «sogno» che vorrebbe realizzare è la «deportazione in massa degli islamici»
Belgio: In Belgio il maggiore partito di estrema destra è il Vlaams Belang che ha raggiunto nelle ultime elezioni Europee il 9,85% di voti. Il partito lotta per l'indipendenza delle Fiandre sia linguistica che territoriale, per il respingimento dell'immigrazione e per creare una forma di Stato nazionalista. In Belgio il partito ha dovuto cambiare nome nel 2007 a seguito di una condanna per violazione della legge sul razzismo e la xenofobia, che sottolineava come il partito avesse «aiutato e supportato organizzazioni che sosteneva e divulgavano l'odio razziale e xenofobo».
Francia: Il Fronte Nazionale di estrema destra di Jean Marie Le Pen ha ottenuto nelle regionali del marzo scorso l'8,7% dei voti al livello nazionale, con punte che schizzano oltre il 20% in alcune regioni del nord e del sud della Francia. Le Pen, 81 anni, nel 2011 cederà il posto di presidente del partito che tiene dalla fondazione nel 1972. Due i candidati finora in corsa: la figlia Marine e l'europarlamentare Bruno Gollnisch.
Gran Bretagna: Il partito nazionalista (Bnp) di Nick Griffin ha conquistato nelle scorse europee due seggi, scioccando sia i laburisti che i conservatori. Griffin nel 2004 è stato arrestato perché sospettato d'incitamento all'odio razziale. Rilasciato su cauzione, aveva definito l'Islam una religione «viscida e perversa». Dal 1999 è leader del Bnp, che punta a «sfilare la Gran Bretagna» dalla «dittatura europea».
Finlandia: Occhi puntati sul partito nazionalista, euroscettico e anti-immigrati dei «Veri Finlandesi», guidato da Timo Soini. Alle europee 2009 ha ottenuto il 10% dei voti, rispetto allo 0,5% del 2004. Soini, con oltre 130.000 preferenze è risultato il politico più votato in assoluto nel Paese.
Danimarca: Il partito del Popolo Danese, nazionalista, xenofobo e euroscettico, che appoggia in Parlamento la coalizione al potere liberali-conservatori, ha ottenuto il 14,4% alle europee, con un balzo del +8,6% rispetto al 2004.
Germania: l'NPD viene considerato dalla popolazione un partito neonazista e xenofobo, non a caso vengono soprannominati, nel gergo comune, i nazi. Nelle ultime elezioni hanno ottenuto l'1,8% dei consensi. Sono forti in Sassonia.
Est Europa Infine ci sono i partiti dell'Est europeo ex comunista dove la connotazione ultranazionalista e fascista è prevalente, come il Partito della Grande Romania, i liberaldemocratici russi di Zhirinovski, il Partito nazionalista slovacco, il Partito della destra croata (Hrvatska Stranka Prava), il Partito radicale serbo di Vojislav Seselj. In Bulgaria il partito d'unione attacco nazionale, che persegue politiche nazionaliste, anti-turche, euro-scettiche e populiste, ha raggiunto nelle Europee 2009 il 12% dei voti. Il partito si è reso partecipe di molti scandali, sia giudiziari che politici. L'osservatore Stayanov nel parlamento europeo aveva inviato a tutte le parlamentari romene una e-mail in cui proponeva l'acquisto di bambine zingare. Non a caso, infine, l'estrema destra nazista ha il maggiore seguito proprio nell'ex Germania Est e in Russia con il partito Pamyat. Per quanto riguarda i Paesi baltici, in Lettonia sono presenti e radicati i seguenti partiti di estrema destra: Nuova era (16,38%), il partito per la madrepatria e la libertà (6%) e l'Uniti per la Lettonia (1,48%) che ha un simbolo che ricorda la svastica. In Lituania, Ordine e Giustizia, partito euroscettico della destra estrema, riceve il 12,9% dei consensi.

il Fatto 27.4.10
La Chiesa perde fedeli. E (molti) soldi
In Germania lo scandalo - pedofilia ha accelerato gli addii: 200 - 300 al mese. In Italia il calo è del 3%
di Andrea Gagliarducci

Da 200 a 300 abbandoni al mese nella diocesi di Bamberg, Baviera. Quando venne denunciato il caso delle molestie tra i Passerotti del Duomo, il coro di Ratisbona per anni diretto dal fratello del Papa (ma non all’epoca dei fatti incriminati) 193 cattolici della diocesi lasciarono ufficialmente la Chiesa. E si sono contati 4300 abbandoni nella diocesi di Augsburg, quella del vescovo Mixa, che la scorsa settimana ha rassegnato le dimissioni dopo uno scandalo di percosse e molestie.
Sono anni che la Chiesa di Germania fa i conti con un progressivo abbandono del numero di fedeli. Ma il recente scandalo pedofilia sembra abbia accelerato la tendenza. Non ci si può sbagliare. Anche perché l’appartenenza ad una Chiesa in Germania è definita dalla Kirchenstauer, la tassa sulla religione. Una tassa che vale una scomunica. In Germania, Stato e religione non sono separati: lo Stato dà aiuti agli studenti di religione che si preparano per il sacerdozio, dà sussidi agli asili e alle case per gli anziani gestiti dalle confessioni religiose, aiuta a riparare alcune chiese. E poi, il ministero delle finanze prende automaticamente una tassa, in genere dell’8 o 9 per cento, da ogni dichiarazione dei redditi e la trasferisce alle Chiese. Si può dare il contributo a cattolici, Evangelici o Ebrei. Si può anche scegliere di non darla a nessuno, ma se sei battezzato vieni comunque tassato, anche se non più praticante. È un sistema che dura dal 1827. In Germania questa imposizione fiscale è considerata moralmente obbligatoria: chi non vuole più pagarla lo può fare solamente distaccandosi dalla Chiesa. Il non adempimento ha come conse-
guenza una comunicazione agli organi competenti che provvedono ad annullare i sacramenti ricevuti: una sorta di “scomunica” dunque. C’è dunque una fortissima collaborazione tra Stato e Chiesa tedesca: grazie a un controllo incrociato dei dati, in caso di non adempimento del tributo le autorità inviano una lettera che sollecita il pagamento stesso, allegando, tra l’altro la documentazione relativa e l’attestazione che certifica l’appartenenza religiosa. E’ questo che permette alla Chiesa di Germania di certificare con tale precisione il numero di abbandoni. Così, la crisi della fede si risolve per ogni confessione in una crisi economica.
Non è così in Italia. Le firme a favore dell’8 per mille alla Chiesa Cattolica sono diminuite (si è passati – come aveva rivelato l’agenzia Adista dal 89,82% del 2008 all’86% del 2009), ma questo non porta a una crisi. Merito del meccanismo dell’8 per mille. Ogni cittadino che presenta la dichiarazione dei redditi può sceglierne la destinazione tra sette opzioni: Stato, Chiesa cattolica, Unione Chiese cristiane avventiste del 7° giorno, Assemblee di Dio in Italia, Unione delle Chiese Metodiste e Valdesi, Chiesa Evangelica Luterana in Italia, Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Se non si firma a favore di nessuno, l’imposta viene comunque prelevata e viene distribuita ad ogni confessione sulla base della percentuale di adesioni: l’89,81 per cento del gettito finisce dunque alla Chiesa, e quasi la metà di questi soldi è destinato alle esigenze di culto, mentre solo il 20 per cento alle opere di carità. L’unico modo di non destinare i fondi alla Chiesa cattolica è l’obiezione fiscale. Ma questa pratica è considerata tuttora illegale in Italia, anche se esistono disegni di legge tendenti a legalizzarla.

Repubblica 27.4.10
L’appello su "Le Monde"
"Difendiamo Israele, non le colonie" ebrei d´Europa in campo per la pace

PARIGI - «Vogliamo creare un movimento europeo capace di esprimere la voce della ragione». Comincia così l´appello che è stato pubblicato ieri su Le Monde e firmato da noti intellettuali ebrei d´Europa: «Il nostro obiettivo è difendere la sopravvivenza di Israele con la condizione necessaria della creazione di uno Stato palestinese sovrano».
L´appello sarà presentato al parlamento europeo il 3 maggio e ha tra i firmatari gli scrittori Alain Finkielkraut e Bernard-Henri Levy, il Nobel per la Fisica Daniel Cohen-Tannoudji, l´ex presidente della Svizzera Ruth Dreifuss, il rabbino di Bruxelles David Meyer, lo storico Pierre Nora. Dall´Italia, ha firmato anche Gad Lerner. «L´avvenire di Israele passa necessariamente per la pace con il popolo palestinese e l´affermazione del principio "Due popoli, due Stati"», ricordano i promotori. «Non sottovalutiamo la minaccia dei nemici esterni - continuano - ma sappiamo che il pericolo per Israele è anche nell´occupazione e nel prolungamento di colonie in Cisgiordania e nei quartieri arabi di Gerusalemme Est». L´appello è consultabile online al sito jcall.eu. (a. g.)

