mercoledì 5 maggio 2010

l’Unità 5.5.10
Scioperiamo per la dignità
di Teodoro Andreadis

La Grecia oggi è ferma, sciopero generale. Scendono in piazza i lavoratori del settore pri-
vato, i dipendenti pubblici, i giornalisti, i medici. Niente radio e niente televisione. Si tratta di una mobilitazione di massa. Contro le misure varate per fronteggiare il rischio di fallimento. Ma non solo di questo. Molti, moltissimi, pur sapendo che i tagli e i sacrifici richiesti da Papandreou costituiscono l’unica via obbligata, sono oggi in piazza per difendere la propria dignità, il proprio passato e l’integrità morale. Per dire che con cinquecento cinquanta euro al mese come primo stipendio, è quasi impossibile vivere. Che la riduzione della buona uscita per i licenziamenti potrebbe aprire la via a riduzioni di personale indiscriminate. Il leader socialista greco, ha fatto capire che le misure sono state praticamente imposte dagli esperti del fondo monetario e dell’Unione europea. Si è salvato il salvabile. «Stare peggio oggi per cercare di star meglio domani, o forse dopodomani», è la logica delle misure che il parlamento di Atene approverà entro la settimana. Ma i greci, sanno benissimo che, malgrado le buone intenzioni, l’ obiettivo rischia di trasformarsi in un miraggio. Chi scende in piazza, teme di non poter pagare il mutuo casa. Che il suo stipendio, decurtato del 20%, non possa più bastare. Di non poter più mandare i figli all’università, perché i corsi di preparazione per gli esami di accesso alle varie facoltà costano. Di perdere il lavoro e non riuscire più a trovarne un altro. Rassegnazione, rabbia, sconforto, senso di non appartenenza a una situazione che nessuno pensava di dover vivere. Questo e molto altro, nelle strade di Atene. Ma anche la voglia di dire all’Europa, che la Grecia non vuole diventare l’unica vittima sacrificale di banche che hanno avallato conti truccati, di responsabili comunitari che hanno fatto finta di non vedere, di interessi di parte che hanno ritardato troppo, e forse in modo irreparabile l’avallo dell’Unione agli aiuti. I greci, la mia gente, non vogliono rinunciare alla loro dignità.

l’Unità 5.5.10
Anche il sangue è doc?
di Igiaba Scego

Il ministro degli Interni Maroni si è dichiarato contrario allo “ius soli”, ossia alla concessione della cittadinanza ai figli di migranti che nascono in Italia. Maroni è ministro dello Stato italiano però il suo partito, la Lega, fa un po’ a pugni con questa parola “Italia”. Preferiscono definirsi padani. Governano in Italia, ma di questa Italia non si sentono parte. Infatti il leader della Lega Umberto Bossi interpellato sulla festa per i 150 anni dell’unità del Paese ha definito la ricorrenza inutile e molti membri della Lega hanno dichiarato che «non parteciperanno alla festa per l’unità». Alla luce di queste dichiarazioni mi chiedo: l’Italia è di chi ci nasce, di chi la ama o di chi fortuitamente si è ritrovato con una goccia di sangue italiano nelle vene? E come si fa a capire qual è il sangue italiano doc? Va ad annate come il vino? Nel sangue italiano ci sono le tracce di tutti i popoli che si sono avvicendati nella penisola: come si fa a capire quale sangue è doc e quale non lo è? Vale di meno il sangue che porta le tracce africane delle truppe di Annibale? E quello mischiato con il sangue arabo e il sangue ebreo? È più italiano un uomo nato a Buenos Aires con trisavolo del Friuli che non sa nulla dell’Italia? O un giovane di origine cinese nato, svezzato e cresciuto in provincia di Varese? In politica c’è chi è miope su questa situazione dei figli dei migranti, ma c’è anche chi riflette e fa battaglie. Il finiano Fabio Granata del Pdl e il cattolico del Pd Andrea Sarubbi hanno presentato un testo che propone tra le tante cose il passaggio dallo “ius sanguinis” allo “ius soli” per i figli di genitori residenti in Italia da cinque anni. Il testo porta in calce il nome di cinquanta parlamentari di tutti i gruppi, salvo la Lega. Stanno cercando di portare i nuovi italiani al centro del dibattito politico. La demografia è dalla parte degli onorevoli Sarubbi e Granata. E anche il buon senso.

l’Unità 5.5.10
L’ombra dei Legionari
Come possono crescere sotto uno dei più grandi maniaci del secolo scorso, un delinquente come Maciel Degollado, così tante vocazioni al sacerdozio?
di Filippo Di Giacomo

L a democrazia serve anche alla Chiesa. E come dimostra il recente «Comunicato della Santa Sede» sulla vicenda dei Legionari di Cristo, è una ricetta buona soprattutto per chiarire le pagine più abiette che gli uomini di potere scrivono a danno del popolo di Dio. Dal primo maggio, i sacerdoti e i religiosi che hanno avuto fiducia nel mistificatore messicano Marcial Maciel Degollado, e dei quali «lo zelo sincero» è stato acclarato dalla visita apostolica, vengono riaccolti dentro l’alveo di quella parte del tessuto ecclesiale che regola le vocazioni dei tanti istituti religiosi. Diventano, in pratica, tutti “fondatori” della nuova Legione di Cristo, visto che «la vocazione e quel nucleo di carisma che appartiene ai Legionari di Cristo è loro proprio». Ad ognuno di loro, il Papa affida in modo paritario il compito di «ridefinire il carisma della Congregazione, preservando il nucleo vero, quello della “militia Christi”, che contraddistingue l’azione apostolica e missionaria della Chiesa e che non si identifica con l’efficientismo a qualsiasi costo».
La pratica comunitaria della vita religiosa è una realtà socialmente importante. Storicamente, essa è anche uno dei nuclei fondanti della democrazia moderna, che ha le sue radici nel V secolo, quando i primi ordini religiosi reintroducono (amplificandone la risonanza) nel tessuto sociale della tarda romanità e nei propri meccanismi di autogoverno due grandi principi. Il primo: Qui praefuturus est omnibus, ab omnibus eligatur, colui che deve comandare su tutti deve essere eletto da tutti. L’altro: Quod omnes tangit, ab omnibus tractari et approbari debet, ciò che interessa tutti come singoli, deve essere discusso e approvato da tutti.
Il primo assioma giuridico ci viene dalla Roma repubblicana, ma era rimasto schiacciato dai terremoti istituzionali degli ultimi anni della Repubblica e dalle dittature pretoriane dell’Impero. Il secondo è di origine giustinianea e, come il primo, è rivissuto nella Chiesa, nelle abbazie e nei monasteri, con una risonanza ben maggiore di quella che gli era stata conferita dai giuristi romani.
Gli studiosi francesi vedono qui, e non nei rimandi alle prassi democratiche della Grecia e della Roma antiche, e neanche ai Comuni italiani o agli Stati Generali francesi del 1614 e del 1789, la nascita del suffragio universale e della democrazia moderna. Vincono gli istituti religiosi per i seguenti motivi: non ci sono canali che ci dimostrano la trasmissione delle tecniche elettorali greche e romane nell’Occidente medievale. Gli storici non possono provare l’autonomia dei codici elettorali dei Comuni e neanche quelli del 1614 e del 1789. E poiché la generazione spontanea in politica e in diritto non esiste, la logica impone di ricordare che le prassi elettorali e deliberative dei monaci (e anche delle monache) preesistevano agli Stati moderni. Sono pertanto loro le cinghie di trasmissione degli ideali democratici della classicità nelle forme che, man mano, hanno costruito la modernità europea. Persino George Duby ne è sicuro: la “gemma del secolo dei lumi”, il Codice che regolava le elezioni e le decisioni degli Stati Generali del 1789, era stabilito sulla base delle disposizioni canoniche in uso in quell’epoca. E comunque non è il minore dei paradossi della Rivoluzione Francese il fatto che essa attinga buona parte della sua sorgente ideale nella storia degli Ordini che avevano formato tanti suoi futuri capi: gli studiosi d’Oltralpe la pensano quasi tutti così.
Per questo l’altro compito che il Papa ha affidato hai Legionari di Cristo, cioè «la necessità di rivedere l’esercizio dell’autorità, che deve essere congiunta alla verità, per rispettare la coscienza e svilupparsi alla luce del Vangelo come autentico servizio ecclesiale» avrà fatalmente un forte impatto nelle comunità ecclesiali e sociali dove vivono gli ormai ex discepoli di Marcial Maciel. E sarà anche la migliore risposta alla domanda più difficile che si pone in questi giorni: come possono crescere, all’ombra di uno dei più grandi maniaci-compulsivi del secolo scorso, un delinquente chiamato Marcial Maciel Degollado, così tante vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa?
Per il momento, le vicende dei Legionari di Cristo e del loro sciagurato fondatore sembrano essere venute alla luce soprattutto per rassicurare i dubbiosi, quelli che fanno una fatica estrema nel riconoscere nella bulimia di potere e di privilegi che ha colpito il cattolicesimo (specie quello romano e quello vaticano) degli ultimi decenni come qualcosa di evangelicamente motivato. Anche nella Chiesa il diavolo fa le pentole. Poi, è sufficiente che ad essere Papa sia un cristiano sempre più annoverato tra i miti e gli umili di cuore, per far saltare tutti i coperchi.

Repubblica 5.5.10
Niente preti alla festa la rivolta di Bruges
Lo scandalo pedofilia ha costretto alle dimissioni il vescovo

BRUXELLES - Non si placa, in Belgio, lo scandalo suscitato dal caso del vescovo pedofilo. Roger Vangheluwe, 73 anni, titolare della diocesi di Bruges, si è dimesso il 22 aprile scorso dopo aver riconosciuto di «aver abusato sessualmente» di un minore sia quando era ancora un semplice prete, sia dopo essere stato nominato vescovo, nel 1984. A quanto risulta, la vittima degli abusi sarebbe un suo nipote. Ieri, riferisce il quotidiano fiammingo Het Laatste Nieuws, i responsabili della confraternita del Sacro Sangue di Bruges hanno fatto sapere di non volere la partecipazione di preti, e neppure di chierichetti, alla grande processione che ogni 13 maggio attraversa le vie della città e che è accompagnata da cortei in costume. La decisione, hanno riferito gli organizzatori della celebrazione, è stata presa «per evitare le reazioni negative del pubblico». Persino i chierichetti sono invitati a non farsi vedere. «Abbiamo fatto questa scelta per proteggere i giovani in questione. Abbiamo paura delle reazioni negative del pubblico. I chierichetti non meritano certo un simile trattamento», ha dichiarato Benoit Kervyn, esponente della confraternita. Secondo quanto affermano gli organizzatori, la sollecitazione ad escludere i membri del clero dalla manifestazione sarebbe venuta dallo stesso vescovado di Bruges, che dopo le dimissioni di Vangheluwe è retto pro tempore da un amministratore. Tuttavia in Curia si trincerano dietro un seccato «no comment».

l’Unità 5.5.10
Onfray: un bigotto anti Freud
di Bruno Gravagnuolo

Ma quante sciocchezze scrive il «filosofo» Michel Onfray nel suo ultimo saggio su Freud! Se non fosse che Onfray è ben noto per la sua «specialità» scandalismo pruriginoso e distruttivo si potrebbe parlare di un vero e proprio Malleus maleficarum contro la psicoanalisi, di caccia alle streghe. Ma siamo in tempi di esibizionismo narcisistico e nessuno si scandalizza più di certe scomuniche, specie se vibrate da uno Sgarbi francese come Onfray, tardo epigono dell’antipsicoanalismo transalpino sulla scia del Libro nero della psicoanalisi. Però le bestialità vanno rettificate. Ad esempio ne Il crepuscolo di un idolo. L’affabulazione freudiana (tra poco per Ponte alle Grazie) ci sono affermazioni assurde. Tipo: Freud nascose il suo debito con Nietzsche. È falso. Freud confessò il suo debito, scrivendo che non voleva leggere troppo Nietzsche, per non restarne influenzato! Falso che Freud teorizzasse la rinuncia alla sessualità... per sublimarla nella psicoanalisi. Vero è invece che «sublimazione» significa canalizzazione e investimento (parziale) della sessualità in oggetti d’amore o in creatività. Così come è falso che Freud pensasse che «non si guarisce mai» perché non ci si può sottrarre alle «pulsioni». Non si guarisce se si negano e rimuovono le pulsioni. Falso che Freud appoggiasse i fascismi.Credeva di poter salvare il salvabile agli inizi, e per salvare la psicoanalisi in Italia fa una innocua dedica a Mussolini in Perché la guerra. Grottesca poi l’accusa di aver inventato «l’attenzione intermittente»... per potersi appisolare in seduta. È una cosa che come è noto ha a che fare con l’immedesimazione emotiva col paziente e che richiede un certo fluttuare della mente dell’analista. Folle infine l’accusa di antisemitismo, sol perché il Mosè di Freud non era ebreo ma egiziano. Era solo un’ipotesi. Ma conta in Mosè e il Monoteismo l’esaltazione del Dio ebraico, vera roccia dell’Autorità e della Civiltà per Freud, un gigante che la puerilità bigotta di certe accuse come quelle di Onfray ci fanno apprezzare ancora di più.

