martedì 4 maggio 2010

il Fatto 4.5.10
Pannella, il digiuno degli auguri
di Furio Colombo

Ottant’anni del leader radicale nel silenzio dei media. Come si festeggia un uomo che ha avuto vittorie e sconfitte, obiezioni di coscienza, fame nel mondo, divorzio, immigrati e carceri?

Come si fanno gli auguri a Marco Pannella che il 2 maggio ha compiuto ottant’anni nel silenzio educato della stampa e delle tv italiane, che pure hanno ferrei calendari aggiornati per celebrare (tanto che il più delle volte ti domandi: e questo chi è?) e tante colorate pagine “magazine” che devono essere il tormento dei redattori (e adesso, che è troppo presto per le creme solari e troppo tardi per “il ritorno dei Caraibi” che cosa ci metto?). Come si fanno gli auguri a un uomo che nella vita ha avuto tutto, vittorie e sconfitte, grandi idee e fallimenti, Neue Linke e Tibet, obiezioni di cocienza, fame nel mondo, divorzio, immigrati, carceri, amici che durano tutta la vita, ex amici che si scostano con rispetto, ex ex amici talmente cambiati che sembrano incarnazioni di alieni nei vecchi film di fantascienza?
Un primo modo per questi auguri e questo anniversario è il silenzio, come ci insegnano tanti bravi colleghi. Se eviti come un buon torero l’avvenimento, scansi due pericoli: di dispiacere a lui che, dicono in tanti, si offende facilmente; di dispiacere ai suoi nemici, che sono tanti, anzi non sai mai chi sono e cosa esattamente li irrita del caleidoscopio di Pannella. Li irrita probabilmente quella fabbrica di fatti nuovi che non chiude mai, che continua a disegnare, un po’ febbrile, un po’ allegra, un po’ prepotente, un po’ generosa, un po’ scaltra, un po’ sognatrice, cose non ancora accadute. Li irrita probabilmente la memoria implacabile del dove, del quando, del chi (compresa la ragione, l’ambientazione nel tempo, la data) di certi fatti accaduti e volentieri dimenticati, se non ci fosse sul luogo (il luogo di allora, il luogo di adesso) questo testimone ostinato che ha come carattere o marchio di fabbrica il non venire a patti e il non concedere tregua di memoria neanche a un caro amico.
Certo, un altro modo sarebbe intervistarlo. Come sanno tutti, specialmente in televisione, il rischio è grande. Potrebbe parlarti inaspettatamente di quando stava per riuscire ad evitare la guerra in Iraq. Ingenuo, dicevano. Forse lo è stato perché non aveva calcolato altri aspetti della guerra, lui pensava che senza guerra la gente, soprattutto i civili, non muoiono. E aveva ottenuto dalla Lega Araba il “sì” a portarsi via, senza guerra, Saddam Hussein. Tutto bene e una storia diversa da scrivere, se non ci fosse stato il fido Gheddafi (fido per chi?) a cui è riuscito il colpo di far fallire tutto, un istante prima. Si sa che i distruttivi il più delle volte hanno la meglio. Meno chiara è la ragione, per l’Italia, di forgiare con la Libia di quel Gheddafi un’alleanza di ferro che comprende versamen-
to di ingenti somme, integrazione militare, scambio di segreti in cambio della caccia senza regole agli immigrati. Qui Pannella potrebbe spiegare perché solo i Radicali (quelli eletti nel Pd) e pochi altri del Parlamento italiano si sono opposti al patto con la Libia. Lo vedete anche qui quanto è scomodo occuparsi di Pannella, persino se è il giorno (o il giorno dopo) il suo ottantesimo compleanno. È capace di ricordarvi che per il patto d’acciaio con la Libia ha votato anche quasi tutto il Pd. E che il Pd – se Pannella non disturba troppo – si porterà nella tomba, in un giorno lontano, la ragione di quel sì a Gheddafi, mentre Gheddafi dice (anche oggi, mentre scrivo) che “Israele è un granello di sabbia che il vento del Medio Oriente spazzerà via”.
Ma ci sarebbe l’altro percorso, raccontare Pannella. Si va dai tempi di Altiero Spinelli e del primo sogno d’Europa al tempo di Pannunzio, Ernesto Rossi, e del “Mondo”, la più anomala e creativa opposizione che ci sia stata in Italia fuori dalle grandi chiese. Si va dai diritti umani e civili, una battaglia che spesso viene dichiarata finita con alcune clamorose vittorie (aborto, divorzio, obiezione di coscienza, fame nel mondo) e invece continua e ricomincia adesso, in difesa dei Rom, degli immigrati, dei senza diritti, uno strano territorio che si estende a detenuti e ammalati e alla dignità degli uni e degli altri in ogni momento, anche in fine di vita. Ma raccontare Pannella è troppo lungo, gli eventi e le persone nati con lui sono tanti. E poi c’è il rischio della celebrazione che lui, sarcastico e ingrato, non perdona. Ecco perché molti stanno alla larga. A meno di essergli amici.

l’Unità 4.5.10
Intellettuali e politici hanno firmato la petizione che sarà presentata all’Europarlamento
Critiche alla politica degli insediamenti in Cisgiordania: deve nascere uno Stato palestinese
Appello di 3mila ebrei europei: «Israele, ragiona Basta colonie»
Un atto d’amore per Israele. Un amore vero e per questo anche critico. Tra i firmatari intellettuali e politici di primo piano come Bernard-Henri Levy, Alain Finkielkraut e Daniel Cohn-Bendit.
di Umberto De Giovannangeli

Reazioni contrastanti. La sinistra israeliana lo approva La destra lo rigetta

«Siamo cittadini ebrei di Paesi europei impegnati nella vita politica e sociale dei nostri rispettivi Paesi. Qualunque sia il nostro percorso personale, il legame con Israele è parte costitutiva della nostra identità. Il futuro e la sicurezza di questo Stato al quale siamo molto legati ci preoccupano... Ancora una volta l’esistenza di Israele è in pericolo. Il pericolo non proviene soltanto dalla minaccia di nemici esterni, ma dall’occupazione e dalla continua espansione delle colonie in Cisgiordania e nei quartieri arabi di Gerusalemme Est, un errore morale e politico che alimenta, inoltre, un processo di crescente, intollerabile delegittimazione di Israele in quanto Stato...».
APPELLO COSTRUTTIVO
Un «Appello alla Ragione». Un atto d’amore verso Israele. Ma un amore sincero, e per questo anche critico. Un appello che sarà presentato al Parlamento europeo e illustrato in una conferenza stampa a Bruxelles sottoscritto da oltre tremila ebrei europei, tra cui intellettuali e politici di primo piano come Bernard-Henri Levy, Alain Finkielkraut e Daniel Cohn-Bendit. I promotori di questa iniziativa, denominata JCall, paragonano i loro obiettivi a quelli di JStreet, una lobby ebraica americana pro-Israele di indirizzo liberal. La petizione di JCall ribadisce il diritto di Israele a esistere come «Stato ebraico e democratico», ma critica anche la politica israeliana degli insediamenti in Cisgiordania e sostiene la creazione di uno Stato palestinese indipendente e sovrano, coesistente in pace al fianco di Israele.
«La nostra iniziativa vuole mostrare che all'interno della comunità ebraica c'è un dibattito un dibattito aperto e che non siamo monolitici», spiega al quotidiano Haaretz
David Chemla, uno dei promotori. «Noi ci identifichiamo con Israele e con i suoi diritti, ma samo critici. Questo è salutare siamo ebrei, sionisti e pronti a sollevarci per difendere il diritto all'esistenza di Israele, ma vogliamo mostrare che è giusto identificarsi con Israele e allo stesso tempo criticare alcune sue azioni».
DIALOGO STRATEGICO
Per questa ragione rimarca l’Appello «abbiamo deciso di mobilitarci intorno ai principi seguenti : 1) Il futuro di Israele esige di giungere a un accordo di pace con il popolo palestinese sulla base del principio di “due popoli, due Stati”. Lo sappiamo tutti, l’urgenza incalza. Presto Israele sarà posta di fronte ad un’alternativa disastrosa: o diventare uno Stato dove gli ebrei saranno minoritari nel proprio Paese o mantenere un regime che trasformerebbe Israele in uno Stato paria nella comunità internazionale e in un perenne teatro di guerra civile; 2). È essenziale che l’Unione Europea a fianco degli Stati Uniti eserciti una pressione forte sulle parti in lotta e le aiuti a giungere a una composizione ragionevole e rapida del conflitto. L’Europa in ragione della sua storia ha una grande responsabilità in questa regione del mondo;. 3) Se la decisione ultima appartiene al popolo di Israele, la solidarietà degli ebrei della Diaspora impone di adoperarsi perché questa decisione sia quella giusta. Allinearsi in modo acritico alla politica del governo israeliano è pericoloso perché va contro i veri interessi dello Stato d’Israele. 4) Vogliamo dare vita a un movimento europeo capace di fare intendere a tutti la voce della ragione. Un movimento che si pone al di sopra delle differenze di parte e di ideologia con l’unica ambizione di adoperarsi per la sopravvivenza di Israele come Stato ebraico e democratico, che è strettamente legata alla creazione di uno Stato palestinese sovrano e autosufficiente».
DESTRA SPIAZZATA
Gli «amici» non fanno sconti. Lo chiarisce uno dei firmatari: «Non credo che Netanyahu sia serio quando dice: “Due Stati per i due popoli”. Penso che lui non si fidi dei palestinesi, che voglia garantire la stabilità della sua coalizione di governo», afferma Alain Finkielkraut in una intervista alla radio militare israeliana. Quando il premier israeliano pronuncia quella formula, osserva l’intellettuale francese, «non c’è dietro un contenuto, non c'è un significato reale». Finkielkraut ha aggiunto ancora di aver apposto la propria firma al documento «con grande sofferenza, e nella preoccupazione per il futuro di Israele». L’ «Appello» è stato subito accolto con grande favore da esponenti della sinistra sionista (come gli ex ministri Yossi Sarid e Shlomo Ben-Ami), mentre è stato respinto da esponenti della destra.
«Si tratta di una importante assunzione di responsabilità dice a l’Unità Yossi Sarid da parte di personalità europee che non sono certo tacciabili di essere filo-palestinesi. I firmatari si schierano con le ragioni del dialogo e del compromesso. Concetti che non appartengono al vocabolario politico dei fautori di Eretz Israel».

l’Unità 4.5.10
Intervista a Zeev Sternhell
«Netanyahu ascolti questi veri amici del nostro Stato»
Lo storico israeliano: «Gli oltranzisti sono un pericolo per la nostra esistenza. Rischiamo di diventare un ghetto atomico. La pace con i palestinesi è fondamentale»
di Umberto De Giovannangeli

La dialettica. Giusto contestare le scelte sbagliate del governo israeliano

Una iniziativa di grande valenza politica, culturale, etica. Un movimento di opinione che ha il coraggio di guardare a Israele con un atteggiamento costruttivamente critico». A sostenerlo è uno dei più autorevoli storici israeliani: Zeev Sternhell. Qual è la valenza dell'«Appello alla Ragione »?
«Una valenza importante, sotto vari punti di vista. È importante sul piano politico, perché l'appello è molto chiaro su alcuni punti cruciali...».
Quali?
«Penso alla critica alla colonizzazione in atto nei quartieri arabi a Gerusalemme Est e in Cisgiordania; una politica che svuota di contenuto concreto il principio, che i firmatari dell' appello sostengono, di “due popoli, due Stati”. Ma la forza dell'appello va oltre l'aspetto più propriamente politico. E tocca un nervo scoperto che investe il rapporto stesso tra lo Stato d'Israele e la Diaspora...». Come viene ridefinito questo rapporto?
«In una concezione dialettica fecondamente critica. La Diaspora non è intesa come mera cassa di risonanza di qualsiasi scelta compiuta da coloro che governano Israele. Il rapporto si fa dialettico. E questa è un’acquisizione importante. Si critica Israele per quel che fa e non per quel che è. Si criticano scelte politiche, ritenute sbagliate; quelle scelte, come la colonizzazione, che non solo allontanano un accordo di pace ma che, rileva giustamente l'appello, alimentano la delegittimazione, a livello internazionale, di Israele come Stato. Molti degli intellettuali firmatari dell'appello sono considerati nei loro Paesi degli strenui difensori d'Israele. Ebbene, con questa presa di posizione ridefiniscono cosa sia “difendere” oggi Israele. Una difesa attiva, critica, costruttiva, il contrario di quell'appiattimento acritico che, rimarcano i firmatari, rappresenta un pericolo per Israele».
Qual è l'altro aspetto dell'appello che da storico e scienziato della politica che l'ha più colpita? «L'aver evidenziato con chiarezza che la pace con i palestinesi e la costituzione di uno Stato di Palestina non sono delle concessioni al “nemico”, ma i fondamenti per salvaguardare e rafforzare due pilastri dell'identità nazionale d'Israele: l'identità ebraica e la sua struttura democratica. L'appello lo afferma con grande coraggio intellettuale: se non imbocca questa strada, Israele – cito un passaggio dell' appello “sarà posto di fronte ad un’alternativa disastrosa: o diventare uno Stato dove gli ebrei saranno minoritari nel proprio Paese o mantenere un regime che trasformerebbe Israele in uno Stato paria nella comunità internazionale e in un perenne teatro di guerra civile...”. È la verità. Ed è importante che è ribadirla siano tremila veri “amici d'Israele”».
L'appello lancia un grido d'allarme: Israele è ancora una volta in pericolo, ma esso viene anche dall'interno. «Israele ha il futuro nelle sue mani. Ha la forza per compiere scelte impegnative, deve trovare in sé la volontà, politica e morale, per imboccare la strada giusta: quella della pace. Una pace che non sarà a costo zero, ma senza la quale Israele vedrà erodere le fondamenta della sua identità...Certo, la nostre capacità militari basteranno a preservare la sicurezza del Paese, ma senza una scelta coraggiosa a favore della pace, Israele si vedrebbe trasformato in un ghetto atomico in perenne conflitto con l'esterno...».
La destra oltranzista israeliana non apprezzerà questo appello... «Non me ne meraviglio né mi spavento. Considero gli oltranzisti un pericolo per Israele, per le idee che professano e per come le portano avanti. Costoro sono portatori di una visione fondamentalista di Israele. La loro ostilità è la conferma che l'appello dei Tremila va nella direzione giusta».

l’Unità 4.5.10
Quando si ribellano gli schiavi
A Latina gli indiani scioperano
Per la prima volta in Italia i lavoratori stagioinali immigrati di Latina, quasi tutti indiani, hanno deciso di fare uno sciopero organizzato. Con tutta probabilità sarà effettuato verso la fine del mese.
di Roberto Rossi

Manca solo la data. Ma a questo punto è un accessorio. La notizia è che a Latina ci si prepara a scioperare. Non sarà uno sciopero qualunque. Per la prima volta in piazza andranno i nuovi schiavi dell’agro pontino. Di nazionalità sono indiani, anche se per la maggioranza della popolazione italiana sono dei fantasmi. Degli spettri di carne e ossa che per pochi euro al giorno (dai due ai quattro euro all’ora) mantengono in vita il settore agricolo della zona e permettono alle aziende agricole locali, una buona fetta legate alla Camorra, di fare lauti affari.
Fantasmi, dicevamo. Anche lo Stato spesso li considera tali. Molti non hanno il permesso di soggiorno. Spesso è scaduto o in via di definizione. Alle volte è nelle mani dei loro padroni che ne fanno un’arma di ricatto. Vivono quasi tutti in una sorta di limbo fatto di sudore, sfruttamento e lavoro senza regole.
La Flai Cgil locale ha calcolato che in questa immensa pianura bonificata ai tempi del Duce sono circa 10mila le imprese regolarmente segnate alla Camera di Commercio, ma che in realtà ce ne siano almeno il triplo (e cioè 30mila) in attività. Mentre i lavoratori, nei picchi stagionali, possono arrivare anche a 60 forse 70mila. È impossibile calcolarli tutti. In agricoltura lo sfruttamento della manodopera è quasi la norma. E non solo a Latina. In Italia è stato stimato che il 90% delle ore lavorate nelle regioni del Mezzogiorno siano a nero. La percentuale scende al 50% per le regioni centrali e al 30% al nord. E non importa la nazionalità. Naturalmente i lavoratori migranti sono l’anello più debole di questa catena di sfruttamento. Di questi, secondo il sindacato della Cgil, circa 60mila sono quelli che vivono in condizioni di degrado simili a quelle viste a Rosarno.
PROTESTA
Ora, una fetta di questi ha deciso di farsi sentire. Alzare la voce, per reclamare diritti e una vita dignitosa. Gli indiani sono molto apprezzati nella zona. Lavorano tanto e bene e conoscono poco o niente la lingua italiana. Due condizioni essenziali per lo sfruttamento. Tra le varie comunità, oltre ad essere quella più numerosa, quella indiana (uomini per lo più, provenienti dalla regione del Punjab), è però quella più organizzata. Gli oltre seimila indiani regolari hanno creato le loro chiese, punti di raccolta e di aggregazione. E proprio girando tra le chiese che la Cgil locale ha creato un consenso ampio. Quanto però? Perché proprio la partecipazione a una manifestazione di piazza l’incognita più grande in questi casi. Il sindacato non dà cifre. È sicuro, però, di poter riempire la piazza della Prefettura di Latina. E di poter portare,. quindi, qualche migliaio di lavoratori stagionali a manifestare. E se possibile coinvolgendo non solo la zona di Latina ma tutto il Lazio. E quando si sciopera? La data è ancora in via di definizione. Su quella si sta lavorando. «A breve» dicono fonti sindacali. Più probabile la fine del mese. Ma ancora manca qualche passaggio. Perché non sarà uno sciopero qualunque. Sarà la prima volta che gli schiavi si organizzano.