Repubblica 27.4.10
Il male oscuro delle famiglie un omicidio ogni due giorni
Violenza fra parenti, il 45 per cento avviene al Nord
L´Italia in vetta alle tristi classifiche europee in tema di "regolamenti di conti" domestici
di Piero Colaprico

ROMA - «L´unico consiglio che da donna posso dare alle donne è questo, di non sposare mai né un uomo prepotente né un uomo dipendente. Spesso è quest´ultimo, incapace di reggere il rifiuto, che prende un´arma»: parola di Isabella Merzagora, professore di criminologia alla facoltà di Medicina di Milano. Da trent´anni conosce assassini e vittime, ne ricostruisce le storie e ha materia, purtroppo, in abbondanza per le sue analisi.
Al Nord infatti si uccide di più e il mantovano Omar Bianchera, con le sue tre vittime di domenica, braccate e ammazzate, non rappresenta un´eccezione ma una conferma: oltre il 45 per cento degli omicidi in famiglia avviene al Nord, seguono sud e Isole quasi con il 33, e ultimo è il centro, vicino al 22 per cento. Il dato è stabile.
Finita la stagione delle grandi gang degli anni Settanta e Ottanta, ridotto ai minimi termini il terrorismo, eliminate negli anni Novanta molte strutture mafiose, soprattutto al Nord si è vista la violenza, che stava in strada, sfondare le porte dei tinelli, infiltrarsi sotto gli zerbini. È dal Duemila che in Italia, paese dove la retorica della famiglia è a mille, viene censito dagli investigatori un omicidio in famiglia ogni due giorni. Anzi, per la precisione, «ogni due giorni, due ore e venti minuti», come indicano all´associazione degli avvocati matrimonialisti: i quali, a loro volta, analizzano gli studi criminologi di Vincenzo Mastronardi. Simili numeri portano l´Italia in vetta in Europa, nostro il tragico primato di «regolamenti di conti» domestici.
In questa strage delle ragioni del cuore, il maggior numero di vittime sono donne. E al secondo posto ci sono i bambini. Prima muoiono i deboli, poi seguono altri gradi di parentela. E la spiegazione è semplice ma agghiacciante. Se la coppia scoppia non tra le carte bollate ma con il sangue, che cosa succede? «Quando le donne uccidono in famiglia - prosegue la criminologa Merzagora - uccidono spesso i piccoli, invece quando ad uccidere sono gli uomini il loro principale pensiero di morte è per la moglie, o ex moglie».
Esemplare, in questo senso, la tragedia avvenuta nel week end a Feletto Umberto, in Friuli. Coppia con figli: Salvatore, operaio di 39 anni, strangola per gelosia Carmela, bidella, di un anno più giovane, che aveva intrecciato una relazione con un altro uomo. Poi avvisa dal balcone di casa una vicina. E si scopre, nella storia familiare, che anche la madre di Carmela, vent´anni fa, era stata uccisa dal proprio marito: era stata scaraventata giù dalle scale, a Napoli. Una replica di donne vittime di mariti maneschi e «dominatori».
Quando si vanno a cercare i moventi di questi omicidi, si resta stupiti dal tasso di malessere: se in un caso d´omicidio su quattro la spinta è passionale, dettata dalla gelosia o da forme infelici d´amore, c´è da registrare che oltre il sedici per cento degli omicidi trovano terra fertile nei «disturbi psichici». Non sembrano bugie e scuse da avvocati. Non sono pochi i mariti che paiono «normali», ma nascondono una bestia dentro. I soldi? Contano, ma meno: il quindici per cento degli omicidi viene deciso «per l´assegnazione della casa», e un otto per cento dipende da «altre ragioni economiche», come l´assegno di mantenimento.
Ma perché nel Nord si uccide di più? Una risposta precisa non c´è, ma (forse) ancora oggi nel centrosud i segnali di disagio non passano sempre e completamente inosservati. Invece nelle province del Nord, ricche, spigliate, così simili alle città per stili di vita nel bene e nel male, quando qualcuno s´inabissa in un mix di solitudine e violenza più difficilmente incrocia qualcuno che gli dia retta: almeno sino a strage avvenuta. È che non si comprende con facilità quando scatta il punto di «non ritorno», come ricorda la professoressa Merzagora: «Bisogna studiare meglio - suggerisce - come e perché ci sono molestie che restano molestie e molestie che, invece, deflagrano in omicidio. Lo stalking, essere stati assillanti con il partner, è diventato per tutta la letteratura straniera un indizio preciso».
Le statistiche raccontano molto anche delle armi usate per questo sterminio coniugale. Per il cittadino ottenere il permesso per detenere un´arma non è difficile come sembra, anzi sembra più difficile togliere il porto d´armi a chi ce l´ha e non se lo «merita»: come accaduto a Milano e nella provincia di Novara, anni fa, dove due uomini con chiari indizi di pericolosità sociale si affacciarono alla finestra per eliminare «nemici» e passanti. Questi assassini familiari hanno spesso o un´arma da fuoco, oppure si procurano un coltello da incursore, come accadde la scorsa estate non lontano da Tradate, dove un papà uccise la moglie che si voleva separare da lui e i due bambini. É come scegliere di essere in guerra con la famiglia, ma uno la guerra ce l´ha già dentro: e, probabilmente, lo sa.

Repubblica 27.4.10
I giovani, l'amore, il sesso viaggio nell'Italia anni '60
di Michel Foucault

L´ANTICIPAZIONE / Ecco la recensione scritta da Michel Foucault nel 1977 al film-inchiesta del regista di "Comizi d´amore". Un ritratto del Paese e dei suoi cambiamenti
Qualcuno si decide, risponde esitando Si avvicinano, borbottano, le braccia sulle spalle, volto contro volto. Risa e tenerezza
Qualcuno manifesta anche il timore che molti comportamenti ora verranno tollerati Verrà meno una specie di ecosistema

Come nascono i bambini? Li porta la cicogna, da un fiore, li manda il buon dio, o arrivano con lo zio calabrese. Guardate il volto di questi ragazzini, invece: non danno affatto l´impressione di credere a ciò che dicono. Con sorrisi, silenzi, un tono lontano, sguardi che fuggono a destra e sinistra, le risposte a tali domande da adulti possiedono una perfida docilità; affermano il diritto di tenere per sé ciò che si preferisce sussurrare. Dire "la cicogna" è un modo per prendersi gioco dei grandi, per rendergli la loro stessa moneta falsa; è il segno ironico e impaziente del fatto che il problema non avanzerà di un solo passo, che gli adulti sono indiscreti, che non entreranno a far parte del cerchio, e che il bambino continuerà a raccontarsi da solo il "resto". Così comincia il film di Pasolini.
Enquête sur la sexualité (Inchiesta sulla sessualità) è una traduzione assai strana per Comizi d´amore: comizi, riunioni o forse dibattiti d´amore. È il gioco millenario del "banchetto", ma a cielo aperto sulle spiagge e sui ponti, all´angolo delle strade, con bambini che giocano a palla, con ragazzi che gironzolano, con donne che si annoiano al mare, con prostitute che attendono il cliente su un viale, o con operai che escono dalla fabbrica. Molto distanti dal confessionale, molto distanti anche da quelle inchieste in cui, con la garanzia della discrezione, si indagano i segreti più intimi, queste sono delle Interviste di strada sull´amore. Dopo tutto, la strada è la forma più spontanea di convivialità mediterranea.
Al gruppo che passeggia o prende il sole, Pasolini tende il suo microfono come di sfuggita: all´improvviso fa una domanda sull´"amore", su quel terreno incerto in cui si incrociano il sesso, la coppia, il piacere, la famiglia, il fidanzamento con i suoi costumi, la prostituzione con le sue tariffe. Qualcuno si decide, risponde esitando un poco, prende coraggio, parla per gli altri; si avvicinano, approvano o borbottano, le braccia sulle spalle, volto contro volto: le risa, la tenerezza, un po´ di febbre circolano rapidamente tra quei corpi che si ammassano o si sfiorano. Corpi che parlano di loro stessi con tanto maggior ritegno e distanza quanto più vivo e caldo è il contatto: gli adulti parlano sovrapponendosi e discorrono, i giovani parlano rapidamente e si intrecciano. Pasolini l´intervistatore sfuma: Pasolini il regista guarda con le orecchie spalancate.
Non si può apprezzare il documento se ci si interessa di più a ciò che viene detto rispetto al mistero che non viene pronunciato. Dopo il regno così lungo di quella che viene chiamata (troppo rapidamente) morale cristiana, ci si poteva aspettare che nell´Italia di quei primi anni sessanta ci fosse un certo qual ribollimento sessuale. Niente affatto. Ostinatamente, le risposte sono date in termini giuridici: pro o contro il divorzio, pro o contro il ruolo preminente del marito, pro o contro l´obbligo per le ragazze a conservare la verginità, pro o contro la condanna degli omosessuali. Come se la società italiana dell´epoca, tra i segreti della penitenza e le prescrizioni della legge, non avesse ancora trovato voce per raccontare pubblicamente il sesso, come fanno oggi diffusamente i nostri media.
«Non parlano? Hanno paura di farlo», spiega banalmente lo psicanalista Musatti, interrogato ogni tanto da Pasolini, così come Moravia, durante la registrazione dell´inchiesta. Ma è chiaro che Pasolini non ci crede affatto. Credo che ciò che attraversi il film non è l´ossessione per il sesso, ma una specie di timore storico, un´esitazione premonitrice e confusa di fronte a un regime che allora stava nascendo in Italia: quello della tolleranza. È qui che si evidenziano le scissioni, in quella folla che tuttavia si trova d´accordo a parlare del diritto, quando viene interrogata sull´amore. Scissioni tra uomini e donne, contadini e cittadini, ricchi e poveri? Sì, certo, ma soprattutto quelle tra i giovani e gli altri. Questi ultimi temono un regime che rovescerà tutti gli adattamenti, dolorosi e sottili, che avevano assicurato l´ecosistema del sesso (con il divieto del divorzio che considera in modo diseguale l´uomo e la donna, con la casa chiusa che serve da figura complementare alla famiglia, con il prezzo della verginità e il costo del matrimonio). I giovani affrontano questo cambiamento in modo molto diverso: non con grida di gioia, ma con una mescolanza di gravità e di diffidenza perché sanno che esso è legato a trasformazioni economiche che rischiano assai di rinnovare le diseguaglianze dell´età, della fortuna e dello status. In fondo, i mattini grigi della tolleranza non incantano nessuno, e nessuno vede in essi la festa del sesso. Con rassegnazione o furore, i vecchi si preoccupano: che fine farà il diritto? E i "giovani", con ostinazione, rispondono: che fine faranno i diritti, i nostri diritti?
Il film, girato quindici anni fa, può servire da punto di riferimento. Un anno dopo Mamma Roma, Pasolini continua su ciò che diventerà, nei suoi film, la grande saga dei giovani. Di quei giovani nei quali non vedeva affatto degli adolescenti da consegnare a psicologi, ma la forma attuale di quella "gioventù" che le nostre società, dopo il Medioevo, dopo Roma e la Grecia, non hanno mai saputo integrare, che hanno sempre avuto in sospetto o hanno rifiutato, che non sono mai riuscite a sottomettere, se non facendola morire in guerra di tanto in tanto.
E poi il 1963 era il momento in cui l´Italia era entrata da poco e rumorosamente in quel processo di espansione-consumo-tolleranza di cui Pasolini doveva redigere il bilancio, dieci anni dopo, nei suoi Scritti corsari. La violenza del libro dà una risposta all´inquietudine del film.
Il 1963 era anche il momento in cui aveva inizio un po´ ovunque in Europa e negli Stati Uniti quella messa in questione delle forme molteplici del potere, che le persone sagge ci dicono essere "alla moda". E sia pure! Quella "moda" rischia di rimanere in voga ancora per un po´ di tempo, come accade in questi giorni a Bologna.
Traduzione dal francese di Raoul Kirchmayr

