venerdì 7 maggio 2010

l’Unità 7.4.10
Quei figli traditi dai padri mancati
Pedofilia Grazie a Dio tutto il mondo se ne sta occupando. Ma chi sono veramente gli uomini che molestano e abusano dei bambini? Adulti sessualmente immaturi che in modo perverso veicolano nel sesso il loro potere
di Vittorio Lingiardi
Ordinario di Psicopatologia a Roma

Psichiatria. Tra pedofilia e omosessualità non c’è alcun legame
Il genere conta poco. La seduzione è data dal controllo su un oggetto fiducioso
Lo psicoanalista Ferenczi. Un’estrema confusione tra i linguaggi di tenerezza e passione
Il trauma. Ogni volta che succede vuole dire che qualcuno ha chiuso gli occhi

Grazie a Dio tutto il mondo si sta occupando dei casi di molestie e abuso perpretrati da preti cattolici su bambini e adolescenti bisognosi e fiduciosi. Il tema, già difficilissimo per gli addetti ai lavori, ha sollevato dichiarazioni false, grossolane, crudeli o semplicemente strategiche. Con buona pace del Cardinale Bertone, tra pedofilia e omosessualità (laica o talare che sia) noi psichiatri non vediamo alcun legame (come dovremmo
chiamare chi abusa di bambine o ragazze?). La stessa definizione di pedofilia formulata dall’International Classification of Diseases («preferenza sessuale per soggetti in età prepuberale o puberale iniziale. Alcuni pedofili sono attrati solo dalle ragazze, altri solo dai ragazzi ed altri ancora da entrambi i sessi») verrebbe a cadere. In alcuni casi, inoltre, il genere della vittima conta poco, essendo il potere e il controllo su un oggetto fiducioso, più che le sue caratterstiche sessuali, a stimolare la seduzione, l’eccitazione e la predatorietà. Qualunque psicologo, psichiatra o assistente sociale, peraltro, sa che gli abusi sui minori avvengono per lo più all’interno della famiglia da parte di maschi adulti eterosessuali.
Per Hans Kung una delle principali cause del proliferare di condotte pedofile nella Chiesa va ricercata nel celibato. Non credo. Direi piuttosto che la personalità pedofila può trovare nella posizione ecclesiastica, e di conseguenza nel celibato, un habitat che consente un'identità sociale slegata da un’opzione sessuale esplicita e la possibilità di stare in intimità psichica e fisica con un pubblico giovane in attesa di educazione. Quell’educazione che un grumo di fiducia e tradimento può trasformare nella mala educación di cui, con intuito ed esperienza, ci ha raccontato Almodóvar. Agli occhi dell’adolescente sedotto, il sacerdote incarna l’autorevolezza e l’autorità del Padre. Il prete pedofilo (che spesso a sua volta ha una storia di abuso) è contemporaneamente l’adulto sessualmente immaturo che si proietta e identifica predatoriamente nel bambino o adolescente da sedurre, e l’adulto che sessualizza in modo perverso il potere insito nella sua funzione pedagogica e genitoriale. Il titolo di un saggio del 1932 dello psicoanalista ungherese Sandor Ferenczi aiuta a capire più di molti discorsi: Confusione delle lingue tra adulti e bambini. Il linguaggio della tenerezza e il linguaggio della passione. Sarebbe dunque più appropriato ragionare di «padri mancanti e figli traditi», all’interno di un tipo di relazione in cui l’adulto sfrutta a fini sessuali, spesso senza averne coscienza, il potere conferitogli dal suo status. La dinamica si protegge dall’interno e dall’esterno per mezzo di negazioni («non dire a nessuno cosa stiamo facendo», «questo è il nostro segreto») e razionalizzazioni («gli/le sto donando un’esperienza d’amore speciale»).
Chi conosce le dinamiche e gli effetti di un abuso sessuale subito nell’infanzia sa che la possibilità di condividerlo in un racconto fiducioso (e qui si gioca un grande passo della terapia) è uno degli elementi che possono aiutare l’elaborazione di un fatto di per sé inelaborabile. Dunque, almeno simbolicamente, il recente impegno all’ascolto preso da Ratzinger a Malta è un fatto, se non terapeutico, quantomeno in grado di promuovere sollievo psichico in alcune vittime. Ma chi è esperto di questa materia sa anche che i casi di vittimizzazione sessuale di un minore implicano quasi sempre tre posizioni soggettive tipiche: la vittima/ superstite, il perpetratore e lo spettatore silenzioso, che sa o percepisce che qualcosa non va, ma rimane in silenzio. Per dirla con la Frawley-O’Dea, una dei massimi esperti di trauma, «ogni volta che un minore subisce un abuso sessuale, vuol dire che qualcuno ha chiuso gli occhi». Dopo averli chiusi per anni, la Chiesa, travolta da uno scandalo senza precedenti, oggi è costretta ad aprirli. All’impegno preso dal Papa di «consegnare i responsabili alla giustizia», si affiancano manovre di attacco che dispiacciono. Vengono attaccati i media perché «ostili alla fede». Ma come si può condannare gli abusi e al tempo stesso stigmatizzare il sistema informativo che li ha rivelati al mondo? Vengono attaccati gli omosessuali, e in particolare i preti omosessuali. Ma che senso ha accanirsi, contro ogni evidenza scientifica, su soggetti incolpevoli, vulnerabili e già marginalizzati?
Non si tratta, come dice anche Mauro Pesce nella bella introduzione al volume Atti impuri. La piaga dell’abuso sessuale nella chiesa cattolica (Cortina, 2009), di essere cattolici o anticattolici, ma di analizzare in profondità un problema senza passare né per silenzi omertosi e terrificati, né per scorciatoie scandalistiche. Di studiare le radici di un fenomeno che non ha mai un singolo aspetto, ma che, nel triangolo «vittima-abusatore-spettatore silenzioso», raduna elementi storici, dottrinali e psicologici. Jung diceva che «qualsiasi realtà interiore che non viene portata alla coscienza, si manifesta all’esterno sotto forma di fato». Basterebbero le parole del Vangelo: «Guardatevi dal lievito dei farisei, che è l’ipocrisia. Non c’è nulla di nascosto che non sarà svelato, né di segreto che non sarà conosciuto. Pertanto ciò che avrete detto nelle tenebre, sarà udito in piena luce; e ciò che avrete detto all’orecchio nelle stanze più interne, sarà annunziato sui tetti».

il Fatto 7.5.10
Pedofilia, la colpa e il reato

Alcuni psicoanalisti hanno argomentato che anche un paziente in analisi è “minorenne” di fronte al terapeuta Se vi è un abuso, difficilmente potrà denunciarlo subito: è ambivalente come l’abusato bambino
di Luigi Zoja
psicoanalista junghiano e saggista

L a maggior parte dei crimini ha una delimitazione netta. Qualcuno ha preso un oggetto di nascosto? È un furto. Alcuni, però, hanno un confine variabile. È il caso dell’abuso sessuale, che varia col grado di consenso, col potere delle persone coinvolte e la loro età. Di più. Se anche un oggetto è stato rubato 20 o 30 anni fa, sia il proprietario sia il ladro sapevano che si trattava di un furto. La convinzione che un rapporto sessuale sia stato atto libero o abuso varia invece con la vita dell’abusato. Un bambino desidera sia abbracci sia dolciumi. Può lasciarsi sedurre. Crescendo, potrà capire due cose. Innanzitutto quell’adulto, che dava a lui cibo e affetto, in realtà prendeva per sé. Secondariamente, quel rapporto era molto asimmetrico: più che di amore, fatto di potere. Ancora più ovvia è la variabilità storica dell’abuso. La definizione di furto cambia poco nei millenni. Invece, fino alla seconda metà del secolo XIX in certi paesi esisteva la schiavitù: il rapporto sessuale del padrone con una schiava – oggi un abuso – era uso. Lo schiavo, infatti, era proprietà. Le differenze non finiscono qui. Per non essere abuso, un rapporto sessuale deve anche tener conto della mentalità prevalente: e quella verso i reati sessuali è molto cambiata nell’ultimo mezzo secolo.
I religiosi e i bambini
Gli abusi commessi da religiosi, di cui oggi si discute, sono prevalentemente omosessuali e su minorenni. Negli Stati Uniti l’omosessualità era definita malattia mentale fino al 1973. Oggi è sempre meno rilevante che le attività sessuali siano omo o eterosessuali, se avvengono fra adulti consenzienti. Viceversa, si presta molta attenzione all’età: oggi gli studi psicoanalitici dicono che costringere i minori ad attività sessuali è traumatico. La loro gravità si dimostra da sola, col tempo. È un vero contagio psichico: se scaviamo nel passato di un abusatore, quasi sempre scopriamo che egli è stato a sua volta abusato nell’infanzia. Questo ha conseguenze paradossali. Da un lato è una seria attenuante per il colpevole, che in origine è stato vittima non responsabile. Dall’altro, richiede una particolare severità perché il male può perpetuarsi attraverso le generazioni, come una maledizione nella tragedia greca. In ogni caso, oggi si considera che grave sia la violenza psichica compiuta su una mente impreparata, non il tipo di sessualità in sé (in altre parole: il delitto è compiuto contro una persona, non contro il “buon costume”).
Il caso Polanski
Consideriamo un esempio noto. Nel 1977, il regista Polanski comparve di fronte a un tribunale di Los Angeles per reati sessuali su una minore. All’inizio del 1978 fuggì in Francia. Oltre 30 anni dopo è stato fermato dalle autorità svizzere su mandato di cattura americano. Malgrado gli Stati Uniti siano tradizionalmente severi, nel processo del 1978 si era quasi raggiunto un accordo senza pene detentive: l’imputato accettava l’accusa di stupro, ma le altre venivano cancellate (tra cui quella di sodomia, che allora in America era un grave reato punibile in sé, indipendentemente da consenso ed età dei coinvolti). Persino la madre della ragazza sapeva dove lei si trovava quella sera, e si era offerta di venirla a prendere. È come se nel ‘78 la pedofilia fosse ancora tollerata, similmente all’antica Grecia, ma molto fosse poi cambiato in tre decenni. Oggi la posizione dell’imputato è molto più grave. Non solo scappando si è trasformato in un ricercato: oggi l’età della ragazza (13 anni) e il fatto che Polanski le avesse dato psicofarmaci ed alcool sono valutati molto più severamente che negli anni ‘70.
Gli aspetti sfuggenti
Ma gli abusi sessuali che riguardano oggi la Chiesa cattolica hanno anche un altro aspetto sfuggente. Quello che per la legge è un reato, interessa invece la Chiesa come colpa. Naturalmente, nel moderno Stato laico la Chiesa dovrebbe essere solo una delle tante istituzioni, tenuta a rispettare le leggi come tutti. Ma i criteri morali hanno la tendenza a rimanere per secoli immobili nell’inconscio collettivo: finché non giungono cataclismi di cui è inevitabile prendere atto e che sconvolgono la coscienza della società. È solo in parte vero che la Chiesa non ha voluto accorgersi degli abusi: piuttosto, ha seguitato a trattarli come colpe morali. E mentre la soluzione di un reato si ha con la condanna giuridica, quella della colpa si ha con il perdono. Anche da una prospettiva psicoanalitica le connessioni dei fatti nel tempo hanno rilievo per valutare le responsabilità. Nella vicenda di Polanski si dovrebbe considerare che egli, bambino ebreo, era sopravvissuto da vagabondo nella Polonia occupata dai nazisti. Nella sua biografia, il regista non specifica con quali espedienti: ma la vita stessa di un piccolo, solo in quelle circostanze, non era già violenza e abuso? Vittima da
bambino, l’adulto famoso si è trasformato nel carnefice di una bambina. Oggi, comunque, non è irrilevante che questa, divenuta maggiorenne, lo ha perdonato, chiedendo che le accuse vengano lasciate cadere. Torniamo alla Chiesa. Proprio nel perdono essa è stata manchevole. Ha concesso assoluzioni direttamente al suo interno. (In casi anche clamorosi, come quello di Padre Maciel – fondatore dei potenti Legionari di Cristo – ha invece castigato: la sostanza autocratica, però, non cambia). Sarebbe invece prioritario coinvolgere le vittime nella riconciliazione. In un mondo che dà ormai per scontati i diritti individuali laici, si sono così formate associazioni di vittime furenti. Queste non chiedono solo punizioni: vogliono che la Chiesa renda conto anche fuori delle sue strutture.
L’abuso nelle terapie
La storia della psicanalisi avrebbe qui qualcosa da insegnare. Nelle prime generazioni, diverse terapie si sono risolte in forme di abuso (gli analisti eran prevalentemente uomini e le pazienti donne). Come la Chiesa, le società analitiche hanno cercato di affrontare questi problemi con procedure interne. Come nella Chiesa, questa modalità ha due aspetti: da un lato, ha permesso che la estrema delicatezza delle rispettive materie (l’educazione religiosa e il processo psicanalitico) non venisse affidata a un apparato giuridico impersonale e impreparato. Dall’altro, sia gli analisti sia il clero hanno certamente seguito questa pista anche per proteggersi dallo scandalo pubblico. Si sono studiate forme di riconciliazione, di indennizzo e si sono messi in discussione i tempi di prescrizione. In qualunque campo, infatti, esistono dei tempi limite per chiedere la punizione di un crimine. Per l’abuso su minori i tempi sono più lunghi: bisogna attendere la loro maggiore età. Per un bambino abusato a dieci anni, solo dai suoi 18 anni si cominciano a contare gli anni per la prescrizione. Alcuni psicoanalisti hanno argomentato che anche un paziente in analisi è, per diversi aspetti, “minorenne” di fronte all’analista. Se vi è un abuso, difficilmente potrà denunciarlo subito: è ambivalente come l’abusato bambino. Spesso cercherà, con fatica, un altro analista, tentando di nuovo il percorso psicologico. Solo al suo compimento, tornato in ogni senso “maggiorenne”, potrà decidere se denunciare il trasgressore. Le vittime dei religiosi sono spesso doppiamente “minorenni”: lo sono per età, ma sono anche persone educate a non metter in discussione l’autorità del clero. Oggi sembra che anche la Chiesa stia finalmente pensando a una graduale riconciliazione con le vittime, simile a quella necessaria per gli abusi psicoterapeutici. Lo suggerisce (Süddeutsche Zeitung 23/4/10) l’arcivescovo di Monaco successore di Ratzinger: Reinhard Marx, intellettuale progressista come il lontano cugino Karl. L’analogia con la psicoanalisi non sta solo nell’origine, ma anche nella soluzione del problema. Le vittime potrebbero ritrovare fiducia in sé attraverso un nuovo rapporto con un religioso non abusante; o con uno psicoanalista, pagato dalla istituzione religiosa.
Anche ammettendo che questo abbia successo, rimarrà comunque un problema non risolvibile a priori. Torniamo alla “trasgressione” analitica. L’analisi che Sabine Spielrein compì con Carl Gustav Jung è forse il più clamoroso esempio di rapporto che divenne intimo (non è sicuro se fu anche sessuale) in una maniera oggi inaccettabile. Ma quell’analisi, ormai oggetto di studi infiniti, fu probabilmente anche l’esempio più clamoroso e rapido di guarigione analitica mai visto. Riflettiamo sul motivo.
Dopo gli scandali avvenuti nei collegi religiosi in Germania è stato ricordato (H-E Tenorth, Die Welt 12/3/10; Adolf Muschg, Tagesspiegel 15/3/10; Daniel Cohn-Bendit, Die Zeit 10/3/10) che il modello più alto di insegnamento, quello dell’antica Grecia, includeva la sessualità. Altri (Micha Brumlik, Neue Zürcher Zeitung 14/4/10) hanno precisato che, proprio come oggi, anche allora la vittima di abuso soffriva.
Tra insegnante e allievo
Proviamo a sintetizzare. Il rapporto più ricco tra insegnante e allievo comporta una passione, non troppo diversamente da quello tra paziente e psicoterapeuta. Questa passionalità può anche esser chiamata eros. Non è, però, identica a sessualità: proprio nel dialogo di Platone che definisce l’eros, il Simposio, Alcibiade spiega che ammira Socrate perché è stato il migliore dei maestri senza cadere nella intimità sessuale (allora ampiamente accettata).
Anche oggi il problema è questo. Nessuno dubita che si debba stroncare l’abuso. Molti temono però che, vietando rigidamente emotività e contatti fisici, il docente diventi un soggetto freddo, meccanico, anerotico. Si tratta di una semplificazione eccessiva: spesso gli abusatori sono proprio soggetti poco affettivi, che cercano inconsciamente di superare il loro limite attraverso l’intimità. L’insegnamento – moderno amore conoscitivo – è una passione distinta dalla sessualità. Dopo quella tra insegnamento e psicanalisi, permettiamoci un’ultima analogia, con la letteratura. Anche secondo Dante e Petrarca per il poeta lo scopo dell’amore non era il possesso della persona amata, ma l’elevazione di quella che ama.