l’Unità 5.5.10
La Scala in piazza «Lotta dura per la cultura» Scioperi al Maggio
A Firenze lo sciopero fa saltare 5 spettacoli

Come uno tsunami, il decreto Bondi sulla lirica. Per le «forti tensioni» la Scala annulla la conferenza stampa del 21 maggio sulla stagione 2010-11: l'appuntamento non è solo un rito, serve a dare risalto alle notizie sapendo che, dal Giappone agli Usa, i fan all’esterno prenotano i posti mesi prima. E ieri artisti e tecnici del teatro, in corteo con una bara in spalla, hanno suonato il «Silenzio» con una tromba rossa restando muti, ricevendo applausi, e poi gridato «Lotta dura per la cultura» e «Giù il governo». Sempre ieri a Firenze i lavoratori convocati da Cgil, Cisl, Uil e Cisal, hanno deciso «a malincuore» il blocco del Maggio fino al 14 maggio: stop alle repliche di Donna senz’ombra, a due balletti, all’orchestra di Dresda e al popsinger Rufus Wainwright, alla «prima» del Ratto dal serraglio del 14. Ma l'opera di Mozart avrà prove aperte al pubblico perché la protesta «non è contro il pubblico». «Il decreto non prefigura alcun futuro positivo per le fondazioni, l'opposizione sarà durissima», chiosa Silvano Conti della Cgil.

Repubblica 5.5.10
Se gli intellettuali ebrei criticano Gerusalemme
di Sandro Viola

Non è difficile immaginare quale sarà la risposta delle destre israeliane alla lettera che 3.560 ebrei dei diversi paesi d´Europa, in gran parte intellettuali, hanno presentato al Parlamento europeo contro la politica delle nuove costruzioni nei Territori occupati condotta sinora dal governo Netanyahu.
Non è difficile immaginarla, perché quando le critiche ad Israele erano venute da ebrei, anche se religiosi e praticanti, anche se israeliani con ruoli di spicco nella cultura dello Stato ebraico, la replica era sempre stata la stessa: «Sono ebrei che odiano gli ebrei». Mentre le critiche che giungevano dai non ebrei, venivano sistematicamente, sprezzantemente accusate di antisemitismo.
Ma la lettera dei 3.560 rappresenta comunque un fatto nuovo e significativo, perché rende ancora più visibile, più pesante, l´isolamento in cui si trova oggi Israele. L´estendersi delle costruzioni nella Gerusalemme araba, il "non intervento" del governo rispetto agli insediamenti illegali in Cisgiordania, hanno suscitato una profonda, scoperta insofferenza nei governanti europei, la Merkel e Berlusconi inclusi. Persino l´appoggio degli ebrei americani alla politica delle nuove costruzioni, sino ad oggi costante, si va affievolendo. E questo mentre negli ultimi due mesi il rapporto con gli Stati Uniti, l´incrollabile alleato, il Protettore di Israele, non ha fatto che deteriorarsi. Per la prima volta, infatti, l´America di Barack Obama ha chiarito che i suoi interessi politici e strategici non coincidono più, com´era sempre stato in passato, con gli interessi politici e strategici di Israele. L´ha detto Obama, l´hanno detto i vertici del Pentagono, lo ripetono ogni giorno i grandi giornali americani.
Quel che non era mai accaduto dalla nascita dello Stato ebraico, accade adesso. Nel cemento dell´alleanza America-Israele si sono aperte crepe che non si possono più nascondere, e anzi diventano col trascorrere delle settimane sempre più vistose. Sbaglierebbe, infatti, chi riducesse il contenzioso tra la Casa Bianca e il governo Netanyahu alla sola questione delle nuove costruzioni nella Gerusalemme araba. Questa è la punta dell´iceberg, ma sotto c´è molto di più. C´è la posizione assunta in questi due mesi dal presidente americano. La convinzione che la riluttanza del governo d´Israele a negoziare seriamente sulla formula dei "due Stati", i continui rinvii nell´affrontare i nodi veri della contesa sulla Palestina (dopo ben nove mesi di faticosi tentativi fatti dall´inviato di Obama, George Mitchell), «stanno mettendo a rischio interessi vitali per la sicurezza degli Stati Uniti».
È vero che al momento lo stallo delle trattative tra israeliani e palestinesi sembra superato. Gli americani sono riusciti a fare accettare alle due parti l´idea di procedere per ora con la formula dei "negoziati indiretti". Con George Mitchell e il suo staff che faranno la spola tra gli uni e gli altri per ascoltarne le proposte e poi riferirle alla controparte. Beninteso, Netanyahu continua a dire in pubblico che non fermerà le costruzioni a Gerusalemme Est. Ma questo serve solo ad evitare beghe politiche interne, una possibile crisi della sua coalizione di governo, la più inadatta (con partiti tra l´estrema destra e la destra, e un´ininfluente presenza dei laburisti) a discutere con l´Autorità palestinese. Nei fatti, però, un congelamento delle costruzioni è ormai in atto.
Dunque il cosiddetto "processo di pace" (una definizione sempre più risibile, se si pensa che i negoziati si trascinano da diciannove anni) accenna a ripartire. Ma il suo contesto è cambiato. Gli Stati Uniti non sono più il mediatore sempre parziale, sempre sbilanciato a favore dei governi israeliani. Perché adesso risolvere il conflitto israelo-palestinese è divenuto per l´America di Barack Obama un "imperativo strategico". E la Casa Bianca ha in serbo nuovi e potenti mezzi di pressione. Uno è la possibilità di astenersi, invece che usare il diritto di veto, nel caso d´una condanna d´Israele da parte del Consiglio di sicurezza dell´Onu. Un altro è l´idea di varare un "piano americano" per la soluzione del conflitto israelo-palestinese, che le parti dovrebbero o accettare, o respingere con conseguenze clamorose.
Sembra chiaro che negli ultimi mesi gli israeliani non avessero colto l´ampiezza della svolta americana. Avevano ritenuto che l´Obama di febbraio-marzo, non ancora rafforzato dal successo della riforma sanitaria e dalla firma dello Start 2, avrebbe esitato, segnato il passo, dinanzi all´eventualità d´entrare in collisione col governo Netanyahu. Ma non è stato così. Sostenuto, come s´è detto, dal Pentagono e da una grossa parte dell´opinione pubblica, il presidente è andato avanti: il negoziato con i palestinesi non è più rinviabile, la soluzione dei "due Stati" dovrà essere trovata entro il 2012.
Agli inizi Netanyahu aveva cercato di imbrigliare la pressione di Washington mettendo avanti la minaccia del nucleare iraniano, e i rischi che ne derivano per l´esistenza stessa d´Israele. La questione (che non è certo trascurabile, anzi) ha consumato molte energie dei negoziatori americani, e molto tempo, sinché gli israeliani non hanno dovuta toglierla temporaneamente dal tavolo. Mentre di fronte alle successive manovre diversive di Netanyahu, la posizione di Obama s´è fatta anche più recisa. Con 200.000 uomini tra Iraq e Afghanistan, un fallimento del negoziato israelo-palestinese rischia - secondo la Casa Bianca - di costare all´America «un prezzo enorme di sangue e di risorse economiche». Parole che nessun governante israeliano aveva mai dovuto ascoltare, e che hanno sicuramente avuto un peso decisivo nel varo dei "negoziati indiretti" che dovrebbero cominciare a metà mese.
La lettera dei 3.600 ebrei d´Europa farebbe riflettere qualsiasi governo sulla caduta dell´immagine dello Stato ebraico nell´opinione pubblica mondiale, ma lascerà probabilmente indifferenti i Moshe Feiglin, gli Avigdor Lieberman, gli Eli Yishai, la parte cioè più miope e intransigente del governo di Gerusalemme. Mentre se fossero capaci di ragionare, anche loro dovrebbero cogliere i rischi dell´isolamento d´Israele. Primo fra tutti quello di servire da alibi ad una torva, odiosa - ma vasta, molto vasta - riapparizione dell´antisemitismo.

l’Unità 5.5.10
La papessa e la scrittrice Le donne fanno la storia
Dopo Ipazia. Ancora due pellicole per ritrovare un universo femminile dimenticato
di Gabriella Gallozzi

Stefania Sandrelli debutta nella regia con «Christine, Cristina» nei cinema da venerdì. «La papessa» del tedesco Sonke Wortmann arriverà in sala il prossimo 28 maggio per Medusa. E, intanto, c’è ancora Ipazia...

Eroine dimenticate, nascoste nelle pieghe della storia. O volutamente messe da parte perché «scomode» per i loro tempi e non solo. Il caso di Ipazia, filosofa greca trucidata dai cristiani integralisti nel V secolo, è tornato a riempire le cronache proprio grazie al cinema (Agorà di Amenabar) che, mai come di questi tempi, sembra puntare sulla storia. Tendenza o casualità? Fatto sta che a giorni arriveranno nelle nostre sale ancora due film storici ispirati a due figure di donne che hanno lottato ciascuna a suo modo contro il potere maschile, inserendosi a pieno titolo in quel vasto territorio dell’iconografia protofemminista.
Sono Cristina da Pizzano, poetessa italiana vissuta in Francia a cavallo tra il Medioevo e l’Umanesimo e la Papessa Giovanna, figura questa legata più alla leggenda che alla storia, ma che affronta di petto una questione spinosa della teologia come quella del sacerdozio interdetto alle donne. L’epoca all’incirca è la stessa. Siamo dalle parti del Medioevo. Anni durissimi, soprattutto per l’universo femminile a cui tutto era vietato. Figurarsi la poesia, la scrittura, tanto più se rivolta a denunciare le miserie del popolo così come la concepiva, appunto, Cristina da Pizzano protagonista di Christine, Cristina, piccolo film tutto italiano che segna il debutto nella regia di Stefania Sandrelli.
POESIA RIBELLE
Un’opera, magari non perfetta, ma coraggiosa nel raccontare questa figura esemplare della storia della letteratura, la prima donna a vivere grazie alla sua penna. Nei panni della poetessa è Amanda Sandrelli che seguiamo dal momento più duro della sua vita quando, dalla corte di Carlo V si ritrova sola con due figli, costretta a vivere nella pericolosa Parigi sconvolta dalle lotte tra Armagnacchi e Borgognoni. A questo punto sopravvivere è il suo unico obiettivo. Aiutata da una lavandaia riesce a trovare un riparo per sè e per i figli. E qui conosce Charleton un cantastorie da osteria per il quale comincia a scrivere versi. È una poesia semplice la sua, che parla della vita degli umili, delle donne. E che per questo la porterà in conflitto con la cultura dominante, col potere maschile contro il quale dovrà lottare fino alla fine.
Decisamente più spettacolare e dai toni kolossal è invece La papessa del tedesco Sonke Wortmann, frutto di una coproduzione internazionale che aspira a ricalcare il successo de Il codice da Vinci, puntando su una storia «eretica» come quella della papessa Giovanna.
DOPO IL BESTSELLER
Anche in questo caso c’è dietro un bestseller: La papessa, romanzone storico dell’americana Donna Woolfolk uscito nel 1999 e diventato un vero e proprio caso in Germania. E la storia, del resto, sembra fatta apposta per il cinema. Siamo all’indomani della morte di Carlo Magno e, in un piccolo villaggio alla periferia dell’impero, una ragazzina vivace e dotata lotta contro i pregiudizi del violento padre sacerdote che non vuole in alcun modo farla studiare. Per la Chiesa, si sa, è un’eresia istruire le donne. Ma l’ostinazione di Giovanna avrà la meglio. Travestita da maschio riuscirà a studiare nel monastero di Magonza, fino a prendere i voti col nome di Johannes Anglicus. E da qui fino a Roma dove, fingendo sempre di essere un uomo, arriverà ad essere eletta papa. Un pontificato durato due anni e terminato nel sangue. Sempre secondo la leggenda, Giovanna rimase incinta e una volta messo al mondo il bambino e svelato «l’inganno» fu vittima della folla inferocita. Nel film il finale è un po’« alleggerito», ma tutto il resto è giocato con grande spettacolarità. Anche la travolgente storia d’amore con Gerold, il nobile cavaliere che la accoglie nel suo castello da bambina e che poi la amerà per sempre, anche nei panni da papessa, fino a sacrificare per lei la sua vita. Grandi passioni, grande mistero e cast internazionale: a dare il volto a Giovanna è la tedesca Johanna Wokalek, già interprete della Banda Baader Meinhof, l’amato è il bel tenebroso David Wenham e il papa John Goodman. A dare il volto alla papessa Giovanna è stata già Liv Ullmann nell’omonimo film inglese di Michael Anderson del ‘71, passato però senza troppo scalpore. Quello a cui si punta adesso è una bella polemica col Vaticano in stile Codice da Vinci.

martedì 4 maggio 2010

il Fatto 4.5.10
Pannella, il digiuno degli auguri
di Furio Colombo

Ottant’anni del leader radicale nel silenzio dei media. Come si festeggia un uomo che ha avuto vittorie e sconfitte, obiezioni di coscienza, fame nel mondo, divorzio, immigrati e carceri?