lunedì 26 aprile 2010

Repubblica 26.4.10
La pillola della libertà
di Anais Ginori

Da anni si parla di un pillolo che possa andar bene per l´uomo. Ma la ricerca spiega che il traguardo è ancora lontano
Per anni c´è stata una campagna di demonizzazione di questo metodo. Ma i rischi per la salute non ci sono, anzi l´azione è benefica
Le interruzioni di gravidanza tra le adolescenti da noi sono cresciute in controtendenza rispetto al calo generale
Nel nostro Paese sono soprattutto le giovani alle prime esperienze che preferiscono il preservativo o il coito interrotto
Era il 9 maggio 1960 quando arrivò il primo farmaco che permetteva a lei di scegliere se procreare: sembrava l´inizio della libertà, non solo sessuale. Ma oggi, mezzo secolo dopo, negli Usa la metà delle gravidanze non è programmata. L´Italia è agli ultimi posti per l´uso del contraccettivo orale

Sempre in borsa, sul comodino prima di addormentarsi, la mattina accanto allo spazzolino da denti. Da mezzo secolo ormai è l´appuntamento irrinunciabile per molte, guai a dimenticarselo. Una donna su tre in Europa, una su sei in Italia, tiene come un feticcio quel cartoncino plastificato diviso per settimane, il blister. Venti giorni, poi una pausa di sette. All´inizio sembrava un oggetto non identificato, si chiamava Enovid. Arrivò sul mercato americano il 9 maggio 1960. "La pillola che libera il sesso" titolò Time. Con il tempo ha preso nomi sempre meno scientifici e più femminili: Arianna, Minesse, Yasmine, Kaira. Le confezioni sono diventate colorate, il blister ha esplorato tutte le geometrie possibili. Tondo, quadrato, rettangolare.
Dopo la scoperta rivoluzionaria del biologo ebreo americano Gregory Pincus, la ricerca è andata talmente avanti che oggi esistono oltre quaranta prodotti di contraccezione orale. Con o senza estrogeni, con più o meno progesterone, «mini» o «leggerissime», dalla mono alla quadrifasica. Da un anno è arrivata la pillola «bio», completamente naturale. Rilascia l´estradiolo, lo stesso estrogeno prodotto dal corpo femminile. Nell´ambito della contraccezione ormonale, ci sono anche cerotti, impianti sottopelle, anelli vaginali. Negli Usa si vende persino una puntura che permette di dire addio alle mestruazioni per dodici settimane.
Nelle sue infinite forme, continua a essere per tutti la Pillola. Il metodo contraccettivo preferito, il più sicuro. Nell´indice di Pearl che misura il numero di gravidanze indesiderate è allo 0,1%, contro un rischio fino al 2% del preservativo e tra il 20 e il 30% del coito interrotto. Le donne che la usano - le ricerche europee sono pressoché unanimi - hanno rapporti sessuali più frequenti e rilassati rispetto alle altre. «Per molti anni, c´è stata una demonizzazione di questo metodo, associato all´insorgenza di sterilità permanente, patologie tumorali e cardiovascolari» ricorda Giovanni Monni, presidente dell´associazione ostetrici e ginecologi ospedalieri. «L´azione della pillola - precisa - è assolutamente reversibile. Fin dal primo ciclo successivo alla sospensione, il ripristino della fertilità è completo». Uno studio pubblicato il mese scorso sul British Medical Journal, ha confermato che le donne che utilizzano la pillola hanno minor rischio di tumori alle ovaie e all´utero ed ha evidenziato anche una riduzione della mortalità per patologie cardiovascolari. Anche gli effetti secondari, almeno quelli più gravi, sono diminuiti. «La dose della componente estrogenica - aggiunge Monni - è stata gradualmente ridotta, con una flessione dei fenomeni tromboembolici».
Fu l´attivista americana Margaret Sanger, fondatrice della Planned Parenthood Federation, a convincere Pincus della necessità di sviluppare una contraccezione orale. Negli anni Cinquanta, la sperimentazione delle prime pillole venne condotta su donne-cavie di Portorico, Haiti e Messico. Dopo che la Food and Drug Administration ha dato il via libera, Enovid sbarca sul mercato statunitense. Nel 1961 il farmaco viene registrato in Germania. Dieci anni dopo arriva anche in Italia. La contraccezione smette di essere reato contro la stirpe, è abolito l´articolo 533 del codice penale.
La femminista Margaret Sanger era convinta che con la pillola non ci sarebbero mai più state gravidanze indesiderate. Le donne avrebbero finalmente potuto avere una maternità libera e consapevole. Eppure, mezzo secolo dopo, ancora metà delle gravidanze negli Stati Uniti non è programmata, ha notato il Wall Street Journal. Si continua ancora a rimanere incinta per distrazione, per errore o, più semplicemente, secondo natura. «All´inizio c´era la sensazione che la pillola potesse rompere lo schema della sessualità femminile al servizio dell´obbligo riproduttivo» ricorda Lea Melandri. Negli anni Settanta faceva parte dei gruppi di autocoscienza che indagavano i rapporti di potere tra i sessi. «Anche allora ho sempre avuto una personale ritrosia per la pillola - racconta - perché mi sembrava far riposare la contraccezione solo sulle spalle delle donne, non responsabilizzando gli uomini». Una certa diffidenza le è rimasta. «Non festeggerei quest´anniversario con tanti trionfalismi» aggiunge. «La libertà sessuale è qualcosa di più profondo. La scelta consapevole della maternità viene dalla possibilità di dire dei no e purtroppo non è ancora così per molte di noi».
Di sicuro, le italiane si comportano diversamente dalle altre donne europee. Ancora oggi il nostro paese è agli ultimi posti in Europa per l´utilizzo della contraccezione orale, con una percentuale del 16%, contro il 50% dell´Olanda, il 40% della Francia e il 30% della Svezia. Ci sono anche forti differenze regionali. I dati della Sigo, Società italiana di ginecologia e ostetricia, evidenziano una percentuale di utilizzo più elevata in Sardegna e Valle d´Aosta (31,1 e 24,4%), fino ai minimi di Campania e Basilicata (intorno al 7%). Le utilizzatrici sono di solito donne adulte e in coppia. «Le adolescenti alle prime esperienze - racconta Giovanni Monni - sono particolarmente preoccupate da effetti collaterali come il tanto temuto aumento di peso. Di solito preferiscono il coito interrotto o il preservativo».
Nel nostro paese rimane una certa resistenza femminile alla contraccezione. Una donna su due dichiara di non usare niente durante i rapporti. Spesso, almeno tra le giovani, succede per ignoranza. L´allarme è degli esperti della Sigo che domani organizzeranno un convegno su "Adolescenti, sessualità e media". Alcune ragazze credono, ad esempio, che di giorno non si può rimanere incinta oppure che lavarsi con la Coca-Cola limita i rischi. Dalla rivoluzione di Pincus, in tutti i paesi europei si è registrato un progressivo e costante aumento della diffusione dei contraccettivi orali. Non in Italia, dove invece è aumentata negli ultimi anni la contraccezione d´emergenza. Una donna su dieci ha avuto ricorso alla pillola del giorno dopo. Anche le interruzioni di gravidanza tra le adolescenti sono cresciute, in controtendenza rispetto al calo generale iniziato nel 1978, con l´approvazione della legge sull´aborto.
Nonostante l´offerta oggi non manchi, le donne continuano insomma a discutere, interrogarsi e a volte a rifiutare la contraccezione. Intanto, gli scienziati promettono di abbattere nuove frontiere. «La scoperta dapprima negli uccelli e, successivamente, anche nell´uomo, di una proteina prodotta dall´ipotalamo con funzione inibitoria sulla sintesi e rilascio delle gonadotropine è importante» dice il ginecologo Giovanni Monni. Si potrebbe così agire direttamente sugli organi maschili femminili e maschili. Da anni si parla di un contraccettivo ormonale per l´uomo. «La commercializzazione - osserva Monni - mi pare però lontana». La pillola continuerà ancora a lungo a rappresentare per le donne il metodo contraccettivo più sicuro ed affidabile. Per il Pillolo bisognerà aspettare la prossima rivoluzione.

Repubblica 26.4.10
I 50 anni della pillola che cambiò le donne
di Natalia Aspesi

Cinquanta anni fa la nascita dell´anticoncezionale più famoso. Bilancio di una rivoluzione per la vita delle donne. In Italia un successo a metà
Il Vaticano fece di tutto per impedire la diffusione del "vergognoso" farmaco

Se negli Stati Uniti la pillola, anzi la Pillola, compie 50 anni, da noi è molto più giovane, forse ne ha 39, forse ancora meno, 35. Ne ha 39 se si tiene conto che la Corte Costituzionale abrogò nel 1971 l´articolo del codice penale (553) che recitava, "Chiunque pubblicamente incita a pratiche contro la procreazione e fa propaganda a favore di esse è punito con la reclusione".
Se negli Stati Uniti la pillola, anzi la Pillola, compie 50 anni, da noi è molto più giovane, forse ne ha 39, forse ancora meno, 35. Ne ha 39 se si tiene conto che la Corte Costituzionale abrogò nel 1971 l´articolo del codice penale (553) che recitava, "Chiunque pubblicamente incita a pratiche contro la procreazione e fa propaganda a favore di esse è punito con la reclusione". Oppure ne ha 35 se si ricorda che i consultori pubblici in cui venivano date informazioni e prescrizioni contraccettive gratuite a tutte le donne furono aperti nel 1975, in tempi di rivolta di ogni tipo, femminista, sessuale, sociale, politica e generazionale. Non è che le italiane avessero atteso il permesso del governo e del Vaticano per appropriarsi della Pillola: allora c´erano più giovani medici rivoltosi che pii, inoltre le ragazze mettevano su ambulatori ovunque, sia per costringere le donne a guardarsi là, con specchietti tra le gambe, tanto per imparare ad apprezzare quella cosa tanto ambita dai maschi, sia per aiutarle clandestinamente in frangenti di disperazione.