Corriere della Sera 7.5.10
Libertà sessale e pedofilia, un dibattito degli anni 70
risponde Sergio Romano
qui
http://www.scribd.com/doc/31030488/Corriere-Della-Sera-LIBERTA-SESSUALE-E-PEDOFILIA-UNDIBATTITO-DEGLI-ANNI-70-7-mag-2010-Page-51

Repubblica 7.5.10
I migranti preferiscono il centrosinistra ma quelli dell´Est guardano a destra
Dossier Ismu sui nuovi italiani: i filippini i più desiderosi di recarsi alle urne, i cinesi invece i meno motivati
di Vladimiro Polchi

ROMA Se potessero, gli immigrati voterebbero centrosinistra. Il loro identikit? Uomini, africani, residenti in Italia da molti anni, con un basso reddito. A destra, guardano invece soprattutto le donne, provenienti dall´Est Europa, cristiane e con redditi medio alti.
A fotografare gli orientamenti di voto dei "nuovi italiani" è un´indagine dell´Osservatorio regionale per l´integrazione e la multietnicità (Orim), svolta dalla fondazione Ismu. La ricerca raccoglie le opinioni di 9mila immigrati rappresentativi della popolazione straniera ultraquattordicenne, provenienti dai Paesi a forte pressione migratoria e presenti a qualunque titolo nel territorio lombardo.
Cosa ne emerge? «Nel 2009 – spiega il professore Gian Carlo Blangiardo, ricercatore dell´Ismu – il 59,8% degli immigrati si è dichiarato interessato a partecipare alle elezioni. Le donne sono generalmente le meno partecipi». A mettersi in fila davanti alle urne sarebbero per primi i filippini (74%), seguiti da romeni (64%), marocchini (63%) e senegalesi (62%). I meno interessati al voto? Ucraini (43%) e soprattutto cinesi (solo il 30% di loro si recherebbe ai seggi). Molto dipende anche dagli anni di residenza: è interessato al voto il 71,3% di chi è in Italia da oltre dieci anni e solo il 47,3% di quanti sono arrivati da meno di due anni. E ancora: parteciperebbe alle elezioni l´84,2% di chi ha la cittadinanza italiana e il 67,6% dei titolari di carta di soggiorno. Percentuali che scendono al 56-57% per chi ha solo il permesso di soggiorno, calano al di sotto del 50% per chi non ha attualmente i documenti in regola e raggiungono appena il 40% per chi non li ha mai avuti.
Ma come voterebbero gli immigrati? Ben il 42,1% sceglierebbe la sinistra, contro il 28,8% che si dichiara di destra (il resto non ha chiari orientamenti di voto). A votare per il centrosinistra sono per lo più uomini (45,2% rispetto al 38,1% di donne), provenienti da Senegal (67,6%), Costa d´Avorio (56%) e Marocco (55,7%). Di destra si dichiarano in maggioranza i brasiliani (50,7%), i romeni (46,7%) e gli ucraini (41,5%). Tra le 19 principali nazionalità d´origine dei flussi migratori, in 14 prevale comunque l´orientamento a sinistra, solo in tre quello di destra.
Insomma, se gli extracomunitari voterebbero in gran parte a sinistra, va rilevato che i neocomunitari (che già possono votare alle elezioni amministrative) preferirebbero invece la destra. E tra questi soprattutto i romeni, forti delle loro primato: 800mila presenze in Italia, su 4.5 milioni di immigrati residenti.
E ancora: l´orientamento a sinistra è più marcato tra gli irregolari, tra chi non ha alcun titolo di studio, tra musulmani e copti, tra disoccupati e studenti lavoratori. A destra sono orientati soprattutto imprenditori, ortodossi o evangelici, e chi guadagna mensilmente almeno 2.500 euro netti.
Voterebbero, infine, a sinistra gli immigrati di lungo corso: la maggioranza di quelli che risiedono in Italia da almeno 10 anni.

Repubblica 7.5.10
Eugenio Scalfari. Viaggio nella modernità
di Alberto Asor Rosa

L´antecedente immediato di quest´ultimo libro di Eugenio Scalfari, Per l´alto mare aperto (Einaudi, pagg. 281, euro 19,50), è Incontro con io (Rizzoli, 1994). Immediato? Sono passati sedici anni, come si vede, fra l´uno e l´altro, e nel frattempo Scalfari ha pubblicato quello che definirei un romanzo allegorico, La ruga sulla fronte (Rizzoli, 2001) e quella che definirei un´autobiografia filosofica, L´uomo che non credeva in Dio (Einaudi, 2008), oltre, s´intende, vari altri testi di carattere più decisamente politicoeconomico ed impegnato. Immediato in che senso, allora? Nel senso che Incontro con io segna il punto di partenza di un lungo percorso (tornerò su questo termine) che l´Autore ha deciso non da ora di compiere attraverso la cultura della modernità, passando però, e via via sempre più instancabilmente, attraverso se stesso, attraverso «io».
Questo percorso raggiunge il suo culmine (per ora) in Per l´alto mare aperto. Il catalogo degli autori che Scalfari chiama a raccolta per sostenere la propria idea di modernità si è fatto sempre più vasto e comprensivo: da Montaigne a Pascal, da Diderot a Tocqueville, da Cartesio a Kant, da Spinoza a Marx, da Leopardi a Baudelaire, da Dostoevskij a Tolstoij, da Rilke a Kafka a Proust, da Freud a Nietzsche, le varie «cime» (raramente tranquille, più spesso tempestose) della modernità sono scalate dal nostro Autore con straordinaria agilità e incredibile capacità comunicativa (che però non diviene mai volgarizzazione pura e semplice). Però, al tempo stesso, si è fatta sempre più vasta e comprensiva la problematica dell´«io» che filtra, deposita, organizza, dà «senso» (espressione scalfariana), sistematizza i materiali che mette (o rimette) a disposizione del lettore. Al centro del libro, dunque, non sta, puramente o semplicemente, la cultura della modernità, come Scalfari la intende. Ma c´è Scalfari come sperimenta, vive, modifica, vivendola, la cultura della modernità nell´atto d´intenderla. Se si perde di vista questo doppio passaggio, c´è il rischio di perdere di vista il senso assai complesso dell´intero libro.
Poiché non posso parlare di tutto, dirò solo di due cose, che però a me sembrano essenziali (con un corollario finale). La prima riguarda la «forma del libro» (che per me è essenziale per capire «cos´è il libro»). Dicevo all´inizio: «percorso». Sarebbe più esatto dire: «viaggio». Scrive Scalfari: «Il viaggio è la nostra dimensione naturale, posto che viviamo immersi nel tempo e nello spazio». Ma: «Quando quel percorso si svolge dentro di noi, allora le scoperte e le avventure, le persone e i fantasmi sono ancora più sconvolgenti perché è la nostra storia che andiamo ricostruendo...». Il fatto che si tratti in ambedue i casi di citazioni da Incontro con io ribadisce la linea di continuità di cui parlavamo in partenza. Infatti, in Per l´alto mare aperto: «L´Intelligenza che viaggia nel mondo sempre in lotta con la stupidità. Un viaggio difficile, contrastato, un viaggio per spiriti liberi...». Più esplicitamente ancora: «Continuando questo mio viaggio...».
La forma del viaggio comporta in Scalfari un recupero dantesco (Diderot = Virgilio) e uno omerico-dantesco: Ulisse, inteso come «mito» primigenio cui ancorare solidamente la modernità. Comporta una ricostruzione del tessuto culturale, ideale, filosofico, letterario della modernità, con le sue tappe, i suoi crocicchi, i suoi incontri e scontri, ma anche, come ogni viaggio che si rispetti, i suoi ritorni all´indietro, quando risulta necessario. Ma comporta anche, e su questo aspetto io vorrei attirare di più l´attenzione, forse perché meno visibile, un´esplorazione à rebours del proprio passato da parte dell´Autore, fino alle insondabili profondità infantili, in cui un certo interesse, una certa pulsione sono germinati, per fondersi più avanti con le letture dell´adolescenza, della giovinezza, della maturità e... della vecchiaia. È la forma del viaggio, sostengo, che dà a questo libro, pur denso nei suoi contenuti, la sua piacevolezza, il suo fascino discorsivo, la sua capacità di comunicazione con il lettore, che ne segue, persino divertito, lo scorrevole andamento.
La seconda osservazione riguarda il catalogo. Chiunque si sia azzardato a proporre un «canone» (nessuno meglio di me può saperlo), si espone al rischio del famoso (e del tutto ozioso) gioco delle «sottrazioni» e delle «aggiunte». Non di questo intendo parlare. Vorrei invece dire la mia, troppo brevemente, me ne rendo conto, sull´idea di modernità che quel canone esprime. Io la riassumerei in questo modo: la modernità è un pensiero forte, che, a partire da una fiducia illimitata nella Ragione, man mano che si misura rigorosamente (e in mille straordinari modi) con il filtro dell´«io», del soggetto dichiarato e risolutamente monocentrato, perde i suoi fondamenti iniziali, si sfalda, trova nuove forme e, nelle nuove forme, dissolve ogni contatto persino con un residuo di Assoluto. Per questo il canone, pur rimanendo ancorato all´Illuminismo-Diderot, comincia di fatto con Montaigne e finisce con Nietzsche. Il relativismo, s´intende, ne rappresenta l´approdo finale. Ma se non è un gioco di parole un relativismo che resta anch´esso solidamente razionale e non perde mai i suoi rapporti con l´umano. E cioè un relativismo che non disintegra né immiserisce i valori, ma, spero che neanche questo sia un gioco di parole, li relativizza, riconoscendone intelligentemente la presenza e l´opportunità (ma anche i limiti) all´interno dell´agire storico-umano.
Questo modo di procedere, che è al tempo stesso contemplativo e lucidamente razionale, introspettivo e storico-critico produce una vera e propria mappatura del pensiero moderno, che andrebbe esaminata punto per punto, nei suoi accostamenti, non sempre scontati, e nelle singole figure che li compongono e rappresentano.
Confesso che uno dei capitoli che mi ha colpito di più, per comprensibili motivi personali, è quello dedicato a Karl Marx. Si chiede Scalfari in esordio, e lo chiede ai suoi lettori (riprendendo fra l´altro un topos sul quale noi ci siamo già soffermati): «Sapevamo, non è vero? Che in questo nostro viaggio uno degli incontri più significativi sarebbe stato questo [con Marx]». Be´, io non lo sapevo: non nel senso che io non sia incline ad attribuire a Marx il ruolo nel percorso storico della modernità che Scalfari gli attribuisce: ma nel senso che non avrei pensato che Scalfari, intellettuale della più specchiata tradizione liberaldemocratica, fosse disposto a farlo, e in questa misura. Arrovesciando totalmente il Marx sostenitore della dittatura del proletariato nel Marx critico e analista della società capitalistica, Scalfari finisce brillantemente per collocarlo fra i teorizzatori dello Stato centralizzato ed autonomo e al tempo stesso (ma non contraddittoriamente) della società civile intesa come luogo in cui l´individuo esercita in modo privilegiato la propria libertà. Se mai, un lettore incontentabile potrebbe osservare che fra i testi fondativi dell´imperitura modernità marxiana, accanto al Capitale, si potrebbero annoverare, e persino con qualche motivazione in più, gli Scritti filosofici giovanili e i Grundrisse: ma il baricentro del ragionamento non cambierebbe certo granché.
Come tutto questo poi si ricolleghi più in generale all´esperienza pubblica e alla figura politico-intellettuale di Eugenio Scalfari (un altro tratto del viaggio da tener presente), un lettore normale non dovrebbe far fatica a capirlo.
Il corollario è che, secondo Scalfari, la modernità è cominciata, c´è stata ma è anche finita. Intorno a noi i nostri contemporanei sono i nostri posteri e i nostri posteri sono i nuovi barbari. È un pensiero con cui mi sono anch´io recentemente confrontato, ed è io credo il pensiero di una generazione e di una storia. Fin dove arrivano questa generazione (forse una multi-generazione) e questa storia (forse più storie, molte storie diverse)? La cultura della modernità dovrebbe fare un ultimo sforzo: capire più esattamente dove la frattura si è verificata e perché, dove le generazioni e le storie più esattamente sono rientrate nella barbarie. La modernità ha un debito aperto con la contemporaneità: bisognerebbe pensarci molto seriamente. Intanto Scalfari ha fatto molto più che la sua parte. Mi è accaduto molto recentemente di sentirlo parlare ad un folto pubblico di giovani e di rimanere stupito, da vecchio docente, della corrente di comprensione, di simpatia, anzi di vera e propria complicità che correva fra loro al di sopra di un abisso di quasi settant´anni e di centinaia di migliaia di esperienze diverse: segno, penso, che i fili non sono del tutto spezzati e forse si possono ancora riallacciare.