l’Unità Firenze 4.5.10
Il caso Don Cantini
Abusi, lettera al Papa: il silenzio di Betori e il ruolo di Maniago
Le vittime di don Lelio Cantini scrivono a Benedetto XVI e alla Congregazione per la dottrina della Fede: «Accertate le responsabilità di chi nella curia fiorentina ha coperto per anni l’ex parroco». Fa sempre discutere la riconferma di Maniago a vescovo ausiliario
di Osvaldo Sabato

Il caso non è affatto chiuso. Per loro la vicenda di don Lelio Cantini è più viva che mai, specie di questi tempi con la Chiesa nella bufera per le denunce contro i preti pedofili. A Francesco, Andrea, Mariangela e tutte le altre vittime di don Lelio Cantini non basta la riduzione allo stato laicale dell’ex prete, parroco della parrocchia fiorentina della Regina della Pace, decisa da Benedetto XVI. Prima di mettere una pietra sopra a questa triste vicenda di ordinari abusi sessuali su minori fatti da don Cantini fra il ‘73 e l’87, le vittime vogliono andare fino in fondo e pretendono chiarezza sulle responsabilità di chi nella curia di Firenze ha coperto l’ex parroco.
Per loro sarà giustizia solo quando saranno riconosciute le responsabilità di tutti i protagonisti di questa storia. Ecco perché una decina di giorni fa hanno spedito una lettera al Vaticano, indirizzandola direttamente al Papa Benedetto XVI e alla Congregazione per la Dottrina della Fede. Nelle due cartelle le vittime di don Cantini denunciano come non sia stata ancora fatta piena giustizia sulle coperture della curia per oltre trent’anni. Chi ha subìto le violenze di don Cantini si lamenta con l’attuale arcivescovo di Firenze Giuseppe Betori per il suo silenzio. «Per noi il caso non è chiuso, se non si fa chiarezza su tutto, per noi è ancora aperto» spiega Francesco.
Nel mirino c’è sempre il vescovo ausiliario Claudio Maniago, confermato anche da Betori nel suo incarico di vicario della curia, che di don Cantini fu figlioccio spirituale. Fu proprio a lui che nel 2004 si rivolsero le vittime di don Cantini per denunciare gli abusi sessuali consumati in parte nella canonica della parrocchia. Maniago fece finta di non sentire, anzi invitò le vittime a dimenticare. «Vogliamo che sia accertato il suo ruolo, quello della perpetua Rosanna Saveri, vogliamo sapere perché chi aveva saputo non aveva fatto poi niente» afferma Francesco. Anche l’ex arcivescovo di Firenze Silvano Piovanelli viene accusato per aver sottovalutato il caso quando era a capo della Curia.
«Non c’è mai stata la volontà di indagare seriamente su quanto succedeva in quella parrocchia» denuncia Francesco. «Don Cantini è stato messo a tacere, hanno punito solo lui» rilancia Mariangela, che in questa storia ci ha messo anche la faccia andando in televisione per raccontare quando don Cantini le chiedeva di spogliarsi dicendole di pensare alla Madonna.
Ora il Papa invita i vescovi a denunciare i preti pedofili alla magistratura. «Ma quando quattro anni fa era venuta fuori la nostra vicenda la Chiesa ci invitata a stare zitti» ribadisce Mariangela. Ora viene chiesto alle alte sfere del Vaticano di fare ulteriori indagini «vogliamo chiarezza piena sulle responsabilità di tutti quelli che potevano fare, ma non lo hanno fatto» dice Francesco, antici-
pando all’Unità alcuni passaggi della lettera spedita al Papa e alla Congregazione per la Dottrina della Fede. «Inoltre siamo perplessi per la riconferma di Maniago al suo incarico, decisa da Betori, come se niente fosse» aggiunge Francesco. A distanza di anni, infatti, ci sono ancora molti dettagli da capire. Intanto la linea della Curia resta sempre quella dell’attesa. Anche l’attuale parroco della Regina della Pace, don Paolo Milloschi, fa finta di niente tanto da invitare lo stesso Maniago ad inaugurare, prima di Pasqua, la settimana francescana proprio nella parrocchia dove si sono consumati gli abusi di don Cantini.
Nel frattempo le vittime dell’ex parroco della Regina della Pace, vogliono mettere di fronte alle loro responsabilità i piani alti della curia. «Vogliamo essere messi a confronto con con chi ha coperto don Cantini» insiste Francesco. «Da quando è arrivato Betori ci ha ignorato, mai un segnale di vicinanza» ricordano le vittime. «Non ci è mai venuto a cercare, per lui il caso è chiuso, ha avuto la condanna di don Cantini prima del suo arrivo a Firenze e ai preti che gli hanno chiesto un gesto lui ha sempre ritenuto chiuso l’argomento» conclude Francesco.

Repubblica Firenze 4.5.10
Una nuova lettera al Vaticano dopo il diverso atteggiamento sulla pedofilia Don Cantini, le vittime al Papa "Perché Maniago vicario?"
di Maria Cristina Carratù

Perché la pulizia che la Chiesa sta facendo al suo interno ha risparmiato Firenze? Lo chiedono le vittime degli abusi di don Lelio Cantini - l´ex parroco fiorentino della Regina della pace ridotto allo stato laicale da Benedetto XVI nell´ottobre 2008 - che hanno inviato una lettera al Papa in cui chiedono perché l´arcivescovo Giuseppe Betori non abbia mai sentito il bisogno di incontrarle, mentre ha confermato vicario generale il vescovo ausiliare Claudio Maniago, il primo che ha saputo degli abusi, e che ha cercato di mettere tutto a tacere?
Don Cantini, le vittime si appellano al Papa Sperano nel nuovo corso della Chiesa: "Perché ha confermato Maniago vicario?" Tornano a scrivere al Vaticano perché vogliono che tutte le responsabilità vengano alla luce Perché la pulizia che la Chiesa sta facendo al suo interno ha risparmiato Firenze? Perché, dall´Irlanda all´America, i vescovi che hanno coperto preti pedofili sono stati costretti a lasciare i loro incarichi, e qui, dove è ancora aperta la ferita degli abusi di don Lelio Cantini, i vertici della Diocesi considerano chiuso un caso che in realtà non lo è affatto? E perché l´arcivescovo Giuseppe Betori non ha mai sentito il bisogno di incontrare le vittime, mentre ha confermato vicario generale il vescovo ausiliare Claudio Maniago, il primo che ha saputo degli abusi, e che ha cercato di mettere tutto a tacere? Sono le domande contenute in una lettera che le vittime dell´ex parroco della Regina della pace, ridotto allo stato laicale da Benedetto XVI nell´ottobre 2008, hanno appena inviato al Papa, al prefetto della Congregazione per la dottrina della fede William Jospeh Levada e al promotore di giustizia della congregazione Charles Scicluna, confortati dal nuovo corso che la Santa Sede sembra aver imboccato in materia di preti pedofili.
Le vittime sono convinte che la sola condanna di don Cantini non basti, e che "un capro espiatorio" rischi di far passare sotto silenzio "responsabilità oggettive" che "devono invece ugualmente venire alla luce e ottenere la giusta condanna". Secondo loro, infatti, di fronte agli abusi e al "dominio delle coscienze" messi in atto dal prete e da Rosanna Saveri, la veggente che stava al suo fianco, "una intera Chiesa" avrebbe "taciuto, sottovalutato, non voluto vedere". Mentre alla parrocchia della Regina della pace si formava una "chiesa parallela" destinata a "prendere sempre più campo" all´interno di quella locale, scrivono, tramite "l´occupazione di ruoli strategici" nella Diocesi. Primo fra tutti quello ricoperto da Maniago, pupillo di don Cantini. Il che spiegherebbe, a parere delle vittime, il tentativo messo in atto dal vescovo ausiliare (ex compagno di parrocchia, cui, nell´ottobre del 2004, si erano rivolte, con fiducia, per denunciare i fatti), di "ostacolare con ogni mezzo la nostra richiesta di verità", "tacendo" con l´allora arcivescovo Ennio Antonelli e "invitandoci più volte al silenzio". I memoriali con le denunce arrivarono infatti ad Antonelli soltanto l´anno dopo tramite l´ex arcivescovo Piovanelli. Anche in seguito, tuttavia, e finché, nel 2007, il caso non è esploso sui giornali, secondo le vittime "la nostra Chiesa ha cercato di farci tacere attraverso intimidazioni e minacce". Né l´arrivo di Betori sembra aver cambiato il clima: "Mai in questi due anni", sottolineano, il nuovo vescovo "ha sentito l´esigenza di incontrarci". Mentre ha "confermato Maniago vicario generale". Il tutto, quando "in altri paesi del mondo vescovi e vicari che avevano avuto gli stessi comportamenti sono stati giustamente allontanati". Le vittime chiedono quindi al Papa "che siano definitivamente appurate tutte le responsabilità".

il Fatto 4.5.10
Bertone assolve il prete pedofilo
Il segretario di Stato: “La Chiesa non deve nascondere i suoi peccati”. Poi difende chi lo fa
di Andrea Gagliarducci

“Le risposte che padre Maciel dà durante l’intervista sono profonde e semplici e hanno la franchezza di chi vive la sua missione nel mondo e nella Chiesa con lo sguardo e con il cuore fissi in Cristo Gesù”. Lo scrive il cardinal Tarcisio Bertone, nella prefazione al libro intervista su Marcial Maciel, fondatore dei Legionari di Cristo, uomo dalla doppia vita (almeno due donne e un figlio riconosciuto, senza contare gli abusi). Il titolo: “La mia vita è Cristo” (Edizioni Art). La versione italiana, quella con la prefazione di Bertone, è del 2004. L’originale in spagnolo viene edito nel
2003.
L’INDAGINE. Il 2003 segna un momento difficile per i Legionari di Cristo: le accuse contro il loro fondatore Marcial Maciel Degollado stanno per portare ad una indagine della Congregazione per la Dottrina della Fede (Cdf). La prima dopo quella degli anni Cinquanta, alla quale Maciel scampò con fortuna e furbizia. Un’indagine che si preannuncia senza sconti: da anni, Joseph Ratzinger, prefetto della Cdf, ha sul tavolo il dossier inviato da otto ex Legionari, capeggiati da José Barba-Matin, che hanno anche pubblicato le loro denunce sull’Hartford Courant, un quotidiano del Connecticut (Stati Uniti), nel 1997. L’indagine, però, non decolla, pare che le resistenze interne siano molte, si appurerà poi (come testimonia l’ultima inchiesta del National Catholic Reporter) che Maciel ha costruito intorno a sé una rete di protezioni importanti, formata con il denaro e basata sul ricatto reciproco, che parte dal Messico e arriva su, fino alle alte sfere vaticane. Ma nel 2002, Barba-Matìn va a Ginevra, al Comitato per le Nazioni Unite per l’Infanzia e la Gioventù, e si prepara per la denuncia della Santa Sede all’Onu, se questa si rifiuta ancora di processare padre Maciel.
L’INTERVISTA. È nel periodo tra quest’ultima mossa e l’avvio dell’indagine della Chiesa che Marcial Maciel gioca le sue ultime carte. E concede una lunga intervista, che diventerà un libro, a Jesùs Colina, fondatore dell’agenzia Zenit e più tardi di H20, agenzia ufficiosa del Pontificio Consiglio per le Comunicazioni Sociali. Colina è vicino allo “spirito” della Congregazione, un interlocutore privilegiato per Maciel. La versione italiana del libro, nel 2004, ottiene appunto la prefazione di Tarcisio Bertone, allora arcivescovo di Genova, ma prima ancora segretario di Joseph Ratzinger all’ex Sant’Uffizio. Molto probabile che il cardinale conoscesse le accuse che venivano formulate contro Maciel. Dunque, qual è il motivo che spinge il cardinale a scrivere la prefazione ad un libro che potrebbe preannunciarsi scomodo?
OBBEDIRE. A scorrere le pagine del libro, si trovano risposte sul clima che c’era all’interno della Congregazione. Si legge, ad esempio, un passaggio sul tema della maturità affettiva del sacerdote. “Non si può essere ingenui permettendo che i seminaristi si abbandonino ad esperienze affettive incontrollate come se queste non lasciassero segni nella psicologia e nell’emotività dell’uomo, specialmente
del giovane”. E ancora Maciel critica certi seminari post-conciliari che permettono ai seminaristi di avere una vita sociale e vedere ragazze “come qualsiasi altro giovane”. Spiega Maciel (che invece di donne ne vedeva, oltre ad abusare di alcuni seminaristi): “Avvenne che quelli che erano normali si innamorarono di quelle ragazze e si sposarono con loro abbandonando il cammino del sacerdozio. Credo che sia una vera ingiustizia nei confronti di un giovane chiamato da Dio a seguirlo nella vita sacerdotale o religiosa. Grazie a Dio molte di queste deviazioni sono già state corrette”. Maciel crea un ordine fondato sul culto della personalità (la sua) e sull’obbedienza cieca. I Legionari fanno voto di carità e di umiltà, oltre a quelli canonici di pover-
tà, castità e obbedienza,equestobasta per poter fiaccare anche le ultime resistenze psicologiche di ogni Legionario.
LE CALUNNIE.
Ma la vera chicca è la domanda sulle “calunnie” e sugli attacchi subiti. “Non ho voluto perdere un solo minuto della mia vita per difendermi dalle offese, dalle accuse, dalle calunnie, perché ho voluto e voglio sempre usare il breve tempo che Dio mi concede per portare avanti fino all’ultimo minuto il piano di Dio sulla mia vita”. Sono parole che bruciano, alla luce del comunicato della Santa Sede del 1 maggio, stilato al termine dell’incontro tra i visitatori apostolici (cinque vescovi) e Bertone, Rodé, Levada (segretario di Stato, prefetto della Congregazione per gli Istituti Religiosi, prefetto dell’ex Sant’Uffizio). Parole che suscitano moltissimi interrogativi. E’ possibile che Maciel fosse così furbo e gli altri fossero così ingenui da farsi ingannare sulla sua doppia vita? Davvero Maciel “comprava” il consenso, e sviava abilmente commissari ed ispettori delle viste apostoliche? Del resto le prime ispezioni arrivarono subito. Ma allora si pensò ad una offensiva dei massoni messicani, o perlomeno così vennero presentate le accuse. Poi i Legionari diventarono una Congregazione forte e ricca di vocazioni, con una spiritualità conservatrice e con la vivacità della gente messicana. Per anni i Legionari hanno costruito università, scuole e seminari, e accumulato ricchezza. Ma anche molto prestigio: Maciel era al seguito di Giovanni Paolo II durante il viaggio in Messico del 1990. Ci sono, è certo, quelli che hanno creduto nella spiritualità della Congregazione. Ma molti, ai vertici, sapevano. Ora la Congregazione verrà rifondata, già si pensa a un commissario straordinario. Come dice il Vangelo, è tempo che il ventilabro separi la pula dal grano.