Quindi la Pillola, tornata pillola, veniva prescritta per ingrassare, per dimagrire, per il mal di testa, per l´osteoporosi, per il cattivo umore, il fiato cattivo, per regolare le mestruazioni, contro l´acne e il prurito, addirittura in vista di una futura fecondazione. Se poi anche al momento impediva la stessa, erano conseguenze non programmate ma inevitabili. Le ragazze nascondevano negli stivali il prezioso cartoncino con le pillole numerate, in funzione antigenitori (certi comunque della verginità delle figlie), le mogli dove i mariti non mettevano mai il naso, tra le pentole, non perché costoro volessero una immensa prole (anzi ad ogni gravidanza, giù scenate alla sola responsabile, lei), ma perché le consideravano uno strumento del diavolo che avrebbe messo in pericolo la loro virilità: o come già i più svegli presagivano, il loro potere.
In Vaticano intanto si rumoreggiava: nel 1965 i suoi più solerti rappresentanti erano riusciti a impedire all´OMS di dare assistenza ai paesi in via di sviluppo in tema di pianificazione familiare; nel 1968 Paolo VI con quattro righe della sua enciclica Humanae Vitae bocciava il vergognoso farmaco, ed erano tempi ancora clementi se si pensa che nel 1990 Papa Wojtyla tuonò persino contro i cosiddetti metodi naturali che pur nella loro innocente e scomoda rozzezza sempre puntavano, del resto senza quasi mai riuscirci, a evitare la procreazione. Ma allora, visto il drammatico momento, con migliaia e migliaia di donne che non volevano più saperne di far dipendere le gravidanze dalla distrazione o noncuranza del maschio, per tenerle lontane dalla Pillola, eserciti di sacerdoti esortavano le donne cattoliche, sposate ovviamente, ad adottare l´angelico metodo naturale dei coniugi Billings, australiani e cattolici, per quando disgustoso, dovendo le signore misurare giornalmente la densità del muco cervicale; o a misurarsi tutti i giorni la temperatura basale era una gran noia, per non parlare del difficile calcolo matematico che bisognava fare con il metodo del calendario, massimamente fallimentare, tanto che circolava la battuta, "ho due padri, Ogino e Knaus". Restava la famosa emicrania, cui però non si poteva ricorrere più di tanto. C´erano altri modi per sconsigliare la Pillola, terrorizzando le sue consumatrici con apocalittiche conseguenze: fa venire la cellulite, ingrassa, procura il cancro, rende frigide e sterili, avvia alla demenza senile precoce, fa puzzare. La fortuna della Pillola fu che il suo arrivo sul mercato soprattutto italiano coincise col fatto che le donne non ne potevano più: delle gravidanze indesiderate, dei terrori mensili, dei maschi che dicevano non sono stato io, non dovevi starci, io cosa centro, è un problema tuo, se lo sa la mia mamma guai. Ma anche di tante altre cose, la mistica della femminilità, la vita domestica, la disparità sociale, i lavori senza carriera, molte professioni ancora inavvicinabili, la scarsa rappresentanza politica, una generale sudditanza all´imperio maschile. Se davvero aspettare un figlio, se non programmato dagli uomini, era una cosa che riguardava solo le donne, tanto valeva prendere in mano la situazione ed essere davvero quelle che avrebbero deciso davvero. Era una porta che si spalancava sulla libertà non solo sessuale, sull´autonomia personale, sulla possibilità di imparare a non dipendere. Eppure qualcosa non ha funzionato sino in fondo, e non solo perché a tutt´oggi nei paesi che ne avrebbe più bisogno, ma anche in Italia, la Pillola non ha una diffusione generale.
Oggi da noi le mamme più svelte portano le figlie 15enni dalla ginecologa perché gliela prescriva: ma il nuovo imperio maschile, sessuale, sociale, politico, è tale che questa protezione non le rende più consapevoli e libere ma solo più precocemente disponibili. Certo in tempi di moralismo persecutorio contro pillole più drastiche, la Pillola scongiura massimi fastidi e umiliazioni: ma ai tempi in cui le donne italiane finalmente se ne impossessarono, le attribuirono altre libertà, altre vittorie, altre promozioni che poi alla fine in qualche modo non sono venute.

Repubblica 26.4.10
"Il N.Y. Times non è anti-cattolico sugli scandali Vaticano reticente"
Usa, il garante dei lettori: "La Curia ha insabbiato"
di Clark Hoyt

Un alto esponente del Vaticano ha dichiarato che il New York Times «pecca di scorrettezza quando tratta di Papa Benedetto». L´arcivescovo di Brooklyn ha esortato i suoi parrocchiani a tempestare il giornale di messaggi accusandolo di accanirsi contro la chiesa cattolica. Anche i lettori del Wall Street Journal e di altre pubblicazioni hanno attaccato il quotidiano.
Centinaia di persone hanno scritto anche a me.
Il New York Times non è certo l´unico tra i giornali mondiali ad essersi occupato dello scandalo degli abusi sessuali nella chiesa cattolica, che recentemente ha toccato anche l´arcidiocesi tedesca un tempo di papa Benedetto XVI. Ma è stato in particolare un articolo del mese scorso a toccare un nervo scoperto. Sulla base di documenti giudiziari, il quotidiano è entrato nel merito di come gli esponenti della chiesa locale e il Vaticano gestirono il caso di un prete di Milwaukee accusato di aver molestato addirittura 200 bambini sordi. E ha affermato che alti esponenti del Vaticano, tra cui l´allora cardinale Joseph Ratzinger, non intervennero riducendo Padre Lawrence Murphy allo stato laicale, nonostante i ripetuti appelli dei vescovi americani, secondo i quali la mancata punizione avrebbe messo in imbarazzo la chiesa.
Il caso Murphy, nella cronaca che ne ha fatto il New York Times, documentata da atti giudiziari pubblicati sul sito web del quotidiano, si può riassumere in questi termini: Murphy prestò servizio presso una scuola cattolica per bambini non udenti dal 1950 al 1974. Benché fosse giunta notizia ai tre arcivescovi succedutisi a capo della diocesi che il sacerdote molestava i bambini, Murphy fu trasferito in sordina nel Wisconsin settentrionale, dove continuò per 24 anni a lavorare con bambini nelle parrocchie e in un carcere minorile. I vertici ecclesiastici non lo denunciarono mai alle autorità giudiziarie, e non venne dato seguito alle denunce presentate dalle vittime e dai loro familiari alla polizia e ai pubblici ministeri. Nel 1996, dopo più di 20 anni dal trasferimento di Murphy, l´arcivescovo di Milwaukee, Rembert Weakland, scrisse a Ratzinger informandolo di essere appena venuto a conoscenza di un atto particolarmente grave compiuto dal sacerdote, ossia adescamento in confessionale, a scuola. Pur non avendo ricevuto risposta, Weakland diede avvio ad un processo ecclesiastico. Preoccupato per i termini di prescrizione del reato, si rivolse ad un altro ufficio a Roma per ottenere una deroga, ma fu reindirizzato all´ufficio di Ratzinger.
Dopo otto mesi, il vice di Ratzinger, Cardinal Tarcisio Bertone, oggi seconda massima carica del Vaticano, autorizzò un processo che avrebbe potuto condurre all´allontanamento di Murphy dal sacerdozio. Ma Murphy si appellò a Ratzinger, sostenendo che le accuse si riferivano a più di 25 anni prima, che ormai aveva 72 anni ed era in cattive condizioni di salute, e che si era pentito. Bertone allora suggerì di intervenire senza arrivare all´allontanamento. Weakland disse che in un incontro in Vaticano non riuscì a persuadere Bertone ed altri alti prelati a far proseguire il processo, interrotto nel 1998, poco prima della morte di Murphy. Questa versione dei fatti è documentata.
Molti lettori, inclusi esponenti religiosi, hanno inteso l´articolo come un attacco diretto a Papa Benedetto XVI. Ma molte delle critiche mosse non reggono. Scivendo sul National Review Online, Raymond J. de Souza, sacerdote e docente presso la Queen´s University dell´Ontario, dice che il New York Times accusa Ratzinger di «essere intervenuto» per salvare Murphy. Non è così. L´articolo non stabilisce il ruolo di Ratzinger, se mai lo abbia avuto, si limita a dire che le comunicazioni riguardanti il caso Murphy furono indirizzate a Ratzinger e che il suo vice intervenne. C´è una bella differenza.
Alcuni lettori dicono che il New York Times è anti-cattolico. Si chiedono come mai non dia pari risalto a vicende di abusi sessuali nelle scuole, o in altre religioni. Altri sostengono che con Benedetto XVI la reazione del Vaticano a questi casi è migliorata, sono state snellite le procedure per dar seguito alle denunce e scusarsi con le vittime. Ma sarebbe irresponsabile ignorare le continue rivelazioni, come quelle relative ai tempi in cui Benedetto XVI era arcivescovo a Monaco di Baviera.
Che piaccia o meno, esistono circostanze che hanno legittimato questo andazzo per anni, incluso un sistema ben documentato di negazione e insabbiamento in un´istituzione con miliardi di seguaci. Per quanto doloroso sia, il giornale ha l´obbligo di seguire la vicenda fin dove conduce, anche alla porta del Papa.
(© New York Times/la Repubblica. Traduzione di Emilia Benghi)

Repubblica 26.4.10
Cervello
Ecco perché sappiamo fare solo due cose alla volta
di Elena Dusi