Corriere della Sera 7.5.10
Ascesa e crisi della modernità
Il nuovo saggio di Eugenio Scalfari dagli illuministi a Nietzsche
di Cesare Segre
qui

Repubblica 7.5.10
Quel mondo perduto tra Nietzsche ePproust
Ad essere indicato come terminale di una svolta nel modo di trattare le grandi questioni filosofiche è il pensatore tedesco
di Antonio Gnoli

L´intreccio tra modernità e filosofia è una delle componenti su cui più forte è stata la riflessione negli ultimi anni. Figure come Habermas e Blumenberg hanno costruito una linea di difesa del moderno contro gli attacchi provenienti da quegli autori, in particolare Lyotard, Derrida, Baudrillard, che ne avevano con ragioni diverse, decretato la fine. Una lunga battaglia si è svolta tra chi nel moderno ha colto i motivi ancora validi di un pensiero in grado di confermare quanto da Descartes in poi la ragione umana aveva, pur tra incertezze e dubbi, costruito nei più diversi campi: dalle scienze alla società, dall´arte alla politica, dalla religione alla vita. E coloro che, avendone colto l´esaurirsi della spinta propulsiva, ne hanno denunciato il carattere autoritario e violento. È su questo sfondo conflittuale che ho letto il nuovo libro di Scalfari, la cui forza risiede nel volersi ritagliare una posizione terza che è tanto più interessante in quanto tiene conto di entrambe le sensibilità.
La modernità, avverte Scalfari, dura grosso modo quattrocento anni. In questo arco di tempo cambia il nostro rapporto con la scienza, la politica, l´economia, l´arte, la religione. È un´epoca densa di rivolgimenti nella quale declina la metafisica. Non è di questo che la filosofia si è occupata fino a quel momento? E che cosa, da questo punto in poi, ci riserverà? Tra i filosofi, che meglio hanno segnato il mondo moderno, Scalfari ne individua quattro: Descartes, Spinoza, Kant e Hegel. Non furono meno moderni, ci avverte l´autore, Hobbes, Leibniz e Hume. Ma in quelli che ha eletto a rappresentanti della modernità, ne coglie la grandiosità del disegno, la forza persuasiva del sistema, la problematicizzazione della trascendenza e dunque il diverso posto che assegnano a Dio.
Sono pagine di grande chiarezza che Scalfari dedica a questa sorta di rivoluzione filosofica che ha alle spalle un padre tanto autorevole quanto appartato: Michel de Montaigne. È lui la vera icona della modernità che, nel chiuso del suo castello, descrive negli Essais un mondo completamente nuovo: mosso, mutevole, apprezzabile e molto più grande di quanto non immagini la vecchia metafisica. Sarà quella visione relativa delle cose, osserva Scalfari, a incantare prima Diderot e poi lo stesso Goethe. Nei confronti dell´artefice dell´Encyclopedie Scalfari prova una vera attrazione. Diderot è il più inquieto tra gli illuministi. Ama le donne di spirito, combatte il potere dall´interno del potere, realizza straordinarie imprese editoriali, scrive romanzi che tutta l´Europa leggerà, si professa ateo coerente e spregiudicato. Cosa c´è, dunque, di più moderno di una tale sensibilità duttile, provocatoria, capace di mettere alla prova la ragione e dare un senso all´azione? Quella modernità che ebbe inizio con Montaigne, si conclude con Nietzsche: "L´ultimo gioco intellettuale, l´ultima playstation è Nietzsche", scrive con un´immagine efficace Scalfari.
Se la modernità ci ha insegnato a viaggiare e a relativizzare il conosciuto, se ha messo in discussione, senza tuttavia cancellarlo, il rapporto con Dio, se ha rivisto la relazione tra politica e morale, se ha assegnato all´economia un ruolo che prima non aveva e alla ragione umana un posto di tutto rispetto, se ha alimentato il dubbio e la tolleranza, se ha sottoposto la verità al controllo sperimentale, se ha dato forza al presente e al futuro, allora in che senso Nietzsche metterebbe fine a tutto questo?
Già col precedente libro Scalfari insisteva sul ruolo che l´autore dello Zarathustra aveva svolto nell´ambito della modernità. Ma si ha l´impressione che il nuovo lavoro indichi una svolta nel modo di pensare le grandi questioni filosofiche di cui Nietzsche è il terminale. «Nel mio libro L´uomo che non credeva in Dio», scrive Scalfari, «ho parlato a lungo di Nietzsche e ho creduto di capire che il suo pensiero si rifaceva al "tutto scorre nulla permane" eracliteo... Ma poi tornando a riflettere su quelle pagine, mi è sembrato che il "tutto scorre" non sia il solo principio al quale si ispira la concezione filosofica di Nietzsche. Il suo pensiero è molto più complesso e il divenire per lui rappresenta la modalità dell´essere». Con questa nuova consapevolezza si aprono questioni non marginali. La prima delle quali ci pare riconducibile a una sorta di paradossale accostamento tra Nietzsche e Montaigne. E se dunque uno, capovolgendo il sistema dei valori, chiude la modernità, l´altro - con il suo relativismo - la condanna fin dall´inizio.
C´è una seconda questione che richiama sia il rapporto di Nietzsche con la metafisica, sia il modo in cui Heidegger interpreta questa relazione. Scalfari gli dedica alcune pagine. E se capisco bene lo svolgersi del ragionamento scalfariano, Heidegger restituisce un´interpretazione "malandrina" di Nietzsche, perché occulta la soggettività del proprio sguardo. In altre parole il limite di Heidegger risiederebbe nel fatto di non dichiarare che la sua interpretazione di Nietzsche non è l´unica. Peccando così di una slealtà interpretativa tanto più grave, osserva Scalfari, in quanto «l´intera ermeneutica nicciana si basa su questo delicato rapporto tra la soggettività dell´interprete e l´oggettività della cosa interpretata». Ma è proprio questa l´accusa che Heidegger muove a tutta la tradizione della metafisica occidentale (compreso Nietzsche che fallisce nel suo tentativo di uscirne): aver posto soggetto e oggetto (diciamolo un po´ alla buona) uno di fronte all´altro. Dell´autore di Essere e Tempo si possono dire molte cose, ma non che egli abbia voluto restaurare una qualche forma di metafisica.
Il libro di Scalfari si avvale di una sensibilità che lo spinge a indagare i vari livelli in cui la modernità si è resa manifesta: da quello filosofico, come si è visto, a quello letterario. Sul quale ancora una volta mostra le sue preferenze: Proust e Rilke, su tutti gli altri. È un altro modo per discendere le scale del moderno e vedere cosa si nasconde ancora nelle sue cantine. Verrebbe a questo punto voglia di chiedere: se il moderno è finito, da quale luogo noi continueremo a pensare e a parlare? Scalfari è consapevole che qualcosa di fondamentale si è rotto e, a quanto pare, non più rimediabile. Egli fiuta l´aria del nuovo che ancora non c´è, ma che irresistibile giungerà. È il destino delle epoche di aprirsi e chiudersi. Noi, moderni viviamo il paradosso, sembra dirci Scalfari, di essere dentro e fuori da quel mondo. È il nostro lungo declino, in attesa che i nuovi barbari vengano legittimati.

giovedì 6 maggio 2010

Ansa.it 3.5.10
Salute: Pillola giorno dopo, un libro per le donne italiane
La pillola del giorno dopo, un farmaco che in molti Paesi d'Europa e negli Usa e' acquistabile liberamente al banco come contraccettivo di emergenza entro le 72 ore successive a un rapporto sessuale non protetto, e' poco nota nei meccanismi alle donne italiane. Con l'obiettivo di diradare questa 'nebbia' e spiegare cosa e' e come funziona il sistema contraccettivo, due ginecologi, Carlo Flamigni e Corrado Melega, presentano in questi giorni un agile libro dal titolo 'La pillola del giorno dopo. Dal silfio al levonorgestrel', nella collana dedicata a medicina e sanita' da L'asino d'oro edizioni. Il volume, sottolineano gli autori, ''offre la possibilita' di una valutazione critica, soffermandosi sulla storia, i vari metodi utilizzati, e i meccanismi di azione del farmaco, un progestinico che agisce inibendo o alterando la qualita' dell'ovulazione. E questo, senza interferire sull'impianto dell'ovulo fecondato sulla mucosa uterina, che avviene cinque giorni dopo la fecondazione''. ''Poiche' la gravidanza inizia con l'annidamento dell'ovulo fecondato nella mucosa uterina - affermano i due autori, che cosi' intervengono nel dibattito in seno al Comitato Nazionale di Bioetica, di cui Flamigni e' membro da 20 anni - non possiamo affermare che il farmaco sia abortivo, non solo perche' non interrompe una gravidanza in atto, ma anche perche' non interferisce sul destino di un ovulo fecondato, cosa che per alcuni e' equiparabile ad un aborto''. In Italia, la pillola del giorno dopo puo' essere venduta con ricetta nominale non ripetibile prescritta da un medico: pertanto, in caso di necessita' e' necessario rivolgersi obbligatoriamente a un medico, con tutte le difficolta', sottolineano infine Flamigni e Melega, sia pratiche che di ordine psicologico che si ricollegano a tale eventualita'.

l’Unità 6.5.10
Intervista a Dimitri Delionalis
«Ribelli e violenti. Non hanno progetti e idealità»
Scrittore e giornalista: Li rafforza la disperazione e la rabbia, oltre che la debolezza della sinistra Tra i leader l’italiano Bonanno, mediocre ideologo
di Umberto De Giovannangeli

uNon hanno alcun progetto insurrezionalista. La violenza è strumento e fine. Sono i figli degeneri di una sinistra
senza più progetto o idealità». A sostenerlo è Dimitri Delionalis, corrispondente dell’Ert, la Tv greca, profondo conoscitore del «pianeta anarchico» greco.
Qual è l’identikit dei gruppi anarchici che stanno incendiando, e non è una metafora, Atene e la Grecia? «Sono gruppi che hanno fatto la loro comparsa dopo la caduta del regime dei colonnelli. All’inizio la gente li guardava con distacco. Era più folklore che altro. Poi però si sono stabilizzati e hanno avuto il loro momento di maggiore vigore nei gravissimi scontri che sono succeduti per una decina di giorni nel centro di Atene nel dicembre 2008, dopo la morte del quindicenne Alexis Grigoropoulos. I gruppi anarchici e dell’estrema sinistra furono i protagonisti di quegli scontri con il sostegno di gran parte del mondo giovanile studentesco che espresse così la sua rabbia per l’uccisione di Grigoropoulos. Da allora quei gruppi sono riusciti ad avere una grande influenza nell’universo giovanile e studentesco, senza però alcun progetto politico. Dietro la violenza, le barricate, le molotov non c’era alcun disegno politico. La violenza era al tempo stesso strumento e fine».
Siamo ad una proposizione del luddismo in salsa greca? «Diciamo che sono gruppi formati da gente che esprime la propria ribellione allo stato di cose esistenti attraverso la pratica della violenza. A questo c’è una riprova clamorosa che unisce Atene a Catania...».
Quale sarebbe questa riprova?
«Uno dei loro principali teorici è un catanese, Alfredo Bonanno, attualmente in carcere in Grecia per rapina. Costui in Italia non gode di grande considerazione, un teorico di serie C, un personaggio assolutamente minore nel panorama estremistico italiano. In Grecia invece le sue teorizzazioni hanno molta presa negli ambienti dell’anarchismo greco». C’è il rischio che questo luddismo possa trasformarsi in vero e proprio terrorismo?
«Si è già trasformato ampiamente. Dopo la ribellione del dicembre 2008 si sono formati nuovi gruppi terroristici che hanno provocato morti. Per capire la caratura di questi gruppi armati, basta pensare che uno dei capi di questi gruppi, Nikos Mansiotis, è un anarchico che nel ‘96 aveva piazzato una bomba fuori da un ministero. La bomba non era esplosa e lui aveva lasciato le sue impronte. È stato arrestato e una volta uscito dal carcere si è posto alla guida dei violenti senza progetto politico. Sono una caricatura delle Br. Se costoro sono ancora in campo è perché ad affrontarli è una polizia incapace. Questo sul piano operativo...».
E su quello politico?
«Sono i figli degeneri di un vuoto progettuale, politico, programmatico della sinistra parlamentare». La grave crisi che investe la Grecia può rafforzare questi gruppi? «Purtroppo vediamo che li sta già rafforzando. C’è un’area di disperazione e di rabbia sociale che non trova altro sbocco se non ricorrere alla violenza. E questo avviene anche perché c’è un deficit di credibilità della sinistra, politica e sindacale, greca. La debolezza dell’area progressista è l’altra faccia di questa degenerazione di piazza».