Repubblica 4.5.10
La religione e la democrazia
di Paolo Flores D’Arcais

Joaquìn Navarro-Valls ha pubblicamente confessato il programma di "teocrazia debole" che la Chiesa gerarchica di Karol Wojtyla prima, e quella di Joseph Ratzinger oggi, stanno tenacemente perseguendo. Con esiti fin qui fallimentari nel mondo, ma di peculiare successo nella "eccezione" Italia. Non meraviglia perciò che l´articolo dell´ex portavoce di Giovanni Paolo II, ancora oggi autorevolissimo nell´esprimere umori e "desiderata" della Chiesa vaticana, prenda le mosse proprio dall´apologia del "caso italiano", osannato perché «è veramente considerevole il ruolo assunto dalla religione» nel dibattito (e soprattutto nella realtà del potere, ma su questo Navarro-Valls sorvola), per cui «l´enorme complessità e originalità di questo Paese» (cioè le macerie morali e materiali a cui l´ha ridotto il berlusconismo) «costituisce una ricchezza stimolante che altrove manca del tutto».
All´ex portavoce di Wojtyla l´Italia appare dunque il luogo provvidenziale in cui sperimentare l´obiettivo che il cattolicesimo gerarchico ha scelto come stella polare: «Una democrazia deve riconoscere il valore di verità, naturale e generale, della religiosità umana, considerandolo un diritto comune, indispensabile cioè per il bene di tutti». Papale papale.
Con questa logica, però, l´ateo, lo scettico, il miscredente, insomma il cittadino che non si riconosca in alcuna "religiosità umana", verrebbe irrimediabilmente colpito da ostracismo, e declassato a cittadino di serie B. Il suo ateismo, infatti, non solo non troverebbe posto in questo discriminatorio "diritto comune", ma verrebbe implicitamente tacciato di essere contrario al "bene di tutti". Tanto perché non ci siano equivoci, infatti, Navarro-Valls aggiunge che «non è possibile, in effetti, escludere il valore politico e solidale della religione senza estromettere, al contempo, anche la giustizia dalle leggi dello Stato».
E perché mai? Veramente Thomas Jefferson, eminente padre della democrazia americana - paese sempre citato come eden di libertà fondata su una religiosità onnipervasiva - , garantiva l´opposto: «Il manto della protezione [costituzionale] copre il giudeo e il gentile, il cristiano e il maomettano, l´indù e il miscredente di ogni genere» proprio perché la Costituzione «ha eretto un muro di separazione tra Chiesa e Stato».
Wojtyla e Ratzinger hanno invece sistematicamente gettato l´anatema su ogni versione di «libera Chiesa in libero Stato». Una legge che prescinda dalla religione avrebbe niente meno che «estromesso la giustizia», riassume con precisione Navarro-Valls, renderebbe illegittima la democrazia trasformandola in un vaso di iniquità. È esattamente quanto sostenne Papa Wojtyla di fronte al primo parlamento polacco democraticamente eletto, se la maggioranza parlamentare avesse promulgato una legge sull´aborto difforme dal diktat della morale vaticana. In perfetta sintonia papale la conclusione di Navarro-Valls: «La consapevolezza democratica di base» deve riconoscere che «la religione è un valore umano fondamentale e inevitabile, il quale deve essere valorizzato e garantito legalmente nella sua rilevanza pubblica» (sottolineatura mia). Con l´aggiunta finale di un criptico ma inquietante «a prescindere dal resto».
E invece no, dal "resto" non si può affatto prescindere. Perché il "resto" è che la democrazia si fonda sull´autos nomos di tutti i cittadini, singolarmente e collettivamente presi. Nella democrazia sono i cittadini che «si danno da sé la legge». E nessun altro prima o sopra di loro. Se i cittadini non potessero decidere la legge liberamente, ma obbedire a una legge già data (dall´Alto, dall´Altro), non sarebbero sovrani, «per la contraddizion che nol consente», secondo un padre Dante molto tomistico e che quindi dovrebbe andar bene anche a Navarro-Valls.
Che la giustizia secondo il dettame della religione diventi tassativa e vincolante per la democrazia significa espropriare il cittadino della sovranità e riconsegnarla a Dio. Tecnicamente si chiama alienazione: alienare i famosi diritti inalienabili. Alienazione che coincide con l´annientamento stesso della democrazia. Insomma e senza perifrasi: la sovranità di Dio è incompatibile con la sovranità dell´uomo, in cui consiste la democrazia. Dovrebbe essere una ovvietà, da oltre un paio di secoli. Ma nell´italica «ricchezza stimolante che altrove manca del tutto» tutto è invece permesso.
E sia. Quale Dio, però? Il Dio cristiano dei valdesi - compassionevole - riconosce ai suoi figli il diritto all´eutanasia, quello di Ratzinger - gelido - lo nega, quello di Küng (cristiano cattolico come Ratzinger) di nuovo lo consente, il Dio dei "Testimoni di Geova" proibisce ogni trasfusione di sangue anche a costo della vita, il Dio di altri (sempre lo stesso, perché l´Uno) esige invece mutilazioni sessuali per le bambine. E si potrebbe continuare. Quale di queste incompatibili verità dovrà assumere lo Stato nella sua legge, per ottemperare alla pretesa di Navarro-Valls di «concepire la religione come un valore assoluto»? Senza dimenticare che a pretendere che sia fatta la volontà di Dio, anziché quella democratica dei cittadini, c´è poi sempre in agguato un "Gott mit uns" che battezzerà di giustizia religiosa ogni terrena efferatezza.
Naturalmente, in una democrazia liberale i cittadini non possono stabilire per legge "qualsiasi cosa", neppure con maggioranze plebiscitarie. Ma il limite all´esercizio della loro autonomia è la loro autonomia stessa, non un´eteronoma volontà di Dio (magari agghindata da "legge naturale"). Che è poi la volontà di chi pretende di conoscere la volontà di Dio e parlare in suo nome (in psichiatria si chiama delirio di onnipotenza). Non si possono, a maggioranza, violare i diritti individuali sulla vita, la libertà, eccetera, di ciascuno, perché del ciascuno si distruggerebbe o amputerebbe la sovranità, dunque l´autonomia.
Dio e la religione, come si vede, non c´entrano un bel nulla. L´anti-relativismo della democrazia sta tutto e solo nel comune riconoscimento - interiorizzato come ethos repubblicano - delle inalienabili libertà di ciascuno (fino a che non violano identica libertà altrui: dalla vignetta blasfema all´eutanasia, esattamente come non si proibisce la superstizione della Sindone o la sofferenza terminale volontaria). "Religiosità" civile, se si vuole. Che la "teocrazia debole" di Ratzinger e Navarro-Valls pretende invece di sovvertire.

MicroMega nelle edicole
Perchè la Chiesa non punisce i preti pedofili
di Michele Martelli

Ultima notizia giornalistica dal fronte dei preti pedofili: papa Wojtyla autorizzò nel settembre 2001 il cardinale Castrillon Hoyos (prefetto della Congregazione per il Clero dal 1996 al 2006) a inviare all’episcopato di tutto il mondo una lettera di elogio e congratulazioni a monsignor Pierre Pican, vescovo francese di Bayeux, per «non aver denunciato un prete all'amministrazione civile» e «aver preferito la prigione piuttosto che denunciare il suo figlio-prete», rispettando la natura «sacramentale, non professionale della relazione tra i preti e i loro vescovi». Il figlio-prete era don René Bissey, condannato nel 1998 a 18 anni di carcere dalla magistratura francese per aver commesso negli anni Ottanta e Novanta violenze e abusi sessuali a danno di una decina di ragazzi (il testimone reticente vescovo Pican, che nel processo tenne un contegno distaccato e altezzoso, ebbe soltanto tre mesi con la condizionale).
Nell’episodio ci sono a mio parere tutti gli ingredienti che spiegano perché
la Chiesa normalmente non punisce i preti pedofili. Esaminiamoli brevemente.

1) Potere gerarchico - sacramentale del clero*. Tra i sette sacramenti della Chiesa, il sesto è quello dell’«Ordine sacro» o «sacerdozio ministeriale o gerarchico». Come spiega il Catechismo, «la parola *ordo*, Ordine, nell’antichità romana designava soprattutto il corpo di coloro che governano» (n. 1537). L’Ordine sacro è quello che, munito di «*sacra potestas*, sacra potestà», governa la Chiesa dei fedeli, ed è distinto nei tre gradi gerarchici dei vescovi, presbiteri e diaconi. Al vertice della gerarchia c’è il Sommo Pontefice. Ancora più importante è la supposizione che i sacerdoti e i fedeli «differiscano essenzialmente e non solo di grado» (n. 1547). I primi «sono posti in nome di Cristo a pascere la Chiesa colla parola e la grazia di Dio» (Costituzione conciliare *Lumen gentium*, 1964, nn. 10-11). Dunque, se la differenza è la stessa che corre tra i pastori e il gregge, *si tratterebbe di una differenza non funzionale, ma ontologica*. Il clero sacerdotale sarebbe per investitura divina quasi un’altra specie. E perciò senza obblighi verso i comuni mortali, soprattutto se teneri adolescenti. Comunque una sacra, mistica corporazione, da separare e difendere dall’esterno.

2) Superiorità della giurisdizione canonica su quella civile*. Rientra nella questione dei rapporti tra Stato e Chiesa. La Chiesa, in quanto parte della società civile, è sottoposta alla legge dello Stato, alla magistratura, e quindi al Codice civile e penale. In quanto *societas perfecta*, è sottoposta invece alla legge di Dio, alla gerarchia, e quindi al Codice di Diritto Canonico. Dove al papa, in quanto *Christi Vicarius*, si riconosce non solo la «potestà ordinaria, suprema, piena, immediata e universale» (n. 331), ma anche quella di «*iudex supremus*, giudice supremo in tutto l’orbe cattolico», che «*a nemini iudicatur*, da nessuno può essere giudicato» (nn. 1404, 1442). Quando il diritto canonico confligge col diritto civile, prevale il diritto canonico. Che, per i *delicta graviora*, come la pedofilia, prevede l’ammonizione, il trasferimento, l’isolamento, la penitenza e la preghiera, la sospensione *a divinis*, fino alla riduzione allo stato laicale. Dunque, non la denuncia alla magistratura civile. Nelle ultime “Linee guide sugli abusi sessuali” pubblicate in questi giorni dalla Santa Sede, c’è un rigo con un generico accenno all’obbligo di «seguire la legge civile allorché preveda la denuncia dei crimini alle appropriate autorità» (chi deve denunciare chi? E se la legge civile di un paese non prevede tale denuncia, bisogna continuare a coprire il reato?). A parte questa pur apprezzabile novità, tutto il documento è dedicato alle procedure interne, tratte dal diritto canonico, relative alla serie di indagini ed eventuali misure disciplinari da adottare in casi di pedofilia, sotto la giurisdizione del Congregazione per la Dottrina della Fede e *in primis* del Sommo Pontefice. Nessun accenno al *secretum pontificium*, invocato nella famosa direttiva del 2001 dell’ex prefetto Ratzinger sulla pedofilia. Dunque, il segreto rimane in vigore, perché non c’è un giudice superiore al pontefice. E il prete pedofilo è tutt’al più un peccatore, un problema interno alla Chiesa. Non l’autore di odiosi crimini da denunciare all’autorità giudiziaria dello Stato.

3) Rifiuto dei diritti umani*. La dottrina morale della Chiesa ha al suo centro la dignità della persona umana. Tuttavia, la Chiesa *[[[ proprio come tutti i paesi islamici - nota di Marcus Prometheus ]]]* non ha mai sottoscritto le dichiarazioni dei diritti umani, politici, sociali e civili, da quella francese del 1789 a quella dell’ONU del 1948 a quella dell’UE del 2000, né le Convenzioni internazionali sulla parità uomo-donna, sulla protezione dell’infanzia ecc. (chi vuole approfondire il punto, può leggere il libro del teologo spagnolo José Maria Castillo, *La Chiesa e i diritti umani*, 2009). Nel Codice di Diritto canonico (1983) e nel Catechismo (2003) manca persino l’espressione «diritti umani o civili». Si può preservare la dignità della persona umana senza rispetto e garanzie concrete, politico-giuridiche, per l’esercizio o la protezione dei diritti di libertà, uguaglianza, sicurezza, integrità personale, autodeterminazione e così via? Un uomo senza diritti non è un uomo. La retorica moralistica della Chiesa gerarchica si palesa e infrange nella pratica del *segreto pontificio* che garantisce immunità e impunità ai preti pedofili, omo- o etero-sessuali che siano. Ma questo Bertone, nella foga di calpestare i diritti umani e civili degli omosessuali, non lo sa ancora. Chi glielo dice?
*(19 aprile 2010)*

il Fatto 4.5.10
Roberto Saviano e la libertà della parola
di Enrico Magni

Meraviglia, sgomento, ridicolo, fastidio, giubilo e altro ancora sollecitano le affermazioni o considerazioni che, il rappresentante più importante del maggior partito di questo Paese, ha espresso nei confronti del libro “Gomorra” di Roberto Saviano. Non è la prima volta che questo succede, si pensi a Pasolini, a Silone, a Sciascia, a Sandro Penna o a Peppino Impastato, Giancarlo Siani, Rostagno, De Mauro e tanti altri operatori della parola che sono stati azzittiti per aver sfidato silenzi, congiure, cosche, malefatte dei potenti di turno. La letteratura, l’arte in genere sono state, in passato, veicolo d’idee, prese di posizioni, scontri culturali e politici. Alcuni scrittori, artisti finivano in esilio, altri emarginati, alcuni al rogo, altri uccisi. Oggi, nell’epoca ipermoderna, del pensiero liquido, della società pulviscolare, eterea, la letteratura, assolutamente non tutta, ma abbondante, come oggetto evasivo, antistress, d’intrattenimento, intimista, minimalista diventa pericolosa se esce dal solco imposto. Non perché narra le cose, così come sono, ma perché altera il racconto ipermediatico di chi controlla la scenografia della società. Il giovane scrittore Roberto Saviano con il suo narrato, contamina una moltitudine di persone, occupa uno spazio importante, sollecita riflessioni e cozza contro l’omologazione del fare, del pensare dominante. La letteratura quando sollecita domande, riflessioni disturba inequivocabilmente i poteri controllati dalla politica, dalle organizzazioni criminose e non. Ciò che spaventa è il consenso che questo tipo di materiale narrativo ottiene mettendo a nudo re, fante, duca, regina.
È importante, è ora che intellettuali o soggetti pensanti indipendenti da qualsiasi forma di dipendenza escano dalle proprie dimore per promuovere concetti, analisi, idee con lo scopo di uscire da questa fase di stagnazione culturale dominata da tante forme di carosello mediatico, politico e sociale. C’è la tendenza a risucchiare, mettere ai margini, tenere ai lati chi cerca di esprimere un’opinione che diverge dalla moda, dal costume prevalente. Sì, è vero, ha ragione Saviano, un certo tipo di parola, stranamente infastidisce, disturba crea disequilibrio. È una cosa strana la parola, può giocare brutti scherzi, può scalfire il cerone del castello, sollecitare fantasie, può sollecitare pensieri che tracimano il letto del fiume e irrigare terreni fertili. La parola è un dono che va salvaguardato e accudito. La parola vola come gli aquiloni di Kabul e illumina le ceneri che coprono terre abitate da rumori disumani. Grazie Saviano per ricordarci che bisogna guardare il cielo stellato sopra di noi e i cunicoli del Belpaese.