La funzione di coordinamento dell´attenzione della corteccia prefrontale

A ogni emisfero un compito, tre contemporaneamente lo mandano in tilt: lo rivela uno studio su "Science" Quello sinistro si impegna nelle attività più difficili, quello destro in quelle più facili, nei mancini è il contrario

L´organo del pensiero davanti a troppe funzioni è come un giocoliere che sbaglia

Parlare al conducente si può, ma senza aggiungere altre distrazioni. Svolgere due compiti insieme è infatti il massimo che un cervello umano possa tollerare. Di fronte al terzo, le sue capacità di giocoliere si confondono. E tra guidare, conversare e mandare un sms si rischia di creare un pericoloso corto circuito.
Il motivo per cui l´uomo può svolgere due compiti insieme - ma non di più - è semplice: il nostro cervello è diviso in due emisferi. Quanto l´attenzione è focalizzata su una sola attività, entrambi vi si dedicano all´unisono. Quando i compiti da svolgere sono due, ogni emisfero si prende un incarico. Davanti a tre performance contemporanee l´organo del pensiero inizia invece a saltare dall´una all´altra come un funambolo, sprecando energia e commettendo molti errori. La dimostrazione arriva da uno studio pubblicato su Science e condotto a Parigi nei laboratori dell´Institut national de la santé et de la recherche médicale.
I neurologi hanno sottoposto alcuni volontari a un gioco in cui dovevano completare delle parole con le lettere mancanti. Il gioco veniva poi sdoppiato in due sessioni leggermente diverse che andavano svolte contemporaneamente. Nel frattempo la risonanza magnetica funzionale osservava come gli emisferi del cervello si dividevano i compiti, con un´area della corteccia frontale situata al di sopra degli occhi incaricata di smistare i due giochi fra le due metà dell´organo del pensiero. Ai volontari era stato promesso un premio in denaro per ogni manche del gioco conclusa senza errori. Ma quando il puzzle delle lettere passava da due a tre sessioni simultanee, la quantità di sbagli commessi addirittura triplicava nonostante gli sforzi dei giocatori. La ricerca di Science, spiega uno degli autori Etienne Koechlin intervistato dalla Bbc, spiega come mai «le persone riescano a scegliere bene quando si trovano di fronte a due opzioni, ma finiscano col prendere decisioni irrazionali quando le strade possibili diventano tre o più».
Di fronte a troppi birilli da far roteare nell´aria, la corteccia prefrontale perde le sue doti di giocoliere e finisce col "far cadere a terra" uno dei tre compiti da affrontare. «Questo limite - scrivono ancora i ricercatori su Science - è purtroppo un freno alla nostra capacità di effettuare ragionamenti profondi, in cui siamo chiamati a prendere in considerazione molte alternative. Il nostro cervello funziona secondo un sistema binario e sa scegliere bene quando è chiamato a valutare solo due opzioni».
Oltre a scoprire che il nostro cervello è ben capace di svolgere due compiti insieme - gli studi precedenti di neuroscienze avevano messo in luce più che altro i limiti del multitasking - i ricercatori francesi si sono accorti che i volontari impegnati nel gioco delle parole non si dedicavano alle due partite in maniera esattamente simultanea. La corteccia prefrontale infatti faceva slittare di continuo l´attenzione da una partita all´altra, impegnando ora l´uno ora l´altro emisfero. L´area del cervello che svolge il compito di vigile urbano tra i due emisferi, deviando in continuazione l´attenzione fra un compito e l´altro, è molto più sviluppata negli esseri umani che non nelle altre specie. Sembrerebbe questo il motivo per cui le scimmie non vengono osservate mangiare mentre spulciano un compagno o viceversa.
L´abilità del cervello umano dunque sta tutta nel saltare da un compito all´altro con grande velocità, riprendendo la partita lasciata in sospeso senza perdere il filo e dando l´impressione che l´attenzione non sia mai stata distolta da nessuno dei due compiti. Tanto rapidi sono i salti di campo che il cervello riesce a compiere, da darci l´impressione di giocare effettivamente in contemporanea sui due tavoli, come i grandi scacchisti impegnati in partite simultanee ma che in realtà devono focalizzarsi su un match alla volta per decidere la prossima mossa.

Repubblica 26.4.10
Lo psichiatra Pietro Pietrini, esperto di multitasking e autore di parte della ricerca
"Ma questa specializzazione è la nostra marcia in più"

ROMA. Il primo capitolo della ricerca di Science è stato scritto in Italia. Dove Pietro Pietrini, psichiatra e direttore del dipartimento di medicina di laboratorio e diagnostica molecolare dell´ospedale universitario di Pisa, si era dedicato agli studi sul multitasking con l´aiuto dei giochi di parole e della risonanza magnetica funzionale.
Finora del multitasking si erano messi in evidenza i limiti. Ora scopriamo che il cervello ha una marcia in più.
«Gli emisferi del cervello non sono come i polmoni e i reni, che svolgono entrambi la stessa funzione. Nell´organo del pensiero le due metà sanno dividersi i compiti e specializzarsi. Con in più il ruolo di controllore svolto dalla corteccia frontale. E stiamo parlando solo di un gioco al computer. Se a questa attività aggiungiamo il mondo delle emozioni o del controllo della volontà, ci rendiamo conto di quale realtà composita e articolata sia il nostro cervello».
Con computer e telefonini sempre accanto, due compiti potrebbero sembrarci pochi.
«Eppure dal punto di vista dell´evoluzione questo schema è molto funzionale. Se un uomo insegue una preda, dedica tutte le sue energie alla caccia. Ma non può concentrarsi esclusivamente su quell´attività. Deve avere la possibilità di accorgersi, per esempio, di un eventuale altro predatore che stia cacciando lui. Deve cioè avere sempre la possibilità di passare a un nuovo compito più importante di quello che sta svolgendo. Se poi le strade da seguire sono più di due, verranno prese in considerazione in tappe successive, come nei match a eliminazione dello sport».
(e.d.)

Repubblica 26.4.10
Un convegno a Roma lo ricorda
Giovanni Jervis uno spirito libero

ROMA - Si poteva dissentire da lui, anche ferocemente, ma non ignorare il suo metodo critico, la difesa dell´esercizio della ragione, la visione anti-idolatrica della cultura, l´allergia per le forme più sciatte della divulgazione. «Contro il "sentito dire"», è il titolo del convegno su Giovanni Jervis, scomparso l´estate scorsa a settantasei anni, in programma tra oggi e domani a Roma, presso la facoltà di Psicologia in via dei Marsi.
Psichiatra e terapeuta di formazione analitica, prima allievo di De Martino, poi in duetto-duello con Basaglia, una cattedra di Psicologia dinamica - quella di Jervis è stata una lunga e controversa carriera intellettuale. Dei suoi studi sulla psichiatria sociale e i fondamenti delle teorie psicoanalitiche (Manuale critico di psichiatria, 1975; La psicoanalisi come esercizio critico, 1989), sulle intersezioni tra psicologia, sociologia, antropologia e politica (Contro il relativismo, 2005; Pensare dritto, pensare storto, 2007), parleranno una ventina di relatori - come Mecacci e Onnis, Marramao e Dazzi, Migone e la Gallini. Tra i protagonisti del convegno, c´è Gilberto Corbellini, lo storico della medicina con cui Jervis ha scritto l´ultimo libro (Bollati Boringhieri, settembre 2008). Si chiama La razionalità negata, un titolo che fa il verso a L´istituzione negata, il volume a cura di Franco Basaglia uscito nel ´68 da Einaudi.
Lu. Si.

domenica 25 aprile 2010

l'Unità 25.4.10
Sindrome Ipazia oer la Chiesa del XXI secolo
di Nicla Vassallo
qui
http://www.scribd.com/doc/30461446/IPAZIA-Nicla-Vassallo-sull-Unita-del-25-4-10

Repubblica 25.4.10
Resistenza, le parole che non diciamo più
di Gustavo Zagrebelsky

Le lettere dei condannati a morte della Resistenza non sono state scritte per venire in mano a noi che le leggiamo. Sono state concepite in un momento della vita che solo a pochi è dato di vivere.