Repubblica 6.5.10
Parla Daniel Cohn-Bendit, leader del '68 e oggi dei Verdi europei
"Sono soltanto pochi violenti ma chi va in strada vuole giustizia"
Non sono pessimista: chi ha strumentalizzato le proteste ha tirato la corda fino a farla rompere
intervista di Andrea Tarquini

BERLINO - Daniel Cohn-Bendit, leader del ´68 e oggi dei Verdi europei, anarchici, black bloc, violenti hanno espropriato al sindacato greco la guida delle legittime proteste?
«No, no, no! Per favore, non trasformiamo Repubblica e i suoi lettori in vittime delle immagini della Cnn! I black bloc in piazza erano tra cinquanta e cinquecento persone! I dimostranti pacifici, guidati dai sindacati, erano cinquantamila o centomila! Sarebbe totalmente fuorviante equiparare i sindacati o i dimostranti pacifici con quei pochi violenti che hanno lanciato le molotov».
Ma non vede il pericolo che queste forme di protesta violenta assumano un ruolo di leadership?
«Non lo so. Non credo ma non posso dirlo così esattamente. In Grecia si sta svolgendo un processo difficilissimo. Deve portare noi tutti, gli amici greci e tutti gli europei, a riflettere sulla società e sullo Stato. Uno Stato in cui in Grecia non s´identifica nessuno o quasi nessuno. È stato sempre lo Stato degli altri, lo Stato dei ricchi e dei potenti, ognuno lo ha strumentalizzato per sé. È sempre apparso lo Stato di politici corrotti, la gente ha partecipato alla corruzione. Adesso bisogna cambiare tutto questo, ma ci vuole tempo».
Per le prossime ore si teme il peggio sul fronte della piazza. Come deve e può essere gestita la protesta, e quanto è grande il rischio della degenerazione violenta?
«Credo che i greci siano profondamente scioccati dopo il dramma di queste ore. Non mi metto a dir loro come gestire la protesta e come no. Dico che Europa e Fondo monetario hanno commesso un grande errore: concedono aiuti ma non danno al governo il tempo di spiegare l´urgenza dei sacrifici. Che così appaiono un diktat dall´esterno. Il secondo problema è che siamo tutti ipocriti: chiediamo ai greci tagli pesantissimi ma abbiamo guadagnato miliardi vendendole armi. Agli occhi dei greci i paesi europei forti sembrano pensare we want to make money from Greece, come la Thatcher diceva I want my money back".
Il compito dei sindacati non è invidiabile…
«Neanche il governo è da invidiare. Ma molti greci capiscono che i tagli sono inevitabili. Sono ottimista sulle chance di Papandreu, e sulla possibilità che la società lo capisca. Shock come la violenza di queste ore a volte sono salutari».
Quanto sono pericolosi gli estremisti in Grecia?
«Gli estremisti sono pericolosi ovunque se il centro della società non si mobilita. La loro forza non è un dato oggettivo, si misura in proporzione inversa con la mobilitazione o meno delle forze ragionevoli. Ma non sono pessimista. Credo che chi poche ore fa ha strumentalizzato le proteste abbia tirato la corda fino a farla rompere».
La leadership politica greca le sembra all´altezza della situazione?
«Il problema è che Sarkozy, Merkel, Barroso, Berlusconi non sono all´altezza della situazione. Chi cresce e mostra calma e forza straordinarie è Papandreou».
La democrazia è in pericolo nel paese dove nacque?
«Non credo. È una prova decisiva per la democrazia greca, ma non credo sia in pericolo».

Repubblica 6.5.10
Ru486 un mese dopo, pochi ricoveri e la metà delle Regioni resta al palo
Ordinate mille confezioni soprattutto al centro nord. Nel Lazio pillola indisponibile
Il farmaco è stato assunto da circa 350 donne. Quasi tutte hanno scelto di tornare a casa
In Piemonte, la Regione del leghista Cota, sono già state richieste 80 scatole
di Michele Bocci

FIRENZE - Quasi mille confezioni di Ru486 consegnate in meno di un mese agli ospedali italiani. Il bilancio di aprile della diffusione della pillola abortiva rimanda ancora una volta l´immagine di un´Italia divisa in due dal punto di vista sanitario: da una parte il centro nord dove il farmaco sta entrando nella pratica quotidiana di molte ginecologie, dall´altra il sud, ancora fermo quasi ovunque a scrivere linee guida. Le differenze tra le Regioni appaiono così più di carattere organizzativo che politico. In mezzo c´è il Lazio, da dove non sono arrivate nemmeno richieste di informazioni al distributore italiano, la Nordic Pharma. Nella regione governata da Renata Polverini è tutto fermo.
Il tema dell´obbligo di ricovero, su cui tanti scontri si sono combattuti tra favorevoli e contrari all´ingresso del farmaco nel nostro sistema sanitario, sembra superato dalla pratica: quasi tutte le donne dopo aver preso la Ru486 firmano per tornare a casa. Secondo stime non ufficiali, dal 7 aprile, quando è stata consegnata la prima pillola abortiva a Bari, ad oggi le pazienti sono state 350.
Nessuno può costringere le donne a restare ricoverate in ospedale contro la loro volontà. Non può farlo la presa di posizione del Consiglio superiore di sanità, che ha indicato la permanenza in corsia come obbligatoria, e nemmeno quelle sulla stessa linea della maggior parte delle Regioni. Le cose dunque non verranno cambiate nemmeno dalla Commissione creata dal ministero alla Sanità per scrivere le ennesime linee guida in favore del ricovero. Presto lo stesso organismo, incaricato anche del monitoraggio di quanto avviene nelle Regioni, dovrebbe avviare una serie di controlli nelle ginecologie. Troverà poche pazienti ricoverate. A Torino, ad esempio, solo 2 donne su 27 hanno trascorso tre giorni in ospedale dopo la somministrazione.
I Radicali hanno fatto notare nei giorni scorsi il silenzio della Regione Lazio: «Nessun ospedale del nostro territorio ha indicazioni rispetto all´utilizzo della Ru486». Altre sette Regioni - Calabria, Basilicata, Campania, Sicilia, Sardegna, Marche e Umbria - non hanno ancora ordinato il farmaco ma si sono comunque fatte quasi tutte vive con il distributore per avere informazioni sulla consegna. Nel Lazio sembrerebbe esserci una situazione di stallo. La Regione ha fatto delle linee guida ma non sono state comunicate agli ospedali: «Non sappiamo neanche cosa rispondere alle pazienti, che fanno domande. A me sembra una cosa assurda. Credo che debbano anche essere i primari a muoversi», dice Mirella Parachini, ginecologa di area Radicale del San Filippo Neri di Roma e presidente della Fiapac, Federazione internazionale degli operatori di aborto e contraccezione.
Dove comandano i governatori che più apertamente e duramente hanno attaccato la pillola, Cota e Zaia, sono già state fatte le prime somministrazioni del farmaco. In Piemonte ne sono già state ordinate 80 confezioni, in Veneto 50. La Regione leader è una di quelle che già distribuiva la Ru486 da qualche anno, in base alla legge sull´acquisto all´estero dei farmaci. Si tratta della Toscana che ha ordinato all´incirca 300 scatole, una scorta che dovrebbe durare alcuni mesi. Al distributore risultano essere addirittura 500, cioè circa la metà di tutte le richieste del nostro paese, ma probabilmente c´è stato un errore di comunicazione: un ordine di 300 compresse (cioè 100 scatole) è stato scambiato per uno di 300 confezioni. Seconda come numero di richieste è la Lombardia, a 160. L´Emilia, una delle poche Regioni a somministrare la pillola in day hospital, è a 50 ordini. Lo stesso numero della Puglia, l´unica realtà del sud dove è disponibile la Ru486. Per questo il policlinico di Bari viene contattato da mezza Italia. «Ho visto donne di Roma, Catania, Latina, Campobasso, oltre che di Lecce e Brindisi», spiega il primario Sergio Blasi. L´ospedale ha dovuto creare una linea telefonica dedicata per rispondere alle domande di chi vorrebbe prendere la pillola e vive lontano dal capoluogo pugliese. Si è già creata una lista d´attesa.


il Fatto 6.5.10
Abusi sui minori
Il Vaticano tace nella giornata mondiale

Basso profilo. Nessuna dichiarazione della Chiesa nella Giornata Mondiale contro la Pedofilia, nessuna partecipazione “ufficiale” alle manifestazioni in Italia. Se ci sono stati sacerdoti o organizzazioni che hanno partecipato in qualche modo, non lo hanno dichiarato. Eppure sono stati 80 i casi di pedofilia del clero in Italia, secondo gli ultimi dati diffusi dall’Associazione Meter di Don Di Noto. Ernesto Caffo, presidente di Telefono Azzurro, ha sostenuto che “la Chiesa si è resa conto dei problemi e ha fatto dei passi in avanti per contrastare il fenomeno degli abusi sui minori da parte dei religiosi”. Il rapporto degli abusi sui minori stilato dal Telefono Azzurro parla di un 1,2 per cento di segnalazioni che riguardano figure di religiosi. Gli abusi sessuali sui minori sono il 4% di tutti i maltrattamenti sui bambini. Tra il primo gennaio 2008 al 15 marzo 2010, su 6.623 casi segnalati alle linee di ascolto dell’associazione quelli relativi ad abusi sessuali sono stati 269. Si tratta di segnalazioni provenienti soprattutto da Lombardia, Lazio e Veneto (30%). Per quanto riguarda le forme di abuso segnalate, molto numerosi (88) sono però i casi di abusi sessuali in cui chi ha fatto la denuncia non riesce a definire l’atto, ma sono presenti comunque segni fisici o comportamentali che fanno sorgere sospetti di abuso. Diffusissimo infine il traffico di materiale pedopornografico su Internet: dal luglio 2007 a febbraio di quest’anno la linea di Telefono azzurro per le segnalazioni web ha ricevuto 4.124 “allerta” su materiale pedopornografico in rete. Il giro d’affari è di oltre 4 miliardi di dollari l’anno.

il Fatto 6.5.10
Storia di Mariangela, stuprata a 10 anni dal suo sacerdote
“Un prete mi ha violentata, la Chiesa ha coperto tutto”
Quindici anni sulle ginocchia di don Cantini
Parla la vittima di un prete pedofilo protetto dalla Chiesa
Don Cantini, protetto dalle gerarchie nonostante le denunce
di Beatrice Borromeo