Repubblica 4.5.10
La nazione oscurata
di Guido Crainz

Non va sottovalutato il valore simbolico e politico delle affermazioni del ministro della Repubblica Roberto Calderoli. Non va sottovalutato il segnale che danno al Paese, proprio perché quel segnale viene dalla forza di governo che appare di gran lunga la più compatta, e sempre più determinante all´interno della coalizione.
Certo, anche nelle celebrazioni del 1911 e del 1961 non erano mancati momenti polemici, alimentati dalle forze intellettuali e politiche che si sentivano in qualche modo ai margini del processo (repubblicani, socialisti e cattolici, nel 1911).
O non si riconoscevano per intero nell´orizzonte culturale che improntava le celebrazioni (e che risentiva ampiamente, nel 1961, dell´egemonia politica della Democrazia Cristiana). Erano momenti di riflessione - talora anche segnali di delusione, come già nel 1911 - che dialogavano con un´impostazione "forte" e prevalente delle celebrazioni e dell´identità: non ne mettevano in discussione le fondamenta né la svilivano. Erano, insomma, posizioni nobili. Avevano a che fare con un´idea alta di nazione, facevano parte a pieno titolo di quel confronto culturale di cui le identità si nutrono.
Non è così oggi, e le parole del ministro Calderoli - nel loro non eccelso profilo culturale - appaiono realmente contundenti proprio per questo: proprio perché non si infrangono contro un solido e condiviso muro ideale ma rivelano ancor di più, semmai, la fragilità crescente - pericolosamente crescente - delle barriere che sono state erette. La vicenda stessa delle celebrazioni ufficiali, del resto, ha mostrato più del dovuto quella fragilità. Ha illuminato anch´essa il dramma di un paese che sembra impaurito dal futuro e infastidito dal passato.
La riflessione deve muoversi allora su due versanti. Deve riguardare le dinamiche politiche che queste e altre sortite leghiste possono innestare (poco importa se contraddette o "interpretate" da altre forze del governo), ma anche - e soprattutto - lo "stato della nazione". Sul primo versante appare in tutta la sua pericolosità il rinsaldato connubio fra l´offensiva leghista - che i risultati elettorali avevano inevitabilmente preannunciato - e una egemonia del premier che da tempo mette sempre più apertamente in discussione i tratti costituzionali essenziali della Repubblica (anche per questo, forse, l´intervento del cardinale Angelo Bagnasco assume un valore particolare e in qualche modo impegnativo anche rispetto al riemergere di umori anti-risorgimentali che nel mondo cattolico non sono mancati).
La pericolosità del connubio fra Berlusconi e Bossi è aumentata a dismisura proprio dallo "stato della nazione", e il confronto con il 1911 e il 1961 è purtroppo illuminante. Nel 1911 il paese era attraversato sì da contraddizioni sociali e da tensioni anche forti ma si era ormai avviato all´industralizzazione e a forme democratiche meno incompiute: in quello stesso anno, ad esempio, il governo annunciava la riforma elettorale che avrebbe portato di lì a poco al suffragio universale maschile. Si pensi anche al centenario dell´unità nazionale, nel 1961: era celebrato nel pieno del "miracolo economico", e le euforie del boom nascondevano semmai le contraddizioni pur esistenti, sia nel presente che nel passato.
Oggi, invece, vengono al pettine tutti i nodi di una crisi della Repubblica che aveva avuto la sua incubazione negli anni ottanta e il suo primo esplodere all´inizio del decennio successivo. Superati i momenti più drammatici di quel trauma il paese scelse - nella sua grande maggioranza - di non fare i conti con quei nodi. E quindi di aggravarli. Nel 1993 un bel libro di Gian Enrico Rusconi aveva come titolo Se cessiamo di essere una nazione. C´è da chiedersi se in un prossimo futuro non dovremo ricorrere a un titolo ancor più pessimistico.

Repubblica 4.5.10
La mente delle persone di mezza età non si atrofizza: un nuovo studio mostra come aumentino le capacità
Più giudizio e sintesi il cervello cresce anche a 50 anni
Si sviluppano alcune abilità: cresce la proprietà di linguaggio
di Elena Doni

Anche i vecchi lupi imparano nuovi trucchi. Ci pensa la scienza a contraddire il proverbio anglosassone: arrivare alla mezza età non vuol dire solo dimenticare dove è parcheggiata l´auto, perdere la capacità di imparare cose nuove e affezionarsi alla routine. Tra i 40 e i 60 anni il cervello vede forse declinare rapidità di calcolo e memoria a breve termine, ma vive la sua stagione migliore per quanto riguarda capacità cognitive, di ragionamento e socievolezza.
"Sono così felice di non essere più giovane" è, non a caso, uno dei capitoli del libro di Barbara Strauch - corrispondente del New York Times per salute e medicina - dedicato al cervello di mezza età. The secret life of the grown-up brain: the surprising talents of the middle-aged mind è il titolo del volume. Forse non sbaglia chi pensa male: negli Usa ogni giorno 10mila persone compiono 50 anni e saranno ben felici di trovare in libreria un titolo così incoraggiante (soprattutto se dimenticano regolarmente dove parcheggiano l´auto). Ma la neurologia conferma da tempo che il cervello degli adulti ha alcune marce in più rispetto a quello degli adolescenti. E la "plaster theory" - la teoria secondo cui il tempo "ingesserebbe" i neuroni in maniera inesorabile - è stata definitivamente relegata tra i ferrivecchi della scienza.
Tra i 40 e i 60 anni, scrive Barbara Strauch, "si ottengono risultati migliori nei test relativi a ragionamento induttivo, proprietà di linguaggio e capacità cognitive in genere". Le decisioni - in particolar modo quelle finanziarie e quelle che riguardano il futuro - sono più oculate. Le capacità di sintesi si acutizzano, così come quelle di inquadrare le nozioni in categorie, di cogliere gli aspetti rilevanti di un ragionamento e di interpretare le emozioni altrui. Al netto delle vicende della vita, l´umore diventa più stabile e tende al sereno con ottimismo.
Di contro, con il passare del tempo cala la quantità di neutrotrasmettitori, le comunicazioni fra i neuroni rallentano, occorre più tempo per memorizzare nuove nozioni, ci si distrae più facilmente e si diventa meno efficienti nel multitasking. Che il cervello adulto sia tutt´altro che ingessato, però, lo confermò in modo eclatante nel 2000 uno studio sui tassisti londinesi dell´University College. Anche i più maturi, a forza di imparare svincoli e nomi di strade, mostrarono alla risonanza magnetica un ippocampo (l´area che sovrintende fra l´altro alla memoria spaziale) molto più sviluppato del normale.
Una ricerca dell´università della California a Los Angeles nel 2008 ha dimostrato che lo strato di mielina che riveste le connessioni fra i neuroni, rendendo più rapida la conduttività elettrica e quindi la trasmissione dei movimenti, raggiunge il picco a 40 anni per poi declinare. La settimana scorsa, sulla rivista Neurobiology in aging, l´università di Washington a Saint Louis ha dimostrato poi come la perdita dei neuroni causata dall´età sia più rapida nelle persone con una personalità nevrotica e minima in quelle che primeggiano per coscienziosità.
In media, nella corteccia cerebrale che rappresenta la parte più evoluta e "nobile" del cervello, ciascuno di noi perde un neurone al secondo, consumando goccia a goccia un patrimonio iniziale di circa 100 miliardi di cellule. Anche se nulla potrà mai eguagliare il ritmo di crescita della vita fetale (250mila nuovi neuroni ogni minuto), si è dimostrato che anche il cervello adulto continua e crescere e rinnovarsi. Sia pure a ritmo blando, anche nell´organo del pensiero le cellule staminali svolgono il loro lavoro di rimpiazzare una parte dei neuroni perduti e restituire plasticità alle connessioni fra le cellule, bilanciando per quanto possibile la riduzione di peso del cervello e l´ampliarsi dei solchi al suo interno.

lunedì 3 maggio 2010

l’Unità 3.5.10
Gli indignati nel Paese estraneo
di Francesco Piccolo

La sinistra italiana dà l’impressione di essere ormai la parte più reazionaria del paese. In pratica, ha cominciato a fare resistenza al malcostume, alla degenerazione, e pian piano questa è diventata la sua caratteristica principale, che è tracimata anche sul costume, su ogni forma di cambiamento, di accadimento. Ha trasformato il “resistere, resistere, resistere” in una tignosa resistenza a tutto. Che è diventata senso di estraneità. Dà l’impressione, al resto del paese, di giudicarlo male qualsiasi cosa provi a fare; di essere scandalizzata, a volte inorridita.
Alla sinistra italiana, nella sostanza, non piacciono gli altri italiani. Non li ama. Sente di essere un’oasi abitata dai migliori, nel mezzo di un paese estraneo. Di conseguenza sente di non avere nessuna responsabilità. Se l’essere umano di sinistra sentisse una correità, non penserebbe di voler andare a vivere in un altro paese, più degno di averlo come cittadino.
Però, a quel paese che non le piace, che non può amare, del quale non sente di far parte, e che osserva inorridita ed estranea, che mette in soggezione di continuo e al quale ricorda che se potesse non ci conviverebbe mai, la sinistra italiana a ogni elezione, è costretta a chiedere il voto. Vuole, cioè, che quella parte di paese che disprezza, si affidi alle sue cure. Ciò che puntualmente non avviene.
E poiché non avviene, la sinistra italiana si indigna di più, si estranea di più e ritiene di essere ancor meno responsabile di questo paese di cui non sente di far parte.

l’Unità 3.5.10
Intervista a Oliviero Diliberto
«Bersani ha ragione, ripartiamo dai contenuti così rinasce il centrosinistra»

Apprezzo molto il fatto che Bersani riparta dai contenuti e si rivolga, poi, a tutte le opposizioni. – spiega il leader del Pdci, Oliviero Diliberto Deve essere chiaro, però, il discrimine rispetto alle contraddizioni interne all’attuale maggioranza”. Nessun dialogo con Fini, quindi? “Pensare di cooptare il Presidente della Camera in uno schieramento di centrosinistra allargato è sbagliato, perché Fini è uomo di destra, e controproducente perché indebolisce la sua battaglia” Lei ha apprezzato la risposta di Bersani ad una lettrice de l’Unità. E’ l’eguaglianza, quindi, il tema dal quale ripartire?
“Bersani propone una vasta coalizione democratica alternativa al centrodestra a partire dai contenuti. Ecco, la battaglia per l’eguaglianza deve diventare fondativa per l’unità delle forze che si riconoscono nella Costituzione. Oggi viene messa in discussione l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge. La crisi economica, d’altra parte, colpisce milioni di famiglie ed esalta gli speculatori. C’è una sproporzione tra chi percepisce redditi altissimi, e non denuncia quasi nulla, e i lavoratori dipendenti che, paradossalmente, denunciano redditi più alti di quelli dei datori di lavoro”.
La crisi ripropone un’altra centralità: il lavoro “L’Istat fotografa 400000 posti in meno in un solo anno. Serve un massiccio intervento pubblico nell’economia, lo stesso che oggi si pratica perfino negli Usa. L’altra faccia della medaglia riguarda la formazione. Valorizzare l’intelligenza dei nostri ragazzi è il futuro dell’Italia. In Francia Sarkozy mobilita risorse enormi. Da noi si fa il contrario, la destra sta umiliando le strutture formative a tutti i livelli”
Unità delle opposizioni, quindi. Anche a sinistra del Pd, però, si registrano divisioni molto nette.... “Le divisioni causano sconfitte. Io credo che sia necessario ricostruire un’unità a cerchi concentrici. Il primo livello riguarda l’unione di tutte le forze democratiche che si riconoscono nella Costituzione”. Unità anche con l’Udc di Casini? “Se Casini si riconosce in quei valori per me va benissimo. Dopodiché dentro questa coalizione ampia bisogna ricostruire la sinistra, mantenendo ciascuno la propria specificità.
Io, ad esempio, sono comunista e non vedo perché mi si debba chiedere di smettere di esserlo, visto che la crisi economica mondiale mi sta dando ragione. Mettiamo da parte le divisioni per guardare avanti”. Apertura di credito al Pd di Bersani, quindi? “L’errore storico dell’autosufficienza del Pd del 2008 non può ripetersi, perché ha consegnato a Berlusconi la più ampia maggioranza che abbia mai avuto. Io e la Federazione della sinistra siamo pronti. Incontriamoci nelle lotte, nelle piazze, nei luoghi di lavoro, nelle scuole. Possiamo tornare a vincere”.

l’Unità 3.5.10
Contro il decreto Bondi
L’orchestra di Santa Cecilia suona gratis per protesta

«È una bellissima idea informarci così di quello che succede», esclama un’abbonata nel foyer dell’auditorium di Roma mentre ascolta l’orchestra di Santa Cecilia che. gratuitamente, esegue la Settima di Beethoven. E conclude: «Siamo con la nostra orchestra, con la nostra storia». È il modo per rispondere al ministro Bondi che ha definito irresponsabili i musicisti che hanno indetto lo sciopero contro il suo decreto, che commissaria di fatto le più grandi istituzioni musicali come Scala, Maggio o San Carlo. Il pubblico è numeroso. «Accogliere e informare correttamente la gente: facciamo l’opposto di quanto dice il ministro», spiega il violoncellista Francesco Storino. E anche oggi e domani l’orchestra suonerà gratuitamente dalle 16 in poi. «Eravamo venuti per uno spettacolo per bambini, è bello che abbiano fatto questo», dice un padre di famiglia. Applausi e urla di approvazione per ogni pezzo: «Da vecchio orchestrale spiega Gregorio Mazzarese dico che quando scioperavamo in passato la gente si lamentava, stavolta sono tutti con noi». La protesta ha già un simbolo, un fiocchetto giallo: vuol dire portatore sano di cultura. E tutta l’Accademia si è unita alla protesta, l’orchestra giovanile e infantile ha suonato con la sinfonica, c’erano funzionari e dirigenti, il presidente Bruno Cagli al pubblico ha detto: «Siamo qui per la nostra dignità, l’eccellenza la decreta il pubblico». L.D.F.

Repubblica 3.5.10
Commissariata la congregazione religiosa dopo la ispezione ordinata da Benedetto XVI. La replica: obbediamo
Legionari, ecco la sentenza del Vaticano "Padre Maciel un uomo senza scrupoli"
La nota della Santa Sede: atti immorali e gravissimi La decisione è inappellabile

TORINO - Commissariati e sottoposti alla nomina di un delegato papale dotato di pieni poteri. Il pugno di Ratzinger, che tenero nei loro confronti non era mai stato anche quando dirigeva il Sant´Uffizio, si è abbattuto sui Legionari di Cristo. Travolti, ha detto Benedetto XVI in una nota diramata il primo maggio, dai comportamenti «gravissimi e obiettivamente immorali» del loro fondatore, lo scomparso Marcial Maciel Degollado, accusato di aver compiuto «veri delitti» e condotto «una vita priva di scrupoli». Un criminale, dunque, secondo il giudizio del Vaticano.
Inebetiti dalle parole inequivocabili del Papa, e da una condanna durissima capace adesso di portare alla rifondazione del movimento, i Legionari non hanno opposto obiezioni. Hanno espresso gratitudine al Pontefice per «la paterna sollecitudine nei confronti della Congregazione», dicendosi pronti ad accogliere le sue indicazioni «con obbedienza».
Quello dei Legionari è il secondo commissariamento in epoca moderna deciso da un Papa verso un gruppo religioso. Nel 1981 il Vaticano applicò lo stesso provvedimento con i gesuiti, dopo gli sbandamenti riscontrati nel periodo della teologia della liberazione. Allora Wojtyla indicò padre Paolo Dezza - un gesuita - come suo delegato. Questa volta sembra però esclusa la scelta di un legionario. Alcune indiscrezioni convergono sul nome del cardinale portoghese Josè Saraiva Martins, prefetto emerito della Congregazione delle Cause dei santi.
È terminata così la lunga ispezione del Vaticano sul potente ordine religioso nato in Messico a metà del secolo scorso, composto da migliaia di sacerdoti, con oltre cento case madri e decine di università. Con il documento papale la Santa Sede ha infine annunciato le decisioni del Pontefice, la cui scelta finale era molto attesa, una volta finite le visite dei cinque ispettori incaricati.
I presuli - l´arcivescovo di Valladolid, Ricardo Blazquez Perez, quello di Denver, Charles Joseph Chaput, di Concepcion, Ricardo Ezzati Andrello, di Alessandria, Giuseppe Versaldi, di Tepic, Ricardo Watty Urquidi - hanno svolto il loro compito con grande cura. Hanno ascoltato personalmente più di 1.000 Legionari, vagliato centinaia di testimonianze scritte, visitato quasi tutte le case religiose dirette dalla Congregazione, annotato il giudizio di molti vescovi diocesani dei Paesi in cui il gruppo opera, ricevuto corrispondenza da parte di laici aderenti al movimento. Hanno poi stilato singolarmente i loro rapporti e, pur nelle differenze di approccio, sono giunti, spiega la nota, «a una valutazione ampiamente convergente e ad un giudizio condiviso». Venerdì scorso si sono riuniti con il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, e alcuni capi dicastero della Curia romana.
La decisione del Papa, giunta sabato, è inappellabile. Maciel aveva avuto di nascosto figli in almeno due Paesi diversi, da donne diverse, ed era accusato di stupro e violenza. Joseph Ratzinger, da prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, l´ex Sant´Uffizio, aveva inutilmente tentato di processarlo. Di recente alcuni media americani hanno accusato Papa Wojtyla di aver coperto lo spregiudicato prelato messicano, e l´ex segretario di Stato, Angelo Sodano, di averlo sostenuto. Maciel si è sempre proclamato innocente, fino a quando morì, negli Stati Uniti, nel 2008.
(m. ans.)