Quel momento terribile e solenne della contemplazione attuale della propria morte, quando in lucidità e coscienza si è faccia a faccia con se stessi, spogliati di tutto ciò che non è essenziale. Esse sono indirizzate alla cerchia delle persone più vicine e care, in cui sono riposti gli affetti e da cui nascono e si alimentano le energie vitali che ci conducono ad agire nel mondo. Questi testi sconvolgenti parlano della morte freddamente disposta da esseri umani nei confronti di altri esseri umani e questi ultimi colgono negli ultimi istanti della loro vita, nell´attesa consapevole della fine. Ogni facoltà spirituale deve essere stata provocata fino all´estremo. La psiche non può essere sollecitata più di così, dicono coloro i quali, per un motivo inaspettato, sono scampati alla morte e hanno potuto rendere testimonianza. Le parole scritte in quelle circostanze, soprattutto quelle svuotate dall´uso quotidiano – amore, affetto, perdono, casa, papà e mamma – , dalla retorica politica – patria, onore, umanità, pace, fedeltà al giuramento – o dall´estraneità alla nostra diretta esperienza – torturare, fucilare, impiccare, tradire – tornano d´un colpo a riempirsi di forza e significato essenziali. Sono parole ultime, destinate a restare chiuse entro cerchie affettive limitate. Ma chiunque sia disposto a liberarsi per un momento dall´abitudine della mediocrità che tutto livella, smussa e ottunde, può meditarle in sé, senza intermediari.
Se affrontiamo questa lettura emotivamente gravosa, facciamolo col pudore di chi sa di accingersi a qualcosa simile a una profanazione, in colloquio diretto e silenzioso, da coscienza a coscienza. Soprattutto, leggiamo col pudore di chi sa guardarsi dalla presunzione del voler giudicare. Queste lettere chiedono di comprendere, non di giudicare. Nessuno di noi – intendo: nessuno di coloro che non appartengono alla generazione di allora – può pretendere l´autorità del giudice. Se è vero che ci si conosce soltanto nel momento decisivo della scelta esistenziale e che solo lì ciò che di profondo è latente in noi viene a galla, noi non ci conosciamo. Non siamo stati messi alla prova. È facile, ma futile, profferire giudizi e perfino esprimere adesione ideale, ammirazione per gli uni e sdegno o condanne per gli altri. Dovremmo sempre chiederci chi siamo noi, per voler giudicare. Dovremmo temere che qualcuno ci dica: ti fai bello di ciò che è di altri; tu forse saresti stato dalla parte dei carnefici o saresti stato a guardare. E non sapremmo come rispondere.
Conosciamo le condizioni del nostro Paese all´8 settembre del 1943 e immaginiamo quali poterono essere le molte ragioni, ideali e personali, influenti sulle scelte che allora a molti si imposero. Nessuno di noi può avere la certezza che, in quelle condizioni ed esposti alle stesse pressioni, saremmo stati dalla parte giusta e non saremmo stati portati dalle circostanze dalla parte dei criminali. Questo non significa affatto parificare le posizioni o giustificare i crimini. Significa cercare di capire, dicendo con franchezza a noi stessi: rendiamo grazie alla provvidenza o alla sorte perché ci è stato risparmiato di vivere in quel tempo.
La generazione che ha vissuto i fatti di cui parliamo non esiste più. Per le nuove generazioni e, soprattutto, per chi oggi è ragazzo, non si tratta di rivivere o rievocare vicende in cui vi sia stato un coinvolgimento anche soltanto indiretto, attraverso il ricordo di chi le visse. Inevitabilmente questi testi sono letti oggi con un´attutita percezione dell´originario significato politico e impatto emotivo, nel momento della lotta per la liberazione dall´incubo totalitario, dal nazismo e dal fascismo, nel momento in cui si coltivava l´aspirazione a un´Italia nuova, giusta, civile, pacificata. «Sappi che tuo figlio muore per un alto ideale, per l´ideale della Patria più libera e più bella», scrive un anonimo. Gli orientamenti politici erano diversi, ma comune era l´idea, anzi la certezza di un riscatto morale imminente, che avrebbe trasformato nel profondo, e in meglio, la società italiana. Le Lettere sono un´elevatissima testimonianza di questa tensione. In tutte si legge la consapevolezza di vivere un momento di svolta nella storia d´Italia. Il dopo non avrebbe dovuto, né potuto assomigliare al prima. Ai figli piccoli, che non possono ancora comprendere, si dà l´appuntamento a quando, cresciuti, sarebbero stati in grado di capire per quale altra Italia i padri e le madri avevano combattuto ed erano morti. In momenti critici come quelli degli anni ´43-´45, non si poteva restare a guardare. Tutti dovevano contribuire. In molte lettere è testimoniata l´irresistibilità dell´appello a prendere posizione. «Nel mio cuore si è fatta l´idea (purtroppo non da troppi sentita) che tutti più o meno è doveroso dare il suo contributo», scrive una donna ai fratelli, per giustificare, anzi scusare la sua scelta. Molti sentono così di dover spiegare il perché del loro "aver preposto" l´Idea, la Patria o il dovere ai legami familiari e domandano perdono di questo.
Naturalmente, non tutti stavano dalla stessa parte. Nei confronti di chi stava dall´altra, la disposizione spirituale è molto varia. Alcuni chiedono vendetta. Ma altri parlano del nemico col rispetto dovuto a chi una scelta, sbagliata ma non necessariamente in malafede, ha pur fatto: «Negli uomini che mi hanno catturato ho trovato dei nemici leali in combattimento e degli uomini buoni durante la prigionia». Altri, ancora, si rimettono a una giustizia superiore, invitando chi resta a fare altrettanto: coloro che mi uccidono sono uomini e «tutti gli uomini sono soggetti a fallire e non hanno perciò diritto di giudicare poiché solo un Ente Superiore può giudicare tutti noi che non siamo altro che vermi di passaggio su questa terra». Altri ancora invitano al perdono: «Perdono a coloro che mi giustiziano perché non sanno quello che fanno e non sanno che l´uccidersi tra fratelli non produrrà mai la concordia». Il disprezzo, se mai, è verso gli inescusabili, coloro che non prendono posizione, coloro "che non furon ribelli né pur fedeli" (Inferno, III, 38-39), cioè gli ignavi, gli "attendisti". Su questo punto dobbiamo constatare una grande distanza tra noi e chi ha lasciato la vita per una ragione ideale sul fronte antifascista ma, allo stesso modo, anche chi ha combattuto sul fronte opposto. Si estende ogni giorno di più un giudizio che non solo assolve, ma addirittura valorizza l´atteggiamento di chi è stato a guardare, per poi eventualmente godere dei frutti di libertà ottenuti col sacrificio di altri. Nelle Lettere, leggiamo invece parole come queste: «Quando penso che siamo vicini molto vicini alla nostra ora, mi raccomando e son più che certo che tutti in quell´ora scatteranno in piedi, impugneranno qualsiasi arma e colui che non l´adopera sarà un vile e un codardo». Non risulta che l´accanimento revisionistico di tutto ciò che ha a che fare con i fatti e gli atti della Resistenza sia arrivato direttamente ed esplicitamente alle Lettere, per sminuirne, relativizzarne, se non negarne l´alto valore civile. Può essere che si arrivi anche a questo. Il pericolo è rappresentato piuttosto da un oblio che si vorrebbe giustificato da un´interpretazione pacificatrice da stendere su quegli avvenimenti. Essi sarebbero il frutto di un´esasperazione incompatibile con l´autentico nostro carattere nazionale, un carattere rappresentato da quella parte maggioritaria del popolo italiano che ha assistito da estranea o con atteggiamenti di puro soccorso umanitario, nell´attesa dell´esito degli eventi. Secondo questa visione, i combattenti sui due fronti, fascista e antifascista, avrebbero rappresentato entrambi una deviazione estranea alla nostra tradizione: una tradizione moderata, ostile agli eccessi, aperta a ogni aggiustamento e a ogni compromesso, garantita da una presenza moderatrice e stabilizzatrice come quella della Chiesa cattolica.
Gli uni e gli altri, insieme alla lotta mortale che combatterono e alle ragioni etiche e politiche che li contrapposero, sarebbero così da condannare alla pubblica dimenticanza, come elementi accidentali e come fattori di perturbazione della storia che autenticamente appartiene al popolo italiano. In questo modo, fascismo e antifascismo sono prima accomunati in un medesimo giudizio di equivalenza, per poter poi essere congiuntamente messi ai margini della pubblica ricordanza. All´antifascismo, quale fattore costitutivo delle istituzioni repubblicane, verrebbe così a sostituirsi qualcosa come un "nonfascismo-nonantifascismo", conforme al genio, che si pretende propriamente italiano, di procedere diritto tra opposti eccessi. Questa tendenza è pienamente in atto nel senso comune, alimentata da una storiografia e da una memorialistica sorprendentemente sicura di sé nelle definizioni del carattere nazionale e nella qualificazione dell´attendismo come virtù di saggezza pratica, invece che come vizio di apatia: una storiografia che, quando si avventura su simili strade, è più ideologia che scienza.
Chi ha sacrificato la vita, non importa da che parte, trarrebbe motivo di sconforto e offesa da questo giudizio liquidatorio. Sarebbe forse portato a riportarsi a quanto stabilito da Solone, tra le cui leggi – riferisce Plutarco (Vita di Solone, 20,1) – ve n´era una, del tutto particolare e sorprendente, che privava dei diritti civili coloro i quali, durante una stasis (un conflitto tra i cittadini), non si fossero schierati con nessuna delle parti contendenti. Egli voleva, a quanto pare, che nessuno rimanesse indifferente e insensibile di fronte al bene comune, ponendo al sicuro i propri averi e facendosi bello col non partecipare ai dolori e ai mali della patria; ma voleva che ognuno, unendosi a coloro che agivano per la causa migliore e più giusta, si esponesse ai pericoli e portasse aiuto, piuttosto che attendere al sicuro di schierarsi dalla parte dei vincitori.
Una simile legge sembra dettata da indignazione morale e non da prudenza politica. L´idea di una guerra civile obbligatoria certo spaventa. Ma giustificare l´ignavia e l´opportunismo, farne anzi una virtù pubblica, è cosa diversa e incomprensibile, a meno che si abbia in mente un popolo prono e incapace perfino di avvertire d´esserlo. Ma, forse, Solone mirava a qualcosa di più profondo: non alla guerra civile obbligatoria per legge, ma alla prevenzione della guerra civile. Tutti devono sapere che, nel momento della crisi che precipita, nessuno sarà giustificato se avrà fatto solo da spettatore dei drammi e delle tragedie dei suoi concittadini, da estraneo. Tutti allora operino per evitare che quel momento arrivi; operino dunque preventivamente per la concordia, per la pace, per isolare fanatici, violenti e demagoghi.
Le Lettere contengono la voce d´un altro popolo, di uomini e donne, d´ogni età e classe sociale, consapevoli del dovere della libertà e del prezzo ch´essa, in momenti estremi, comporta. Chi le legge oggi vi trova un´Italia diversa dalla sua, cioè dalla nostra, dove non si esitava a correre pericoli estremi per parole che oggi non si pronunciano più o, se le si pronunciano, lo si fa con il ritegno di chi teme d´appartenere a una generazione di sopravvissuti. Sono quasi una sfida, un invito a misurarci rispetto a quel tempo, il tempo della libertà e della democrazia riconquistate; un invito a domandarci quale strada abbiamo percorso da allora.
Il testo è parte dell´intervento che sarà letto stasera alle 21 all'Auditorium di Roma in occasione del 25 aprile

Corriere della Sera 25.4.10
Bersani: un patto anche con l'ex capo di An
di Monica Guerzoni
qui
http://www.scribd.com/doc/30461154/Corriere-Della-Sera-Bersani-un-patto-anche-con-l%E2%80%99ex-capo-di-An-25-apr-2010-Page-5