“Diceva che era tutto normale, che anche la Madonna aveva partorito Gesù a dodici anni: don Cantini mi ha violentata per quindici anni e poi la Diocesi di Firenze ha provato a insabbiare tutto, nonostante le denunce”. Oggi Mariangela Accordi ha 48 anni, è un’insegnante. È sposata. Ma quando ne aveva 10, don Lelio Cantini, il prete della parrocchia fiorentina che frequentava, ha cominciato ad abusare sessualmente di lei. Nel 2005, Mariangela ha denunciato tutto al vescovo ausiliario di Firenze, monsignor Maniago (vedi articolo qui sotto). Non successe nulla. E nella Giornata mondiale contro la pedofilia, Mariangela e le altre vittime si scontrano con monsignor Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze, che non le ha mai ricevute e che ha confermato Maniago come suo vice.
Mariangela, l’arcivescovo Betori dice che voi vittime non l’avete mai cercato. È una risposta ignominiosa. Hanno riscritto il Vangelo: le pecore devono andare dal buon pastore, tirargli la camicia e dirgli: “Oh, ci siamo, per favore!”. Se vogliono sapere come sono andati i fatti, devono incontrare le vittime, non evitarle. Perché secondo lei non vi incontra?
Ha paura che gli chiediamo: perché ha riconfermato Maniago, perché non andate fino in fondo? Ieri era la Giornata mondiale contro la pedofilia.
E proprio ieri la Chiesa avrebbe dovuto pensare a noi. Quel poco che è stato fatto, è solo grazie alla nostra volontà di andare avanti. Fosse per la curia fiorentina, si sarebbe insabbiato tutto.
Su quali basi lo dice?
Andai insieme con mio padre e mia sorella dal cardinale di Firenze, Ennio Antonelli, dopo che don Cantini era stato trasferito a Mucciano. Mi disse: “Io cosa ci posso fare?”. Perché don Cantini è stato trasferito?
L’hanno mandato a Mucciano, con la scusa di un prepensionamento, dopo le nostre prime denunce. Gli hanno anche fatto una festa di addio quando si è ritirato! È andato a rimettere a posto la parrocchia del luogo, in più d’estate si occupava dei bambini. E nessuno ha avvertito le famiglie di Mucciano del motivo per cui era stato trasferito. Lì agiva ancora più indisturbato di prima.
E quando lo avete saputo, come avete reagito? Ero incredula. Sono andata a denunciare tutto a monsignor Maniago, che era già vescovo ausiliario di Firenze: “È tutto qui quello che riuscite a fare?” gli ho chiesto. Sono andata dandogli fiducia, sperando che trovandosi davanti una persona che aveva subìto abusi per quindici anni, avrebbe capito.
Cos’ha risposto?
Che non bisogna essere vendicativi.
Il peccatore che viene perdonato. Gli ho detto: “Guarda che per me è stato faticoso non credere più a tutto quello che mi aveva insegnato don Cantini. Io davanti agli occhi ho gli abusi, tu no, caro Maniago. Te lo sto dicendo in faccia che queste cose sono successe”. Io ho dovuto ricominciare la mia vita. L’avevo improntata tutta sugli insegnamenti di don Cantini. A volte viene veramente la voglia di aprire la finestra e buttarmi giù.
E monsignor Maniago?
Lui volle convincermi che tutto quello che ci aveva insegnato don Cantini era giusto. Mi disse: “Don Cantini è un mistero”. Disse di mettere da parte gli abusi e di concentrarsi sul fatto che ci aveva mostrato come pregare, cos’è la Bibbia, come sentire la parola di Gesù. Per lui quella era la verità, e il resto era una semplice debolezza. Don Cantini è stato accusato pure di dominio delle coscienze. Ma Maniago diceva che era comunque un grande uomo.
Insomma, nessuna azione contro don Cantini. Mi sono congelata. Tutto quello che ero riuscita a tirare fuori, monsignor Maniago cercava di ributtarlo dentro.
Cercò di dissuaderla dal denunciare pubblicamente tutto? Disse : “Attenzione, se parli, se scandalizzi chi crede nella Chiesa, sei colpevole quanto il pedofilo”. Poi aggiunse: “Ti conviene davvero perdere la faccia? L’opinione pubblica non ti capirà”. Per reazione ho deciso di andare ad Annozero.
Le cose hanno incominciato a cambiare solo quando la stampa nazionale le ha portate alla luce.
E meno male che un’enciclica dice: “La verità vi renderà liberi”. Non è vero. Loro la verità non la vogliono. Hanno la cultura del silenzio. Sono terrorizzati dal fatto che l’opinione pubblica sappia. Ora che la Chiesa sta cercando di ricostruirsi un’immagine, perché Betori riconferma monsignor Maniago a vescovo ausiliario di Firenze nonostante il suo comportamento omertoso?
Glielo chiedo anch io: perché? Dicono di voler ripulire la chiesa, ma perché non a Firenze? Perché la Chiesa dice ai vescovi di denunciare i pedofili e poi si tiene stretta una persona come Maniago che si è comportata nel modo opposto? Don Cantini abusava solo di lei?
Sono convinta che ci siano passate tutte le altre bambine del catechismo, anche quelle che non l’hanno detto pubblicamente. Ricordo le loro facce davanti a me, quando si era in fila e si aspettava. Quando si aspettava cosa?
Di entrare a colloquio con don Cantini. Mi ricordo quanto tempo stavano e soprattutto le loro facce quando uscivano. Come la mia. Abusava di voi in questi colloqui?
Sì, nel suo studio. Quel maledetto studio dove il prete ci violentava. Ora lo usa il nuovo parroco. Ma come si può continuare a lavorare in un posto simile?
Quanti anni aveva lei quando gli abusi sono iniziati? Dopo la comunione: avevo nove, dieci anni.
Come ha fatto don Cantini a convincervi a non raccontare tutto ai vostri genitori? È stato un lavoro lungo, con noi e anche con le nostre famiglie: si è prima guadagnato la stima dei nostri genitori. Con me faceva così: mi chiamava per darmi lezioni private di catechismo dicendo che ero speciale. Per me e per altre ragazze questo era un onore. Poi ci dava ruoli sempre più importanti, per esempio mi aveva nominata prima corista in chiesa. Nell’ufficio ha cominciato a prendermi sulle ginocchia, poi a chiedermi un bacio sulla guancia. È stata una cosa graduale. Poi ha cominciato a chiudere la porta a chiave. Mi diceva che la Madonna ha partorito Gesù a dodici anni, che faceva tutto quello che il Signore le chiedeva. Quindi non era fisicamente violento?
Lui non ha usato violenza, o almeno io non l’ho riconosciuta come violenza per tanti anni. È ben diverso da uno stupro: è cuocere la tua preda lentissimamente, prenderne via via un pezzetto. Quando mi faceva bere il suo seme, nei rapporti orali completi, diceva che era un atto di comunione incredibile, di quelli che avvenivano solo nel giardino dell’Eden. Era la vera eucarestia, un modo per essere in comunione perfetta con lui. Come ha fatto a ribellarsi?
Mi sono sposata, non l’ho più visto. Da quel momento non faccio più niente se non sono sicura che sia una mia scelta, solo mia.
Il Papa ha ricevuto alcune delle vittime dei preti pedofili a Malta, vorrebbe incontrarlo ? Sì, glielo chiedo qui, ora. M’incontri, mi ascolti, conosca la verità. Sua Santità, faccia chiarezza perché lei si sta dando da fare, ma altri uomini importanti, dentro la sua Chiesa, chiudono gli occhi.

il Fatto 6.5.10
“L’arcivescovo premia chi ha nascosto le violenze”
Monsignor Betori conferma come suo braccio destro Maniago, che sapeva e ha messo tutto a tacere

Nella giornata mondiale contro la pedofilia arriva una polemica tra l’ex segretario generale della Cei monsignor Giuseppe Betori e alcune vittime della pedofilia nella Chiesa. Si tratta delle “Vittime di don Lelio Cantini”, associazione che raccoglie chi ha subìto le molestie di un sacerdote di 87 anni che, fino al 2005, è stato parroco della Regina della Pace a Firenze. Si sono scontrate con l’arcivescovo di Firenze, Giuseppe Betori, che non ha
mai chiesto d’incontrarle. “Perché la pulizia che la Chiesa sta facendo al suo interno sta risparmiando Firenze?” si chiedono Mariangela Accordi, Francesco Aspettati e altri esponenti di questa associazione nata “contro l’omertà”. L’ufficio stampa di Betori si affretta a chiarire: “A malincuore e sorpresi da questi attacchi ingiustificati e reiterati, tramite la stampa, nei confronti della Chiesa fiorentina, si chiarisce, a prova di ogni sincera smentita, che a nessuno di coloro che hanno chiesto udienza a monsignor Betori su cose importanti e per le vie ufficiali, questa è stata negata”.
LA VICENDA. In una lettera indirizzata a Papa Benedetto XVI, le vittime definiscono don Lelio Cantini “responsabile di abuso plurimo e aggravato nei confronti di minori, del delitto di sollecitazione a rapporti sessuali compiuto nei confronti di più persone in occasione della Confessione e dell’abuso nell’esercizio della potestà ecclesiastica nella formazione delle coscienze”. Tutto comincia con la denuncia di Mariangela Accordi, che è stata violentata dal prete per quindici anni. Gli abusi su di lei sono cominciati quando ne aveva appena dieci. Mariangela ha raccontato la sua storia al vescovo ausiliario di Firenze, monsignor Claudio Maniago, che si è formato nella parrocchia di don Cantini, suo maestro. Il risultato però è stato soltanto silenzio. Don Cantini è stato trasferito in un’altra sede, ma ha continuato a celebrare messa e a stare in contatto con bambini. Mariangela ha poi svelato la storia prima a Repubblica e poi ad Annozero. Solo allora, quando lo scandalo è diventato noto a livello nazionale, è stato fatto un processo canonico, conclusosi nell’ottobre 2008 con la riduzione allo stato laicale del prelato.
IL VESCOVO. Monsignor Maniago, classe 1959, è divenuto il più giovane vescovo italiano nel 2003 dopo una rapidissima carriera. Nel 2005 ha tentato di convincere Mariangela e i suoi parenti a non divulgare la notizia degli abusi subiti per non nuocere all’immagine della Chiesa. A gennaio di quest’anno, Betori, che è arcivescovo di Firenze, ha confermato come suo braccio destro fino al 2015 proprio Maniago. “Maniago – scrivono nella lettera le vittime di don Cantini – ha saputo degli abusi e ha cercato di mettere tutto a tacere. Perché riconfermare proprio lui, se la chiesa vuole fare pulizia?". Al Fatto Quotidiano, che ha cercato di contattare Betori per chiarire i motivi della nomina di Maniago, il suo ufficio stampa ha risposto: “L’arcivescovo di Firenze in questi giorni non è in sede e quindi non è in grado di rispondere alle domande”. I firmatari del documento sostengono che la “condanna” di don Cantini non basta, perché di fronte agli abusi del sacerdote e di Rosanna Saveri, sedicente veggente che per anni è stata al fianco di don Cantini, “una intera Chiesa avrebbe taciuto, sottovalutato, non voluto vedere”.
Vista la passività di monsignor Maniago, Mariangela si rivolge al cardinale di Firenze Giacomo Antonelli, il quale le risponde di “non avere il potere per intervenire”. Ora l’appello è rivolto direttamente al Papa, “l’ultimo, e l’unico, che può fare giustizia”.
(Bea. Bor.)

l’Unità 6.5.10
Al congresso nazionale della Cgil
Calore per Bersani, cortesia per Di Pietro ma la star è Vendola
L’assemblea dei delegati accoglie con calore il leader Pd che rilancia «iniziative straordinarie sull’occupazione». Delegati in fila per salutare il presidente della Regione Puglia
di Luigina Venturelli

La lista degli amati e degli odiati dalla platea dei delegati Cgil campione di rara attendibilità per intuire gli umori del tradizionale elettorato nazionale di centrosinistra rispetta tutti i pronostici della vigilia. I politici e gli ospiti illustri vengono nominati e salutati dal palco del congresso uno dopo l’altro. L’applausometro si presta a facili confronti.
La platea congressuale saluta con calore il segretario del Partito democratico Pierluigi Bersani, con cortesia il leader Idv Antonio Di Pietro, con grande affetto e riconoscenza il presidente emerito della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, che i delegati Cgil accolgono come infaticabile difensore della Costituzione mentre l’indispettito Sacconi lo definisce «vecchio democristiano». A cogliere alla sprovvista gli osservatori esterni, piuttosto, è l’unica vera ovazione della giornata, quella riservata a Nichi Vendola, presidente della Regione Puglia, leader di Sinistra e Libertà, e soprattutto politico dai toni lirici e radicali, che riesce con fatica a scambiare qualche battuta con i colleghi a causa della fila di delegati che vogliono stringergli la mano e fotografarlo.
Gli applausi della Cgil, va detto, sono applausi ricambiati. «Una relazione bella e seria, che ha messo al centro il tema dei temi, quello del lavoro, e che ha dato indicazioni piuttosto precise sul modo in cui procedere. Raccolgo l’esigenza di dar luogo con il contributo di tutti a un’iniziativa straordinaria sui temi dell’occupazione. È giusto che le forze sociali si esprimano, bisogna che il governo si decida che il problema c’è e che si deve fare qualcosa» afferma Bersani al termine della relazione di Guglielmo Epifani.
«È un programma di governo alternativo a quello dell’attuale governo che noi intendiamo fare nostro e sostenere in parlamento» commenta Di Pietro. «I sindacati sono un architrave della vita democratica, tanto più in tempi di inquietudine, crisi, incertezza politica sociale culturale economica. E la grande Cgil è un punto di riferimento non solo per le questioni di stretta pertinenza sindacale, ma della civiltà democratica del nostro paese» sottolinea a margine Vendola.
Toni critici solo dal segretario di Rifondazione Comunista Paolo Ferrero, rimasto ai margini dell’attenzione del congresso Cgil: «Nella relazione di Epifani ci sono tante cose giuste, ma non c’è una strategia per contrastare l’attacco pesantissimo ai lavoratori e al sindacato di classe che il governo e la Confindustria hanno scatenato».
In cima alla graduatoria dei malvisti c’è il ministro del Welfare Maurizio Sacconi che, oltre al difficile ruolo istituzionale, sconta l’impegno profuso di recente per riformare il diritto e il processo del lavoro e il rifiuto di estendere gli ammortizzatori sociali: il suo nome viene subissato da fischi. Contestata anche la controparte per eccellenza, la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia, accompagnata dal vice Alberto Bombassei e dal direttore Giampaolo Galli.
Come da copione anche le contestazioni ai leader di Cisl e Uil, firmatari dell’accordo separato sui contratti, e quelle alla fu sindacalista Ugl Renata Polverini, migrata alla politica nelle vesti di governatrice del Lazio per il Pdl.

l’Unità 6.5.10
È il corpo delle donne la merce più redditizia del libero mercato
di Nawal El Saadawi

Medico e attivista denuncia gli abusi e le violenze
Religione e politica Fondamentalismo e neocolonialismo sono due facce della stessa medaglia
Un solo sistema Viviamo in un mondo dominato unicamente dal capitalismo patriarcale militare

Questo testo di Nawal El Saadawi è uno dei contributi del dossier «Potere e differenze» del n. 103 di «Lettera Internazionale», rivista culturale europea diretta da Biancamaria Bruno.