Come si fanno gli auguri a Marco Pannella che il 2 maggio ha compiuto ottant’anni nel silenzio educato della stampa e delle tv italiane, che pure hanno ferrei calendari aggiornati per celebrare (tanto che il più delle volte ti domandi: e questo chi è?) e tante colorate pagine “magazine” che devono essere il tormento dei redattori (e adesso, che è troppo presto per le creme solari e troppo tardi per “il ritorno dei Caraibi” che cosa ci metto?). Come si fanno gli auguri a un uomo che nella vita ha avuto tutto, vittorie e sconfitte, grandi idee e fallimenti, Neue Linke e Tibet, obiezioni di cocienza, fame nel mondo, divorzio, immigrati, carceri, amici che durano tutta la vita, ex amici che si scostano con rispetto, ex ex amici talmente cambiati che sembrano incarnazioni di alieni nei vecchi film di fantascienza?
Un primo modo per questi auguri e questo anniversario è il silenzio, come ci insegnano tanti bravi colleghi. Se eviti come un buon torero l’avvenimento, scansi due pericoli: di dispiacere a lui che, dicono in tanti, si offende facilmente; di dispiacere ai suoi nemici, che sono tanti, anzi non sai mai chi sono e cosa esattamente li irrita del caleidoscopio di Pannella. Li irrita probabilmente quella fabbrica di fatti nuovi che non chiude mai, che continua a disegnare, un po’ febbrile, un po’ allegra, un po’ prepotente, un po’ generosa, un po’ scaltra, un po’ sognatrice, cose non ancora accadute. Li irrita probabilmente la memoria implacabile del dove, del quando, del chi (compresa la ragione, l’ambientazione nel tempo, la data) di certi fatti accaduti e volentieri dimenticati, se non ci fosse sul luogo (il luogo di allora, il luogo di adesso) questo testimone ostinato che ha come carattere o marchio di fabbrica il non venire a patti e il non concedere tregua di memoria neanche a un caro amico.
Certo, un altro modo sarebbe intervistarlo. Come sanno tutti, specialmente in televisione, il rischio è grande. Potrebbe parlarti inaspettatamente di quando stava per riuscire ad evitare la guerra in Iraq. Ingenuo, dicevano. Forse lo è stato perché non aveva calcolato altri aspetti della guerra, lui pensava che senza guerra la gente, soprattutto i civili, non muoiono. E aveva ottenuto dalla Lega Araba il “sì” a portarsi via, senza guerra, Saddam Hussein. Tutto bene e una storia diversa da scrivere, se non ci fosse stato il fido Gheddafi (fido per chi?) a cui è riuscito il colpo di far fallire tutto, un istante prima. Si sa che i distruttivi il più delle volte hanno la meglio. Meno chiara è la ragione, per l’Italia, di forgiare con la Libia di quel Gheddafi un’alleanza di ferro che comprende versamen-
to di ingenti somme, integrazione militare, scambio di segreti in cambio della caccia senza regole agli immigrati. Qui Pannella potrebbe spiegare perché solo i Radicali (quelli eletti nel Pd) e pochi altri del Parlamento italiano si sono opposti al patto con la Libia. Lo vedete anche qui quanto è scomodo occuparsi di Pannella, persino se è il giorno (o il giorno dopo) il suo ottantesimo compleanno. È capace di ricordarvi che per il patto d’acciaio con la Libia ha votato anche quasi tutto il Pd. E che il Pd – se Pannella non disturba troppo – si porterà nella tomba, in un giorno lontano, la ragione di quel sì a Gheddafi, mentre Gheddafi dice (anche oggi, mentre scrivo) che “Israele è un granello di sabbia che il vento del Medio Oriente spazzerà via”.
Ma ci sarebbe l’altro percorso, raccontare Pannella. Si va dai tempi di Altiero Spinelli e del primo sogno d’Europa al tempo di Pannunzio, Ernesto Rossi, e del “Mondo”, la più anomala e creativa opposizione che ci sia stata in Italia fuori dalle grandi chiese. Si va dai diritti umani e civili, una battaglia che spesso viene dichiarata finita con alcune clamorose vittorie (aborto, divorzio, obiezione di coscienza, fame nel mondo) e invece continua e ricomincia adesso, in difesa dei Rom, degli immigrati, dei senza diritti, uno strano territorio che si estende a detenuti e ammalati e alla dignità degli uni e degli altri in ogni momento, anche in fine di vita. Ma raccontare Pannella è troppo lungo, gli eventi e le persone nati con lui sono tanti. E poi c’è il rischio della celebrazione che lui, sarcastico e ingrato, non perdona. Ecco perché molti stanno alla larga. A meno di essergli amici.

l’Unità 4.5.10
Intellettuali e politici hanno firmato la petizione che sarà presentata all’Europarlamento
Critiche alla politica degli insediamenti in Cisgiordania: deve nascere uno Stato palestinese
Appello di 3mila ebrei europei: «Israele, ragiona Basta colonie»
Un atto d’amore per Israele. Un amore vero e per questo anche critico. Tra i firmatari intellettuali e politici di primo piano come Bernard-Henri Levy, Alain Finkielkraut e Daniel Cohn-Bendit.
di Umberto De Giovannangeli

Reazioni contrastanti. La sinistra israeliana lo approva La destra lo rigetta

«Siamo cittadini ebrei di Paesi europei impegnati nella vita politica e sociale dei nostri rispettivi Paesi. Qualunque sia il nostro percorso personale, il legame con Israele è parte costitutiva della nostra identità. Il futuro e la sicurezza di questo Stato al quale siamo molto legati ci preoccupano... Ancora una volta l’esistenza di Israele è in pericolo. Il pericolo non proviene soltanto dalla minaccia di nemici esterni, ma dall’occupazione e dalla continua espansione delle colonie in Cisgiordania e nei quartieri arabi di Gerusalemme Est, un errore morale e politico che alimenta, inoltre, un processo di crescente, intollerabile delegittimazione di Israele in quanto Stato...».
APPELLO COSTRUTTIVO
Un «Appello alla Ragione». Un atto d’amore verso Israele. Ma un amore sincero, e per questo anche critico. Un appello che sarà presentato al Parlamento europeo e illustrato in una conferenza stampa a Bruxelles sottoscritto da oltre tremila ebrei europei, tra cui intellettuali e politici di primo piano come Bernard-Henri Levy, Alain Finkielkraut e Daniel Cohn-Bendit. I promotori di questa iniziativa, denominata JCall, paragonano i loro obiettivi a quelli di JStreet, una lobby ebraica americana pro-Israele di indirizzo liberal. La petizione di JCall ribadisce il diritto di Israele a esistere come «Stato ebraico e democratico», ma critica anche la politica israeliana degli insediamenti in Cisgiordania e sostiene la creazione di uno Stato palestinese indipendente e sovrano, coesistente in pace al fianco di Israele.
«La nostra iniziativa vuole mostrare che all'interno della comunità ebraica c'è un dibattito un dibattito aperto e che non siamo monolitici», spiega al quotidiano Haaretz
David Chemla, uno dei promotori. «Noi ci identifichiamo con Israele e con i suoi diritti, ma samo critici. Questo è salutare siamo ebrei, sionisti e pronti a sollevarci per difendere il diritto all'esistenza di Israele, ma vogliamo mostrare che è giusto identificarsi con Israele e allo stesso tempo criticare alcune sue azioni».
DIALOGO STRATEGICO
Per questa ragione rimarca l’Appello «abbiamo deciso di mobilitarci intorno ai principi seguenti : 1) Il futuro di Israele esige di giungere a un accordo di pace con il popolo palestinese sulla base del principio di “due popoli, due Stati”. Lo sappiamo tutti, l’urgenza incalza. Presto Israele sarà posta di fronte ad un’alternativa disastrosa: o diventare uno Stato dove gli ebrei saranno minoritari nel proprio Paese o mantenere un regime che trasformerebbe Israele in uno Stato paria nella comunità internazionale e in un perenne teatro di guerra civile; 2). È essenziale che l’Unione Europea a fianco degli Stati Uniti eserciti una pressione forte sulle parti in lotta e le aiuti a giungere a una composizione ragionevole e rapida del conflitto. L’Europa in ragione della sua storia ha una grande responsabilità in questa regione del mondo;. 3) Se la decisione ultima appartiene al popolo di Israele, la solidarietà degli ebrei della Diaspora impone di adoperarsi perché questa decisione sia quella giusta. Allinearsi in modo acritico alla politica del governo israeliano è pericoloso perché va contro i veri interessi dello Stato d’Israele. 4) Vogliamo dare vita a un movimento europeo capace di fare intendere a tutti la voce della ragione. Un movimento che si pone al di sopra delle differenze di parte e di ideologia con l’unica ambizione di adoperarsi per la sopravvivenza di Israele come Stato ebraico e democratico, che è strettamente legata alla creazione di uno Stato palestinese sovrano e autosufficiente».
DESTRA SPIAZZATA
Gli «amici» non fanno sconti. Lo chiarisce uno dei firmatari: «Non credo che Netanyahu sia serio quando dice: “Due Stati per i due popoli”. Penso che lui non si fidi dei palestinesi, che voglia garantire la stabilità della sua coalizione di governo», afferma Alain Finkielkraut in una intervista alla radio militare israeliana. Quando il premier israeliano pronuncia quella formula, osserva l’intellettuale francese, «non c’è dietro un contenuto, non c'è un significato reale». Finkielkraut ha aggiunto ancora di aver apposto la propria firma al documento «con grande sofferenza, e nella preoccupazione per il futuro di Israele». L’ «Appello» è stato subito accolto con grande favore da esponenti della sinistra sionista (come gli ex ministri Yossi Sarid e Shlomo Ben-Ami), mentre è stato respinto da esponenti della destra.
«Si tratta di una importante assunzione di responsabilità dice a l’Unità Yossi Sarid da parte di personalità europee che non sono certo tacciabili di essere filo-palestinesi. I firmatari si schierano con le ragioni del dialogo e del compromesso. Concetti che non appartengono al vocabolario politico dei fautori di Eretz Israel».

l’Unità 4.5.10
Intervista a Zeev Sternhell
«Netanyahu ascolti questi veri amici del nostro Stato»
Lo storico israeliano: «Gli oltranzisti sono un pericolo per la nostra esistenza. Rischiamo di diventare un ghetto atomico. La pace con i palestinesi è fondamentale»
di Umberto De Giovannangeli