Corriere della Sera 25.4.10
La paura di elezioni ridà corpo al progetto del cartello anti premier
di Massimo Franco
http://www.scribd.com/doc/30461059/Corriere-Della-Sera-La-paura-di-elezioni-rida-corpo-al-progetto-del-%C2%ABcartello%C2%BB-anti-premier-25-apr-2010-Page-5

il Riformista 25.4.10
Bersani lancia il Cln
Nel Pd vincono i pro-Fini
«Ha ragione, muoviamoci»
di Alessandro Calvi
qui e qui
http://www.scribd.com/doc/30461977
http://www.scribd.com/doc/30461975

Repubblica 25.4.10
Il direttore di Farefuturo, Campi. Intesa col Pd se prevarranno i falchi del Pdl e il ricorso al voto anticipato
"Se salta tutto pronti al governo tecnico ma solo per rifare la legge elettorale"
Le liste di proscrizione sono una roba da antica Roma, una visione barbarica della politica. Spero non accada
di Alessandra Longo

ROMA - Alessandro Campi, direttore scientifico di "Farefuturo", cioè della fondazione, con annessa rivista web, considerata il quartier generale del pensiero finiano, e perciò temuta e detestata dai sacerdoti fedeli a Silvio, riassume lo stato attuale del Pdl: «Siamo di fronte ad un grandissimo caos». Un caos dove può succedere di tutto: dalla caccia agli uomini di Fini, in stile «antica Roma», con inevitabile risposta dei braccati in Parlamento, allo scenario ultimo, le elezioni anticipate. Campi ragiona su quest´ultima ipotesi che potrebbe albergare nella testa di Berlusconi: «Si aprirebbero grandiose incognite». Il direttore di "Farefuturo" non vede certo Fini appassionarsi alla «nascita di un programma politico comune» con le opposizioni, per intenderci la linea Cln di queste ore. Ma se si arrivasse ad un passo dalle urne? Silenzio di qualche secondo ed ecco che cosa evoca il professore: «Un governo tecnico, di transizione, di nessun colore politico, con un solo punto all´ordine del giorno: l´eliminazione di quell´obbrobio che è l´attuale legge elettorale». Messaggio chiaro agli avversari interni.
Professor Campi, passano i giorni ma non tira aria di ricomposizione tra Fini e Berlusconi. Lei come la vede? Come andrà a finire?
«Sicuramente nessuno immaginava una chiusura così netta, brusca, brutale, con la firma di quel brutto documento finale, il cui contenuto nega l´esistenza stessa di un partito che si vuole liberale. Il Pdl e Berlusconi hanno perso un´occasione. Il premier ha vissuto come un affronto personale il gesto di Fini. Ha un´idea cosmetica della lotta politica. E´ abituato solo agli omaggi in pubblico».
E adesso è cominciata la caccia al finiano.
«L´ho letto sui giornali. Spero non sia così, spero che siano voci irresponsabili messe in giro dai falchi del berlusconismo. Le liste di proscrizione sono roba da antica Roma, una visione barbarica della politica. Potrebbero innescare la legittima reazione difensiva dei "bersagli"».
Cioè?
«Dovendo soccombere, uno vende cara la pelle. Il rischio è quello di una guerriglia tattico-parlamentare che potrebbe poi mettere in crisi il governo. Ma io spero che tutto questo non accada. C´è anche un´altra ipotesi: che la drammatizzazione di queste ore sia voluta, cercata, che Berlusconi si sia messo in testa di andare ad elezioni anticipate».
E allora?
«Allora si andrebbe incontro a grandiose incognite. Il percorso per le elezioni anticipate, ammesso che il capo dello Stato lo conceda, non è così lineare. Qui si inserisce lo scenario evocato da Bersani, la chiamata alle armi...».
Potrebbe interessare ai finiani?
«Si possono immaginare soluzioni parlamentari di intesa, di accordo, ma non in chiave di salvezza pubblica. Le aspettative del centrosinistra nei confronti di Fini sono un errore, sono indicative di una grande debolezza. Non è Fini il grimaldello, non è lui che può togliere le castagne dal fuoco alla sinistra. Non vedo la nascita di un programma politico comune. Il comitato di salvezza è un´altra forma di radicalismo».
E che cosa si immagina?
«Credo che, al caso, l´unico spazio di accordo possibile tra il centrosinistra e i finiani, come li chiamate voi, è quello che prevede il cambio di questa legge elettorale. Un cambio nel nome e per conto del popolo italiano, così tanto evocato».
Un cambio affidato a chi?
«Ad un governo tecnico, di transizione, con nessun valore politico. Comunque Fini ha altro in testa».
Esattamente cosa?
«Vuol portare avanti il suo progetto politico di una destra alternativa a quella forzista-leghista, una destra più morbida. Si è qualificato su alcuni temi come la laicità, l´immigrazione. Adesso inizia la fase due: deve allargare, aggregare. Non ha in mente una microcorrente di reduci. Ha un obiettivo alto. Dentro o fuori il Pdl lo perseguirà».

Repubblica 25.4.10
Nichi Vendola
"Non tendiamo la mano alla destra un fronte comune e li batteremo"
Il governatore pugliese: "In caso di crisi di governo non ho paura delle elezioni anticipate"

ROMA - «Io non ho paura di elezioni anticipate». Nichi Vendola, il "governatore" della Puglia in pole position come candidato premier del centrosinistra (se il Pd fosse disposto a cedere il passo a un "papa straniero"), non è d´accordo con Bersani. Non lo convince il "Cln", il comitato di salute pubblica allargato anche a Fini, che il segretario del Pd ha proposto. Piuttosto, dice, ci vuole «un player contro la destra in crisi, un giocatore per l´alternativa».
Ma lei Vendola, vorrebbe elezioni anticipate?
«Se una coalizione di governo si rompe in modo verticale, su elementi strategici di fondo, è oggettiva la conseguenza di tornare alle urne. Non dovrebbero essere uno spavento per l´opposizione. Ma il centrosinistra è più preoccupato del centrodestra nello scongiurare le elezioni anticipate e questo la dice lunga sul fatto che il cantiere dell´alternativa è tutto da costruire».
La proposta di un Cln allargato anche a Fini, la condivide?
«Questa disponibilità mostra una contraddizione. La destra ci offre il più repellente dei terreni di confronto, cioè la modifica della Costituzione e la deriva plebiscitaria passa proprio attraverso la rottura della cultura costituzionale del paese».
Il segretario del Pd, Bersani chiama a raccolta l´opposizione: già fissato l´incontro?
«So che mi cercherà, sì. Penso anch´io che un primo incontro tra tutte le forze dell´opposizione sia molto importante per un promemoria comune. Propongo la convocazione degli Stati generali dell´alternativa, non solo i partiti del centrosinistra ma anche movimenti, associazionismo...».
(g.c.)

Corriere della Sera 25.4.10
Pedofilia. In Belgio trecento casi
Via alla maxi indagine
di Ivo Caizzi
qui
http://www.scribd.com/doc/30461097/Corriere-Della-Sera-%C2%ABIn-Belgio-trecento-casi%C2%BB-Via-alla-maxi-indagine-25-apr-2010-Page-12

Repubblica 25.4.10
C'era una volta il Primo Maggio
Le piazze insanguinate del "sol dell´avvenir"
di Nello Ajello

La festa compie 120 anni. Una mostra ne racconta la fase eroica, quando ad attendere i lavoratori in piazza c´erano le truppe armate di mitragliatrici

Manifesti, verbali di questura, bandiere, vecchi giornali I primi anni della festa del lavoro in Italia vengono ripercorsi da venerdì prossimo a Roma in una mostra all´Archivio centrale dello Stato. Una storia di conflitti sociali e di speranze politiche che Mussolini cercò di cancellare per decreto e che tornò con la Liberazione

«Il giorno primo maggio prossimo non si dovrà permettere alcuna processione sulle vie e nelle piazze», ordina, in data 20 aprile 1890, una direttiva emanata dal ministero dell´Interno ai «Signori Prefetti del Regno». Con il termine vagamente canonico di «processione» ci si riferisce a cortei, raduni e assembramenti connessi alla celebrazione di quella data: il primo maggio, appunto. Il documento è esposto su un pannello della mostra sulla storia di quella ricorrenza, che, intitolata Il Primo Maggio tra festa e repressione, e organizzata dalla fondazione Pietro Nenni, verrà inaugurata il 30 aprile all´Archivio centrale dello Stato. La ricorrenza del primo maggio - che ora compie centoventi anni - cominciava a diventare in quella fine Ottocento, un appuntamento radioso o una rituale emergenza. E non soltanto in Italia. Già nel 1889, nel congresso della Seconda Internazionale a Parigi, quel giorno di primavera dell´anno successivo viene per dar vita ad una festa nella quale i lavoratori manifesteranno - fra scampagnate, balli e bicchierate - il proposito di lottare per la giornata di otto ore.