La violenta opposizione contro i diritti delle donne e dei poveri è universale, e non un fenomeno particolare della regione araba o dei paesi islamici.
La Christian Coalition non è soltanto contro i diritti delle donne, ma attribuisce ai movimenti di liberazione delle donne la colpa per la crisi della famiglia. Essa sostiene i cosiddetti «valori della famiglia» e la «verginità» delle ragazze prima del matrimonio. Promuove anche i balli della purezza, in cui prevale una doppia moralità: i padri portano le loro figlie a questi Purity Balls per proteggere la loro verginità e per conservarle per il matrimonio, ma non contempla eventi che coinvolgano madri e figli maschi.
Il concetto di verginità è insito nell’ebraismo e nel cristianesimo. Per esempio, la Vergine Maria è la madre ideale, e le suore portano il velo. La pratica di coprire le donne con il velo in Europa era limitata tradizionalmente alle comunità ebraiche e a quelle islamiche. Oggi, è sempre più comune tra i migranti islamici che vivono in Olanda, in Francia, in Inghilterra, in Belgio e in altri paesi.
In alcuni casi, la pratica di coprire le donne con il velo è accompagnata dalle mutilazioni dei genitali. Entrambe queste pratiche sono considerate dai leader religiosi e politici di queste comunità come una parte dell’identità islamica, legittimata sotto le spoglie del cosiddetto «relativismo culturale». L’inganno del relativismo culturale è andato avanti per tre decenni come forma di violenza esercitata sulla mente. La «mutilazione» della mente non è meno criminale di quella genitale femminile o maschile che sia, anzi è ancora più pericolosa. È usata per mutilare il corpo e l’anima, per giustificare la violenza contro le donne e contro i poveri. C’è anche chi pensa ancora che i diritti delle donne siano un attacco diretto alla legge di Dio, ai valori morali e alle sacre scritture.
Gli scrittori dissidenti uomini e donne stanno combattendo contro la mutilazione della mente senza riguardo per le differenze religiose o culturali o per la sedicente Identità Autentica. Ma sono pochi, e sono torturati, imprigionati, esiliati o, nel migliore dei casi, ignorati.
Le persone non comprendono il mondo capitalistico-patriarcale in cui tutti noi viviamo; sono ingannate dalla parola democrazia; sono pronte a uccidersi in difesa di questa parola che le uccide o che, nel migliore dei casi, le spoglia dei diritti umani brandendo lo slogan della protezione di quegli stessi diritti.
Noi viviamo in un unico mondo, non in tre, dominato da un solo sistema, il sistema del capitalismo patriarcale militare violento. Ogni super potenza a questo mondo può uccidere e spogliare la gente delle sue risorse naturali accampando scuse diverse: dalla «protezione» nelle prime guerre coloniali, alla democrazia e alla liberazione delle donne nel nostro XXI secolo postmoderno.
Il cosiddetto Libero Mercato non è altro che la libertà dei potenti di sfruttare i più deboli; il Libero Mercato non ha religione, non ha Dio se non il profitto, a»umentandolo con ogni mezzo, inclusa la guerra militare e la guerra contro la mente condotta dai media, dai sistemi scolastici, dalla cultura e dalla religione. Sono questi gli strumenti e i servitori obbedienti del sistema capitalistico-patriarcale e del suo Libero Mercato. La principale fonte di profitto del Libero Mercato proviene dalla vendita delle armi: armi che uccidono individui o sterminano intere nazioni, armi di distruzione di massa, armi nucleari, armi chimiche e altri strumenti di morte postmoderni.
Il maggiore profitto del Libero Mercato viene dal corpo delle donne; coperto o scoperto, nudo o velato aumenta il profitto: cosmetici e make up, pubblicità e commercio intorno al corpo delle donne servono solo a soddisfare i bisogni sessuali dei patriarchi.
L’occhio, lo sguardo del Libero Mercato è principalmente sulle donne, come anche lo sguardo dei fondamentalisti religiosi maschi. Se non ci fossero più guerre né donne, crollerebbero entrambi: il Dio del libero mercato e il Dio dei gruppi religiosi fondamentalisti. Sono infatti gemelli, due facce della stessa medaglia, sono l’uno al servizio dell’altro, a dispetto delle false differenze o dei conflitti temporanei che scoppiano quando i loro interessi economici collidono.
Per mantenere vivo e vegeto il Libero Mercato, le guerre militari devono essere fatte comunque, meglio se in nome di qualcosa. E il nome di Dio è in assoluto il migliore da usare o il suo Verbo. Nel nome della Sua Terra Promessa del Vecchio Testamento, quanti milioni di persone sono state uccise in Palestina fino a oggi?
Il Libero Mercato produce armi di distruzione di massa per sradicare armi di distruzione di massa. Questo non è un scherzo. È la realtà del Libero Mercato. La guerra principale, quella in Iraq, è esplosa in questo XXI secolo uccidendo migliaia di persone ogni anno fino ad oggi sotto il segno di una grande menzogna: armi di distruzione di massa in Iraq. Nemmeno una parola sul Petrolio in Iraq...
La guerra in Afghanistan negli anni Ottanta del secolo scorso è esplosa sotto il segno di un’altra grande menzogna: combattere gli infedeli, i non credenti, i comunisti dell’Unione Sovietica una guerra tra dio e il demonio per amore del libero mercato. Il sistema capitalistico-patriarcale non può vivere senza un nemico, come dio non può vivere senza satana o il diavolo.❖
Traduzione di Nicoletta Di Placido © per l’edizione italiana, Lettera Internazionale 2010

l’Unità 6.5.10
Barenboim: «Tagli alla musica danno enorme»

L’ALLARME Dalla Scala per l’Oro del Reno al Maggio, è un diluvio di prove aperte e gratuite di opere e concerti stoppati dagli scioperi contro il decreto Bondi. I musicisti e i teatri spalancano le porte mentre dal ministero il titolare si sottrae e ci mette la faccia il sottosegretario Giro, mentre il governatore della Puglia Vendola chiede un occhio di riguardo per il Petruzzelli e la maggioranza gli risponde che ci sta già pensando. E il direttore Daniel Barenboim fa rimbombare la sua voce dalla Scala con parole che dovrebbero mettere i brividi a tutti: «Ci sono cose non accettabili che faranno un danno enorme alla qualità della Scala e alla vita musicale di questo Paese. È un segnale molto negativo per l'Italia». E, affinché chi ha responsabilità politiche intenda: «La musica è considerata elitaria solo perché non è disponibile, lo vedo con i bambini di Ramallah in Palestina, non è qualcosa che accompagna la pubblicità in tv, è un’espressione fisica dell' anima: anche i problemi finanziari diventeranno più facili se, invece di tagliare solamente, si faranno investimenti nell'educazione». Parole semplicemente sacrosante. STE. MI.

l’Unità Firenze 6.5.10
Maggio
Gli scioperanti aprono le prove al pubblico
di Josè Astarita

Il blocco resta. Niente rappresentazioni del 73 ̊ Maggio musicale fiorentino fino al 10 maggio, e stop anche alla prima del «Ratto dal serraglio» in programma il 14. Gli scioperanti del Maggio, però, eseguiranno cinque prove aperte «anche per dimostrare che lo sciopero non è contro il pubblico, ma contro il Governo e il decreto sulle Fondazioni lirico-sinfoniche». La decisone è stata presa ieri dopo un incontro tra i rappresentanti dei sindacati Slc-Cgil, Fistel-Cisl, Uilcom-Uil, Fials-Cisal con il sovrintendente del Maggio, Francesco Giambrone. Le aperture alla cittadinanza riguarderanno la prova di giovedì 6 maggio (ore 17 al Teatro Goldoni) della ballerina Alarmel Valli, quella di domenica 9 (alle 15) e la generale di mercoledì 12 (alle 20.30) del «Ratto dal serraglio» al Teatro Comunale olterché le prove di giovedì 13 e venerdì 14 (ore 14.30 al Goldoni) del balletto Impermanence. I lavoratori del Maggio hanno spiegato che lo sciopero «va avanti» e che attendono l’esito dell’incontro di oggi col ministro per i Beni culturali, Sandro Bondi.
Ai lavoratori, intanto, è arrivata ieri la solidarietà dell’assessore alla cultura del Comune di Firenze Giuliano da Empoli. «Siamo solidali con il Maggio rispetto a un provvedimento che è stato scritto coi piedi ha detto anche perché ha messo in difficoltà i soggetti che voleva aiutare». L’assessore ha poi aggiunto che «forse lo
sciopero non era la risposta più indicata» dicendo di sperare che «si possa lavorare per far svolgere gli spettacoli che erano previsti». Alle critiche, sul decreto, dell’assesore comunale si aggiungono anche quelle della consigliere regionale, della Federazione della Sinistra-Verdi, Monica Sgherri. «La crisi economica ha messo a dura prova le grandi come le piccole industrie spiega ma adesso grazie al governo nazionale viene messa in crisi anche la cultura, a causa di un decreto come quello di Bondi che colpisce le fondazioni come il Maggio musicale fiorentino». Sgherri ha infine annunciato che chiederà «al presidente della Regione Enrico Rossi di riferire al Consiglio regionale gli esiti dell’incontro fissato per il 12 con i sindacati del Maggio».

l’Unità 6.5.10
Intervista a Norma Rangeri
«Il mio “manifesto” corsaro per aiutare la sinistra ad uscire dall’angolo»
Editoria Da ieri sulla poltrona di Pintor e di Parlato c’è la corsivista dei “Vespri”: «La sfida è creare nuovi strumenti di comunicazione»
di Roberta Brunelli

Certochefareildirettoredi un giornale di sinistra è tutt’altro che semplice di questi tempi... «Davvero? Come ti viene in mente questa cosa?». Norma Rangeri se la ride, anche se ha di fronte una sfida notevolissima. Eletta dal collettivo di tutti i dipendenti del quotidiano, è da martedì il nuovo direttore del manifesto. Oggi inizia una nuova storia: dalla poltrona che fu di Luigi Pintor, Valentino Parlato, Riccardo Barenghi e, più di recente, Gabriele Polo, lei firma di spicco e celebre per la sua assai caustica rubrica televisiva, «Vespri», che tiene sin dal ‘92 dovrà affrontare un bel manipolo di crisi: quella della carta stampata, quella, più in generale, della sinistra, quella economica... Direttore, cambierà «il manifesto»? E come?
«Il manifesto ha bisogno di cambiare, glielo chiedono le edicole, sia pure nella continuità, come direbbe un vecchio dirigente del Pci. E se campa da 40 anni vuol dir che ha nel suo Dna qualcosa che lo tiene in vita a lungo, una famiglia politica e giornalistica lunga. Tuttavia bisogna aprirsi di più, guardare con curiosità, avere maggiori capacità d’ascolto».
Da anni si discute in Italia sui “toni” alti o bassi tenuti dall’opposizione nei confronti di Berlusconi, si dice che la sinistra stenta a trovare il linguaggio giusto. «Il manifesto» versione Rangeri come si pone?
«Non mai stati un giornale timido, anzi. Certo, prendiamo le cose sul serio guardandole in modo ironico non a caso Vauro è una nostra firma di prima pagina il che però non significa essere timidi o subalterni. Invece la timidezza della sinistra c’è tutta, dettata anche dal fatto che non c’è una visione del mondo diversa da proporre. Stenti a trovare credibilità se usi lo stesso vocabolario non dico della destra ma della società per come è e per come si esprime. Eppure il capitalismo non se la passa tanto bene: in questa situazione la sinistra dovrebbe avere delle capacità di proposta gigantesche».
Sei diventata celebre come critico televisivo. Che fine faranno i «Vespri»?
«È un problema: non me ne voglio separare perché è una passione vera. Forse però dovrò diradare le rubriche. Ma come si fa... è una tentazione continua! Prendete l’altra sera il D’Alema furente a Ballarò: ci vogliono i talk show per rianimare i leader pd. Per un attimo D’Alema è tornato umano. E l’altra sera ad Annozero Bersani ha ritrovato la sua vena polemica: anche loro hanno sentimenti, è così che tornano a essere credibili».
A proposito. C’è chi pensa che a sinistra vi sia stata una sottovalutazione tragica del fenomeno televisivo... «È vero: non si è capita la forza del berlusconismo. Quando Berlusconi scese in campo si disse “dura poco, è di plastica”, senza comprendere che lui era in politica già da vent’anni con la televisione: è quella la sua base di consenso. È questo profondo deficit culturale della sinistra a non averle consentito di affrontarlo con armi affilate. Ha solo proceduto con la lottizzazione del servizio pubblico e oggi se ne ritrova ai margini. La sinistra deve riprendere l’iniziativa. Deve inventare, creare strumenti di comunicazione alternativi, uscire dall’angolo».
Un giornale di sinistra per forza di cose è di tipo identitario. Basterà di fronte alla crisi della carta stampata? «Ho visto giusto ieri i recenti dati sull’aumento di lettori di alcuni quotidiani. La crisi c’è, ma non sono tra quelli che ne celebrano il funerale. Certo, bisogna saper ascoltare, ognuno con il suo timbro e con la sua matrice. Invece siamo schiavi dell’agenda, dell’autoreferenzialità, si fanno ancora i giornali in modo ottocentesco, con l’antica separazione dei vari servizi in esteri, interni, cultura e via dicendo: insomma, bisogna cambiare il modo di lavorare, fare un giornale senza troppi steccati interni. Anche dentro la redazione c’è voglia di tornare a divertirsi, di tornare a essere propositivi. Non possiamo fare come i grandi giornali: un giornale di poche pagine deve per forza muoversi in modo più corsaro».