Repubblica 3.5.10
Lavoro, diritti e democrazia
di Nadia Urbinati

Gli antichi consideravano la democrazia il governo dei poveri. Esiste democrazia, si legge nella Politica di Aristotele, quando il potere supremo dello stato è nelle mani della moltitudine che è fatta di poveri, sempre più numerosi dei ricchi, i quali vogliono governi oligarchici. Ma per noi moderni la democrazia è governo di tutti perché governo di una società di individui che si prendono cura direttamente di se stessi, non vivendo né sulle spalle di famiglie aristocratiche né su quelle degli schiavi. I moderni hanno adattato la democrazia alla società di mercato, la quale ha bisogno di una moltitudine non di poveri ma di consumatori, di gente cioè né troppo ricca né troppo povera; essi hanno promosso una trasformazione fondamentale dalla quale si deve far cominciare la storia della cittadinanza democratica: la fine del lavoro servo e schiavo. Per questa ragione, tutte le democrazie moderne sono fondate sul lavoro, anche quelle che non lo scrivono nella loro costituzione.
Lavoro, eguaglianza politica e di rispetto, libertà individuale sono intimamente connessi. E alla loro base vi è l´idea che l´individuo sia il bene primario, una persona intraprendente e attiva che vede nel lavoro non soltanto un mezzo per soddisfare bisogni materiali primari, ma anche per esprimere i propri talenti e le proprie capacità. Dignità della persona e lavoro dignitoso hanno dato vita a un connubio etico sul quale le democrazie moderne si sono consolidate.
Non è che questa associazione tra lavoro ed eguaglianza politica abbia eliminato le ingiustizie o liberato il lavoro dal peso della necessità. Essa ha tuttavia contribuito a considerare la fatica del vivere come una condizione che può essere umanizzata, benché mai vinta. Avere diritti politici ha contribuito a fare del lavoro una condizione sociale soggetta a regole e a responsabilità mutue e condivise. Il secondo Novecento è stato il secolo che ha dimostrato concretamente gli effetti umanizzanti della democrazia nel mondo del lavoro. Gli scienziati politici che si occupano dei processi di democratizzazione sono generosi di dati che dimostrano il miglioramento socio-economico e culturale che la trasformazione democratica porta con sé: migliori condizioni lavorative, diritto all´assistenza e contributi previdenziali, servizi sociali alle famiglie e scuole pubbliche decenti. Verrebbe da concludere che, se questo è vero per le società di recente democratizzazione (come per esempio molti stati dell´America Latina), ancora di più lo sarà per quelle con una democrazia consolidata.
Ma il paradigma democrazia-benessere non pare davvero così granitico, e quel che può valere per le società di recente democratizzazione sembra non reggere bene nelle nostre società. Dove due fenomeni si sono manifestati negli ultimi anni: la diminuzione del lavoro associato ai diritti e la crescita della povertà. Per esempio, come le cifre ci dicono quasi ogni giorno e il nostro Presidente della Repubblica ci ricorda regolarmente, gli incidenti sul lavoro sono ormai fatti ordinari. È ragionevole dire che un lavoro dissociato dalle garanzie di sicurezza è lo specchio di una società nella quale il lavoro non è più pensato in termini di diritti, ma è tornato ad essere sacrificio e pura fatica semplicemente. E inoltre, un lavoro dissociato da alcune basilari certezze, un lavoro messo nella cornice del rischio anziché in quella dell´opportunità e della possibilità è un lavoro che cambia di identità e da condizione associata a diritti e dignità passa ad essere luogo di diseguaglianze sociali crescenti e di paura della povertà. In tutti i casi, ad essere messa a repentaglio è proprio la relazione tra lavoro e indipendenza, la condizione appunto della cittadinanza democratica. Questo è il segno della crisi sociale e culturale delle democrazie consolidate.
È sulla povertà che occorre riflettere (non per legalizzarla con la social card, come ha fatto il governo italiano in uno dei suoi primi provvedimenti), e in modo particolare sulla relazione tra un lavoro sempre più povero di diritti e il rischio sempre meno aleatorio di povertà. Il presente insicuro del lavoratore a contratto a tempo determinato è una porta aperta alla sua povertà futura. Un lavoro senza diritti è come un passaporto all´indigenza. Ma non è che il presente sia meno a rischio. Non soltanto perché c´è un´oggettiva diminuzione di opportunità di impiego, ma anche perché si è consolidata nel frattempo la pratica di accettare lavori senza diritti; questo rende i lavoratori naturalmente più vulnerabili e deboli ma anche più disposti a barattare la loro libertà e sicurezza in cambio di pochi soldi in più. E la propensione a dissociare lavoro e diritti induce ad associare il lavoro con una fatica qualunque, in cambio di denaro. E questo è a un tempo segno e premonizione della paura più grande, che è la povertà.
La povertà genera vergogna, fa vergognare. Non è solo segno di nuda necessità. In una società dove il consumo e la pubblicità sono il paradigma quotidiano di rappresentazione di sé e delle relazioni con gli altri, non riuscire a possedere determinati oggetti rende esposti al riconoscimento da parte degli altri come esseri falliti, persone da emarginare. La povertà è uno stigma, peggiore di qualsiasi lavoro misero e mal pagato, peggiore di un lavoro senza diritti. E´ comprensibile che sia così poiché in una società che si regge sulla condizione dell´eguaglianza, non avere un´eguale considerazione (non importa in relazione a che cosa) genera i più intollerabili sentimenti: l´umiliazione e il risentimento. Sentimenti intollerabili perché mentre non cambiano in meglio la condizione di chi li subisce, impediscono la crescita di altri sentimenti senza i quali una società democratica rischia l´interna disgregazione: l´empatia e la solidarietà. È per questa ragione che l´associazione del lavoro al diritto non solo non può essere considerata come un optional del quale si può fare a meno, ma è a tutti gli effetti un fattore di stabilità democratica.

sabato 1 maggio 2010

Repubblica Bologna 30.4.10
Il libro
Flamigni-Melega una guida laica alla pillola del giorno dopo
di Brunella Torresin

IL sottotitolo è molto significativo: «Una guida per tutti». Per le donne, questo è ovvio, ma anche per gli uomini. Per credenti e non credenti, per mentalità laiche e per caratteri fideistici. A poche settimane dall´uscita di «RU486. Non tutte le streghe sono state bruciate», Carlo Flamigni e Corrado Melega, ginecologi entrambi, una vita trascorsa assieme in corsia - Flamigni: «Melega è più di un allievo, è un figlio» - tornano in libreria con un nuovo titolo, «La pillola del giorno dopo», edito anch´esso da L´Asino d´Oro. «Libro strettamente legato al primo, libro per tutti - sottolineano - e utile».
Quattro anni fa una ricerca condotta dagli studenti della Scuola di Giornalismo tra i loro coetanei e coetanee dell´Alma Mater, con questionari anonimi, rivelò che una ragazza su quattro aveva fatto ricorso alla pillola del giorno dopo. Apriti cielo. Bene, secondo Flamigni e Melega, occorre «sottrarre questi temi alle discussioni miserabili e restituirli nelle mani delle persone». «La pillola del giorno dopo» è una guida scritta per fare chiarezza, smentire «bugie e pervicaci ignoranze», sgombrare il campo dall´equivoco più grande, secondo il quale la pillola del giorno dopo sarebbe un farmaco abortivo. Non lo è: è un contraccettivo d´emergenza, la cui efficacia è circoscritta alle 72 ore successive al rapporto sessuale.
La «pillola del giorno dopo» non ha nulla a che fare con la RU486. È un progestinico che agisce alterando la qualità dell´ovulazione, senza interferire sull´impianto dell´ovulo fecondato, che avviene 5 giorni dopo la fecondazione. E «poiché la gravidanza inizia con l´annidamento dell´ovulo fecondato nella mucosa uterina - spiega Carlo Flamigni - non possiamo affermare che il farmaco sia abortivo». Chi lo afferma, «o porta a sostegno delle prove, che io non conosco, oppure è un bugiardo», chiarisce il padre della fecondazione assistita. In Francia è distribuita nelle scuole superiori alle ragazze, anche minorenni, che la richiedano. In altri paesi d´Europa si acquista in farmacia senza ricetta; negli Usa si dà senza ricetta alle maggiorenni. In Italia è divenuta materia di obiezione di coscienza, strumento della «misoginia di Stato e di Chiesa», commenta Flamigni. Una donna può acquistarla in farmacia solo con ricetta nominale non ripetibile. Oppure deve richiederla al consultorio e al pronto soccorso. Nel bel libro di Anais Ginori, «Pensare l´impossibile», un collettivo universitario, le Malefiche, racconta come la notte di San Valentino del 2009, in quindici si siano recate nei pronto soccorso di Roma con la stessa richiesta: «Ho avuto un rapporto a rischio. Vorrei la pillola del giorno dopo». Risultato: tre ospedali non l´hanno prescritta, altri sei hanno chiesto un ticket di 25 euro, in altri quattro la pillola è stata data solo dietro forti insistenze. Il giorno dopo le Malefiche hanno denunciato «l´omissione di soccorso e l´interruzione di pubblico servizio».


l’Unità 1.5.10
«Il Pd difende gli operai» E Bersani «buca» Annozero
«Ma lo sapete cos’è il Pvc? E cosa facciamo a Portotorres, Assemini, Marghera?» Il segretario zittisce le critiche in studio. Grande consenso su Facebook e in rete
di Simone Collini

Perché tanto stupore?». Pier Luigi Bersani rimette su la faccia bonaria, il giorno dopo la puntata di “Annozero” in cui all’ennesima caricatura del Pd non c’ha visto più e è sbottato di fronte a Marco Travaglio: «Noi avremo dei limiti e dei difetti, ma stiamo parlando di un partito di centrosinistra con la schiena dritta che merita rispetto». Una replica a muso duro, dopo aver ascoltato l’inviata di Michele Santoro dire agli operai di Porto Torres «Bersani magari ti potrebbe dire che se non c’è lavoro nel chimico magari dovresti provare in un altro settore», dopo aver ascoltato l’aspirante direttore del “manifesto” Norma Rangeri e poi le battute di Travaglio sui dirigenti democrat che quando dichiarano «non bucano». «Adesso mi fate una cortesia alza la voce Bersani fate il giro di tutti i partiti di sinistra italiani e gli fate la seguente domanda: cos’è il pvc?, dove sono gli stabilimenti di cui si parla lì?, cosa è successo a Porto Torres?, cosa sta succedendo ad Assemini?, a Margera?, chi li ha incontrati, chi li ha difesi quelli lì in giro per l’Italia? Il Pd. Va bene? Quando ero ministro ho fatto un piano per la chimica. Chi in parlamento ha sollevato queste cose qui?, e quanti di voi sanno negli ultimi due giorni di che cosa si è discusso in Parlamento? Ammortizzatori, redditi, quelle cose lì ce li abbiam portati noi usando quel pochissimo spazio che abbiamo per l’opposizione. Abbiam combattuto, qualcosina l’abbiam portata a casa, il governo vergognosamente ha respinto altre cose. Quanti di voi sanno cosa significa veramente la norma con cui abbiamo messo sotto il governo? Lo sapete precisamente?» Le telecamere inquadrano Travaglio a bocca aperta. «No. Se ne fregano tutti. Compresi quelli che dicono che si interessano».
La mattina dopo Bersani rimette su la faccia bonaria, sorride ricordando ai tanti incontri con categorie varie in cui ha risposto a muso ancora più duro, risponde agli sms di complimenti di compagni di partito e alle telefonate degli operai dell’isola dell’Asinara che venerdì andrà ad incontrare, ascolta i collaboratori che gli raccontano le migliaia di volte che sono stati rivisti su youtube quei dieci minuti di trasmissione e i commenti favorevoli su questo sito e su facebook e poi incassa anche l’approvazione della minoranza del partito, con il veltroniano Achille Passoni che dice di aver apprezzato sia il merito «non dobbiamo stancarci di ribadire che siamo al fianco dei lavoratori» sia il tono: «S’è incazzato? Ogni tanto ci vuole».
E pure se torna a mettere su il sorriso, il Bersani «incazzato» potrebbe non durare il tempo di una puntata di “Annozero”. Intervistato ieri su Youdem, ha parlato ancora di lavoro: «Il primo maggio, non è una data incartapecorita, con le ragnatele, anzi mostrerà quest’anno la sua vivacità perché il lavoro è di gran lunga il problema numero uno degli italiani, una vera emergenza». Ma ha mandato un messaggio anche sulle riforme e «le chiacchiere di Berlusconi» piuttosto esplicito, indirizzandolo fuori e dentro il centrosinistra: «Mi sono scocciato, ognuno ha il suo carattere, ma io non accetto balletti di questo genere nemmeno dal lato nostro: quello lì che si alza la mattina e dice il partito, il partitino, l’inciucio, quelle cose lì, ma i problemi sono il lavoro, la crisi, la vita degli italiani. Non è picconando il centrosinistra che si risolvono i problemi, ed è una vergogna l’attitudine autodistruttiva, noi dobbiamo concentrarci sui problemi veri».

il Fatto 1.5.10
Elogio di Bersani
di Marco Travaglio

Giovedì, ad Annozero, sono accadute cose che sarebbero normali in un Paese normale, ma in Italia rasentano lo stupefacente. Pier Luigi Bersani – diversamente dal suo mèntore baffuto e dal cavalier Berlusconi – ha accettato di misurarsi senza rete di protezione con cinque giornalisti di vari orientamenti che gli rivolgevano domande e gli muovevano contestazioni anche aspre. Ha fatto buon viso, ha sorriso, s’è infervorato, s’è incazzato, ha risposto per le rime, a tratti è parso addirittura a un passo dal commuoversi. Insomma, a contatto con alcuni esseri viventi, ha ripreso vita proprio quando lo stavamo perdendo. Lo stato pre-comatoso di partenza non è colpa sua: provate voi a frequentare tutti i santi giorni luoghi sepolcrali come quelli del Pd, antri spettrali popolati di salme e anime morte, ossari e fossili, in cui si aggirano raminghi i D’Alema, i Veltroni, i Fioroni, i Fassino, i Marini, i Follini, i Violante, i Letta (junior), facendosi largo fra residui del cilicio della Binetti e della cicoria di Rutelli e altri giurassici relitti del passato che non passa. Scene e ambienti che intristirebbero un battaglione di clown del Circo di Mosca. Ma poi le prime domande hanno sortito l’effetto del defibrillatore: il paziente s’è prontamente rianimato come nella serie E.R. e, dopo un istante di comprensibile disorientamento (“Dove sono?”), ha pronunciato alcune frasi tratte da un passato ormai lontano ma ancora impresse nei meandri del subconscio: “Opposizione”, “Costituzione”, addirittura “conflitto d’interessi”. Paolo Mieli ne ha concluso che in quel momento è nato un leader. Può darsi, lo sperano in molti. Intanto i suoi elettori non possono che aver apprezzato alcune frasi finalmente complete (prima le lasciava quasi tutte a metà), dunque chiare, comprensibili, non politichesi. Soprattutto una: “La nostra Costituzione è la più bella del mondo: al massimo va un po’ aggiornata, ma guai a chi la tocca. Per difenderla siamo pronti a chiamare a raccolta tutti quelli che ci stanno, a partire da Fini”. Una svolta non da poco, visto che fino al giorno prima il responsabile Pd per le riforme, Luciano Violante, dichiarava restando serio: “Ho il dovere di credere al presidente del Consiglio e di dialogare sulle riforme”. Frase che ha indotto Ficarra e Picone, a Striscia la notizia, a domandare se per caso non sia cambiato il presidente del Consiglio, visto che il Pd gli crede. E a ipotizzare che, in vista dell’incontro per le riforme, Berlusconi abbia invitato Violante a presentarsi a Palazzo Grazioli col trucco leggero e il tubino nero d’ordinanza. Se le parole di Bersani hanno un senso – e si spera che l’abbiano, è il segretario del Pd – la “bozza Violante” per rafforzare (ancora?) i poteri del premier, porre fine al bicameralismo e saltare nel buio del federalismo va in soffitta, visto che prevede ben di più e di peggio che “qualche aggiornamento” alla “Costituzione più bella del mondo”. Così come le tragicomiche avances per l’ennesima riforma anti-magistratura affidate dal responsabile Giustizia Andrea Orlando al Foglio di Ferrara (forse sperando che non le leggesse nessuno). Vedremo se, alle parole di Bersani, seguiranno i fatti (intanto ci accontentiamo delle parole: prima non c’erano neppure quelle): è cioè la fine del “dialogo” e dei “tavoli” per le “riforme” e l’inizio di un’opposizione dura, proporzionata alla gravità della minaccia. Chissà che, trovando una sponda energica nel Pd, il capo dello Stato non racimoli un po’ di coraggio per rispedire al mittente le leggi vergogna della banda del buco prossime venture. A proposito: ci scusiamo con i lettori per la precipitosità con cui ieri abbiamo elogiato Napolitano per la mancata firma al decreto Bondi sugli enti lirici. Dopo appena 24 ore di temeraria astinenza, la penna più veloce del West ha firmato anche quello. Ma non è colpa sua. E’ come il Dottor Stranamore: quando gli parte la mano, non c’è nulla da fare. E’ più forte di lui.