La dialettica. Giusto contestare le scelte sbagliate del governo israeliano

Una iniziativa di grande valenza politica, culturale, etica. Un movimento di opinione che ha il coraggio di guardare a Israele con un atteggiamento costruttivamente critico». A sostenerlo è uno dei più autorevoli storici israeliani: Zeev Sternhell. Qual è la valenza dell'«Appello alla Ragione »?
«Una valenza importante, sotto vari punti di vista. È importante sul piano politico, perché l'appello è molto chiaro su alcuni punti cruciali...».
Quali?
«Penso alla critica alla colonizzazione in atto nei quartieri arabi a Gerusalemme Est e in Cisgiordania; una politica che svuota di contenuto concreto il principio, che i firmatari dell' appello sostengono, di “due popoli, due Stati”. Ma la forza dell'appello va oltre l'aspetto più propriamente politico. E tocca un nervo scoperto che investe il rapporto stesso tra lo Stato d'Israele e la Diaspora...». Come viene ridefinito questo rapporto?
«In una concezione dialettica fecondamente critica. La Diaspora non è intesa come mera cassa di risonanza di qualsiasi scelta compiuta da coloro che governano Israele. Il rapporto si fa dialettico. E questa è un’acquisizione importante. Si critica Israele per quel che fa e non per quel che è. Si criticano scelte politiche, ritenute sbagliate; quelle scelte, come la colonizzazione, che non solo allontanano un accordo di pace ma che, rileva giustamente l'appello, alimentano la delegittimazione, a livello internazionale, di Israele come Stato. Molti degli intellettuali firmatari dell'appello sono considerati nei loro Paesi degli strenui difensori d'Israele. Ebbene, con questa presa di posizione ridefiniscono cosa sia “difendere” oggi Israele. Una difesa attiva, critica, costruttiva, il contrario di quell'appiattimento acritico che, rimarcano i firmatari, rappresenta un pericolo per Israele».
Qual è l'altro aspetto dell'appello che da storico e scienziato della politica che l'ha più colpita? «L'aver evidenziato con chiarezza che la pace con i palestinesi e la costituzione di uno Stato di Palestina non sono delle concessioni al “nemico”, ma i fondamenti per salvaguardare e rafforzare due pilastri dell'identità nazionale d'Israele: l'identità ebraica e la sua struttura democratica. L'appello lo afferma con grande coraggio intellettuale: se non imbocca questa strada, Israele – cito un passaggio dell' appello “sarà posto di fronte ad un’alternativa disastrosa: o diventare uno Stato dove gli ebrei saranno minoritari nel proprio Paese o mantenere un regime che trasformerebbe Israele in uno Stato paria nella comunità internazionale e in un perenne teatro di guerra civile...”. È la verità. Ed è importante che è ribadirla siano tremila veri “amici d'Israele”».
L'appello lancia un grido d'allarme: Israele è ancora una volta in pericolo, ma esso viene anche dall'interno. «Israele ha il futuro nelle sue mani. Ha la forza per compiere scelte impegnative, deve trovare in sé la volontà, politica e morale, per imboccare la strada giusta: quella della pace. Una pace che non sarà a costo zero, ma senza la quale Israele vedrà erodere le fondamenta della sua identità...Certo, la nostre capacità militari basteranno a preservare la sicurezza del Paese, ma senza una scelta coraggiosa a favore della pace, Israele si vedrebbe trasformato in un ghetto atomico in perenne conflitto con l'esterno...».
La destra oltranzista israeliana non apprezzerà questo appello... «Non me ne meraviglio né mi spavento. Considero gli oltranzisti un pericolo per Israele, per le idee che professano e per come le portano avanti. Costoro sono portatori di una visione fondamentalista di Israele. La loro ostilità è la conferma che l'appello dei Tremila va nella direzione giusta».

l’Unità 4.5.10
Quando si ribellano gli schiavi
A Latina gli indiani scioperano
Per la prima volta in Italia i lavoratori stagioinali immigrati di Latina, quasi tutti indiani, hanno deciso di fare uno sciopero organizzato. Con tutta probabilità sarà effettuato verso la fine del mese.
di Roberto Rossi

Manca solo la data. Ma a questo punto è un accessorio. La notizia è che a Latina ci si prepara a scioperare. Non sarà uno sciopero qualunque. Per la prima volta in piazza andranno i nuovi schiavi dell’agro pontino. Di nazionalità sono indiani, anche se per la maggioranza della popolazione italiana sono dei fantasmi. Degli spettri di carne e ossa che per pochi euro al giorno (dai due ai quattro euro all’ora) mantengono in vita il settore agricolo della zona e permettono alle aziende agricole locali, una buona fetta legate alla Camorra, di fare lauti affari.
Fantasmi, dicevamo. Anche lo Stato spesso li considera tali. Molti non hanno il permesso di soggiorno. Spesso è scaduto o in via di definizione. Alle volte è nelle mani dei loro padroni che ne fanno un’arma di ricatto. Vivono quasi tutti in una sorta di limbo fatto di sudore, sfruttamento e lavoro senza regole.
La Flai Cgil locale ha calcolato che in questa immensa pianura bonificata ai tempi del Duce sono circa 10mila le imprese regolarmente segnate alla Camera di Commercio, ma che in realtà ce ne siano almeno il triplo (e cioè 30mila) in attività. Mentre i lavoratori, nei picchi stagionali, possono arrivare anche a 60 forse 70mila. È impossibile calcolarli tutti. In agricoltura lo sfruttamento della manodopera è quasi la norma. E non solo a Latina. In Italia è stato stimato che il 90% delle ore lavorate nelle regioni del Mezzogiorno siano a nero. La percentuale scende al 50% per le regioni centrali e al 30% al nord. E non importa la nazionalità. Naturalmente i lavoratori migranti sono l’anello più debole di questa catena di sfruttamento. Di questi, secondo il sindacato della Cgil, circa 60mila sono quelli che vivono in condizioni di degrado simili a quelle viste a Rosarno.
PROTESTA
Ora, una fetta di questi ha deciso di farsi sentire. Alzare la voce, per reclamare diritti e una vita dignitosa. Gli indiani sono molto apprezzati nella zona. Lavorano tanto e bene e conoscono poco o niente la lingua italiana. Due condizioni essenziali per lo sfruttamento. Tra le varie comunità, oltre ad essere quella più numerosa, quella indiana (uomini per lo più, provenienti dalla regione del Punjab), è però quella più organizzata. Gli oltre seimila indiani regolari hanno creato le loro chiese, punti di raccolta e di aggregazione. E proprio girando tra le chiese che la Cgil locale ha creato un consenso ampio. Quanto però? Perché proprio la partecipazione a una manifestazione di piazza l’incognita più grande in questi casi. Il sindacato non dà cifre. È sicuro, però, di poter riempire la piazza della Prefettura di Latina. E di poter portare,. quindi, qualche migliaio di lavoratori stagionali a manifestare. E se possibile coinvolgendo non solo la zona di Latina ma tutto il Lazio. E quando si sciopera? La data è ancora in via di definizione. Su quella si sta lavorando. «A breve» dicono fonti sindacali. Più probabile la fine del mese. Ma ancora manca qualche passaggio. Perché non sarà uno sciopero qualunque. Sarà la prima volta che gli schiavi si organizzano.

l’Unità Firenze 4.5.10
Il caso Don Cantini
Abusi, lettera al Papa: il silenzio di Betori e il ruolo di Maniago
Le vittime di don Lelio Cantini scrivono a Benedetto XVI e alla Congregazione per la dottrina della Fede: «Accertate le responsabilità di chi nella curia fiorentina ha coperto per anni l’ex parroco». Fa sempre discutere la riconferma di Maniago a vescovo ausiliario
di Osvaldo Sabato

Il caso non è affatto chiuso. Per loro la vicenda di don Lelio Cantini è più viva che mai, specie di questi tempi con la Chiesa nella bufera per le denunce contro i preti pedofili. A Francesco, Andrea, Mariangela e tutte le altre vittime di don Lelio Cantini non basta la riduzione allo stato laicale dell’ex prete, parroco della parrocchia fiorentina della Regina della Pace, decisa da Benedetto XVI. Prima di mettere una pietra sopra a questa triste vicenda di ordinari abusi sessuali su minori fatti da don Cantini fra il ‘73 e l’87, le vittime vogliono andare fino in fondo e pretendono chiarezza sulle responsabilità di chi nella curia di Firenze ha coperto l’ex parroco.
Per loro sarà giustizia solo quando saranno riconosciute le responsabilità di tutti i protagonisti di questa storia. Ecco perché una decina di giorni fa hanno spedito una lettera al Vaticano, indirizzandola direttamente al Papa Benedetto XVI e alla Congregazione per la Dottrina della Fede. Nelle due cartelle le vittime di don Cantini denunciano come non sia stata ancora fatta piena giustizia sulle coperture della curia per oltre trent’anni. Chi ha subìto le violenze di don Cantini si lamenta con l’attuale arcivescovo di Firenze Giuseppe Betori per il suo silenzio. «Per noi il caso non è chiuso, se non si fa chiarezza su tutto, per noi è ancora aperto» spiega Francesco.
Nel mirino c’è sempre il vescovo ausiliario Claudio Maniago, confermato anche da Betori nel suo incarico di vicario della curia, che di don Cantini fu figlioccio spirituale. Fu proprio a lui che nel 2004 si rivolsero le vittime di don Cantini per denunciare gli abusi sessuali consumati in parte nella canonica della parrocchia. Maniago fece finta di non sentire, anzi invitò le vittime a dimenticare. «Vogliamo che sia accertato il suo ruolo, quello della perpetua Rosanna Saveri, vogliamo sapere perché chi aveva saputo non aveva fatto poi niente» afferma Francesco. Anche l’ex arcivescovo di Firenze Silvano Piovanelli viene accusato per aver sottovalutato il caso quando era a capo della Curia.
«Non c’è mai stata la volontà di indagare seriamente su quanto succedeva in quella parrocchia» denuncia Francesco. «Don Cantini è stato messo a tacere, hanno punito solo lui» rilancia Mariangela, che in questa storia ci ha messo anche la faccia andando in televisione per raccontare quando don Cantini le chiedeva di spogliarsi dicendole di pensare alla Madonna.
Ora il Papa invita i vescovi a denunciare i preti pedofili alla magistratura. «Ma quando quattro anni fa era venuta fuori la nostra vicenda la Chiesa ci invitata a stare zitti» ribadisce Mariangela. Ora viene chiesto alle alte sfere del Vaticano di fare ulteriori indagini «vogliamo chiarezza piena sulle responsabilità di tutti quelli che potevano fare, ma non lo hanno fatto» dice Francesco, antici-
pando all’Unità alcuni passaggi della lettera spedita al Papa e alla Congregazione per la Dottrina della Fede. «Inoltre siamo perplessi per la riconferma di Maniago al suo incarico, decisa da Betori, come se niente fosse» aggiunge Francesco. A distanza di anni, infatti, ci sono ancora molti dettagli da capire. Intanto la linea della Curia resta sempre quella dell’attesa. Anche l’attuale parroco della Regina della Pace, don Paolo Milloschi, fa finta di niente tanto da invitare lo stesso Maniago ad inaugurare, prima di Pasqua, la settimana francescana proprio nella parrocchia dove si sono consumati gli abusi di don Cantini.
Nel frattempo le vittime dell’ex parroco della Regina della Pace, vogliono mettere di fronte alle loro responsabilità i piani alti della curia. «Vogliamo essere messi a confronto con con chi ha coperto don Cantini» insiste Francesco. «Da quando è arrivato Betori ci ha ignorato, mai un segnale di vicinanza» ricordano le vittime. «Non ci è mai venuto a cercare, per lui il caso è chiuso, ha avuto la condanna di don Cantini prima del suo arrivo a Firenze e ai preti che gli hanno chiesto un gesto lui ha sempre ritenuto chiuso l’argomento» conclude Francesco.