l’Unità 6.5.10
La maternità secondo Gelmini
di Iaia Caputo

Capita che le cattive notizie si mimetizzino nella leggerezza di una lettura distratta, quella che per esempio si potrebbe riservare all’intervista rilasciata a Io Donna da Maria Stella Gelmini, inflessibile ministro dell’Istruzione e implacabile tagliatrice di risorse finanziarie a quella scuola pubblica che, come tutti noi genitori sappiamo, scialava, fino al suo provvidenziale arrivo, nello spreco di denaro e nell’anarchia di troppi maestri. A stare attenti, per la verità, la sciagura si annunciava fin dal titolo: «Stare a casa dopo il parto è un privilegio», che tuttavia si poteva interpretare come una compiaciuta riflessione su quel che la signora, mamma da dieci giorni, grazie a una legge dello Stato, poteva permettersi.
Sbagliavamo. Dopo averci informate che dalla fine di questo mese sarà al lavoro con figlia al seguito (immaginiamo e le auguriamo, con il conforto di una nursery attigua al suo ufficio e di una tata), sibila minacciosa: «dovrebbero farlo tutte». Per quale ragione, signora? Ed è qui che l’assunto del titolo si dispiega in tutta la sua arcigna perentorietà. Perché stare a casa, decreta Gelmini, «lo giudico un privilegio». Un privilegio? Non è un diritto? Chiede allibito l’intervistatore. Non proprio. Certo, accondiscende lei, per una «donna normale» (crediamo alluda a una donna normostipendiata senza possibilità di tata e nursery), è più difficile. «Ma sono poche quelle che possono davvero stare a casa per mesi. Bisogna accettare di fare sacrifici.»
È la parola che mette i brividi. Per quegli echi vagamente puntivi. Per il resto, a chi non piacerebbe, vivendo in un Paese normale, discutere di libertà vecchie e nuove, di inediti problemi e di leggi, eventualmente, più consone ai tempi e alle donne che cambiano. Che magari, oggi, più dei cinque mesi a casa, preferirebbero un bonus da spendere a secondo del bisogno nei primi tre anni di vita dei figli. Ma questo non è un Paese normale. È un luogo dove per effetto di un brutto sortilegio la classe politica che ci governa, post-ideologica, post-moderna e post-democratica appartiene a un’antropologia umana decrepita travestita con maschere della contemporaneità. E interpreta il presente con le lancette dell’orologio spostate all’indietro di almeno cinquant’anni. Come il ministro Gelmini, wonder-mother devota a Dio Padre e Famiglia, che quando cercava di abolire il tempo pieno, immaginava milioni di bambini attesi a casa per pranzo da mamme Invernizzi che, evidentemente, non lavoravano affatto; e ora che è diventata madre sostiene che restare lontane dal lavoro per alcuni mesi dopo il parto sia un privilegio. Da abolire, naturalmente. In nome di che? Ma dei sacrifici che ogni donna deve fare, ovvio. Non ve lo insegnavano le nonne e i padri della Chiesa?

mercoledì 5 maggio 2010

l’Unità 5.5.10
Scioperiamo per la dignità
di Teodoro Andreadis

La Grecia oggi è ferma, sciopero generale. Scendono in piazza i lavoratori del settore pri-
vato, i dipendenti pubblici, i giornalisti, i medici. Niente radio e niente televisione. Si tratta di una mobilitazione di massa. Contro le misure varate per fronteggiare il rischio di fallimento. Ma non solo di questo. Molti, moltissimi, pur sapendo che i tagli e i sacrifici richiesti da Papandreou costituiscono l’unica via obbligata, sono oggi in piazza per difendere la propria dignità, il proprio passato e l’integrità morale. Per dire che con cinquecento cinquanta euro al mese come primo stipendio, è quasi impossibile vivere. Che la riduzione della buona uscita per i licenziamenti potrebbe aprire la via a riduzioni di personale indiscriminate. Il leader socialista greco, ha fatto capire che le misure sono state praticamente imposte dagli esperti del fondo monetario e dell’Unione europea. Si è salvato il salvabile. «Stare peggio oggi per cercare di star meglio domani, o forse dopodomani», è la logica delle misure che il parlamento di Atene approverà entro la settimana. Ma i greci, sanno benissimo che, malgrado le buone intenzioni, l’ obiettivo rischia di trasformarsi in un miraggio. Chi scende in piazza, teme di non poter pagare il mutuo casa. Che il suo stipendio, decurtato del 20%, non possa più bastare. Di non poter più mandare i figli all’università, perché i corsi di preparazione per gli esami di accesso alle varie facoltà costano. Di perdere il lavoro e non riuscire più a trovarne un altro. Rassegnazione, rabbia, sconforto, senso di non appartenenza a una situazione che nessuno pensava di dover vivere. Questo e molto altro, nelle strade di Atene. Ma anche la voglia di dire all’Europa, che la Grecia non vuole diventare l’unica vittima sacrificale di banche che hanno avallato conti truccati, di responsabili comunitari che hanno fatto finta di non vedere, di interessi di parte che hanno ritardato troppo, e forse in modo irreparabile l’avallo dell’Unione agli aiuti. I greci, la mia gente, non vogliono rinunciare alla loro dignità.

l’Unità 5.5.10
Anche il sangue è doc?
di Igiaba Scego

Il ministro degli Interni Maroni si è dichiarato contrario allo “ius soli”, ossia alla concessione della cittadinanza ai figli di migranti che nascono in Italia. Maroni è ministro dello Stato italiano però il suo partito, la Lega, fa un po’ a pugni con questa parola “Italia”. Preferiscono definirsi padani. Governano in Italia, ma di questa Italia non si sentono parte. Infatti il leader della Lega Umberto Bossi interpellato sulla festa per i 150 anni dell’unità del Paese ha definito la ricorrenza inutile e molti membri della Lega hanno dichiarato che «non parteciperanno alla festa per l’unità». Alla luce di queste dichiarazioni mi chiedo: l’Italia è di chi ci nasce, di chi la ama o di chi fortuitamente si è ritrovato con una goccia di sangue italiano nelle vene? E come si fa a capire qual è il sangue italiano doc? Va ad annate come il vino? Nel sangue italiano ci sono le tracce di tutti i popoli che si sono avvicendati nella penisola: come si fa a capire quale sangue è doc e quale non lo è? Vale di meno il sangue che porta le tracce africane delle truppe di Annibale? E quello mischiato con il sangue arabo e il sangue ebreo? È più italiano un uomo nato a Buenos Aires con trisavolo del Friuli che non sa nulla dell’Italia? O un giovane di origine cinese nato, svezzato e cresciuto in provincia di Varese? In politica c’è chi è miope su questa situazione dei figli dei migranti, ma c’è anche chi riflette e fa battaglie. Il finiano Fabio Granata del Pdl e il cattolico del Pd Andrea Sarubbi hanno presentato un testo che propone tra le tante cose il passaggio dallo “ius sanguinis” allo “ius soli” per i figli di genitori residenti in Italia da cinque anni. Il testo porta in calce il nome di cinquanta parlamentari di tutti i gruppi, salvo la Lega. Stanno cercando di portare i nuovi italiani al centro del dibattito politico. La demografia è dalla parte degli onorevoli Sarubbi e Granata. E anche il buon senso.

l’Unità 5.5.10
L’ombra dei Legionari
Come possono crescere sotto uno dei più grandi maniaci del secolo scorso, un delinquente come Maciel Degollado, così tante vocazioni al sacerdozio?
di Filippo Di Giacomo

L a democrazia serve anche alla Chiesa. E come dimostra il recente «Comunicato della Santa Sede» sulla vicenda dei Legionari di Cristo, è una ricetta buona soprattutto per chiarire le pagine più abiette che gli uomini di potere scrivono a danno del popolo di Dio. Dal primo maggio, i sacerdoti e i religiosi che hanno avuto fiducia nel mistificatore messicano Marcial Maciel Degollado, e dei quali «lo zelo sincero» è stato acclarato dalla visita apostolica, vengono riaccolti dentro l’alveo di quella parte del tessuto ecclesiale che regola le vocazioni dei tanti istituti religiosi. Diventano, in pratica, tutti “fondatori” della nuova Legione di Cristo, visto che «la vocazione e quel nucleo di carisma che appartiene ai Legionari di Cristo è loro proprio». Ad ognuno di loro, il Papa affida in modo paritario il compito di «ridefinire il carisma della Congregazione, preservando il nucleo vero, quello della “militia Christi”, che contraddistingue l’azione apostolica e missionaria della Chiesa e che non si identifica con l’efficientismo a qualsiasi costo».
La pratica comunitaria della vita religiosa è una realtà socialmente importante. Storicamente, essa è anche uno dei nuclei fondanti della democrazia moderna, che ha le sue radici nel V secolo, quando i primi ordini religiosi reintroducono (amplificandone la risonanza) nel tessuto sociale della tarda romanità e nei propri meccanismi di autogoverno due grandi principi. Il primo: Qui praefuturus est omnibus, ab omnibus eligatur, colui che deve comandare su tutti deve essere eletto da tutti. L’altro: Quod omnes tangit, ab omnibus tractari et approbari debet, ciò che interessa tutti come singoli, deve essere discusso e approvato da tutti.
Il primo assioma giuridico ci viene dalla Roma repubblicana, ma era rimasto schiacciato dai terremoti istituzionali degli ultimi anni della Repubblica e dalle dittature pretoriane dell’Impero. Il secondo è di origine giustinianea e, come il primo, è rivissuto nella Chiesa, nelle abbazie e nei monasteri, con una risonanza ben maggiore di quella che gli era stata conferita dai giuristi romani.
Gli studiosi francesi vedono qui, e non nei rimandi alle prassi democratiche della Grecia e della Roma antiche, e neanche ai Comuni italiani o agli Stati Generali francesi del 1614 e del 1789, la nascita del suffragio universale e della democrazia moderna. Vincono gli istituti religiosi per i seguenti motivi: non ci sono canali che ci dimostrano la trasmissione delle tecniche elettorali greche e romane nell’Occidente medievale. Gli storici non possono provare l’autonomia dei codici elettorali dei Comuni e neanche quelli del 1614 e del 1789. E poiché la generazione spontanea in politica e in diritto non esiste, la logica impone di ricordare che le prassi elettorali e deliberative dei monaci (e anche delle monache) preesistevano agli Stati moderni. Sono pertanto loro le cinghie di trasmissione degli ideali democratici della classicità nelle forme che, man mano, hanno costruito la modernità europea. Persino George Duby ne è sicuro: la “gemma del secolo dei lumi”, il Codice che regolava le elezioni e le decisioni degli Stati Generali del 1789, era stabilito sulla base delle disposizioni canoniche in uso in quell’epoca. E comunque non è il minore dei paradossi della Rivoluzione Francese il fatto che essa attinga buona parte della sua sorgente ideale nella storia degli Ordini che avevano formato tanti suoi futuri capi: gli studiosi d’Oltralpe la pensano quasi tutti così.
Per questo l’altro compito che il Papa ha affidato hai Legionari di Cristo, cioè «la necessità di rivedere l’esercizio dell’autorità, che deve essere congiunta alla verità, per rispettare la coscienza e svilupparsi alla luce del Vangelo come autentico servizio ecclesiale» avrà fatalmente un forte impatto nelle comunità ecclesiali e sociali dove vivono gli ormai ex discepoli di Marcial Maciel. E sarà anche la migliore risposta alla domanda più difficile che si pone in questi giorni: come possono crescere, all’ombra di uno dei più grandi maniaci-compulsivi del secolo scorso, un delinquente chiamato Marcial Maciel Degollado, così tante vocazioni al sacerdozio e alla vita religiosa?
Per il momento, le vicende dei Legionari di Cristo e del loro sciagurato fondatore sembrano essere venute alla luce soprattutto per rassicurare i dubbiosi, quelli che fanno una fatica estrema nel riconoscere nella bulimia di potere e di privilegi che ha colpito il cattolicesimo (specie quello romano e quello vaticano) degli ultimi decenni come qualcosa di evangelicamente motivato. Anche nella Chiesa il diavolo fa le pentole. Poi, è sufficiente che ad essere Papa sia un cristiano sempre più annoverato tra i miti e gli umili di cuore, per far saltare tutti i coperchi.

Repubblica 5.5.10
Niente preti alla festa la rivolta di Bruges
Lo scandalo pedofilia ha costretto alle dimissioni il vescovo

BRUXELLES - Non si placa, in Belgio, lo scandalo suscitato dal caso del vescovo pedofilo. Roger Vangheluwe, 73 anni, titolare della diocesi di Bruges, si è dimesso il 22 aprile scorso dopo aver riconosciuto di «aver abusato sessualmente» di un minore sia quando era ancora un semplice prete, sia dopo essere stato nominato vescovo, nel 1984. A quanto risulta, la vittima degli abusi sarebbe un suo nipote. Ieri, riferisce il quotidiano fiammingo Het Laatste Nieuws, i responsabili della confraternita del Sacro Sangue di Bruges hanno fatto sapere di non volere la partecipazione di preti, e neppure di chierichetti, alla grande processione che ogni 13 maggio attraversa le vie della città e che è accompagnata da cortei in costume. La decisione, hanno riferito gli organizzatori della celebrazione, è stata presa «per evitare le reazioni negative del pubblico». Persino i chierichetti sono invitati a non farsi vedere. «Abbiamo fatto questa scelta per proteggere i giovani in questione. Abbiamo paura delle reazioni negative del pubblico. I chierichetti non meritano certo un simile trattamento», ha dichiarato Benoit Kervyn, esponente della confraternita. Secondo quanto affermano gli organizzatori, la sollecitazione ad escludere i membri del clero dalla manifestazione sarebbe venuta dallo stesso vescovado di Bruges, che dopo le dimissioni di Vangheluwe è retto pro tempore da un amministratore. Tuttavia in Curia si trincerano dietro un seccato «no comment».

l’Unità 5.5.10
Onfray: un bigotto anti Freud
di Bruno Gravagnuolo

Ma quante sciocchezze scrive il «filosofo» Michel Onfray nel suo ultimo saggio su Freud! Se non fosse che Onfray è ben noto per la sua «specialità» scandalismo pruriginoso e distruttivo si potrebbe parlare di un vero e proprio Malleus maleficarum contro la psicoanalisi, di caccia alle streghe. Ma siamo in tempi di esibizionismo narcisistico e nessuno si scandalizza più di certe scomuniche, specie se vibrate da uno Sgarbi francese come Onfray, tardo epigono dell’antipsicoanalismo transalpino sulla scia del Libro nero della psicoanalisi. Però le bestialità vanno rettificate. Ad esempio ne Il crepuscolo di un idolo. L’affabulazione freudiana (tra poco per Ponte alle Grazie) ci sono affermazioni assurde. Tipo: Freud nascose il suo debito con Nietzsche. È falso. Freud confessò il suo debito, scrivendo che non voleva leggere troppo Nietzsche, per non restarne influenzato! Falso che Freud teorizzasse la rinuncia alla sessualità... per sublimarla nella psicoanalisi. Vero è invece che «sublimazione» significa canalizzazione e investimento (parziale) della sessualità in oggetti d’amore o in creatività. Così come è falso che Freud pensasse che «non si guarisce mai» perché non ci si può sottrarre alle «pulsioni». Non si guarisce se si negano e rimuovono le pulsioni. Falso che Freud appoggiasse i fascismi.Credeva di poter salvare il salvabile agli inizi, e per salvare la psicoanalisi in Italia fa una innocua dedica a Mussolini in Perché la guerra. Grottesca poi l’accusa di aver inventato «l’attenzione intermittente»... per potersi appisolare in seduta. È una cosa che come è noto ha a che fare con l’immedesimazione emotiva col paziente e che richiede un certo fluttuare della mente dell’analista. Folle infine l’accusa di antisemitismo, sol perché il Mosè di Freud non era ebreo ma egiziano. Era solo un’ipotesi. Ma conta in Mosè e il Monoteismo l’esaltazione del Dio ebraico, vera roccia dell’Autorità e della Civiltà per Freud, un gigante che la puerilità bigotta di certe accuse come quelle di Onfray ci fanno apprezzare ancora di più.