il Fatto 1.5.10
“Basta genuflessioni
La sinistra offra un sogno”
Parla il direttore della Normale Settis, rosarnese
di Giampiero Calapà

Quando Rosarno è salita agli onori delle cronache per la tragica rivolta del gennaio scorso, il rosarnese Salvatore Settis, direttore della Scuola Normale di Pisa dal 1999 (lascerà il prossimo ottobre), ha provato “dolore, perché un luogo relegato alla marginalità otteneva gli onori delle cronache per un episodio così terribile”; e “stupore, perché Rosarno è stato sempre un paese di emigranti: ad esempio, nella famiglia di mio padre sette fratelli su sette sono emigrati e mio nonno, Salvatore come me, è stato sia in Argentina sia a New York”. Ma non solo, perché “Rosarno all’inizio del ‘900, dopo le bonifiche e grazie alle coltivazioni di agrumeti che rendevano molto, ha anche accolto altri calabresi provenienti da zone ancor più povere, come l’Aspromonte, e nel giro di pochi anni la popolazione crebbe da poche migliaia a 20 mila abitanti: tanti rosarnesi di oggi discendono da quell’esperienza di immigrazione interna, da quel tempo in cui Rosarno era chiamata “Americhedda”, piccola America, quindi i fatti di gennaio sono stati un paradosso nel paradosso”.
Facciamo un passo indietro. Sempre a Rosarno, 1980, altro tragico evento, l’assassinio di Peppino Valarioti, intellettuale e dirigente del Pci locale, per mano della ‘ndrangheta in una storia mai chiarita fino in fondo (ancora oggi non c’è nessun responsabile). Che ricordi ha di quei giorni?
Ho avuto modo di conoscere Valarioti personalmente, quando dopo molti anni ritornai a Rosarno da archeologo per fare degli scavi negli anni ‘70. Mi legava a lui una grandissima simpatia. Valarioti faceva parte di una specie molto rara nel Sud: intellettuale, giovane, radicale nelle sue posizioni e soprattutto deciso a rimanere a Rosarno, di restare nella sua terra. Non voglio criticare con questo chi va via, perché dovrei criticare anche me stesso, ma lui rappresentava qualcosa di importante: una speranza. E quando fu ucciso venne meno proprio questo, la speranza. Non era un magistrato che aveva mandato qualche capomafia all’ergastolo, era semplicemente una persona che aveva deciso di non scendere a compromessi ed è morto per questo.
Dagli anni ’80 a oggi la civiltà culturale della Calabria, del Sud, ha fatto ulteriori passi indietro?
Ho l’impressione che la situazione non sia molto cambiata. Alcune reazioni individuali ci sono, ma manca la capacità di organizzare un movimento, anche per colpa dei partiti che non sono stati in grado di rappresentare la voglia di rinnovamento e offrire un’immagine diversa. Anzi, hanno proprio fallito i partiti. Pur con qualche tentativo generoso: penso all’assessore Domenico Cersosimo, dell’ultima giunta Loiero, per i suoi investimenti considerevoli nella scuola con l’introduzione di meccanismi per aiutare soprattutto le fasce più svantaggiate, i più poveri. Eppure l’unica certezza per la Calabria pare essere l’arretratezza a cui la condanna soprattutto una criminalità antichissima nella liturgia, ma modernissima nella capacità di esser protagonista dell’economia. Pensando sempre a Rosarno, l’immagine dei cartelli stradali bucherellati dai proiettili indica proprio questo, il degrado di un posto che ha pur dato i natali a un discepolo di Platone, Filippo di Medma. Invece è un luogo sotto la cappa di una ‘ndrangheta che ai miei tempi faceva piccole estorsioni, piccole rapine, “controllava” i campi. Poi l’evoluzione: mantenendo sempre gli stretti legami familiari e sociali,
ma alzando la mira sul traffico internazionale di droga e di armi, raggiungendo guadagni incredibili. Ma quel qualcosa di molto arcaico rimane, come rimane il pellegrinaggio annuale delle ‘ndrine al santuario della Madonna di Polsi.
Ci sono state, però, anche delle grandi illusioni: come il porto di Gioia Tauro che, se a pieno regime, potrebbe garantire migliaia di posti di lavoro in più. Ma resta, appunto, un’illusione, perché?
Forse perché, nel caso specifico, è nato male quel porto. E’ stato devastato uno dei più bei luoghi della Calabria, distruggendo olivi secolari, spianando tutto con i camion della ‘ndrangheta. E non per un porto: doveva sorgere il quinto centro siderurgico d’Italia in un momento in cui gli altri quattro non funzionavano più. Era l’epoca della lotta tra poveri, il “boia chi molla” della rivolta di Reggio contro Catanzaro capoluogo. Si porta dietro questa maledizione il porto.
Le responsabilità politiche non mancano. Anche il centrosinistra, che ha governato dieci anni prima della recente vittoria di Scopelliti, è ampiamente responsabile, non crede?
Sì e al di là di quello che è stato fatto o meno, rimprovero alla sinistra di non essere più in grado di costruire una speranza, ma non solo al Sud dove l’immobilismo produce effetti ancor più gravi. Non c’è più un’idea, tutto viene sistematicamente copiato: come il federalismo dalla Lega, copiare dal Carroccio è una moda poi. Invece, parlare di unità d’Italia è ora rivoluzionario, come nel 1848. C’è stata qualche eccezione a sinistra, bisogna ricordarlo, come Nichi Vendola, la sua storia è la più bruciante sconfitta del Pd: il piano era perdere in un colpo solo la Puglia e Bari, e a volerlo, diciamolo, era un normalista (il riferimento è a Massimo D’Alema, che in gioventù studiò alla Normale senza però conseguirne il diploma, ndr).
Mentre la crisi del Sud è senza fine, al Nord non si può neppure più cantare “Bella ciao”... perché anche gli intellettuali non parlano più, non fanno sentire la loro voce?
E’ vero, è una cosa che manca sempre di più. Gli intellettuali sono sempre più ridotti al silenzio, all’auto-bavaglio. Scetticismo? Sfiducia? Stanchezza? In parte anche eterna capacità di trasformismo, come dal 1922 al ’43, perché per afferrare piccole briciole di potere molti sono pronti a genuflettersi davanti a chiunque o almeno a tacere, ambiguamente.
In un’Italia sempre più spaccata e divisa almeno il sindacato cerca ancora, pur tra mille contraddizioni e limiti, di trovare ancora dei simboli, per questo la manifestazione nazionale oggi è proprio a Rosarno.
E’ positivo se dentro il simbolo, però, c’è qualcosa. Perché i simboli se sono vuoti si consumano in fretta: qual è il progetto del sindacato per l’Italia? Anche questo, a dir il vero, non mi è molto chiaro.

il Fatto 1.5.10
Vendola e la costruzione della leadership
Il presidente della regione Puglia sta costruendo le sue fabbriche sul territorio
di Salvatore Cannavò

“Il centrosinistra è vecchio e i suoi leader sono come esorcisti che negano la realtà”. Non è un avversario a fare queste dichiarazioni ma Nichi Vendola, governatore della Puglia e uno degli aspiranti leader del nuovo centrosinistra che dovrà sfidare Silvio Berlusconi. Il tono è fermo proprio perché la partita per la leadership è di fatto lanciata con ripercussioni pesanti all'interno dello stesso Pd dove, ancora una volta, i principali contendenti restano D'Alema e Veltroni. Il primo ha spiegato al Corriere della Sera che non è detto che il centrosinistra terrà le primarie per designare il leader della coalizione alternativa a Berlusconi. Immediata la risposta di Veltroni secondo il quale senza primarie “il Pd perderebbe la sua ragione sociale”. Lo scontro non è nominalistico perché le primarie definiscono anche il tipo di candidatura e quindi il profilo politico che si potrà delineare. Senza primarie si va a un patto tra forze politiche che potrebbe tirare fuori personaggi "algidi" come Luca Cordero di Montezemolo o Mario Draghi. Le primarie sono invece fatte anche per figure più "calde". C'è chi fa il nome di Matteo Renzi, sindaco di Firenze, e non va escluso lo stesso Veltroni. Ma certamente in campo c'è il nome di Vendola che alcuni danno in sintonia con l'ex sindaco di Roma. ”Il centrosinistra non ha il vocabolario giusto per affascinare, per essere credibile come costruttore di un'alternativa di governo”, sostiene ad esempio il presidente pugliese, lasciando intendere che lui invece il vocabolario giusto ce l'ha. E anche alcuni interlocutori. È in questa chiave che vengono interpretati alcuni passaggi degli ultimi giorni. A fine mese, ad esempio, il quotidiano "comunista" il manifesto promuove una due giorni a Firenze per discutere di "democrazia" e "sinistra". Tra i protagonisti, intellettuali come Rodotà o Revelli, Michele Santoro ma anche politici come Vendola, De Magistris e Ignazio Marino. Su La Stampa dell'altro ieri, però, l'appuntamento è stato ricostruito come il banco di prova di uno schieramento largo in grado di sfidare i vertici del Pd. E ieri, sul quotidiano torinese è apparsa un'intervista a Antonio Di Pietro il quale, intravedendo un'alleanza che punta a escluderlo, ha annunciato la sua partecipazione al meeting fiorentino, lasciando addirittura aperta una porta per Vendola leader. “Assistiamo a così tante incursioni di campo sulla nostra iniziativa che ci vien voglia di mollare tutto” dice al Fatto un irritato Loris Campetti che per il manifesto sta organizzando il convegno. “Noi non abbiamo mai invitato Di Pietro e comunque non facciamo i cavalli ruffiani di nessuno”. La smentita, piuttosto secca, non elimina il fatto che dei movimenti esistano e che lo stesso Vendola stia preparando la sua specifica "discesa in campo".
Così, mentre nel Pd si discute e si litiga, negli uffici della Regione Puglia si cerca il "racconto" giusto per battere Berlusconi. E gli strumenti adatti. Le Fabbriche dovranno servire a questo e a breve terranno i loro Stati Generali. “Sono comitati di scopo” dice al Fatto il presidente Vendola, “basati su cooperazione e partecipazione” e definiscono un progetto basato sul rapporto diretto “tra politica e popolo”. E quando gli chiedi come fa a combinare questa nuova moltitudine con le virtù salvifiche di un uomo solo Vendola risponde con l'ennesimo ossimoro: “Guarda che il mio è un populismo antipopulista, mica solletico il basso ventre, nei miei comizi punto a diffondere il massimo di consapevolezza e partecipazione”. Vendola, quindi, si fa avanti con molta convinzione, forte di un vuoto evidente e di una carica infusa dalla recente vittoria in Puglia. Anche l'intervista al Corriere della Sera di qualche giorno fa non è passata inosservata: “Sull'omosessualità ho avuto più ascolto dai preti che dal partito”, ha spiegato. In un momento di bufera attorno alla Chiesa un'apertura di questo tipo non costituisce un buon accredito?

il Fatto 1.5.10
Lavoratori della lirica in rivolta dopo la firma del Quirinale
Passa il decreto che blocca le assunzioni dei finti precari
Il senatore Pd Pietro Ichino assiste la Scala contro i dipendenti “stagionali” che fanno causa
Caos al Maggio: i lavoratori del Teatro fiorentino indicono lo sciopero per lo spettacolo di domani
di Stefano Vergine

Il cavillo che conta è ancora lì, immerso nelle 17 pagine del decreto legge che punta a riformare le fondazioni liriche. Relazione illustrativa, articolo 3: “Visti i numerosi contenziosi avviati si legge sono vietati i rinnovi dei rapporti di lavoro che, in base a disposizione legislative o contrattuali, comporterebbero la trasformazione dei contratti a termine in contratti a tempo indeterminato. Pertanto, le assunzioni effettuate in violazione del suddetto divieto sono nulle di diritto”. Parole che fanno riflettere sulle reali conseguenze del provvedimento d’urgenza promosso dal ministro dei Beni culturali, Sandro Bondi, con l’obiettivo ufficiale di “razionalizzare le spese” e di “implementare i livelli di qualità delle produzioni offerte”. Ieri mattina è arrivato l’ok del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che dopo aver rispedito al mittente il decreto con alcune osservazioni di carattere tecnico-giuridico, si è detto soddisfatto delle modifiche apportate dal governo e ha firmato. I cambiamenti, però, non riguardano la parte sui precari. E infatti le proteste dei lavoratori del settore non si sono placate. Dopo la firma di Napolitano e l’annuncio che il decreto entrerà in vigore oggi, primo maggio e festa dei lavoratori, il mondo della lirica è andato in subbuglio. All’Accademia di Santa Cecilia di Roma i dipendenti si sono riuniti in assemblea permanente e hanno annunciato il blocco totale delle attività. I colleghi del Maggio Fiorentino hanno annunciato che la replica de “La donna senz’ombra”, l’opera che giovedì ha inaugurato la stagione, non si terrà. A Bologna i sindacati hanno annunciato uno sciopero per martedì prossimo in occasione della prima della Carmen. E anche a Milano i dipendenti della Scala hanno deciso di far saltare la prima del 13 maggio. Il decreto è rivolto a tutte le fondazioni liriche italiane, ma le poche righe inserite nell'articolo 3 sembrano essere state pensate proprio per il teatro milanese, difeso legalmente dal professore di diritto del lavoro e senatore del Pd Pietro Ichino.
LA SCALA. Nel fiore all'occhiello della lirica italiana lavorano attualmente circa 730 persone assunte con contratto a tempo indeterminato (il ministero ne prevede un massimo di 800), più altre 150 a cui da decenni la fondazione rinnova un contratto a tempo determinato. Tutto ciò fino al 2005, quando i giudici del tribunale di Milano hanno dato ragione all'avvocato Luigi De Andreis e alla sua assistita, una donna addetta alla lavanderia, che con questo tipo di contratto veniva costantemente assunta da anni. Alla fine la Scala è stata costretta a concederle un tempo indeterminato, e così la vittoria di uno è diventata la speranza di molti: falegnami, carpentieri, parrucchiere, truccatrici, elettricisti, calzolai e ballerine. Tutta gente che contribuisce attivamente alle produzioni del teatro, tutti con la stessa storia lavorativa alle spalle. Vent’anni di contratti “stagionali”, undici mesi di durata, inizio a settembre e scadenza a fine luglio. Agosto a casa: proprio come accade alla maggior parte dei lavoratori, solo che quelli “stagionali” della Scala andavano in vacanza senza contratto. Sulla base di questi dati, nel 2005 il tribunale di Milano ha iniziato a dare ragione ai precari. Dal punto di vista giuridico il motivo è semplice: dal 1998, anno della trasformazione per legge degli enti lirici da pubblici a privati, questi ultimi hanno iniziato ad essere sottoposti alle norme del lavoro valide per i privati. E da questo momento i contratti a termine dei precari della Scala sono entrati in contrasto con la legge, sia quella in vigore fino al 2001, sia quella successiva e attualmente in vigore (D.Lgs 368/01, articolo 1 commi 1 e 2).
I giudici hanno escluso che quei precari potessero essere ritenuti degli stagionali, perché in realtà lavoravano 11 mesi all’anno, proprio come qualsiasi dipendente a cui spetta un contratto a tempo indeterminato. Per questi motivi una quarantina di loro hanno già vinto la causa. Quanto basta per convincere gli altri
centodieci a seguire la stessa strada, tanto che poco più di un mese fa il sindacato interno al teatro aveva annunciato una maxi azione legale nei confronti della Scala. Ora però le cose potrebbero cambiare. Il decreto prevede di annullare le assunzioni derivate da queste cause, e punta a sterilizzare le parti della legge 368 del 2001, cioè proprio quelle che finora hanno permesso ai precari di vincere le cause. Oltre che dai sindacati, le proteste sono arrivate dal Pd, che però si è soffermato su altri aspetti: il pensionamento dei ballerini a 45 anni, la penalizzazione del contratto integrativo, la contrattazione nazionale, il taglio dei fondi alle fondazioni liriche che rischia di penalizzare l’arte italiana. I precari? Alla domanda del Fatto Quotidiano, l’avvocato della Scala e senatore del Pd, Pietro Ichino, ha tagliato corto: “Preferisco non dare un giudizio politico sulla questione perché sono coinvolto sul piano professionale”.