Repubblica Firenze 4.5.10
Una nuova lettera al Vaticano dopo il diverso atteggiamento sulla pedofilia Don Cantini, le vittime al Papa "Perché Maniago vicario?"
di Maria Cristina Carratù

Perché la pulizia che la Chiesa sta facendo al suo interno ha risparmiato Firenze? Lo chiedono le vittime degli abusi di don Lelio Cantini - l´ex parroco fiorentino della Regina della pace ridotto allo stato laicale da Benedetto XVI nell´ottobre 2008 - che hanno inviato una lettera al Papa in cui chiedono perché l´arcivescovo Giuseppe Betori non abbia mai sentito il bisogno di incontrarle, mentre ha confermato vicario generale il vescovo ausiliare Claudio Maniago, il primo che ha saputo degli abusi, e che ha cercato di mettere tutto a tacere?
Don Cantini, le vittime si appellano al Papa Sperano nel nuovo corso della Chiesa: "Perché ha confermato Maniago vicario?" Tornano a scrivere al Vaticano perché vogliono che tutte le responsabilità vengano alla luce Perché la pulizia che la Chiesa sta facendo al suo interno ha risparmiato Firenze? Perché, dall´Irlanda all´America, i vescovi che hanno coperto preti pedofili sono stati costretti a lasciare i loro incarichi, e qui, dove è ancora aperta la ferita degli abusi di don Lelio Cantini, i vertici della Diocesi considerano chiuso un caso che in realtà non lo è affatto? E perché l´arcivescovo Giuseppe Betori non ha mai sentito il bisogno di incontrare le vittime, mentre ha confermato vicario generale il vescovo ausiliare Claudio Maniago, il primo che ha saputo degli abusi, e che ha cercato di mettere tutto a tacere? Sono le domande contenute in una lettera che le vittime dell´ex parroco della Regina della pace, ridotto allo stato laicale da Benedetto XVI nell´ottobre 2008, hanno appena inviato al Papa, al prefetto della Congregazione per la dottrina della fede William Jospeh Levada e al promotore di giustizia della congregazione Charles Scicluna, confortati dal nuovo corso che la Santa Sede sembra aver imboccato in materia di preti pedofili.
Le vittime sono convinte che la sola condanna di don Cantini non basti, e che "un capro espiatorio" rischi di far passare sotto silenzio "responsabilità oggettive" che "devono invece ugualmente venire alla luce e ottenere la giusta condanna". Secondo loro, infatti, di fronte agli abusi e al "dominio delle coscienze" messi in atto dal prete e da Rosanna Saveri, la veggente che stava al suo fianco, "una intera Chiesa" avrebbe "taciuto, sottovalutato, non voluto vedere". Mentre alla parrocchia della Regina della pace si formava una "chiesa parallela" destinata a "prendere sempre più campo" all´interno di quella locale, scrivono, tramite "l´occupazione di ruoli strategici" nella Diocesi. Primo fra tutti quello ricoperto da Maniago, pupillo di don Cantini. Il che spiegherebbe, a parere delle vittime, il tentativo messo in atto dal vescovo ausiliare (ex compagno di parrocchia, cui, nell´ottobre del 2004, si erano rivolte, con fiducia, per denunciare i fatti), di "ostacolare con ogni mezzo la nostra richiesta di verità", "tacendo" con l´allora arcivescovo Ennio Antonelli e "invitandoci più volte al silenzio". I memoriali con le denunce arrivarono infatti ad Antonelli soltanto l´anno dopo tramite l´ex arcivescovo Piovanelli. Anche in seguito, tuttavia, e finché, nel 2007, il caso non è esploso sui giornali, secondo le vittime "la nostra Chiesa ha cercato di farci tacere attraverso intimidazioni e minacce". Né l´arrivo di Betori sembra aver cambiato il clima: "Mai in questi due anni", sottolineano, il nuovo vescovo "ha sentito l´esigenza di incontrarci". Mentre ha "confermato Maniago vicario generale". Il tutto, quando "in altri paesi del mondo vescovi e vicari che avevano avuto gli stessi comportamenti sono stati giustamente allontanati". Le vittime chiedono quindi al Papa "che siano definitivamente appurate tutte le responsabilità".

il Fatto 4.5.10
Bertone assolve il prete pedofilo
Il segretario di Stato: “La Chiesa non deve nascondere i suoi peccati”. Poi difende chi lo fa
di Andrea Gagliarducci

“Le risposte che padre Maciel dà durante l’intervista sono profonde e semplici e hanno la franchezza di chi vive la sua missione nel mondo e nella Chiesa con lo sguardo e con il cuore fissi in Cristo Gesù”. Lo scrive il cardinal Tarcisio Bertone, nella prefazione al libro intervista su Marcial Maciel, fondatore dei Legionari di Cristo, uomo dalla doppia vita (almeno due donne e un figlio riconosciuto, senza contare gli abusi). Il titolo: “La mia vita è Cristo” (Edizioni Art). La versione italiana, quella con la prefazione di Bertone, è del 2004. L’originale in spagnolo viene edito nel
2003.
L’INDAGINE. Il 2003 segna un momento difficile per i Legionari di Cristo: le accuse contro il loro fondatore Marcial Maciel Degollado stanno per portare ad una indagine della Congregazione per la Dottrina della Fede (Cdf). La prima dopo quella degli anni Cinquanta, alla quale Maciel scampò con fortuna e furbizia. Un’indagine che si preannuncia senza sconti: da anni, Joseph Ratzinger, prefetto della Cdf, ha sul tavolo il dossier inviato da otto ex Legionari, capeggiati da José Barba-Matin, che hanno anche pubblicato le loro denunce sull’Hartford Courant, un quotidiano del Connecticut (Stati Uniti), nel 1997. L’indagine, però, non decolla, pare che le resistenze interne siano molte, si appurerà poi (come testimonia l’ultima inchiesta del National Catholic Reporter) che Maciel ha costruito intorno a sé una rete di protezioni importanti, formata con il denaro e basata sul ricatto reciproco, che parte dal Messico e arriva su, fino alle alte sfere vaticane. Ma nel 2002, Barba-Matìn va a Ginevra, al Comitato per le Nazioni Unite per l’Infanzia e la Gioventù, e si prepara per la denuncia della Santa Sede all’Onu, se questa si rifiuta ancora di processare padre Maciel.
L’INTERVISTA. È nel periodo tra quest’ultima mossa e l’avvio dell’indagine della Chiesa che Marcial Maciel gioca le sue ultime carte. E concede una lunga intervista, che diventerà un libro, a Jesùs Colina, fondatore dell’agenzia Zenit e più tardi di H20, agenzia ufficiosa del Pontificio Consiglio per le Comunicazioni Sociali. Colina è vicino allo “spirito” della Congregazione, un interlocutore privilegiato per Maciel. La versione italiana del libro, nel 2004, ottiene appunto la prefazione di Tarcisio Bertone, allora arcivescovo di Genova, ma prima ancora segretario di Joseph Ratzinger all’ex Sant’Uffizio. Molto probabile che il cardinale conoscesse le accuse che venivano formulate contro Maciel. Dunque, qual è il motivo che spinge il cardinale a scrivere la prefazione ad un libro che potrebbe preannunciarsi scomodo?
OBBEDIRE. A scorrere le pagine del libro, si trovano risposte sul clima che c’era all’interno della Congregazione. Si legge, ad esempio, un passaggio sul tema della maturità affettiva del sacerdote. “Non si può essere ingenui permettendo che i seminaristi si abbandonino ad esperienze affettive incontrollate come se queste non lasciassero segni nella psicologia e nell’emotività dell’uomo, specialmente
del giovane”. E ancora Maciel critica certi seminari post-conciliari che permettono ai seminaristi di avere una vita sociale e vedere ragazze “come qualsiasi altro giovane”. Spiega Maciel (che invece di donne ne vedeva, oltre ad abusare di alcuni seminaristi): “Avvenne che quelli che erano normali si innamorarono di quelle ragazze e si sposarono con loro abbandonando il cammino del sacerdozio. Credo che sia una vera ingiustizia nei confronti di un giovane chiamato da Dio a seguirlo nella vita sacerdotale o religiosa. Grazie a Dio molte di queste deviazioni sono già state corrette”. Maciel crea un ordine fondato sul culto della personalità (la sua) e sull’obbedienza cieca. I Legionari fanno voto di carità e di umiltà, oltre a quelli canonici di pover-
tà, castità e obbedienza,equestobasta per poter fiaccare anche le ultime resistenze psicologiche di ogni Legionario.
LE CALUNNIE.
Ma la vera chicca è la domanda sulle “calunnie” e sugli attacchi subiti. “Non ho voluto perdere un solo minuto della mia vita per difendermi dalle offese, dalle accuse, dalle calunnie, perché ho voluto e voglio sempre usare il breve tempo che Dio mi concede per portare avanti fino all’ultimo minuto il piano di Dio sulla mia vita”. Sono parole che bruciano, alla luce del comunicato della Santa Sede del 1 maggio, stilato al termine dell’incontro tra i visitatori apostolici (cinque vescovi) e Bertone, Rodé, Levada (segretario di Stato, prefetto della Congregazione per gli Istituti Religiosi, prefetto dell’ex Sant’Uffizio). Parole che suscitano moltissimi interrogativi. E’ possibile che Maciel fosse così furbo e gli altri fossero così ingenui da farsi ingannare sulla sua doppia vita? Davvero Maciel “comprava” il consenso, e sviava abilmente commissari ed ispettori delle viste apostoliche? Del resto le prime ispezioni arrivarono subito. Ma allora si pensò ad una offensiva dei massoni messicani, o perlomeno così vennero presentate le accuse. Poi i Legionari diventarono una Congregazione forte e ricca di vocazioni, con una spiritualità conservatrice e con la vivacità della gente messicana. Per anni i Legionari hanno costruito università, scuole e seminari, e accumulato ricchezza. Ma anche molto prestigio: Maciel era al seguito di Giovanni Paolo II durante il viaggio in Messico del 1990. Ci sono, è certo, quelli che hanno creduto nella spiritualità della Congregazione. Ma molti, ai vertici, sapevano. Ora la Congregazione verrà rifondata, già si pensa a un commissario straordinario. Come dice il Vangelo, è tempo che il ventilabro separi la pula dal grano.