Nella risoluzione approvata al congresso si ricorda che una manifestazione di quel tipo è stata fissata per il primo maggio 1890 dalla American Federation of Labor in un raduno tenutosi a St. Louis. La mitologia del primo maggio era stata segnata, in partenza, da un evento drammatico: proprio in quel giorno, nel 1886, in una fabbrica di Chicago, durante un comizio di protesta contro dei licenziamenti, la polizia aveva fatto quattro vittime tra gli operai. Ci fu poi l´arresto di alcuni sindacalisti anarchici. Quattro di loro vennero impiccati l´11 novembre. Non a caso, in una delle abituali direttive del nostro ministero dell´Interno - via telegrafo, stavolta - si vietavano, oltre che la festa di maggio, «manifestazioni illegali» eventualmente indette «per anniversario morte anarchici Chicago».
In Italia, comunque, la miccia s´è accesa. La più cruenta fra le manifestazioni del primo maggio si ha a Roma nel 1891: qui, dopo un comizio, la polizia uccide l´operaio Antonio Piscistrelli. L´anno successivo, a Milano, i lavoratori vengono dispersi con durezza. Incidenti si susseguono a Napoli. A Roma, quartiere Testaccio, così gli operai accolgono i militari inviati a reprimerli - dei poveracci che gli somigliano: «Eccoli, sono i fratelli che vengono contro i fratelli!».
La dialettica fra manifestanti e autorità straripa. S´intitola ritualmente Primo maggio un "numero unico" de Il Muratore, edito a Milano il 20 aprile 1892. «Ora va, o Primo Maggio», si legge nell´editoriale, «nei ciechi abituri dei campi, dove si soffre e si dispera. Porta una speranza nelle povere case del proletariato cittadino». Ma che cos´è il primo maggio?, incalza un altro articolo. «È una rivolta, una sedizione? No. È invece la pubblicazione solenne della volontà dei lavoratori...».
"Il Primo Maggio e gli operai" è il titolo che campeggia sull´Unione, organo dei repubblicani di Catania. È un veemente attacco alla borghesia firmato da Camillo Prampolini: «Badate», così egli sfida i moderati, «voi siete pochi e noi siamo la moltitudine!». Sullo stesso foglio l´anarchico Amilcare Cipriani esorta i lavoratori a «unirsi e combattere pacificamente fino a quando la pazienza lo permetterà».
Simili avvertimenti scuotono i paladini dell´ordine. Analogo allarme suscitano le canzoni «sovversive». A cominciare da quella, destinata a diventare celebre, che porta la firma dell´«Avvocato Filippo Turati di Milano». Comincia così: «Su fratelli, su compagni / su, venite in fitta schiera. / Sulla libera bandiera / splende il sol dell´avvenir». Nel sequestrare l´inno, le autorità di polizia avvertono che, «ove esso si canti in pubblico» si procederà «all´arresto dei colpevoli».
Tanta severità riflette, è ovvio, il costume del tempo. Nella mostra romana figura un "Regolamento delle Cartiere Meridionali" in cui si elencano le pene inflitte agli addetti per ciascuna mancanza. «Allontanarsi dal proprio posto per fumare o dormire» comporta quindici giorni di sospensione. «Dormire in piedi»: due ore e mezza di lavoro supplementare; sanzione identica per l´atto di «zufolare».
Ma torniamo al primo maggio. Sono così prevedibili gli arresti che la Questura di Roma s´impegna per tempo a trovare una sistemazione ai detenuti. E fa un po´ di conti. «Con sfollamenti da farsi in questi giorni potranno aversi nelle carceri circa 70 posti disponibili». Se non bastano, si potrà «usufruire delle Terme». A Napoli i questurini individuano le fogne come possibile quartier generale dei sovversivi. Esse saranno sorvegliate «a cura di quest´Ufficio». Nel documento si censiscono con minuzia le «imboccature» cloacine da vigilare.
Come la ricorrenza è diventata una consuetudine, così cominciano ad esserlo le repressioni. Del tutto consono a questo clima è il telegramma inviato dal pur risoluto presidente del Consiglio Luigi Pelloux al prefetto di Roma in occasione di un primo maggio fine secolo: «Lascio alla Signoria Vostra provvedere come meglio crede purché sia mantenuto divieto pubbliche manifestazioni».
Anche alcuni fenomeni di crescita sociale acuiscono gli scontri di piazza. La statizzazione delle ferrovie, ad esempio. Nel 1905, a Foggia, durante una manifestazione contro le norme antisciopero contenute nel disegno di legge per il riordino del traffico, l´intervento della polizia causa quattro morti. Il successivo primo maggio sono vietate in città perfino le processioni religiose.
Tanto rigore andrà attenuandosi con il diffondersi di municipi a maggioranza socialista. Sembra sbiadire, così, il tabù del primo maggio e della relativa giornata di sciopero. Nel 1912 il prefetto di Roma informa la Direzione della P. S. sulle iniziative indette in ciascun paese della provincia per celebrarlo. «Albano Laziale raccoglierà al Municipio gli alunni delle elementari. Ad Anzio repubblicani e socialisti terranno separatamente banchetto».
Con l´impresa di Libia e poi con la Grande guerra, l´accento dei proletari cade sull´antimilitarismo. Con i maschi al fronte, cresce la forza-lavoro delle donne. Risveglio femminile, supplemento al Lavoro di Busto Arsizio per il primo maggio 1916, si apre con un "neretto" in cui si ricordano le ore che le redattrici di fabbrica hanno «sottratto al sonno» per compilare quel foglio. Ma poi si va più sul concreto. «Disertate le officine!», si ordina alle lettrici. «Riaffermate la vostra fede nell´Internazionale».
Nel dopoguerra, gli scontri di piazza assumono una valenza particolare. A tre giorni dal primo maggio del 1920, il questore di Roma decide di vietare il corteo, ipotizzando «incidenti incresciosi» ad opera di «elementi antibolscevichi e nazionalisti». Si avverte un´eco di guerra civile. Non per nulla il documento prevede di mettere a guardia di Regina Coeli cento militari muniti di mitragliatrice e di destinarne venti a presidio delle Mantellate, il carcere femminile.
Il primo maggio è ormai in coma. Porterà la data del 19 aprile 1923 il decreto, firmato dal re Vittorio Emanuele III e da Mussolini, con il quale «è soppressa la festa di fatto del primo maggio». Più avanti si stabilisce che «tutte le pattuizioni intervenute tra industriali ed operai per la giornata di vacanza dovranno essere applicate per il 21 aprile (Natale di Roma, ndr)».
Tra i manifesti a suo tempo sequestrati e ora presenti nella mostra, uno m´è parso eloquente nella sua malinconia. Raffigura il sole dell´avvenire con falce e martello. Porta scritto: «Il 21 aprile sia maledetto. È la festa degli assassini».

Repubblica 25.4.10
E adesso è musica per ragazze e ragazzi
di Miriam Mafai

Soppressa, per volontà di Vittorio Emanuele III e di Mussolini, con un decreto del 19 aprile 1923, la festa del primo maggio sopravviverà per molti anni, durante il fascismo, nella memoria degli sconfitti. Era stata, una volta, una festa, e qualcuno continuava a celebrarla, infilandosi un garofano rosso all´occhiello della giacca, o disertando il luogo di lavoro per andare in qualche osteria con la famiglia e qualche amico. In quegli anni in occasione del primo maggio, secondo la polizia, si registrarono attorno ad alcune fabbriche di Milano, Torino, Genova, lanci di volantini e scritte sui muri: povere e pericolose manifestazioni di protesta che si intensificheranno negli anni di guerra.
Ufficialmente soppresso insomma ma mai dimenticato, il primo maggio, dopo aver vissuto timidamente, clandestinamente anche nei venti anni del fascismo, riesploderà subito dopo la Liberazione, come una grande festa dei lavoratori, secondo la tradizione che prevedeva il corteo, canti popolari, un allegro sventolio di bandiere, distribuzione di garofani rossi e, a conclusione, il comizio dei dirigenti sindacali.
Così lo vivemmo a Roma subito dopo la Liberazione: gli edili, i disoccupati, i dipendenti pubblici, le donne, i giovani arrivati a frotte, a piedi, in bicicletta, sulle camionette, occuparono sventolando cartelli e bandiere e cantando, tutta piazza del Popolo. L´unità sindacale era di freschissima data e furono tre gli oratori: Pastore per i democristiani, Buschi per i socialisti e Di Vittorio per i comunisti. E, a sorpresa, alla fine, venne data la parola anche a una donna, Maddalena Secco, responsabile, se non sbaglio, della Commissione femminile della Cgil.
La grande festa del primo maggio - questa folla di operai e contadini felici - ispirò in quegli anni anche poeti e pittori. Ricordo certi quadri pieni di bandiere rosse; uno, in particolare, intitolato proprio Primo Maggio che Armando Pizzinato espose alla prima Biennale di Venezia dopo la Liberazione e che venne acquistato, con nostro stupore, dall´americana Peggy Guggenheim, e che da allora fa parte della sua collezione.
La festa del lavoro ebbe, negli anni delle grandi lotte per la riforma agraria, anche le sue vittime. Il primo maggio del 1947 una folla di contadini, con le loro bandiere, le donne e i bambini, arrivarono a Portella della Ginestra per celebrare la festa e chiedere la riforma in Sicilia. All´improvviso fu la sparatoria, che lascerà a terra quattordici vittime, di cui tre bambini. Tre anni dopo in Abruzzo, a Celano, una folla di braccianti era riunita in piazza il 30 aprile per festeggiare una prima vittoria contro il principe Torlonia e preparare la manifestazione del giorno dopo all´insegna della richiesta della riforma agraria per il territorio del Fucino. Ma qualcuno spara, e restano a terra due braccianti. Non sarà una festa, quel primo maggio a Celano, ma una celebrazione delle vittime.
Nel corso degli anni e delle generazioni il primo maggio conserverà il suo carattere di festa e insieme di lotta: per l´occupazione, per il salario, per le riforme, segnando così le tappe della crescita, delle vittorie o delle sconfitte del movimento sindacale. Ricordo, sul finire degli anni Sessanta e poi nel corso degli anni Settanta le prime celebrazioni unitarie, l´emozione provata vedendo sul palco, insieme, i dirigenti delle tre organizzazioni sindacali, Cgil, Cisl, Uil, e nella piazza sventolare, insieme, le loro bandiere. E dopo gli anni feroci del terrorismo, indimenticabile fu a Roma il primo maggio del 1981: una felice festa popolare, grazie alla fantasia e alla iniziativa di Renato Nicolini, assessore alla Cultura della giunta Petroselli. Per l´intera giornata la città venne liberata dal traffico, mentre su Villa Borghese, occupata da una folla immensa di bambini e mamme, si alzarono per tutta la giornata le mongolfiere, e alla sera i fuochi d´artificio.
Poi, anche il primo maggio, o meglio la celebrazione del primo maggio è cambiata. Conobbe nuove divisioni, negli anni del cosiddetto "decreto di San Valentino", e poi di nuovo la faticosa ricerca dell´unità. Oggi si celebra dovunque, in modo unitario, come una grande festa musicale che a Roma riempie di giovani e ragazze piazza San Giovanni. Quest´anno è affidata per la prima volta a una donna, Sabrina Impacciatore. Un segno, anche questo, di felice cambiamento.