l’Unità 5.5.10
La Scala in piazza «Lotta dura per la cultura» Scioperi al Maggio
A Firenze lo sciopero fa saltare 5 spettacoli

Come uno tsunami, il decreto Bondi sulla lirica. Per le «forti tensioni» la Scala annulla la conferenza stampa del 21 maggio sulla stagione 2010-11: l'appuntamento non è solo un rito, serve a dare risalto alle notizie sapendo che, dal Giappone agli Usa, i fan all’esterno prenotano i posti mesi prima. E ieri artisti e tecnici del teatro, in corteo con una bara in spalla, hanno suonato il «Silenzio» con una tromba rossa restando muti, ricevendo applausi, e poi gridato «Lotta dura per la cultura» e «Giù il governo». Sempre ieri a Firenze i lavoratori convocati da Cgil, Cisl, Uil e Cisal, hanno deciso «a malincuore» il blocco del Maggio fino al 14 maggio: stop alle repliche di Donna senz’ombra, a due balletti, all’orchestra di Dresda e al popsinger Rufus Wainwright, alla «prima» del Ratto dal serraglio del 14. Ma l'opera di Mozart avrà prove aperte al pubblico perché la protesta «non è contro il pubblico». «Il decreto non prefigura alcun futuro positivo per le fondazioni, l'opposizione sarà durissima», chiosa Silvano Conti della Cgil.

Repubblica 5.5.10
Se gli intellettuali ebrei criticano Gerusalemme
di Sandro Viola

Non è difficile immaginare quale sarà la risposta delle destre israeliane alla lettera che 3.560 ebrei dei diversi paesi d´Europa, in gran parte intellettuali, hanno presentato al Parlamento europeo contro la politica delle nuove costruzioni nei Territori occupati condotta sinora dal governo Netanyahu.
Non è difficile immaginarla, perché quando le critiche ad Israele erano venute da ebrei, anche se religiosi e praticanti, anche se israeliani con ruoli di spicco nella cultura dello Stato ebraico, la replica era sempre stata la stessa: «Sono ebrei che odiano gli ebrei». Mentre le critiche che giungevano dai non ebrei, venivano sistematicamente, sprezzantemente accusate di antisemitismo.
Ma la lettera dei 3.560 rappresenta comunque un fatto nuovo e significativo, perché rende ancora più visibile, più pesante, l´isolamento in cui si trova oggi Israele. L´estendersi delle costruzioni nella Gerusalemme araba, il "non intervento" del governo rispetto agli insediamenti illegali in Cisgiordania, hanno suscitato una profonda, scoperta insofferenza nei governanti europei, la Merkel e Berlusconi inclusi. Persino l´appoggio degli ebrei americani alla politica delle nuove costruzioni, sino ad oggi costante, si va affievolendo. E questo mentre negli ultimi due mesi il rapporto con gli Stati Uniti, l´incrollabile alleato, il Protettore di Israele, non ha fatto che deteriorarsi. Per la prima volta, infatti, l´America di Barack Obama ha chiarito che i suoi interessi politici e strategici non coincidono più, com´era sempre stato in passato, con gli interessi politici e strategici di Israele. L´ha detto Obama, l´hanno detto i vertici del Pentagono, lo ripetono ogni giorno i grandi giornali americani.
Quel che non era mai accaduto dalla nascita dello Stato ebraico, accade adesso. Nel cemento dell´alleanza America-Israele si sono aperte crepe che non si possono più nascondere, e anzi diventano col trascorrere delle settimane sempre più vistose. Sbaglierebbe, infatti, chi riducesse il contenzioso tra la Casa Bianca e il governo Netanyahu alla sola questione delle nuove costruzioni nella Gerusalemme araba. Questa è la punta dell´iceberg, ma sotto c´è molto di più. C´è la posizione assunta in questi due mesi dal presidente americano. La convinzione che la riluttanza del governo d´Israele a negoziare seriamente sulla formula dei "due Stati", i continui rinvii nell´affrontare i nodi veri della contesa sulla Palestina (dopo ben nove mesi di faticosi tentativi fatti dall´inviato di Obama, George Mitchell), «stanno mettendo a rischio interessi vitali per la sicurezza degli Stati Uniti».
È vero che al momento lo stallo delle trattative tra israeliani e palestinesi sembra superato. Gli americani sono riusciti a fare accettare alle due parti l´idea di procedere per ora con la formula dei "negoziati indiretti". Con George Mitchell e il suo staff che faranno la spola tra gli uni e gli altri per ascoltarne le proposte e poi riferirle alla controparte. Beninteso, Netanyahu continua a dire in pubblico che non fermerà le costruzioni a Gerusalemme Est. Ma questo serve solo ad evitare beghe politiche interne, una possibile crisi della sua coalizione di governo, la più inadatta (con partiti tra l´estrema destra e la destra, e un´ininfluente presenza dei laburisti) a discutere con l´Autorità palestinese. Nei fatti, però, un congelamento delle costruzioni è ormai in atto.
Dunque il cosiddetto "processo di pace" (una definizione sempre più risibile, se si pensa che i negoziati si trascinano da diciannove anni) accenna a ripartire. Ma il suo contesto è cambiato. Gli Stati Uniti non sono più il mediatore sempre parziale, sempre sbilanciato a favore dei governi israeliani. Perché adesso risolvere il conflitto israelo-palestinese è divenuto per l´America di Barack Obama un "imperativo strategico". E la Casa Bianca ha in serbo nuovi e potenti mezzi di pressione. Uno è la possibilità di astenersi, invece che usare il diritto di veto, nel caso d´una condanna d´Israele da parte del Consiglio di sicurezza dell´Onu. Un altro è l´idea di varare un "piano americano" per la soluzione del conflitto israelo-palestinese, che le parti dovrebbero o accettare, o respingere con conseguenze clamorose.
Sembra chiaro che negli ultimi mesi gli israeliani non avessero colto l´ampiezza della svolta americana. Avevano ritenuto che l´Obama di febbraio-marzo, non ancora rafforzato dal successo della riforma sanitaria e dalla firma dello Start 2, avrebbe esitato, segnato il passo, dinanzi all´eventualità d´entrare in collisione col governo Netanyahu. Ma non è stato così. Sostenuto, come s´è detto, dal Pentagono e da una grossa parte dell´opinione pubblica, il presidente è andato avanti: il negoziato con i palestinesi non è più rinviabile, la soluzione dei "due Stati" dovrà essere trovata entro il 2012.
Agli inizi Netanyahu aveva cercato di imbrigliare la pressione di Washington mettendo avanti la minaccia del nucleare iraniano, e i rischi che ne derivano per l´esistenza stessa d´Israele. La questione (che non è certo trascurabile, anzi) ha consumato molte energie dei negoziatori americani, e molto tempo, sinché gli israeliani non hanno dovuta toglierla temporaneamente dal tavolo. Mentre di fronte alle successive manovre diversive di Netanyahu, la posizione di Obama s´è fatta anche più recisa. Con 200.000 uomini tra Iraq e Afghanistan, un fallimento del negoziato israelo-palestinese rischia - secondo la Casa Bianca - di costare all´America «un prezzo enorme di sangue e di risorse economiche». Parole che nessun governante israeliano aveva mai dovuto ascoltare, e che hanno sicuramente avuto un peso decisivo nel varo dei "negoziati indiretti" che dovrebbero cominciare a metà mese.
La lettera dei 3.600 ebrei d´Europa farebbe riflettere qualsiasi governo sulla caduta dell´immagine dello Stato ebraico nell´opinione pubblica mondiale, ma lascerà probabilmente indifferenti i Moshe Feiglin, gli Avigdor Lieberman, gli Eli Yishai, la parte cioè più miope e intransigente del governo di Gerusalemme. Mentre se fossero capaci di ragionare, anche loro dovrebbero cogliere i rischi dell´isolamento d´Israele. Primo fra tutti quello di servire da alibi ad una torva, odiosa - ma vasta, molto vasta - riapparizione dell´antisemitismo.

l’Unità 5.5.10
La papessa e la scrittrice Le donne fanno la storia
Dopo Ipazia. Ancora due pellicole per ritrovare un universo femminile dimenticato
di Gabriella Gallozzi

Stefania Sandrelli debutta nella regia con «Christine, Cristina» nei cinema da venerdì. «La papessa» del tedesco Sonke Wortmann arriverà in sala il prossimo 28 maggio per Medusa. E, intanto, c’è ancora Ipazia...

Eroine dimenticate, nascoste nelle pieghe della storia. O volutamente messe da parte perché «scomode» per i loro tempi e non solo. Il caso di Ipazia, filosofa greca trucidata dai cristiani integralisti nel V secolo, è tornato a riempire le cronache proprio grazie al cinema (Agorà di Amenabar) che, mai come di questi tempi, sembra puntare sulla storia. Tendenza o casualità? Fatto sta che a giorni arriveranno nelle nostre sale ancora due film storici ispirati a due figure di donne che hanno lottato ciascuna a suo modo contro il potere maschile, inserendosi a pieno titolo in quel vasto territorio dell’iconografia protofemminista.
Sono Cristina da Pizzano, poetessa italiana vissuta in Francia a cavallo tra il Medioevo e l’Umanesimo e la Papessa Giovanna, figura questa legata più alla leggenda che alla storia, ma che affronta di petto una questione spinosa della teologia come quella del sacerdozio interdetto alle donne. L’epoca all’incirca è la stessa. Siamo dalle parti del Medioevo. Anni durissimi, soprattutto per l’universo femminile a cui tutto era vietato. Figurarsi la poesia, la scrittura, tanto più se rivolta a denunciare le miserie del popolo così come la concepiva, appunto, Cristina da Pizzano protagonista di Christine, Cristina, piccolo film tutto italiano che segna il debutto nella regia di Stefania Sandrelli.
POESIA RIBELLE
Un’opera, magari non perfetta, ma coraggiosa nel raccontare questa figura esemplare della storia della letteratura, la prima donna a vivere grazie alla sua penna. Nei panni della poetessa è Amanda Sandrelli che seguiamo dal momento più duro della sua vita quando, dalla corte di Carlo V si ritrova sola con due figli, costretta a vivere nella pericolosa Parigi sconvolta dalle lotte tra Armagnacchi e Borgognoni. A questo punto sopravvivere è il suo unico obiettivo. Aiutata da una lavandaia riesce a trovare un riparo per sè e per i figli. E qui conosce Charleton un cantastorie da osteria per il quale comincia a scrivere versi. È una poesia semplice la sua, che parla della vita degli umili, delle donne. E che per questo la porterà in conflitto con la cultura dominante, col potere maschile contro il quale dovrà lottare fino alla fine.
Decisamente più spettacolare e dai toni kolossal è invece La papessa del tedesco Sonke Wortmann, frutto di una coproduzione internazionale che aspira a ricalcare il successo de Il codice da Vinci, puntando su una storia «eretica» come quella della papessa Giovanna.
DOPO IL BESTSELLER
Anche in questo caso c’è dietro un bestseller: La papessa, romanzone storico dell’americana Donna Woolfolk uscito nel 1999 e diventato un vero e proprio caso in Germania. E la storia, del resto, sembra fatta apposta per il cinema. Siamo all’indomani della morte di Carlo Magno e, in un piccolo villaggio alla periferia dell’impero, una ragazzina vivace e dotata lotta contro i pregiudizi del violento padre sacerdote che non vuole in alcun modo farla studiare. Per la Chiesa, si sa, è un’eresia istruire le donne. Ma l’ostinazione di Giovanna avrà la meglio. Travestita da maschio riuscirà a studiare nel monastero di Magonza, fino a prendere i voti col nome di Johannes Anglicus. E da qui fino a Roma dove, fingendo sempre di essere un uomo, arriverà ad essere eletta papa. Un pontificato durato due anni e terminato nel sangue. Sempre secondo la leggenda, Giovanna rimase incinta e una volta messo al mondo il bambino e svelato «l’inganno» fu vittima della folla inferocita. Nel film il finale è un po’« alleggerito», ma tutto il resto è giocato con grande spettacolarità. Anche la travolgente storia d’amore con Gerold, il nobile cavaliere che la accoglie nel suo castello da bambina e che poi la amerà per sempre, anche nei panni da papessa, fino a sacrificare per lei la sua vita. Grandi passioni, grande mistero e cast internazionale: a dare il volto a Giovanna è la tedesca Johanna Wokalek, già interprete della Banda Baader Meinhof, l’amato è il bel tenebroso David Wenham e il papa John Goodman. A dare il volto alla papessa Giovanna è stata già Liv Ullmann nell’omonimo film inglese di Michael Anderson del ‘71, passato però senza troppo scalpore. Quello a cui si punta adesso è una bella polemica col Vaticano in stile Codice da Vinci.