Repubblica 4.5.10
La religione e la democrazia
di Paolo Flores D’Arcais

Joaquìn Navarro-Valls ha pubblicamente confessato il programma di "teocrazia debole" che la Chiesa gerarchica di Karol Wojtyla prima, e quella di Joseph Ratzinger oggi, stanno tenacemente perseguendo. Con esiti fin qui fallimentari nel mondo, ma di peculiare successo nella "eccezione" Italia. Non meraviglia perciò che l´articolo dell´ex portavoce di Giovanni Paolo II, ancora oggi autorevolissimo nell´esprimere umori e "desiderata" della Chiesa vaticana, prenda le mosse proprio dall´apologia del "caso italiano", osannato perché «è veramente considerevole il ruolo assunto dalla religione» nel dibattito (e soprattutto nella realtà del potere, ma su questo Navarro-Valls sorvola), per cui «l´enorme complessità e originalità di questo Paese» (cioè le macerie morali e materiali a cui l´ha ridotto il berlusconismo) «costituisce una ricchezza stimolante che altrove manca del tutto».
All´ex portavoce di Wojtyla l´Italia appare dunque il luogo provvidenziale in cui sperimentare l´obiettivo che il cattolicesimo gerarchico ha scelto come stella polare: «Una democrazia deve riconoscere il valore di verità, naturale e generale, della religiosità umana, considerandolo un diritto comune, indispensabile cioè per il bene di tutti». Papale papale.
Con questa logica, però, l´ateo, lo scettico, il miscredente, insomma il cittadino che non si riconosca in alcuna "religiosità umana", verrebbe irrimediabilmente colpito da ostracismo, e declassato a cittadino di serie B. Il suo ateismo, infatti, non solo non troverebbe posto in questo discriminatorio "diritto comune", ma verrebbe implicitamente tacciato di essere contrario al "bene di tutti". Tanto perché non ci siano equivoci, infatti, Navarro-Valls aggiunge che «non è possibile, in effetti, escludere il valore politico e solidale della religione senza estromettere, al contempo, anche la giustizia dalle leggi dello Stato».
E perché mai? Veramente Thomas Jefferson, eminente padre della democrazia americana - paese sempre citato come eden di libertà fondata su una religiosità onnipervasiva - , garantiva l´opposto: «Il manto della protezione [costituzionale] copre il giudeo e il gentile, il cristiano e il maomettano, l´indù e il miscredente di ogni genere» proprio perché la Costituzione «ha eretto un muro di separazione tra Chiesa e Stato».
Wojtyla e Ratzinger hanno invece sistematicamente gettato l´anatema su ogni versione di «libera Chiesa in libero Stato». Una legge che prescinda dalla religione avrebbe niente meno che «estromesso la giustizia», riassume con precisione Navarro-Valls, renderebbe illegittima la democrazia trasformandola in un vaso di iniquità. È esattamente quanto sostenne Papa Wojtyla di fronte al primo parlamento polacco democraticamente eletto, se la maggioranza parlamentare avesse promulgato una legge sull´aborto difforme dal diktat della morale vaticana. In perfetta sintonia papale la conclusione di Navarro-Valls: «La consapevolezza democratica di base» deve riconoscere che «la religione è un valore umano fondamentale e inevitabile, il quale deve essere valorizzato e garantito legalmente nella sua rilevanza pubblica» (sottolineatura mia). Con l´aggiunta finale di un criptico ma inquietante «a prescindere dal resto».
E invece no, dal "resto" non si può affatto prescindere. Perché il "resto" è che la democrazia si fonda sull´autos nomos di tutti i cittadini, singolarmente e collettivamente presi. Nella democrazia sono i cittadini che «si danno da sé la legge». E nessun altro prima o sopra di loro. Se i cittadini non potessero decidere la legge liberamente, ma obbedire a una legge già data (dall´Alto, dall´Altro), non sarebbero sovrani, «per la contraddizion che nol consente», secondo un padre Dante molto tomistico e che quindi dovrebbe andar bene anche a Navarro-Valls.
Che la giustizia secondo il dettame della religione diventi tassativa e vincolante per la democrazia significa espropriare il cittadino della sovranità e riconsegnarla a Dio. Tecnicamente si chiama alienazione: alienare i famosi diritti inalienabili. Alienazione che coincide con l´annientamento stesso della democrazia. Insomma e senza perifrasi: la sovranità di Dio è incompatibile con la sovranità dell´uomo, in cui consiste la democrazia. Dovrebbe essere una ovvietà, da oltre un paio di secoli. Ma nell´italica «ricchezza stimolante che altrove manca del tutto» tutto è invece permesso.
E sia. Quale Dio, però? Il Dio cristiano dei valdesi - compassionevole - riconosce ai suoi figli il diritto all´eutanasia, quello di Ratzinger - gelido - lo nega, quello di Küng (cristiano cattolico come Ratzinger) di nuovo lo consente, il Dio dei "Testimoni di Geova" proibisce ogni trasfusione di sangue anche a costo della vita, il Dio di altri (sempre lo stesso, perché l´Uno) esige invece mutilazioni sessuali per le bambine. E si potrebbe continuare. Quale di queste incompatibili verità dovrà assumere lo Stato nella sua legge, per ottemperare alla pretesa di Navarro-Valls di «concepire la religione come un valore assoluto»? Senza dimenticare che a pretendere che sia fatta la volontà di Dio, anziché quella democratica dei cittadini, c´è poi sempre in agguato un "Gott mit uns" che battezzerà di giustizia religiosa ogni terrena efferatezza.
Naturalmente, in una democrazia liberale i cittadini non possono stabilire per legge "qualsiasi cosa", neppure con maggioranze plebiscitarie. Ma il limite all´esercizio della loro autonomia è la loro autonomia stessa, non un´eteronoma volontà di Dio (magari agghindata da "legge naturale"). Che è poi la volontà di chi pretende di conoscere la volontà di Dio e parlare in suo nome (in psichiatria si chiama delirio di onnipotenza). Non si possono, a maggioranza, violare i diritti individuali sulla vita, la libertà, eccetera, di ciascuno, perché del ciascuno si distruggerebbe o amputerebbe la sovranità, dunque l´autonomia.
Dio e la religione, come si vede, non c´entrano un bel nulla. L´anti-relativismo della democrazia sta tutto e solo nel comune riconoscimento - interiorizzato come ethos repubblicano - delle inalienabili libertà di ciascuno (fino a che non violano identica libertà altrui: dalla vignetta blasfema all´eutanasia, esattamente come non si proibisce la superstizione della Sindone o la sofferenza terminale volontaria). "Religiosità" civile, se si vuole. Che la "teocrazia debole" di Ratzinger e Navarro-Valls pretende invece di sovvertire.

MicroMega nelle edicole
Perchè la Chiesa non punisce i preti pedofili
di Michele Martelli

Ultima notizia giornalistica dal fronte dei preti pedofili: papa Wojtyla autorizzò nel settembre 2001 il cardinale Castrillon Hoyos (prefetto della Congregazione per il Clero dal 1996 al 2006) a inviare all’episcopato di tutto il mondo una lettera di elogio e congratulazioni a monsignor Pierre Pican, vescovo francese di Bayeux, per «non aver denunciato un prete all'amministrazione civile» e «aver preferito la prigione piuttosto che denunciare il suo figlio-prete», rispettando la natura «sacramentale, non professionale della relazione tra i preti e i loro vescovi». Il figlio-prete era don René Bissey, condannato nel 1998 a 18 anni di carcere dalla magistratura francese per aver commesso negli anni Ottanta e Novanta violenze e abusi sessuali a danno di una decina di ragazzi (il testimone reticente vescovo Pican, che nel processo tenne un contegno distaccato e altezzoso, ebbe soltanto tre mesi con la condizionale).
Nell’episodio ci sono a mio parere tutti gli ingredienti che spiegano perché
la Chiesa normalmente non punisce i preti pedofili. Esaminiamoli brevemente.

1) Potere gerarchico - sacramentale del clero*. Tra i sette sacramenti della Chiesa, il sesto è quello dell’«Ordine sacro» o «sacerdozio ministeriale o gerarchico». Come spiega il Catechismo, «la parola *ordo*, Ordine, nell’antichità romana designava soprattutto il corpo di coloro che governano» (n. 1537). L’Ordine sacro è quello che, munito di «*sacra potestas*, sacra potestà», governa la Chiesa dei fedeli, ed è distinto nei tre gradi gerarchici dei vescovi, presbiteri e diaconi. Al vertice della gerarchia c’è il Sommo Pontefice. Ancora più importante è la supposizione che i sacerdoti e i fedeli «differiscano essenzialmente e non solo di grado» (n. 1547). I primi «sono posti in nome di Cristo a pascere la Chiesa colla parola e la grazia di Dio» (Costituzione conciliare *Lumen gentium*, 1964, nn. 10-11). Dunque, se la differenza è la stessa che corre tra i pastori e il gregge, *si tratterebbe di una differenza non funzionale, ma ontologica*. Il clero sacerdotale sarebbe per investitura divina quasi un’altra specie. E perciò senza obblighi verso i comuni mortali, soprattutto se teneri adolescenti. Comunque una sacra, mistica corporazione, da separare e difendere dall’esterno.

2) Superiorità della giurisdizione canonica su quella civile*. Rientra nella questione dei rapporti tra Stato e Chiesa. La Chiesa, in quanto parte della società civile, è sottoposta alla legge dello Stato, alla magistratura, e quindi al Codice civile e penale. In quanto *societas perfecta*, è sottoposta invece alla legge di Dio, alla gerarchia, e quindi al Codice di Diritto Canonico. Dove al papa, in quanto *Christi Vicarius*, si riconosce non solo la «potestà ordinaria, suprema, piena, immediata e universale» (n. 331), ma anche quella di «*iudex supremus*, giudice supremo in tutto l’orbe cattolico», che «*a nemini iudicatur*, da nessuno può essere giudicato» (nn. 1404, 1442). Quando il diritto canonico confligge col diritto civile, prevale il diritto canonico. Che, per i *delicta graviora*, come la pedofilia, prevede l’ammonizione, il trasferimento, l’isolamento, la penitenza e la preghiera, la sospensione *a divinis*, fino alla riduzione allo stato laicale. Dunque, non la denuncia alla magistratura civile. Nelle ultime “Linee guide sugli abusi sessuali” pubblicate in questi giorni dalla Santa Sede, c’è un rigo con un generico accenno all’obbligo di «seguire la legge civile allorché preveda la denuncia dei crimini alle appropriate autorità» (chi deve denunciare chi? E se la legge civile di un paese non prevede tale denuncia, bisogna continuare a coprire il reato?). A parte questa pur apprezzabile novità, tutto il documento è dedicato alle procedure interne, tratte dal diritto canonico, relative alla serie di indagini ed eventuali misure disciplinari da adottare in casi di pedofilia, sotto la giurisdizione del Congregazione per la Dottrina della Fede e *in primis* del Sommo Pontefice. Nessun accenno al *secretum pontificium*, invocato nella famosa direttiva del 2001 dell’ex prefetto Ratzinger sulla pedofilia. Dunque, il segreto rimane in vigore, perché non c’è un giudice superiore al pontefice. E il prete pedofilo è tutt’al più un peccatore, un problema interno alla Chiesa. Non l’autore di odiosi crimini da denunciare all’autorità giudiziaria dello Stato.

3) Rifiuto dei diritti umani*. La dottrina morale della Chiesa ha al suo centro la dignità della persona umana. Tuttavia, la Chiesa *[[[ proprio come tutti i paesi islamici - nota di Marcus Prometheus ]]]* non ha mai sottoscritto le dichiarazioni dei diritti umani, politici, sociali e civili, da quella francese del 1789 a quella dell’ONU del 1948 a quella dell’UE del 2000, né le Convenzioni internazionali sulla parità uomo-donna, sulla protezione dell’infanzia ecc. (chi vuole approfondire il punto, può leggere il libro del teologo spagnolo José Maria Castillo, *La Chiesa e i diritti umani*, 2009). Nel Codice di Diritto canonico (1983) e nel Catechismo (2003) manca persino l’espressione «diritti umani o civili». Si può preservare la dignità della persona umana senza rispetto e garanzie concrete, politico-giuridiche, per l’esercizio o la protezione dei diritti di libertà, uguaglianza, sicurezza, integrità personale, autodeterminazione e così via? Un uomo senza diritti non è un uomo. La retorica moralistica della Chiesa gerarchica si palesa e infrange nella pratica del *segreto pontificio* che garantisce immunità e impunità ai preti pedofili, omo- o etero-sessuali che siano. Ma questo Bertone, nella foga di calpestare i diritti umani e civili degli omosessuali, non lo sa ancora. Chi glielo dice?
*(19 aprile 2010)*

il Fatto 4.5.10
Roberto Saviano e la libertà della parola
di Enrico Magni

Meraviglia, sgomento, ridicolo, fastidio, giubilo e altro ancora sollecitano le affermazioni o considerazioni che, il rappresentante più importante del maggior partito di questo Paese, ha espresso nei confronti del libro “Gomorra” di Roberto Saviano. Non è la prima volta che questo succede, si pensi a Pasolini, a Silone, a Sciascia, a Sandro Penna o a Peppino Impastato, Giancarlo Siani, Rostagno, De Mauro e tanti altri operatori della parola che sono stati azzittiti per aver sfidato silenzi, congiure, cosche, malefatte dei potenti di turno. La letteratura, l’arte in genere sono state, in passato, veicolo d’idee, prese di posizioni, scontri culturali e politici. Alcuni scrittori, artisti finivano in esilio, altri emarginati, alcuni al rogo, altri uccisi. Oggi, nell’epoca ipermoderna, del pensiero liquido, della società pulviscolare, eterea, la letteratura, assolutamente non tutta, ma abbondante, come oggetto evasivo, antistress, d’intrattenimento, intimista, minimalista diventa pericolosa se esce dal solco imposto. Non perché narra le cose, così come sono, ma perché altera il racconto ipermediatico di chi controlla la scenografia della società. Il giovane scrittore Roberto Saviano con il suo narrato, contamina una moltitudine di persone, occupa uno spazio importante, sollecita riflessioni e cozza contro l’omologazione del fare, del pensare dominante. La letteratura quando sollecita domande, riflessioni disturba inequivocabilmente i poteri controllati dalla politica, dalle organizzazioni criminose e non. Ciò che spaventa è il consenso che questo tipo di materiale narrativo ottiene mettendo a nudo re, fante, duca, regina.
È importante, è ora che intellettuali o soggetti pensanti indipendenti da qualsiasi forma di dipendenza escano dalle proprie dimore per promuovere concetti, analisi, idee con lo scopo di uscire da questa fase di stagnazione culturale dominata da tante forme di carosello mediatico, politico e sociale. C’è la tendenza a risucchiare, mettere ai margini, tenere ai lati chi cerca di esprimere un’opinione che diverge dalla moda, dal costume prevalente. Sì, è vero, ha ragione Saviano, un certo tipo di parola, stranamente infastidisce, disturba crea disequilibrio. È una cosa strana la parola, può giocare brutti scherzi, può scalfire il cerone del castello, sollecitare fantasie, può sollecitare pensieri che tracimano il letto del fiume e irrigare terreni fertili. La parola è un dono che va salvaguardato e accudito. La parola vola come gli aquiloni di Kabul e illumina le ceneri che coprono terre abitate da rumori disumani. Grazie Saviano per ricordarci che bisogna guardare il cielo stellato sopra di noi e i cunicoli del Belpaese.