Repubblica 1.5.10
L’Italia della lirica sciopera contro il governo
Dilaga la protesta dopo la firma di Napolitano alla riforma. Bondi: irresponsabili
di Anna Bandettini

Il ministro: "È un primo passo per cambiare le cose. Ora va discusso". Il 6 vedrà i sindacati

Sipario chiuso alla Scala il 13 maggio (per la prima di Das Reihngold). Sipario chiuso al San Carlo di Napoli ieri sera. Sipario chiuso al Comunale di Bologna martedì. Sipario chiuso al Maggio di Firenze domenica, come al Regio di Torino e alla Fenice di Venezia. Sipario chiuso al Carlo Felice di Genova giovedì. Sipario chiuso a oltranza all´Opera di Roma e all´Accademia di S. Cecilia, stato di agitazione al Petruzzelli di Bari, al Verdi di Trieste ... È un bollettino di guerra quello che arriva dalle Fondazioni liriche italiane contro il decreto che riforma l´intero settore e tutto fa pensare che sarà una guerra dura. «Atteggiamento irresponsabile», liquida la faccenda il ministro Bondi.
La protesta è dilagata dopo che il presidente Napolitano, ieri mattina, ha firmato il decreto con minime modifiche rispetto al testo che nemmeno 48 ore prima aveva restituito al ministro chiedendo spiegazioni. «Sembra tutto un teatrino», lamentavano costernati molti lavoratori che avrebbero auspicato un confronto tra le parti prima che il ministro rinviasse nuovamente il testo al Presidente. Conciliante, la nota del Quirinale: «il Capo dello Stato ha preso atto della conferma del ministro di incontrare nei prossimi giorni le rappresentanze sindacali e di tener conto delle proposte dei gruppi parlamentari e degli apporti dal mondo della cultura e dello spettacolo». Ubbidiente, Bondi ha già fatto sapere di incontrare i sindacati il 6 maggio. «È vent´anni che aspettiamo una riforma – ha dichiarato il ministro– È il primo passo di un confronto che si svolgerà in Parlamento e con le parti sociali e i sovrintendenti per un rilancio su criteri efficienti del settore». Gli fa eco il sottosegratrio Francesco Giro: «La riforma dà regole certe e stringenti, altrimenti a chiudere i teatri saranno i debiti milionari non gli scioperi». «No, è un decreto che disperde un patrimonio artistico e professionale», gli hanno risposto ieri davanti al pubblico, prima dello spettacolo, i lavoratori della Scala. «È inaccettabile. Distrugge il lavoro, altro che riforma», incalza Silvano Conti della Slc-Cgil, confermando che quella sul decreto sarà una battaglia pesante.
In vigore da oggi, con un iter di conversione di 60 giorni, tempo utile per fare delle modifiche, il decreto fa quello che tutti ritengono necessario: riformare le 14 Fondazioni liriche oggi economicamente insostenibili. Lo Stato destina 240milioni al settore che ha perdite per 2milioni e 667mila, con 5600 lavoratori che costano oltre 340milioni di euro, ma che, pure, in dieci anni col contratto nazionale hanno portato a casa un aumento di soli 150 euro, al terzo livello. Se la riforma ci vuole, quello che non piace ai lavoratori è come la fanno i nove articoli del decreto che toccano anche i criteri di assegnazione dei contributi statali (Fus) allo spettacolo dal vivo, Cinecittà, Siae e Imaie la cassa mutua degli interpreti (rinascerà con nuovo statutoe sotto vigilanza ministeriale).
Le novità per gli enti lirici: autonomia gestionale per le fondazioni che rispondono a parametri di «rilevanza internazionale, capacità produttive, rivelanti ricavi, significativo apporto dei privati»; il consiglio d´amministrazione sarà con membri in proporzione al finanziamento e il finanziamento statale triennalizzato. Accusa Conti: «Così privatizzano la Scala», oggi l´unico teatro a rientrare nei parametri (in una prima bozza era scritto nel decreto insieme all´Accademia di S. Cecilia come "teatro nazionale"). «Tutti i teatri con gestione virtuose potranno avere l´autonomia», affermano al ministero che indica il modello virtuoso: blocco del turn over, blocco delle assunzioni a tempo indeterminato, contratto nazionale sottoscritto tra ministro e parti sociali con la consulenza dell´Aran (l´organismo del pubblico impiego) e soprattutto contrattazione integrativa subordinata a quella di primo livello e comunque da subito dimezzata finché non sarà firmato il nuovo contratto nazionale. «Ci sarà una perdita del 30 per cento sul singolo salario dei lavoratori», avverte il sindacato. Allarmati dal clima infuocato, i sovrintendenti provano una conciliazione accogliendo l´invito di Napolitano. Francesco Giambrone del Maggio: «Lavoriamo perché questa riforma sia condivisa».

il Fatto 1.5.10
Da Roma a Bari l’agonia dei licei
di Caterina Perniconi

“Siamo in emergenza su tutto, non solo sui corsi di recupero. Da due anni non ci arrivano nemmeno i soldi del funzionamento”. Dopo l’allarme lanciato dal preside del liceo Keplero di Roma, che ha scritto una lettera al ministro Mariastella Gelmini denunciando la mancanza di fondi per i corsi di recupero, la voce di Bice Mezzina, insegnante di liceo classico e presidente del centro d’iniziativa democratica degli insegnanti di Bari, è solo una tra le molte che fanno eco nei corridoi della scuola italiana: “Non ci sono soldi, siamo al collasso”. Verona, Bologna, Roma, Napoli, Bari. Il problema è lo stesso dappertutto: non arrivano i fondi da Miur. “La rigorosità di preparazione scolastica complessiva richiesta dalle nuove norme cozza fragorosamente con la drammatica realtà di scuole senza soldi e sostegno per sopravvivere – ha scritto il preside del Keplero, Antonio Panaccione a giugno prossimo saremo obbligati ad applicare, completamente disarmati, le nuove disposizioni del Governo in merito alla valutazione finale. Ci troveremo, così, di fronte al tradizionale alto numero di alunni che non avranno raggiunto la sufficienza in ogni materia e i consigli di classe avranno allora solamente due possibilità, entrambe assurde: bocciare tutti o regalare tantissimi ‘6 politici’. Soluzioni che distruggerebbero la credibilità della scuola, portando così nuova linfa alle scuole private”.
E allora i professori si organizzano come possono: “Nel nostro liceo chiediamo agli studenti di autofinanziarsi – spiega Bice Mezzina – l’anno scorso 70 euro a testa, quest’anno 80. Nelle scuole primarie, invece, le insegnanti chiedono di portare da casa carta e pennarelli. Il ministro ha detto che i soldi per i corsi estivi arriveranno, ma per ora non si sono visti, e da due anni non riceviamo nemmeno il fondo per gestire il funzionamento scolastico, circa 30 mila euro l’anno”. All’istituto professionale Fermi di Verona, dove si formano odontoiatri e preparatori bio-chimici, il preside ha avvisato le famiglie che per poter coprire il costo dei corsi di recupero dovranno pagare 100 euro a testa. Al liceo Righi di Bologna, studiare la seconda lingua straniera a scuola dal prossimo anno costerà 120 euro in più. E mentre la Rete degli studenti denuncia che “la situazione delle scuole italiane è ridotta a pezzi”, ieri, in un’intervista al settimanale Io donna, la neomamma Mariastella Gelmini ha detto che sua figlia Emma “andrà in una buona scuola, pubblica o paritaria non importa. E comunque l’aumento delle iscrizioni alle paritarie è dovuto a un dato innegabile, la scuola pubblica è in crisi e per salvarla non basta il governo, devono contribuire i sindacati e i dirigenti, spesso poco attenti agli sprechi”. Peccato che sia impossibile sprecare soldi che non sono mai arrivati. “Per fare i corsi integrativi di recupero – ha scritto il preside del Keplero tanto necessari per i più deboli e svantaggiati, ci vorrebbero almeno quei finanziamenti certi, tempestivi e mirati dello Stato previsti dal decreto ministeriale n. 80 del 2007 già elargiti nel 2008 e 2009, ora invece eliminati o peggio girati alle scuole private”.

Repubblica 1.5.10
Così muore la scienza del tutto
Trasformazioni veloci e mondo liquido la sociologia non basta più
di Carlo Galli

Il segno del declino è stata la scelta del Cnr di riunire le scienze sociali in un unico ambito di ricerca che verrà chiamato "Identità Culturale Italiana" La tesi principale era che individui e Stato non si possono pensare come autosufficienti Ma l´eccesso di obiettivi e di metodi, ha finito per frammentare la disciplina

Dagli anni ´60 in poi le scienze sociali hanno dominato la lettura della realtà: ogni fenomeno veniva interpretato attraverso gli occhiali di questa disciplina Ma tra l´invasione dei "tuttologi" e gli eccessi specialistici ora è cominciato il declino E gli intellettuali di riferimento sono diventati gli economisti, i filosofi, gli antropologi

ul sito web della Fondazione Treccani una delle figure di punta della sociologia del nostro Paese – il milanese Guido Martinotti – ha criticato aspramente la scelta del Cnr di riunire le scienze sociali in un unico ambito di ricerca denominato «Identità Culturale Italiana». Ma a partire dalla denuncia della debolezza organizzativa di una disciplina che non riesce a opporsi a simili diktat, viene introdotta una articolata riflessione – a cui hanno partecipato parecchi altri sociologi – su quella che viene definita la "crisi della sociologia": crisi di paradigmi conoscitivi, di presenza accademica, di visibilità pubblica; crisi del sociologo come «tuttologo», insomma. Una crisi d´identità che viene dopo una stagione di notevoli successi.
A partire dagli anni Sessanta, infatti, ha conosciuto un grande incremento della sua penetrazione dell´Università, grande popolarità dei suoi metodi (il questionario), grande appetibilità del suo sapere per gli enti pubblici di vari livelli che alle analisi sociologiche – il prodotto tipico delle ricerche commissionate (e finanziate) ai sociologi – affidavano e ancora oggi affidano la legittimazione delle loro politiche d´intervento sulla società italiana. Un successo anche d´immagine, tanto più notevole quanto più la cultura italiana non era stata certo benevola, inizialmente, verso la disciplina: contro la quale avevano pesato i pregiudizi della filosofia idealistica – «inferma scienza» fu definita da Croce – ma anche la chiusura del marxismo, nonché l´originaria diffidenza di altri mondi scientifici più influenti.
Una disciplina, la sociologia, che sembrava povera di pedigree e di lignaggio scientifico, insomma. Il che, però, non era vero. Nata nel grembo della filosofia del tardo Settecento e dell´Ottocento – da Bonald a Comte, da Saint-Simon a Spencer –, la sociologia si afferma tra gli ultimi decenni del XIX secolo e i primi del XX con l´opera di padri fondatori che sono dei giganti del sapere e della ricerca: da Durkheim a Tönnies, da Weber a Simmel, da Pareto a Parsons. E in seguito, nel corso del Novecento, la sociologia è stata illustrata da personaggi come Elias e Goffman, Boudon e Luhmann, Schütz e Merton, Elster e Riesman, Giddens e Beck – solo per fare qualche nome tra i più famosi, noti anche a un pubblico non specialistico.
Una simile fioritura d´ingegni – diversissimi tra loro quanto a stili e metodi di pensiero – testimonia della straordinaria rilevanza e fecondità del proposito originario della sociologia: l´analisi della società, cioè della dimensione che si colloca tra il soggetto e lo Stato, e che dà loro sostanza e fondamento. La sociologia assume infatti che i pilastri del pensiero politico moderno – individualità e statualità – non possano essere pensati come entità autosufficienti, ma siano comprensibili come momenti interni a un universo di relazioni e di interazioni reali, appunto la società, nella quale i soggetti agiscono rapportandosi variamente con altri soggetti, con le comunità, con le istituzioni, con le forme del potere.
È questa concretezza e questa multiformità relazionale della società la sfida a cui la sociologia vuole rispondere, evitando quelle che le paiono le parzialità, le semplificazioni, le astrattezze di altre discipline, come la filosofia, l´economia, il diritto. Questo progetto di analisi del Tutto si è ben presto arricchito e complicato: la sociologia si è divisa tra sostenitori del primato dell´agire soggettivo e teorici della precedenza delle grandi strutture impersonali; tra fautori dei metodi qualitativi e di quelli quantitativi o empirici; tra strutturalisti e funzionalisti; tra chi crede del ruolo applicativo della sociologia – un sapere che avrebbe la vocazione a stabilire una sorta di alleanza "illuministica" o tecnocratica col potere – e chi ne enfatizza la capacità critica e demistificatrice. Soprattutto, la sociologia si è profondamente articolata in numerosissime branche e specializzazioni, che indagano ogni angolo e ogni versante dell´esperienza individuale e dell´esistenza collettiva, stabilendo così nuovi legami – alla pari – con altre scienze umane.
Eppure, in questa crescita c´è stato anche il seme del declino. L´ampliamento dello spettro degli obiettivi, proprio in ottemperanza all´imperativo di aderire alla realtà sociale in tutte le sue molteplici dimensioni, ha fatto nascere molte sociologie quasi autoreferenziali, sprofondate nei propri oggetti anche minimi, poco capaci di dialogare tra loro e molto differenziate per metodi e obiettivi, che faticano a essere riconducibili a un´epistemologia comune, a quella "terza cultura" – non solo scientifica e non solo umanistica – che la sociologia vorrebbe essere. A ciò si aggiunga la continua trasformazione dell´oggetto – la società –, causata dalle sconvolgenti trasformazioni del mondo contemporaneo, dei suoi spazi politici e dei suoi attori, che disorienta, oltre che altre discipline, anche e forse più la sociologia: proprio in quanto vuol essere sensibile a ogni mutamento, questa è destinata a inseguire e a volte anche a subire i cambi di struttura e di paradigma che la nostra epoca di transizione reca con sé. Il Tutto sociale si è fatto tanto complesso da risultare quasi imprendibile.
Così, benché ancora molto "utilizzati", non si può dire che i sociologi siano oggi gli intellettuali di riferimento primario, dubbio onore che tocca più ai filosofi, agli economisti, ai politologi, agli antropologi. Al netto di ogni altro problema specificamente italiano – necessità di ringiovanimento, di riorganizzazione, di internazionalizzazione – proprio nel vanto della sociologia, la sua capacità di aderire a una realtà mobile e sfuggente come la società, sta anche la fonte primaria dei suoi problemi.

Repubblica 1.5.10
Noi eravamo saliti in cattedra ma oggi un comico conta di più
di Franco Ferrarotti

La disciplina ha avuto grande successo accademico, tra facoltà e corsi di laurea Eppure non si è riusciti a intaccare la mentalità prevalente che è rimasta parolaia

Sembra ormai un dato acquisito: la sociologia è in crisi; il sociologo sta uscendo di scena. Dopo la «sbornia sociologica», come la chiamava il tardo-crociano Francesco Compagna, il sociologo appare evanescente, ha perso il passo. Ma, storicamente, la sociologia è nata da una grande crisi; è figlia ingrata della transizione dal mondo contadino alla società industriale. E ha avuto, non solo in Europa o negli Stati Uniti, ma anche in Italia, i suoi successi, se non i suoi trionfi. Una grande vittoria, però, è un grande pericolo. Il successo rende timidi. Si esita a cambiare formule o impostazioni che hanno funzionato.
In Italia, siamo al paradosso. Come in una pochade da Café du Commerce, si verifica una fulminea sostituzione di persona; il sociologo si presenta sotto mentite spoglie; è scomparso. In due tempi. Dapprima, questioni sociologicamente rilevanti sono affrontate e discusse da altri degni analisti sociali, soprattutto psicologi e antropologi. Come mai? Con tutto il rispetto per questi colleghi - già in cattedra per la sociologia ho aiutato a suo tempo Tullio Tentori ed Ernesto Valentini ad avere la loro in antropologia e psicologia - a parte il fatto che credo fermamente nell´impostazione multidisciplinare della ricerca, i committenti pubblici e privati li ritrovano probabilmente più «maneggevoli», forse meno sulfurei.
Gli antropologi fanno ancora pensare ai popoli detti «primitivi». Sanno di post-colonialismo. Gli psicologi riducono la società a stati d´animo, predicano l´adattamento, se non la rassegnazione. I sociologi chiamano in causa le strutture della società, sospendono un interrogativo sul potere, sui gruppi sociali che lo detengono, sulla legittimità non solo formale, ma sostanziale. Misurano lo scarto fra le cose dette e le cose fatte. Scoprono, qualche volta, che una classe dirigente mira più a durare che a dirigere, che si comporta come una truppa d´occupazione in un paese che non conosce.
In un secondo momento, specialmente in Italia, il sociologo è surrogato dal professore di estetica e dal comico. Niente da dire sulla professionalità di queste figure. Ma non hanno mai fatto una ricerca, come si dice, sul campo. E perché dovrebbero? A loro basta la battuta, la strizzatina d´occhio, il gesto. Non hanno bisogno di fare ricerca. Intuiscono. Vengono direttamente dalla «commedia dell´arte». Sono collegati con la più collaudata tradizione politica e culturale italiana: tradurre i problemi etici in atteggiamenti estetici; far ridere per dimenticare di piangere. Crozza e Benigni invece di Vilfredo Pareto o, più modestamente, Alfredo Niceforo, quello che aveva studiato la pellagra al Nord Est e di cui i nuovi ricchi di quelle parti farebbero bene a ricordarsi.
Per riassumere e concludere, la sociologia in Italia, nel corso degli ultimi cinquant´anni, ha ottenuto un grande successo accademico-burocratico-organizzativo. Ci sono oggi cattedre, facoltà, corsi di laurea, dottorati in sociologia. Non è riuscita a intaccare, tanto meno a trasformare la mentalità prevalente, che è rimasta ciceroniana, parolaia, ciarlatanesca - in una parola, incapace di ragionare pacatamente e di operare efficacemente con riguardo alle questioni specifiche di un paese in bilico, divenuto industriale ma senza una cultura industriale, privo di una lucidità condivisa. Le tre grandi tradizioni culturali italiane - cattolica, marxistica, liberaldemocratica - non sono strumentalmente in grado di aiutare e portare al compimento della transizione. Ma hanno un temibile potere di veto. Gli intellettuali più aperti al nuovo si sentono esuli in patria. Rispetto ai problemi quotidiani della loro comunità, sono dei «separati in casa».