Repubblica 4.5.10
La nazione oscurata
di Guido Crainz

Non va sottovalutato il valore simbolico e politico delle affermazioni del ministro della Repubblica Roberto Calderoli. Non va sottovalutato il segnale che danno al Paese, proprio perché quel segnale viene dalla forza di governo che appare di gran lunga la più compatta, e sempre più determinante all´interno della coalizione.
Certo, anche nelle celebrazioni del 1911 e del 1961 non erano mancati momenti polemici, alimentati dalle forze intellettuali e politiche che si sentivano in qualche modo ai margini del processo (repubblicani, socialisti e cattolici, nel 1911).
O non si riconoscevano per intero nell´orizzonte culturale che improntava le celebrazioni (e che risentiva ampiamente, nel 1961, dell´egemonia politica della Democrazia Cristiana). Erano momenti di riflessione - talora anche segnali di delusione, come già nel 1911 - che dialogavano con un´impostazione "forte" e prevalente delle celebrazioni e dell´identità: non ne mettevano in discussione le fondamenta né la svilivano. Erano, insomma, posizioni nobili. Avevano a che fare con un´idea alta di nazione, facevano parte a pieno titolo di quel confronto culturale di cui le identità si nutrono.
Non è così oggi, e le parole del ministro Calderoli - nel loro non eccelso profilo culturale - appaiono realmente contundenti proprio per questo: proprio perché non si infrangono contro un solido e condiviso muro ideale ma rivelano ancor di più, semmai, la fragilità crescente - pericolosamente crescente - delle barriere che sono state erette. La vicenda stessa delle celebrazioni ufficiali, del resto, ha mostrato più del dovuto quella fragilità. Ha illuminato anch´essa il dramma di un paese che sembra impaurito dal futuro e infastidito dal passato.
La riflessione deve muoversi allora su due versanti. Deve riguardare le dinamiche politiche che queste e altre sortite leghiste possono innestare (poco importa se contraddette o "interpretate" da altre forze del governo), ma anche - e soprattutto - lo "stato della nazione". Sul primo versante appare in tutta la sua pericolosità il rinsaldato connubio fra l´offensiva leghista - che i risultati elettorali avevano inevitabilmente preannunciato - e una egemonia del premier che da tempo mette sempre più apertamente in discussione i tratti costituzionali essenziali della Repubblica (anche per questo, forse, l´intervento del cardinale Angelo Bagnasco assume un valore particolare e in qualche modo impegnativo anche rispetto al riemergere di umori anti-risorgimentali che nel mondo cattolico non sono mancati).
La pericolosità del connubio fra Berlusconi e Bossi è aumentata a dismisura proprio dallo "stato della nazione", e il confronto con il 1911 e il 1961 è purtroppo illuminante. Nel 1911 il paese era attraversato sì da contraddizioni sociali e da tensioni anche forti ma si era ormai avviato all´industralizzazione e a forme democratiche meno incompiute: in quello stesso anno, ad esempio, il governo annunciava la riforma elettorale che avrebbe portato di lì a poco al suffragio universale maschile. Si pensi anche al centenario dell´unità nazionale, nel 1961: era celebrato nel pieno del "miracolo economico", e le euforie del boom nascondevano semmai le contraddizioni pur esistenti, sia nel presente che nel passato.
Oggi, invece, vengono al pettine tutti i nodi di una crisi della Repubblica che aveva avuto la sua incubazione negli anni ottanta e il suo primo esplodere all´inizio del decennio successivo. Superati i momenti più drammatici di quel trauma il paese scelse - nella sua grande maggioranza - di non fare i conti con quei nodi. E quindi di aggravarli. Nel 1993 un bel libro di Gian Enrico Rusconi aveva come titolo Se cessiamo di essere una nazione. C´è da chiedersi se in un prossimo futuro non dovremo ricorrere a un titolo ancor più pessimistico.

Repubblica 4.5.10
La mente delle persone di mezza età non si atrofizza: un nuovo studio mostra come aumentino le capacità
Più giudizio e sintesi il cervello cresce anche a 50 anni
Si sviluppano alcune abilità: cresce la proprietà di linguaggio
di Elena Doni

Anche i vecchi lupi imparano nuovi trucchi. Ci pensa la scienza a contraddire il proverbio anglosassone: arrivare alla mezza età non vuol dire solo dimenticare dove è parcheggiata l´auto, perdere la capacità di imparare cose nuove e affezionarsi alla routine. Tra i 40 e i 60 anni il cervello vede forse declinare rapidità di calcolo e memoria a breve termine, ma vive la sua stagione migliore per quanto riguarda capacità cognitive, di ragionamento e socievolezza.
"Sono così felice di non essere più giovane" è, non a caso, uno dei capitoli del libro di Barbara Strauch - corrispondente del New York Times per salute e medicina - dedicato al cervello di mezza età. The secret life of the grown-up brain: the surprising talents of the middle-aged mind è il titolo del volume. Forse non sbaglia chi pensa male: negli Usa ogni giorno 10mila persone compiono 50 anni e saranno ben felici di trovare in libreria un titolo così incoraggiante (soprattutto se dimenticano regolarmente dove parcheggiano l´auto). Ma la neurologia conferma da tempo che il cervello degli adulti ha alcune marce in più rispetto a quello degli adolescenti. E la "plaster theory" - la teoria secondo cui il tempo "ingesserebbe" i neuroni in maniera inesorabile - è stata definitivamente relegata tra i ferrivecchi della scienza.
Tra i 40 e i 60 anni, scrive Barbara Strauch, "si ottengono risultati migliori nei test relativi a ragionamento induttivo, proprietà di linguaggio e capacità cognitive in genere". Le decisioni - in particolar modo quelle finanziarie e quelle che riguardano il futuro - sono più oculate. Le capacità di sintesi si acutizzano, così come quelle di inquadrare le nozioni in categorie, di cogliere gli aspetti rilevanti di un ragionamento e di interpretare le emozioni altrui. Al netto delle vicende della vita, l´umore diventa più stabile e tende al sereno con ottimismo.
Di contro, con il passare del tempo cala la quantità di neutrotrasmettitori, le comunicazioni fra i neuroni rallentano, occorre più tempo per memorizzare nuove nozioni, ci si distrae più facilmente e si diventa meno efficienti nel multitasking. Che il cervello adulto sia tutt´altro che ingessato, però, lo confermò in modo eclatante nel 2000 uno studio sui tassisti londinesi dell´University College. Anche i più maturi, a forza di imparare svincoli e nomi di strade, mostrarono alla risonanza magnetica un ippocampo (l´area che sovrintende fra l´altro alla memoria spaziale) molto più sviluppato del normale.
Una ricerca dell´università della California a Los Angeles nel 2008 ha dimostrato che lo strato di mielina che riveste le connessioni fra i neuroni, rendendo più rapida la conduttività elettrica e quindi la trasmissione dei movimenti, raggiunge il picco a 40 anni per poi declinare. La settimana scorsa, sulla rivista Neurobiology in aging, l´università di Washington a Saint Louis ha dimostrato poi come la perdita dei neuroni causata dall´età sia più rapida nelle persone con una personalità nevrotica e minima in quelle che primeggiano per coscienziosità.
In media, nella corteccia cerebrale che rappresenta la parte più evoluta e "nobile" del cervello, ciascuno di noi perde un neurone al secondo, consumando goccia a goccia un patrimonio iniziale di circa 100 miliardi di cellule. Anche se nulla potrà mai eguagliare il ritmo di crescita della vita fetale (250mila nuovi neuroni ogni minuto), si è dimostrato che anche il cervello adulto continua e crescere e rinnovarsi. Sia pure a ritmo blando, anche nell´organo del pensiero le cellule staminali svolgono il loro lavoro di rimpiazzare una parte dei neuroni perduti e restituire plasticità alle connessioni fra le cellule, bilanciando per quanto possibile la riduzione di peso del cervello e l´ampliarsi dei solchi al suo interno.

lunedì 3 maggio 2010

l’Unità 3.5.10
Gli indignati nel Paese estraneo
di Francesco Piccolo

La sinistra italiana dà l’impressione di essere ormai la parte più reazionaria del paese. In pratica, ha cominciato a fare resistenza al malcostume, alla degenerazione, e pian piano questa è diventata la sua caratteristica principale, che è tracimata anche sul costume, su ogni forma di cambiamento, di accadimento. Ha trasformato il “resistere, resistere, resistere” in una tignosa resistenza a tutto. Che è diventata senso di estraneità. Dà l’impressione, al resto del paese, di giudicarlo male qualsiasi cosa provi a fare; di essere scandalizzata, a volte inorridita.
Alla sinistra italiana, nella sostanza, non piacciono gli altri italiani. Non li ama. Sente di essere un’oasi abitata dai migliori, nel mezzo di un paese estraneo. Di conseguenza sente di non avere nessuna responsabilità. Se l’essere umano di sinistra sentisse una correità, non penserebbe di voler andare a vivere in un altro paese, più degno di averlo come cittadino.
Però, a quel paese che non le piace, che non può amare, del quale non sente di far parte, e che osserva inorridita ed estranea, che mette in soggezione di continuo e al quale ricorda che se potesse non ci conviverebbe mai, la sinistra italiana a ogni elezione, è costretta a chiedere il voto. Vuole, cioè, che quella parte di paese che disprezza, si affidi alle sue cure. Ciò che puntualmente non avviene.
E poiché non avviene, la sinistra italiana si indigna di più, si estranea di più e ritiene di essere ancor meno responsabile di questo paese di cui non sente di far parte.

l’Unità 3.5.10
Intervista a Oliviero Diliberto
«Bersani ha ragione, ripartiamo dai contenuti così rinasce il centrosinistra»

Apprezzo molto il fatto che Bersani riparta dai contenuti e si rivolga, poi, a tutte le opposizioni. – spiega il leader del Pdci, Oliviero Diliberto Deve essere chiaro, però, il discrimine rispetto alle contraddizioni interne all’attuale maggioranza”. Nessun dialogo con Fini, quindi? “Pensare di cooptare il Presidente della Camera in uno schieramento di centrosinistra allargato è sbagliato, perché Fini è uomo di destra, e controproducente perché indebolisce la sua battaglia” Lei ha apprezzato la risposta di Bersani ad una lettrice de l’Unità. E’ l’eguaglianza, quindi, il tema dal quale ripartire?
“Bersani propone una vasta coalizione democratica alternativa al centrodestra a partire dai contenuti. Ecco, la battaglia per l’eguaglianza deve diventare fondativa per l’unità delle forze che si riconoscono nella Costituzione. Oggi viene messa in discussione l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge. La crisi economica, d’altra parte, colpisce milioni di famiglie ed esalta gli speculatori. C’è una sproporzione tra chi percepisce redditi altissimi, e non denuncia quasi nulla, e i lavoratori dipendenti che, paradossalmente, denunciano redditi più alti di quelli dei datori di lavoro”.
La crisi ripropone un’altra centralità: il lavoro “L’Istat fotografa 400000 posti in meno in un solo anno. Serve un massiccio intervento pubblico nell’economia, lo stesso che oggi si pratica perfino negli Usa. L’altra faccia della medaglia riguarda la formazione. Valorizzare l’intelligenza dei nostri ragazzi è il futuro dell’Italia. In Francia Sarkozy mobilita risorse enormi. Da noi si fa il contrario, la destra sta umiliando le strutture formative a tutti i livelli”
Unità delle opposizioni, quindi. Anche a sinistra del Pd, però, si registrano divisioni molto nette.... “Le divisioni causano sconfitte. Io credo che sia necessario ricostruire un’unità a cerchi concentrici. Il primo livello riguarda l’unione di tutte le forze democratiche che si riconoscono nella Costituzione”. Unità anche con l’Udc di Casini? “Se Casini si riconosce in quei valori per me va benissimo. Dopodiché dentro questa coalizione ampia bisogna ricostruire la sinistra, mantenendo ciascuno la propria specificità.
Io, ad esempio, sono comunista e non vedo perché mi si debba chiedere di smettere di esserlo, visto che la crisi economica mondiale mi sta dando ragione. Mettiamo da parte le divisioni per guardare avanti”. Apertura di credito al Pd di Bersani, quindi? “L’errore storico dell’autosufficienza del Pd del 2008 non può ripetersi, perché ha consegnato a Berlusconi la più ampia maggioranza che abbia mai avuto. Io e la Federazione della sinistra siamo pronti. Incontriamoci nelle lotte, nelle piazze, nei luoghi di lavoro, nelle scuole. Possiamo tornare a vincere”.

l’Unità 3.5.10
Contro il decreto Bondi
L’orchestra di Santa Cecilia suona gratis per protesta

«È una bellissima idea informarci così di quello che succede», esclama un’abbonata nel foyer dell’auditorium di Roma mentre ascolta l’orchestra di Santa Cecilia che. gratuitamente, esegue la Settima di Beethoven. E conclude: «Siamo con la nostra orchestra, con la nostra storia». È il modo per rispondere al ministro Bondi che ha definito irresponsabili i musicisti che hanno indetto lo sciopero contro il suo decreto, che commissaria di fatto le più grandi istituzioni musicali come Scala, Maggio o San Carlo. Il pubblico è numeroso. «Accogliere e informare correttamente la gente: facciamo l’opposto di quanto dice il ministro», spiega il violoncellista Francesco Storino. E anche oggi e domani l’orchestra suonerà gratuitamente dalle 16 in poi. «Eravamo venuti per uno spettacolo per bambini, è bello che abbiano fatto questo», dice un padre di famiglia. Applausi e urla di approvazione per ogni pezzo: «Da vecchio orchestrale spiega Gregorio Mazzarese dico che quando scioperavamo in passato la gente si lamentava, stavolta sono tutti con noi». La protesta ha già un simbolo, un fiocchetto giallo: vuol dire portatore sano di cultura. E tutta l’Accademia si è unita alla protesta, l’orchestra giovanile e infantile ha suonato con la sinfonica, c’erano funzionari e dirigenti, il presidente Bruno Cagli al pubblico ha detto: «Siamo qui per la nostra dignità, l’eccellenza la decreta il pubblico». L.D.F.

Repubblica 3.5.10
Commissariata la congregazione religiosa dopo la ispezione ordinata da Benedetto XVI. La replica: obbediamo
Legionari, ecco la sentenza del Vaticano "Padre Maciel un uomo senza scrupoli"
La nota della Santa Sede: atti immorali e gravissimi La decisione è inappellabile

TORINO - Commissariati e sottoposti alla nomina di un delegato papale dotato di pieni poteri. Il pugno di Ratzinger, che tenero nei loro confronti non era mai stato anche quando dirigeva il Sant´Uffizio, si è abbattuto sui Legionari di Cristo. Travolti, ha detto Benedetto XVI in una nota diramata il primo maggio, dai comportamenti «gravissimi e obiettivamente immorali» del loro fondatore, lo scomparso Marcial Maciel Degollado, accusato di aver compiuto «veri delitti» e condotto «una vita priva di scrupoli». Un criminale, dunque, secondo il giudizio del Vaticano.
Inebetiti dalle parole inequivocabili del Papa, e da una condanna durissima capace adesso di portare alla rifondazione del movimento, i Legionari non hanno opposto obiezioni. Hanno espresso gratitudine al Pontefice per «la paterna sollecitudine nei confronti della Congregazione», dicendosi pronti ad accogliere le sue indicazioni «con obbedienza».
Quello dei Legionari è il secondo commissariamento in epoca moderna deciso da un Papa verso un gruppo religioso. Nel 1981 il Vaticano applicò lo stesso provvedimento con i gesuiti, dopo gli sbandamenti riscontrati nel periodo della teologia della liberazione. Allora Wojtyla indicò padre Paolo Dezza - un gesuita - come suo delegato. Questa volta sembra però esclusa la scelta di un legionario. Alcune indiscrezioni convergono sul nome del cardinale portoghese Josè Saraiva Martins, prefetto emerito della Congregazione delle Cause dei santi.
È terminata così la lunga ispezione del Vaticano sul potente ordine religioso nato in Messico a metà del secolo scorso, composto da migliaia di sacerdoti, con oltre cento case madri e decine di università. Con il documento papale la Santa Sede ha infine annunciato le decisioni del Pontefice, la cui scelta finale era molto attesa, una volta finite le visite dei cinque ispettori incaricati.
I presuli - l´arcivescovo di Valladolid, Ricardo Blazquez Perez, quello di Denver, Charles Joseph Chaput, di Concepcion, Ricardo Ezzati Andrello, di Alessandria, Giuseppe Versaldi, di Tepic, Ricardo Watty Urquidi - hanno svolto il loro compito con grande cura. Hanno ascoltato personalmente più di 1.000 Legionari, vagliato centinaia di testimonianze scritte, visitato quasi tutte le case religiose dirette dalla Congregazione, annotato il giudizio di molti vescovi diocesani dei Paesi in cui il gruppo opera, ricevuto corrispondenza da parte di laici aderenti al movimento. Hanno poi stilato singolarmente i loro rapporti e, pur nelle differenze di approccio, sono giunti, spiega la nota, «a una valutazione ampiamente convergente e ad un giudizio condiviso». Venerdì scorso si sono riuniti con il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, e alcuni capi dicastero della Curia romana.
La decisione del Papa, giunta sabato, è inappellabile. Maciel aveva avuto di nascosto figli in almeno due Paesi diversi, da donne diverse, ed era accusato di stupro e violenza. Joseph Ratzinger, da prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, l´ex Sant´Uffizio, aveva inutilmente tentato di processarlo. Di recente alcuni media americani hanno accusato Papa Wojtyla di aver coperto lo spregiudicato prelato messicano, e l´ex segretario di Stato, Angelo Sodano, di averlo sostenuto. Maciel si è sempre proclamato innocente, fino a quando morì, negli Stati Uniti, nel 2008.
(m. ans.)

Repubblica 3.5.10
Lavoro, diritti e democrazia
di Nadia Urbinati

Gli antichi consideravano la democrazia il governo dei poveri. Esiste democrazia, si legge nella Politica di Aristotele, quando il potere supremo dello stato è nelle mani della moltitudine che è fatta di poveri, sempre più numerosi dei ricchi, i quali vogliono governi oligarchici. Ma per noi moderni la democrazia è governo di tutti perché governo di una società di individui che si prendono cura direttamente di se stessi, non vivendo né sulle spalle di famiglie aristocratiche né su quelle degli schiavi. I moderni hanno adattato la democrazia alla società di mercato, la quale ha bisogno di una moltitudine non di poveri ma di consumatori, di gente cioè né troppo ricca né troppo povera; essi hanno promosso una trasformazione fondamentale dalla quale si deve far cominciare la storia della cittadinanza democratica: la fine del lavoro servo e schiavo. Per questa ragione, tutte le democrazie moderne sono fondate sul lavoro, anche quelle che non lo scrivono nella loro costituzione.
Lavoro, eguaglianza politica e di rispetto, libertà individuale sono intimamente connessi. E alla loro base vi è l´idea che l´individuo sia il bene primario, una persona intraprendente e attiva che vede nel lavoro non soltanto un mezzo per soddisfare bisogni materiali primari, ma anche per esprimere i propri talenti e le proprie capacità. Dignità della persona e lavoro dignitoso hanno dato vita a un connubio etico sul quale le democrazie moderne si sono consolidate.
Non è che questa associazione tra lavoro ed eguaglianza politica abbia eliminato le ingiustizie o liberato il lavoro dal peso della necessità. Essa ha tuttavia contribuito a considerare la fatica del vivere come una condizione che può essere umanizzata, benché mai vinta. Avere diritti politici ha contribuito a fare del lavoro una condizione sociale soggetta a regole e a responsabilità mutue e condivise. Il secondo Novecento è stato il secolo che ha dimostrato concretamente gli effetti umanizzanti della democrazia nel mondo del lavoro. Gli scienziati politici che si occupano dei processi di democratizzazione sono generosi di dati che dimostrano il miglioramento socio-economico e culturale che la trasformazione democratica porta con sé: migliori condizioni lavorative, diritto all´assistenza e contributi previdenziali, servizi sociali alle famiglie e scuole pubbliche decenti. Verrebbe da concludere che, se questo è vero per le società di recente democratizzazione (come per esempio molti stati dell´America Latina), ancora di più lo sarà per quelle con una democrazia consolidata.
Ma il paradigma democrazia-benessere non pare davvero così granitico, e quel che può valere per le società di recente democratizzazione sembra non reggere bene nelle nostre società. Dove due fenomeni si sono manifestati negli ultimi anni: la diminuzione del lavoro associato ai diritti e la crescita della povertà. Per esempio, come le cifre ci dicono quasi ogni giorno e il nostro Presidente della Repubblica ci ricorda regolarmente, gli incidenti sul lavoro sono ormai fatti ordinari. È ragionevole dire che un lavoro dissociato dalle garanzie di sicurezza è lo specchio di una società nella quale il lavoro non è più pensato in termini di diritti, ma è tornato ad essere sacrificio e pura fatica semplicemente. E inoltre, un lavoro dissociato da alcune basilari certezze, un lavoro messo nella cornice del rischio anziché in quella dell´opportunità e della possibilità è un lavoro che cambia di identità e da condizione associata a diritti e dignità passa ad essere luogo di diseguaglianze sociali crescenti e di paura della povertà. In tutti i casi, ad essere messa a repentaglio è proprio la relazione tra lavoro e indipendenza, la condizione appunto della cittadinanza democratica. Questo è il segno della crisi sociale e culturale delle democrazie consolidate.
È sulla povertà che occorre riflettere (non per legalizzarla con la social card, come ha fatto il governo italiano in uno dei suoi primi provvedimenti), e in modo particolare sulla relazione tra un lavoro sempre più povero di diritti e il rischio sempre meno aleatorio di povertà. Il presente insicuro del lavoratore a contratto a tempo determinato è una porta aperta alla sua povertà futura. Un lavoro senza diritti è come un passaporto all´indigenza. Ma non è che il presente sia meno a rischio. Non soltanto perché c´è un´oggettiva diminuzione di opportunità di impiego, ma anche perché si è consolidata nel frattempo la pratica di accettare lavori senza diritti; questo rende i lavoratori naturalmente più vulnerabili e deboli ma anche più disposti a barattare la loro libertà e sicurezza in cambio di pochi soldi in più. E la propensione a dissociare lavoro e diritti induce ad associare il lavoro con una fatica qualunque, in cambio di denaro. E questo è a un tempo segno e premonizione della paura più grande, che è la povertà.
La povertà genera vergogna, fa vergognare. Non è solo segno di nuda necessità. In una società dove il consumo e la pubblicità sono il paradigma quotidiano di rappresentazione di sé e delle relazioni con gli altri, non riuscire a possedere determinati oggetti rende esposti al riconoscimento da parte degli altri come esseri falliti, persone da emarginare. La povertà è uno stigma, peggiore di qualsiasi lavoro misero e mal pagato, peggiore di un lavoro senza diritti. E´ comprensibile che sia così poiché in una società che si regge sulla condizione dell´eguaglianza, non avere un´eguale considerazione (non importa in relazione a che cosa) genera i più intollerabili sentimenti: l´umiliazione e il risentimento. Sentimenti intollerabili perché mentre non cambiano in meglio la condizione di chi li subisce, impediscono la crescita di altri sentimenti senza i quali una società democratica rischia l´interna disgregazione: l´empatia e la solidarietà. È per questa ragione che l´associazione del lavoro al diritto non solo non può essere considerata come un optional del quale si può fare a meno, ma è a tutti gli effetti un fattore di stabilità democratica.