Repubblica 1.5.10
Pablo Picasso e tutte le sue donne
di Barbara Briganti

Quando cambiava compagna, cambiava anche vita. A dire il vero succede a molti uomini. Ma nello specifico, lui era Pablo Picasso e mutare vita voleva dire rinnovare, oltre all´indirizzo e alla cerchia di amicizie, anche genere pittorico. E dato che Picasso, nel corso della sua intensa esistenza ebbe un ragguardevole numero di compagne, parallelamente attraversò un equivalente numero di fasi o periodi.
Paula Izquierdo aggiunge alcuni nomi alla lista nota e allarga il campo delle influenze femminili alla madre e a conoscenti come Gertrude Stein, la quale, a vedersi catalogata come amante del pittore, si rivolterà probabilmente nella tomba.
Nonostante alcune imprecisioni fastidiose: (Fernande Olivier ha scritto un libro su Picasso e i suoi amici, e non amiche, opera che sarebbe stata una velenosa vendetta), questo svelto catalogo rappresenta una sorta di guida e promemoria, che ci ricorda anche quanto il modus amandi del maggior pittore del secolo scorso fosse distruttivo per le sue vittime. «Le donne sono macchine per soffrire», disse. Leggendo le loro storie se ne ha una prova tangibile.

Repubblica 1.5.10
Sinéad O’Connor
"La mia missione? Salvare Dio dalla religione"
Il Papa dovrebbe dimettersi e bisognerebbe ritirare l´ambasciatore irlandese in Vaticano per rispetto alle vittime degli abusi sessuali
di Giuseppe Videtti

Credo nei precetti del cristianesimo, nella Trinità e in Gesù Cristo. Continuo a lottare per la paura di non essere più in grado di proteggere la mia famiglia

Quant´era bella e intensa e seducente quando, con la testa rasata e gli occhi pieni d´inquietudine, cantava Nothing compares 2 U, una canzone che Prince aveva scritto per il gruppo The Family e lei vent´anni fa fece schizzare in classifica. La premiarono con un Grammy per il miglior album di musica indipendente (I do not want what I haven´t got) ma lei, testarda e orgogliosa come solo un´irlandese sa essere, disertò la manifestazione. Com´è diversa oggi Sinéad O´Connor, 43 anni, madre di quattro figli, un´artista che ha scelto la provocazione anche a costo di sacrificare il successo. Non le importa di sembrare una casalinga, non le importa di produrre un disco ogni cinque anni (l´ultimo, Theology, è del 2007); il glamour la disgusta, lo show business è una tentazione di cui approfittare solo nei momenti di bisogno.
«Non sono scomparsa, vivo a Dublino, sono una mamma felice», esordisce Sinéad, che stasera terrà un concerto acustico al Teatro San Carlo di Napoli (poi tornerà il 22 maggio a Fabriano e l´8 luglio a Genova). «Si sa, i bambini hanno bisogno di tempo, soprattutto in età scolare. E d´altronde io non faccio dischi se non ho tra le mani le canzoni giuste, brani che siano l´esatta rappresentazione del mio pensiero e dei miei sentimenti». Severa e intransigente, come sempre. Ribelle e polemica, più di sempre. Della sua vita ha sempre spiattellato ogni cosa: gli abusi subiti da una madre separata e dalle suore cui fu data in custodia dopo ripetuti episodi di cleptomania adolescenziale; il rapporto conflittuale con il cattolicesimo che la portò al gesto estremo di strappare l´immagine di Giovanni Paolo II davanti alle telecamere del Saturday Night Live e a pretendere di essere ordinata sacerdote dal vescovo di un gruppo cattolico indipendente col nome di Mother Bernadette Mary; la mortificazione della femminilità col taglio di capelli; quattro figli avuti da altrettanti uomini e le contraddittorie dichiarazioni sulla propria sessualità («Nonostante non l´abbia mai detto apertamente, sono lesbica», dichiarò nel 2000); il disagio di convivere con una dolorosa forma di fibromialgia.
«Mi è difficile ricordare quel che è successo vent´anni fa», dice, «non per eludere le domande, ma proprio perché non ricordo. Mi capita spesso di chiedere ad altre persone informazioni sul mio passato. Ricordo molto chiaramente che ero una fan di Barbra Streisand, che a quindici anni cantavo Evergreen dalla mattina alla sera, che poi sono stata rapita da Dylan e infine da Bob Marley, Smiths, Public Enemy, Nwa, Krs One. La mia storia nel mondo dello spettacolo è altalenante: brillante nei momenti in cui ero felice, turbolenta quando non lo ero. Il successo è comunque un trauma, soprattutto se sei solo come ero io quando arrivai da Dublino a Londra. Ero ingenua, eccitata di esibirmi a Top of the Pops, al settimo cielo quando partii per il primo tour mondiale. Ma, a ben guardare, tutto era un gran caos, poco familiare, confuso, straniante».
Negli anni Novanta, Sinéad O´Connor era la sacerdotessa del rock, l´orgoglio della musica irlandese, protagonista degli eventi top (The Wall dei Pink Floyd a Berlino, la colonna sonora de In nome del padre, la celebrazione degli Who nei due concerti alla Carnegie Hall, infine una parte nel film The butcher boy di Neil Jordan: era la Vergine Maria). Il suo impegno di attivista, mai lasciato in secondo piano, è ora tornato prepotentemente alla ribalta. Già nel ´92, scegliendo come inno di battaglia l´aggressiva War di Bob Marley, Sinéad denunciò il fenomeno dei preti pedofili. Fu in quell´occasione che fece a pezzi l´immagine del papa gridando: «Combattete il vero nemico». Oggi dice: «Quella canzone mi diede la forza di esprimere onestamente le mie opinioni, di combattere contro le ingiustizie che mi balzavano agli occhi, di usare la mia arte e la mia popolarità come strumento di denuncia. Lo so, ci sono musicisti di grande popolarità che nelle loro canzoni non dicono assolutamente niente, sembrano vivere sulla luna. Come si può ignorare i problemi che sono sotto gli occhi di tutti quando si fa un mestiere come il nostro?».
Non nega le affermazioni fatte in tv a Oprah Winfrey (di essere affetta da bipolarismo e aver tentato il suicidio a 33 anni) e rincara la dose di accuse contro la chiesa cattolica in merito allo scandalo dei preti irlandesi, già lanciate attraverso la Cnn, la Nbc e diversi quotidiani come il Washington Post e l´Independent. «Credo fermamente nei precetti del cristianesimo, nella Trinità e in Gesù Cristo», dice, ma allo stesso tempo chiede le dimissioni di Benedetto XVI «per non aver cooperato con la commissione d´inchiesta e il ritiro dell´ambasciatore irlandese presso la Santa Sede in segno di rispetto per il popolo d´Irlanda oltraggiato dalla noncuranza dimostrata dal Vaticano nei confronti della sofferenza patita dalle vittime degli abusi sessuali perpetrati dal clero». Dice che questa è la sua missione, «salvare Dio dalla religione» in un mondo flagellato dalle guerre e dai reiterati scempi contro l´ambiente. «Per questo continuo a lottare», conclude, «per la paura di non essere più in grado, un giorno, di avere un tetto, cibo e vestiti per la mia famiglia».

l’Unità 1.5.10
Il trionfo della Cina
Senza debiti, si celebra nell’Expo. E l’Ue annaspa
Differenze. La Grecia seppellita anche dalle spese per le Olimpiadi, i cui effetti sono stati occultati
Pechino. Per la fiera mondiale che si apre oggi i cinesi hanno speso molto di più Una prova di forza
di Loretta Napoleoni

Alla vigilia della cerimonia d’apertura della World Expo di Shanghai, il cui tema è «una città migliore per una vita migliore», il paese che ci ha dato la polis, la Grecia, è sull’orlo della bancarotta e l’Europa, culla della Rivoluzione industriale e dell’urbanizzazione si interroga sul perché di quest’ennesima crisi dell’economia globalizzata. Ma non basta, mentre nell’Europa Unita il tema dell’immigrazione nei centri urbani si fa sempre più spinoso ed i politici scivolano uno dopo l’altro su questa buccia di banana, all’Expo di Shanghai troviamo scolpiti lungo le pareti del padiglione cinese tutti i simboli dei popoli che da millenni vi abitano. Un riconoscimento ufficiale, insomma, alle minoranze etniche di questo immenso paese. Ecco due immagini che ben riassumono le contraddizioni del villaggio globale ed i cambiamenti in atto in Cina e nelle economie emergenti che le ruotano attorno, ed in occidente e nelle sue non più sfavillanti metropoli.
Emblematico è anche scoprire come la Grecia abbia gestito l’investimento per le olimpiadi del 2004 e come la Cina invece abbia finanziato i costi della World Expo, che si dice siano pari al doppio di quelli delle Olimpiadi di Pechino. Oggi veniamo a conoscenza che nei 300 miliardi del debito ateniese figura anche la spesa per i giochi olimpici, soldi che in parte sono scomparsi lungo i mille rivoli delle bustarelle. Abbiamo anche appreso che grazie ai giochi di prestigio dei maghi dell’alta finanza questo debito è stato abilmente nascosto, anche e soprattutto agli occhi dei burocrati di Bruxelles. E giustamente gli europei non vogliono accollarselo. Questi, ahimè, sono gli inconvenienti di un sistema finanziario ad effetti speciali. Benvenuti nel laboratorio cinematografico del neo-liberismo di Wall Street!
Al posto degli effetti speciali a Shanghai durante la cerimonia di apertura che si terrà oggi ci saranno i fuochi d’artificio che tanto piacciono ai cinesi. Sarà uno spettacolo indimenticabile, in grado di offuscare quello della cerimonia d’apertura delle olimpiadi di Pechino. Ai cinesi, si sa, piace fare le cose in grande. Tutto, naturalmente, è a spese del governo e dell’amministrazione locale. Di prendere i soldi in prestito per la fiera delle meraviglie in Cina non se ne è mai neppure parlato. Questo è tra i pochi paesi al mondo senza debiti.
All’ombra dei 262 padiglioni dell’Expo si sussurra che l’investimento per le infrastrutture ammonti a 14 miliardi di dollari, ma sicuramente di soldi se ne sono spesi di più. Basta pensare che per ospitare l’Expo un’intera sezione abbandonata di Shanghai, tutta lungo l’estuario dello Yangtze, è stata rimessa a nuovo. Cinque kilometri quadrati, questo lo spazio adibito alla fiera delle meraviglie, una città nella città, e per percorrerlo a piedi i 70 e più milioni di visitatori impiegheranno diversi giorni. Ma questa non è una fiera come le altre, le 92 nazioni in mostra accanto ad altrettante organizzazioni internazionali ed alle grandi corporation come la Coca-Cola, faranno da damigelle d’onore alla città. In fondo Shanghai è la vera, grande attrazione in questa vetrina del futuro.
Oggi persino gli stessi abitanti faticano a riconoscerla, eppure è la metropoli che tanto bene esprime l’ampiezza ed il ritmo del cambiamento in Cina, una sorta di super-modernizzazione del Paese. Con 20 milioni di persone, Shanghai era già una delle più grandi megalopoli al mondo, ma le nuove infrastrutture create per l’Expo l’hanno trasformata in una delle città più moderne al mondo sia dal punto di vista tecnologico che da quello architettonico.
La globalizzazione ha dunque restituito alla Cina gran parte del suo splendore del passato, ed il tema della World Expo sembra volercelo ricordare: la città del futuro concepita come uno spazio ameno e vivibile, alimentato principalmente da energia sostenibile. Un mondo insomma urbanizzato, densamente popolato, dove la Cina reclama la propria centralità. Lo scopo dei padiglioni è fornirci uno squarcio del futuro delle città del pianeta, dal momento che ormai più gente vive nei centri urbani che in campagna. Ma nessuno di questi, neppure quello Saudita che assomiglia ad una nave spaziale con un’aureola di palme e dune del deserto e che è costato ben 160 milioni di dollari, riesce a competere con Shanghai. Tutto in questa città sembra provenire dal futuro. Il treno che la collega all’aeroporto di Pudon è tra i più veloci al mondo. I passeggeri osservano affascinati i pannelli elettronici dove si legge la velocità che supera i 350 chilometri orari mentre dal finestrino il paesaggio sembra curvarsi su se stesso. 8 minuti e si arriva in città. Per l’Expo l’amministrazione locale non ha badato a spese: ha costruito un secondo aeroporto che smisterà le decine e decine di milioni di visitatori cinesi che come formiche in fila verso il formicaio visiteranno la fiera; ha anche ampliato la rete della metropolitana con 7 nuove linee. 13 arterie principali percorrono la città in lungo ed in largo, i treni sono tutti nuovi di zecca, comodi, frequenti, veloci e puntualissimi.
Il messaggio che la diplomazia dell’Expo, uno stuolo di individui che come quella delle olimpiadi del 2008 ha lavorato alacremente alla creazione del luna park del futuro, non è diretto solo all’occidente ma anche e soprattutto ai paesi in via di sviluppo, all’Africa che è presente con 53 paesi grazie ai finanziamenti dei cinesi, all’America Latina ed all’Asia. Pechino propone al sud del mondo, che tanto subisce il suo fascino, una visione dell’urbanizzazione del futuro ed osservando le luci fantasmagoriche dei grattacieli di Shanghai viene spontaneo chiedersi: chi meglio di questa nazione popolosissima potrebbe farlo?
Secondo uno studio della London School of Economics entro il 2050 il 75% della popolazione mondiale sarà urbanizzato. Vivremo in città grandi come province e regioni ed in alcuni casi addirittura estese tanto quanto intere nazioni. L’Onu prevede che gran parte di questo processo avverrà nel sud del mondo dove negli ultimi vent’anni sono sorte le megalopoli, i più grandi agglomerati urbani. L’alta densità della popolazione è il tema spinoso che la città del domani deve affrontare e la World Expo lancia questa sfida al mondo intero. E paradossalmente il ricco occidente è poco ferrato in materia.
All’inizio del 2010 nella hit parade delle metropoli c’era solo una città occidentale, Tokyo. Da anni Londra e New York sono state estromesse dalle capitali del sud del mondo, tutte con circa 20 milioni di abitanti. Mumbai, Shanghai, Jakarta, Pechino, Karachi in Asia; San Paolo e Città del Messico nell’America latina; Laos in Africa, ecco i modelli urbani del futuro. All’Expo di Shanghai la Cina presenterà il modello del Delta del fiume delle Perle, dove vivono 40 milioni di persone dove il motore urbano è l’industria. A differenza però delle metropoli del passato, la fusione di industria e città è intimamente legata al dinamismo finanziario e commerciale di Hong Kong.
L’una è complementare all’altro. Si tratta di un modello che ritroviamo in molte città dei paesi emergenti del sud del mondo da Mumbai a Città del Messico. Ed è questa realtà che Shanghai si prefigge di ricreare nel prossimo futuro quando sfiderà Wall Street quale centro finanziario più importante al mondo.
Questo fine settimana la Cina capi-comunista sarà in festa, centinaia di milioni di persone assisteranno alla cerimonia d’apertura della World Expo incollati ai televisori. Nel vecchio continente invece i rappresentanti del Fondo Monetario e dell’Unione Europea lo passeranno seduti intorno al tavolo delle riunioni, cercando di accordarsi su come salvare dalla bancarotta la Grecia, culla della cultura occidentale e della democrazia. Molti vedono in questo incredibile parallelo la conferma che la sfida sia già stata lanciata. Forse hanno ragione.